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Memoria resistente 1058 > ABBREVIAZIONI > BIBLIOGRAFIA > INDICE ALFABETICO > MAPPA > SOMMARIO Wladimiro Dorigo Wladimiro Dorigo è nato a Venezia nel 1927. Studente del liceo “Marco Polo”, svolge attività di propaganda antifascista e di volantinaggio, legandosi al gruppo dei giovani d’Azione Cattolica della parrocchia dei Carmini, guidati da Guido Bellemo. Con un compagno di scuola viene incarcerato a S. Maria Maggiore per 24 ore. Intervista di Giovanni Sbordone Venezia, abitazione dell’intervistato 13 e 24 giugno 2005 Guardi, ho tirato fuori un po’ di carte vecchissime: questo è un diario del ’43, con le spiritosaggini di quando avevo 6 anni! [ride] E la poi la corrispon- denza di quegli anni, il papiro dell’università… Perché sono un paio d’anni che sto cercando di mettere a posto un archivio, ho messo insieme 70-80 faldoni grossi così, ma finora non sono ancora uscito dalle peste… Lei sa comunque che il nostro Istituto è sempre interessato a raccogliere materiali d’archivio, se mai decidesse di liberarsene… Ne ho già accennato a Mario Isnenghi, se vorrà occuparsene un po’ lui, al- meno per certi aspetti della nostra storia. Ma non è ancora il momento… [Parliamo del progetto complessivo delle interviste e gli consegno una copia di Nella Resistenza]. Qui c’è una memoria di Cesco Chinello, e poi le interviste ai fratelli Bellavitis, ai fratelli Trentin, a Rina Nono e all’ex marito Albano Pivato, e poi a Osetta, anche lui del gruppo della “Biancotto” e della beffa del Goldoni… Insomma, questa è Resistenza vera: io invece, cosa vuole… Quando Mario 1 mi ha proposto l’intervista gli ho detto: guarda che io avevo 6-7 anni… È vero che ho fatto in tempo ad andare a conoscere le carceri di S. Maria Mag- giore, ma per il resto non ho fatto niente di rilevante. Altri, miei coetanei, hanno fatto di più e meglio. Certo. Però è vero anche che quella che lei definisce “Resistenza vera” sono spesso le cose più note, mentre le cose che lei ci può dire sono magari meno note, quindi più interessanti da scoprire. Va bene. Ma vedrà che, se io sono certamente cresciuto con la Resistenza e grazie ad essa, il mio impegno è stato però del tutto trascurabile. Allora io comincerei dall’inizio. Mi dice la sua data di nascita, e dove abitava da piccolo? Sono nato il 26 giugno 927. Abitavo in calle del Forno a S. Margherita. Mio padre faceva il motoscafista, mia madre la casalinga. Quanti fratelli eravate? Tre. Io sono il primo, poi c’è mia sorella e poi un altro fratello, che è nato il 3 gennaio del ’45: ricordo che sono andato a prendere mia nonna, che abita-

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O Wladimiro Dorigo

Wladimiro Dorigo è nato a Venezia nel 1927. Studente del liceo “Marco Polo”, svolge attività di propaganda antifascista e di volantinaggio, legandosi al gruppo dei giovani d’Azione Cattolica della parrocchia dei Carmini, guidati da Guido Bellemo. Con un compagno di scuola viene incarcerato a S. Maria Maggiore per 24 ore.

Intervista di Giovanni Sbordone

Venezia, abitazione dell’intervistato

13 e 24 giugno 2005

Guardi, ho tirato fuori un po’ di carte vecchissime: questo è un diario del ’43, con le spiritosaggini di quando avevo 6 anni! [ride] E la poi la corrispon-denza di quegli anni, il papiro dell’università… Perché sono un paio d’anni che sto cercando di mettere a posto un archivio, ho messo insieme 70-80 faldoni grossi così, ma finora non sono ancora uscito dalle peste…

Lei sa comunque che il nostro Istituto è sempre interessato a raccogliere materiali d’archivio, se mai decidesse di liberarsene…

Ne ho già accennato a Mario Isnenghi, se vorrà occuparsene un po’ lui, al-meno per certi aspetti della nostra storia. Ma non è ancora il momento…

[Parliamo del progetto complessivo delle interviste e gli consegno una copia di Nella Resistenza]. Qui c’è una memoria di Cesco Chinello, e poi le interviste ai fratelli Bellavitis, ai fratelli Trentin, a Rina Nono e all’ex marito Albano Pivato, e poi a Osetta, anche lui del gruppo della “Biancotto” e della beffa del Goldoni…

Insomma, questa è Resistenza vera: io invece, cosa vuole… Quando Mario1 mi ha proposto l’intervista gli ho detto: guarda che io avevo 6-7 anni… È vero che ho fatto in tempo ad andare a conoscere le carceri di S. Maria Mag-giore, ma per il resto non ho fatto niente di rilevante. Altri, miei coetanei, hanno fatto di più e meglio.

Certo. Però è vero anche che quella che lei definisce “Resistenza vera” sono spesso le cose più note, mentre le cose che lei ci può dire sono magari meno note, quindi più interessanti da scoprire.

Va bene. Ma vedrà che, se io sono certamente cresciuto con la Resistenza e grazie ad essa, il mio impegno è stato però del tutto trascurabile.

Allora io comincerei dall’inizio. Mi dice la sua data di nascita, e dove abitava da piccolo?

Sono nato il 26 giugno 927. Abitavo in calle del Forno a S. Margherita. Mio padre faceva il motoscafista, mia madre la casalinga.

Quanti fratelli eravate?

Tre. Io sono il primo, poi c’è mia sorella e poi un altro fratello, che è nato il 3 gennaio del ’45: ricordo che sono andato a prendere mia nonna, che abita-

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O va a Marcon – a piedi da Mogliano, mi pare… – per accompagnarla a casa perché assistesse mia madre per il parto. In quel momento avevo 7 anni, e mi ricordo gli aerei che ci volavano sulla testa… Ero studente del “Marco Polo”. Lentamente sono riuscito a “crescere”, in quegli anni di ferro. A S. Margherita, il 0 giugno del ’40, avevo ascoltato il discorso del duce.

C’erano gli altoparlanti in campo?

C’erano gli altoparlanti e avevano fatto propaganda tutto il giorno per in-vitare la popolazione ad andare ad ascoltare. Noi non avevamo la radio in casa, e insomma io ero lì in campo. Mio padre e mia madre non c’erano di certo, anzi…

C’era tanta gente?

Parecchia. Dopo il discorso tornai a casa con gli occhi brillanti per l’entusia-smo: “Papà, siamo in guerra!”. E lui: “Pezzo di cretino!” [ride]

Eh, lei all’epoca aveva tredici anni…

E naturalmente assorbivo “quel che passava il convento”. Come “aspiran-te” della Gioventù Cattolica ero in corrispondenza con un giovane militare dell’associazione (“Per ogni soldato un aspirante che prega”), il quale mi trasmetteva i valori del militarismo fascista: per esempio la sua divisione, la “Torino”, era stata “battezzata dal Duce con l’appellativo di ‘Diga d’Ac-ciaio’, essendo l’unità tipo dell’Esercito Italiano”, ecc. Leggevo il “Vittorio-so” e ammiravo i disegni di Caesar sulla guerra, le battaglie aeree, li copia-vo. Cantavamo l’inno dei sommergibilisti, e ci esaltavamo per le imprese del comandante Grossi che con il suo sommergibile affondava le corazzate americane2, ecc. Il regime ci aveva tolto da tempo le fantastiche avventure di Gordon sull’“Avventuroso”.

Suo padre, invece, che opinioni aveva?

Mio padre era un ex fuochista delle ferrovie. Si era buscato una brutta ma-lattia polmonare, fu licenziato ed ebbe un periodo difficile durante i primi anni ’30. Poi è riuscito a comprare un motoscafo, con un prestito, e a fare il motoscafista. Seguì un periodo abbastanza buono, con il turismo che si sviluppava. Poi son venute vicende più dure: durante la guerra non c’era più carburante, quindi ha dovuto mettere giù il motoscafo e vivevamo di “rendita”, cioè di niente. Con l’8 settembre, poi, furono requisite tutte le im-barcazioni, e i tedeschi ci portarono via il motoscafo. La cosa fu parecchio pesante. Mio padre era senza lavoro, ma si dava da fare: per esempio faceva il sale. Pescava acqua dal rio e si industriava con una serie di pentolini a passare l’acqua di pentolino in pentolino, finché veniva fuori un sale bian-chissimo, con cui mia madre andava in campagna, in bicicletta, in cerca di qualcosa da mangiare.

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O Faceva degli scambi…

Queste erano le condizioni. Mio padre, dicevo, era stato ferroviere, e da gio-vane era stato socialista. Poi, naturalmente, col regime se l’era messa via, ma era molto critico sulla guerra e sui fascisti. Io gli devo molta riconoscenza. Mi ricordo che andavamo al caffè di Causin, in campo S. Margherita…

Che era praticamente sotto casa sua…

Sì, praticamente sotto casa. Mio padre si industriava, faceva cartelli, grafici, sapeva disegnare caratteri, faceva anche il pittore (ho il mio ritratto fatto da lui, e quelli dei miei fratelli) e vendeva vedute veneziane. Insomma, andava-mo lì in questo caffè, la sera, quasi sempre senza consumare, per “vivere il mondo” in qualche modo. Perché c’erano tre-quattro quotidiani da leggere; e io ho cominciato lì a perdere la vista, con delle lampadine molto deboli… Leggevamo questi giornali, ascoltavamo i commenti dei giornalisti radiofo-nici del regime, Mario Appelius e Giovanni Ansaldo, e poi discutevamo con mio padre sulla guerra. Mi ricordo una volta, sarà stata la fine del ’4 o l’inizio del ’42, che papà mi disse: “Sai, qui c’è il pericolo che i tedeschi la vincano, la guerra…”. Erano attorno a Mosca, all’epoca. E, ripensandoci, da questo ca-pisco che anch’io stavo facendo un po’ di strada, da quella volta che mi aveva dato del cretino… Infatti mi viene in mente un altro episodio, sarà stato il ’42: al “Marco Polo” eravamo tutti balilla moschettieri (che mi pare fossero fino all’età di 4 o 5 anni, dopo si diventava avanguardisti, col pugnale…) e mi ricordo che io andai al Fascio di Dorsoduro – che stava dove c’è adesso il negozio Friselle, in rio terà Canal – a dirgli: “Sono stufo di fare le marce coi Balilla, io vorrei venire alle adunate del sestiere!”. Era possibile farlo: le adunate del sestiere, però, non c’erano mai… [ride] Hanno detto “Ah, va bene, va bene!”, hanno preso nota, e io ho evitato di diventare avanguardista e non ho praticamente più avuto rapporti col fascio. Evidentemente c’era una maturazione, da parte mia. Ma non ero ancora antifascista.

Queste esercitazioni, il premilitare e cose simili, dove le facevate?

All’Opera Balilla, e poi in giro per la città. Grandi marce con il moschet-to in giro per calli e ponti. E poi “istruzioni politiche”. Mi ricordo che nel novembre-dicembre del ’40 ci dicevano: il duce aveva programmato una Bli-tzkrieg (studiavamo tedesco) per “rompere le reni” alla Grecia, ma ci sono state delle difficoltà (stavamo tornando indietro in Albania, purtroppo: il ponte di Perati ecc.) e allora, invece che una guerra lampo di 5 giorni sarà una guerra lampo un po’ più lunga. Questa era l’istruzione politica che ci davano. Finché, nell’aprile del ’4, i tedeschi hanno invaso la Iugoslavia, e noi dietro; poi sono arrivati in Grecia, alle spalle dei greci che erano ancora là sul fronte di Gianina, e finalmente anche noi siamo entrati in Grecia. E mi ricordo il professor Eugenio Bacchion, di storia e filosofia, che dopo la guerra è diventato presidente dell’Azione Cattolica della diocesi di Venezia,

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O ma che durante la guerra mi chiamava fuori dal banco e mi ridicolizzava in classe davanti ai miei compagni perché avevo il distintivo della Gioventù Cattolica… Quando la Grecia chiese l’armistizio, tutte le scolaresche furo-no inviate ad una manifestazione di giubilo a S. Marco: la nostra classe era guidata da Bacchion, ma alcuni di noi si eclissarono per andare a giocare a pallone in campo S. Trovaso. Poi, fra molte contraddizioni, con grande confusione in testa, ci trovammo davanti alle evidenze della tragedia: Gia-rabub, la Russia, il “bagnasciuga” siciliano…E in queste condizioni è arrivato il 25 luglio del ’43. C’erano già gli alleati sul suolo siciliano, una pioggia di bombe distruggeva le città italiane, e noi era-vamo un gruppetto di scanzonati sedicenni, studenti e studentesse, dentro i passaggini fra le cabine del Lido, a raccontarci sciocchezze, a darci bacetti e a fare spiritosaggini, ma anche a discutere della guerra e a dar prova di “co-raggio” gridando “Abbasso il duce!” [ride]. Venne fuori da una capanna un signore – che uno di noi, studente del Collegio Navale, riconobbe come un “comandante di prima” dell’Istituto – il quale ci urlò: “Pezzi di delinquen-ti!! Vi denuncerò tutti!”.

Ma questo succedeva prima o dopo che ci fosse l’annuncio della deposizione di Mussolini?

Il pomeriggio del 24 luglio! La sera seguente, il 25, ero già a letto e alle di sera mio padre –avevamo finalmente una radio – mi sveglia: “Wladimiro, Mussolini è caduto!”.Cominciava il peggio. Gli eventi accelerano la storia: non diventammo su-bito seri, ma fattori nuovi, di responsabilizzazione civile, cominciarono con più coerenza a ronzarci nel cervello, pur senza escludere l’interesse per la “bella estate”, i bagni al Lido, le gite in barca, i pomeriggi danzanti, le partite di calcio. Abbiamo anche cercato di fare qualcosa. Leggevo adesso qua, nel mio diario, che pensavamo di fare un giornaletto col ciclostile, ma costavano troppo i cliché e non se ne fece nulla. L’ di settembre, subito dopo l’armi-stizio, siamo andati a Piazzale Roma, e lì c’era un reparto di soldati con dei camion pieni di armi, che dovevano nasconderle. Abbiamo lavorato tutta la mattina a scaricare armi e a portarle nei magazzini di Parisi, dove adesso ci sono le Coop3. Non so poi che fine abbiano fatto quelle armi, perché la sera stessa, a Piazzale Roma, davanti a noi c’erano i carri armati tedeschi.Poi un giorno, era già ottobre, con uno di questi compagni siamo andati a comperare dei colori nel negozio di colori in calle Lunga S. Barnaba (che c’è ancora, dall’altra parte della calle), e abbiamo preso il rosso e il verde: ab-biamo fatto un bel pacco di volantini tricolori con scritto sopra “Abbasso il duce!” o roba del genere… e questo era il quadro, spontaneismo puro [ride]. Intanto tornavano a casa, per il dissolvimento dell’esercito, alcuni militari dell’associazione4. E fu un altro rude contributo formativo. Eravamo passa-

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O ti, inconsciamente e giocosamente, da una parte all’altra del sistema.

Ma i ragazzi con cui faceva queste cose erano un gruppo del “Marco Polo” o della parrocchia?

Del “Marco Polo” e della parrocchia, con altri amici e qualche parente. Ci riunivamo nella casa a lato del ponte di S. Margherita, di fronte alla farma-cia, dove adesso mi pare ci siano i vigili; lì c’era una anziana signora, zia di una di queste ragazze, che faceva l’anfitriona per noi. C’era chi ballava, chi declamava poesie, insomma le sciocchezze dell’età. Ci chiamava “piccioni miei”, e il posto si chiamava “la piccionaia”, per dire il tono… Ma è stata una cosa preziosa per quello che le dirò fra poco.In quella fase io ho avuto una ripresa di sensibilità religiosa. Non l’avevo mai abbandonata, però ero poco attivo e molto spensierato. In quel mo-mento invece ho avuto questa ripresa, e qui è intervenuto un ragazzo che si chiamava Guido Bellemo. Lui era del ’20, quindi aveva sette anni più di me. Tornò a piedi dal suo reparto in Carnia, aveva avuto una vicenda… ma que-sto è tutto raccontato molto ampiamente in questo libro5. Guido Bellemo era un giovane eccezionale, colto, che sapeva prendere, un credente forte, che mi ha affascinato.

Dove abitava, Bellemo?

In fondamenta Foscarini, nella prima calle che si incontra lungo la fonda-menta, andando dal ponte dei Carmini verso il Malcanton.

Quindi il suo incontro con Bellemo è avvenuto nel ’43…

Negli ultimi mesi del ’43, inizio del ’44; ma lo conoscevo già da prima, era-vamo in corrispondenza. E con lui ho ricominciato una frequentazione del-la parrocchia e del parroco, monsignor Augusto Gianfranceschi; il quale, all’inizio della guerra, aveva fatto la solenne promessa: “Illumineremo la madonnina del campanile dopo la vittoria”. Naturalmente la vittoria non c’è stata, ma hanno illuminato la madonnina lo stesso… E insomma, avevo questa amicizia forte con questo ragazzo, che aveva 23-24 anni, e mi gui-dò un po’ spiritualmente. Avevo avuto anche una cotta per una delle no-stre amiche, che era andata male… Insomma, una crisi di adolescenza. Ho cominciato ad andare a messa e a far la comunione tutte le mattine. Lui mi passò dei libri di meditazione. Insomma, la mattina presto io passavo un’ora, un’ora e mezza in chiesa; mi aveva educato un po’ lui a questo. Ho ancora un suo vecchio libro di meditazioni di un monaco benedettino molto celebre all’epoca, Marmion, che si chiamava Cristo, vita dell’anima. Era fine-mente rilegato in pelle, me lo aveva prestato per le mie meditazioni. Bellemo fu subito presidente dell’associazione6, e aveva messo su un gruppo di stu-denti; andavamo a riunirci in una stanzetta del patronato dei Carmini, in calle Lunga S. Barnaba. Lì si tenne per molti mesi un corso – con dei sussidi

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O didattici che venivano da Roma, dalla sede della Gioventù Cattolica nazio-nale – che lui ha amministrato molto bene, ci ha insegnato parecchie cose. Ho ritrovato sue bibliografie, mi addestrava in matematica. E io ho creduto, in quel momento, di aver fatto un notevole passo in avanti intellettuale e religioso. Certo, fu un passo su cui molti anni più tardi ho dovuto fare tutte le mie tare; perché si trattava della vita di Cristo, della storiografia moderna sui vangeli, della polemica con gli studiosi razionalisti sul Cristo storico e sul Cristo evangelico, ecc. ecc. Ma tutto questo formava un ambiente di vita denso, forte, importante.

E questo suo riavvicinamento alla pratica di fede lei lo viveva anche come un’al-ternativa alla cultura fascista in cui era cresciuto, come un qualcosa di diverso?

Come un qualcosa di diverso, sì. Di molto diverso. Ma è importante il fatto che esso fu tutt’uno con una fuoriuscita piuttosto rapida e complessiva da un’adolescenza un po’ pigra e ritardata. Come vede stiamo parlando di que-sto, e poco di Resistenza.

Fu, comunque, un suo passo in senso antifascista?

Ci arrivo, ci arrivo. Un certo giorno, nel febbraio-marzo ’44, mi arriva a casa uno di questi amici della parrocchia, Nino Vascon (che poi è stato brillante giornalista, direttore della sede Rai di Venezia, adesso deve essere in pen-sione in un paesino di montagna). Era mio coetaneo, forse aveva un anno di meno. E Nino Vascon mi dice: “Go incontrà un signor che conosso, che fa un gruppo antifascista. Ti interesserebbe esserci?”. “Oh, senz’altro!”. Lui non mi disse il nome di questo signore: “Ci vediamo il tal giorno”… e mi trovai davanti Guido Bellemo.Era il Gap di Dorsoduro, fatto tutto da ragazzi dell’associazione della Gioventù Cattolica. C’erano Lucio Cortese (fratello maggiore del senatore Marino Cortese e del giornalista Tito Cortese), Nino Vascon, Pier Maria Gaffarini (architetto e docente a Padova), Guido Ravenna…

… che poi è diventato azionista ed è andato nella “Osoppo”…

Esattamente. Eravamo questi, in sostanza. Un azionista importante l’ho conosciuto, Armando Gavagnin, a casa sua in calle dei Cerchieri, prima che entrasse in clandestinità: spesso andavo a fare i compiti insieme con suo figlio, Lino, mio compagno di classe. Sapevo che era antifascista…

Ma oltre a lei quanti di questi ragazzi del gruppo della parrocchia, quello che studiava i vangeli, facevano parte anche del gruppo antifascista?

Quelli che ho citato. Era una cosa incredibile, a ripensarci. Ci trovavamo in un gruppo più ampio a fare queste sedute di studio, e poi avevamo una filo-drammatica: ogni quindici giorni mettevamo in scena una commedia, nel teatro del patronato in calle Lunga. A questo teatro abbiamo dato l’anima: c’era chi faceva le scene, chi recitava, chi si occupava del trucco ecc. Nel ’44,

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O e fino ai primi mesi del ’45, abbiamo addirittura organizzato una stagione teatrale, con una dozzina di spettacoli. E andavamo in giro per i patronati, di sera, portandoci le scene in spalla, anche col rischio del coprifuoco. E tutto si faceva lì dentro: si facevano le lezioni religiose, le prove teatrali, poi ci mettevamo da parte – il gruppettino dei cospiratori – a decidere cosa fare. Anzitutto distribuzione di stampa clandestina; quando poi Bellemo andò in montagna, e quasi subito dopo andò in montagna anche Vascon e infine anche Ravenna, io mi trovai ad avere dei rapporti un po’ più centrali. Quindi andavo dall’avvocato Dante Gardani (cattolico, rappresentante di un gruppo della Democrazia Cristiana) che mi dava, se non vado errato, un giornaletto che si chiamava “La Libertà”, un altro si chiamava “Il Popolo” ecc. Erano dei pacchetti da distribuire, di valore politico programmatico.

Li mettevate nelle buche delle lettere?

Nelle buche delle lettere, sotto le porte ecc. Una volta ho messo il giornale sotto una porta, la porta si è aperta… [ride]… Era un mio compagno di scuola, per fortuna! Questo ha guardato: “Cosa mi hai messo? Ma sei mat-to?! Guarda prima se c’è qualcuno!” Questo per dirle il quadro. Poi ho avuto anche un contatto con un ingegnere (di cui adesso non ricordo più il nome, forse era Augusto Ambrosi), in uno studio in campo S. Luca, che devo aver incontrato insieme con una persona che non sapevo chi era, ma che dopo mi è risultato essere l’avvocato Eugenio Gatto: loro due facevano parte del Cln di Venezia. Questo per quanto riguarda la propaganda. Poi c’era qualche azione di carattere più militare: mi ricordo che una volta Cortese si è trova-to a passeggiare a lungo per la città con una valigia piena di armi…

Da dove venivano le armi?

Ma, non glielo so dire… Un’altra volta progettammo un’azione contro la Casa del Balilla, su cui ho trovato questo documento7. Ma ci fu un tentativo di furto dell’imbarcazione con cui dovevamo andare ad accendere la mic-cia, mentre Bellemo stava nascosto in acqua con in testa una scatola piena di plastico, che doveva collocare e lasciarci pronta per l’accensione… tutto andò per aria, in sostanza.

Ma la cosa interessante è che poi la bomba in quel posto l’hanno messa gli azio-nisti (Biondo, Ravenna ecc.).8

Sì, ma non ricordo bene…

Perché eravate in contatto, voi e gli azionisti, mi pare…

Mah, io non conoscevo Biondo all’epoca. Sa, era tutto a compartimenti sta-gni… Noi eravamo il gruppetto dei Carmini e facevamo tutto insieme, in par-te giocando (ma Bellemo non giocava); facevamo la vita di una boheme catto-lica, facendo tutte le cose che le ho detto: giornaletti, teatro e quant’altro.

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O Qual’era esattamente l’edificio della Casa del Balilla contro cui dovevate fare l’attentato? Quello grande all’angolo tra rio del Tintor e rio Briati?

No, quella che fa angolo è la palestra dell’Opera Balilla: quello dell’attenta-to era l’edificio accanto, a metà di rio Briati. Nella palestra andavamo a far ginnastica col Marco Polo…

Sì, anche noi andavamo a far ginnastica lì, alle medie.

Si entrava dalla fondamenta dei Cereri, attraverso un ponticello di legno. E mi viene in mente che facevamo lì (qualche anno prima, nel ’4-’42) anche le esercitazioni con i balilla, e lì ci insegnavano gli inni nazisti: [canta] “Die Fahne hoch! / Die Reihen fest geschlossen! / S.A. marschiert / Mit ruhig festem Schritt / Es schau’n auf ’s Hakenkreuz / Voll Hoffnung schon Mil-lionen”…9

E cosa voleva dire?

“In alto la bandiera/ le file fermamente compatte / le S.A. marciano/ con passo tranquillo e forte/ guardano alla croce uncinata / pieni di speranza già milioni di persone…”, poi non ricordo bene. E noi dovevamo cantare anche questa roba.Tornando al ’44: una mattina mi sono trovato con le scolaresche di Venezia al Teatro Malibran (e qui non c’entra nemmeno il gruppo dei Carmini). Era il 28 aprile del ’44. Lì prima ci hanno indottrinato un poco – e il teatro, pie-no così, è stato ad ascoltare –, poi hanno spento le luci e hanno cominciato a proiettare dei documentari di guerra e del Partito Fascista Repubblicano. Allora è successo un po’ di casino: io mi sono dato da fare, con qualche altro, e mi ricordo che ho corso per tutti i livelli delle logge e la platea a movimentare la situazione, a fischiare, a dire “Ragazzi, reagite!”, ecc. ecc. Usciamo, spensieratamente, parlando male dei militi della Gnr e cose di questo genere; così, proprio, una fila di ragazzi vocianti. Siamo sul ponte che da S. Giovanni Grisostomo dà sul Fondaco dei Tedeschi, e una signora (un’insegnante, non so di che scuola fosse) comincia a gridare: “Ahh, questi ragazzi sono contro il duce, contro il fascismo!”. Ci guardiamo attorno… Arriva un poliziotto in borghese: “Venite un po’ con me”. Non riuscimmo a scappare, e andammo con lui. Qui entra in questione Franco Crepax, fratel-lo del disegnatore Guido Crepax; all’epoca erano tutti e due a Venezia.

Loro erano milanesi ma erano venuti qua durante la guerra…

Sì; il padre, Gilberto Crepax, era violoncellista alla Fenice. Franco era in classe con me, ed eravamo noi due, con qualche altro, che discutevamo di queste cose. Questo poliziotto ci prende e ci porta tutti e due a Ca’ Giusti-nian, sede della Guardia Nazionale Repubblicana. La cosa è stata descritta in questo libro di Franco Crepax, che mi ha telefonato l’anno scorso e mi ha detto: guarda che ti ho mandato questa cosa… Infatti qui c’è una decina

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O di pagine sulla nostra storia: [legge] “Una volta un rischio l’ho corso an-ch’io. Va a fortuna. Ero fuori di scuola col mio compagno Dorigo, proprio quel Wladimiro Dorigo che poi è diventato qualcuno nella Sinistra veneta”. Ho dovuto poi telefonargli e dirgli che alcuni particolari non erano esatti, perché per esempio non lega la vicenda con il fatto del Malibran, e invece stavamo proprio uscendo dal Malibran. Comunque, narra le cose che sono avvenute: ci portano a Ca’ Giustinian – che non è ancora saltata in aria – e ci troviamo davanti a dei militi. Uno mi prende gli occhiali, me li leva gentilmente, io lo guardo come uno scimunito e lui mi rifila… [ride]… due schiaffoni che il Franco Crepax descrive così: [riprende a leggere] “Fatto sta che gli si pose di fronte, gli tolse gli occhiali con un certo garbo e glieli mise in mano. Poi si torse indietro di mezzo giro e gli mollò un ceffone che avrebbe scardinato un albero. Mentre Dorigo finiva a terra, pensando che stava per toccare a me, liberai senza volere la vescica”10. [ride]Ci hanno portati a S. Maria Maggiore. Era il 28 aprile, e cosa facevano loro il 28-29 aprile? Andavano a casa di tutti gli antifascisti noti da vecchia data, gli antifascisti degli anni ’20 diciamo: andavano a pescarseli e li portavano in galera, per evitare che ci fossero agitazioni o manifestazioni per il ° maggio. Questa era evidentemente una cosa che loro facevano normalmente, e che hanno fatto anche nel ’44. Per esempio, quando siamo entrati a S. Maria Maggiore, io mi sono trovato insieme con un barbiere che aveva bottega in campo di S. Maria Mater Domini, il quale mi dette qualche istruzione su come si sta in carcere: “Ma ti gà schei?”. “No…” Allora tirò fuori 0 lire e me le dette: “Ti ghe n’avarà bisogno”. Io presi queste dieci lire, che dopo alcuni giorni sono andato in negozio a riportargli; e l’ho ritrovato lì, perché dopo il Primo Maggio lo avevano mollato. Quando ci trasferirono a S. Maria Mag-giore, il 28, eravamo dunque un numeroso gruppo di persone con i militi a fianco che ci accompagnavano…

A piedi?

A piedi, e incontrai in campo S. Barnaba un amico di scuola, Gattoni, con il quale avevo anche rapporti per la filodrammatica (il fratello era un noto filodrammatico); e passandogli accanto gli ho detto: “Per piacere, vai a casa mia e dì a mio padre che mi hanno messo dentro, che nasconda tutto quello che trova”. E lui lo fece, per fortuna.

Ma suo padre sapeva delle sue attività?

Mio padre non sapeva niente! Allora io avevo in casa uno sgabuzzino di tre metri quadrati in cui tenevo le mie cose, il mio tavolino di studio ecc., e lì c’erano i pacchetti di giornali che distribuivamo. E mio padre, tremando, bruciò tutto. Per fortuna non sono neanche andati a casa mia, non hanno fatto in tempo. Comunque in famiglia fu una tragedia, naturalmente.In galera ci sono stato 24 ore. Perché? Perché la signora zia della “piccio-

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O naia” aveva un’amicizia col questore di Venezia.

Però!

Allora questa signora – io non l’avrei mai sospettato – avvertita non so da chi (conosceva me, ma non Crepax) ha preso, è andata subito dal questore e gli ha detto: “Guardi che stanno facendo un errore terribile, io ci metto la mano sul fuoco, sono dei ragazzi che ospito a casa mia, hanno sedici anni, non è assolutamente possibile che…”. E, insomma, il questore le credette. O volle crederle, non lo so. Fatto si è che noi, il 29 mattina, stavamo facendo l’“ora d’aria” quando venne a prenderci un milite, mi pare che fosse lo stesso che mi aveva preso a ceffoni. Facemmo un tratto di strada a piedi; disse: “Adesso vi riaccompagno a Ca’ Giustinian”, e noi ci guardavamo preoccupa-ti. Arrivammo alla Toletta: lì c’era (e c’è ancora) un bar, ci offrì un “caffè” e poi uscendo disse: “Be’, adesso andate a casa”.La giornata in carcere è stata una giornata istruttiva. Io e Franco eravamo in una cella con altri cinque o sei ragazzi di campagna, antifascisti natural-mente. Mi ricordo un nome, un De Gasperi o qualcosa del genere, con cui parlai a lungo, quel giorno; deve essere uno di quelli che furono fucilati il 3 luglio sulle rovine di Ca’ Giustinian11. Erano un gruppetto di renitenti e partigiani della bassa Sandonatese. Erano dei ragazzi coraggiosi ma senza la minima preparazione culturale: mi ricordo che ci chiesero di disegnare una carta geografica lì sul muro della cella per spiegargli com’era la situa-zione della guerra. Io non mangiai, ero prostrato, perché pensavo “Se questi vanno a casa, prendono mio padre e mia madre…”.

Perché, in verità, vi hanno arrestato per una cosa da niente, senza sapere che dietro c’era un’organizzazione…

Sì, però dimenticavo di dirle che c’erano stati anche altri fatti. In quell’anno, tra la prima e la seconda liceo, ormai c’era battaglia in classe e dentro l’isti-tuto: c’erano dei compagni che erano dall’altra parte. Mi ricordo Basaglia, poi architetto, cugino del pittore Vittorio scomparso recentemente…

Non Franco Basaglia…

No, non lo psichiatra; ma era dello stesso parentado. Mi pare si chiamasse Piero Basaglia, era fascistissimo: ci tiravamo i libri in testa da un banco all’altro, urlando, con i docenti che non sapevano cosa fare. E ce n’era un altro, il quale abbandonò subito la scuola, che si chiamava Bordignon. [Con voce tesa] Bordignon veniva di sera a suonare il campanello di casa mia e diceva: “Dorigo, vieni giù”. Allora io, che non volevo far sapere nulla ai miei, scendevo e dovevo assistere alla sceneggiata di questo che, in divisa da Gnr, puntandomi la pistola o palleggiando una bomba a mano, diceva: “Guarda che finisce male…”, ecc. Minacce di questo genere, verso la fine del ’43. Poi, nella primavera-estate ’44, trovavamo bigliettini listati a lutto, sotto la por-

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O ta, e questo impressionò soprattutto mio padre; biglietti da lutto fatti tutti con timbretti componibili: c’era il fascio repubblicano, c’era il teschio della morte e c’erano le minacce: “Famiglia Dorigo, avrete del piombo”. Ne ho conservato uno: “Vi abbiamo abbastanza osservato! Ora basta! L’ora del-l’espiazione si avvicina!!” [me lo mostra]12

Questo simbolo cos’era?

Quello è un “Chrismon”, una cosa piuttosto curiosa: un simbolo che si trova nell’arte paleocristiana e alto-medievale, formato dalla � e dalla � di �����Ó�.

E come mai lo usavano i fascisti?

Questo non lo so; probabilmente per loro simboleggiava morte, infatti altri bigliettini avevano il teschio. Mio padre non sapeva più cosa fare. E, in que-sto quadro, lei si immagini cosa successe quando mi misero dentro. Appena uscito dal carcere, tornai pimpante in patronato e mi presi la ramanzina di Guido Bellemo: “Ma scherziamo?!”.

Perché metteva in pericolo tutto per una ragazzata…

Certo. Guido Bellemo partì il 25 giugno del ’44 per l’Alpago. Ho riconsulta-to questo articolo di Vian13, che è molto circostanziato (ha usato varie fonti, ben più della mia testimonianza o dei miei scritti), e qui si pone il problema se Bellemo, quando partì, avesse già deciso dove andare o no. Secondo me era decisissimo, perché il 24, il giorno prima che partisse, mi ricordo che siamo stati insieme; poi lui andò a trovare la morosa, che era sorella di quel Pizzolotto suo amico, pure lui cattolico, che invece era stato catturato dai tedeschi e aveva poi aderito alla Repubblica di Salò e che, avendo saputo che Bellemo nutriva altre idee, esprimeva grave avversione per lui scrivendo alla sua famiglia, anche contro la sorella. E quindi io ho parlato con Guido proprio l’ultimo giorno; lui me l’ha detto solo quel giorno, alla vigilia della partenza. Mi voleva molto bene, eravamo molto amici, e mi ha detto: “Do-mani parto. Monto in una carrozza postale del treno per Belluno, mi metto un “traverson” delle poste e fingo – lui era un renitente, no? – fingo di essere un impiegato delle poste e poi, a Belluno, vado dove so che devo andare”. Qui il Vian pone qualche dubbio sul fatto che, partendo, lui avesse già deci-so dove andare: ma come, una vita religiosa così intensa e va in una divisione garibaldina piena di comunisti? In realtà io credo che lui avesse preso la de-cisione già prima, e una testimonianza del parroco di Tambre, che ho riletto qua, sembra confermarlo. Dice che aveva parlato con lui qualche mese pri-ma (la testimonianza è datata settembre ’44, cioè il giorno dopo la morte di Bellemo; quindi qualche mese prima deve essere maggio o giugno, insomma prima del 25 di giugno, quando lui partì); probabilmente Guido, indirizzato all’Alpago dai nostri contatti, era andato sul posto a esplorare la situazione,

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O era andato dal parroco a informarsi com’era. Il parroco gli deve aver detto: “Guarda che qui sono tutti comunisti… Però puoi fare del bene anche lì, puoi fare apostolato anche con loro”, ecc. E lui ci è andato e si è comportato nel modo che – a parte le esagerazioni agiografiche a cui posso aver indulto anch’io, da giovane – è testimoniato da tutti, a cominciare dal comandante comunista della brigata.Trovo scritto in una mia agendina di allora, con la solita insipienza: “Guido è andato. È partito stamattina per le montagne, dove andrà a servire l’ideale nostro altissimo sotto le bandiere partigiane. Mi ha affidato l’incarico del nostro gruppo… prego il Signore che la guerra finisca presto e Guido possa ritornare vittorioso…”

Mi pare che sia proprio Vian a dire che, questa sua scelta di andare coi garibal-dini, Bellemo l’aveva tenuta un po’ nascosta agli amici veneziani…14

Non l’aveva detto neanche a me, che andava coi garibaldini. Ma non aveva certo preso un treno a caso, sapeva dove e con chi andava. Io poi ero diventa-to anche amico di famiglia, perché questo gruppetto si riuniva spesso a casa di lui. Mi ricordo che una volta ci ha dato un po’ di rudimenti sulle bombe, il fosforo, il plastico ecc., mostrandoci dei materiali; e suo padre evidente-mente era d’accordo. Suo padre era un vecchio popolare, col quale ho avuto amicizia; anche perché era un impiegato delle poste (ecco l’idea del vagone postale, del “traverson” ecc.) e io facevo tra l’altro il filatelico, per cui ero molto interessato alle nuove emissioni postali della repubblica fascista, e lui mi procurava tutti questi bolli. Infatti mi ricordo che, nelle lettere a casa di quei mesi, Guido scriveva a suo padre: “Salutami il collezionista di bolli”. E poi è andata come è andata.15

Nel momento in cui Bellemo va su, lei cosa sapeva della montagna? Che idea si era fatto?

Era un mito. Non sapevo nulla, o quasi.

Quand’è che avete cominciato a sentir parlare delle formazioni in montagna?

Ecco, non certamente l’8 settembre. Qui, da qualche parte16, si dice che l’8-9 settembre dovettero scegliere, e se avevano una formazione cattolica, leali-sta nei confronti del regime, dovettero contraddirsi… Secondo me le cose andarono un po’ diversamente: intanto c’erano state tutte queste matura-zioni diverse che ho cercato di dirle…

Forse sono stati soprattutto i militari che, all’indomani dell’8 settembre, hanno dovuto decidere cosa fare…

Certo. Ma chi poté tornare a casa, per esempio, no: ha avuto più tempo per riflettere, anche correggendosi. Busetto per esempio, di cui si parla qua17 e che era stato anche lui presidente della nostra associazione, pare che avesse in un primo momento aderito alla Repubblica Sociale Italiana; poi, pentito,

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O andò da Gatto – c’è una testimonianza di Gatto – e disse: “io voglio fare qualcosa dall’interno”. Fatto sta che partì per le linee del fronte, in Italia centrale, e ad un certo punto, nel giugno del ’44, convinse un gruppo di mi-litari del suo corpo a passare con i partigiani. Sottrassero materiale bellico, fecero un po’ di azioni contro i tedeschi, finché non furono catturati per una spiata e messi al muro il luglio ’44 a Gualdo Tadino.

Quindi, nel vostro gruppetto, avete avuto due caduti nella Resistenza.

Sì; ed eravamo sei o sette… Insomma, una cosa abbastanza inusuale. Con un parroco che era forse partito anche lui da posizioni di simpatia per il regime…

Ecco, ma cosa sapeva di voi il parroco dei Carmini, Gianfranceschi?

Il parroco era il mio padre spirituale…

Ma di queste vostre attività antifasciste?

Di questo credo non sapesse nulla. A meno che non gliene avesse segreta-mente parlato Bellemo, ma non crederei (però devo ricordare che Gianfran-ceschi tenne nascosto per mesi, in un sottotetto della chiesa dei Carmini, un giovane abruzzese renitente alla leva, tale Ciavatta, con cui ogni tanto ci vedevamo). E poi c’era stato, nella stessa associazione, don Aldo Da Villa, un altro simpatizzante del regime, che era stato cappellano militare e poi fu prigioniero negli Stati Uniti. Era stato padre spirituale di Dino Buset-to. Quindi il quadro in cui si mossero questi giovani era quello dell’Italia degli anni ’30. Nacque tutto internamente, spontaneamente, contradditto-riamente, talvolta con forme un po’ ridicole e infantili, che però portarono anche a tragedie come quelle di Bellemo e Busetto.Quando gli altri sono andati in montagna, abbiamo continuato a fare azio-ne propagandistica. Eravamo rimasti in due o tre: Cortese, io e Gaffari-ni. Poi hanno preso il nostro contatto, Gardani, e sono venuti a mancare i rifornimenti della stampa clandestina. D’altra parte il nuovo inverno fu assai duro anche per le formazioni partigiane in montagna, che in parte entrarono tra parentesi, e ciò si risentì anche in città (vedi l’arresto di Ponti e della D’Este). Il giorno d’inizio del nuovo anno scolastico, ’44-’45, ci con-centrarono alle Zattere, con un battello ci portarono a Fusina, e di lì nella zona industriale. Passammo alcune settimane a scavar fosse e a piantar filo spinato sotto vigilanti della Wehrmacht: lavori assurdi, resi lentissimi per-ché ci assentavamo di continuo, appena possibile, e poi eravamo autorizzati a scappare quando suonava l’allarme aereo, cioè molto spesso.

Lavoravate per la Todt? In orario scolastico o al pomeriggio?

No, lavoravamo sotto la Wehrmacht, in sostituzione della scuola. E ci pa-gavano: qui ci sono le tessere con i timbri, vede?18 Una volta, fuggendo dalle rovine della C.I.T.A. (dove ci spaccavamo le spalle portando in spalla traver-

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O sine ferroviarie), finimmo senza saperlo nei pressi di una batteria antiaerea: fu l’inferno, tra le bombe degli aerei. Ero sdraiato in un fosso, fra gli alberi, il terreno mi sobbalzava sotto il ventre. Tornammo a Venezia a piedi, uno di noi senza scarpe.Fu una situazione complessa, una fase di passaggio che non si capisce se non si tiene conto di tutte queste evoluzioni – più lente, più veloci, con soluzioni di continuità anche improvvise – che ci furono in quel momento, e che de-vono essere inscritte nella situazione famigliare ed esistenziale, più o meno matura, di ciascuno.

Tornando ai rapporti con gli ambienti cattolici e le gerarchie ecclesiastiche: pro-babilmente c’erano altri gruppi come voi, a Venezia; ma non c’era una direzione, un centro che tenesse insieme l’organizzazione. Era una cosa spontanea…

Credo che fosse largamente spontanea e certamente non amata – se qual-cosa intuiva – dal cardinale Piazza, che era proprio dall’altra parte. Era im-pensabile che la chiesa veneziana ispirasse o guidasse la Resistenza dei cat-tolici. Fu affare e rischio autonomo dei laici più pensosi e di alcuni preti.

Cosa pensavate voi, all’epoca, di Piazza?

Mah, forse non avevamo elementi sufficienti per pensare. Perché prima an-davamo a festeggiarlo una volta all’anno in palazzo patriarcale, e questo era tutto; e poi abbiamo capito che dovevamo comportarci con una certa segre-tezza, anche rispetto a Urbani che era il delegato patriarcale, e che però era un tipo un po’ diverso da Piazza. Urbani era amico di Gianfranceschi e forse Gianfranceschi, anche attraverso di lui, ha capito come cambiavano le cose. Certo, c’erano vescovi molto più chiari: c’era Bordignon a Belluno che andava a benedire i partigiani pendenti dalla forca. Su “La Libertà”, il foglio democri-stiano che distribuivo, lessi per esempio ( maggio 944) un comunicato molto fermo e significativo dei vescovi del “Litorale Adriatico”, che condannavano senza mezzi termini torture, prelevamenti, deportazioni; e si noti che tutto l’Adriatisches Küstenland19 era governato dalle autorità tedesche. [Mi mostra la copia del giornale20] Mi è rimasta solo qualche copia di questo giornale, perché mio padre deve averle bruciate in aprile quando mi hanno messo in galera; poi, come le dicevo, in settembre Gardani (che ci forniva questi giorna-letti) fu arrestato, per cui io non ricevetti più stampa clandestina. Quindi me ne è rimasta solo qualche copia del periodo tra maggio e settembre.

Lei aveva rapporti, per esempio, con Ida D’Este o con altri esponenti della Resi-stenza cattolica veneziana?

Ida D’Este l’ho conosciuta dopo la guerra.

Ma era a conoscenza di altri gruppi cattolici, a parte il vostro, che facessero atti-vità antifascista a Venezia?

Ma, sa, io non credo che ce ne siano stati molti; perché qui, in questo volu-

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O me21, don Bruno Bertoli ha cercato di ricostruire, e ne cita tre o quattro…

Per esempio si parla di Cesare e Ernesta Sonego, della parrocchia di S. Silve-stro…

Sì, Sonego l’ho conosciuto, ma non credo di averlo conosciuto durante i venti mesi. Quando Bellemo partì c’era un gruppo tenuto in vita dal vicario dei Carmini, don Mario Greatti, che era un prete abbastanza sveglio e in-teressante, con il quale andavamo anche più d’accordo che con Gianfrance-schi. Greatti fece anche lui un gruppo studentesco, però su base cittadina; e allora ci fu una serie di stationes, lui le chiamava così, in cui si faceva la messa e poi si stava insieme, si faceva qualche ora di studio su temi apologetici e così via. Niente di politico, ma nacque così qualche conoscenza: i fratelli Mazzi di S. Trovaso, ad esempio, i fratelli Bertoli (di S. Cassiano, mi pare: monsignor Bertoli e un suo fratello che fu direttore del seminario), varie persone, ma non si trattava certo di Resistenza, parlavamo solo se sapevamo precisamente che si poteva parlare, almeno su questo siamo stati prudenti.

E al “Marco Polo”, in quegli anni, chi altro conosceva? C’era Luigi Nono, ad esempio…

Nono aveva diversi anni più di me; è passato di là, e qualche ricordo mi è ritornato alla mente quando, nel dicembre scorso, c’è stato un convegno su Gigi indetto da sua moglie Nuria, alla fondazione Cini; ma tutti ricordi del dopoguerra, in sostanza.

E di professori, a parte Bacchion che ha citato? C’era qualche professore che vi faceva capire di essere antifascista?

Francesco Rossi22: era un uomo che entusiasmava. Intanto insegnava latino e greco mirabilmente, infatti poi è venuto a insegnare a Ca’ Foscari. Ed era un uomo affascinante sotto molteplici aspetti. Non si pronunciava, natural-mente, nessuno si pronunciava; però era diverso, insomma si capiva. Questo al liceo; al ginnasio c’erano state delle persone più grigie: Cammarosano di Lettere, Fabris di Matematica e fisica, la Stark che ci ha insegnato il tedesco (il tedesco sono poi stato contento di averlo studiato); ma erano allora gli anni precedenti, e la guerra sembrava andare diversamente.Come compagni c’era Casellati, poi sindaco; e io ero in banco con Guido Vianello, fratello di Gian Mario; poi c’era Lodi, che dopo è stato mio me-dico di base; Lardinelli, che – ho visto – è morto l’altro giorno cadendo con l’aereo che si era costruito, era ingegnere aeronautico; Basaglia che ho ricordato. Poi c’era la sezione femminile…

C’erano ancora le sezioni separate?

Sì, ma in classe nostra c’era una ragazza, Marina Gradenigo. Nella sezione femminile, dove si studiava inglese, c’era la Maria Francesca Tiepolo.

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O E lei sapeva che Gian Mario Vianello, fratello del suo compagno di banco, era nella Resistenza coi comunisti?

No.

Non avevate notizie di gruppi di altri partiti. Ma quando c’erano le azioni cla-morose (come l’attentato a Ca’ Giustinian o la beffa del Goldoni), lei si doman-dava chi era stato? Sapeva che erano i comunisti, si poneva il problema di entrare in contatto con loro?

No, nel nostro gruppetto non ci siamo posti questo problema. Il criterio era di non cercare guai, di tenere compartimenti stagni: questa era la prima cosa che ci ha insegnato Bellemo. Non c’era l’idea di cercare l’unità con altri gruppi. Il problema si sfiora solo quando si tratta della scelta di Bellemo di andare in una divisione garibaldina; ma non mi sembra che, nelle nostre riunioni, lui avesse mai accennato a problemi di collaborazione coi comuni-sti. I nostri contatti erano con cattolici, come le ho detto: Ambrosi, Gatto, Gardani.

Franco Crepax, nel suo libro23, cita un altro vostro compagno di scuola, Tessari, che era andato nella Decima Mas.

Parlando al telefono con Crepax, lui mi ha detto di aver usato un nome fasullo. Non siamo riusciti a ricordarci chi fosse: poteva essere Bordignon, quello che veniva a minacciarmi a casa, ma non è detto.

Sempre secondo Crepax, il poliziotto che vi ha arrestato avrebbe sentito una frase pronunciata da lei, riferita a questo vostro compagno andato nella Decima: “I va perché ghe dà ‘l botiro!”24. Ricorda anche lei questo particolare?

Sì…

E un’ultima cosa, ancora da questo libro: Crepax nomina un professor Sansoni del “Marco Polo”, che definisce “un fascistone”, a cui si sarebbero rivolti i suoi ge-nitori per farvi liberare dal carcere. Le leggo il passaggio, si riferisce al momento in cui voi siete appena usciti di prigione: “Passati gli abbracci e le commozioni i miei genitori mi raccontarono che si erano subito rivolti al mio professore di ita-liano, una fascistone toscano, il professor Sansoni, che faceva le Lecturae Dantis all’Ateneo Veneto e che mi aveva preso in simpatia per certi miei svolazzi sul pessimismo leopardiano che gli erano garbati”25…

Mi viene in mente un professore che dichiarava: “Io sono un violentissimo uomo di parte, come Dante Alighieri!”. Ed era fascistone. Ma non mi pare che si chiamasse Sansoni…

Forse è finto anche questo nome…

Sì, è sicuramente la stessa persona, forse ha deformato il nome. Era un nome con la “S” che non riesco a ricordare, ma non Sansoni26…

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O Venendo invece alla liberazione e ai giorni dell’aprile ’45, che ricordi ha?

Mah, i giorni della liberazione furono per me uno smacco, perché mio pa-dre… [fa con la mano il gesto di girare una chiave]… chiuse a chiave la porta di casa e io non potei uscire finché non fu finita. Cortese, invece, riuscì a uscire di casa (era senza padre, e forse ingannò sua madre); non mi ricordo se fosse la notte del 27 o giù di lì, perché la liberazione a Venezia è avvenuta il 28, mi pare…

Sì, il Cln proclamò l’insurrezione generale nella notte tra il 27 e il 28.

Ecco: nella notte tra il 27 e il 28 io fui segregato in casa e Cortese si trovò con altri (credo anche Vascon, che era tornato dalla montagna), con una pistola in mano, dalle parti della Toletta a fronteggiare un gruppo di fascisti che volevano eclissarsi. Lì ci fu una sparatoria con uno o due morti… Quel luogo è stato un po’ topico perché sul ponte della Toletta, verso la calle dei Cerchieri, ci fu l’attentato partigiano contro Asara e altri due fascisti.27

Questo però era successo un anno prima, nel ’44…

Sì, certo; comunque è stato un luogo significativo, perché mi pare che la notte della liberazione i fascisti occupassero il “Marco Polo”. Dopodiché siamo andati a sfilare tutti quanti in Piazza S. Marco, come vecchi partigia-ni. Ma ero imbarazzato e vergognoso. Comunque mi hanno dato la tessera di volontario del Cvl.

E dell’arrivo degli alleati, cosa ricorda?

Niente di particolare.

Allora veniamo al dopoguerra: si è spesso parlato del fatto che la memoria della Resistenza cattolica sia stata un po’ trascurata. Abbiamo per esempio intervista-to Ermes Farina, che immagino lei conosca, e lui diceva che a suo parere c’è stata una responsabilità della stessa Democrazia cristiana nel lasciare in ombra la Resistenza cattolica. Siccome la Resistenza era diventata appannaggio delle sini-stre, la Dc avrebbe preferito passare sotto silenzio il contributo dei cattolici…

Guardi, la mia storia dopo diventa abbastanza diversa. Nei primi mesi del ’45, dopo il periodo di lavoro a Marghera, io sono in seconda liceo, trasferi-to nella sede del “Foscarini” perché il “Marco Polo” era stato requisito dai fascisti. A metà di marzo, mi pare, decido di lasciare la scuola e di presen-tarmi privatista a giugno per la maturità, in sostanza di saltare un anno. Ho studiato tutta la primavera e l’estate in maniera ossessiva; la maturità era ancora una cosa molto dura e alla fine ce l’ho fatta per il rotto della cuffia, a ottobre. E poi mi sono iscritto a Padova, e avevo l’idea di intraprendere la missione del medico; cosa che non ho coltivato affatto, con preoccupazione di mio padre: facevo tutt’altro, ho cominciato a fare “carriera” nella Gioven-tù Cattolica, presidente dell’associazione, poi mi hanno fatto vicepresidente

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O diocesano ecc. Ho perso un sacco di tempo, fino a che non ho preso la palla al balzo, ho conosciuto i dirigenti centrali della Giac28, ho conosciuto Car-retto e sono stato chiamato a Roma. Quindi dalla fine del ’47 mi sono estra-niato completamente da Venezia, ci tornavo ogni due o tre mesi per dare degli esami di Lettere a Padova, e poi ripartivo. Sono tornato a Venezia solo nel ’54-’55, in sostanza, dopo che mi hanno cacciato fuori dalla Gioventù Cattolica e poi dalla redazione del “Popolo”. Quindi c’è un lungo iato – di tempo, di spazio, di interessi – non c’è una continuità tra questa esperienza, queste speranze e queste tensioni del ’43-’45 e quello che io sono stato più tardi, tornando a Venezia dopo una fase tutta diversa di respiro nazionale, quando ho dovuto cominciare a combattere politicamente, con pochi amici più giovani, all’interno del mondo cattolico, finché ne sono uscito, con la fama di scomunicato, di comunista, di eretico. Se non hanno dato retta a Ermes Farina, figurarsi se potevano ascoltare me.

A parte le testimonianze da lei rilasciate per il libro di Bruno Bertoli sulla Resi-stenza cattolica, ha mai avuto altre occasioni di raccontare pubblicamente queste sue esperienze?

Un’altra piccola intervista l’ho fatta con Franca Trentin e Luisa Bellina, che cercavano notizie su Ida D’Este o altre donne della Resistenza. Lì è venuta fuori qualcuna di queste vicende, ma non molto, è stata una cosa abbastanza breve.

note1 Mario Isnenghi.2 La vicenda degli affondamenti del Comandante Grossi è una delle più dolorose della propaganda fascista dell’epoca. In realtà nessuna unità militare americana fu affondata, e l ’ufficiale, che dopo l’ar-mistizio aveva aderito alla Rsi, si vide togliere nel dopoguerra le due medaglie d’oro conferitegli per tali fittizie vittorie.3 A Piazzale Roma.4 La Gioventù di Azione Cattolica.5 G. Vian, Fedeltà alla chiesa e servizio alla patria nella tragedia di due amici tra Resistenza e Rsi: Guido Bellemo e Gino Pizzolotto, in La Resistenza e i cattolici veneziani, a cura di B. Bertoli, Venezia, Studium Cattolico Veneziano, 996, pp. 57-00.6 La Gioventù d’Azione Cattolica (GIAC) dei Carmini.7 Si tratta di una “Dichiarazione” dattiloscritta, datata 24/9/946 e firmata Wladimiro Dorigo, Lucio Cortese, Pier Maria Gaffarini e Luigi Vascon; vi si ricostruisce l ’azione compiuta l’8/6/944 dal “Gap di Dorsoduro” comandato da Guido Bellemo e composto dai quattro firmatari più Guido Ravenna. Si trattava di compiere un attentato contro il deposito di armi nell’ex Casa del Balilla, sul rio Briati a Dor-soduro. Alle 0 di sera Bellemo, giungendo a nuoto da un rio laterale, avrebbe dovuto collocare l ’esplo-sivo in una nicchia del muro, ricoprendolo poi con i mattoni in modo che spuntassero solo le micce. Quindi, mentre Gaffarini faceva il palo, Dorigo e Cortese avrebbero dovuto montare su un sandolino che si trovava ormeggiato sulla riva e con quello andare ad accendere le micce. Al rumore dell’esplosione Vascon e Ravenna avrebbero lanciato delle bombe contro la sede rionale del Fascio, a S. Margherita, per proteggere la fuga dei compagni. Sennonché, quando Guido Bellemo arrivò a nuoto sul posto, si accorse che il sandolino era stato spostato da ignoti, che forse intendevano rubarlo. Giunse anche il proprietario della barca, insospettito, e vide la testa di Bellemo spuntare dall’acqua. L’azione dunque fallì, anche perché nel frattempo, per la prolungata e non prevista permanenza in acqua, l ’esplosivo si era bagnato (questa la ricostruzione dei fatti contenuta nel documento, copia del quale è conservata presso l’archivio dell’Iveser). Sull’episodio si veda anche G. Vian, Fedeltà alla chiesa, cit., p. 78. 8 Sull’azione di Biondo e soci cfr. l ’intervista a Guido Ravenna; essa è inoltre ricordata in diversi testi: R. Biondo, I giovani del Partito d’Azione, in 943-945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di G. Turcato e A. Zanon dal Bo, Venezia, Comune di Venezia, 976, p. 56; E. Brunetta, La lotta armata: spontaneità ed organizzazione, in G. Paladini, M. Reberschak, La resistenza nel veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, I, Venezia 985, p. 436; R. Biondo, Il verde, il rosso, il bianco.

Page 19: > SOMMARIO Wladimiro Dorigo > MAPPA > INDICE ALFABETICO€¦ · Io sono il primo, poi c’è mia sorella e poi un altro fratello, che è nato il 3 gennaio del ’45: ricordo che sono

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O La V brigata Osoppo e la brigata osovano-garibaldina “Ippolito Nievo”, Padova 2002, p. 34; G. Ravenna, Santa Margherita 944, in Giustizia e Libertà e Partito d’Azione a Venezia e dintorni, a cura di R. Biondo e M. Borghi, Portogruaro, Nuova Dimensione, 2005, pp. 85-86. Quest’ultimo, breve testo, in partico-lare, ricorda anche il gruppo cattolico di Bellemo e Dorigo, il loro precedente tentativo di compiere un attentato con modalità identiche a quelle poi seguite dagli azionisti e il fatto che, sentendo le esplosioni, Bellemo, Vascon e Dorigo (impegnati quella sera nelle prove di una recita al patronato dei Carmini), evidentemente a conoscenza dell’operazione, si scambiarono “uno sguardo d’intesa”; quando Wladimi-ro Dorigo legge queste pagine si mostra molto sorpreso e divertito, perché non ricordava questo fatto.9 La canzone è Die Fahne hoch! di Horst Wessel (927).10 F. Crepax, Grazie Mac, Milano, Ponte della Grazie, 2004, pp. 27-29; il racconto dell’arresto e della breve detenzione di Crepax e Dorigo occupa in tutto una decina di pagine, e differisce in vari partico-lari dai ricordi dell’intervistato.11 L’esecuzione sulle rovine di Ca’ Giustinian avvenne il 28 luglio 944; nessuno, però, dei tredici fucilati si chiamava De Gasperi.12 Copia del biglietto è conservata presso l’archivio dell’Iveser.13 Vian, Fedeltà alla chiesa, cit.14 Ivi, p. 85.15 Guido Bellemo viene ucciso in Cansiglio dai tedeschi il 3 agosto 944.16 Vian, Fedeltà alla chiesa, cit., p. 77.17 A. Rigon, Il percorso di Dino Busetto dall’Azione Cattolica alla Resistenza, in La Resistenza e i cattolici veneziani, cit., pp. 0-2.18 Copia dei documenti nell’archivio dell’Iveser.19 “Zona d’operazione del Litorale Adriatico”: comprendeva le province del Friuli Venezia Giulia e del-la Slovenia, sottratte al governo della Repubblica sociale italiana per essere amministrate direttamente dalla Germania.20 Copia conservata nell’archivio Iveser.21 Il già citato La Resistenza e i cattolici veneziani, a cura di Bruno Bertoli.22 Cfr. anche l’intervista ad Albano Pivato.23 Grazie Mac, cit.24 Ivi, p. 27.25 Ivi, p. 36.26 In realtà si tratta di Enrico Santoni che fu nominato preside al Foscarini dopo l’allontanamento di Da Rios. 27 Bartolomeo Asara, capo dell’Ufficio Politico del sestiere di Cannaregio, fu in verità ucciso in Strada Nuova, il 7 luglio 944; alla Toletta, la sera prima, erano rimasti uccisi dallo scoppio di alcune bombe a mano i fascisti Antonio Cipollato ed Egizio Ferrieri.28 Gioventù Italiana d’Azione Cattolica.