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VITTORIO H. BEONIO-BROCCHIERI
DISPENSE
STORIA DELL’EUROPA CONTEMPORANEA: modulo L’IDENTITÀ EUROPA
Alberto Martinelli, Università di Milano,
in: “Quaderni di Sociologia”, n.55, 2011
PremessaEsiste una identità europea? E se esiste quali sono i suoi tratti distintivi? Il problema,
scientificamente interessante e politicamente rilevante, è complesso e controverso per due
fondamentali ragioni: innanzitutto, perché l’Europa è stata nei secoli un mondo aperto e
multiforme in cui si sono incrociate e confrontate diverse identità culturali che hanno
costantemente messo in discussione le credenze condivise e i legami unificanti, ragion per
cui alcuni studiosi ritengono più appropriato parlare, al plurale, di identità europee. In
secondo luogo, perché la cultura europea è diventata in gran parte la cultura della
modernità nel senso che componenti fondamentali dell’identità europea e occidentale si
sono diffuse al mondo intero, producendo una “modernizzazzione globale”, il ché induce
alcuni studiosi a pensare che sia oggi difficile, o addirittura impossibile, identificare una
specificità europea.
Circa la prima obiezione, la mia tesi è che la varietà dei codici culturali e la pluralità dei
percorsi verso e attraverso la modernità dei popoli europei non impedisce di riconoscere
che esiste un codice genetico di valori e atteggiamenti culturali, che sono distintamente
europei sin da un passato lontano, ma che si sono cristallizzati in un nucleo normativo
specifico con l’avvento della modernità, producendo profonde trasformazioni strutturali e
audaci innovazioni istituzionali.
Con riguardo alla seconda obiezione, sostengo che il fatto che la modernità sia ormai
una condizione globale comune e che un insieme di istituzioni tecnologiche, economiche e
politiche di origine europea e occidentale si siano diffuse nel mondo non implica affatto
che la modernizzazione, una volta innescata, debba inevitabilmente procedere verso
univoche strutture cognitive (razionalismo scientifico, pragmatismo strumentale,
secolarismo) e identici assetti istituzionali (un certo tipo di assetto economico, governo e
amministrazione); e che ciò cui invece assistiamo è lo sviluppo di modernità multiple (o di
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varianti della modernità) che sono influenzate dalla varietà dei contesti specifici in cui il
progetto moderno viene continuamente interpretato, reinterpretato e trasformato
(Martinelli, 2005; 2010).
L’identità europea è anche una questione politica di fondamentale importanza. È
diffusa la critica che l’Unione Europea costituisce un progetto limitato perché l’integrazione
economica dell’Europa non ha portato a una vera unione politica, anche a causa di una
mancata integrazione culturale. Si osserva che il deficit di integrazione culturale e di
rappresentanza democratica è dovuto al fatto che il processo comunitario si è fondato solo
sulla razionalità economica e non anche su un sentimento di comune appartenenza; e si
sostiene la necessità di affiancare alla politica degli interessi una politica delle identità. In
realtà, il processo di costruzione dell’Unione Europea come sistema aperto, flessibile e
multilivello che si struttura in un complesso di istituzioni sovranazionali è potuto avvenire
anche in virtù di una eredità culturale comune e di valori condivisi, che andrebbero tuttavia
rafforzati per definire una chiara e distinta identità europea.
Le diverse identità dei popoli europei coesistono con una comune identità europea che
è il portato di una eredità storica (la filosofia greca, il diritto romano, la tradizione religiosa
ebraico-cristiana, la civiltà rinascimentale), ma che si è cristallizzata con l’avvento della
modernità in un specifico nucleo valoriale e istituzionale organizzato intorno al rapporto
dialettico tra razionalità e individualismo/soggettività, producendo fondamentali innovazioni
scientifico-tecniche, economiche, politiche e culturali (il capitalismo di mercato, la liberal-
democrazia, lo stato nazionale, le grandi università di ricerca); in quest’ottica il progetto
europeo è ancora un progetto moderno, lungi dall’essere compiuto, è in effetti espressione
di una modernità radicale.
1. Una o molte identità europee?
In apparenza non vi è una identità, ma molte identità europee che si sono sviluppate
nel corso della storia dei popoli europei e sono state formalmente riconosciute e
alimentate nei processi di nation building degli stati europei, interagendo con una ampia
gamma di altre identità sub-nazionali e transnazionali. Questa molteplicità di culture è
stata fonte di fratture, conflitti, controversie idiosincratiche e anche di gravi errori e crimini,
ma ha anche mostrato una notevole capacità di assimilare e integrare e di creare
straordinarie opportunità di progresso scientifico e tecnico, crescita economica e
innovazione sociale e culturale.2
La civiltà europea si è caratterizzata per l’incrocio di diversi atteggiamenti culturali e
assetti istituzionali, ma anche per un forte orientamento sia dei centri che delle periferie
verso scopi e ideali comuni (tra cui fondamentali l’autonomia e la responsabilità
dell’individuo, la tensione tra ordine mondano e trascendente, come rileva Eisenstadt,
1987). L’Europa è tradizionalmente un mondo aperto e plurale che mette continuamente in
discussione le sue credenze e i suoi legami, un grande laboratorio sociale in cui unità e
molteplicità hanno interagito in una tensione continua, tra contrasti profondi. Riconoscere
questa peculiarità europea consente di evitare due posizioni opposte ed egualmente
insoddisfacenti: da un lato, la puntuale definizione di un elenco di elementi culturali
consolidati esclusivamente europei, che ci distinguerebbero da tutti gli altri popoli;
dall’altro, la negazione di ogni tratto culturale comune e la definizione di una identità
europea solo in termini negativi, come permanente conflitto e confuso crocevia di identità
etniche, locali e nazionali.
Il tentativo di definire che cosa sia l’identità europea oggi può partire solo dalla
interpretazione critica dei grandi processi storici che hanno generato l’Europa moderna;
mediante l’analisi della dialettica tra cambiamento e persistenza e l’alternanza di aperture
verso altri mondi e chiusure nei propri confini geografici ed etnici; attraverso lo studio della
sequenza di lotte, dapprima tra le entità sovranazionali del papa e dell’imperatore e le
entità nazionali e locali come le repubbliche cittadine e i nascenti stati sovrani, e poi tra i
diversi stati nazionali che si scontrano per l’egemonia politica del continente; attraverso la
disamina delle grandi fratture tra centro e periferia, Stato e Chiesa, città e campagna,
borghesia e proletariato nel travagliato percorso verso e attraverso la modernità (che
vengono delineate nella mappa geo-politica dell’Europa di Rokkan, 1970 e 1975). Tratto
distintivo dell’identità europea è la dialettica costante tra Weltanschauungen diverse e
spesso in conflitto e lo sviluppo di una mente critica che rimette continuamente in
discussione teorie e credenze egemoniche e costituisce la base del pensiero scientifico
europeo.
Dalla ricognizione storica appare chiaramente come l’Europa contemporanea sia
un’Europa della differenza e della diversità e che suo carattere distintivo sia la
straordinaria complessità dell’eredità culturale, in cui le differenti realtà coesistono in forme
sia conflittuali che cooperative (commerci e guerre) senza perdere le loro specificità. Nella
nuova Europa la pluralità delle culture – che per secoli ha contribuito a uno stato semi-
permanente di guerre locali e generali – può essere oggi considerato un bene comune e
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una risorsa fondamentale per lo sviluppo di una comunità libera e prospera, pacificamente
diversificata al suo interno e aperta verso l’esterno.
Riconoscere questo specifico tratto della vicenda europea non deve, tuttavia, indurre a
negare l’esistenza di alcuni elementi costitutivi di una cultura europea, una sorta di codice
genetico che, pur costantemente modificato e diversamente declinato nelle differenti
contingenze storiche e geopolitiche, identifica una specifica identità europea. Questi
elementi costitutivi, rintracciabili in vario grado e forma nelle diverse regioni d’Europa,
sono di natura istituzionale, ma sono radicati in valori, norme, atteggiamenti e linguaggi
che trovano una loro sintetica caratterizzazione nella costante tensione tra razionalismo e
individualismo/soggettività. Ho analizzato in modo approfondito questo tema nel
libro Transatlantic Divide (2007), in questa sede ne discuterò gli aspetti essenziali.
2. Gli elementi costitutivi dell’identità europea
Possiamo identificare il valore di fondo della identità europea e occidentale nella
costante tensione tra razionalismo e individualismo/soggettività, considerati come principi
opposti e complementari allo stesso tempo. Questi due principi hanno caratterizzato
l’intera storia europea, dalla filosofia greca e dal diritto romano alle tradizioni religiose
ebraica e cristiana, ma si coagularono in un insieme specifico di orientamenti culturali e di
assetti istituzionali soltanto con l’avvento della modernità. Questi principi esprimono la
tensione tra libertà individuale e organizzazione sociale. Come radici culturali hanno
generato lo specifico atteggiamento moderno che consiste nell’assenza di limiti. “L’identità
europea è quella di una civiltà liberatasi dai vincoli, che oltrepassa costantemente i suoi
limiti, interni ed esterni, creando in tal modo la propria impronta distintiva (D’Andrea, 2001,
134). Il ritratto dell’Ulisse dantesco ne rappresenta una metafora appropriata.
L’illimitatezza che definisce la modernità – e l’identità europea come suo luogo di origine –
appare con particolare evidenza nella inesauribile sete di conoscenza.
Una concezione simile venne espressa da Jaspers (1947) nel corso dell’acceso
dibattito sui fondamenti della ricostruzione dell’Europa che si sviluppò alla fine della
seconda guerra mondiale. Jaspers identifica nella libertà, nella storia e nella scienza i tre
fattori che costituiscono l’essenza dell’Europa. Il primo fattore, il desiderio di libertà, è
universale, ma si è sviluppato al massimo in Europa. Ha significato la vittoria sul
dispotismo e un senso di giustizia che si è trasformato in istituzioni concrete e ha
alimentato un senso di irrequietudine e di fermento costanti tra gli Europei. La libertà ha 4
nutrito il secondo fattore: il bisogno di comprendere il tempo storico e di svolgere un ruolo
attivo come esseri umani dentro la polis. Per Jaspers, infatti, la vera libertà è la ricerca
della libertà politica dentro la comunità, ovvero lo sviluppo dell’individuo insieme a quello
del mondo sociale che lo circonda. Il terzo fattore, la scienza, è anch’esso collegato alla
libertà, nel senso che si definisce come lo sforzo costante di penetrare nel cuore di tutto
ciò che può essere penetrato. Sono la conoscenza e l’amore per la conoscenza che
rendono gli esseri umani liberi, attribuendo loro non solo la libertà esterna che si
acquisisce mediante la conoscenza della natura, ma anche e soprattutto la libertà interna
che promana dalla conoscenza di sé e degli altri.
La ricerca della conoscenza era ben viva nelle antiche civiltà, ma ha ricevuto un nuovo
impeto dalla modernità europea, in cui la conoscenza è stata liberata dalla sua
subordinazione a una verità religiosa data o da un fine politico specifico. L’incessante
ricerca della conoscenza è il prodotto della mente critica che originò nell’ethos filosofico
greco e si sviluppò nella critica storica dell’Illuminismo. Lo sviluppo della scienza è
connesso alla forza trascinante della tecnologia e del capitalismo che, a loro volta, sono
collegati alla credenza nel progresso incessante. La modernità europea è stata l’epoca
del Prometeo liberato di Shelley che esprime l’assenza di limiti etici e religiosi nel dominio
tecnico della natura. Il capitalismo è il modo di produzione basato sulla strumentalità
tecnica e sulla massimizzazione della razionalità economica, che sono necessarie per
competere con successo sul mercato.
Il razionalismo europeo si è manifestato in una varietà di forme diverse:
dall’architettura romanica alla pittura del Rinascimento, dalla filosofia di Cartesio alla
musica di Bach, dal cittadino democratico dell’Illuminismo all’homo
oeconomicus dell’economia capitalistica. Si può definire in senso generale come la
capacità della mente umana di conoscere, controllare e trasformare la natura (secondo
una concezione del mondo come ambiente che può essere modellato allo scopo di
soddisfare bisogni e desideri umani) e come fiducia degli esseri umani nella loro capacità
di perseguire razionalmente i propri fini e in ultima analisi di essere artefici del loro destino.
Con la sua fiducia nel potere della ragione di controllare e trasformare la natura, il
razionalismo europeo è stato il terreno di coltura delle scoperte scientifiche e geografiche
e delle innovazioni tecnologiche e imprenditoriali. La fiducia nella ragione è strettamente
connessa alla percezione dell’assenza di limiti, a quella particolare irrequietezza degli
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Europei, che è simboleggiata dalle figure paradigmatiche dell’Ulisse dantesco e del Faust goethiano, ed è esemplificata da tanti avvenimenti della storia europea, dai viaggi
transoceanici alle avventure coloniali e allo “spirito della frontiera” americano.
La ragione è stata, d’altro canto, concepita anche come un sistema di regole condivise
che rende possibile la coesistenza nella società. Kant non ha scritto un’apologia della
ragione, ma una indagine circa i suoi limiti. La mente razionale è forte solo se è
consapevole dei propri limiti, se non pretende di conoscere la verità assoluta, ma apre la
strada a una ricerca incessante. In tal senso la ragione è intrinsecamente anti-totalitaria e
direttamente correlata alla libertà dell’individuo.
Il razionalismo è strettamente connesso, complementare e insieme contrapposto,
all’altra caratteristica fondamentale dell’identità europea e occidentale:
l’individualismo/soggettività. Anche l’individualismo ha assunto molte forme di espressione
diverse nel tempo e nello spazio dell’Europa: il personalismo evangelico dei cristiani,
l’individualismo dei liberi abitanti delle repubbliche autonome medievali, il soggetto
economico razionale nel mercato, il libero cittadino delle moderne democrazie liberali e la
soggettività riflessiva degli Europei contemporanei. Come il razionalismo, l’individualismo
si è sviluppato all’interno dell’eredità culturale della storia europea, ma è emerso
pienamente soltanto con l’avvento della modernità. L’individualismo è alla radice dei
principi di libertà e di uguaglianza affermati dal Giusnaturalismo (che asserisce che tutti gli
esseri umani sono uguali in quanto dotati di ragione), dal pensiero politico anglosassone,
dall’Illuminismo francese e tedesco. I principi di libertà e di uguaglianza vennero
riconosciuti nelle prerogative del Parlamento inglese dopo la “rivoluzione gloriosa” del
1688-89 e proclamati solennemente dalla Costituzione americana del 1776 e
dalla Declaration de Droits de l’Homme et du Citoyen del 1789.
Questi principi affermano i diritti inviolabili degli individui alla vita, alla libertà e alla
piena realizzazione delle proprie potenzialità. La libertà si esprime sia come libertà
negativa, ovvero come protezione dei diritti umani contro gli abusi del potere, sia come
libertà positiva, ovvero come diritto dei cittadini di partecipare alla formazione della volontà
comune. L’uguaglianza venne inizialmente definita come uguaglianza dei diritti e doveri
della cittadinanza e come uguale trattamento da parte della legge; ma presto divenne
anche uguaglianza delle opportunità e delle chances di vita, aprendo così la strada al
liberalismo progressivo, alla socialdemocrazia e alle politiche di welfare, che hanno
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costituito una componente essenziale della cultura politica europea del ventesimo secolo
(Martinelli, Salvati et al., 2009). In base a queste concezioni, essere europei significa
impegnarsi per realizzare i principi sia di libertà che di uguaglianza; e, in effetti, la lotta per
realizzare compromessi soddisfacenti ed efficaci tra libertà e uguaglianza è stato
un leitmotiv nella storia del pensiero politico europeo (Cerutti, Rudolph, 2001).
Individualismo e soggettività non sono concetti identici. C’è una tendenza a usare
preferibilmente il primo da parte degli studiosi che hanno una visione positiva della
modernità, in cui la coscienza della propria individualità è considerata uno dei tratti
essenziali della modernità, accanto alla crescita della conoscenza scientifica, lo sviluppo di
una Weltanschauung secolare, la dottrina del progresso e la concezione contrattualistica
della società. Il concetto di soggettività è, invece, preferito da quanti propongono una
visione alternativa della modernità, che è critica della tendenza al calcolo pragmatico
dell’utilità, dell’arida ricerca dell’arricchimento, della carenza di passione morale e che
pone, per contro, l’accento sulla cura di sé, sulla espressione spontanea, sulla autenticità
della esperienza. In realtà, l’individualismo economico e politico e la soggettività morale ed
estetica sono dimensioni dello stesso principio, e questo principio interagisce a sua volta
dialetticamente con il principio di razionalità. Non si tratta delle radici di due concezioni
alternative della modernità (una più elogiativa e una più critica, una più attenta ai processi
strutturali e una più interessata agli aspetti culturali), ma, piuttosto, degli elementi della
stessa sindrome culturale e istituzionale (Martinelli, 2005). Il mondo dell’imprenditore
capitalista è un mondo di cambiamento incessante e di innovazione creativa che offre un
contesto favorevole anche alla estetica del sé. Immaginazione e ragione non sono
nemiche, ma piuttosto alleate, sia nel lavoro dello scienziato come in quello dell’artista.
Entrambe cercano di esplorare e di sperimentare ogni cosa senza sottoporsi a limiti.
Il rapporto dialettico tra il principio di razionalità (con le sue connesse forme
istituzionali delle economie market-driven, degli stati burocratici, delle città metropolitane
funzionalmente organizzate) e il principio di individualismo/soggettività si manifesta anche
nella doppia matrice di cambiamento e routine in cui vive l’io moderno. “Ognuna di quelle
figure indimenticabili della modernità – il rivoluzionario di Marx, il dandy di Baudelaire,
il superuomo di Nietzsche, lo scienziato sociale di Weber, lo straniero di Simmel,
l’uomo senza qualità di Musil, il flaneur di Benjamin – è afferrato e trascinato via dalla
fretta intossicante di un cambiamento epocale e tuttavia si trova determinato e inquadrato
in un sistema di ruoli e funzioni sociali” (Gaonkar, 2001). Vale la pena di rilevare che
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questa lista di personaggi (cui aggiungerei l’imprenditore di Schumpeter) è strettamente
europea, il che costituisce una prova ulteriore del fatto che la cultura della modernità è
strettamente connessa alla identità europea (includendo in essa i popoli dell’Europa fuori
dell’Europa), anche se è opportuno precisare che nel mondo contemporaneo esistono
modernità multiple, ovvero percorsi diversi verso e attraverso la modernità.
Il razionalismo, l’individualismo/soggettività, l’incessante ricerca della conoscenza,
l’innovazione e la scoperta, la costituzione del sé come soggetto autonomo, il rifiuto del
limite, i principi di libertà e uguaglianza di diritti, doveri e opportunità, rappresentano gli
elementi costitutivi di una identità europea che si è nutrita della eredità storica del
continente (in primo luogo il lascito della tradizione cristiana e della antichità greco-
romana), ma che si è pienamente sviluppata nella civiltà della modernità che è nata
nell’Europa occidentale e si è poi estesa alle altri parti d’Europa, alle Americhe e al mondo
intero, contribuendo allo sviluppo delle modernità multiple, ovvero delle mutevoli forme
culturali e istituzionali che si sono dispiegate nelle diverse regioni del mondo anche in
risposta alle sfide, minacce e opportunità derivanti dalle caratteristiche distintive della
modernità occidentale (Eisenstadt, 2001; Martinelli, 2005).
Nella civiltà moderna i valori, gli atteggiamenti e le interpretazioni della realtà, che si
fondono in uno specifico programma culturale, si combinano con un insieme di nuove
forme istituzionali, anche queste per lo più sperimentate prima in Europa e, quindi, diffuse
in America e nel resto del mondo, dando vita alle istituzioni caratteristiche del mercato e
dell’impresa capitalistica, dello stato nazionale e della democrazia poliarchica,
dell’università e della comunità di ricerca. Le discuteremo adesso sinteticamente.
Iniziamo dalla scienza e dalla tecnologia europea e occidentale, con cui si intende un
particolare approccio alla conoscenza della realtà fisica e umana capace di trasformare la
natura al fine di soddisfare bisogni individuali e sociali. La profondità della religione e della
filosofia indiana e cinese, la ricchezza del pensiero scientifico e religioso dell’Islam, lo
sviluppo delle conoscenze astronomiche in Mesopotamia o nell’America pre-colombiana,
sono soltanto alcune prove del fatto che la conoscenza occidentale non è affatto
eccezionale. Ciò che è in essa specifico è la sua maggiore propensione a coniugare
scoperte scientifiche, invenzioni e innovazioni tecnologiche sotto la pressione costante sia
della guerra che della concorrenza commerciale. Specifica è pure la maggiore capacità di
disegnare istituzioni particolarmente adatte alla formazione e alla diffusione delle
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conoscenze: le università medievali italiane, francesi e spagnole, le accademie scientifiche
britanniche del XII secolo, le università di ricerca tedesche del XIX, i grandi laboratori di
ricerca dell’America contemporanea. La modernità europea non è stata solo un pacchetto
di sviluppi tecnologici e organizzativi; si è legata strettamente a una rivoluzione politica e a
una altrettanto importante trasformazione delle pratiche e delle istituzioni della ricerca
scientifica (Wittrock, 2000). L’Europa ha inventato e perfezionato una modalità di
comprensione della scienza che si è sviluppata a partire dal Rinascimento ed è divenuto
un modello globale. Le sue principali caratteristiche, secondo Rudolph, sono il
riconoscimento del ruolo della matematica come misura della esattezza scientifica,
l’unione tra libertà di investigazione e libertà di critica, la dipendenza della conoscenza
empirica dalla riflessione concettuale (Cerutti, Rudolph, 2001).
La seconda innovazione istituzionale è il capitalismo industriale di mercato. Il suo
principio guida è la costante ricerca di massimizzazione razionale dell’utilità per competere
con successo nel mercato. La combinazione efficiente dei fattori della produzione
nell’impresa industriale e lo scambio di beni e servizi nel mercato auto-regolato sono le
due istituzioni fondamentali dello sviluppo capitalistico. La rivoluzione industriale del XVIII
secolo (un potente processo di innovazione, accumulazione del capitale, sfruttamento del
lavoro ed espansione del mercato) si verificò anche grazie alla disponibilità di ferro e
carbone e di surplus derivanti dall’agricoltura e dal commercio di lunga distanza, ma fu,
innanzitutto, generato dal legame specifico con la rivoluzione scientifico-tecnica della
modernità. Commerci e mercati si sono sviluppati anche negli antichi imperi e in gran parte
del mondo non-europeo, ma la particolare combinazione di rivoluzione industriale e
mercato auto-regolato ha rappresentato una specificità europea che ha fornito alla crescita
capitalistica una forza e un dinamismo senza precedenti.
Il capitalismo è stato aspramente criticato, in particolare da Marx e dagli studiosi della
tradizione marxista, ma si è dimostrato un modello più efficace di organizzazione dei
rapporti economici rispetto al modello alternativo della economia di piano, si è trasformato
attraverso crisi endemiche, si è globalizzato e ha dato vita a varianti di capitalismo con
diversi assetti politico-istituzionali (la variante anglosassone market-driven, la variante
europeo-continentale dell’economia sociale di mercato, la variante scandinava, la variante
autoritaria asiatica).
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La terza componente istituzionale fondamentale della identità europea, lo stato
nazionale, è collegata in modo più controverso ai valori del razionalismo e
dell’individualismo di quanto non siano la scienza e la tecnica o il mercato e l’impresa
capitalistici. Gli stati nazionali sono l’incarnazione istituzionale dell’autorità politica nella
società moderna; sono caratterizzati dall’unicità di un popolo e di un territorio e da una
cultura distintiva; presero lentamente forma in opposizione agli imperi multietnici e alla
Chiesa sovranazionale, e si svilupparono nel tempo mediante la crescita di una burocrazia
civile, un esercito (e talvolta una flotta) e una diplomazia, e grazie all’azione di élites
modernizzanti che seppero costruire l’idea di nazione evocando comuni radici etniche e
legami simbolici.
Lo stato-nazionale è una tipica costruzione europea che è stata esportata con
successo nel resto del mondo, una istituzione peculiare che scaturisce dall’incontro tra
una organizzazione politica sovrana, autonoma e centralizzata, da una parte, e una
comunità fondata su legami, reali o immaginari, di sangue, linguaggio, tradizioni condivise
e memoria collettiva, dall’altra. La sua relazione con la cultura dell’individualismo e del
razionalismo è ambivalente e complessa. Una delle due componenti, la nazione, affonda
le sue radici nei legami primordiali, fa appello alle passioni e alle emozioni e pone
l’accento sui fini collettivi. L’altra componente, lo stato, è un organizzazione razionale che
si è evoluta mediante il rapporto con la legge e lo sviluppo di una amministrazione
pubblica efficiente.
Oggi lo stato nazionale è sottoposto a due tipi di pressione: le reti di interdipendenza
globale erodono la sua sovranità “dall’alto”, mentre la riaffermazione delle identità locali e
le richieste di autonomia sfidano la sua pretesa di controllo centralistico “dal basso”.
Ciononostante, esso continua a rappresentare l’organizzazione politica fondamentale e un
attore chiave delle relazioni internazionali e della politica globale contemporanea. La sua
crescita ha comportato un processo di centralizzazione e la soppressione delle molte e
disparate autonomie socio-culturali delle comunità locali delle società pre-moderne. Ma i
rischi della centralizzazione statale per la libertà individuale sono stati tenuti a freno dallo
sviluppo delle istituzioni della democrazia rappresentativa, ovvero da un sistema politico
composto da funzionari eletti che rappresentano gli interessi e le opinioni dei cittadini in un
contesto di governo della legge, che si fonda sulla sovranità popolare e sul consenso dei
cittadini.
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La democrazia rappresentativa costituisce, in effetti, un quarto aspetto della identità
europea e occidentale. La polis greca, la res publica romana, le libere città dell’Italia, della
Germania e delle Fiandre nel tardo Medioevo sono stati tutti antecedenti di questa
specificità europea. Le varie forme di parlamento, governo della maggioranza e protezione
dei diritti delle minoranze, elezioni libere e periodiche, separazione dei poteri costituzionali,
libertà di stampa e di associazione sono tutte innovazioni nate e cresciute nella cultura
europea e poi sviluppatesi negli Stati Uniti d’America (la prima ‘nuova nazione’ costruita
dagli emigranti europei) nel corso delle tre grandi rivoluzioni democratiche moderne:
l’inglese, l’americana e la francese.
Il “catalogo” delle caratteristiche distintive della identità europea non sarebbe completo
senza un riferimento alla relazione ambivalente tra la religione cristiana e i principi
dell’individualismo/soggettività e del razionalismo. Da una parte, il Cristianesimo insieme
al diritto romano ha contribuito allo sviluppo dell’individualismo europeo e occidentale.
Come ha rilevato Weber, le grandi profezie razionali della Bibbia, il piano razionale di vita
degli ordini monastici e la teoria della predestinazione hanno contribuito alla crescita della
mentalità razionale (1920); i nostri più alti valori e le norme associate ad essi, come la
dignità e l’inviolabilità della persona, i diritti umani, la coscienza e la responsabilità
individuale non possono essere estrapolati e si sono anzi definiti e articolati attraverso la
teologia e l’esperienza storica della tradizione religiosa ebraico-cristiana; la distinzione tra
potere temporale e potere spirituale, che origina dal celeberrimo “date a Dio quel che è di
Dio e a Cesare quel che è di Cesare” ma è stata ottenuta attraverso lotte secolari, è un
principio ormai consolidato delle democrazie occidentali moderne. Dall’altra parte, la
religione cristiana ha avuto fin dalle origini un forte elemento comunitario, che si è
manifestato nelle prime comunità di cristiani, nella trasformazione degli eremiti in ordini
monastici a partire da quello fondato da Benedetto da Norcia e, in particolare (nelle
versioni cattolica e ortodossa), nella mediazione tra il credente e Dio esercitata dalle
cerimonie religiose e dal clero; e la nozione della assenza del limite e la credenze
dell’uomo come artefice del proprio destino, tratti distintivi della mentalità moderna, sono
state fortemente contrastate dalla posizione anti-modernista della Chiesa cattolica.
Sebbene il Cristianesimo sia nato in Medio-Oriente, si è tendenzialmente identificato
con la cultura europea, i suoi confini hanno progressivamente coinciso con quelli
dell’Europa finché, a partire dal XV secolo, attraverso la colonizzazione, si è andato
estendendo alle altre regioni del mondo. Il fattore religioso nell’identità culturale
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dell’Europa non ha tuttavia comportato una semplice unità indifferenziata, sia perché altre
religioni come l’Islam hanno svolto un ruolo rilevante, sia per la grande diversità religiosa
del Cristianesimo stesso con i suoi numerosi movimenti ereticali, lo scisma tra Chiesa
ortodossa e Chiesa cattolica e la Riforma protestante.
Questi elementi culturali e istituzionali di fondo hanno contribuito a definire l’identità
dell’Europa e di quelle altre parti del mondo, a cominciare dalle Americhe, che possiamo
definire “l’Europa fuori dell’Europa”; non hanno tuttavia formato un insieme coerente,
entrando in conflitto gli uni con gli altri (come nel caso del mercato e della democrazia,
delle credenze religiose e della ricerca scientifica, del nazionalismo e della pace), e non
hanno prodotto soltanto esiti positivi ed effetti desiderabili.
Valori e atteggiamenti condivisi sono una risorsa per costruire l’unione politica, sempre
più necessaria nel mondo globalizzato, ma avendo piena consapevolezza che l’identità
europea non è solo il portato di un percorso storico comune e di una memoria condivisa,
ma è anche la costruzione di un progetto futuro; non consiste nella passiva conservazione
di valori passati, ma nella tensione realizzativa verso l’unità politica che richiede un
impegno quotidiano dei cittadini e delle istituzioni europee. Il progetto europeo, nato dalla
volontà di porre fine alle secolari guerre civili europee e dalla percezione di comuni
interessi economici, si è sviluppato grazie alla condivisione di principi etici e norme sociali
(diritti civili, stato di diritto, libertà di intraprendere, welfare state, scienza critica,
interculturalità) e può essere definito come il tentativo di conseguire l’unità mediante la
diversità, negando la vecchia credenza che tutto ciò che è diverso è anche ostile e
rinunciando a costruire l’identità sulla contrapposizione tra “noi” e “loro”. L’identità europea
è resa possibile dall’eredità culturale comune che innerva i diversi ethnos europei, ma può
svilupparsi solo mediante la crescita di un demos europeo definito in termini di un
complesso di diritti e doveri condivisi, capace di consolidare i vincoli della cittadinanza
entro istituzioni democratiche liberamente scelte.
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JOSEPH RATZINGER, 13 maggio 2004, Conferenza tenuta alla Biblioteca del Senato, Sala Capitolare del Chiostro della Minerva
L'Europa - Cos'è essa propriamente? Questa domanda è stata sempre nuovamente
posta, in maniera espressa, dal cardinal Józef Glemp in uno dei circoli linguistici del
Sinodo Episcopale sull'Europa: dove comincia, dove finisce l'Europa? Perché ad esempio
la Siberia non appartiene all'Europa, sebbene essa sia abitata anche da europei, la cui
modalità di pensare e di vivere è inoltre del tutto europea? E dove si perdono i confini
dell'Europa nel sud della comunità di popoli della Russia? Dove corre il suo confine
nell'Atlantico? Quali isole sono Europa, e quali invece non lo sono, e perché non lo sono?
In questi incontri divenne perfettamente chiaro che Europa solo in maniera del tutto
secondaria è un concetto geografico: l'Europa non è un continente nettamente afferrabile
in termini geografici, ma è invece un concetto culturale e storico.
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1. Il sorgere dell'Europa
Questo risulta in modo assai evidente se tentiamo di risalire alle origini dell'Europa.
Chi parla dell'origine dell'Europa, rinvia solitamente ad Erodoto (ca. 484- 425 a .C.), il
quale certamente è il primo a conoscere l'Europa come concetto geografico, e la definisce
così: «i Persiani considerano come cosa di loro proprietà l'Asia e i popoli barbari che vi
abitano, mentre ritengono che l'Europa e il mondo greco siano un paese a parte». I confini
dell'Europa stessa non vengono addotti, ma è chiaro che terre che oggi sono il nucleo
dell'Europa odierna giacevano completamente al di fuori del campo visivo dell'antico
storico. Di fatto con la formazione degli stati ellenistici e dell'Impero Romano si era formato
un continente che divenne la base della successiva Europa, ma che esibiva tutt'altri
confini: erano le terre tutt'attorno al Mediterraneo, le quali in virtù dei loro legami culturali,
in virtù dei traffici e dei commerci, in virtù del comune sistema politico formavano le une
insieme alle altre un vero e proprio continente. Solo l'avanzata trionfale dell'Islam nel VII e
all'inizio dell'VIII secolo ha tracciato un confine attraverso il Mediterraneo, lo ha per così
dire tagliato a metà, cosicché tutto ciò che fino ad allora era stato un continente si
suddivideva adesso oramai in tre continenti: Asia, Africa, Europa.
In oriente la trasformazione del mondo antico si compì più lentamente che in
occidente: l'Impero Romano con Costantinopoli come punto centrale resistette laggiù –
anche se sempre più spinto ai margini – fino al XV secolo. Mentre la parte meridionale del
Mediterraneo attorno all'anno 700 è completamente caduta fuori di quello che fino ad
allora era un continente culturale, si verifica nel medesimo tempo una sempre più forte
estensione verso il nord. Il limes, che sino ad allora era stato un confine continentale,
scompare e si apre verso un nuovo spazio storico, che ora abbraccia la Gallia , la
Germania , la Britannia come terre-nucleo vere e proprie, e si protende in maniera
crescente verso la Scandinavia. In questo processo di spostamento dei confini la
continuità ideale con il precedente continente mediterraneo, misurato geograficamente in
termini differenti, venne garantita da una costruzione di teologia della storia: in
collegamento con il libro di Daniele, si considerava l'Impero Romano rinnovato e
trasformato dalla fede cristiana come l'ultimo e permanente regno della storia del mondo
in generale, e si definiva perciò la compagine di popoli e di stati che era in via di
formazione come il permanente Sacrum Imperium Romanum. Questo processo di una
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nuova identificazione storica e culturale è stato compiuto in maniera del tutto consapevole
sotto il regno di Carlo Magno, e qui emerge ora nuovamente anche l'antico nome di
Europa, in un significato mutato: questo vocabolo venne ora impiegato addirittura come
definizione del regno di Carlo Magno, ed esprimeva al tempo stesso la coscienza della
continuità e della novità con cui la nuova compagine di stati si presentava come la forza
propriamente carica di futuro. Carica di futuro proprio perché si concepiva in continuità con
la storia del mondo fino ad allora e ultimamente ancorata in ciò che permane sempre. Nell'
autocomprensione che andava così formandosi è espressa parimenti la consapevolezza
della definitività, così come al tempo stesso la consapevolezza di una missione. È vero
che il concetto di Europa è pressoché nuovamente scomparso dopo la fine del regno
carolingio ed è rimasto solamente conservato nel linguaggio dei dotti; nel linguaggio
popolare esso trapassa solamente all'inizio dell'epoca moderna – certo in connessione
con il pericolo dei Turchi, come modalità di autoidentificazione –, per imporsi in generale
nel XVIII secolo. Indipendentemente da questa storia del termine, il costituirsi del regno
dei Franchi come l'Impero Romano mai tramontato e ora rinato significa di fatto il passo
decisivo verso ciò che noi oggi intendiamo quando parliamo di Europa. Certo non
possiamo dimenticare che c'è anche una seconda radice dell'Europa, di un'Europa non
occidentale: l'Impero Romano aveva in effetti, come già detto, resistito a Bisanzio contro le
tempeste della migrazione dei popoli e dell'invasione islamica. Bisanzio intendeva se
stessa come la vera Roma; qui di fatto l'Impero non era mai tramontato, ragion per cui si
continuava ad avanzare una rivendicazione nei confronti dell'altra metà, quella
occidentale, dell'Impero. Anche questo Impero Romano d'Oriente si è esteso ulteriormente
verso il nord, fin dentro il mondo slavo, e si è creato un proprio mondo, greco-romano, che
si differenzia rispetto all'Europa latina dell'occidente in virtù di una diversa liturgia, una
diversa costituzione ecclesiastica, una diversa scrittura, e in virtù della rinuncia al latino
come comune lingua insegnata. Certamente ci sono anche sufficienti elementi unificanti,
che possono fare dei due mondi un unico, comune continente: in primo luogo la comune
eredità della Bibbia e della Chiesa antica, la quale del resto in entrambi i mondi rinvia
aldilà di se stessa verso un'origine che ora giace al di fuori dell'Europa, e cioè in Palestina;
inoltre la stessa comune idea di Impero, la comune comprensione di fondo della Chiesa e
quindi anche la comunanza delle fondamentali idee del diritto e degli strumenti giuridici;
infine io menzionerei anche il monachesimo, che nei grandi sommovimenti della storia è
rimasto l'essenziale portatore non solamente della continuità culturale, bensì soprattutto
dei fondamentali valori religiosi e morali, degli orientamenti ultimi dell'uomo, e in quanto
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forza pre-politica e sovra-politica divenne portatore delle sempre nuovamente necessarie
rinascite. Tra le due Europe, pur in mezzo alla comunanza dell'essenziale eredità
ecclesiale, c'è tuttavia ancora una profonda differenza, alla cui importanza ha accennato
specialmente Endre von Ivanka: a Bisanzio Impero e Chiesa appaiono quasi identificati
l'uno con l'altro; l'imperatore è capo anche della Chiesa. Egli intende se stesso come
rappresentante di Cristo, e in collegamento con la figura di Melchisedek, che era al tempo
stesso re e sacerdote (Gen 14,18), porta dal VI secolo il titolo ufficiale di «re e sacerdote».
Per il fatto che a partire da Costantino l'imperatore se ne era andato via da Roma,
nell'antica capitale dell'Impero poté svilupparsi la posizione autonoma del vescovo di
Roma come successore di Pietro e pastore supremo della Chiesa; qui già dall'inizio
dell'era costantiniana viene insegnata una dualità di potestà: imperatore e papa hanno in
effetti potestà separate, nessuno dispone della totalità. Il papa Gelasio I (492-496) ha
formulato la visione dell'Occidente nella sua famosa lettera all'imperatore Anastasio e
ancor più chiaramente nel suo quarto trattato, dove egli di fronte alla tipologia bizantina di
Melchisedek sottolinea che l'unità delle potestà sta esclusivamente in Cristo: «questi
infatti, a causa della debolezza umana (superbia!), ha separato per i tempi successivi i due
ministeri, affinché nessuno si insuperbisca» (c. 11). Per le cose della vita eterna gli
imperatori cristiani hanno bisogno dei sacerdoti (pontifices), e questi a loro volta si
attengono, per il corso temporale delle cose, alle disposizioni imperiali. I sacerdoti devono
seguire nelle cose mondane le leggi dell'imperatore insediato per ordine divino, mentre
questi deve sottomettersi nelle cose divine al sacerdote. Con ciò è introdotta una
separazione e distinzione delle potestà, la quale divenne di massima importanza per il
successivo sviluppo dell'Europa, e che per così dire ha posto i fondamenti di ciò che è
propriamente tipico dell'Occidente. Poiché da ambo le parti di contro a tali delimitazioni
rimase vivo sempre l'impulso alla totalità, la brama di porre il proprio potere al di sopra
dell'altro, questo principio di separazione è divenuto anche la sorgente di infinite
sofferenze. Come esso debba essere vissuto correttamente e concretizzato politicamente
e religiosamente rimane un problema fondamentale anche per l'Europa di oggi e di
domani.
2. La svolta verso l'epoca moderna
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Se in base a quanto sin qui detto possiamo considerare il sorgere dell'impero
carolingio da una parte, e la continuazione dell'impero romano a Bisanzio e la sua
missione verso i popoli slavi dall'altra parte come la vera e propria nascita del continente
Europa, l'inizio dell'epoca moderna significa per ambedue le Europe una svolta, un
cambiamento radicale, che concerne sia l'essenza di questo continente, sia i suoi contorni
geografici. Nel 1453 Costantinopoli venne conquistata dai Turchi. O. Hiltbrunner
commenta questo evento in maniera laconica: «gli ultimi ... dotti emigrarono... verso l'Italia
e trasmisero agli umanisti del Rinascimento la conoscenza dei testi originali greci; ma
l'Oriente sprofondò nell'assenza di cultura». Questa affermazione può essere formulata in
maniera un po' troppo rozza, poiché in effetti anche il regno della dinastia degli Osman
aveva la sua cultura; ma è vero che la cultura greco-cristiana, europea, di Bisanzio trovò
con ciò la sua fine. Così una delle due ali dell'Europa rischiò in tal modo di scomparire, ma
l'eredità bizantina non era morta: Mosca dichiara se stessa come la terza Roma, fonda ora
un proprio patriarcato sulla base dell'idea di una seconda translatio imperii e si presenta
dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium, come una propria forma di
Europa, che tuttavia rimase unita con l'Occidente e si orientò sempre più verso di esso,
fino a che Pietro il Grande tentò di farla diventare un paese occidentale. Questo
spostamento verso nord dell'Europa bizantina portò con sé il fatto che ora anche i confini
del continente si misero in movimento ampiamente verso oriente. La fissazione degli Urali
come frontiera è oltremodo arbitraria, in ogni caso il mondo a oriente di essi diventò
sempre più una specie di sottostruttura dell'Europa, né Asia né Europa, essenzialmente
forgiato dal soggetto Europa, senza partecipare però esso stesso del suo carattere di
soggetto: oggetto, e non portatore esso stesso della sua storia. Forse con ciò è definita,
tutto sommato, l'essenza di uno stato coloniale. Possiamo dunque, a riguardo dell'Europa
bizantina, non occidentale, all'inizio dell'epoca moderna, parlare di un duplice evento: da
una parte vi è il dissolvimento dell'antica Bisanzio con la sua continuità storica nei
confronti dell'Impero Romano; dall'altra parte questa seconda Europa ottiene con Mosca
un nuovo centro e amplia i suoi confini verso oriente, per erigere infine in Siberia una
specie di pre-struttura coloniale. Contemporaneamente possiamo constatare anche in
occidente un duplice processo con notevole significato storico. Una grande parte del
mondo germanico si distacca da Roma; sorge una nuova, illuminata forma di
cristianesimo, cosicché attraverso l'occidente scorre d'ora in poi una linea di separazione,
la quale forma chiaramente anche un limes culturale, un confine tra due diverse modalità
di pensare e di rapportarsi. Certo c'è anche all'interno del mondo protestante una frattura,
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in primo luogo tra luterani e riformati, ai quali si associano metodisti e presbiteriani, mentre
la chiesa anglicana tenta di formare una via di mezzo tra cattolici ed evangelici; a ciò si
aggiunge poi anche la differenza tra cristianesimo sotto la forma di una chiesa di stato,
che diventa contrassegno dell'Europa, e chiese libere, che trovano il loro spazio di rifugio
nel Nordamerica, sulla qual cosa dovremo tornare a parlare. Facciamo attenzione in primo
luogo al secondo evento, che caratterizza essenzialmente la situazione dell'epoca
moderna di quella che un tempo era l'Europa latina: la scoperta dell'America.
All'allargamento verso est dell'Europa in virtù della progressiva estensione della Russia
verso l'Asia corrisponde la radicale uscita dell'Europa fuori dai suoi confini geografici,
verso il mondo che sta aldilà dell'Oceano, che ora riceve il nome di America; la
suddivisione dell'Europa in una metà latino-cattolica e una metà germanico-protestante si
trasferisce e si ripercuote su questa parte della terra occupata dall'Europa. Anche
l'America diventa in un primo tempo una Europa allargata, una colonia, ma essa si crea
contemporaneamente con il sommovimento dell'Europa ad opera della Rivoluzione
Francese il suo proprio carattere di soggetto: dal XIX secolo in poi essa, sebbene forgiata
nel profondo dalla sua nascita europea, sta tuttavia di fronte all'Europa come un soggetto
proprio. Nel tentativo di conoscere la più profonda, interiore identità dell'Europa attraverso
lo sguardo sulla storia abbiamo adesso preso in osservazione due fondamentali svolte
storiche: come prima la dissoluzione del vecchio continente mediterraneo ad opera del
continente del Sacrum Imperium, collocato più verso nord, in cui si forma a partire
dall'epoca carolingia la Europa come mondo occidentale-latino; accanto a questo la
continuazione della vecchia Roma a Bisanzio, con il suo protendersi verso il mondo slavo.
Come secondo passo avevamo osservato la caduta di Bisanzio e il conseguente
spostamento da una parte dell'Europa verso nord e verso est dell'idea cristiana di impero,
e dall'altra parte l'interna divisione dell'Europa in un mondo germanico-protestante e un
mondo latino-cattolico, e oltre a ciò la fuoriuscita verso l'America, a cui si trasferisce
questa divisione e che alla fine si costituisce come un soggetto storico proprio, che sta di
fronte all'Europa. Ora noi dobbiamo porci davanti agli occhi una terza svolta, il cui fanale
ben visibile fu formato dalla Rivoluzione Francese. È vero che il Sacrum Imperium come
realtà politica già a partire dal tardo Medioevo era concepito in dissolvimento ed era
divenuto sempre più fragile anche come valida e indiscussa interpretazione della storia,
ma soltanto adesso questa cornice spirituale va in frantumi anche formalmente, questa
cornice spirituale senza cui l'Europa non avrebbe potuto formarsi. Questo è un processo di
portata considerevole, sia dal punto di vista politico, sia da quello ideale. Dal punto di vista
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ideale questo significa che la fondazione sacrale della storia e dell'esistenza statuale viene
rigettata : la storia non si misura più in base ad un'idea di Dio ad essa precedente e che le
dà forma; lo Stato viene oramai considerato in termini puramente secolari, fondato sulla
razionalità e sul volere dei cittadini. Per la prima volta in assoluto nella storia sorge lo
Stato puramente secolare, che abbandona e mette da parte la garanzia divina e la
normazione divina dell'elemento politico, considerandole come una visione mitologica del
mondo e dichiara Dio stesso come affare privato, che non fa parte della vita pubblica e
della comune formazione del volere. Questa viene ora vista solamente come un affare
della ragione, per la quale Dio non appare chiaramente conoscibile: religione e fede in Dio
appartengono all'ambito del sentimento, non a quello della ragione. Dio e la sua volontà
cessano di essere rilevanti nella vita pubblica. In questa maniera sorge, con la fine del
XVIII secolo e l'inizio del XIX, un nuovo tipo di scisma, la cui gravità noi percepiamo ora
sempre più nettamente. Esso non ha in tedesco alcun nome, poiché qui si è ripercosso più
lentamente. Nelle lingue latine viene delineato come divisione tra cristiani e laici. Questa
lacerazione negli ultimi due secoli è penetrata nelle nazioni latine come una frattura
profonda, mentre il cristianesimo protestante in un primo tempo ebbe vita facile nel
concedere spazio alle idee liberali e illuministe all'interno di sé, senza che la cornice di un
ampio consenso cristiano di fondo dovesse in tal modo venir distrutta. L'aspetto di politica
realistica della dissoluzione dell'antica idea di impero consiste in questo, che ora
definitivamente le nazioni, gli stati che sono divenute identificabili come tali in virtù della
formazione di ambiti linguistici unitari, appaiono come i veri e unici portatori della storia, e
dunque ottengono un rango che ad essi in precedenza non spettava così tanto. La
drammaticità esplosiva di questo soggetto storico ora plurale si mostra nel fatto che le
grandi nazioni europee si sapevano depositarie di una missione universale, che
necessariamente doveva portare a conflitti fra di loro, il cui impatto mortale noi abbiamo
dolorosamente sperimentato nel secolo ora trascorso.
3. L 'universalizzazione della cultura europea e la sua crisi
Infine dobbiamo qui considerare ancora un ulteriore processo, con cui la storia degli
ultimi secoli trapassa chiaramente in un mondo nuovo. Se la vecchia Europa precedente
all'epoca moderna nelle sue due metà aveva conosciuto essenzialmente solo un
dirimpettaio, con il quale doveva confrontarsi per la vita e per la morte, ossia il mondo
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islamico; se la svolta dell'epoca moderna aveva portato l'allargamento verso l'America e in
parti dell'Asia senza propri grandi soggetti culturali, così ora ha luogo la fuoriuscita verso i
due continenti sinora toccati solo marginalmente: l'Africa e l'Asia, che adesso parimenti si
tentò di trasformare in succursali dell'Europa, in colonie. Fino ad un certo punto questo è
anche riuscito, in quanto adesso anche Asia e Africa inseguono l'ideale del mondo forgiato
dalla tecnica e del suo benessere, cosicché anche là le antiche tradizioni religiose entrano
in una situazione di crisi e strati di pensiero puramente secolare dominano sempre più la
vita pubblica. Ma c'è anche un effetto contrario: la rinascita dell'Islam non è solo collegata
con la nuova ricchezza materiale dei paesi islamici, bensì è anche alimentata dalla
consapevolezza che l'Islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei
popoli, una base che sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così,
nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come
condannata al declino e al tramonto. Anche le grandi tradizioni religiose dell'Asia,
soprattutto la sua componente mistica che trova espressione nel buddismo, si elevano
come potenze spirituali di contro ad un'Europa che rinnega le sue fondamenta religiose e
morali. L'ottimismo circa la vittoria dell'elemento europeo, che Arnold Toynbee poteva
sostenere ancora all'inizio degli anni sessanta, appare oggi stranamente superato: «di 28
culture che noi abbiamo identificato... 18 sono morte e nove delle dieci rimaste – di fatto
tutte tranne la nostra – mostrano che esse sono già colpite a morte». Chi ripeterebbe oggi
ancora le stesse parole? E in generale – cos'è la nostra cultura, che è ancora rimasta? La
cultura europea è forse la civiltà della tecnica e del commercio diffusa vittoriosamente per
il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine
delle antiche culture europee? Io vedo qui una sincronia paradossale: con la vittoria del
mondo tecnico-secolare post-europeo, con l'universalizzazione del suo modello di vita
della sua maniera di pensare, si collega in tutto il mondo, ma specialmente nei mondi
strettamente non-europei dell'Asia e dell'Africa, l'impressione che il mondo di valori
dell'Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla
fine e sia propriamente già uscito di scena; che adesso sia giunta l'ora dei sistemi di valori
di altri mondi, dell'America pre-colombiana, dell'Islam, della mistica asiatica. L'Europa,
proprio in questa ora del suo massimo successo, sembra diventata vuota dall'interno,
paralizzata in un certo qual senso da una crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che
mette a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi però non possono che
eliminare la sua identità. A questo interiore venir meno delle forze spirituali portanti
corrisponde il fatto che anche etnicamente l'Europa appare sulla via del congedo. C'è una
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strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro, vengono visti come una
minaccia per il presente; essi ci portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Essi
non vengono sentiti come una speranza, bensì come un limite del presente. Il confronto
con l'Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice
storica, ma in pratica viveva già di quelli che dovevano dissolverlo, poiché esso stesso non
aveva più alcuna energia vitale. Con questo siamo giunti ai problemi del presente. Circa il
possibile futuro dell'Europa ci sono due diagnosi contrapposte. C'è da una parte la tesi di
Oswald Spengler, il quale credeva di poter fissare per le grandi espressioni culturali una
specie di legge naturale: c'è il momento della nascita, la crescita graduale, la fioritura di
una cultura, il suo lento appesantirsi, l'invecchiamento e la morte. Spengler arricchisce la
sua tesi in modo impressionante, con documentazioni tratte dalla storia delle culture, in cui
si può intravedere questa legge del decorso naturale. La sua tesi era che l'Occidente
sarebbe giunto alla sua epoca finale, che corre inesorabilmente incontro alla morte di
questo continente culturale, nonostante tutti i tentativi di scongiurarla. Naturalmente
l'Europa può trasmettere i suoi doni ad una cultura nuova emergente, come è già
accaduto nei precedenti declini di una cultura, ma in quanto soggetto essa ha ormai il suo
tempo di vita alle sue spalle. Questa tesi bollata come biologistica ha trovato appassionati
oppositori nel tempo tra le due guerre mondiali specialmente in ambito cattolico; in
maniera impressionante le si è mosso contro anche Arnold Toynbee, certo con postulati
che oggi trovano poco ascolto. Toynbee mette in luce la differenza tra progresso
materiale-tecnico da una parte, e dall'altra progresso reale, che egli definisce come
spiritualizzazione. Egli ammette che l'Occidente – il mondo occidentale – si trova in una
crisi, la cui causa egli la vede nel fatto che dalla religione si è decaduti al culto della
tecnica, della nazione, del militarismo. La crisi significa per lui, ultimamente: secolarismo.
Se si conosce la causa della crisi, si può indicare anche la via della guarigione: deve
essere nuovamente introdotto il fattore religioso, di cui fa parte secondo lui l'eredità
religiosa di tutte le culture, ma specialmente quello «che è rimasto del cristianesimo
occidentale». Alla visione biologistica si contrappone qui una visione volontaristica, che
punta sulla forza delle minoranze creative e sulle personalità singole eccezionali. La
domanda che si pone è: è giusta questa diagnosi? E se sì – è in nostro potere introdurre
nuovamente il momento religioso, in una sintesi di cristianesimo residuale ed eredità
religiosa dell'umanità? Ultimamente la questione tra Spengler e Toynbee rimane aperta,
perché noi non possiamo vedere nel futuro. Ma indipendentemente da ciò si impone il
compito di interrogarci su che cosa può garantire il futuro, e su che cosa è in grado di
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continuare a far vivere l'interiore identità dell'Europa attraverso tutte le metamorfosi
storiche. O ancora più semplicemente: che cosa anche oggi e domani promette di donare
la dignità umana e un'esistenza conforme ad essa. Per trovare una risposta a ciò
dobbiamo gettare lo sguardo ancora una volta dentro il nostro presente e al tempo stesso
tener presenti le sue radici storiche. In precedenza eravamo rimasti fermi, in effetti, alla
Rivoluzione Francese e al XIX secolo. In questo tempo si sono sviluppati soprattutto due
nuovi modelli europei. Ecco qui allora nelle nazioni latine il modello laicistico: lo Stato è
nettamente distinto dagli organismi religiosi, che sono attribuiti all'ambito privato. Lo Stato
stesso rifiuta un fondamento religioso e si sa fondato solamente sulla ragione e sulle sue
intuizioni. Di fronte alla fragilità della ragione questi sistemi si sono rivelati fragili e facili a
cadere vittima delle dittature; essi sopravvivono, propriamente, solo perché parti della
vecchia coscienza morale continuano a sussistere anche senza i precedenti fondamenti e
rendono possibile un consenso morale di base. Dall'altra parte, nel mondo germanico,
esistono in maniera differenziata i modelli di Chiesa di Stato del protestantesimo liberale,
nei quali una religione cristiana illuminata, essenzialmente concepita come morale –
anche con forme di culto garantite dallo Stato – garantisce un consenso morale e un
fondamento religioso ampio, al quale le singole religioni non di Stato devono adeguarsi.
Questo modello in Gran Bretagna, negli stati scandinavi e in un primo tempo anche nella
Germania dominata dai prussiani ha garantito per lungo tempo una coesione statuale e
sociale. In Germania, tuttavia, il crollo del cristianesimo di Stato prussiano ha creato un
vuoto, che poi parimenti si offrì come spazio vuoto per una dittatura. Oggi le chiese di
Stato sono dappertutto cadute vittima del logoramento: da corpi religiosi che sono
derivazioni dello Stato non proviene più alcuna forza morale, e o Stato stesso non può
creare forza morale, ma la deve invece presupporre e costruire su di essa. Tra i due
modelli si collocano gli Stati Uniti del Nord-America, che da una parte – formatisi sulla
base delle chiese libere – prendono le mosse da un rigido dogma di separazione, dall'altra
parte, aldilà delle singole denominazioni, vengono plasmati tuttavia da un consenso di
fondo cristiano-protestante non forgiato in termini confessionali, il quale si collegava con
una particolare coscienza della missione, nei confronti del resto del mondo, di tipo
religioso e così dava al fattore religioso un significativo peso pubblico, che in quanto forza
pre-politica e sovra-politica poteva essere determinante per la vita politica. Certo non ci si
può nascondere che anche negli Stati Uniti il dissolvimento dell'eredità cristiana avanza
incessantemente, mentre al tempo stesso il rapido aumento dell'elemento ispanico e la
presenza di tradizioni religiose provenienti da tutto il mondo cambia il quadro. Forse si
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deve qui osservare anche che gli Stati Uniti promuovono ampiamente la
protestantizzazione dell'America Latina e quindi il dissolvimento della Chiesa cattolica ad
opera di forme di chiese libere, per la convinzione che la Chiesa cattolica non potrebbe
garantire un sistema politico ed economico stabile, in quanto dunque fallirebbe come
educatrice delle nazioni, mentre ci si aspetta che il modello delle chiese libere renderà
possibile un consenso morale e una formazione democratica della volontà pubblica, simili
a quelli caratteristici degli Stati Uniti. Per complicare ulteriormente il quadro si deve
ammettere che oggi la Chiesa cattolica forma la più grande comunità religiosa negli Stati
Uniti, che essa nella sua vita di fede sta decisamente dalla parte dell'identità cattolica, che
però i cattolici a riguardo del rapporto tra Chiesa e politica hanno recepito le tradizioni
delle chiese libere, nel senso che proprio una Chiesa non confusa con lo Stato garantisce
meglio le fondamenta morali del tutto, cosicché la promozione dell'ideale democratico
appare come un dovere morale profondamente conforme alla fede. In una posizione simile
si può vedere a buon diritto una prosecuzione, adeguata ai tempi, del modello di papa
Gelasio, di cui ho parlato sopra. Torniamo all'Europa. Ai due modelli di cui parlavo prima
se ne è aggiunto ancora nel XIX secolo un terzo, ossia il socialismo, che si suddivise
presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella democratica. Il socialismo democratico
è stato in grado, a partire dal suo punto di partenza, di inserirsi all'interno dei due modelli
esistenti, come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali, le ha
arricchite e corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al di là delle
confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa
loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella Germania
guglielmina il centro cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo democratico che alle
forze conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo
democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso ha
considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale. Il modello
totalitario, invece, si collegava con una filosofia della storia rigidamente materialistica e
ateistica: la storia viene compresa deterministicamente come un processo di progresso
che passa attraverso la fase religiosa e quella liberale per giungere alla società assoluta e
definitiva, in cui la religione come relitto del passato viene superata e il funzionamento
delle condizioni materiali può garantire la felicità di tutti. L'apparente scientificità nasconde
un dogmatismo intollerante: lo spirito è prodotto della materia; la morale è prodotto delle
circostanze e deve venir definita e praticata a seconda degli scopi della società; tutto ciò
che serve a favorire l'avvento dello stato finale felice è morale. Qui il capovolgimento dei
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valori che avevano costruito l'Europa è completo. Ancor più, qui si realizza una frattura nei
confronti della complessiva tradizione morale dell'umanità: non ci sono più valori
indipendenti dagli scopi del progresso, tutto può, in un dato momento, essere permesso e
persino necessario, può essere morale nel senso nuovo del termine. Anche l'uomo può
diventare uno strumento; non conta il singolo, ma unicamente il futuro diventa la terribile
divinità che dispone sopra tutti e sopra tutto. I sistemi comunisti frattanto sono naufragati
innanzitutto per il loro falso dogmatismo economico. Ma si trascura troppo volentieri il fatto
che essi sono naufragati, più a fondo ancora, per il loro disprezzo dei diritti umani, per la
loro subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro.
La vera e propria catastrofe che essi hanno lasciato alle loro spalle non è di natura
economica; essa consiste nell'inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza
morale. Io vedo come un problema essenziale della nostra ora per l'Europa e per il mondo
questo, che non viene mai contestato il naufragio economico, e perciò i vetero-comunisti
sono diventati senza esitazione liberali in economia; invece la problematica morale e
religiosa, di cui propriamente si trattava, viene quasi completamente rimossa. Pertanto la
problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi: il
dissolversi delle certezze primordiali dell'uomo su Dio, su se stessi e sull'universo, la
dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e proprio adesso
nuovamente il nostro problema e può condurre all'autodistruzione della coscienza
europea, che dobbiamo cominciare a considerare – indipendentemente dalla visione del
tramonto di Spengler – come un reale pericolo.
4. A che punto siamo oggi?
Così ci troviamo davanti alla questione: come devono andare avanti le cose? Nei
violenti sconvolgimenti del nostro tempo c'è un'identità dell'Europa, che abbia un futuro e
per la quale possiamo impegnarci con tutto noi stessi? Non sono preparato per entrare in
una discussione dettagliata sulla futura Costituzione europea. Vorrei soltanto brevemente
indicare gli elementi morali fondanti, che a mio avviso non dovrebbero mancare. Un primo
elemento è l' "incondizionatezza" con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere
presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti
fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, «ma piuttosto
esistono per diritto proprio, sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a
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lui previamente dati come valori di ordine superiore». Questa validità della dignità umana
previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore:
solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono
intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria
garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il
mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all'uomo.
Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della dignità umana e dei
diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione politica; sono ancora troppo recenti gli
orrori del nazismo e della sua teoria razzista. Ma nell'ambito concreto del cosiddetto
progresso della medicina ci sono minacce molto reali per questi valori: sia che noi
pensiamo alla clonazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di
ricerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto l'ambito della
manipolazione genetica – la lenta consunzione della dignità umana che qui ci minaccia
non può venir misconosciuta da nessuno. A ciò si aggiungono in maniera crescente i
traffici di persone umane, le nuove forme di schiavitù, l'affare dei traffici di organi umani a
scopo di trapianti. Sempre vengono addotte finalità buone, per giustificare quello che non
è giustificabile. In questi settori ci sono nella Carta dei diritti fondamentali alcuni punti fermi
di cui rallegrarsi, ma in importanti punti essa rimane troppo vaga, mentre invece proprio
qui ne va della serietà del principio che è in gioco. Riassumiamo: la fissazione per iscritto
del valore e della dignità dell'uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le affermazioni
di fondo della democrazia e dello stato di diritto, implica un'immagine dell'uomo,
un'opzione morale e un'idea di diritto niente affatto ovvie, ma che sono di fatto
fondamentali fattori di identità dell'Europa, che dovrebbero venir garantiti anche nelle loro
conseguenze concrete e che certamente possono venir difesi solamente se si forma
sempre nuovamente una corrispondente coscienza morale. Un secondo punto in cui
appare l'identità europea è il matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come
struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula
nella formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso
ha dato all'Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto particolare e
la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui
delineata dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e sofferenze.
L'Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale
scomparisse o venisse essenzialmente cambiata. La Carta dei diritti fondamentali parla di
diritto al matrimonio, ma non esprime nessuna specifica protezione giuridica e morale per
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esso e nemmeno lo definisce più precisamente. E tutti sappiamo quanto il matrimonio e la
famiglia siano minacciati, da una parte mediante lo svuotamento della loro indissolubilità
ad opera di forme sempre più facili di divorzio, dall'altra attraverso un nuovo
comportamento che si va diffondendo sempre di più, la convivenza di uomo e donna
senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso contrasto con tutto ciò vi è la richiesta
di comunione di vita di omosessuali, che ora paradossalmente richiedono una forma
giuridica, la quale più o meno deve venir equiparata al matrimonio. Con questa tendenza
si esce fuori dal complesso della storia morale dell'umanità, che nonostante ogni diversità
di forme giuridiche del matrimonio sapeva tuttavia sempre che questo, secondo la sua
essenza, è la particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e così alla
famiglia. Qui non si tratta di discriminazione, bensì della questione di cos'è la persona
umana in quanto uomo e donna e di come l'essere assieme di uomo e donna può ricevere
una forma giuridica. Se da una parte il loro stare assieme si distacca sempre più da forme
giuridiche, se dall'altra l'unione omosessuale viene vista sempre più come dello stesso
rango del matrimonio, siamo allora davanti ad una dissoluzione dell'immagine dell'uomo,
le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi. Il mio ultimo punto è la
questione religiosa. Non vorrei entrare qui nelle discussioni complesse degli ultimi anni,
ma mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei
confronti di ciò che per l'altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso
più alto, per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a
credere in Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una società qualcosa di
essenziale va perduto. Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi disonora
la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Viene multato anche
chiunque vilipende il Corano e le convinzioni di fondo dell'Islam. Laddove invece si tratta di
Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come
il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la
tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione trova però il suo limite in questo,
che essa non può distruggere l'onore e la dignità dell'altro; essa non è libertà di mentire o
di distruggere i diritti umani. C'è qui un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può
considerare solo come qualcosa di patologico; l'Occidente tenta sì in maniera lodevole di
aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più sé stesso; della sua propria
storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di
percepire ciò che è grande e puro. L'Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova –
certamente critica e umile – accettazione di sé stessa, se essa vuole davvero
26
sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e
favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle
cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti in comune, senza
punti di orientamento a partire dai valori propri. Essa sicuramente non può sussistere
senza rispetto di ciò che è sacro. Di essa fa parte l'andare incontro con rispetto agli
elementi sacri dell'altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è
estraneo a noi stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli
altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto
davanti a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso – del Dio che ha
compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio
che è talmente umano che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che
soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza. Se non facciamo questo, non solo
rinneghiamo l'identità dell'Europa, bensì veniamo meno anche ad un servizio agli altri che
essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo la profanità assoluta che si è andata
formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un
mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare
nuovamente in noi stessi. Come andranno le cose in Europa in futuro non lo sappiamo. La
Carta dei diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno che l'Europa cerca
nuovamente in maniera cosciente la sua anima. In questo bisogna dare ragione a
Toynbee, che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani
credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a
che l'Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio
dell'intera umanità.
JÜRGEN HABERMAS: L´Europa alla ricerca dell´identità perduta, 4 giugno 2003
Due date non possiamo dimenticare: non il giorno nel quale i giornali comunicarono ai
loro sconcertati lettori la dichiarazione di lealtà a Bush che il primo ministro spagnolo
aveva fatto sottoscrivere ai governi europei favorevoli alla guerra, alle spalle degli altri
colleghi dell´Unione. Ma nemmeno il 15 febbraio 2003, quando le manifestazioni di massa
a Londra, Roma, Madrid e Barcellona, Berlino e Parigi reagirono a questo colpo di mano.
La contemporaneità di queste gigantesche dimostrazioni - le più grandi dalla fine della
seconda guerra mondiale - potrebbe essere indicata retrospettivamente nei libri di storia
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come il segnale della nascita di un´opinione pubblica europea. Durante i mesi di piombo
precedenti lo scoppio della guerra in Iraq una divisione del lavoro moralmente oscena
aveva scosso le coscienze. La grande operazione logistica dell´inarrestabile spiegamento
di forze militari e la febbrile operosità delle organizzazioni di soccorso umanitario si
innestarono l´una nell´altra come ruote dentate. Lo spettacolo si svolse senza interruzioni
anche sotto gli occhi della popolazione irachena, che - privata di qualsiasi possibilità di
iniziativa - ne sarebbe stata la vittima. Senza dubbio, la forza dei sentimenti ha rimesso in
piedi i cittadini europei. Nello stesso tempo, però, la guerra ha reso gli europei consapevoli
del fallimento, profilatosi da lungo tempo, della loro politica estera comune. Come in tutto il
mondo, la disinvolta violazione del diritto internazionale ha acceso anche da noi in Europa
una polemica sul futuro dell´ordine internazionale. Ma gli argomenti contrapposti ci hanno
coinvolto più profondamente.
In occasione di questa polemica le ben note linee di frattura si sono solo fatte più
evidenti. Le prese di posizione controverse sul ruolo della superpotenza, sul futuro ordine
mondiale, sulla rilevanza del diritto internazionale e dell´Onu hanno fatto sì che i contrasti
latenti si manifestassero apertamente. La spaccatura tra paesi continentali e paesi
anglosassoni da un lato e, dall´altro, tra la «vecchia Europa» e i candidati dell´Europa
centro-orientale all´ingresso nell´Unione, si è approfondita. In Gran Bretagna la special
relationship con gli Stati Uniti non è affatto esente da contestazioni, ma continua a stare al
primo posto nell´ordine delle priorità di Downing Street. E i paesi dell´Europa centro-
orientale aspirano, certo, a entrare nell´Unione europea, ma non per questo sono senz
´altro disposti a vedere limitata la propria sovranità, da così poco tempo riconquistata. La
crisi dell´Iraq è stata soltanto il catalizzatore. Anche nella Convenzione per la costituzione
europea di Bruxelles si manifesta il contrasto tra le nazioni che vogliono davvero un
rafforzamento dell´Unione europea e quelle che hanno un interesse comprensibile a
congelare lo status quo dell´attuale gestione intergovernativa dell´Unione o al massimo a
modificarla con interventi di pura cosmesi istituzionale. Ora il contrasto non può più essere
ignorato.
La futura costituzione ci darà un ministro degli Esteri europeo. Ma a che serve una
nuova carica, se i governi non si uniscono in una politica comune? Anche un Fischer con
una qualifica diversa resterebbe impotente come Solana. Per il momento solo gli stati
membri appartenenti al «nocciolo duro» sono disposti ad attribuire all´Unione europea certi
caratteri statali. Che fare, se solo questi paesi riescono a trovare un´unità sulla definizione
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dei «propri interessi»? Se l´Europa non vuole andare in frantumi, questi paesi devono ora
far uso del meccanismo, messo a punto a Nizza, della «collaborazione rafforzata», per
dare inizio a una comune politica estera, della sicurezza e della difesa in "un´Europa a
diverse velocità». Ne deriverà un effetto vortice al quale non potranno sottrarsi gli altri
paesi membri - a cominciare da quelli della zona euro. Nel quadro della futura costituzione
europea non può e non deve esserci nessun separatismo. Andare avanti non significa
escludere. L´Europa avanguardistica del «nocciolo duro» non può rattrappirsi in una
piccola Europa; deve piuttosto - come è spesso accaduto - fare da locomotiva. Gli stati
membri dell´Unione europea che cooperano più strettamente apriranno le porte già per il
proprio interesse. Attraverso queste porte i paesi invitati entreranno tanto più facilmente,
quanto prima il «nocciolo duro» dell´Europa sarà capace di agire anche verso l´esterno e
dimostrerà che in una società mondiale complessa non contano soltanto le armate, ma
anche il potere soffice dei negoziati, delle relazioni e dei vantaggi economici. In questo
mondo non vale la pena di semplificare la politica fino a ridurla all´alternativa tanto stupida
quanto costosa di guerra e pace. L´Europa deve far sentire il suo peso sul piano
internazionale e nel quadro dell´Onu, per bilanciare l´unilateralismo egemonico degli Stati
Uniti. Ai vertici dell´economia mondiale e nelle istituzioni dell´Organizzazione per il
commercio mondiale, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale
dovrebbe far sentire la sua influenza contribuendo a tracciare le linee di una futura politica
interna mondiale. Tuttavia, la politica di un ulteriore ampliamento dell´Unione europea
trova oggi i suoi limiti negli strumenti della gestione amministrativa. Finora le riforme hanno
tratto impulso dagli imperativi funzionali della creazione di un´area economica e monetaria
comune. Queste forze motrici si sono esaurite. Una politica progettuale, che non esiga
dagli stati membri soltanto la rimozione degli ostacoli alla concorrenza, ma anche una
volontà comune, è attenta alle idee e al modo di sentire dei cittadini stessi. Le
deliberazioni a maggioranza circa le scelte e gli orientamenti più impegnativi in politica
estera possono essere accettate solo se le minoranze perdenti sono solidali. Questo però
implica un sentimento di appartenenza politica. Le popolazioni devono in certo modo
«accrescere» le loro identità nazionali, estendendole a una dimensione europea. La
solidarietà ancor oggi piuttosto astratta tra cittadini di uno stato, che si limita agli
appartenenti alla propria nazione, in futuro dovrà allargarsi ai cittadini europei di altre
nazioni.
Tutto questo solleva la questione dell´”identità europea”. Solo la consapevolezza di un
destino politico comune e la convincente prospettiva di un futuro comune può far sì che la 29
volontà della maggioranza non tolga la voce alle minoranze sconfitte. In linea di principio i
cittadini di una nazione devono considerare la cittadina di un´altra nazione come «una di
noi». Questo auspicio porta alla questione sulla quale si sono levate tante voci scettiche: ci
sono esperienze storiche, tradizioni e conquiste che fondano per i cittadini europei la
coscienza di un destino politico che li ha accomunati e al quale essi devono dar forma in
comune? Una «visione» attraente o addirittura contagiosa di un´Europa futura non cade
dal cielo. Oggi può nascere soltanto da un´inquietante sensazione di disorientamento. Ma
può anche essere l´esito dell´imbarazzo prodotto da una situazione nella quale noi europei
siamo rimandati a noi stessi. E deve articolarsi nella cacofonia selvaggia di un´opinione
pubblica a molte voci. Se finora questo tema non è mai stato all´ordine del giorno, noi
intellettuali abbiamo fallito.
Insidie di un´identità europea È facile unirsi su ciò che non è vincolante. E tutti
hanno davanti agli occhi l´immagine di un´Europa pacifica, cooperativa, aperta ad altre
culture e capace di dialogare. Noi salutiamo l´Europa che nella seconda metà del
ventesimo secolo ha trovato soluzioni esemplari per due problemi. In primo luogo, l
´Unione europea oggi si propone come una forma di «governo al di là dello stato
nazionale», che potrebbe fare scuola nella costellazione postnazionale. In secondo luogo,
anche i modelli europei di stato sociale sono stati per lungo tempo esempi da imitare. Sul
piano dello stato nazionale, oggi sono sulla difensiva. Ma una futura politica di
addomesticamento del capitalismo in spazi senza confini non può ricadere dietro i criteri di
giustizia sociale che essi hanno fissato. Perché l´Europa, che è stata capace di venire a
capo di due problemi di queste proporzioni, non dovrebbe affrontare anche la sfida
ulteriore di difendere e portare avanti un ordine cosmopolitico sulla base del diritto
internazionale, contro progetti concorrenti? Un discorso ordito su scala europea dovrebbe
però incontrarsi con orientamenti già esistenti, che in certo modo attendono di essere
stimolati da un processo di autocomprensione. Due dati di fatto sembrano contraddire
questa audace ipotesi. Le più importanti conquiste storiche dell´Europa non hanno forse
perduto la loro forza di creare un´identità proprio in seguito al loro successo mondiale? E
cosa deve tenere insieme una parte del mondo che come nessun´altra si caratterizza per
la persistente rivalità tra nazioni orgogliose della propria identità? Poiché il cristianesimo e
il capitalismo, la scienza e la tecnica, il diritto romano e il codice napoleonico, la forma di
vita urbana e borghese, la democrazia e i diritti umani, la secolarizzazione dello Stato e
della società si sono diffusi ad altri continenti, queste conquiste non costituiscono più una
peculiarità. La fisionomia spirituale occidentale, che si radica nella tradizione ebraico-30
cristiana, possiede certo tratti caratteristici. Ma anche questa impostazione spirituale,
connotata dall´individualismo, dal razionalismo e dall´attivismo, è condivisa dalle nazioni
europee con gli Stati Uniti, il Canada e l´Australia. L´Occidente come orizzonte spirituale
abbraccia ben più che la sola Europa. Inoltre, l´Europa consiste di Stati nazionali che si
delimitano polemicamente l´uno rispetto all´altro. La coscienza nazionale, che riceve la
sua impronta dalle lingue, dalle letterature e dalle storie nazionali, ha per lungo tempo
agito come un materiale esplosivo. Tuttavia, in reazione alla forza distruttiva di questo
nazionalismo hanno preso forma dei modelli di mentalità che dal punto di vista dei non
europei danno un volto tutto suo all´Europa odierna, nella sua incomparabile, vasta
pluralità culturale. Una cultura che da molti secoli, attraverso conflitti tra città e campagna,
o tra poteri religiosi e poteri secolari, attraverso la concorrenza tra fede e sapere, la lotta
tra i detentori del dominio politico e le classi antagoniste è stata lacerata più di tutte le altre
culture, non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le differenze possano
comunicare, i contrasti possano essere istituzionalizzati e le tensioni possano essere
stabilizzate. Anche il riconoscimento delle differenze - il reciproco riconoscimento dell´altro
nella sua alterità - può diventare il contrassegno di un´identità comune. La pacificazione
dei conflitti di classe operata dallo stato sociale e l´autolimitazione della sovranità statale
nel quadro dell´Unione europea sono solo gli esempi più recenti di tutto ciò. Nel terzo
quarto del ventesimo secolo l´Europa al di qua della cortina di ferro ha vissuto, secondo le
parole di Eric Hobsbawm, la sua «età dell´oro». Da allora sono riconoscibili i tratti di una
mentalità politica comune, sicché spesso gli altri vedono in noi l´europeo anziché il
tedesco o il francese - e questo non solo a Hong Kong, ma perfino a Tel Aviv. È proprio
vero: rispetto ad altre parti del mondo, nelle società europee la secolarizzazione è
progredita di molto. Qui i cittadini considerano con sospetto gli sconfinamenti tra politica e
religione. Gli europei hanno una fiducia relativamente grande nelle prestazioni
organizzative e nelle capacità gestionali dello Stato, mentre sono scettici rispetto all
´efficienza del mercato. Essi possiedono un senso spiccato della «dialettica dell
´illuminismo», non nutrono nei confronti dei progressi tecnici aspettative incrollabilmente
ottimistiche. Sono portati a preferire le garanzie di sicurezza dello Stato sociale o i sistemi
di regolazione solidale. La soglia di tolleranza rispetto all´esercizio della violenza sulle
persone è comparativamente bassa. Il desiderio di un ordine internazionale multilaterale e
giuridicamente regolato si lega alla speranza in una effettiva politica interna mondiale nel
quadro di un´Onu riformata. La costellazione che ha consentito ai favoriti europei
occidentali di sviluppare questa mentalità all´ombra della guerra fredda si è dissolta dal
31
1989-´90. Ma il 15 febbraio dimostra che la mentalità è sopravvissuta anche al suo
contesto di origine. Questo spiega anche perché la «vecchia Europa» si vede sfidata dalla
risoluta politica egemonica della superpotenza alleata. E perché così tanti che in Europa
salutano la caduta di Saddam come una liberazione respingono il carattere di violazione
del diritto internazionale assunto dall´invasione unilaterale, preventiva, tanto sconcertante
quanto insufficientemente motivata. Ma quanto è stabile questa mentalità? Ha radici in
esperienze e tradizioni storiche profonde? Oggi sappiamo che molte tradizioni politiche
che rivendicano autorità in forza di un´apparente naturalità sono state «inventate». Invece,
un´identità europea che nascesse alla luce dell´opinione pubblica sarebbe già in partenza
qualcosa di costruito. Ma solo se fosse costruita in modo arbitrario porterebbe la macchia
della pura e semplice convenzione. La volontà etico-politica che si afferma nell
´ermeneutica dei processi di autocomprensione non è arbitrio. La distinzione tra l´eredità
alla quale diamo inizio e quella che vogliamo respingere esige tanta cautela quanto la
decisione sul tipo di lettura in base al quale ci appropriamo della prima. Le esperienze
storiche si candidano solo a un´appropriazione consapevole, senza di cui non ottengono la
forza di creare un´identità. Per finire, qualche spunto su queste esperienze «candidate»,
alla luce delle quali la mentalità europea postbellica potrebbe acquisire un profilo più netto.
Radici storiche di un profilo politico Il rapporto tra Stato e Chiesa nell´Europa
moderna si è sviluppato in modo diverso al di qua e al di là dei Pirenei, a nord e a sud
delle Alpi, a ovest e a est del Reno. La neutralità del potere statale circa le visioni del
mondo ha ricevuto una configurazione giuridica differente in ciascuno dei vari paesi
europei. Ma ovunque all´interno della società civile la religione assume una analoga
posizione impolitica. Anche se per altri aspetti si può deplorare questa privatizzazione
sociale della fede, essa ha per la cultura politica una conseguenza desiderabile. Dalle
nostre parti si fa fatica a immaginare un presidente che affronta i suoi impegni ufficiali
quotidiani iniziando con una preghiera pubblica e che collega le sue decisioni politiche più
impegnative a una missione divina.
In Europa, l´emancipazione della società civile dalla tutela di un regime assolutistico non
corrispose ovunque alla presa di possesso e alla trasformazione democratica del moderno
stato amministrativo. Ma l´irradiazione ideale della Rivoluzione francese su tutta l´Europa
spiega, tra l´altro, perché qui alla politica in entrambe le sue configurazioni - sia come
medium della garanzia di libertà che come potere organizzativo - sia stata assegnata una
funzione positiva. Invece, l´affermazione del capitalismo è andata di pari passo con aspri
contrasti di classe. Questo ricordo impedisce anche una valutazione non prevenuta del 32
mercato. Il diverso giudizio su politica e mercato può rafforzare negli europei la fiducia
sulla capacità ordinatrice di uno stato che opera come un fattore di civiltà, dal quale si
attendono anche il rimedio ai «guasti del mercato». Il sistema dei partiti uscito dalla
Rivoluzione francese è stato spesso copiato. Ma solo in Europa esso è anche al servizio di
una competizione ideologica che sottopone le patologie sociali causate dalla
modernizzazione capitalistica a una continua valutazione politica. Questo richiede
sensibilità da parte dei cittadini per i paradossi del progresso. Il conflitto tra interpretazioni
conservatrici, liberali e socialiste comporta che si soppesi una questione: le perdite
determinate dalla disintegrazione delle forme di vita tradizionali e protettive superano i
guadagni di un progresso chimerico? Oppure i benefici prefigurati oggi per domani dai
processi di distruzione creativa superano i dolori dei perdenti della modernizzazione? In
Europa le differenze di classe che hanno perdurato tanto a lungo sono state percepite da
coloro che ne erano colpiti come un destino che poteva essere cambiato solo con l´agire
collettivo. Così, nel contesto dei movimenti dei lavoratori e delle tradizioni cristiano-sociali
si è affermato un ethos solidaristico della lotta per «più giustizia sociale», mirante a un
´assistenza uniforme, contro l´ethos individualistico di una giustizia conforme alle
prestazioni, che reca con sé stridenti disuguaglianze sociali. L´Europa attuale è
contrassegnata dalle esperienze dei regimi totalitari del ventesimo secolo e dall´Olocausto
- la persecuzione e l´annientamento degli Ebrei europei, nella quale il regime nazista ha
coinvolto anche le società dei paesi conquistati - . Le discussioni autocritiche su questo
passato hanno richiamato alla memoria i fondamenti morali della politica. Una più alta
sensibilità per le lesioni dell´integrità personale e fisica si riflette tra l´altro nel fatto che il
Consiglio europeo e l´Unione europea hanno posto come condizione di ammissibilità nell
´Unione stessa la rinuncia alla pena di morte. Un passato bellicista ha a suo tempo
trascinato tutte le nazioni europee in conflitti sanguinosi. Dopo la seconda guerra
mondiale, dalle esperienze della mobilitazione militare e spirituale delle une contro le altre
hanno tratto la conseguenza di sviluppare nuove forme di cooperazione sopranazionale.
La storia dei successi dell´Unione europea ha consolidato negli europei la convinzione che
l´addomesticamento dell´esercizio della forza da parte dello stato esige anche sul piano
globale la delimitazione reciproca dei campi d´azione sovrani. Ciascuna delle grandi
nazioni europee ha attraversato una fase di pieno dispiegamento della potenza imperiale
e, ciò che nel nostro contesto è più importante, ha dovuto elaborare l´esperienza della
perdita di un impero. Questa esperienza di declino si collega in molti casi con la perdita dei
possedimenti coloniali. Con la crescente distanza dall´epoca dei domini imperiali e della
33
storia coloniale le potenze europee hanno anche avuto l´opportunità di situarsi ad una
distanza riflessiva da se stesse. Hanno così potuto apprendere a percepirsi, dalla
prospettiva degli sconfitti, nel ruolo dubbio dei vincitori cui viene chiesta ragione della
violenza di una modernizzazione paternalistica e sradicante. Questo potrebbe aver
favorito la rinuncia all´eurocentrismo, dando le ali alla speranza kantiana in una politica
interna mondiale.
Alain de Benoist
La delusione
Quando si parla oggi dell’Europa, i termini che si incontrano più spesso sono
impotenza, paralisi, deficit democratico, opacità, architettura istituzionale
incomprensibile. L’incapacità dell’Europa di impedire la guerra nell’ex Jugoslavia, che
alla fine è sfociata nello spettacolo umiliante dei primi bombardamenti americani su
una capitale europea dalla fine della seconda guerra mondiale è stata un’illustrazione
esemplare di questa situazione. Per decenni, la costruzione europea era stata
presentata come una soluzione; adesso è diventata un problema che nessuno sa più
risolvere. Ieri offriva ragioni per sperare; oggi fa paura. Ci se ne aspettava un più, ora
se ne teme un meno. Il progetto europeo non si accompagna ad alcuna precisa
finalità. Non ha né contorni geografici né forme politiche ben caratterizzate. Manifesta
un’incertezza esistenziale tanto strategica quanto identitaria, che i “sovranisti” e gli
euroscettici hanno buon gioco nello sfruttare. Si è fatto notare da molto tempo che gli
abbandoni di sovranità accettati dalle nazioni non sono minimamente compensati da
un rafforzamento della sovranità europea. Questa assenza di trasferimenti a un attore
politico europeo sovrano è particolarmente preoccupante. Fra le nazioni e l’Europa, la
sovranità sembra svanire. Malgrado i suoi 450 milioni di abitanti, l’Europa resta una
non-potenza, incapace di definire in modo unitario una politica estera e di difesa che
corrisponda ai suoi interessi. Associando, per dirla con Régis Debray, “una struttura
economica semplice e un deserto simbolico”1, assomiglia a quel Belgio che nel 2007
è rimasto privo di governo per mesi, in attesa di un ipotetico compromesso. L’ex
ministro degli Esteri francese Hubert Védrine lo ha detto senza giri di parole:
“L’Europa non sa più chi è, né cosa vuole”. La “decostruzione” dell’Europa è
cominciata all’inizio degli anni Novanta, con i dibattiti attorno alla ratifica del trattato di
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Maastricht. Da quell’epoca il futuro dell’Europa è apparso particolarmente
problematico e un buon numero di europei convinti hanno iniziato a disincantarsi. Nel
momento in cui la globalizzazione suscitava ulteriori timori, la gente si è accorta che
“l’Europa” non garantiva un migliore potere d’acquisto, una migliore regolamentazione
degli scambi commerciali nel mondo, una diminuzione delle delocalizzazioni, un
regresso della criminalità, una stabilizzazione dei mercati dell’impiego o un controllo
più efficace dell’immigrazione; e che, anzi, accadeva il contrario. La costruzione
europea è parsa per molti versi non un rimedio alla globalizzazione, un baluardo
contro una deregolamentazione generalizzata su scala planetaria, bensì come una
tappa di quella stessa globalizzazione. Molti vi hanno visto “il vettore di una
demolizione di tutti i valori radicati in nome di un mondialismo senza memoria e senza
volto” (Jean-Michel Vernochet)2. Le critiche da destra e da sinistra, le paure nazionali
e le inquietudini sociali si sono quindi aggiunte le une alle altre e il disincanto ha
cominciato a diffondersi negli ambienti più svariati. L’esito finale è stato il “no” al
referendum del maggio 2005 sul progetto di Costituzione. Sin dall’inizio, la
costruzione dell’Europa si è di fatto svolto a discapito del buonsenso. Sono stati
commessi essenzialmente quattro errori: 1) Essere partiti dall’economia e dal
commercio invece di partire dalla politica e dalla cultura, immaginando che, per un
effetto di rimbalzo, la cittadinanza economica si sarebbe tradotta meccanicamente in
cittadinanza politica. 2) Aver voluto creare l’Europa partendo dall’alto, invece che dal
basso. 3) Aver preferito un allargamento frettoloso a paesi mal preparati per entrare
in Europa ad un approfondimento delle strutture politiche esistenti. 4) Non aver mai
voluto prendere una posizione chiara ed impegnativa sulle frontiere dell’Europa e
sulle finalità della costruzione europea. All’indomani della seconda guerra mondiale, i
promotori della costruzione europea avevano il dichiarato obiettivo di creare le
condizioni per una pace duratura in un’Europa devastata nel corso del XX secolo da
due sanguinose guerre civili. Quell’ambizione coincideva con il crollo di un ordine del
mondo eurocentrico, ma anche con la divisione binaria dell’Europa tra una zona
“libera” assoggettata all’influenza degli Stati Uniti e un’Europa centrale e orientale
dominata dall’Unione sovietica. Tuttavia, vari progetti concorrenti si contrapponevano
fin dagli esordi. Quello che ha prevalso, sostenuto da Jean Monnet, che poggiava sul
primato dell’economia, si è imposto a discapito del progetto dei federalisti (Alexandre
Marc, Robert Aron, Denis de Rougemont) e del progetto neocarolingio di un Otto di
Asburgo. Aperto il 7 maggio 1948 sotto la presidenza di Winston Churchill, il celebre
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Congresso dell’Aia riunì quasi 800 personalità venute da 17 paesi. Denis de
Rougemont ne fu contemporaneamente il relatore della commissione culturale e il
redattore della Dichiarazione finale, il famoso Messaggio agli europei, che getta in
particolare le basi di quello che diventerà il Consiglio d’Europa. I lavori portano però
ben presto alla ribalta due grandi correnti contrapposte: da una parte i federalisti,
sostenitori di una rapida costruzione dell’Europa politica partendo dalla base e nel
rispetto della diversità dei popoli, e dall’altra i “funzionalisti” o “unionisti”, secondo i
quali la priorità va data a un’Europa economicamente integrata, che parteggiano per
un semplice avvicinamento dei governi e dei parlamenti in un’ottica meramente
amministrativa. Saranno i secondi a prevalere. È peraltro in occasione del suddetto
congresso dell’Aia che Churchill crea il Movimento europeo (United European
Movement), di cui diviene presidente onorario al fianco di due democristiani, Konrad
Adenauer e Alcide De Gasperi, ma anche di due socialisti, il francese Léon Blum e il
belga Paul- Henri Spaak. L’Unione europea dei federalisti (UEF) è stata creata invece
alla fine del 1946 e sarà animata principalmente dall’ex capo del movimento
“Combat”, Henry Frenay, e dall’italiano Altiero Spinelli. Ossessionati dall’economia, i
“padri fondatori” delle Comunità europee hanno volontariamente lasciato ai margini la
cultura. Il loro progetto originario, quando non si ricollegava alla vecchia idea
“paneuropea” di Richard N. Coudenhove-Kalergi3, mirava a fondere le nazioni in
spazi di azione di nuovo tipo in un’ottica funzionalista4. Per Jean Monnet e i suoi
amici, si trattava di giungere ad una reciproca interpenetazione delle economie
nazionali di un livello tale che l’unione politica sarebbe divenuta necessaria, giacché
si sarebbe rivelata meno costosa della disunione. In altre parole, l’integrazione
economica avrebbe dovuto essere la leva dell’unione politica.
Jean Monnet, formatosi oltre Atlantico (sin dagli anni Venti il finanziere Paul
Warburg lo aveva preso sotto la propria protezione), già segretario generale aggiunto
della Società delle Nazioni, scriveva a Franklin D. Roosevelt il 5 agosto 1943: “Non vi
sarà pace in Europa se gli Stati si ricostituiscono sulla base di sovranità nazionali.
Essi dovranno formare una federazione che ne faccia un’unità economica comune”.
Monnet sarà nel 1951 il primo segretario generale della Comunità europea del
carbone e dell’acciaio (CECA), embrione della futura Europa di Buxelles. È noto
altresì che egli animò negli anni Sessanta un Comitato per gli Stati Uniti d’Europa, nel
quale figuravano più di 130 dirigenti di partiti e sindacati dell’Europa dei Sei5.
36
Se Monnet incarnava l’ispirazione economica dell’Europa, Robert Schuman ne
rappresentava la parte cattolica, se non mistica, assieme al tedesco Konrad
Adenauer e all’italiano Alcide De Gasperi. Inizialmente, la costruzione dell’Europa
ebbe anche basi cattoliche, che non vanno sottovalutate6. Il progetto di Jean Monnet
ottenne d’altronde l’avallo del papa Pio XII, aprendo la strada, nel corso dei seguenti
decenni, a quello che Jean-Paul Bled ha giustamente chiamato “l’impegno dei partiti
democristiani nell’edificazione di una società funzionale, che ha accelerato l’avvento
dell’era delle neutralizzazioni”7. Dato che l’Europa per loro svolgeva “la funzione di
un’ideologia sostitutiva”8, i partiti democristiani svolsero un ruolo essenziale negli
esordi della costruzione europea. “La democrazia cristiana si assume la
responsabilità fondamentale di aver fatto avallare ad una parte significativa dei
cattolici, consapevolmente o meno, l’idea che il processo di costruzione europea
perseguiva l’obiettivo di ristabilire l’unità spirituale perduta, se non un’‘Europa
vaticana’”, scrive Christophe Réveillard9. È altrettanto evidente che, sin dalla
dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, e poi dopo la firma del trattato di Roma il
25 marzo 1957, “il primato della relazione mercantile e l’organizzazione di tutti i
rapporti sociali come elementi al servizio di questo primato sono al centro del
progetto europeo”10. Non dimentichiamo che il primo nome dell’“Europa” fu “Mercato
comune”. Quell’economicismo iniziale ha, ovviamente, favorito la deriva liberale delle
istituzioni, nonché la lettura essenzialmente economica delle politiche pubbliche che
verrà fatta a Bruxelles. Lungi dal preparare l’avvento di un’Europa politica, l’ipertrofia
dell’economia ha rapidamente comportato la spoliticizzazione, la cancellazione dei
vecchi sistemi di rappresentanza, la consacrazione del potere degli esperi, nonché la
messa in atto di strategie tecnocratiche che obbediscono non tanto a logiche
economiche quanto a imperativi di razionalità funzionale. Dirà in seguito Francois
Bayrou: “Un cancro rode l’Europa. Il cancro europeo è che in essa tutto sembra
tecnico e più niente è politico”11. Questa scelta di campo a favore dell’economia
spiega ovviamente il deficit democratico, innumerevoli volte rilevato, delle istituzioni
europee: ancora oggi, la Commissione europea sfugge praticamente a ogni controllo;
il Consiglio dei ministri, prodotto dei governi europei, non deve rendere conto a
nessuno; la scelta del presidente della Banca centrale non deve essere confermata
dal Parlamento e la nomina dei membri della Corte di giustizia dell’Unione è di
competenza esclusiva dei governi. Quanto al Parlamento europeo, eletto a suffragio
universale dal 1979, si è da lungo tempo trasformato in una babilonia. “Mai l’Unione
37
europea è stata pensata o animata da politici”, ha notato recentemente Jean-Claude
Eslin12.
Parallelamente, questo economicismo ha fatto nascere una concezione della
cittadinanza svuotata della sua sostanza politica. Fondandosi sull’ideologia
transnazionale dei diritti dell’uomo, indipendentemente da ogni particolare
collocazione territoriale, questa cittadinanza non si definisce più per la capacità di
partecipazione politica, ma per il godimento di diritti-crediti in ambito economico o
sociale e per la costituzione di uno spazio giuridico unificato, mentre il ruolo dello
Stato è ridotto alla sua capacità “provvidenziale” di gestione e redistribuzione dei beni
collettivi. È evidente che, in quest’ultima concezione della “cittadinanza”, la differenza
di situazione, in un dato paese, fra i possessori della nazionalità e gli stranieri in
situazione regolare diventa impercettibile: essendo stato escluso ogni progetto
politico comune, la sola residenza a titolo di consumatore od utente dà diritto alla
cittadinanza13. Nel 1992, con il trattato di Maastricht, si è passati dalla Comunità
europea all’Unione europea. Anche questo slittamento semantico è rivelatore: quel
che unisce è meno forte di quel che è comune. Il passaggio da un termine all’altro,
come ha fatto notare René Passet, “consacrava il primato degli imperativi del libero
scambio su quelli del riavvicinamento dei popoli”14. Osservando che, “nella breve
storia delle democrazie, i popoli democratici si sono battuti più spesso per difendere
la propria patria che per difendere i valori democratici”, Dominique Schnapper ha, dal
suo canto, sottolineato assai giustamente “il rischio che le società moderne si sfaldino
a causa dell’indebolimento del civismo e della dimensione politica della vita quando le
società sono organizzate intorno alla produzione delle ricchezze e alla ricerca del
benessere degli individui”, aggiungendo che la costruzione europea, nella stessa
misura in cui associa spoliticizzazione e accresciuta mercantilizzazione dei rapporti
sociali, “comprende il rischio di contribuire involontariamente a spoliticizzare le
società democratiche”, perché “la politica non consiste soltanto nel produrre e
ridistribuire ricchezze; ha a che vedere anche con i valori e la volontà”15. Jacques
Chirac diceva nel suo celebre appello di Cochin, nel 1978: “Diciamo no a una Francia
vassalla in un impero di mercanti”. Sappiamo quel che ne è stato. L’Europa odierna è
innanzitutto l’Europa dell’economia e della logica di mercato, giacché a parere di una
larga parte delle classi dirigenti liberali dovrebbe essere solo un vasto supermercato
che obbedisce esclusivamente alla logica del capitale. Il secondo errore, lo abbiamo
38
detto prima, è consistito nel voler creare l’Europa dall’alto, ovvero partendo dalle
istituzioni di Bruxelles. Come auspicavano i sostenitori del “federalismo integrale”,
una sana logica avrebbe viceversa voluto che si partisse dal basso, dal quartiere e
dal vicinato (luogo di apprendimento basilare della cittadinanza), salendo verso il
comune, dal comune o dall’agglomerazione verso la regione (le province e i
dipartimenti non corrispondono ad alcunché), dalla regione verso la nazione, dalla
nazione verso l’Europa. Ciò sarebbe stato possibile applicando rigorosamente il
principio di sussidiarietà. E invece questo principio, sin dal momento in cui le istanze
europee se ne sono impadronite, è stato “trasformato in principio di efficacia, vale a
dire in un principio giacobino, e quindi trasformato nel suo contrario”16. La
sussidiarietà esige che l’autorità superiore intervenga solamente nei casi in cui
l’autorità inferiore non è in grado di farlo (principio di competenza sufficiente).
Nell’Europa di Bruxelles, in cui una burocrazia centralizzatrice tende a regolamentare
tutto per mezzo delle sue direttive, l’autorità superiore interviene ogni volta che si
reputa in grado di farlo, con il risultato che la Commissione decide su tutto perché si
ritiene onnicompetente. In queste condizioni, l’autorità conservata dai gradini inferiori
è soltanto un’autorità delegata. Le rituali accuse dei sovranisti all’Europa di Bruxelles,
vista come un’“Europa federale”, non devono quindi indurre in errore: con la sua
tendenza ad attribuirsi d’autorità tutte le competenze, essa viceversa si costruisce su
un modello in larghissima misura giacobino. Lungi dall’essere “federale”, è anzi
giacobina all’estremo, dal momento che coniuga autoritarismo punitivo, centralismo e
opacità.
Il terzo errore è consistito nell’allargare sconsideratamente l’Europa, quando
sarebbe stato necessario prima di tutto approfondire le strutture esistenti, pur
sviluppando un ampio dibattito politico in tutta Europa per tentare di costruire un
consenso sulle finalità. La Comunità economica europea (CEE) o “Mercato comune”
contava già in partenza sei Stati membri: la Germania, la Francia, l’Italia e i tre paesi
del Benelux. L’allargamento progressivo dell’Europa (all’Inghilterra e alla Danimarca
nel 1972-73, alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo fra il 1981 e il 1986, alla Svezia,
alla Finlandia e all’Austria nel 1995, ai paesi dell’Europa centrale, a Cipro e a Malta
nel 2004) si è fatto per ragioni fondamentalmente economiche, alle quali si è potuto
aggiungere il desiderio di taluni paesi (soprattutto nordici) di uscire dalla marginalità
geopolitica. Nessuna di queste nuove adesioni si è accompagnata a una riforma
39
istituzionali, giacché i liberali hanno sempre giocato l’allargamento contro
l’approfondimento. Sebbene le poste in gioco fossero notevoli, nessuna di esse è
stata oggetto di una consultazione popolare.
Beninteso: tutti gli Stati membri dell’attuale Unione europea fanno parte
dell’Europa e, in quanto tali, hanno la vocazione ad integrarsi in una struttura
istituzionale comune. Sarebbe stato d’altronde oppotuno ricordarlo attraverso una
dichiarazione solenne quando il sistema sovietico è crollato. Questi paesi possono
però integrarsi in una struttura comune solo nella misura in cui questa disponga già di
istituzioni politiche integrate, provviste di regole precise che condizionino l’ingresso
dei nuovi arrivati a una volontà politica a sua volta chiaramente affermata. Ed è
proprio questa volontà a far difetto. Lo si è visto in modo particolarmente evidente in
occasione dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale, deciso nel maggio 2004 ed
esteso di recente a Romania e Bulgaria. La maggior parte di questi paesi, che erano
stati definitivamente accettati al vertice di Copenhagen del dicembre 2002 sulla base
di criteri fissati fin dal 1993, di fatto hanno chiesto di aderire all’Unione europea
soltanto per godere della protezione della NATO, come testimonia il sostegno che
hanno apportato all’intervento militare americano in Iraq. Parlavano di Europa, ma
sognavano solo l’America, come è stato dimostrato anche dall’acquisto da parte della
Polonia, meno di quindici giorni dopo il suo ingresso nell’Unione europea, di aerei
americani F16, preferiti ai Mirage francesi o agli Jas-39 Gripen svedesi17. Tenuto
conto della disparità delle condizioni sociali e dei sistemi fiscali, a sua volta
generatrice di distorsioni della competitività, quell’allargamento ai paesi dell’Est ha
inoltre scatenato un ricatto basato sulle delocalizzazioni, a detrimento dei salariati.
Senza alcuna riforma istituzionale, senza un sufficiente impegno finanziario e senza
consultazione o sostegno popolare, ci si è limitati ad offrire a dieci ex paesi del
versante sovietico, convertiti di fresca data all’economia di mercato, l’ingresso in
quello che essi percepivano come un paese della cuccagna, senza rendersi conto
che i loro sentimenti autenticamente europei erano tanto più ridotti quanto più
accentuato era il loro atlantismo. Ne sono risultati una diluizione e una perdita di
efficacia che hanno rapidamente convinto tutti che un’Europa a venticinque o a trenta
era semplicemente ingestibile, opinione che si è ulteriormente rafforzata a causa
delle inquietudini culturali, religiose e geopolitiche legate alle prospettive di adesione
della Turchia. La verità è che, più l’allargamento si estende, più l’approfondimento
40
diventa difficile. Un editoriale uscito su “Le Monde” il 19 gennaio 2000 parlava
d’altronde a questo proposito di “due obiettivi assolutamente antinomici”. La potenza
non è infatti esclusivamente una questione di taglia. Qui non solo il principio “più si è
grandi, più si è forti” non vale più, ma si rovescia: più l’Unione europea si estende
senza riformarsi, più la sua impotenza si accresce. Il che significa che al di là di una
certa soglia l’Europa cambia natura e non può più funzionare come prima18. Come si
può, in effetti, stabilire una politica comune in venticinque o in ventisette? L’ingresso
dell’Unione europea di un paese di 72 milioni di abitanti come la Turchia, che
diverrebbe così, per il solo fatto del suo peso demografico, lo Stato membro più
influente in termini di diritto di voto, prospettiva sostenuta dagli Stati Uniti ma alla
quale la maggioranza degli europei è nettamente contraria, sanzionerebbe
definitivamente una fuga in avanti nell’allargamento ai danni dell’approfondimento,
sgretolando per sempre la speranza di vedere l’Europa trasformarsi in una vera entità
politica. Come ha scritto Jean-Louis Bourlanges, “l’adesione della Turchia porrebbe
fine ad un’esitazione di mezzo secolo fra due concezioni dell’Unione, ideologica da un
lato, geopolitica dall’altro. Consacrerebbe la vittoria di un’Europa eterea, ridotta
all’esaltazione di valori universali e del diritto, su un’Europa radicata in una terra e in
una storia particolari, la vittoria di un’Europa dell’Onu su un’Europa carolingia. Jean
Monnet, il viaggiatore senza bagagli della pace universale, il campione planetario
della risoluzione dei conflitti, prevarrebbe definitivamente su Robert Schuman, l’uomo
di un luogo e di un tempo, attaccato con tutte le fibre del proprio essere alla sua
Lorena lacerata, risoluto da cristiano, da lotaringio, da francese e da tedesco a
ritrovare – attraverso la riconciliazione dei popoli dello spazio renano – il filo perduto
di una civiltà comune, la specificità di un modello sociale costruito dalla storia, il
segreto di una resurrezione solidale dei popoli spezzati e rovinati dalla follia dei loro
rispettivi Stati”19. Quarto errore: il dibattito sulle frontiere, cioè sulla realtà geografica
dell’Europa, è stato costantemente eluso, così come il dibattito sull’identità europea e
sulle finalità delle sue istituzioni, e questa indeterminatezza ha continuato a caricare il
progetto europeo di un’ambiguità propizia a tutte le scivolate. Il timore di parecchi
eurocrati è evidentemente stato quello di richiudere lo sviluppo dell’Unione all’interno
di frontiere troppo precise. Alcuni di loro, ad esempio Michel Rocard, o Dominique
Strauss-Kahn che perora la causa di un’Europa “che vada dall’Artico al Sahara”20,
non nascondono d’altro canto di vedere nell’Unione europea un insieme di molteplici
civiltà promesso, come il mercato, a un’estensione indefinita. Compito dell’Unione
41
europea sarebbe in un certo senso abolire la differenza tra l’Europa e la non-Europa,
distruggendo d’un sol colpo quella che doveva esserne la ragion d’essere e
qualunque possibilità di diventare un attore di primo piano sulla scena internazionale.
Le frontiere dell’Europa sono dettate tanto dalla storia quanto dalla geografia: esse si
arrestano ad Ovest alle rive dell’Atlantico, a Nord alle regioni circumpolari, a Sud al
Bosforo, ad Est alle porte della zona d’influenza russa. A questo contesto territoriale
gli europei devono attenersi se vogliono svolgere un proprio ruolo all’interno di un
mondo multipolare – il che non esclude, beninteso, la firma di accordi di partenariato
privilegiato con i vicini più prossimi. Ma la mancanza di un dibattito sulle frontiere è
essa stessa legata all’assenza di dibattito sulle finalità. Il fatto che l’Europa scelga di
diventare una grande zona di libero scambio oppure una potenza autonoma implica
infatti, per i due progetti, frontiere diverse (il primo progetto esige l’adesione della
Turchia, ad esempio, mentre il secondo la esclude).
Infine, il problema capitale della lingua dell’Europa non è mai stato seriamente
sollevato, quando invece si pone in maniera cruciale in un momento in cui l’Unione
europea sta per contare quasi trenta Stati membri. Come può funzionare l’Europa con
venticinque o trenta lingue ufficiali, mentre le Nazioni Unite ne conoscono solo cinque
o sei? L’Europa deve avere una lingua che le sia propria, ma che nel contempo
coesista con le altre lingue nazionali o regionali già esistenti (il multilinguismo è il
futuro). Se non si decide a farlo, ovviamente sarà l’inglese a farlo, per difetto.
L’apprendimento di una lingua comune richiederebbe perlomeno una generazione.
Ciò fa capire quanto grande sia il ritardo già accumulato. L’Europa, infine, ha
continuato a edificarsi senza i popoli. Si potrebbe addirittura dire che la grande
costante dei “facitori di Europa” è stata la loro incomprimibile diffidenza di fronte a
ogni domanda di arbitrato proveniente dagli elettori, cioè dai popoli. L’Europa aspira a
diventare un’entità politica, ma non è mai stata fondata politicamente21. La stessa
sovranazionalità attualmente esistente non è il risultato di una deliberazione pubblica
o di un processo democratico, ma di una decisione giudiziaria della Corte europea di
giustizia che, in due sue sentenze fondamentali del 1963 e del 1964, ha innalzato i
trattati fondatori dell’Europa al rango di “carta costituzionale”, con l’effetto diretto di
stabilire il primato del diritto comunitario rispetto ai diritti nazionali. Il Parlamento
europeo, unica istanza latrice della sovranità popolare, è privato sia del potere
normativo, sia del potere di controllo. Con l’ingresso dei nuovi Stati membri, produce
42
ormai solo una cacofonia politicamente inascoltabile. Il primato del diritto è così
andato di pari passo con il primato dell’economia. Più recentemente, si è formulato un
progetto di Costituzione senza che mai venisse posto il problema del potere
costituente, e quando si è consultato il popolo per via di referendum, come in Francia
nel 2005, lo si è fatto, visti i risultati, per pentirsene amaramente e giurarsi che non lo
si sarebbe più fatto. Una Costituzione implica un potere costituente, perché nessun
potere pubblico (potestas) può sostituirsi all’autorità (auctoritas) del popolo o dei suoi
rappresentanti. Un’assemblea costituente è legittima solo se si fonda sulla sovranità
popolare. Ma il progetto di trattato costituzionale, scaturito dalla Convenzione sul
futuro dell’Europa creata nel dicembre del 2001 al Consiglio europeo di Laeken e
presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, non solo non lo prevedeva, ma si è potuto
presentarlo come “una negazione radicale di quel potere costituente che sono il o i
popoli europei”22. Questo progetto non aveva d’altronde niente di una Costituzione.
Una Costituzione è un documento relativamente semplice, dal volume piuttosto
limitato; il progetto di trattato pesava più di 800 pagine (il che consentiva di tenerne
lontani di curiosi). Una Costituzione si accontenta di fissare norme e regole,
enunciare principi fondamentali e definire un contesto durevole all’interno del quale
funzioneranno le istituzioni, ma non si ferma o non determina alcuna politica
particolare; si colloca al di sopra del dibattito politico, che si limita a rendere possibile,
perché è al popolo che spetta di decidere in materia di orientamenti e di scelte
politiche. Né determina in maniera immutabile alleanze militari, che possono
cambiare in funzione delle congiunture o degli eventi. Il trattato, viceversa, scolpiva
nel marmo o fondeva nel bronzo ogni sorta di orientamenti in materia economica e in
materia di difesa, che sperava così di rendere irreversibili sottraendoli al giudizio e
alle scelte dei cittadini. Il progetto di trattato costituzionale faceva
contemporaneamente del mercato il valore supremo e l’obiettivo centrale dell’Unione,
che si reputava agisse “conformemente al rispetto del principio di un’economia di
mercato aperta in cui la concorrenza è libera” (art. III-177, 178, 179, 185, 246 e 279),
principio che avrebbe dovuto imporsi “ai servizi pubblici di interesse economico
generale” (art. III-166). Trattando delle relazioni fra l’Unione e il resto del mondo, vi si
indicava che “l’Unione incoraggia l’integrazione di tutti i paesi.
nell’economia mondiale” (art. III-292) e contribuisce alla “soppressione
progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali” (art. III-314). Veniva inoltre
43
precisato che “le restrizioni sia ai movimenti di capitali sia ai pagamenti fra gli Stati
membri e fra gli Stati membri e i paesi terzi sono proibite” (art. III-156), nonché che gli
aiuti pubblici “destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio”
sono accettabili solo quando “non alterano le condizioni degli scambi e della
concorrenza” (art. III-167). Il diritto al lavoro era sostituito dalla “libertà di cercare un
impiego e di lavorare” (art. II-75), e il diritto lasciava in tal modo il posto a una
semplice autorizzazione. Quanto all’indipendenza della Banca centrale europea, essa
ovviamente era confermata (art. I-30), proibendo perciò ogni politica monetaria.
Essendo la politica di bilancio già proibita dal patto di stabilità e la politica industriale
dalla proibizione di qualunque ostacolo alla concorrenza, il progetto mirava
visibilmente a istituzionalizzare, fornendo loro una base giuridica inamovibile, i
principi economici del liberalismo, vale a dire i principi del capitalismo dei mercati
liberalizzati: lo smantellamento delle protezioni sociali e il libero gioco degli apparati
dominanti del Capitale23. Il progetto faceva pertanto più volte allusione all’“economia
sociale di mercato”, espressione che faceva riferimento alle teorie degli economisti
liberali tedeschi del dopoguerra, nei quali il sociale, lungi dal rappresentare un
correttivo o una regolamentazione esterna al mercato, è viceversa ritenuto esserne
l’effetto. Il mercato, in quest’ottica, è l’unico operatore del “progresso sociale”24. Per
quanto concerne le questioni di difesa, il progetto di trattato stipulava che, “per
mettere in opera una cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca, gli Stati
membri partecipanti lavoreranno in stretta cooperazione con la NATO” (art. I-41).
Meglio ancora: era esplicitamente indicato che “gli impegni e la cooperazione in
questo ambito [la difesa] rimangono conformi agli impegni sottoscritti in seno alla
NATO, che resta per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa
collettiva e l’istanza della sua messa in opera” (art. I-40). Significava
costituzionalizzare la dipendenza dell’Europa nei confronti di un’Alleanza atlantica
largamente dominata da Washington. Il progetto di trattato pretendeva infine di
assegnare “lo stesso valore giuridico dei trattati”, vale a dire piena forza costrittiva,
alla Carta dei diritti fondamentali proclamata il 7 dicembre 2000 al vertice di Nizza.
Orbene: l’adozione di quell’ibrido documento rappresenterebbe una vera e propria
rivoluzione giuridica. La Carta volta infatti le spalle al modello dello “Stato legale”, nel
quale la legge viene detta sovrana perché è l’espressione della volontà generale
espressa dal popolo, per sostituirlo con quello dello “Stato di diritto” fondato non sul
popolo ma sulla “società civile”, che si caratterizza per la possibilità di ricorsi
44
giurisdizionali contro la legge. Il suo preambolo (art. 2) precisava che “l’Unione
assicura la libera circolazione, dei servizi, delle merci e dei capitali” (senza che
alcuno si sia stupito nel vedere la libera circolazione dei capitali presentata come un
“diritto fondamentale”!). Il contenuto del documento era peraltro in gran parte ricalcato
sulla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, opera del Consiglio
d’Europa che, in quanto tale, è sottoposta alla giurisdizione della Corte europea dei
diritti dell’uomo, rivale in materia della Corte di giustizia delle comunità europee
(CJCE), equivoco quantomeno inadatto a far emergere un’identità comunitaria
caratteristica dell’Unione25. Nel maggio-giugno 2005, il rifiuto dei francesi e degli
olandesi di ratificare il progetto di trattato “che stabilisce una Costituzione per
l’Europa” aveva fatto precipitare gli eurocrati nella depressione, inducendoli a
spiegare subito la crisi dell’Europa con il risultato dei referendum – invece di capire
che, viceversa, all’origine di quel risultato vi era il cattivo funzionamento delle
istituzioni europee26. È vero che l’eterogeneità del “no” francese al referendum
sull’Europa, causa principale del suo successo (risultato dell’addizione di motivi di
rifiuto assai diversi), lo rende anche di difficile interpretazione. Il “no” ha raggruppato
tanto sovranisti ostili ad ogni forma di unificazione politica dell’Europa, che
consideravano antinomica a una sovranità nazionale sacralizzata, quanto eurofili
convinti ma non disposti ad adeguarsi ai principi del liberalismo consacrati dal
trattato, i quali speravano di provocare uno “choc salutare” imponendo un colpo di
freno a una folle fuga in avanti, senza dimenticare chi temeva il possibile ingresso
della Turchia nell’Unione (o, più generalmente, il suo allargamento sconsiderato), il
deteriorarsi della situazione dell’impiego, l’aggravarsi della situazione economica, ed
infine elettori (forse i più numerosi) desiderosi semplicemente di esprimere il loro
cattivo umore nei confronti del governo esistente o di sanzionare la classe politica di
ogni tendenza. Ma quel che colpisce ancora adesso è l’ampiezza del fossato rivelato
dal voto fra i sentimenti del popolo, ostile nel 54,6% al trattato, e le posizioni dei
parlamentari, che gli erano favorevoli per il 93%. Il fatto è, in ogni caso, che quei voti
negativi non sono minimamente serviti da lezione: nessuno si è accorto che
bisognerebbe forse impegnarsi su un’altra via, più conforme alla volontà popolare. Gli
eurocrati si sono impegnati, viceversa, a trovare il mezzo pratico per non tenere alcun
conto dell’avvertimento che era stato loro lanciato. Il risultato è stato il progetto di
“trattato semplificato” adottato al vertice di Lisbona, che per unico obiettivo aggirare
l’opposizione al trattato costituzionale riproponendo il medesimo contenuto in un
45
diverso involucr. Questo progetto di trattato “semplificato”, reso pubblico il 5 ottobre
2007 con il nome di “trattato modificativo”, di cui Nicolas Sarkozy aveva già fatto
adottare il principio a Bruxelles nel giugno 2007, in primo luogo non è così
semplificato come si sostiene, dal momento che conta 256 pagine con l’aggiunta di 12
protocolli annessi e di 25 diverse dichiarazioni che rimandano a circa 3000 pagine di
accordi precedenti. Esso riprende peraltro la sostanza delle disposizioni del progetto
di trattato costituzionale respinto per via di referendum dai francesi e dagli olandesi.
Uniche modifiche: gli elementi simbolici (bandiera, inno e moneta) non vi figurano più,
e il ministro degli Esteri dell’Unione si vede attribuire, per soddisfare gli inglesi, il
semplice titolo di “alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune”.
Per il resto non cambia niente, se non il rivestimento. Il riferimento alla NATO, in
particolare, è sempre presente, giacché il nuovo testo rimanda al trattato di
Maastricht, il cui titolo V stabiliva che le posizioni comuni degli Stati membri in
materia di difesa devono essere compatibili con i “contesti della NATO”. La Carta dei
diritti fondamentali non è ripresa per esteso, ma è essa pure oggetto di un riferimento,
il che in diritto significa la stessa cosa. Si precisa anzi esplicitamente che “l’Unione
riconosce i diritti, le libertà e i principi enunciati nella Carta del 7 dicembre 2000, che
ha il medesimo valore giuridico dei trattati” (art. 6). La superiorità della norma
europea sulle leggi e sulle Costituzioni nazionali è menzionata in una dichiarazione
aggiuntiva che ricorda la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in materia.
Neanche il riferimento alla “concorrenza libera e non falsata” viene abbandonato, dal
momento che il trattato “semplificato” rimanda a un protocollo addizionale il quale
stipula che “il mercato interno, così come è definito all’articolo 3 del trattato,
comprende un sistema che garantisca che la concorrenza non è falsata”. La
Commissione di Bruxelles resta inoltre titolare dell’interpretazione delle norme di
concorrenza e si può quindi opporre alle politiche industriali nazionali ogni volta che
queste fossero tentate di rimetterne in discussione il principio, sostenendo ad
esempio che la concorrenza non può, da sola, regolare il commercio internazionale,
tenuto conto della disparità delle situazioni sociali fra i paesi. Valéry Giscard
d’Estaing, principale “padre” del trattato costituzionale, non ne ha fatto mistero: “La
differenza è più di metodo che di contenuto […] I giuristi non hanno proposto
innovazioni. Sono partiti dal testo del trattato costituzionale, di cui hanno scisso gli
elementi, ad uno ad uno, rinviandoli attraverso gli emendamenti ai due trattati
esistenti di Roma (1957) e di Maastricht (1993) […] Il risultato è che le proposte
46
istituzionali del trattato costituzionale si ritrovano integralmente nel trattato di Lisbona,
ma in un ordine diverso”27. Il “trattato modificativo” doveva essere ratificato a
Lisbona il 13 dicembre 2007. Nessun referendum è previsto, salvo che in Irlanda e in
Danimarca, benché diversi sondaggi d’opinione abbiano indicato che il 76% dei
tedeschi, il 75% dei britannici, il 72% degli italiani, il 71% dei francesi e il 65% degli
spagnoli desiderano potersi pronunciare su questo testo. In Francia, con ogni
evidenza questo trattato non ha altra ragion d’essere se non imporre al popolo, senza
doverlo consultare, ciò che esso aveva respinto a maggioranza nel 200528. Il rifiuto
del presidente Sarkozy di sottoporre il “trattato modificativo” a referendum e la sua
decisione di farlo adottare per la sola via parlamentare hanno dunque un sentore di
fellonia. Anne- Marie Le Pourhiet, professoressa alla Facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Rennes, è giunta al punto di parlare di “colpo di Stato” e di “altro
tradimento”. “Quando si sa che la Costituzione californiana prevede che una norma
adottata per referendum non possa essere in seguito abrogata o modificata se non
tramite un’altra decisione popolare e che la Corte costituzionale italiana adotta lo
stesso principio, non si può non essere sconcertati dal colpo di Stato in tal modo
perpetrato in Francia […] Il termine che viene alla mente per definire il disprezzo
presidenziale della volontà popolare è ovviamente quello di alto tradimento”29.
II. La speranza? Malgrado le delusioni che ha provocato, la costruzione europea
rimane più necessaria che mai. Perché? In primo luogo per permettere a popoli
europei troppo a lungo lacerati da guerre e conflitti o rivalità d’ogni sorta di riprendere
coscienza della comune appartenenza ad una medesima area di cultura e di civiltà e
di assicurarsi un destino comune senza doversi mai più contrapporre. Ma anche per
ragioni connesse al momento storico che stiamo vivendo. Nell’epoca della modernità
tardiva – o della postmodernità nascente –, lo Stato nazionale, entrato in crisi fin dagli
anni Trenta, diventa ogni giorno più obsoleto, mentre i fenomeni transnazionali
continuano ad accrescersi. Non è che lo Stato abbia perso tutti i suoi poteri (in certi
ambiti, come la sicurezza, tende al contrario ad aumentarli di continuo attraverso le
regolamentazioni), ma ha smesso di produrre socialità e non può più far fronte ad
imprese che oggigiorno si estendono a livello planetario. In un universo dominato
dall’incertezza e dai rischi globali, nessun paese può sperare di venire a capo da solo
dei problemi che lo riguardano. Per dirla altrimenti, “gli Stati nazionali – forti o deboli 47
che siano – non sono più le entità primarie che consentono di risolvere i problemi
nazionali”30. In queste condizioni, l’unico interrogativo che si pone è “capire se gli
europei vogliono oppure non continuare a svolgere un ruolo nella storia”31 o sono già
rassegnati a diventare oggetto della storia degli altri. Una delle ragioni profonde della
crisi della costruzione europea consiste nel fatto che nessuno appare capace di
risponde alla domanda “che cos’è l’Europa?”. Eppure le risposte non mancano; nella
maggior parte, però, sono convenzionali e nessuna trova tutti concordi. Orbene: la
risposta alla domanda “che cos’è l’Europa?” condiziona la risposta ad un’altra
domanda: “cosa deve essere?”. Tutti sanno bene, infatti, che non vi è alcuna comune
misura fra un’Europa che cerchi di costituirsi come una potenza politica autonoma,
con frontiere chiaramente definite e istituzioni politiche comuni che funzionino
democraticamente, e un’Europa che non sarebbe altro che uno spazio di libero
scambio aperto ai “grandi orizzonti”, destinato a diluirsi in uno spazio illimitato, in
larga misura spoliticizzato o neutralizzato e funzionante solo sulla base di
meccanismi decisionali tecnocratici e intergovernativi. Tutti sanno bene anche che
l’allargamento frettoloso dell’Europa e l’incertezza esistenziale che pesa oggi sulla
costruzione europea non possono che favorire il secondo modello, d’ispirazione
“anglosassone” o “atlantica”. Scegliere tra questi due modelli significa anche
scegliere tra la politica e l’economia, la potenza della Terra e la potenza del Mare.
Coloro che si occupano della costruzione europea in genere purtroppo non hanno la
benché minima idea in materia di geopolitica. L’antagonismo tra le logiche terrestre e
marittima sfugge loro. Non vedono per quali motivi la globalizzazione oggi obblighi a
pensare in termini di continenti32. Il generale de Gaulle aveva sin dal 1964 definito
perfettamente il problema: “Ma quale Europa? Questo è il punto da discutere […]
Secondo noi, francesi, occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa
europea significa che essa esiste di per se stessa e per se stessa, ovvero che in
mezzo al mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che
respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, taluni che tuttavia sostengono di
volere che essa si realizzi. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica,
resterebbe assoggettata a quella che le verrebbe dall’altra sponda dell’Atlantico pare
loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”. Già tre anni prima, aveva detto:
“L’Europa integrata in cui non vi fosse politica si metterebbe a dipendere da qualcuno
di fuori, che invece ne avrebbe una”. Anche Francois Bayrou ha ben riassunto la
situazione: “Sin dal primo giorno della costruzione europea, due modelli sono in
48
guerra. Il modello britannico, quello di una zona di libero scambio, senza altri scopi al
di fuori di quello economico, ornato, per sembrare bello, dell’apparenza di una
concertazione governativa, e il nostro modello, il modello franco-tedesco, di una
potenza politica in formazione. Il dissolversi della volontà europea dà la vittoria al
modello della zona di libero scambio”33. L’Europa è prima di tutto forte di ciò che l’ha
fatta, ma la sua storia è tutto fuorché una storia semplice. È la storia di una serie di
notevoli trasformazioni interne e di apporti successivi che si sono trapiantati, più o
meno felicemente, su un’entità la cui eredità fondamentale deriva nel contempo da
una fonte autoctona, le culture latine, greche, celtiche, germaniche e slave
dell’Antichità precristiana, e da una fonte importata da lunga data, il cristianesimo.
Ciò fa capire il carattere complesso dell’Europa e il carattere illusorio di ogni
atteggiamento che miri a ridurla ad una soltanto di queste componenti a detrimento
delle altre. A seconda dei gusti e delle convinzioni, ovviamente si potrà sempre
privilegiare questa o quella di tali componenti, questa o quell’epoca, questo o quel
luogo. In realtà, non è sbagliato dire che da duemila anni a questa parte la storia
dell’Europa è una storia contraddittoria, e riconoscere che “ciò che lacera il Vecchio
continente in conflitti intestini è anche ciò che ne costituisce la singolarità storica e
l’identità collettiva”34. Questo significa che non bisogna sottovalutare, come sono
portati a fare certi sostenitori di un’Europa ideale, le profonde diversità del continente
europeo. Tra il finlandese e il napolitano, l’abitante du Dublino e quello di Dubrovnik, i
riferimenti non sono gli stessi, la mentalità non è la stessa e la comprensione non è
scontata.
Questo significa inoltre che non si può definire l’Europa facendo unicamente
riferimento al suo passato, cioè alla sua storia empirica, così come non si può fare
tabula rasa di quel passato. Prendere in considerazione soltanto la “memoria” storica
significa dar prova di un modo di pensare antistorico, nella misura in cui la storia
include il passato ma non si riduce ad esso, e per giunta è indissociabile
dall’interpretazione che essa ne dà. Infine, come ogni realtà collettiva, l’Europa
ovviamente ha delle fondamenta etniche, ma non è un progetto etnico: l’Europa non
ha vocazione a radunare tutti gli individui o tutti i popoli di origine europea che vivono
oggi nel mondo, ma ad offrire un contesto istituzionale comune agli abitanti del
continente europeo. Qui l’aspetto geografico, e dunque anche geopolitico, è
determinante. Chi sogna un’Europa senza frontiere coltiva evidentemente l’ambizione
49
di vedervisi gradualmente integrare tutti i paesi vicini, in attesa dei paesi lontani. In
quest’ottica, “l’Europa” non è più altro che l’abbozzo di una Repubblica universale o di
uno Stato mondiale. I sostenitori di un progetto di questo tipo svolgono in genere le
proprie argomentazioni partendo dai “valori universali”: all’Europa apparterrebbero
tutti i paesi che rispettano i “valori universali” che essa ha inventato nel corso della
sua storia, cioè potenzialmente il mondo intero. Vale la pena soffermarsi su questo
punto. È un dato di fatto che l’Europa, sin dalle origini, si è sforzata di
concettualizzare l’universale, ha preteso di essere, con le migliori e le peggiori
intenzioni, una “civiltà dell’universale”, in primo luogo attraverso il concetto di
obiettività. Aporia maggiore: l’Europa è l’unica ad aver voluto pensare l’universale, ma
l’universale, quando non è la semplice maschera di un inconfessato etnocentrismo, è
anche ciò che la pone di fronte al rischio di non sapere più quel che è. Da questa
aporia è possibile uscire solo sottolineando che “civiltà dell’universale” e “civiltà
universale” non sono sinonimi. Secondo un bel detto spesso citato, l’universale, nel
senso migliore del termine, è “il locale meno le mura”. L’ideologia dominante ignora
proprio la differenza tra “civiltà universale” e “civiltà dell’universale”. Per disposizione
dei suoi rappresentanti, l’Europa è stata condannata all’ignoranza di sé – e al
“pentimento” per ciò che è ancora autorizzata a ricordare –, mentre la religione dei
diritti dell’uomo universalizzerebbe l’idea del Medesimo. Un umanesimo privo di
orizzonte si è così assegnato il ruolo di giudice della storia, facendo dell’indistinzione
l’ideale redentore e celebrando di continuo il processo all’appartenenza che rende
specifici. Come ha affermato Alain Finkielkraut, “ciò significava che, per non
escludere più nessuno, l’Europa doveva disfarsi di se stessa, “desoriginarsi”,
conservare della propria eredità esclusivamente l’universalità dei diritti dell’uomo […]
Noi non siamo niente, è la condizione preventiva perché non siamo chiusi a niente e
a nessuno”35. “Vacuità sostanziale, tolleranza radicale”, ha potuto scrivere nello
stesso spirito il sociologo Ulrich Beck, mentre è invece il senso di vuoto a rendere
allergici a tutto. L’Europa può infatti essere accogliente verso gli altri solo nella
misura in cui è cosciente del modello di civiltà che la caratterizza. L’apertura non ha
senso nel vuoto; essa implica la capacità di scambio e di dialogo fra partners
chiaramente situati. Jean-Louis Bourlanges osserva che si “è preteso di “costruire
l’Europa” sulla base del riconoscimento di valori universali – la pace, la libertà, la
democrazia, i diritti della persona – e non dell’aggregazione e della sintesi delle
particolarità geografiche, storiche e culturali proprie dei differenti popoli del Vecchio
50
Continente […] Quel che definisce l’europeo degli ultimi cinquant’anni è la sua
volontà di sfuggire alla propria condizione storica per accedere alla condizione
umana”36. Ma, aggiunge, “l’Europa non è tanto la terra di coloro che praticano la
democrazia, quanto la terra di coloro che l’hanno inventata”37. Ed ancora: “Essere
europeo significa ereditare una storia e condividere attraverso quel lascito ricevuto e
rivendicato una certa maniera di vivere, di pensare e di sentire la propria relazione
con la politica”38. Questo lascito non deve certamente essere considerato
un’essenza, un deposito intangibile che si trasmette in forma identica di generazione
in generazione, bensì una sostanza complessa, associata ad una maniera specifica di
trasformare se stessi, nonché a una capacità permanente di narrarsi39. L’identità
europea non esclude i valori universali, ma può fondarsi su di essi. Se l’Europa ha
come esclusiva vocazione affermare “valori universali”, la costruzione europea non è
altro che l’inizio di un progetto universale. Come scrive Slavoj Zizek, “se la difesa
dell’eredità europea si limita alla difesa della tradizione democratica europea, la
battaglia è persa prima di cominciare”40. L’Europa in realtà deve avere l’ambizione di
essere nel contempo una potenza capace di difendere i propri interessi specifici, un
polo regolatore in un mondo multipolare o policentrico e un progetto originale di
cultura e di civiltà. Per raggiungere questo obiettivo non si può contare sugli ambienti
liberali, che hanno sì contribuito alla costruzione europea, ma in essa hanno visto
soltanto una tappa in vista dell’avvento del liberoscambismo mondiale. Hanno scritto
a tale proposito Ulrich Beck e Edgard Grande: “L’obiettivo del neoliberalismo globale
non è la creazione di un mercato unitario europeo, bensì la liberalizzazione mondiale
dell’economia. E dal momento in cui queste due dimensioni entrano in contraddizione,
dal momento in cui l’Europa si trasforma in “fortezza” e viene proposto di restringere il
raggio di azione del capitale, il neoliberalismo diventa antieuropeo […] La costruzione
di un’architettura istituzionale in Europa non è che un mezzo, non un fine in sé: è la
creazione di un’agenzia incaricata di porre in esecuzione la parola d’ordine “meno
Stato””41. Gli Stati Uniti non hanno mai adottato una politica diversa da questa. Al
contrario: il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa ha sempre obbedito agli
stessi principi: sì a un’Europa del libero scambio, no all’emergere di un concorrente o
di un rivale (un “peer competitor”) che possa dotarsi di mezzi atti a farne un attore
internazionale di spicco. Come Zbigniew Brzezinski ha spiegato senza giri di parole:
“Un’Europa emergente in ambito militare sarebbe un concorrente formidabile per
l’America. Inevitabilmente, costituirebbe una sfida per l’egemonia americana.
51
Un’Europa politicamente forte, che non dipendesse più militarmente dagli Stati Uniti,
metterebbe per forza in discussione il dominio americano e limiterebbe la supremazia
degli Stati Uniti alla regione del Pacifico”. Ai tempi della guerra fredda, gli Stati Uniti
hanno certamente incoraggiato la costruzione europea. Fra il 1949 e il 1959, in piena
guerra fredda, hanno anzi versato l’equivalente di 50 milioni di dollari attuali ai
movimenti europeisti, attraverso i servizi segreti o servendosi dell’American
Committee for United Europe (ACUE), fondato nel gennaio 1949 sotto la presidenza
di William Donovan, creatore nel 1942 dell’Office of Strategic Services (OSS),
antenato della CIA42. Nel 1952 è sempre Washington ad ispirare direttamente il
progetto di Comunità europea di difesa (CED), che avrà il sostegno del Vaticano ma
che i gollisti e i comunisti faranno fallire due anni dopo. Questo aiuto ai movimenti
europeisti si colloca nella cornice della strategia del “contenimento” teorizzata fin dal
1947 dal diplomatico americano George Kennan per contrastare l’Unione sovietica.
Costruire l’Europa significa allora riempire un vuoto che Stalin minaccia di riempire e
di conseguenza proteggere gli Stati Uniti. Nel contempo, sotto l’egida della NATO che
controllano, essi non si nascondono di volersi avvalere sul piano militare di capacità
europee complementari, ma soprattutto non autonome. Dopo il crollo del sistema
sovietico e la scomparsa dell’ordine bipolare ereditato da Yalta, gli Stati Uniti si sono
sforzati di rafforzare la loro posizione egemone, soprattutto con un ritorno all’uso
smodato dello “hard power”. Nel contempo hanno ridefinito la missione della NATO,
ormai dotata di una portata “globale” (la ristrutturazione dell’Alleanza atlantica è stata
confermata nel novembre 2002 con la firma, a Praga, del secondo allargamento della
NATO a beneficio dei paesi baltici, della Romania e della Bulgaria), e sfruttato i
disaccordi tra la “vecchia Europa” e l’Europa centrale e orientale, ieri baluardo
dell’Unione sovietica, in cui sperano di trovare nuovi alleati per accerchiare la Russia
ed incoraggiano e finanziano ogni sorta di “rivoluzioni pacifiche” miranti ad “instaurare
la democrazia”, vale a dire a creare una società di mercato. Questa alleanza
transatlantica è in realtà diventata un non-senso dopo la fine del sistema sovietico.
Gli interessi europei ed americani sono strutturalmente divergenti. Dal punto di vista
geopolitico, l’Europa e gli Stati Uniti rappresentano due entità, una terrestre e l’altra
marittima, che non possono che scontrarsi. Sul piano militare, un disaccoppiamento
all’interno della “difesa occidentale” è inevitabile. Tutti i sondaggi d’opinione mostrano
che la grande maggioranza degli europei vogliono un’Europa indipendente dagli
Usa43. Non si deve esitare a dirlo: l’Europa si farà solo contro gli Stati Uniti, giacché
52
questi ultimi non accetteranno mai l’emergere di una potenza rivale. Per il momento,
l’Europa rappresenta un’innegabile potenza economica pur restando, come la
Germania dopo la guerra, un nano politico. E anche questa potenza non dev’essere
sopravvalutata. Dal 2006, l’Europa è surclassata dai grandi paesi dell’Asia (India e
Cina). “Un grande mercato comune integrato, una moneta unica forte […] procurano
effettivamente grandi vantaggi concorrenziali alle imprese europee, che vedono
migliorare le loro possibilità di sopravvivenza su mercati in via di globalizzazione. Ma
ciò non produce ancora una “comunità economica” europea che possa essere una
sorta di grande nazione, come taluni avevano sperato”44. Tanto più che la nozione di
“preferenza europea” o di “preferenza comunitaria” non è attualmente contemplata in
alcun trattato. Sul piano della difesa, i progressi registrati negli ultimi anni rimangono
molto insufficienti. Secondo le cifre comparative fornite dalla NATO, l’importo delle
spese militari della Francia ha rappresentato nel 2006 l’equivalente di 579 dollari per
abitante, contro i 1436 dollari degli Stati Uniti. Quattro anni fa, Hubert Védrine
evocava questa alternativa: “Europa-potenza o semplice spazio di pace, di libertà e di
prosperità”45. Ma la pace, come sottolinea Dominique Schnapper, “non può essere
garantita dal solo godimento della partecipazione alla produzione razionale e del
consumo dei beni e dei servizi, accompagnato dall’indifferenza nei confronti del resto
del mondo e dalla chiusura delle frontiere”46. La pace può essere garantita solo dal
possesso degli strumenti per farla rispettare. È quanto constata Pascal Boniface
quando dichiara: “Il rifiuto della potenza per se stessi non impedisce agli altri di
sviluppare politiche di potenza […] Non viviamo in un mondo ideale, ma in un mondo
modellato e retto dai rapporti di forza […] Non possiamo nel contempo criticare
l’onnipotenza americana e non organizzare l’Europa della sicurezza per fare in modo
che essa possa essere un attore strategico autonomo sulla scena mondiale”47. In
fondo”, scribe Werner Weidenfeld, “quel che manca all’Europa per agire sulla scena
politica mondiale, è non solo un centro operativo, ma soprattutto un pensiero
strategico. Tutte le grandi potenze dell’Europa hanno perso la loro levatura mondiale
[…] Nessuno di questi Stati ha sviluppato la volontà di prendere i comandi e di
compensare a livello europeo questa perdita nazionale dell’orizzonte politico
mondiale. Questo deficit di pensiero strategico è il vero tallone d’Achille
dell’Europa”48 La potenza non va però concepita soltanto come potenza di fuoco
(tanto più che l’Europa è portatrice di un modello di organizzazione delle relazioni
internazionali ben diverso da quello degli Stati Uniti). La potenza dell’Europa è anche
53
lo sviluppo scientifico e tecnologico, la sovranità in materia di approvvigionamento
energetico, la partecipazione attiva di tutti alla cosa pubblica. È soprattutto la
capacità di inventare un modo di esistenza sociale che le sia caratteristico: di fronte a
un sistema di produzione e di consumo che produce una miseria simbolica
generalizzata, l’Europa deve poter offrire una risposta alla crisi della civiltà
capitalista49. Qui il concetto chiave è sovranità. Ma bisogna essere capaci di
concepirla in modo diverso da quello degli ambienti sovranisti, dei quali abbiamo già
avuto modo di criticare le posizioni su questo punto50. I sovranisti, seguiti dai
“nazional-repubblicani”, sono a favore di una concezione bodiniana della sovranità,
cioè di una sovranità indivisibile tale quale la concepisce Jean Bodin, non intesa
come una sovranità in ultima istanza. Ora, è un grave errore credere che per
definizione la sovranità non si divida. Essa può infatti ripartirsi senza cessare di
essere sovrana. Per quanto riguarda l’Europa, solo appoggiandosi alla concezione
bodiniana (o hobbesiana) della sovranità si è condotti a porre l’alternativa: o la
sovranità è dalla parte degli Stati membri, oppure è dalla parte dell’Unione europea (o
anche: o esistono diverse regolamentazioni nazionali, oppure esiste una
regolamentazione europea). Dal punto di vista della sovranità, la costruzione europea
diventa allora un gioco a somma zero. Ma in realtà la sovranità legale dello Stato
nazionale non equivale più, oggi, a una sovranità materiale concreta, il che vuol dire
che essa non gli consente più di svolgere concretamente i compiti che da esso ci si
può attendere. Viceversa, accettando l’idea di sovranità suddivisa (o ripartita) e
rinunciando alla propria parte di sovranità legale, le nazioni oggi possono sperare di
ritrovare per sinergia la sovranità materiale che hanno perso51. L’interdipendenza, in
questo senso, va al di là del semplice dualismo tra nazionale e sovranazionale. “La
questione della sovranità”, diceva molto giustamente Francois Bayrou, “non è la
prima questione della politica. È l’unica. Possiamo o no governare il nostro destino,
come cittadini e come popolo? Se la risposta è no, la democrazia è nulla e non
avvenuta. […] Per esercitare la sovranità dobbiamo costruire la nostra potenza. Una
sola via è disponibile, la via europea. Per ritrovare la sovranità perduta delle nazioni,
bisogna costruire la sovranità europea […] Esiste un’unica via verso l’unione politica
dell’Europa e la sua sovranità; è la via federale, la sola che consente di volere
insieme restando differenti”52. La critica sovranista secondo cui non può esserci
un’Europa politicamente unita poiché non vi è un “popolo europeo” ignora il fatto che
la Francia ha preceduto di gran lunga l’esistenza di un “popolo francese”, di cui non si
54
constata la piena realtà politica prima del XVIII secolo. Stato e nazione sono le “due
ante indissociabili della modernità”(Marcel Gauchet), ma non appaiono
contemporaneamente: in Francia, lo Stato precede di vari secoli la nazione53.
L’assenza di un popolo europeo, nel senso stretto (cioè politico) di questo termine,
non è dunque un ostacolo alla costruzione dell’Europa, una delle cui ragioni d’essere
è appunto quella di formare lo spazio pubblico nel quale possa sbocciare una
cittadinanza europea54. Quanto alla forma repubblicana o ai costumi democratici,
contrariamente a quanto sostiene Dominique Schnapper55, esse non sono nella loro
essenza legate allo Stato nazionale. Resta infine da capire se la nozione di popolo
debba essere collegata in primo luogo alla nozione di nazionalità o a quella di
cittadinanza, perché queste ultime due non sono sinonimi: soltanto la cittadinanza è
una nozione intrinsecamente politica (in un’ottica non giacobina, si potrebbe essere
nel contempo di nazionalità bretone e cittadino francese, così come si potrebbe
essere di nazionalità francese e cittadino europeo56. Un tipico errore del modo di
ragionare ispirato al principio dell’ontologia nazionale consiste nell’analizzare i
rapporti fra la sovranazionalità e le sovranità nazionali come un gioco a somma zero
(tutto ciò che sarebbe guadagnato dall’una sarebbe automaticamente perso dalle
altre) invece di analizzarlo come un gioco a somma positiva, il che è possibile
tenendo conto della logica di inclusione additiva e degli effetti di retroazione. Un altro
errore, parallelo, è quello di credere che le competenze nazionali e sovranazionali
possano essere chiaramente e stabilmente separate, quando invece sono in realtà
intricate in un sistema di interazione complessa. Questo ragionamento, rendendo
incapaci di cogliere le specificità del progetto europeo, impedisce anche di vedere
che lo Stato nazionale è già stato trasformato dall’apparizione di una molteplicità di
forme di potere transnazionale che vanno oltre sia la nazione che l’Europa, e che la
costruzione di un’Europa politica potrebbe appunto essere un modo di fronteggiarle.I
sovranisti vogliono in genere ridurre la costruzione europee ad iniziative
intergovernative: l’“Europa delle nazioni” (o “delle patrie”) è l’intergovernatività. Ma
“l’intergovernatività è la zona di libero scambio. Le due parole sono sinonimi”57.
Senza rendersene conto, opponendosi all’Europa-potenza, i sovranisti favoriscono
automaticamente l’Europa del libero scambio, che pure la maggior parte di loro
respingono esplicitamente. Arcaica e irreali sta, l’opposizione dei sovranisti all’Europa
in nome dello Stato nazionale sfocia non nella salvaguardia delle nazioni, ma nel
declino o nella stagnazione dell’Europa e al suo “sganciamento” sempre più
55
accentuato sulla scena internazionale.La difficoltà di analisi deriva dal fatto che
l’Europa di Bruxelles rimane un oggetto istituzionale non identificato. Contrariamente
a ciò che talvolta si dice, non è né una federazione sovranazionale né una
confederazione intergovernativa58. E neppure è propriamente un “super-Stato”, così
come non è una semplice “organizzazione internazionale”, cosicché in definitiva
nessuno sa bene come definirla: rete istituzionale, forma particolare di
interdipendenza transnazionale a più livelli, sovrastruttura parastatale, Stato
“consociativo”, insieme di reti di governance, e così via59. L’integrazione europea è
stata sin dall’inizio un processo dinamico dal risultato aperto, sia verso l’interno
(crescita costante delle competenze dell’Unione europea) sia verso l’esterno
(allargamento non meno costante a nuovi paesi). La Commissione europea, da sola,
cumula funzioni legislative, esecutive, politiche, economiche e amministrative
totalmente inedite. E di fronte a questa nuova realtà, ognuno tende a proiettare
sull’Europa la propria struttura istituzionale. La cultura politica centralizzatrice della
Francia spiega perché la sua classe politica non si sia mai seriamente occupata del
problema della ripartizione delle competenze. In generale, la costruzione dell’Europa
è un po’ ovunque percepita – sia che ci se ne rallegri, sia che ci se ne rattristi – come
la messa in opera di un principio regolativo mirante all’omogeneità ricalcato sulle
principali caratteristiche della dottrina classica dello Stato, mentre il concetto classico
di “Stato” non permette in alcuna maniera di cogliere la realtà dell’“Europa” odierna.
Da questo punto di vista, Ulrich Beck e Edgar Grande non hanno torto quanfo
affermano che “l’esempio dell’Europa dimostra nel modo più chiaro possibile sino a
che punto i nostri concetti politici e l’attrezzatura teorica delle scienze sociali siano
diventati estranei alla realtà e inoperanti – poiché restano intrappolati nell’apparato
concettuale del nazionalismo metodologico”60. Ciò è particolarmente vero in Francia,
dove l’Europa è sempre pensata a partire da un quadro concettuale legato al modo
particolare di costruzione dello Stato nazionale. Anche altrove, molti critici dell’Europa
ma anche suoi sostenitori attestano la medesima incapacità a oltrepassare
mentalmente il modello dello Stato nazionale. Essi ragionano come se l’Europa
dovesse necessariamente essere concepita come una nazione allargata, una “grande
nazione” più vasta delle altre. I sovranisti non vogliono integrarsi in una nazione di
quel genere perché non vi si riconoscono, mentre altri sognano una “nazione
europea” che riproduca su più grande scala tutte le caratteristiche repubblicane e
unitarie delle nazioni “classiche”61. L’Europa in realtà non ha lo scopo di cancellare
56
le nazioni, bensì di oltrepassarle nel senso hegeliano del termine, separando la
nazione dallo Stato. Le nazioni sono realtà storiche che devono essere tenute in
conto, in un’ottica segnata dall’applicazione sistematica del principio di sussidiarietà,
allo stesso titolo delle regioni, delle “aree-sistema” e dei territori articolati intorno alle
grandi città. L’Europa deve restare anche nazionale, anche se non sarà mai
esclusivamente nazionale. Non è dunque tanto la nazione che bisogna cercare di
ritrovare a livello europeo, ma è la politica che bisogna reintrodurvi. Si parla
giustamente di “costruzione europea”. Ogni costruzione implica una decisione, ogni
costruzione politica esige una decisione politica. Ma una decisione politica senza
legittimità democratica non comporta né fiducia né obbedienza. Il che implica la
creazione di istituzioni politiche europee che non siano colpite dall’attuale deficit di
democrazia ma costituiscano un luogo di decisione e di regolamento dei conflitti
secondo regole accettate da tutti. Una cittadinanza postnazionale deve rimanere una
cittadinanza politica (non ce n’è un’altra), che non si può svolgere e mettere alla
prova se non all’interno di uno spazio pubblico organizzato a tale scopo. Per iniziare,
si potrebbe far sì che i membri del Parlamento europeo, oggi non in grado di
funzionare come un parlamento vero soprattutto a causa della pluralità degli spazi
politici europei, si presentino alla prova del voto non su liste nazionali ma su liste
composte a seconda degli orientamenti politici, affinché le elezioni “europee” perdano
il significato prima di tutto nazionale che ancora oggi hanno. Ma rimediare al deficit
democratico dell’Europa non vuol dire limitarsi ad accrescere i poteri del Parlamento
europeo. Significa anche incoraggiare l’“europeizzazione” delle lotte sociali e ricorrere
a nuove prassi di democrazia partecipativa (o “consociativa”) a tutti i livelli: azione
locale, organizzazione di referendum europei di iniziativa popolare, ecc.62. Essendo
lo spazio pubblico prima di tutto il luogo delle prassi sociali, si tratta di dare un
contenuto concreto a una cittadinanza ancora astratta che non può ridursi ad
associare individui sgombrati delle loro eredità, delle loro fedeltà e delle loro passioni.
L’obiettivo non sarebbe più, allora, realizzare l’unità dell’Europa riducendone la
diversità, tramite soprattutto una regolamentazione sovranazionale omogenea, bensì
far poggiare la costruzione europea sulla considerazione di questa diversità,
attraverso la messa in opera di un principio di integrazione differenziata, asimmetrica,
a geometria variabile. Come scrivono Beck e Grande, “la diversità non è il problema,
ma la soluzione”63. Non essendo praticabile il modello dello Stato nazionale, verso
quale modello alternativo ci si può volgere? La storia dell’Europa ne suggerisce uno:
57
quello dell’Impero. Peter Sloterdijk è uno di coloro che hanno colto l’affinità fra la
costruzione europea e il modello imperiale. Ingiungendo agli europei di rompere con
le “ideologie dell’assenza”, egli reputa che l’Europa sia “un teatro per le metamorfosi
dell’Impero”, il che lo conduce a raccomandare un “trasferimento decisivo dell’Impero
verso un’unione di Stati continentale e paneuropeo”64. Ciò rende necessario,
ovviamente, intendersi sul concetto di Impero. L’Impero di cui qui si discute non ha
naturalmente niente a che vedere con gli imperi coloniali o con gli imperialismi
moderni. L’Europa di Napoleone e di Hitler non era altro che un espansionismo
nazionale. Così come le “grandi potenze” (great powers) non sono imperi, ma Stati
forti. Nello Stato nazionale, la nazione, nata da una presa di possesso territoriale-
patrimoniale, è il risultato della semplice adesione degli individui allo Stato, giacché la
loro solidarietà discende esclusivamente dalla comune appartenenza amministrativa
a quello Stato. La cittadinanza in quel caso è solo una formalità amministrativa.
Cittadinanza e nazionalità sono, inoltre, automaticamente sinonimi, il che pone il
problema delle minoranze nazionali (linguistiche, culturali o di altro genere). L’Impero
corrisponde viceversa alla personificazione giuridica e all’espressione politica di una
o di molteplici comunità fondate su solidarietà naturali diverse dalla consanguineità.
Cittadinanza e nazionalità sono distinte. Gli imperi non sono soltanto Stati più grandi
o più estesi degli altri. I veri imperi sono sempre plurinazionali. “Riuniscono più etnie,
più comunità, più culture, un tempo separate, sempre distinte”65. L’Impero organizza
i rapporti di potere in una maniera del tutto diversa dallo Stato nazionale, nella misura
in cui la forma di dominio che incarna “mira costantemente a dominare dei non-
dominati”66, appoggiandosi non tanto al potere gerarchico del comando quanto sul
plusvalore politico apportato dalla cooperazione delle differenti entità politiche che
ingloba. Lo Stato nazionale moderno mira peraltro all’omogeneità delle norme e delle
regolantazioni, che è garantita giuridicamente dall’eguaglianza formale dei diritti,
mentre gli imperi tendono ad instaurare norme asimmetriche o differenziate in
funzione delle specificità socioculturali locali. L’Impero è una modalità di gestione e di
organizzazione della diversità. È proprio questo che ha fatto dire a vari autori che
l’Europa può essere pensata unicamente sul modello dell’Impero, ma di un impero
“post- imperialista”, adattato al nostro tempo, vale a dire privo di mire egemoniche.
Fra questi autori figurano Ulrich Beck e Edgar Grande, i cui punti di vista sono a volte
completamente divergenti dai nostri (essi riducono l’identità europea al fatto che essa
è portatrice di “valori universali”), ma meritano comunque di essere esaminati. Beck e
58
Grande si pronunciano nettamente a favore di un “impero europeo”, pur affermando
che l’Europa deve dotarsi di una nuova identità di tipo “cosmopolita”67. Dato che il
termine potrebbe agevolmente servire da respingente, bisogna precisare che ciò che i
due autori tedeschi chiamano “cosmopolitismo” non si confonde esattamente con quel
che la maggior parte delle volte si intende con tale parola. Con l’espressione “Europa
cosmopolita”, essi intendono designare un’Europa post- egemonica, che non si fondi
sul “modello di un demos europeo o di un monopolio statale europeo in senso
convenzionale – cioè sull’omogeneizzazione e l’uniformità”68. “Il cosmopolitismo”,
scrivono, “combina una stima per la differenza e l’alterità con la preoccupazione di
concepire nuove forme democratiche di dominio politico al di là degli Stati
nazionali”69; è dunque una forma particolare di trattamento sociale dell’alterità
culturale, fondata sul principio di esclusione additiva (“et-et”). Beck e Grande badano
inoltre a distinguere nettamente questo “cosmopolitismo” da tre altre forme di
trattamento sociale dell’alterità: prima di tutto, ovviamente, il nazionalismo, che tende
ad abolire le differenze all’interno in una prospettiva egualitaria ma ad esagerarle o
renderle più rigide all’esterno in una prospettiva il più sovente gerarchica, ma anche
l’universalismo, sostanziale o procedurale, che mira a stabilire un’eguaglianza
formale svalutando la varietà umana a profitto di una sola ed unica norma (al di là di
ciò che li distingue, gli individui e i popoli sono posti come essenzialmente identici), e
il multiculturalismo postmoderno, che tende a fare della dissomiglianza un assoluto.
Essi concludono che “un’Europa cosmopolita sarebbe innanzitutto un’Europa della
differenza, di una differenza accettata e riconosciuta”70. Beck e Grande affermano
peraltro che “l’Europa può definirsi solo sotto forma di un progetto politico”71.
Scrivono, inoltre, che “l’Europa cosmopolita deve saper resistere a due tentazioni. La
prima è la seguente: l’identità etnica è un’essenza, una natura, qualcosa di dato una
volta per tutte, di concreto e di obiettivo. E la tentazione inversa consiste nel partire
dal principio che la differenza etnica non è altro che un’illusione”72. Quest’ultima
osservazione si colloca all’interno di una critica delle “contraddizioni tipiche”
dell’“universalismo cieco ai colori”: “Da un lato, l’alterità dell’altro è superata poiché
egli è considerato un eguale e trattato in quanto tale; per un altro verso, ciò finisce col
far negare la realtà dell’altro – colui o colei che non vuole abbandonare la posizione
dell’alterità è escluso/a […] Essere ciechi alla differenza significa perpetuare il
dominio culturale”73. “Il concetto d’impero”, scrivono Beck e Grande, “possiede
perlomeno tre carte vincenti. In primo luogo, consente di intravedere nuove forme
59
d’integrazione politica al di là degli Stati nazionali e libera l’analisi del dominio politico
dalla sua fissazione sullo Stato. Secondo punto forte: parlare d’impero apre gli occhi
sull’asimmetria realmente esistente del potere degli Stati, in altre parole la fa finita
con la finzione di una eguaglianza fra gli Stati sul piano della sovranità. Terzo
vantaggio: storicizza la separazione tra il nazionale e l’internazionale, e rimette in
discussione l’assiomatica che ancora regge il pensiero e l’azione sia in politica sia
nelle scienze politiche”74 Qui però si pone un problema particolare. Le frontiere
esterne degli imperi, contrariamente a quelle delle nazioni, sono aperte e flessibili.
Tuttavia, nel caso dell’Europa, anche un impero europeo deve fissarsi delle frontiere.
È un paradosso al quale Beck e Grande sono sensibili, ancorché parteggino per
un’Europa “portatrice di valori universali”. Scrivono: “Ogni impero tende nel fondo di
se stesso all’estensione, all’abolizione delle frontiere – e l’Impero europeo anche. Ma
in quanto Impero europeo, esso non può ambire a una dimensione universale, e nel
contempo deve stabilire le sue stesse frontiere. Queste frontiere possono variare con
l’andar del tempo, possono essere politicamente contingenti, ma, comunque stiano le
cose, bisogna che esistano”75. Dinanzi a questa “contraddizione fondamentale”,
l’imbarazzo dei due autori è palpabile. Beck e Grande chiamano dunque “impero”
quell’Europa “cosmopolita” che auspicano, sottolineando – beninteso – che si
tratterebbe di un impero senza alcun germe d’imperialismo: “L’Europa è l’impero
senza potenza egemonica”76. Un partenariato che associasse l’Unione europea alla
Russia potrebbe successivamente condurre ad un’“Europa dei due imperi”77,
attendendo la messa a punto di una struttura più ampia che interessasse il continente
euroasiatico nel suo insieme. Ma ovviamente queste sono prospettive lontane.
Nell’immediato, come uscire dal vicolo cieco nel quale “l’Europa” si è rinchiusa? Per il
momento, sembrano esserci soltanto tre possibilità: proseguire sulla stessa strada, di
cui adesso conosciamo i risultati; ripiegare sulle sole strutture nazionali, come
auspicano i sovranisti, e in questo caso la “costruzione” europea si ridurrebbe a
semplici iniziative intergovernative in alcuni ambiti specifici; oppure sforzarsi di dare
all’Unione europea vere istituzioni politiche mettendo fine una volta per tutte
all’equivoco sulle finalità. Ma se si sceglie quest’ultima opzione, ci si rende subito
conto che essa – per usare un eufemismo – non trova l’unanimità degli Stati membri.
La soluzione per uscire dallo stallo potrebbe consistere nel fare un passo indietro
per poi poterne fare due in avanti. Già qualche anno fa Henri de Grossouvre aveva
60
formulato un progetto di asse Parigi-Berlino- Mosca78, prospettiva stimolante che
però sinora non ha potuto concretizzarsi, soprattutto a causa dell’ascesa al potere di
Angela Merkel in Germania e di Nicolas Sarkozy in Francia. Il medesimo autore ha
più di recente proposto la costituzione di un “nucleo duro”, o più esattamente di
un’“avanguardia”, che raggruppi soltanto i paesi decisi a procedere sulla via
dell’approfondimento delle istituzioni politiche. Questa avanguardia assocerebbe la
Francia, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo, l’Ungheria e l’Austria. Scrive
Grossouvre: “L’Europa si trova al bivio. O un numero ristretto di paesi rilancia, in
maniera credibile, la costruzione europea e l’Europa può di nuovo esistere e pesare,
o l’Europa viene progressivamente emarginata, economicamente, politicamente e
demograficamente”79.
Henri de Grossouvre sottolinea a questo proposito che la linea divisoria tra sostenitori
e avversari dell’Europa-potenza attraversa tutti gli spartiacque politici abituali e che
non può esserci un’avanguardia operativa senza la Francia e la Germania, paesi che,
rappresentando da soli 142 milioni di abitanti e il 41% del bilancio dell’Unione,
costituiscono il “cuore carolingio” dell’Europa danubiana80. Anche in questo caso,
l’idea è interessante. Corrisponde del resto a varie proposte avanzate in passato. Già
a suo tempo Paul-Henri Spaak parlava degli Stati membri decisi ad “andare più in
fretta e più lontano”. Sin dal 1975, il rapporto Tindemans sosteneva che “gli Stati che
sono in grado di farlo hanno il dovere di andare avanti”. Quasi vent’anni più tardi, nel
1994, i deputati tedeschi Wolfgang Schauble e Karl Lamers avevano lanciato l’idea di
un “nucleo duro di paesi desiderosi di integrarsi e di cooperare”, senza tuttavia
ottenere la benché minima risposta dal governo Balladur81. L’anno seguente, Hervé
de Charrette evocava la possibilità che si creasse un polo “più integrato” fondato “su
un gruppo di paesi raccolti attorno alla coppia franco- tedesca”. Lo stesso anni,
Valéry Giscard d’Estaing, nel suo Manifesto per una nuova Europa federativa, parlava
di una “Europa a volontà politiche differenziate”. Nel maggio 2000, prendendo la
parola all’Università Humboldt di Berlino, Joschka Fischer, all’epoca ministro tedesco
degli Esteri, aveva a sua volta perorato la causa di un “centro di gravità formato da
alcuni Stati capaci […] di progredire sulla strada dell’integrazione politica” e che
convenissero fra di loro di gettare “le basi di un nuovo trattato europeo”, formula alla
quale la Francia, di nuovo, non aveva dato seguito82. Nello stesso periodo, Jacques
Delors dichiarava: “Se si vuole perseguire l’obiettivo di un’Europa politica, bisogna
consentire a questa avanguardia di costituire quella che io chiamo una federazione
61
degli Stati nazionali”83. Altri progetti hanno evocato una costruzione europea a
partire da “cerchi concentrici”, in cui il cerchio più stretto definirebbe un insieme
veramente integrato sul piano politico e gli altri degli insiemi più larghi, soggetti ad
obblighi meno cogenti. “L’incapacità di accettare gli scenari istituzionali
dell’avanguardia o del nocciolo duro proposto da parecchie personalità francesi o
tedesche (progetto Schauble-Lamers, proposta Delors di federazione di Stati
nazionali, proposta Fischer di centro di gravità del maggio 2000) nella quale si sono
trovati, dal 1994 in poi, i governi francesi, di sinistra o di destra, ha accresciuto il
disincanto dei filoeuropei francesi”, ha osservato recentemente Christian
Lequesne84.
In questi ultimi anni si sono tuttavia fatte sentire nuove voci che vanno nella stessa
direzione. Nel 2004, Gunther Hofmann ha scritto: “Non si potrà fare altrimenti: due,
tre o quattro, se non cinque o sei, governi devono semplicemente prendere l’iniziativa
di una politica che rifletta ciò che è specificamente “europeo””85. Nel 2005, anche
l’economista René Passet si è pronunciato per la creazione di un “nocciolo duro
comunitario europeo”: “Il ritorno allo spirito delle origini, che non può essere effettuato
dal grande numero, alcune nazioni possono realizzarlo”86. Dal canto suo, Jacques
Delors ha riaffermato la sua posizione: “Ogni volta che si propone un passo avanti
verso l’Europa politica, ci si obietta che su questi argomenti non c’è unanimità. È un
motivo per perorare la causa della differenziazione […] A quando la prima iniziativa
per la marcia in avanti di un gruppo di Stati membri sull’UEM, sul sociale,
sull’energia? Per quanto mi riguarda, io rifiuto un’Europa che avanzi esclusivamente
al ritmo dei meno impegnati e degli euroscettici”87. Tecnicamente, questa possibilità
non ha niente di utopico. Già da tempo, del resto, i paesi dell’Unione europea non
avanzano più allo stesso passo. L’Inghilterra e la Danimarca si sono viste concedere
il diritto di non applicare taluni aspetti dei trattati conclusi dagli altri Stati membri. Lo
“spazio Schengen” è più piccolo di quello dell’Unione, giacché associa, dal maggio
2005, solo alcuni Stati membri, e lo stesso accade con la zona euro, in cui parecchi
membri dell’Unione non sono ancora entrati. Viceversa, il Consiglio d’Europa associa
non meno di 46 paesi.
Non si tratterebbe quindi di cercare di sostituire l’Unione europea, ma di creare al
suo interno, e tuttavia separatamente da essa, una struttura di approfondimento
destinata a chi vuole andare oltre, essendo inteso che quella struttura, all’inizio
62
incentrata attorno allo spazio renano, potrebbe poi estendersi a tutti gli altri paesi che
accettassero di condividerne le regole. Una simile struttura non potrebbe però
ovviamente limitarsi a sfruttare le possibilità di “cooperazione rafforzata” che già
esistono all’interno dell’Unione, nella misura in cui quest’ultima costituisce solamente
una modalità intergovernativa di intervento in ambiti molto limitati che non fanno parte
delle competenze esclusive dell’Unione88. Il problema è che la volontà politica
continua a fare difetto, e che chi è stato incapace di mettere in opera l’asse Parigi-
Berlino-Mosca a quanto pare non ha neanche l’intenzione di creare un altro “nocciolo
duro”. “La creazione di un’avanguardia per costituire una massa critica”, scrive
Hajnalka Vincze, “può apportare reali risposte solo se questo gruppo “pioniere” è
capace di fare pienamente proprie le priorità politico- strategiche che gli toccano […]
Gli Stati dell’avanguardia devono immediatamente dar prova di una politica
responsabile in termini di sovranità, che non tollera né l’accecamento dell’ingenuità
pacifista né i riflessi condizionati di subordinazione atlantista”89. Bisogna ammettere
che ne siamo ancora lontani. Ma perlomeno questa è una pista da seguire. Già
Nietzsche diceva: “L’Europa si farà solo al margine della tomba”.
1 “Le Nouvel Observateur”, 15 dicembre 2005. 2 Cfr. Jean-Michel Vernochet (a
cura di), Manifeste pour une Europe des peuples, Editions du Rouvre, Paris 2007. 3
Cfr. Richard N. Coudenhove-Kalergi, Kampf um Paneuropa, 3 voll., 1925-28 ; Die
europaische Nation, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1953. 4 Cfr. David Mitrany, A
Working Peace System, Quadrangle Books, Chicago 1966. 5 Su Jean Monnet, cfr. in
paricolare Eric Branca, De Gaulle-Monnet ou le duel du siècle, in “Espoir”, 117,
novembre 1998. 6 Cfr. Claudio Giulio Anta, Les pères de l’Europe. Sept portraits,
PIE-Peter Lang, Bruxelles 2007, il quale ricorda l’itinerario di Jean Monnet, Robert
Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Paul-Henri Spaak, Altiero Spinelli e
Jacques Delors. 7 Prefazione a Bernard Dumont, Gilles Dumont e Christophe
Réveillard (a cura di), La culture du refus de l’ennemi. Modérantisme et religion au
seuil du XXIe siècle, Presses universitaires de Limoges, Limoges 2007, pag. 12. 8
Jean-Marie Mayeur, in Des partis catholiques à la démocratie chrétienne, XIXe – XXe
siècle, Armand Colin, Paris 1980, pag. 227. 9 Christophe Réveillard, Les catholiques
et la sécularisation : le role des “constructeurs de l’Europe”, in Bernard Dumont,
Gilles Dumont et Christophe Réveillard (a cura di), op. cit., pag. 54. 10 Corinne 63
Gobin, Le discours programmatique de l’Union européenne, in “La légitimation du
discours économique”, numero speciale di “Sciences de la société”, Toulouse, février
2002. 11 FrancoisBayrou,Pasd’Europesansfédéralisme,in“Libération”,14giugno2001.
12 Jean-Claude Eslin, Des propositions francaises pour l’Europe?, in “Esprit”,
febbraio 2006, pag. 44. Cfr. anche Anne- Marie Le Pourhiet, Qui veut de la
postdémocratie?, in “Le Monde”, 11 marzo 2005. 13 Cfr. Catherine de Wenden,
Citoyenneté, nationalité et immigration, Arcantère, Paris 1987; Yasemin Nuhoglu
Soysal, Limits of Citizenship. Migrants and Postnational Membership in Europe,
Chicago University Press, Chicago 1994. 14 RenéPasset,Au-
delàduouietdunon,in“Libération”,15marzo2005,pag.35. 15
DominiqueSchnapper,Lesnationsetlacitoyennetéeuropéenne,in“Causecommune”,prim
avera2007,pag.70. 16 ChantalDelsol,QuelleEuropevoulons-
nous?,in“LeFigaro”,31marzo2005. 17 “Si rendeva così platealmente palese,
attraverso questo episodio simbolico, il vero significato dell’allargamento: una
capitolazione senza condizioni degli europei davanti agli Stati Uniti, giacché gli ultimi
ammessi si sono dimostrati i più preoccupati di fare immediato atto di sottomissione
verso l’impero americano» (Jacques Julliard, L’Europe, ce machin!, in “Le Nouvel
Observateur”, 9 gennaio 2003, pag. 34). 18 Cfr. Werner Weidenfeld, Erweiterung
ohne Ende? Europa als Stabilitatsraum strukturieren, in “Internationale Politik”, 2000,
8, pagg. 1-10. 19 Jean-Louis Bourlanges, Ankara et l’Union européenne : les
raisons du “non”, in “Politique internazionale”, autunno 2004, pagg. 59-60.
“L’adesione turca”, aggiunge Bourlanges, rallegra nel contempo gli intergovernativisti,
che desiderano strangolare l’idea federale, gli atlantisti, ben decisi a silurare l’idea di
un’Europa indipendente dagli Stati Uniti, i multiculturalisti, ossessionati dallo spettro
di una guerra di civiltà, il grande patronato, sedotto da una triplice promessa di
esportazione, delocalizzazione e immigrazione, e persino certi adepti dell’Europa-
potenza, ben contenti di poter opporre i ragazzi ben piantati del Bosforo ai
woodstockiani complessati del Nord Europa” (ibidem, pagg. 45-46). Va ricordato
peraltro che nel corso della sua campagna elettorale Nicolas Sarkozy si era
pronunciato a favore della soppressione dell’articolo 88-5 della Costituzione, adottato
dai parlamentari riuniti a Congresso a Versailles nel 2005, che prevede di sottoporre
a referendum ogni nuovo allargamento dell’Unione europea dopo l’adesione della
Romania, della Bulgaria e della Croazia. L’ingresso della Turchia nell’Unione, al quale
il presidente francese dichiara di opporsi ma che ha il sostegno del suo ministro degli
64
Esteri, Bernard Kouchner, potrebbe così essere votato dal Parlemento senza che il
popolo venga consultato. 20 DominiqueStrauss-
Kahn,in“LeMeilleurdesmondes”,2,autunno2006. 21 Cf. Christophe Réveillard,
Emmanuel Dreyfus e Dominique Barjot, Penser et construire l’Europe, du traité de
Versailles au traité de Maastricht (1919-1992), Sedes, Paris 2007; Nicolas Roussellier
(a cura di), L’Europe des traités, de Schuman à Delors, CNRS Editions, Paris 2007.
22
PhilippeForget,Letraitéeuropéen:uneConstitutionposticheetliberticide,in“LaRaison”,ma
ggio2005. 23 «Se si fosse voluta innalzare una politica economica al rango di
dogma costituzionale […] non ci si sarebbe comportati diversamente […] Dal punto di
vista economico, non è della costruzione dell’Europa che si tratta, ma del
neoliberalismo elevato al rango di religione ufficiale», ha potuto scrivere René Passet,
art. cit.
Cfr. a questo proposito Frédéric Lordon, Le mensonge social de la
Constitution, http://frederic.lordon.perso.cegetel.net//Textes/Textes_Interventions/
Textes_TCE/Mensonge%20social.pdf. 25 Sul progetto di Carta dei diritti
fondamentali, cfr. l’analisi critica dettagliata pubblicata nel 2003 nel Recueil Dalloz da
Gilles Lebreton, preside onorario della Facoltà degli affari internazionali
dell’Università di Le Havre, sotto il titolo La fin des droits de l’homme et du citoyen?
(“Chronique”, pag. 2319). 26 Su questo punto, Laurent Cohen-Tanugi non ha torto
quando scrive che “sono state le carenze economiche, sociali e politiche a provocare
alla fine la bocciatura, e non l’inverso” (La fin de l’Europe?, in “Commentaire”, inverno
2005-2006, pag. 807). 27
ValéryGiscardd’Estaing,LaboiteàoutilsdutraitédeLisbonne,in“LeMonde”,27ottobre2007
. 28 Cfr.Paul-MarieCouteaux,Relationd’unesupercherie,in“LaNef”,luglio-
agosto2007,pagg.16-17. 29 Anne-Marie Le Pourhiet, testo del 10 novembre 2007.
Cfr. anche Paul-Marie Couteaux, NCE : le coup d’Etat, in “La Lettre de
l’indépendance”, novembre 2007, pag. 1 30
UlrichBecketEdgarGrande,Pourunempireeuropéen,Flammarion,Paris2007,pag.314.
31 JacquesDelors,in“LeMonde”,19janvier2000. 32
Cfr.JordisvonLohausen,MutzurMacht.DenkeninKontinenten,Vowinckel,BergamSee197
9.Cfr.ancheCarl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale,
Labyrinthe, Paris 1985; Le Nomos de la Terre, Presses Universitaires de France,
Paris 2001 33 FrancoisBayrou,art.cit. 34 Jean-LouisBourlanges,art.cit.,pag.50. 35
65
DibattitoconPaulThibaud,in“LeMonde”,11-12novembre2007,pag.15. 36 Jean-
LouisBourlanges,art.cit.,pag.42. 37 Ibidem,pag.54. 38 Ibidem,pagg.54-55. 39
Cfr.AlaindeBenoist,Nousetlesautres.Problématiquedel’identité,Krisis,Paris2006. 40
Slavoj Zizek, Que veut l’Europe ? Réflexions sur une nécessaire réappropriation,
Climats, Castelnau-le-Lez 2005. Cfr. anche Chantal Delsol, art. cit.: «L’Europa non è
quell personaggio senza qualità che crede di essere, non è l’universale in marcia al
quale tutte le culture dovrebbero identificarsi […] Un’Europa che teme di darsi un
nome non mi interessa». 41 UlrichBecketEdgarGrande,op.cit.,pagg.209-210e213. 42
Il vicepresidente dell’ACUE, Walter Bedell Smith, già ambasciatore a Mosca,
diventerà il capo della CIA nel 1950, finché non sarà rimpiazzato, tre anni dopo, da un
altro dirigente del Comitato, Allen Dulles. Sarà ancora il denaro americano a
consentire di preparare le prime riunioni del Consiglio d’Europa a Strasburgo. E a
permettere, ma questo lo si saprà solo più tardi, la fondazione del Congresso per la
libertà della cultura, editore in Francia della rivista “Preuves” (e in Inghilterra della
rivista “Encounter”), finanziata dalla CIA attraverso la Fondazione Fairfield. 43 Era,
in particolare, l’opinione dell’82 % delle personne intervistate secondo il sondaggio
Eurobarometro pubblicato nel giugno 2005. 44
UlrichBeckeEdgarGrande,op.cit.,pag.277. 45 In“LeMonde”,22maggio2003. 46
DominiqueSchnapper,op.cit.,pag.71. 47 Pascal Boniface, La puissance militaire
n’est pas nécessairement agressive, in “Politis”, 1 novembre 2007, pagg. 25-26. 48
WernerWeidenfeld,DasstrategischeDefizit–
dieAchillesferseEuropas,tesi,Munchen2003,pag.14. 49
ÈunodeipuntirichiamatidaBernardStieglerinConstituerl’Europe,Galilée,Paris2005,2voll.
50 Cfr.AlaindeBenoist,“Souverainistes”etsouveraineté,inCritiques–
Théoriques,L’Aged’Homme,Lausanne2002, pagg. 469-489. 51
Cfr.EdgarGrandeeLouisW.Pauly(acuradi),ComplexSovereignty.ReconstitutingPolitical
Authorityinthe21st Century, University of Toronto Press, Toronto 2005. 52
FrancoisBayrou,art.cit. 53 “Mai lo Stato ha coinciso con una preesistente unità di
sangue e di lingua”, faceva notare dal suo canto José Ortega y Gasset (La révolte
des masses, Stock, Paris 1961, pag. 221) 54 Cfr. in particolare Joseph H.H. Weiler,
Ulrich R. Haltern e Franz C. Mayer, European Democracy and Its Critics, in “West
European Politics”, 1995, 3, pagg. 4-39. 55 Dominique Schnapper assicura che
soltanto nel contesto della nazione possono costruirsi e svilupparsi le prassi
democratiche, perché “tutto ciò che dà una realtà concreta al principio di cittadinanza
66
è sempre stato e rimane, per il
24
momento, nazione” (art. cit., pag. 63). Il cittadino di Atene era cittadino di una
nazione? Altrettanto discutibile è l’idea che “il principio di cittadinanza acquista un
vero senso e organizza realmente le società storica solo se si colloca all’interno di
istituzioni politiche e prassi sociali la cui legittimità è stata interiorizzata nel corso dei
secoli” (ibidem, pag. 62). Schnapper ammette tuttavia anche che “sono stati i
nazionalismi del XIX secolo e la filosofia sociale che li accompagnava a stabilire il
principio secondo cui la nazionalità e la cittadinanza dovevano essere confuse”.
56 Cfr.ElizabethMeehan,CitizenshipandtheEuropeanCommunity,Sage,London1993.
57 FrancoisBayrou,art.cit.
58 Malgrado le differenze formali, non è peraltro sempre semplice distinguere
federazione e confederazione. La
confederazione elvetica, ad esempio, si definisce repubblica federale.
59 Nell’ottobre 1993, la Corte costituzionale tedesca, in una sentenza relativa al
trattato di Maastricht, aveva dichiarato che
“il trattato sull’Unione europea fonda un’associazione di Stati che ha lo scopo di
realizzare un’unione sempre più stretta fra
i popoli d’Europa organizzati in Stati, e non uno Stato che poggi su un popolo
europeo costituito in demos”, il che non
consente affatto di vederci più chiaro.
60 UlrichBecketEdgarGrande,op.cit.,pag.7.
61 Con, se possible, un ancor maggiore centralismo autoritario e monolitismo
giacobino, come nei sostenitori delle tesi di
Jean Thiriart.
62 Su questo tema, cfr. in particolare Heidrun Abromeit, Democracy in Europe. How
to Legitimize Politics in a Non-
State Polity, Berghahn, Oxford 1998; Edgar Grande, “Post-National Democracy in
Europe”, in Michael Th. Greven e
Louis W. Pauly (a cura di), Democracy Beyond the State? The European Dilemma
and the Emerging Global Order,
Rowman & Littlefield, Lanham 2000, pagg. 115-138. Sul concetto di “sussidiarietà
attiva”, cfr. Pierre Calame, Pour sortir
des impasses actuelles de l’action publique, in “La Revue du MAUSS”, 2e semestre
67
1999, pp. 281-291.
63 UlrichBecketEdgarGrande,op.cit.,pag.341.
64 Peter Sloterdijk, Si l’Europe s’éveille. Réflexions sur le programme d’une
puissance mondiale à la fin de l’ère de
son absence politique, Mille et une nuits, Paris 2003.
65
MauriceDuverger(acuradi),Leconceptd’empire,PressesUniversitairesdeFrance,Paris1
980,pag.10.
66 UlrichBecketEdgarGrande,op.cit.,pag.83.
67 Il titolo originale del loro libro è Das kosmopolitische Europa. Cfr. anche Ulrich
Beck e Edgar Grande, Empire
Europa: Politische Herrschaft jenseits von Bundesstaat und Staatenbund, in
“Zeitschrift fur Politik”, dicembre 2005,
pagg. 397-420.
68 UlrichBecketEdgarGrande,Pourunempireeuropéen,cit.,pag.15.
69 Ibidem,pag.24.
70 Ibidem,pag.27.
71 Ibidem,pag.17.
72 Ibidem,pag.258.
73 Ibidem,pag.260.
74 Ibidem,pag.82.
75 Ibidem,pag.104.Cfr.anchepag.127.
76 Ibidem,pag.55.
77 LucienRoyer,LaRussieetlaconstructioneuropéenne,in“Hérodote”,118,2005.
78 HenrideGrossouvre,Paris-Berlin-
Moscou,lavoiedel’indépendanceetdelapaix,L’Aged’Homme,Lausanne2002,
trad. it. .
79 Henri de Grossouvre (a cura di), Pour une Europe européenne. Une avant-garde
pour sortir de l’impasse, Xenia,
Vevey 2007, pag. 16.
80 81 82
Ibidem,pagg.128-133. Cfr.Jean-
LouisBourlanges,Etsiondisaitouiàl’Allemagne?,in“LeMonde”,29settembre1994.
Jacques Chirac, prendendo la parola dinanzi al Bundestag il 27 giugno 2000, si era
68
limitato a parlare di un «gruppo pioniere» che si basasse sulle procedure di
cooperazione rafforzata. 83 JacquesDelors,in“LeMonde”,19gennaio2000 84
ChristianLequesne,Surlescraintesfrancaisesd’uneEuropeespace,in“Esprit”,febbraio20
06,pag.33. 85 GuntherHofmann,DesRudelsKern,in“DieZeit”,25maggio2004,pag.3. 86
RenéPasset,Au-delàduouietdunon,in“Libération”,15marzo2005,pag.35. 87
JacquesDelors,in“LeNouvelObservateur”,28giugno2007.
88 Cfr. Eric Maulin, Avant-garde et institutions de l’Union européenne, in Henri de
Grossouvre (a cura di), Pour une Europe européenne, cit., pagg. 47-58. 89
Hajnalka Vincze, Avant-garde et souveraineté européenne, ibidem, pag. 32.
69