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RESTREPO INFERNO IN AFGHANISTAN Regia: Tim Hetherington e Sebastian Junger; fotografia: Sebastian Junger, Tim Hetherington; montaggio: Michael Levine; musiche: Ruy Garcia. Interpreti: Gli uomini del Secondo plotone, 503rd Infantry Regiment, 173rd Airborne Brigade Combat Team, dell'Esercito degli Stati Uniti: Juan "Doc" Restrepo (Private First Class), Dan Kearney (Captain), LaMonta Caldwell (First Sergeant), Aron Hijar (Sergeant), Misha Pemble-Belkin (Specialist), Miguel Cortez (Specialist), Sterling Jones (Specialist), Brendan O'Byrne (Sergeant), Joshua McDonough (Staff Sergeant), Kyle Steiner (Specialist). Produttori: Tim Hetherington e Sebastian Junger per Outpost Films, National Geographic Channel. Paese: Stati Uniti; anno: 2010; durata: 93’. Sito ufficiale: restrepothemovie.com. Il film Un film-documentario girato nell'estremo avamposto afghano "OP Restrepo", una piccola postazione nella valle del Korengal, occupata da un plotone di quindici marines con compito di sorveglianza e pattugliamento. Il fotoreporter Tim Hetherington e il giornalista Sebastian Junger hanno voluto "catturare l'esperienza del combattimento, della noia e della paura attraverso gli occhi dei soldati".

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Page 1: €¦ · Web viewSuccede quando la fatica ha bruciato ogni traccia di grasso dal corpo dei soldati, ... Le cose vanno comunque meglio: rispetto al caos degli anni '90,

RESTREPOINFERNO IN AFGHANISTAN

Regia: Tim Hetherington e Sebastian Junger; fotografia: Sebastian Junger, Tim Hetherington; montaggio: Michael Levine; musiche: Ruy Garcia.Interpreti: Gli uomini del Secondo plotone, 503rd Infantry Regiment, 173rd Airborne Brigade Combat Team, dell'Esercito degli Stati Uniti: Juan "Doc" Restrepo (Private First Class), Dan Kearney (Captain), LaMonta Caldwell (First Sergeant), Aron Hijar (Sergeant), Misha Pemble-Belkin (Specialist), Miguel Cortez (Specialist), Sterling Jones (Specialist), Brendan O'Byrne (Sergeant), Joshua McDonough (Staff Sergeant), Kyle Steiner (Specialist).Produttori: Tim Hetherington e Sebastian Junger per Outpost Films, National Geographic Channel. Paese: Stati Uniti; anno: 2010; durata: 93’.Sito ufficiale: restrepothemovie.com.

Il filmUn film-documentario girato nell'estremo avamposto afghano "OP Restrepo", una piccola postazione nella valle del Korengal, occupata da un plotone di quindici marines con compito di sorveglianza e pattugliamento. Il fotoreporter Tim Hetherington e il giornalista Sebastian Junger hanno voluto "catturare l'esperienza del combattimento, della noia e della paura attraverso gli occhi dei soldati".

La critica

Restrepo, una guerra da OscarCandidato come miglior documentario, il reportage di National Geographic Channel racconta per immagini un anno di vita di un plotone dell'esercito Usa nel posto più pericoloso dell'Afghanistan. Intervista a uno degli autori, Sebastian Junger.

La paura sa di ammoniaca, a Restrepo. Succede quando la fatica ha bruciato ogni traccia di grasso dal corpo dei soldati, e l'organismo comincia a consumare i muscoli. Allora il sudore prende quell'odore. Restrepo è molte cose. Era il nome di un medico-soldato americano ucciso in azione in Afghanistan. È diventato, in suo onore, il nome di un avamposto di 15 uomini nella remota Korengal Valley. Ma è anche il nome del documentario, girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington, che racconta un anno di vita di quel plotone dell'esercito Usa nel posto più pericoloso dell'Afghanistan, vicino al confine col Pakistan.

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Junger, reporter e scrittore famoso anche come autore de "La tempesta perfetta", ha passato mesi con loro, condividendo fatica, pericolo, paura ed euforia, perché la guerra è tutto questo. "Restrepo", questa notte, potrebbe vincere l'Oscar come miglior documentario. L'Espresso ha intervistato Sebastian Junger.

Come è nato il progetto Restrepo?«Sono andato in Afghanistan per la prima volta nel 1996, e ci sono tornato molte volte. Nel 2005 ci sono andato con l'esercito americano, e ho pensato che avrei voluto seguire quel plotone nella missione successiva, per farci un libro e un documentario».

Lei è l'autore de "La Tempesta Perfetta". Questa è la "guerra perfetta"?«Nel senso di tante cose che convergono per creare un disastro, sì. È la mancanza di volontà da parte dell'Occidente che la rende impossibile da vincere: se l'Occidente avesse impiegato contro i talebani la stessa energia e intelligenza, gli stessi mezzi e forza che ha usato contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale, sarebbero già stati sconfitti. Le cose vanno comunque meglio: rispetto al caos degli anni '90, quando morirono 400 mila civili afgani nella guerra civile, le cifre oggi sono migliori. Da quando la Nato è intervenuta, nel 2001, il numero di civili morti è sceso a 16mila, e questo è un risultato. Di cui l'opinione pubblica internazionale non è perfettamente consapevole: ma il fatto è che -per esempio negli Usa- alla destra non frega proprio nulla degli afgani, e la sinistra è talmente contraria alla guerra che sottovaluta l'impatto drammatico sulla popolazione che avrebbe il nostro ritiro da lì. Non solo: il governo americano, che guida di fatto questa guerra, da anni finge di ignorare la corruzione del regime che ha insediato e continua a sostenere».

Che reazioni ha provocato negli Stati Uniti "Restrepo"?«Noi non volevamo fare un film politico, ma di fatto a destra adorano il film, lo vedono come un rendere onore alle truppe. In parte è vero, anche se la nostra idea era semplicemente di mostrare la vita di questi soldati. A sinistra lo vedono come un film contro la guerra, perché mostra le cose dolorose e terribili che provoca. Così, stranamente, Restrepo è un documentario che piace a progressisti e a conservatori: entrambi credono che rappresenti il loro punto di vista».

Un bellissimo film di Paul Haggis, "Nella Valle di Elah", mostra come la guerra renda disumani gli uomini. Restrepo, al contrario, mostra l'umanità dei soldati. Come la guerra possa creare tra loro legami profondi e assoluti.«Ci sono tanti luoghi comuni sulla guerra. Uno è che sia una cosa talmente orribile che non può che avere effetti orribili sugli esseri umani. Ma allora perché ai soldati, dopo, la guerra manca? Perché gli manca l'esperienza peggiore della loro vita? La risposta è che la guerra non è l'esperienza peggiore della loro vita. Ci deve essere qualcosa nella guerra: qualcosa che nutre gli uomini, che li conforta. Per i civili è esclusivamente negativa, ma questo è un pensare per assoluti. In guerra non esistono. La guerra è complicata. Come il matrimonio: puoi avere un matrimonio tremendo e decidere di divorziare, e tuttavia rimpiangerne qualcosa. Quello che i soldati hanno, in guerra, è un legame profondissimo tra loro. Un rapporto umano che probabilmente non proveranno mai più, se non quando avranno dei figli. È successo anche a me. Per me fare questo film e scrivere il libro "War" è stata un'esperienza emotiva estrema».

E la paura? Come si fa a conviverci?«Condividendo tutto con loro, ho vissuto le loro stesse emozioni, sono diventato un insider della paura. In altre esperienze da reporter, per esempio in Liberia, mi sono ritrovato solo nel caos più totale: quello sì che è terrificante. Ma se fai parte di un gruppo, senti che quello che succederà al gruppo succederà a te. Che si sopravviverà o si morirà tutti insieme: una sensazione incredibilmente rassicurante. Far così parte di un

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gruppo, essere così legato per la vita ad altre 30, 40 persone, ci riporta, credo, al nostro passato evolutivo, a strutture antiche del nostro cervello, a cose che nella società contemporanea non ti accadono mai. A come ci siamo evoluti come specie: piccoli gruppi sempre in pericolo in un ambiente ostile».

Questo è anche un film sulla "You tube generation" all'impatto con la guerra.«All'inizio non sanno nemmeno bene dove stanno andando, Nelle prime scene del film canticchiano "Andiamo in guerra, andiamo in guerra", come se fosse un gioco, un videogame. Poi, nei mesi, cambiano. I ragazzi vanno sempre in guerra senza capire. Per esempio che la guerra può uccidere. Non tanto te: la cosa tremenda è che ti può uccidere un amico. Quando partono, i ragazzi non lo sanno mai, perché non è normale conoscere la morte a quell'età. È a 30, 40 anni che diventa normale: muoiono i genitori, un amico si ammala di cancro, la morte diventa familiare, anche la tua diventa una possibilità. Ma a 20 non c'è ragione di pensarsi mortale. Infatti uno dei ragazzi nelle scene iniziali dice, "Noi non siamo pronti per questo"».

Si torna mai dalla guerra?«Alcuni. Altri no. In quel plotone c'era tutta la gamma di possibilità: ragazzi che alle spalle avevano famiglie che li sostenevano, altri con famiglie sfasciate e violente. Sono questi ad avere più problemi a riabituarsi alla vita civile. Perché in guerra in un certo senso tutto ha un senso, le regole sono arbitrarie ma semplici e chiare: se fai cose pericolose rischi di morire, se sei un buon soldato, un buon guerriero, hai maggiori possibilità di sopravvivere. E se sei un buon soldato sei rispettato. Hai tutto sotto controllo. Invece quando torni alla vita normale contano altre cose, per esempio che aspetto hai, o se sei ricco o hai ricevuto una buona educazione. Cose su cui non hai controllo, però il modo in cui gli altri ti guardano dipende da questo. In guerra il controllo è nelle tue mani, sei tu a determinare il giudizio degli altri. Per un ragazzo che viene da una famiglia difficile, trovarsi in un ambiente in cui può controllare il modo in cui gli altri lo percepiranno è una cosa bellissima. È per questo che hanno paura di tornare, che gli manca l'Afghanistan. Che, dopo, gli manca la guerra».

Valeria Palermida «L’Espresso», 27 febbraio 2011

Ricordo di Hetherington, fotografo a caccia di umanità

Qualche settimana dopo aver partecipato alla Notte degli Oscar dov’era stato candidato per il documentario co-diretto con Sebastian Junger, Restrepo – Inferno in Afghanistan, il 20 aprile 2011, a soli 40 anni, il fotografo di guerra britannico Tim Hetherington viene colpito a morte dal proiettile shrapnel di un mortaio nella città sotto assedio di Misurata, in Libia, dove si trovava per un reportage sulla guerra civile. Una vita passata nei campi di battaglia che l’amico, scrittore e giornalista Sebastian Junger ripercorre in Tim Hetherington: dalla linea del fronte, documentario nelle sale italiane dal 3 aprile (distribuito da I Wonder Pictures) dopo il debutto al Sundance Film Festival nel 2013, per svelare cosa rendeva il fotoreporter un talento così singolare e un essere umano straordinario. Nel raccontare Hetherington, Junger unisce le sue foto e i video, dall’Africa al Medio Oriente, con interviste, conversazioni e testimonianze. Come quelle dei suoi genitori, della compagna Idil, dei colleghi con lui negli ultimi istanti, e di alcuni dei protagonisti dei suoi reportage. Un ritratto da cui emergono l’umanità e l’empatia (“Tutto quello che faccio mi coinvolge a livello emotivo”) che aveva per i soggetti delle sue immagini. Ci sono, fra le altre, le sue foto dei bambini resi ciechi negli scontri in Sierra Leone e le sconvolgenti riprese in Liberia durante la Guerra Civile del 2003, dove lui e il giornalista James Brabazon sono gli unici reporter stranieri a vivere dietro le linee ribelli. E proprio Brabazon (che figura anche tra i produttori del film) racconta come il fotografo di guerra riuscì a salvare, nel quartier generale dei ribelli, un medico da un’esecuzione.

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«Quello che per me è importante – sosteneva Hetherington – è creare un legame con persone vere, per documentarle anche in queste circostanze estreme dove non sembrano esserci soluzioni nette che ti facciano capire cosa stia succedendo. Spero che il mio lavoro riesca a mostrarlo». Per lui, nato a Liverpool nel 1970, laureato a Oxford, l’esordio come fotoreporter e presto anche videoreporter di guerra avviene all’inizio del 2000 in Africa occidentale. Nel 2007, Hetherington e Junger iniziano una collaborazione annuale di reportage per Vanity Fair sul conflitto in Afghanistan, unendosi a un battaglione di truppe americane stanziato nella Valle di Korengal. L’incarico sarebbe servito come raccolta dati di base per il documentario Restrepo – Inferno in Afghanistan: il film vinse il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival del 2010 e fu candidato all’Oscar nel 2011. “Tim ha assistito a molti scontri – ricorda Junger –, ma quello che cercava nell’esperienza di Restrepo non era la verità sui combattimenti come forma di conflitto ma come forma di relazione. Quello che ha catturato con la sua macchina fotografica tra uccisioni, paura e difficoltà, è il legame tra le persone, una strana forma di giardino dell’Eden al maschile”. Restrepo è un racconto inedito della vita al fronte, del cameratismo fraterno che nasce fra i soldati (“La macchina della guerra non è solo tecnologia, bombe e missili come ce la descrive il mondo mediatico in stile Cnn. La macchina della guerra riunisce gruppi di uomini in circostanze estreme, fa sì che si crei un legame tra loro, in modo che uccidano e si facciano uccidere l’uno per l’altro”), per il quale Hetherington vince fra gli altri il suo terzo World Press Photo of the Year nel 2007.«Non ho il desiderio di combattere, di spostarmi da una zona di guerra all’altra – diceva il fotoreporter –. Non nutro interesse per la fotografia in sé, il mio obiettivo è raggiungere le persone con le idee e avvicinarle alle varie sfaccettature del mondo». «Tim non fotografava la guerra – conclude il collega fotoreporter Chris Anderson -, ma la natura umana».

Laura Zangarinida «Corriere della Sera», 1 aprile 2014

PROSSIMO APPUNTAMENTO

Giovedì 8 novembre – ore 18 | INGRESSO LIBERO

Generation Kill, Episodio 1 e 2 – Serie 1

regia di Susanna White ( 4 episodi) e di Simon Cellan Jones ( 3 episodi), dur. 68’ cad., (HBO, 2008) , versione originale sottotitoli in italiano

Un reporter del magazine Rolling Stones, Ewan Wright, segue il primo battaglione esploratore dei marines durante la guerra irachena del 2003, documentandone le vicissitudini in una serie di articoli pubblicati poi raccolti nel romanzo dal titolo omonimo. Introduce il film Matteo Pollone (Università di Torino)