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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO
PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA
GLI AFRICANI SIAMO NOI. LE RADICI BIOLOGICHE DEGLI EUROPEI 9 di Guido Barbujani RAZZISTI SENZA RAZZA 11 di Valerio Petrarca RADICI BIOLOGICHE E APPARTENENZE SOCIALI: L’INVENZIONE DEL PADRE 13 di Gianfranco Pecchinenda IL BLUES COME ARCHETIPO 15 di Marco Maria Tosolini INEZIE TERMINOLOGICHE E GRANDI SCONFESSIONI STORICHE 17 di Alessandro Volpone
Tutti parenti. Tutti differenti
Gli articoli degli incontri si trovano al sito
www.comeallacorte.unina.it
Guido Barbujani
Guido Barbujani ha 55 anni. Ha lavorato alle Università di
Padova, State of New York a Stony Brook, Londra e Bologna,
e dal 1998 è professore di Genetica all’Università di Ferrara.
Si occupa delle origini ed evoluzione della popolazione umana.
Ha pubblicato quattro romanzi: Dilettanti (Marsilio 1993);
Dopoguerra (Sironi 2002); Questione di razza (Mondadori
2003) e Morti e sepolti (Bompiani 2010) e tre saggi scientifici:
L’invenzione delle razze (Bompiani 2006), Europei senza se e
senza ma (Bompiani 2008), e, con Pietro Cheli L’invenzione delle razze (Laterza 2008). È
autore di numerose pubblicazioni scientifiche nell’ambito dell’origine e dell’evoluzione delle
popolazioni umane, con metodi molecolari di indagine sul DNA, tra cui si ricordano lo studio
sulla caratterizzazione genetica dei resti attribuiti all’evangelista San Luca e a Francesco
Petrarca e gli studi sull’origine degli Etruschi.
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Gli africani siamo noi. Le radici biologiche degli europei
Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
GLI AFRICANI SIAMO NOI. LE RADICI BIOLOGICHE DEGLI EUROPEI Guido Barbujani Professore di Genetica Università degli Studi di Ferrara
Ci sembra di saperlo da sempre: i neri
hanno la musica nel sangue, gli ebrei sono più
intelligenti, gli zingari rubano… Ma è proprio
vero? E, per venire a casa nostra, è proprio vero
che i napoletani sono spensierati, i lombardi
lavorano duro e i genovesi hanno difficoltà a
mettere mano al portafoglio? Viaggiando
attraverso i luoghi comuni del razzismo è difficile
trovare risposte a queste domande, ma, per
fortuna, si possono fare scoperte sorprendenti:
la più importante delle quali, forse, è che
nell’umanità mai nessuno è riuscito a dimostrare
l’esistenza di razze biologiche. Ci hanno provato
in tanti, ma ognuno è arrivato a conclusioni
diverse: le proposte vanno da due a duecento
razze, cosicché ogni catalogo razziale, dal primo,
di Linneo, fino a quelli del Novecento, passando
per l’opera di grandi naturalisti come Cuvier e
Huxley, contraddice tutti gli altri. I sette nani
non esistono, ma sappiamo quanti sono e come
si chiamano; invece, neanche chi crede
all’esistenza delle razze umane è mai riuscito a
dire quante e quali siano. Gli studi recenti sul
genoma umano ci hanno spiegato perché: siamo
tutti diversi (e basta guardarsi intorno per
capirlo), ma nel nostro DNA non ci sono le
differenze nette che permettono, in altre specie,
di classificare gli individui in gruppi distinti, cioè
appunto razze o sottospecie. I nostri gruppi
sanguigni, il colore della pelle, e anche la
tendenza ad ammalarci, a rispondere al
trattamento con i farmaci o a digerire il latte,
dipendono da varianti geniche cosmopolite, cioè
presenti, a frequenze diverse, in tutti i
continenti. Le differenze fra noi sono sfumature
all’interno di una variabilità continua nello spazio
geografico.
Ma nel DNA c’è molto di più: c’è un
messaggio dal passato, trasmessoci dai nostri
genitori, e dai loro, e dai genitori dei genitori,
che un po’ alla volta stiamo imparando a
decifrare e ci sta facendo capire meglio la storia
dell’umanità: una storia in cui ha prevalso lo
scambio e la tendenza ad andare da tutte le
parti, tanto che, in soli 60 mila anni, i
discendenti di un piccolo gruppo africano hanno
colonizzato tutto il pianeta. Gli africani, dunque,
siamo noi: quelli con la fronte verticale e il
cranio corto, caratteristiche presenti in Africa già
100mila anni fa, quando negli altri continenti
c’erano i veri europei, gli uomini di Neandertal, e
i veri asiatici, l’Homo erectus, con i loro crani più
lunghi e più schiacciati, con la loro struttura
fisica più tozza e robusta. Siamo, insomma, i
discendenti di un processo migratorio che ha
avuto uno straordinario successo, migranti
invadenti, che hanno occupato tutto lo spazio
disponibile.
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RAZZISTI SENZA RAZZA Valerio Petrarca Professore di Antropologia culturale Università degli Studi di Napoli Federico II
I razzialisti scarseggiano, ma i razzisti
no. Mancano cioè scienziati accreditati che
teorizzano gerarchie tra le società umane basate
su principi biologici, ma non mancano persone
che praticano e giustificano discriminazioni di
uomini contro altri uomini in base al colore della
pelle, all’etnia, alla lingua, alla religione e alla
cultura.
Ancora nel Novecento inoltrato si
potevano trovare antropologi fisici che
prendevano cinquemila misure per un solo
cranio umano, nell’intenzione di connettere
patrimonio biologico e comportamento sociale,
ma l’influenza della «razza» sulla «cultura» non
è mai stata dimostrata. È facile invece
dimostrare il contrario: ciò che chiamiamo
cultura determina ciò che chiamiamo razza.
Basta guardare le popolazioni le cui leggi vietano
i matrimoni misti e compararle con le
popolazioni che non li vietano.
Il razzialismo è stato poi definitivamente
smantellato proprio dalla disciplina che l’aveva
formulato, l’antropologia fisica, innanzitutto per
le debolezze logiche della nozione di razza. Se si
sceglie il colore della pelle si ha una
classificazione, se si sceglie l’odore se ne ha
un’altra, se si sceglie un determinato tratto
genetico se ne hanno ancora altre e nessuna
classificazione combacia con l’altra. In anni più
recenti si è assistito a un riavvicinamento tra
l’antropologia fisica e l’antropologia culturale
(che si dedica più esclusivamente a tutto ciò che
l’uomo apprende a fare e a pensare come essere
sociale). Il contributo più interessante che oggi
dobbiamo agli antropologi fisici non riguarda
leggi «scientifiche», ma informazioni di carattere
storico e geografico. Elaborando una mole
ciclopica di dati biologici, in particolare genetici,
affiancati a dati culturali, in particolare
linguistici, essi ci forniscono il racconto
dell’origine geografica dell’uomo moderno e delle
sue migrazioni. Questo racconto assomiglia più
al mito di Adamo ed Eva che al racconto degli
antropologi fisici del primo Novecento. Ci dice
che discendiamo da uomini e donne vissuti in
Africa centomila anni fa, che si sono moltiplicati
e sono emigrati secondo sequenze e rotte
ricostruibili e in parte ricostruite.
Nel dibattito dell’antropologia culturale,
le nozioni di «etnia» e di «civiltà» (basate su
criteri linguistici, religiosi e culturali) hanno
dimostrato gli stessi vizi logici della nozione di
razza. Cosicché, come nell’antropologia fisica il
termine razza non ha più cittadinanza, così
nell’antropologia culturale il termine etnia si
appresta probabilmente a uscire di scena, anche
perché le teorie discriminatorie solitamente
dette razziste avevano abbandonato la parola
«razza» e avevano scoperto le parole etnia o
civiltà. È ovvio che la scienza è tenuta ad
aggiornare il suo lessico, ma è folle pensare che
il problema si possa affrontare limitandosi a
cambiare i nomi. Guardando alla storia dell’idea
di razza come a quella di etnia almeno una cosa
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si capisce con chiarezza: ciò che ha contato
veramente non è stata la coerenza delle
classificazioni (necessariamente tutte più o
meno arbitrarie), ma la differenza di potere nella
reciprocità di chi classifica e chi è classificato. La
logica ci dice allora che più ingiusto è il mondo,
più arbitrarie sono le classificazioni degli uomini
e tra gli uomini, quali che siano i nomi che i
prepotenti scelgono per attuare e giustificare la
loro sete di dominio e di sopraffazione.
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RADICI BIOLOGICHE E APPARTENENZE SOCIALI: L’INVENZIONE DEL PADRE Gianfranco Pecchinenda Professore di Sociologia dei processi Culturali e comunicativi Università degli Studi di Napoli Federico II
La nostra, si sa, è una società senza
padri. Non so se sia possibile rintracciare con
successo le radici biologiche di un gruppo
sociale. È certo però che l’indebolimento del
senso d’identità, strettamente connesso alla
progressiva frammentazione dei legami
intergenerazionali e della memoria collettiva,
stia facendo oggi aumentare enormemente il
bisogno di andare alla ricerca di punti di
riferimento – il cui valore è evidentemente
soprattutto legato all’immaginario simbolico –
che possano servire in qualche modo da
ancoraggio. Una ricerca di radici, appunto, una
ricerca di appartenenze, una ricerca di padri!
Se consideriamo che i primi padri umani
non furono biologici ma adottivi, potrebbe
risultare interessante allora riflettere su alcuni
dei passaggi che hanno contribuito all’invenzione
di questa peculiare figura.
Non è dato sapere con precisione di
quante generazioni abbia bisogno un nuovo
comportamento per diventare caratteristica
permanente di una specie. Per quanto riguarda il
comportamento paterno è però certamente
evidente che un giorno esso è comparso, si è
diffuso e poi stabilizzato fino ad appartenere a
tutte le società umane conosciute, con qualche
piccola e poco significativa eccezione, (come
nella Cina meridionale, dove pare gli uomini si
limitino a visitare di notte le donne, senza
coabitare con loro).
Alcuni specialisti tendono a ricostruire i
percorsi che hanno condotto all’affermarsi e alla
diffusione di un tale comportamento rivoluzio-
nario nel modo seguente: alcuni milioni di anni
fa, in Africa, l’accoppiamento dei nostri antenati
doveva essere regolato dal calore delle femmine,
come ancora oggi avviene negli animali. Tra
maschio e femmina non esisteva alcun genere di
legame stabile. Essi si nutrivano prevalente-
mente di foglie e di frutta, la cui raccolta non
richiedeva spostamenti né organizzazione di
gruppo. La vita sociale prendeva probabilmente
la forma di bande di dimensioni medio - piccole,
come nella maggior parte delle scimmie
superiori. Poi, progressivamente, si sono
verificati – tra gli altri – i seguenti fondamentali
passaggi: la progressiva stabilizzazione del
bipedismo, con conseguente trasformazione
delle funzioni delle mani (che cominciano, tra
l’altro, ad essere utilizzate per il trasporto di
oggetti, cibo e – soprattutto – dei figli); l’inizio di
una profonda separazione di compiti tra i sessi:
se le mani delle femmine-madri erano occupate
dai figli, al cibo e alla difesa dovevano
cominciare a provvedere i maschi. Questo
atteggiamento rivoluzionario comincerà eviden-
temente ad essere premiato dalla selezione
(coloro che conservavano un comportamento da
padri-scimmia e non spartivano il cibo con i figli,
avevano meno probabilità di sopravvivenza
genetica. Il loro numero, inevitabilmente,
tenderà a diminuire). Era comparso un nuovo
atteggiamento, evolutivamente vincente! Il ma-
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schio comincerà a divenire una presenza cos-
tante, per quanto intermittente a causa delle sue
spedizioni di caccia. Ma proprio a tal proposito è
necessario sottolineare almeno un ultimo
fenomeno fondamentale: ai vecchi percorsi di
“sola andata” alla ricerca di prede, si inizierà a
sostituire un’altra tipologia di cammino, quello
che prevederà anche “il ritorno”, un ritorno al
punto di partenza, il rientro “a casa”, la nascita
di un essenziale legame ad un luogo,
l’invenzione dell’appartenenza; le precondizioni,
insomma, per la nascita della famiglia, delle
società umane e, perché no, di tutti i successivi
miti della ricerca delle radici.
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IL BLUES COME ARCHETIPO Marco Maria Tosolini Professore di Storia ed estetica della musica Conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste
Atena nera, Le radici afroasiatiche della
civiltà classica di Martin Bernal, è un corposo
testo pubblicato per la prima volta in Inghilterra
nel 1987 che ha suscitato molte polemiche,
laddove il mondo accademico più paludato lo ha
accusato come minimo di “afrocentrismo”,
mentre i filologi classici americani bianchi e di
colore (assai pochi questi ultimi) hanno tributato
plauso. Al di là delle querelles di settore Black
Athena ha comunque l’indubitabile valore di aver
sollevato un dubbio epocale su quella che,
invece, è certo sia stata una visione sempre
eurocentrica delle culture africane. Il
ribaltamento che Bernal propone è certo ardito:
e, cioè, il teorema per il quale la civiltà greco
antica è fortemente influenzata da quella fenicia
ed egiziana e, quest’ultima, trova origine,
radicamente e prestiti da quel Sud antico,
profondamente nero dei primi regni. In ambito
musicale tracce delle suggestioni di questo tipo
si trovano senza scomodare opere così
ponderose e così contestate. A partire da quel
termine, Nommo, che titola una composizione
del grande batterista jazz Max Roach nel suo
drums unlimited del 1969, come esplicito tributo
ad un termine di derivazione africana che
significa “melodia, frammento tematico” di ovvia
origine tradizionale. Nommo così vicino e
risonante con Nomos che, nell’antica Grecia ha
significato pressoché identico. Se si vogliono
trovare altre tracce di questo tipo vale la pena
confrontare l’organizzazione politeistica
dell’antica Grecia – così familiare a noi latini –
con quella degli orisha. Un sistema religioso che
pur radicato soprattutto in Nigeria, trova varie
declinazioni panafricane ed entra in profondi
sincretismi, tramite i trasferimenti degli schiavi,
nelle Americhe, soprattutto con la religione
cattolica, i cui Santi diventano traduzione e
copertura degli orisha africani. Se la filologia ha
strumenti complessi di indagine e verifica, la
musica si muove più agilmente e con maggior
semplificata riconoscibilità. Il tragico fenomeno
dello schiavismo praticato dal colonialismo
occidentale ha generato uno dei più sorprendenti
sincretismi della storia dell’uomo: la civiltà
musicale afroamericana. Fu il risultato di varie
commistioni fra almeno tre poli di espressione:
la musica rituale tribale proveniente dalle zone
di prelevamento degli schiavi africani; la musica
rituale tribale degli indigeni sottoposti a
colonizzazione nelle Americhe (soprattutto
centro, isole e sud); la musica colta e popolare
delle culture europee che colonizzarono le
Americhe. Circoscrivendo questa ricchezza di
linguaggi, va rilevato il fatto che, dopo
l’abolizione della schiavitù il blues fu il vero
canto antico che diveniva poetica della nuova
sofferenza. La scoperta della solitudine e
dell’alienazione (fatti estranei alle culture tribali
di provenienza) non impedirono ai neri ormai
americani di innestare l’archetipo immutabile del
canto blues e del sentire blue in tutte le nascenti
espressioni sincretiche delle musiche Jazz, poi
Rhythm and blues, Funk, Soul capaci di
influenzare strutturalmente tutta la musica di
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consumo occidentale anche e soprattutto
attraverso moduli ritmici. E non solo di consumo
se pensiamo a Bizet, Debussy, Ravel, Stravin-
skij, Hindemith per citare alcuni grandi autori
immagati da suggestioni musicali nere.
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INEZIE TERMINOLOGICHE E GRANDI SCONFESSIONI STORICHE Alessandro Volpone Assegnista di ricerca Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’
Recita un adagio della biologia che gli
organismi tra loro interfecondi – cioè, in grado di
produrre prole fertile – appartengono alla stessa
specie. E siccome gli uomini di ogni colore ed
etnia sono tra loro notoriamente interfecondi,
sarebbe opportuno parlare di specie umana,
anziché di genere umano, come spesso accade,
anche nella letteratura d’autore. La
puntualizzazione può sembrare specialistica; e,
in realtà, cambiando discorso, nessuno si
sognerebbe di chiedere al fruttivendolo di
“misurare la massa”, ad esempio, di un paio di
chili d’uva Italia, seppure il chilogrammo sia
proprio un’unità di massa, e non di peso. Così
pure al pizzicagnolo, continueremo a dire: scusi,
mi pesa un paio di etti di prosciutto? Grazie! –
anziché, mi dà la massa di un paio di etti di
prosciutto? Grazie!
Eppure, apparenti “inezie” terminologi-
che possono divenire dei macigni, in mano a
movimenti politici e ideologici. Ciò è accaduto in
passato al termine “razza”. Oggi, invece, alla
domanda: un bianco, un nero, o un olivastro
sono geneticamente diversi tra loro? – la
genetica umana risponde: no. Negli ultimi
decenni è stata misurata la variabilità di vari
geni in numerose presunte razze esistenti nel
mondo, e il risultato è che due individui con la
pelle dello stesso colore possono essere tra loro
diversi molto più di quanto lo siano quelli di
colore diverso. Guido Barbujani, pertanto, ha
sostenuto (L’invenzione delle razze, Milano
2006) che sarebbe corretto non utilizzare più il
concetto di razza, perché esso non corrisponde
ad alcuna entità scientificamente riconoscibile, e
non serve al fine di comprendere le basi delle
nostre differenze biologiche e culturali.
Conclusioni come queste fanno pensare
al nostro passato, e in particolare al noto
Manifesto della razza del 1938, firmato, secondo
il regime fascista, da dieci scienziati di chiara
fama – 5 medici, due antropologi, due zoologi e
un demografo, ma nessun genetista – e
appoggiato, di fatto, da decine di studiosi e
intellettuali di varia estrazione culturale, che
sostennero pubblicamente le leggi razziali. La
prima e la terza delle dieci “proposizioni” che
fissavano “le basi del razzismo fascista”,
affermavano proprio che “Le razze umane
esistono”, e che “Il concetto di razza è
puramente biologico”. Probabilmente, neanche
all’epoca la scienza permetteva di sostenere ciò,
visto che il regime avvertì l’esigenza di doverlo
fissare così perentoriamente. E comunque,
anche tutte le altre proposizioni sono state
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ampiamente sconfessate dalla scienza. L’ottava,
ad esempio, asseriva che “È necessario fare una
netta distinzione fra i mediterranei d’Europa
(occidentali) da una parte e gli orientali e gli
africani dall’altra”. Se pensiamo che l’Africa è
ormai considerata come la culla dell’uomo, cioè il
nostro comune luogo di origine, la frase
dovrebbe far sorridere, se non fosse che “inezie”
come questa, ideologicamente strumentalizzate,
hanno portato lutti e devastazioni, e, forse, sotto
falsa veste, continuano a farlo.
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