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Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali (www.storiaglocale.it) Direttore: Gino Massullo ([email protected]) Comitato di redazione: Rossella Andreassi, Antonio Brusa, Oliviero Casacchia, Renato Cavallaro, Raffaele Colapietra, Gabriella Corona, Massimiliano Crisci, Marco De Nicolò, Norberto Lombardi, Sebastiano Martelli, Massimiliano Marzillo, Gino Massullo, Giorgio Palmieri, Roberto Parisi, Rossano Pazzagli, Edilio Petrocelli, Antonio Ruggieri, Saverio Russo, Ilaria Zilli Segreteria di redazione: Marinangela Bellomo, Maddalena Chimisso, Michele Colitti, Antonello Nardelli, Bice Tanno Direttore responsabile: Antonio Ruggieri Progetto grafico e impaginazione: Silvano Geremia Questa rivista è andata in stampa grazie al contributo di:

Provincia di Campobasso

MoliseUnioncamere

Unioncamere Molise Redazione e amministrazione: c/o Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Campobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Abbonamento annuo (due numeri): € 25,00. Per abbonamenti internazionali: paesi comunitari, due numeri, € 37,00; paesi extracomunitari, due numeri, € 43,00. I ver-samenti in conto corrente postale devono essere effettuati sul ccp n. 25507179 inte-stato a Ass. Il Bene Comune, Campobasso Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore fornisce la massima riservatezza nel trattamento dei dati forniti agli abbonati. Ai sensi degli artt. 7, 8, 9, D. lgs. 196/2003 gli interessati possono in ogni momento esercitare i loro diritti rivolgendosi a: Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Cam-pobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Il garante per il trattamento dei dati stessi ad uso redazionale è il direttore responsabile

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Migrazioni

Novembre 2011

Argilli / Casacchia / Chieffo / Chiodi / Colucci / Costa / Crisci / De Clementi / De Luca / De Martino / Di Rocco / Di Stasi / Faonte /

Izzo / N. Lombardi / T. Lombardi / Marinaro / Martelli / Massa / Massullo / Melone / Palmieri / Pazzagli / Pesaresi / Piccoli / Pittau /

Presutti / Ruggieri / Scaroina / Spina / Tarozzi / Verazzo

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In copertina: Berga, Gli emigranti, tecnica mista, tela, 110 x 140 cm, 2012 © 2013 Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali, Edizioni Il Bene Comune Tutti i diritti riservati Registrazione al Tribunale di Campobasso 5/2009 del 30 aprile 2009

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Indice 9 Migrazioni, dal secondo dopoguerra ad oggi

FACCIAMO IL PUNTO 17 L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra

di Andreina De Clementi

1. I limiti della riforma agraria 2. Forme e tempi dell’esodo 3. Il sorpasso meridionale 4. I quartieri italiani 5. Il polo europeo 6. L’inarrestabile cataclisma 7. Ruoli e percorsi di genere 8. L’impiego dei risparmi e delle rimesse 9. Il futuro nel passato

37 Governi, partiti, sindacati: le politiche dell’emigrazione

di Michele Colucci

1. Le posizioni dei partiti e dei sindacati all’indomani della guerra 2. Le sinistre 3. La Democrazia cristiana

IN MOLISE

51 I molisani tra vocazioni transoceaniche e richiami continentali

di Norberto Lombardi

1. Cade lo steccato del Molise «ruralissimo» 2. Esodo e spopolamento 3. Vecchie traiettorie transoceaniche 4. Nuovi approdi transoceanici 5. La scoperta dell’Europa

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6. La svolta europea 7. Molisani nel mondo 8. Le reti associative 9. Le leggi e le Conferenze regionali 10. Studi e rappresentazioni dell’emigrazione dei molisani 11. Conclusioni: quasi un inizio

107 Appendice: Le associazioni di Molisani in Italia e nel mondo

a cura di Costanza Travaglini 117 L’esodo dal Molise tra il 1952 e il 1980. Nuove destinazioni e riflessi

socio-economici di Cristiano Pesaresi

1. Il quadro d’insieme 2. Le principali destinazioni nell’intervallo 1962-68 e le condizioni socio-

economiche del Molise 3. Le tendenze degli anni 1972-80 e le condizioni socio-economiche del Molise

131 La mobilità silente: i molisani nei percorsi globali

di Oliviero Casacchia e Massimiliano Crisci

1. La mobilità residenziale dagli anni novanta ad oggi 2. Concetto e fonti della mobilità temporanea di lavoro 3. I flussi temporanei per lavoro 4. Alcune conclusioni

151 L’immigrazione nel Molise: presenze, aspetti sociali e occupazionali

di Renato Marinaro e Franco Pittau

1. Il Molise nell’attuale quadro nazionale dell’immigrazione 2. I dati principali sulle presenze 3. Gli indicatori sociali 4. Le statistiche occupazionali 5. Immigrazione e integrazione 6. L’emergenza del 2011: l’accoglienza dei flussi in provenienza dal Nord Africa 7. Conclusioni: potenziare le politiche migratorie e la sensibilizzazione

165 Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due

sponde dell’oceano di Sebastiano Martelli

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Indice

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INTERVISTE 185 Testimonianze d’altrove: domande per alcuni giovani diplomati e

laureati che hanno lasciato il Molise negli ultimi anni a cura di Norberto Lombardi

IERI, OGGI E DOMANI

205 Risorse umane

Tavola rotonda a cura di Antonio Ruggieri

RIFLESSIONI 247 Dal globale al locale. Riflessioni sul progetto territorialista

di Rossano Pazzagli

1. Ritorno al territorio 2. Il territorio come bene comune 3. Urbano e rurale 4. Nuovi sentieri nell’orizzonte della crisi

253 Territorialità, glocalità e storiografia

di Gino Massullo

1. Comparazione e contestualizzazione 2. Territorialità e glocalità

WORK IN PROGRESS

261 Identità, emigrazione e positivismo antropologico

di Paola Melone

1. Introduzione 2. Considerazioni concettuali 3. La corrente del positivismo antropologico 4. L’emigrazione italiana negli Stati Uniti: la classificazione etnica e gli

stereotipi culturali 5. Conclusioni

275 Donne e corporazioni nell’Italia medievale

di Jacopo Maria Argilli

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DIDATTICA 289 Tra “buona pratica” e teoria efficace. Quando la Storia aiuta la persona,

stimola il gruppo, sostiene un popolo di Clara Chiodi e Paola De Luca

1. Primi giorni di scuola 2. Cognizione e metacognizione 3. Dal bisogno educativo all’azione didattica

STORIOGRAFIA

297 Fra storiografia e bibliografia. Note sui “libri dei libri”

di Giorgio Palmieri

1. Un “libro dei libri” 2. Altri “libri dei libri” 3. I “libri dei libri”

MOLISANA

307 Almanacco del Molise 2011

Recensione di Antonella Presutti 313 Salvatore Mantegna, Giacinta Manzo, Bagnoli del Trigno. Ricerche

per la tutela di un centro molisano Recensione di Clara Verazzo

316 I di Capua in Molise e il controllo del territorio. Note a margine della

presentazione del volume curato da Daniele Ferrara, Il castello di Capua e Gambatesa. Mito, Storia e Paesaggio di Gabriella Di Rocco

321 Abstracts 327 Gli autori di questo numero

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IERI, OGGI E DOMANI

Risorse umane

Tavola rotonda a cura di Antonio Ruggieri

Le risorse umane sono gli abitanti, la popolazione di una comunità qual-siasi; l’obiettivo degli sforzi che essa compie, ma anche gli strumenti che possiede per metterli a frutto.

Per il Molise, le risorse umane sono diventate un problema emergenziale; hanno costituito la questione fondamentale che ha accompagnato e in qual-che modo interpretato la sua modernizzazione.

Emigrazione ed immigrazione, flussi (cospicui) in uscita e flussi (modesti) in entrata, rappresentano un diagramma che descrive la condizione contem-poranea della regione sotto diversi profili.

Abbiamo invitato nella nostra redazione Gino Massullo, storico e Direttore di Glocale, Alberto Tarozzi, Presidente del corso di laurea magistrale in servizio sociale e politiche sociali dell’Università del Molise, Antonio Chief-fo, Assessore ai Molisani nel mondo della Regione Molise, Don Silvio Picco-li, coordinatore dell’area Caritas per il sociale e l’ecumenismo della Dioce-si di Termoli e Larino, Loredana Costa, Presidente dell’associazione “Dalla parte degli ultimi” e Norberto Lombardi, storico dell’emigrazione e redatto-re di Glocale, per ragionarne approfonditamente, nel corso di un dibattito condotto da Antonio Ruggieri.

Antonio Ruggieri

Vi ringrazio, innanzi tutto, di aver accettato questo invito volto alla compo-sizione della rubrica “Ieri, oggi e domani” di Glocale, che tenta ogni volta di attualizzare il tema monografico del numero in uscita.

Questo numero è dedicato all’emigrazione ed è curato da Norberto Lom-bardi; questa tavola rotonda s’intitola ‹‹risorse umane›› perché allude al fatto che la popolazione è la risorsa fondamentale di una comunità ed è lo stru-mento ma anche l’obiettivo per cui quella comunità lavora e progredisce.

Noi cercheremo di declinare le risorse umane molisane attraverso i flussi in entrata e in uscita dal nostro territorio; facendo dunque un discorso storico sull’emigrazione, ma cercando anche di attualizzare questo fenomeno.

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Metteremo a fuoco un altro elemento cardinale: il rapporto fra emigrazione e modernizzazione del Molise, facendo dunque un ragionamento dettagliato sulle ultime fasi dell’emigrazione, dal dopoguerra all’epoca contemporanea.

Infine, cercheremo di scandagliare più precisamente il rapporto fra il “grande Molise” con i 700.000 molisani di origine nel mondo e il “piccolo Molise”, costituito dai molisani ancora residenti in regione, per capire quali opportunità offre la coltivazione e il rafforzamento di questo rapporto.

Voglio innanzitutto presentare gli ospiti di quest’incontro che sono Gino Massullo, storico e Direttore di Glocale, Alberto Tarozzi, presidente del cor-so di laurea magistrale in servizio sociale e politiche sociali dell’Università del Molise, l’assessore ai Molisani nel mondo della Regione Molise Antonio Chieffo, don Silvio Piccoli coordinatore dell’area Caritas per quello che ri-guarda il sociale e l’ecumenismo della diocesi di Termoli e Larino e Loreda-na Costa, presidente dell’associazione “Dalla parte degli ultimi”, la prima associazione ad occuparsi d’immigrazione nella nostra regione, e Norberto Lombardi che è uno storico dell’emigrazione e redattore di Glocale.

Partirei proprio da Norberto Lombardi con una domanda di questo tenore: l’emigrazione ha avuto un andamento coerente in relazione alle crisi cicliche dell’economia; in quale maniera si può periodizzare il fenomeno dall’Unità d’I-talia, quando più o meno è cominciato, ad oggi; e poi, quali sono state le di-mensioni di questo fenomeno per quello che ha riguardato e riguarda il Molise?

Norberto Lombardi

Convenzionalmente possiamo un po’anticipare la prima fase rispetto al ri-ferimento cronologico abituale, il 1876, quando l’emigrazione comincia ad essere definita dal punto di vista statistico.

Precedentemente, c’è da registrare una forte valenza molisana in ambito appenninico e meridionale per quanto riguarda le cosiddette mobilità presta-tistiche; a conferma che la mobilità è un dato strutturale della nostra società ed è un elemento molto radicato nella cultura dei molisani. Mi riferisco non soltanto a vicende di grande profondità storica come la transumanza, ma an-che ai lavori stagionali, segnalati in dimensioni cospicue (25.000-30.000 persone l’anno) nella seconda metà del ’700 dagli scrittori riformatori. Mi riferisco al fenomeno ottocentesco della circuitazione di questuanti, di zam-pognari e di “orsanti” provenienti da un’area adesso molisana ma che allora apparteneva alla Terra di Lavoro, la valle del Volturno: esperienze di dimen-sioni ancora contenute ma qualitativamente importanti, dal momento che fa-cevano penetrare all’interno di una società, abitudinariamente considerata statica e marginale, notizie sulla possibilità d’integrare il reddito familiare al di fuori dei confini non solo regionali, ma anche di quelli degli stati preunita-

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Ruggieri, Risorse umane

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ri. Abbiamo notizie di presenza di molisani nelle capitali europee del tempo, dove queste pratiche erano fiorenti, fino a San Pietroburgo.

Prima di venire alla periodizzazione, vorrei sottolineare in particolare il valore della transumanza. Oltre al fatto di coinvolgere sistematicamente alcune decine di migliaia di persone in questo pendolarismo tra la Puglia e la montagna (non la casa, perché i transumanti rientravano non a casa ma nei pascoli più vicini), essa è un modello di organizzazione sociale stimo-lante per la successiva emigrazione di massa. Quasi tutte le responsabilità, infatti, non soltanto dell’organizzazione familiare, della cura dei ragazzi e degli anziani, ma anche della conduzione delle piccole attività produttive si sposta sulle spalle delle donne. Si prefigura e si consolida, insomma, un modello organizzativo che consentirà ai molisani di affrontare, sulla base di un vissuto sperimentato e radicato, un trauma familiare e sociale come quello dell’emigrazione.

Per quanto riguarda le periodizzazioni e le dimensioni del fenomeno, non mi discosterò da quelle canoniche. Non senza avere prima ricordato le interessanti partenze in fase prestatistica: una presenza di molisani in Argentina, in partico-lare degli agnonesi, trova qualche riscontro già negli anni ’60 dell’Ottocento. Troviamo un Di Benedetto di Vastogirardi, ad esempio, tra i dirigenti del-l’Unione e Benevolenza di Buenos Aires fondata nel 1858; l’Unione e Bene-volentia è l’associazione di emigrati italiani più importante dell’Ottocento, che svolge un ruolo non solo di aggregazione ma di promozione e di guida della comunità italiana. Non a caso, già dagli anni Sessanta si occupa della scolariz-zazione e della formazione dei figli degli emigrati, comprese le donne, quando in Italia di queste cose si parlava ancora assai poco. Ora, per essere dirigente di una società di quella importanza, il nostro molisano doveva avere una condi-zione di serio radicamento in Argentina, probabilmente anche una posizione di spicco fra i cosiddetti “napolitani”, come venivano chiamati gli italiani prove-nienti dal Mezzogiorno, una presenza segnalata anche dagli storici argentini già nella prima metà dell’Ottocento.

Un fenomeno che anticipa i tempi, tant’è che in ricerche accreditate la pro-vincia di Campobasso (non l’Abruzzo nel suo complesso), il Cilento e la Ba-silicata vengono segnalate come le aree da cui è partito il processo migrato-rio in ambito meridionale.

Questo sviluppo verso l’America del sud dura fino alla fine degli anni Ot-tanta e riceve un impulso dal fatto che nel 1888, con l’emanazione della lex aurea che abolisce la schiavitù in Brasile, si apre un altro filone d’emigrazio-ne, che riceve inizialmente un forte impulso dalle facilitazioni di viaggio e dalle promesse di colonizzazione, difficilmente concretizzate.

La spinta verso il sud America diminuisce man mano che si rafforza dagli anni Ottanta in poi l’emigrazione verso gli Stati Uniti, che diventerà preva-lente soprattutto nel primo quindicennio del nuovo secolo.

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Voglio indicare solo due riferimenti per chi vorrà approfondire la questio-ne: nell’analisi fatta dalla Fondazione Agnelli dei registri delle navi che fan-no servizio con New York dal 1880 al 1991, i molisani superano l’11%, una percentuale esorbitante rispetto all’incidenza della popolazione molisana su quella nazionale, di poco superiore all’1%. Si tratta di persone che si dichia-rano provenienti soprattutto da Campobasso e Isernia, per quella tendenza a citare come luogo di partenza non il proprio villaggio, ma la provincia o il comune di riferimento più noto. Nella prima decade del Novecento, per ogni molisano che andava in Argentina ce n’erano cinque che andavano in nord America. Il nostro più cospicuo retroterra emigratorio, quindi, anche se quel-lo più disperso e sotterraneo, è negli USA.

Dal punto di vista quantitativo, questa prima fase si conclude grosso modo alla metà degli anni Venti, quando le porte dell’America si chiudono e il Fa-scismo è costretto dalle condizioni internazionali, prima ancora che indotto dalla sua ideologia, a convertire le politiche migratorie in soluzioni autarchi-che, come la “battaglia del grano”. Intanto, i molisani che hanno valicato una o più volte le frontiere nazionali, senza contare i non pochi clandestini, supe-rano i 315.000, equivalenti all’89% della popolazione del 1901. I molisani espatriati diventano trecentocinquantamila fino alle soglie del secondo con-flitto mondiale. Tra le due guerre, per ragioni note, che comunque non posso approfondire in questa occasione, i flussi in uscita diminuiscono. Si tratta di persone che dopo la chiusura della grande porta statunitense tentano di torna-re in sud America, in particolare in Argentina; anche se non sono molti, sono importanti perché rappresentano delle teste di ponte di cui si serviranno poi gli emigrati del secondo dopoguerra; i primi emigrati sono assimilati e di-spersi, mentre questi diventano utili per il passaggio in sud America e per il fatto che aprono i primi varchi verso nuovi paesi: il primo insediamento in Australia, ad esempio, avviene negli anni Venti da Comuni del basso Molise, probabilmente per un fenomeno indotto che parte dalla Marche, coinvolge alcune zone dell’Adriatico, come il Vastese, e si spinge fino ai nostri paesi d’origine slava. I primi slavo-molisani in Australia arrivano in quel periodo, anche se si tratta di fenomeni iniziali e sporadici.

Nel secondo dopoguerra l’emigrazione si riapre e presenta una significativa particolarità: il diffuso orientamento verso i Paesi europei, che si affiancano, ma non sostituiscono la radicata tendenza transoceanica.

Per la verità, l’Europa nelle destinazioni dei molisani esiste già ai primi del Novecento, soprattutto la Francia che rappresenta un bacino per noi interes-sante. Abbiamo pochissimi dati ma si può dire che in Francia si emigrò du-rante la Grande emigrazione soprattutto dall’Alto Molise.

Un altro elemento di novità dell’emigrazione del secondo dopoguerra è dato dal fatto che mutano le modalità organizzative. La prima è stata per lungo tempo un’emigrazione consentita e solo in parte normativamente regolata dal-

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lo Stato, questa del secondo dopoguerra è invece incentivata, regolata e con-trollata dallo Stato e da altri organismi internazionali.

A partire dall’accordo di lavoro con la Germania, si susseguono tutta una serie di accordi bilaterali con paesi europei: Francia, Belgio, Olanda, Gran Bretagna, ecc., che convogliano verso queste nuove destinazioni circa quat-tro milioni di connazionali nel trentennio successivo alla fine del conflitto. I molisani ne sono parte, elevata in termini percentuali rispetto alla popolazio-ne, naturalmente limitata in cifre assolute.

La vocazione transoceanica dei molisani, tuttavia, continua ad essere anco-ra forte, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta: alcune migliaia di com-provinciali, nonostante le persistenti restrizioni, riescono ad andare negli Sta-ti Uniti; dal 1947-48 al 1953 si riattivano intensamente i flussi per l’Argenti-na; si riapre un canale, ma si spegne subito, per il Brasile; si aprono prepo-tentemente altre strade verso il Canada, l’Australia e il Venezuela.

L’emigrazione verso il Venezuela è intensa, ma si contrae a seguito delle tensioni interne che investono gli italiani alla metà degli anni Cinquanta, quando viene deposto il dittatore Jimenez, accusato di avere fatto una politi-ca di favore verso i nostri connazionali.

Le destinazioni transoceaniche restano fluide e si prolungano negli anni Sessanta e Settanta verso il Canada e l’Australia. Si tratta di un fenomeno molto interessante perché in quelle realtà si consolidano le comunità più fre-sche ed aggregate che abbiamo ancora oggi.

Tornando all’Europa, anche per il nostro continente c’è una distinzione da fare, fra una prima fase, che è quella dei contratti di lavoro in senso stretto per Paesi come il Belgio, la Francia, la Gran Bretagna e altri, e una seconda fase che si sviluppa dalla metà degli anni Cinquanta in poi e che vede come poli d’attrazione la Germania, alle prese con un forte processo d’industrializ-zazione rispetto al quale i lavoratori provenienti dall’est non bastano più, e la Svizzera, che conosce una fase espansiva altrettanto intensa. La Svizzera e la Germania, nell’ordine, sono anche i Paesi verso i quali si dirige ormai la maggior parte degli emigrati molisani.

Le cifre di questa ulteriore ondata – circa 200.000 –, per quanto ci riguarda, sono evidentemente inferiori rispetto a quelle già citate per altre fasi, ma in-cidono molto più pesantemente nel corpo sociale perché si eleva la percen-tuale dei trasferimenti definitivi. Se agli espatri si aggiungono i trasferimenti interni, che dalla fine degli anni Cinquanta in poi si sviluppano verso aree industrializzate e inurbate del Centro-Nord, si colgono le ragioni di quel pro-cesso di abbandono che ha inciso pesantemente sul Mezzogiorno e sulla no-stra stessa provincia, in particolare nelle zone interne. In termini statistici, la popolazione molisana, tra il 1951 e il 1971 scende da 406.823 a 319.807, la perdita secca di popolazione, senza l’incremento naturale e l’apporto extra-regionale, arriva a circa 80.000 unità.

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Questi processi s’interrompono alla metà degli anni Settanta, quando con una illusione ottica si parla di storica inversione della tendenza all’abban-dono del Molise, ma sostanzialmente i flussi in uscita, sia pure a ritmi meno intensi, continuano.

La ripresa degli espatri, in dimensioni difficilmente calcolabili, ma comun-que significativa in termini qualitativi, è legata oggi soprattutto al fenomeno comunemente detto delle “nuove mobilità”. Esso ha caratteristiche sociali e culturali diverse rispetto a quelle che conosciamo, però – attenzione -, non si tratta solo di cervelli, di diplomati e laureati. Negli ultimi tempi, infatti, so-prattutto nell’ultimo decennio, dal Mezzogiorno e dal Molise si registra an-che un’emigrazione di lavoratori generici, in particolare verso la Germania.

Ho parlato recentemente con un attento osservatore di cose italiane in Germania, il quale mi ha detto che in quel Paese arrivano specializzatissimi, che guadagnano lauti stipendi e hanno contratti abbastanza lunghi, arrivano laureati e diplomati che si attestano nei livelli sociali intermedi, ma arriva anche un sacco di gente che non sa cosa fare nei posti di residenza, e diversi portano con sé anche le famiglie.

E questo avviene mentre il Molise diventa in modo sempre più diffuso e costante terra d’approdo per coloro che da diverse parti del mondo scelgono l’Italia come luogo di vita e di lavoro.

Antonio Ruggieri

Bene, lo scenario è stato tratteggiato. Sulla falsariga di questo itinerario tracciato dall’intervento di Norberto Lom-

bardi rivolgerei a Gino Massullo questa domanda: di quale natura è stato il contributo che hanno dato i nostri emigranti alla modernizzazione della regio-ne e qual è il prezzo che hanno pagato, in particolare dal dopoguerra ad oggi?

Gino Massullo

Per rispondere alla domanda ripartirei dalla considerazione che si faceva all’inizio, tentando di periodizzare, come Norberto Lombardi ha già egre-giamente fatto, mettendo in particolare in relazione emigrazione e cicli di crisi economica.

La ricerca storiografica ha da tempo dimostrato come il rapporto tra i due fenomeni non possa essere considerato semplice e diretto, in quanto condi-zionato e reso complesso da molteplici elementi di contesto. Le due fasi fon-damentali della storia dell’emigrazione italiana, quella a cavallo fra Otto e Novecento, e l’altra sviluppatasi nei primi decenni del secondo dopoguerra,

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Ruggieri, Risorse umane

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corrispondono entrambe, effettivamente, a due periodi di crisi economica ed anche politica. Il primo caratterizzato dagli effetti della cosiddetta Grande crisi agraria, determinata dall’invasione dei mercati europei da parte dei pro-duttori americani di grano. Crisi economica che arriva ad aggravare il già non facile contesto generale fortemente compromesso dai problemi posti al paese dall’allora recente e contraddittorio processo di unificazione nazionale. Il secondo periodo, segnato dai bisogni della ricostruzione materiale e pro-duttiva del paese dopo una guerra perduta e devastante e il collasso delle isti-tuzioni. D’altra parte però, in quegli stessi due periodi, contestualmente all’emersione di fattori di crisi, si aprono per i lavoratori italiani – allora qua-si tutti contadini – nuove opportunità di occupazione e produzione di reddito all’estero. Questo per dire che l’emigrazione va sempre vista in relazione a due suoi aspetti caratteristici, in un fenomeno biunivoco che gli storici, gli scienziati sociali chiamano del push and pull. Debbono cioè essere presenti due fattori causali, strettamente legati tra loro, affinché si determini un flusso migratorio. Deve certamente delinearsi, nei paesi di partenza, una condizione di crisi e difficoltà che tende ad espellere lavoratori. Devono però anche pro-dursi nuove opportunità di lavoro con funzione attrattiva nei paesi di arrivo.

La difficoltà nei paesi di partenza non deve essere tanto e necessariamente valutata relativamente alle condizioni di vita delle popolazioni nei periodi precedenti, quanto rispetto alle condizioni di vita che si prevedono raggiun-gibili nei paesi di arrivo. Non è infatti per nulla detto che i contadini molisa-ni o meridionali della fine dell’Ottocento stessero veramente molto peggio rispetto alle generazioni di cinquanta anni prima, nonostante la crisi agraria (gli storici ancora s’interrogano su questa questione). Così come non è detto che i primi anni del secondo dopoguerra, certo molto difficili, siano stati, per i contadini meridionali peggiori dei certamente duri anni Trenta. A spingerli a lasciare i loro luoghi d’origine sono comunque, in entrambi i casi, le op-portunità che si aprono nel mercato internazionale del lavoro e che rendono le condizioni e le prospettive di vita nel loro paese, comparativamente, dav-vero poco allettanti.

La globalizzazione non è, del resto, cosa soltanto dei nostri giorni. Adesso è arrivata al suo pieno compimento mondializzando la comunicazione e i flussi finanziari, ma la globalizzazione del mercato del lavoro e delle merci è una cosa meno recente. La diminuzione del costo dei noli conseguente al-l’introduzione dei trasporti navali transoceanici a vapore, portano in Europa, già alla fine dell’Ottocento, il grano americano a prezzi così competitivi da mettere in ginocchio la granicoltura europea. Lo stesso fenomeno, insieme allo straordinario sviluppo economico statunitense di quegli anni, determina, però, allo stesso tempo, inedite possibilità di lavoro e opportunità di mobilità sociale verso l’alto per i contadini europei. Un processo analogo si determina anche nel secondo dopoguerra, in relazione, questa volta, soprattutto ad ac-

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cordi statuali internazionali e allo sviluppo industriale nazionale nelle aree nord occidentali del paese.

È da questo punto di vista che bisogna valutare i costi e i benefici del-l’emigrazione italiana; il flusso migratorio otto-novecentesco è stata una grande opportunità, purtroppo in gran parte perduta. Un paragrafo della Sto-ria del Molise che ho curato per Donzelli, dedicato a questi temi, l’ho intito-lato proprio “Speranze perdute”. Le rimesse dell’emigrazione – che in quel caso furono davvero cospicue, essendo più o meno la metà degli emigranti rientrati nei loro luoghi di origine e dunque intenzionati a reinvestire in pa-tria i loro sudati risparmi – furono essenziali per sostenere il modello di svi-luppo industriale del tempo sostanzialmente fondato sul contenimento dei consumi delle popolazioni e sull’importazione di fonti energetiche e tecno-logiche. Il riequilibrio della bilancia commerciale nazionale, gravata delle pesanti importazioni di combustibili e macchinari industriali, fu reso possibi-le appunto dalle rimesse dell’emigrazione. Molto meno efficace fu tutta quella ricchezza per uno sviluppo locale innovativo e auto propulsivo delle aree da cui l’emigrazione era partita.

Per il secondo dopoguerra dobbiamo purtroppo parlare solo di costi altis-simi causati da un’emigrazione, di tipo definitivo e di tale entità da trasfor-marsi presto in vero e proprio esodo, soprattutto dalle zone più interne della regione, dove si ebbe un crollo demografico non più recuperato.

Nei primi intenti del legislatore quella degli anni Cinquanta del Novecento doveva essere un’emigrazione controllata, governata, amministrata dal centro politico del paese, che doveva servire a spostare popolazione dalle aree margi-nali nelle quali più pesanti erano la pressione demografica e la sovraoccupa-zione agricola, mentre si tentava di promuovere lo sviluppo delle zone a mi-gliore suscettività agricola mediante la riforma fondiaria e gli interventi infra-strutturali finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. In realtà, la stretta inte-grazione tra emigrazione e sviluppo, auspicata per le regioni meridionali con convinzione e indicata nel suo possibile divenire con autorevolezza tecnica e politica da economisti agrari democratici della levatura di Manlio Rossi Doria, non si realizzò, dando invece luogo ad un vero e proprio esodo dall’ “osso” del Meridione, vale a dire dalle zone interne, appenniniche, più povere, con con-seguenze pesantissime su di esse dal punto di vista demografico e anche da quello della gestione del territorio, ancor più sottoposto che in passato al ri-schio del degrado ambientale, non più contenuto da una presenza antropica numerosa, sapiente e laboriosa come quella contadina.

Si sente spesso dire che il Molise ha troppo pochi abitanti, ma in effetti i Molisani non erano molti di più cinquanta o cento anni fa. La regione ha piuttosto, rispetto a cinquanta anni fa, un problema di forte polarizzazione territoriale della popolazione, in grande misura concentrata nei capoluoghi di provincia e sul litorale adriatico. Polarizzazione demografica a cui si accom-

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pagna un’altrettanto evidente e problematica polarizzazione territoriale delle strutture produttive.

Quindi dall’emigrazione del secondo dopoguerra le realtà locali da cui il fenomeno è scaturito – i cento presepi del Molise interno e montano – non hanno tratto nessun beneficio.

Anche il prezzo pagato dagli emigranti è stato alto per i devastanti disagi affettivi e culturali, di sradicamento connessi alla partenza definitiva. Essi hanno comunque potuto – lo si evince con chiarezza a leggere diari e testi-monianze – percepire loro stessi come protagonisti di un percorso di conqui-sta, di affrancamento da una condizione certamente disagevole, di subalterni-tà economica, sociale e culturale, nel raggiungimento di un nuovo status, che è vissuto di solito con notevole orgoglio.

La percezione del senso comune, (che non è il buon senso) dell’emigrazio-ne unicamente sentita come tragedia, va dunque almeno in parte modificata, leggendo il fenomeno come una “normale” risposta alle sollecitazioni del mercato internazionale del lavoro. Sollecitazioni che, piuttosto che liberisti-camente subire o localisticamente demonizzare, bisogna intelligentemente saper gestire, sia quando inducono all’emigrazione che quando producono immigrazione.

Antonio Ruggieri

E comunque, soprattutto in alcuni periodi, è stata una scelta al limite dell’e-roismo; il viaggio di per sé era un’avventura che spesso si concludeva in ca-tastrofe e quindi è comprensibile che i protagonisti decifrino in chiave eroica il loro progetto migratorio.

Gino Massullo

Guardando al fenomeno nel suo complesso, non dovremmo spiegarci que-sto fenomeno di massa soltanto in termini di tragedia o di “eroismi”, elemen-ti certo pure presenti in molte biografie migratorie.

Noi oggi siamo purtroppo abituati alle carcasse del mare, costretti ad assi-stere all’odissea tragica di quei disperati che arrivano sulle nostre coste in fin di vita. L’emigrazione storica, e quella italiana in particolare, non è stata pe-rò esattamente questo.

Si è trattato di un fenomeno di massa che ha coinvolto milioni di persone. Questa dimensione collettiva del fenomeno ha reso possibile anche una sua gestione non individuale e disperata ma comunitaria, sociale. Come faceva un contadino di un piccolo paese molisano ad immaginare e ad organizzare

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un’avventura che l’avrebbe portato ad attraversare l’oceano? Intanto, come diceva Norberto Lombardi, esiste una tradizione precedente di mobilità terri-toriale che aveva abituato i contadini di tutta la montagna italiana e mediter-ranea a stare lontani da casa per molti mesi all’anno. Va poi tenuto presente che l’emigrazione storica italiana è stata un fenomeno di massa che si affron-tava collettivamente nell’ambito delle comunità locali. In ogni paese c’era un agente di viaggio che “cacciava” le carte e organizzava il viaggio; istituti lo-cali di credito che gestivano il flusso finanziario delle rimesse; contatti strut-turati e continui tra le comunità di origine e quelle di arrivo; gli emigranti partivano in gruppi di parenti, affini e vicini, sapendo già chi, tra i parenti e i compaesani oltreoceano, li avrebbe accolti appena dopo aver lasciato l’Hotel de Inmigrantes a Buenos Aires, Ellis Island a New York, o Pier 21 a Halifax; gli organizzati ed efficienti terminal dell’emigrazione che non somigliavano in nulla – sia detto per inciso – ai nostri cosiddetti e orribili Centri di acco-glienza. Era la dimensione comunitaria nei luoghi di partenza e le adeguate politiche di accoglienza in quelli di arrivo che facevano dell’emigrazione l’elemento centrale di una nuova identità sociale dei protagonisti del feno-meno distesa tra le due sponde dell’Oceano Atlantico. Era tutto questo a ren-dere possibile progetti di tale portata umana e sociale, certamente fondati su sacrifici dei protagonisti di entità per noi oggi anche soltanto difficili da im-maginare, ma comunque fuori da una dimensione individuale, unicamente connotata da disperazione ed eroismo.

Norberto Lombardi

Spesso la famiglia adottava l’emigrazione, la sceglieva come impresa, co-me progetto di consolidamento e sviluppo: tre rimanevano e due andavano ad accumulare per reinvestire…

Antonio Chieffo

Ho letto che i paesi dell’interno hanno avuto un’emigrazione più costante proprio perché non avevano sbocchi di comunicazione ed erano tagliati fuori anche dalla transumanza.

Questi paesi hanno subìto un’emorragia più forte proprio perché non ave-vano dimestichezza con gli spostamenti anche temporanei e dunque non sa-pevano “investire” sull’emigrazione.

Al contrario, nonostante le notevoli difficoltà che presentava uno sposta-mento all’estero, gli uomini e le donne delle zone molisane con un’antica propensione alla mobilità e all’intrapresa, almeno per quanto concerne la

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Grande emigrazione, non subiscono passivamente il fenomeno, ma cercano di fronteggiarlo e gestirlo nel migliore dei modi.

Strategie ereditarie, compra-vendite di case e terreni, commercio e impe-gno di raccolti, ipoteche e prestiti in denaro, strategie matrimoniali e accordi familiari, catene migratorie, sono solo alcuni dei moduli di un ampio e fre-quentato repertorio di pratiche socio-economiche per l’organizzazione del fenomeno migratorio.

Quindi, per comprendere realmente la vicenda migratoria, forse è necessario correggere un’idea prevalentemente pauperistica dell’emigrazione, che la fa risalire quasi esclusivamente al bisogno e all’impossibilità di vivere del poco frutto delle campagne molisane. Il bisogno è stato certamente una spinta reale, ma non esclusiva. In realtà sono partiti anche molti che non dovevano sfuggire al morso della fame o che potevano comunque tentare altre strade. Le centi-naia di migliaia di giovani molisani che nell’ultimo secolo e mezzo sono anda-ti per lavoro all’estero, anche quando potevano tentare di fare qualcosa qui o in altre regioni italiane, in realtà si sono mossi – più o meno consapevolmente – sulla base di un progetto. Un progetto individuale di miglioramento personale e di promozione sociale e/o un progetto familiare, quello di accumulare ri-sparmio da investire soprattutto in casa e terra, ma anche in iniziative artigia-nali e commerciali, a beneficio dell’intero nucleo parentale.

Gino Massullo

In tutta la montagna, e non solo quella italiana ma quella europea e mediter-ranea, era tradizionalmente invalsa l’abitudine alla mobilità stagionale già dall’Età moderna. Le popolazioni erano dunque in qualche modo preparate culturalmente all’emigrazione a lunga distanza. Peraltro, guardando il feno-meno nel breve periodo, sembrerebbe che i paesi da cui si è partiti prima, le comunità che più precocemente si sono messe in gioco nell’emigrazione, siano state quelle che avevano una relazione non fortissima e immediata con la pre-cedente esperienza di mobilità territoriale, come quella legata alla transumanza o ad altre realtà di lavoro fondate sulla mobilità stagionale o periodica.

Ad esempio, in paesi come Bagnoli del Trigno o Salcito, da cui già dalla fine del Settecento si emigrava periodicamente a Roma – fenomeno da cui deriva l’attuale numerosa comunità di tassisti romani di origine molisana – l’emigrazione transoceanica di massa si avvia con qualche ritardo rispetto agli altri paesi limitrofi non coinvolti in fenomeni analoghi. Evidentemente, la tradizione alla mobilità territoriale creava un generale clima culturale fa-vorevole allo spostamento, ma, allo stesso tempo, soprattutto lì dove era molto forte e particolarmente radicata, costituiva anche, almeno provviso-riamente, un’opportunità alternativa all’emigrazione a lungo raggio; almeno

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fino a quando questa non diverrà un fenomeno di massa irrefrenabile; e allo-ra tutti andranno alla “Merica”.

Antonio Ruggieri

Cercando di mettere a fuoco più dettagliatamente l’aspetto che veniva ri-cordato prima da Norberto Lombardi e cioè quello della disoccupazione e della conseguente emigrazione dei nostri giovani che viene con scarsa preci-sione chiamata disoccupazione ed emigrazione intellettuale, chiederei ad Al-berto Tarozzi, che ha una frequentazione quotidiana con giovani che si for-mano all’Università e che poi stentano a trovare collocazione nel mercato del lavoro, una valutazione di questo fenomeno sotto due profili: da una parte si dice che questi giovani dovremmo tenerceli in regione perché sono il frutto di un investimento che la nostra comunità ha fatto sulla loro formazione, d’altra parte, nell’epoca della globalizzazione, è anche controproducente li-mitare territorialmente un processo d’apprendimento di conoscenze e di e-sperienze che sempre più si gioca su uno scenario planetario.

Alberto Tarozzi

Non credo che il tentativo di conservare in Molise una componente di capi-tale umano intesa come puro e semplice freno alla mobilità sia di per sé rile-vante. Anzi, in certi casi può essere un elemento regressivo, di freno rispetto a quello che può essere l’apertura ad un contesto internazionale. All’univer-sità noi viviamo ormai con rassegnazione l’opportunità di borse Erasmus non utilizzate per gli studi all’estero; qui si che c’è un elemento di freno cul-turale pesante, motivato da ragioni economiche abbastanza fittizie. In tutto il centro sud c’è sistematicamente un pacchetto di fondi Erasmus inutilizzato; perché si subordina la decisione a cosa dice la famiglia, perché bisogna ab-bandonare il proprio ambiente, nel caso dei corsi di servizio sociale, da parte delle donne, magari il fidanzato non vuole: sono cose quotidianamente espe-rite dalla mia conoscenza della realtà locale.

Ecco, lì si che lo vedo il freno pesante di una cultura un po’ chiusa, ed è un’occasione persa perché l’Erasmus è un’esperienza reversibile, può essere un’opportunità che immette il molisano in un circuito dal quale può tornare e comunque, quando torna, gli conferisce un valore aggiunto che potrebbe spendere anche qui.

Credo di sfondare un uscio aperto se dico che uno dei danni della globaliz-zazione è proprio quello di praticare anche su scala locale reazioni di spae-samento che ostacolano la messa in discussione di sé stessi.

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Per altro verso, aumentano invece le opportunità legate non solo al mercato del lavoro ma alle nuove forme di comunicazione, alla circolazione e a nuovi messaggi d’esperienze, e io credo che in proposito ci siano delle sfide che devono essere praticate qui.

Se posso collegarmi ai due interventi precedenti, mi sono sorte spontanee delle domande che emergevano dalla illustrazione che è stata fatta dell’espe-rienza molisana. Personalmente, mi piacerebbe vedere alla luce di quello che è stato il passato ma ancor di più di quello che è il presente e che potrebbe essere il futuro, l’evoluzione dei flussi migratori, nel senso delle emigrazioni ma poi anche delle immigrazioni, ma quest’ultimo punto lo analizzeremo più avanti e per questo mi fermo alle emigrazioni. Secondo me c’è da fare in proposito un discorso che ha riferimento col mercato del lavoro ma in forma relativamente indiretta, nel senso che c’è sicuramente una matrice economi-ca e di mercato dietro al problema, ma anche un risvolto in termini di capita-le sociale che non si può ricondurre a pure logiche mercantili. Quello che io mi domando è se nel processo migratorio ci sia erosione di capitale sociale, perché questo mi preoccupa veramente.

Faccio un esempio: il discorso dell’anziano che resta solo è preoccupante perché una rete di conoscenze, di saperi e di mutuo sostegno si dissolve e al-lora mi interesserebbe, guardando al passato, ma soprattutto pensando al fu-turo, vedere le ricadute di questo meccanismo di push/pull factors che è sempre stato presente. Devo dire che mi hanno sempre maggiormente incu-riosito i meccanismi pull factor; sono infatti sempre più numerose, col passa-re del tempo, le forme di comunicazione che attraggono e stimolano progetti che non sono dei più poveri, perché il migrante non è mai il più povero, co-me minimo è il più ricco d’iniziativa.

Queste esperienze progettuali dove approdano? Giustamente bisogna vede-re la partenza e l’arrivo; e allora Stati Uniti, va bene, Canada va bene, Ger-mania va bene, però come mai Chicago o Toronto piuttosto che altre città? Credo che ci sia una penuria di dati per ragioni legate ai tempi e che quindi sia difficile da quantificare il peso, che ritengo notevole, di quello che è stato il ruolo in passato e che potrebbe essere ancora più forte in futuro delle cate-ne migratorie; le catene migratorie che sono fatte di famiglie, di amici, per cui il fatto che si crei la catena migratoria per Chicago, non per gli Stati Uni-ti ma per Chicago, non per il mercato del lavoro del Canada ma per Toronto, vuol dire che tutto un capitale sociale presente qui, mano a mano viene eroso e si trasferisce a Chicago o a Toronto.

Per la Germania, io l’emigrazione in Germania l’ho studiata negli anni Ot-tanta, è chiarissimo che ci sono reti migratorie verso Stuttgart. L’emigrazione molisana è rivolta prevalentemente verso il Baden Wurttenberg, oppure ci so-no cordate che approdano nella Renania Westfalia per esempio, e anche lì, so-no esperienze di singoli che torneranno a casa oppure sono invece catene mi-

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gratorie collettive, solo parzialmente determinate dal mercato del lavoro, che erodono la socialità presente in Molise e magari la trasferiscono in Germania?

E nell’ultimo decennio quali fasce di popolazione, quali reti migratorie, quali progettualità sono uscite dal Molise? Quali possibilità di crescita locale si sono dissolte?

Antonio Ruggieri

Su questo tema voleva intervenire l’Assessore Chieffo…

Antonio Chieffo

Sulla questione alla quale faceva riferimento Alberto Tarozzi, anche per la mia esperienza diretta di amministratore, l’emigrazione verso la Germania e i paesi europei è duplice, nel senso che c’è stata quella delle famiglie che non sono tornate più, e quella del singolo che ha avuto percorsi lavorativi all’estero per qualche anno e che poi è tornato. Quindi alla domanda si può rispondere che verso i paesi europei l’emigrazione molisana ha avuto moda-lità duplice: le famiglie che si sono stabilizzate (dopo la partenza dei genito-ri, i figli nati all’estero hanno trovato lavoro, si sono integrati e stabilizzati) e i single, soprattutto, o coloro la cui moglie è rimasta in paese, sono tornati ricominciando una vita molisana.

Alla modalità migratoria tedesca è assimilabile quella verso il nord Italia. Per alcuni del mio paese (Colletorto ndr) partire per Torino per provare ad

entrare alla Fiat o andare ad Hannover cambiava poco, c’era l’amico che ti chiamava, e si avviava la catena migratoria.

La nostra emigrazione è una sorta di fiume silente; che rapporto c’è fra il torinese degli anni Sessanta e l’immigrato meridionale?

Oggi, nonostante una probabile sottovalutazione del fenomeno, bisogna par-lare di migrazioni molisane, vale a dire di centinaia di giovani, per lo più di-plomati e laureati, che senza ascoltare i nostri discorsi e aspettare i nostri con-vegni, si sono messi sulle strade del mondo per cercare di intercettare opportu-nità di qualificazione e di lavoro. Anche in questo caso è necessario evitare to-ni populistici evocando questo fenomeno in modo indifferenziato e lamentoso. Tuttavia, non si può negare che il processo di distacco dalla compagine regio-nale dei nostri giovani più qualificati sia profondo e diffuso e, per quello che è dato capire, destinato a durare nel tempo. Ancora una volta la “meridionalità” del Molise, vale la dire la partecipazione a processi che attraversano trasver-salmente l’intera società meridionale, torna ad affiorare, proprio nel momento in cui la regione sembra conformarsi ad altri modelli socio-economici.

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Un aspetto da considerare prioritariamente è che nonostante le partenze dei giovani più scolarizzati avvengano sotto i nostri occhi, nei paesi e città nei quali viviamo e nelle nostre stesse famiglie, ne sappiamo ancora poco in termini statistici e di analisi. Quanti sono, dove sono diretti, quanti vanno in altre zone d’Italia e quanti all’estero, qual è il livello di studio e di professio-ne con cui partono, se hanno intenzione di tornare, eventualmente a quali condizioni, che tipo di rapporto possono mantenere con noi dai posti dove si insediano? Queste e altre domande ricevono solo risposte approssimative e di carattere prevalentemente empirico, se non addirittura intuitivo.

Per questo, sono convinto che la prima cosa da fare sia quella di promuovere un’occasione di studio e di comune riflessione sul fenomeno, capace di darci elementi meno vaghi e approssimativi e anche di farci delineare qualche linea di intervento che lasci questi giovani meno soli di fronte alle loro scelte, spes-so obbligate. Naturalmente mi riferisco ai giovani che lasciano il Molise per-ché non riescono a trovare qui le opportunità di lavoro e di espressione profes-sionale; a quei giovani, cioè, le cui energie rischiamo di perdere lungamente o definitivamente dopo che il sistema pubblico ha concorso a farli studiare e professionalizzare. Vorrei dire chiaramente che spero che il mio impegno di governo del settore che mi è stato affidato si caratterizzi per un’attenzione e un intervento crescenti su questi aspetti nuovi delle migrazioni dei molisani, sen-za trascurare naturalmente quelli più conosciuti e consolidati.

Cosa ben diversa, evidentemente, è la scelta di quei giovani che prima di compiere il loro corso di studi o anche dopo, per specializzarsi e acquisire conoscenze e pratiche di alto livello, ritengano di fare esperienze a livello internazionale per arricchire curriculum e profilo professionale. In questo se-condo caso assecondarli e sostenerli è il meglio che gli enti e le istituzioni formative molisane possano fare.

Antonio Ruggieri

E in termini d’erosione sociale, la questione affatto secondaria che poneva Alberto Tarozzi?

Antonio Chieffo

C’è stata ed è stata notevolissima. Grazie anche alla mia attività di sindaco, che mi ha affascinato e avvicinato

al mondo dei molisani all’estero e mi ha consentito di conoscere un po’ tutte le realtà, già da tempo ho avuto modo di conoscere da vicino i protagonisti di quella che definiamo erosione sociale.

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In merito vorrei citare, non per campanilismo, l’esperienza avuta da giovane studente universitario, grazie all’attività di don Giovanni Vecere. Trentotto anni fa egli ha avuto la capacità e la costanza tramite “Vita nostra”, un mensile che tutti i mesi in maniera puntuale raggiungeva i nostri emigranti originari di Colletorto in tutti i luoghi d’Italia e del mondo, di creare una fitta rete di rela-zioni, parlo degli anni Sessanta, fra i moltissimi emigrati. Ha coinvolto giovani studenti universitari che collaboravano e ha fatto in modo che tutti i nostri compaesani fossero al corrente di tutto ciò che accadeva in paese.

Magari avesse potuto farlo la Regione Molise per tutti i nostri corregionali! Ricordo una bella iniziativa organizzata dalla Provincia di Campobasso, As-

sessore alla cultura era Angela Di Niro, con la collaborazione di una professo-ressa che allora veniva tutti gli anni in Molise, Marlene Suano, per fare ricer-che archeologiche. L’iniziativa si concretizzò nella settimana di cultura moli-sana in Brasile. La visita in Brasile fu l’occasione, grazie anche alla bravura della dottoressa Di Niro, di portare in Brasile delle cose bellissime. Fra queste, la voglio citare per il valore simbolico e per il consenso che riscosse, dei sac-chetti di iuta, io non immaginavo cosa contenessero, che si donavano a chi ve-niva a visitare la mostra: il sacchetto era pieno di terra del Molise.

In quella occasione a me è capitato di trovare a Santos, in Brasile, in una comunità molisana, una signora che ricordo in modo particolare: era lì da cinquantasei anni e non era mai più tornata. Grazie a «Vita nostra», al mensi-le di cui dicevo prima, era a conoscenza di tutti gli eventi paesani ed era in grado di dire: «tu si u figlie de Maria Nazzare, Maria Nazzare era una mia compagna di scuola, po’ sacce ca z’a spusate a Camille Chieffo…».

Insomma, c’è questo mantener viva l’informazione, oggi lo si fa in maniera telematica e si conosce in tempo reale quello che succede nel mondo, ma al-lora attraverso questo giornalino, si riusciva a tenere uniti tutti i colletortesi nel mondo.

Venivano diffuse non solo le notizie che possono sembrare le più banali ma che poi interessano di più, dalla nascita alla morte di qualcuno, alle cose che accadevano all’interno dell’Amministrazione, e chiaramente quelle che ri-guardavano l’aspetto più preciso e precipuo dell’attività religiosa.

Sono state delle esperienze bellissime e credo che vada recuperata questa strategia, naturalmente facendo un salto di qualità, ne parlavamo con Nor-berto Lombardi e con Carlo De Lisio (fondatore e direttore del periodico «Quaderni di Scienza e Scienziati Molisani» ndr) di recente, un salto di qua-lità che deve essere compreso dagli amministratori regionali ma un po’ da tutti, perché può rappresentare una fortuna immensa.

Se da Sindaco mandare un certificato a un cittadino che te lo chiedeva dalla Germania o dall’Argentina significava potergli risolvere un problema, oggi do-vremmo capire davvero, e non in maniera retorica, che va fatto un salto di qua-lità totalmente diverso. I nostri corregionali all’estero sono la nostra fortuna.

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Antonio Ruggieri

Su quest’aspetto torneremo più avanti. Passerei a Don Silvio; spesso si sen-te dire che il “grande Molise” costituito da questa nutrita comunità di moli-sani all’estero può essere un’opportunità, come accennava anche adesso l’Assessore Chieffo; in che senso questo ponte fra il “piccolo Molise” dei residenti ancora nella nostra regione col “grande Molise” può essere profi-cuo e fecondo?

Don Silvio Piccoli

L’immagine del ponte, nella domanda, mi dà lo spunto a cercare di ricono-scere i ponti, che, per cura spontanea degli stessi emigrati, si sono creati tra loro e la terra di origine. Il primo, senz’altro, è quello delle tradizioni e della cultura religiosa. Emigrando, hanno portato con sé le tradizioni religiose del-la propria comunità di origine. Cito, ad esempio, per alcune comunità emi-grate dal Basso Molise, la festa della Madonna della Difesa introdotta dagli emigranti di Casacalenda in Canada, come anche quella di S. Gaudenzio da parte di quelli provenienti da Guardialfiera. Ricordo ancora che per anni, nei piccoli comuni, le spese delle feste patronali venivano in parte ricoperte dal-le rimesse spontanee degli emigrati oltreoceano e, in seguito, in Europa e se ne dava lettura pubblica proprio dal palco approntato per la festa.

C’è poi il ponte del legame affettivo parentale e sociale. Ancora oggi, quando muore un cittadino italiano all’estero, soprattutto nei piccoli centri d’origine i familiari ne danno l’annuncio e si celebra, con partecipazione co-rale, la messa di suffragio, manca solo la presenza del cadavere, ma la co-munità si unisce nella preghiera e nel gesto ancora comunitario delle condo-glianze, come fosse morto uno «tra noi o dei nostri». D’altra parte io stesso, come anche molti di noi molisani, se per il due novembre volessi far visita alle tombe dei parenti defunti, dovrei passare per Brasile, Argentina e Au-stralia, dove sono sepolti la metà dei miei zii ed una nonna.

C’è il legame tenace dei tanti italiani che, nonostante i decenni di residenza all’estero e pur prevedendo ormai di non rientrare, “custodiscono” la cittadi-nanza italiana. Successe ai miei zii in Brasile, rientrati temporaneamente e per la prima volta dopo circa quarant’anni: rinnovarono il passaporto italiano presso il Consolato italiano. La Chiesa italiana, attraverso l’istituto dei cap-pellani per gli emigranti o le missioni cattoliche, ha seguito gli emigranti in Europa e nel mondo. È rimasta emblematica l’esperienza di S. Francesca Sa-verio Cabrini che quando rivelò al papa la volontà di aprire una missione in Cina, si sentì dire da Leone XIII: «La vostra Cina sono gli Stati Uniti, vi so-no tanti italiani emigrati che hanno bisogno di assistenza».

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Quando l’esodo assunse dimensioni bibliche di massa, non nacque attorno a tale emigrazione, né a quella successiva, una qualsiasi responsabilità positiva, anzi, sembra sia avvenuto un processo continuo di rimozione che si trasforme-rà nel tempo in una completa dimenticanza: metà del paese si dimenticherà di ciò che è accaduto e accade all’altra metà, fuori dal territorio nazionale.

Ci saranno questi ponti tra emigranti e comunità di origine, come dicevo prima, e un mutuo aiuto attraverso le rimesse. Ma furono ponti di umanità spontanea delle persone, delle comunità, tanto civile che religiosa, ma non opera di nazione, di Stato o di governi; esisterà, infatti, una strategia degli emigranti e non una strategia nazionale dell’emigrazione. A livello politico l’emigrazione fu letta come un modo di liberarsi della «scoria» della popola-zione italiana, dei settori improduttivi e impoveriti, dei «naufraghi delle bur-rasche della vita», degli intellettuali irrequieti, ma non fu colta come una ri-sorsa da valorizzare. Al massimo, fu considerata in positivo come valvola di sfogo della pressione sociale e, in qualche passaggio della storia, come nell’ultimo dopoguerra, addirittura come merce di scambio per le necessità prioritarie della nazione e della ricostruzione. Con il Belgio fu sottoscritto il patto di scambio: manodopera italiana per le miniere di carbone, in cambio di forniture di quel combustibile all’Italia.

Ho letto che quando i bersaglieri giunsero in Crimea, le strade di Riga, la capitale, avevano nomi italiani. Parimenti le maestranze genovesi aprirono cantieri navali in sud America nei maggiori porti dell’Atlantico e del Pacifi-co, ma non furono mai accompagnati da una politica di riconoscimento e di raccordo con la nazione italiana.

Circa il ponte rappresentato dalla lingua, lì si è rivelata la situazione più fragile, sia perché la stessa unità linguistica della nazione italiana fu un pro-cesso molto lento, sia perché dalla madre patria poco si fece. La maggior parte degli emigrati è passata dall’uso dei dialetti alla lingua nuova, magari solo parlata, per le necessità di comunicazione e di integrazione necessaria alla vita. Ricordo che, al mio primo viaggio in Brasile, ho potuto dialogare in croato con i figli di mio zio emigrato con moglie e suocera, appunto perché in casa si parlava quel dialetto croato e il portoghese. Ma ciò scomparirà con il succedersi delle generazioni.

D’altra parte di persona ho potuto sperimentare – sebbene si tratti del feno-meno inverso di immigrazione – la totale distrazione del nostro Molise rispetto alle presenze linguistiche minoritarie, come quella croata ed albanese nei paesi molisani. È emblematica la vicenda del mio paese S. Felice del Molise, che all’avvento del fascismo portava il nome di S. Felice Slavo. Causa il naziona-lismo fascista, divenne S. Felice del Littorio e, in seguito, con l’avvento della Repubblica, fu denominato S. Felice del Molise. Sono testimone interessato dell’inerzia della Regione: pur essendoci un articolo dello Statuto della Regio-ne che riconosce l’esistenza delle “minoranze linguistiche”, essa non è riuscita,

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nella propria competenza legislativa, a far sì che nelle elementari di quella de-cina scarsa di paesi ci fosse la possibilità almeno di un insegnamento aggiunti-vo di albanese e di croato che portasse i ragazzi a saper leggere e, soprattutto, saper scrivere le espressioni del loro linguaggio quotidiano. Ancora oggi si parlano quelle lingue, sempre meno, ma solo qualcuno sa fissare nello scritto i pensieri che potrebbero essere goduti anche dalle generazioni successive o ri-manere come memoria storica. Nell’ultimo decennio, nei paesi ormai spopola-ti e senza il supporto indispensabile di cui sopra, sono arrivati i “caffè lettera-ri”; caffè di quale letteratura, con che mezzi e con chi? Consegnato l’edificio ai comuni, tutto rimane come prima.

Al contrario, finanche lo Stato totalitario della ex Jugoslavia, nel periodo di Tito, ha ospitato in Zagabria studenti universitari dei tre paesi slavi, fino alla laurea, a totale suo carico. Si pensi che nel parlare il croato correttamente si è già in possesso del 50% del russo, del polacco, ecc…, di tutte le lingue sla-ve: che opportunità straordinaria sarebbe per i giovani di questi paesi, oggi, in un’Europa dall’Atlantico agli Urali!

Le opportunità, a mio parere, sono state sciupate già in gran parte. Si potrebbe comunque riprendere le fila perché ancora legami profondi ci sono, ma bisognerebbe, in primo luogo, far presto e bene, cioè con lo sguardo lungo e con intenzioni serie, che travalichino il temporaneo al-ternarsi delle amministrazioni politiche e, in secondo luogo, porsi in con-trotendenza al clima forzoso di paura che negli ultimi anni è stato volu-tamente montato in Italia. Per le attuali leggi italiane, diversi milioni, fi-gli di italiani all’estero, potrebbero tornare quando vogliono ed avere di-ritto alla residenza nel nostro paese. Sarebbe ora, per quello che è possi-bile ancora, che si esca dalla retorica e si percorrano sentieri appropriati e lungimiranti, non tarati sulla successiva campagna elettorale. L’emigra-zione non fa parte del target di un partito: è la storia dolorosa e gloriosa di popolo e di comunità; è storia vivente di persone su cui nessuno do-vrebbe pensare di stendere qualche vessillo se non quello appropriato del-la bandiera nazionale, con umiltà, pudore e rispetto.

Antonio Ruggieri

Su questo terreno ripassiamo la palla all’assessore Chieffo. Non sempre in questo ambito la Regione Molise ha messo in campo politiche adeguate e di profilo alto; che cosa si può fare per segnare momenti di discontinuità con questa criticabile tradizione, andando verso una prospettiva d’intervento più razionale e mirata, che costruisca i ponti necessari, alcuni dei quali richiama-ti da Don Silvio Piccoli?

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Antonio Chieffo

Il tentativo è proprio quello d’invertire la rotta, senza tralasciare il rispetto per chi è partito dalla nostra regione tanti anni fa e tanto ha fatto per essa.

Oggi non c’è più l’Assessorato all’emigrazione o ai molisani nel mondo, come espressione di un’attenzione ad un mondo marginale. Ciononostante, va compreso, e questo è quello che abbiamo discusso di recente, che su que-ste politiche occorre un coinvolgimento complessivo dell’intera Giunta re-gionale e anche dell’intero Consiglio. L’obiettivo prioritario e indispensabile è quello di tributare il dovuto rispetto per i nostri emigrati, e contestualmente avviare la promozione del nostro Molise. Ecco, in questo senso per noi l’e-migrazione può essere senz’altro una risorsa.

Ho già chiesto una stretta collaborazione all’Assessore regionale al turismo immaginando che, innanzitutto in tale settore, ci potesse essere una com-prensione e un ritorno dallo svolgimento di azioni comuni.

In questo ambito, ho avuto un’esperienza molto più bella da Presidente del-la Provincia che in Regione.

Ricordo i contatti con nostri corregionali di Montorio titolari di un’agenzia di viaggi in Canada che, periodicamente, anche per motivi di lavoro, porta-vano in Molise non solo molisani, ma anche italiani e persone di origine francese. La visita al palazzo della Provincia era una tappa d’obbligo; io mi onoravo di presentare il nostro territorio e per loro era una grossa scoperta.

Particolare motivo d’orgoglio per loro era la presenza di un allora giovane, mio coetaneo, amico di Giovanni Di Stasi, che era assessore alla cultura a Mon-treal. Questo era un fatto bellissimo in considerazione del lungo e duro percorso di inserimento sociale che i molisani, e non solo, hanno dovuto percorrere: a par-tire dalla quarantena, prima di poter entrare in Canada. È un esempio positivo che segna le tappe di conquista socio-economica e culturale di un giovane moli-sano riuscito a farsi strada fino a ricoprire un incarico così prestigioso.

Allora, tornando al nostro problema, io sostengo che si debba per i molisa-ni nel mondo definire un programma non solo di legislatura, ma che sia ap-provato dal Consiglio e che sia valido nel tempo, in modo che s’inverta la rotta, dedicando un’attenzione specifica a questo nostro patrimonio.

Ho avuto modo di vedere in Brasile, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, cosa sono riusciti a fare i nostri emigrati, che sarebbero anche disponibili ad investire nella nostra regione. Quando arrivano qui trovano di-strazione e disorientamento operativo.

Quindi, se tutte le amministrazioni interessate vogliono prendere coscienza e acquisire consapevolezza, dovrebbero far riferimento a chi ha studiato que-sto fenomeno ed egregiamente ce lo ha rappresentato stasera.

Il tentativo sarà perciò quello di far comprendere all’intero Consiglio re-gionale finalmente un programma strategico condiviso.

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All’estero i nostri corregionali occupano posti di rilievo nelle università, in aziende, c’è gente che ha disponibilità e voglia di dare al Molise, chiaramen-te anche noi dobbiamo saper essere all’altezza di questa interlocuzione.

Dobbiamo puntare con decisione alle università e agli imprenditori che in alcuni casi, ad esempio nel caso di Steve Maglieri, sepinese in Australia, hanno volontà e possibilità economica per costruire qualcosa nella nostra re-gione. Questo grande ponte del quale si diceva si può costruire su basi vera-mente solide, ma occorre una cultura differente da parte degli amministrato-ri, una diversa cultura dell’accoglienza da parte dei nostri corregionali che non sempre rispondono in maniera adeguata. Noi siamo abituati ad esaltarci e a commuoverci quando siamo all’estero, ma a dimenticare con facilità que-sti temi e questi problemi una volta tornati a casa.

Per quanto mi riguarda, cercherò di mettere al centro del dibattito del Con-siglio regionale il tema dei molisani nel mondo e delle relazioni strategiche da imbastire con essi, per dare nuovi e rinnovati stimoli.

La ricerca dell’italianità e della molisanità spesso incontra ostacoli per la disattenzione o addirittura per l’ostruzionismo dei nostri comuni.

C’è una famiglia di Los Altos di origini agnonesi, che ha investito cento-cinquantamila dollari per poter realizzare uno studio sulle presenze di agno-nesi negli Stati Uniti. Hanno individuato la presenza di millecinquecento Sa-belli. Se questo studio potesse allargarsi ad altri comuni, scopriremmo delle cose eccezionali che, utilizzate al meglio, potrebbero avere un ritorno.

Ho scoperto, solo per caso, che a Boston importanti imprese di costruzioni sono Campanelli. Mi dico: “ma i Campanelli sono a Colletorto!” Scopro che i nonni di questi signori sono partiti proprio da Colletorto e sono diventati i più grandi costruttori di Boston. Oggi a Boston, dire Campanelli è come dire Falcione a Campobasso. Ci sono queste enormi potenzialità che devono es-sere utilizzate con precisione e puntualità.

Per sintetizzare, ritengo importante delineare con precisione una strategia di comunicazione con i molisani di origine, capace di rispondere alla loro ri-chiesta di radici e cultura e, contestualmente, interagire con la rete degli opinion leader molisani nel mondo, con particolare riferimento a quelli pre-senti nei settori produttivi. Ciò, al fine di proiettare positivamente l’imma-gine del Molise e di utilizzare in regione esperienze avanzate.

Questa delega che mi è stata affidata mi assorbe con piacere forse più dei lavori pubblici, perché credo che lavorare adeguatamente con i molisani nel mondo possa rappresentare il futuro per questa terra.

Senza immaginare ritorni eccezionali, ma facendo in modo che vivendo una situazione seria e contemperando anche le esigenze di chi viene nel Mo-lise da altri paesi del mondo, possiamo immaginare un futuro diverso per questa realtà. Altrimenti nei nostri piccoli paesi dell’interno, da qui a qualche

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anno, dovremo dire che non c’è più nessuno. Mette tristezza arrivare in que-sti nostri paesi la sera e non vedere più nessuno per strada.

Volevo, infine, riferirvi di una esperienza personale fatta insieme a un av-vocato di Termoli: siamo andati a presentare all’istituto italiano di cultura italiana di Amsterdam il Molise; abbiamo invitato due o tre produttori che hanno portato i loro prodotti: Di Giulio il vino, qualche altro la salsiccia, ecc., spendendo pochissimo, siamo andati in maniera privata.

Ebbene, sono venute quella sera centotrenta, centocinquanta persone che hanno pagato trentacinque euro per la cena ed entro l’anno successivo ben venticinque olandesi, che quella sera erano stati lì, sono venuti in Molise, hanno comprato casa e ci frequentano abitualmente.

Fra di loro c’è uno dei più grandi chirurghi maxillo facciali d’Europa, che è intenzionato a stabilirsi nel Molise, ha comprato casa a Guglionesi. Se gli si offre l’opportunità di operare, si è dichiarato disponibile a farlo anche nelle nostre strutture. Allora, se penso alle sale operatorie dell’ospedale di Larino che sono chiuse, credo che si debba fare una riflessione più approfondita.

Se ci si lavora si può fare davvero tanta sinergia.

Antonio Ruggieri

Vorrei chiedere ancora ad Alberto Tarozzi un giudizio sull’efficacia delle visite di giovani discendenti da famiglie molisane, ma nati all’estero, che spesso portiamo a conoscere la regione dalla quale sono partiti i loro genitori o i loro nonni; fino a che punto quest’attività è proficua e quali risultati dà?

Alberto Tarozzi

Bisognerebbe naturalmente analizzare il singolo caso, non si può sparare un giudizio superficiale; è chiaro che se si tratta di un’esperienza circoscritta nel tempo che non sedimenta e che diventa un contatto poco più che turisti-co, è una specie di cartolina ricordo.

L’aggancio interessante potrebbe essere quello di costruire con queste per-sone, soprattutto se giovani, progetti cosiddetti di co-sviluppo e che in gene-re vengono proposti per immigrati in Italia piuttosto che per gli emigrati.

I primi che hanno praticato queste strade ai tempi del Governo Jospin sono stati i francesi, grazie alla consulenza di Sami Nair che è un sociologo di ori-gine maghrebina.

Con queste teste di ponte bisogna costruire un progetto che può essere di rien-tro, che può essere d’esportazione di merci dal Molise, che può essere di costru-zione di eventi culturali, che può essere di costituzione di associazioni bilaterali.

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Se queste esperienze riescono a sedimentare progetti, allora si potrebbero chiamare questi giovani dall’estero, anche numerosi, ma sentendo da loro se hanno dei progetti in testa per ricollegarsi alla realtà molisana, in modo che la loro venuta in Molise sia un piccolo investimento per loro e per il territo-rio molisano.

Antonio Ruggieri

Chiederei a Norberto Lombardi, che forse ha maggiori informazioni sugli esiti di questi viaggi, che naturalmente non dovrebbero essere spot elettorali, né rispondere all’intenzione “capotica” dell’Assessore di turno, ma suppon-go e spero che corrispondano a una strategia di relazioni con questi giovani in qualche modo nostri corregionali o comunque discendenti da nostri corre-gionali emigrati.

Norberto Lombardi

Sono stato stimolato dalle sollecitazioni di Alberto Tarozzi e le riprendo per tentare di rispondere meno banalmente possibile alle questioni che sono state poste.

Circa le ragioni della scelta di emigrare, la spinta del fattore economico e del disagio sociale è certamente quella più immediata e diffusa in certe fasi. Tut-tavia, non si capirebbe molto di emigrazione se ci si fermasse lì. Mi spiego con un esempio: già alla fine dell’Ottocento, un sindaco di un comune molisano, rispondendo al Prefetto che lo sollecita per avere notizie relative all’emigra-zione, quando il Governo italiano è ad essa contrario, gli risponde che ormai per la gente del suo paese l’America è diventata «una ragione di vita». Non solo una necessità o un’opportunità per migliorare, ma «una ragione di vita», vale a dire una scelta capace di dare un segno diverso alla propria esistenza. Io stesso ho fatto molte interviste a persone che sono partite nel secondo dopo-guerra e non pochi, anche tra quelli che sono andati molto lontano, ad esempio in Australia, mi hanno detto che se ne sono andati perché non reggevano più il sistema di vincoli familiari, il sistema patriarcale, il tradizionalismo delle rela-zioni sociali e dei comportamento, il fatto che la decisione del capofamiglia dovesse sempre e comunque prevalere. Parecchi mi hanno detto: «Non è che non avessi da mangiare, volevo essere autonomo, non sopportavo più di sen-tirmi dire da mio padre “stamattina ara qui o zappa lì”».

Per quanto riguarda invece gli insediamenti all’estero, non ho ancora no-minato la catena migratoria perché la do per scontata, almeno in questa sede. La convinzione che comunque mi sono fatta è che la mappa degli insedia-

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menti italiani e molisani sia stata disegnata, prima ancora che dalla catena migratoria, dalla disponibilità di lavoro in determinati contesti; poi, gettata una testa di ponte nell’ambito di un determinato mercato del lavoro, si co-struisce la catena migratoria, non viceversa.

Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei molisani in USA sia andata in Pennsylvania, in particolare a Pittsburgh e Philadelphia, così come non è un caso che la maggiore componente regionale che resta sepolta nel 1907 nel crollo delle gallerie di Monongah sia molisana: c’era un sistema di sfrutta-mento della manodopera che rastrellava i nuovi arrivati nei bacini di primo insediamento, come New York o il New Jersey, e poi li distribuiva dove c’e-ra offerta di lavoro. Per anni mi sono letteralmente scervellato per cercare di capire come mai alcuni molisani fossero finiti in Colorado, in Texas, nel New Mexico, nello Utah, in Minnesota, chiedendomi: «Ma questi dai luoghi di sbarco come ci sono arrivati?». Ebbene, erano stati contrattualizzati nelle regioni nord orientali e trasportati verso le miniere. Alcuni lavoratori da San Pietro Avellana (IS), per esempio, sono finiti a Dawson, nel New Mexico; nomi di molisani ricorrono in tutte le orribili tragedie minerarie che si sono succedute in tutte le aree degli Stati Uniti. Su questa situazione si sono poi costruite le catene migratorie.

Un consistente numero di italiani e di molisani partiti nel 1906, rigettati in-dietro da una delle cicliche crisi finanziarie diventata anche economica, un an-no dopo bivaccano per settimane sulle banchine del porto di New York perché non riescono più a trovare il posto sulla nave per tornarsene a casa. In sostan-za, per leggere l’emigrazione si devono certamente tener d’occhio i fattori so-cio-economici e quelli culturali che spingono a partire, ma si deve fare anche fare uno sforzo per non restare impantanati nelle ragioni della partenza e per considerare l’emigrazione anche nella dimensione dell’insediamento.

I migranti, una volta che arrivano nei luoghi di destinazione, diventano persone che si plasmano in quella realtà e ne vivono tutte le contraddizioni.

L’altro elemento da sottolineare è che la perdita di risorse umane è stata gra-ve, non solo per le dimensioni veramente importanti dell’esodo dei molisani con riferimento alla popolazione, ma soprattutto per l’insufficienza di energie progettuali che ne potessero esaltare i vantaggi. L’emigrazione ha consentito di avere attraverso le rimesse, come ha dimostrato in uno dei suoi migliori stu-di proprio Gino Massullo, una disponibilità di risorse finanziarie certamente ragguardevole. I famosi rivoli d’oro che durante la Grande emigrazione inon-davano le campagne del Mezzogiorno scorrevano anche in quelle molisane. Il 1907, ad esempio, è citato da Ercole Sori come un anno record per quanto ri-guarda la sottoscrizione del debito pubblico da parte dei molisani.

Le risorse economiche si sono largamente tramutate in investimento sulla terra, in «sterrificazione» dei galantuomini, come ha scritto Igino Petrone, e hanno rafforzato la formazione di quella piccola proprietà coltivatrice che è

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un vero contrassegno dell’economia molisana. Il problema vero, però, è che sono mancate le risorse umane in termini progettuali e le condizioni di uno sviluppo generale. Anche nella seconda metà dello scorso secolo, se si esa-minano i casi di emigrazione di ritorno sotto il profilo dei benefici che hanno apportato, non andiamo al di là di qualche reinsediamento di carattere arti-gianale. Negli anni Settanta, come ho accennato, di fronte ad un saldo demo-grafico finalmente attivo, sia pure di poche unità, abbiamo avuto addirittura l’impressione che nel Molise fosse finita l’emigrazione; in realtà, si erano chiuse o ridimensionate le grandi fabbriche in Europa in conseguenza della crisi petrolifera, e quindi molti erano rientrati per questa ragione; in ogni ca-so, oltre a qualche piccola impresa locale non si è andati. Per quanto io sap-pia, anzi, si possono rintracciare più casi di emigrati che tornando hanno in-vestito intelligentemente i loro risparmi in un pastificio o in una centralina elettrica nella fase della Grande emigrazione che nella seconda tornata mi-gratoria. Nei tempi a noi più vicini, insomma, il depauperamento di energie sociali è stato grave.

Arrivo, finalmente, ai rapporti culturali con i giovani. Condivido l’approc-cio che l’assessore Chieffo ha dato a questo aspetto dei rapporti con la nostra diaspora, vecchia e nuova. Non ho difficoltà a riconoscere, anzi, che a livello di responsabilità politica Chieffo è quello che meglio ha tradotto il suo inca-rico di direzione della politica emigratoria regionale in atti concreti. Anche se non mi piace affatto – e non ne faccio mistero – l’orientamento politico della Giunta di cui fa parte, devo dargli atto che in questo settore sta lavo-rando nella giusta direzione. Soprattutto, condivido l’idea che si può fare qualcosa di buono solo abbandonando le iniziative di pura immagine e lavo-rando in profondità.

Noi abbiamo insediamenti ormai quasi completamente scomparsi, sotterrati dai percorsi di assimilazione e comunque dal passaggio delle generazioni; abbiamo un associazionismo che è stato sempre la griglia di riferimento fon-damentale per le iniziative promozionali, che tuttavia sta manifestando, co-me in tutte le altre regioni italiane, un grave invecchiamento e una progressi-va contrazione. C’è, tuttavia, anche qualche fenomeno di rinnovamento che nasce soprattutto da una più forte domanda culturale che viene dalle nuove generazioni.

Come si esce da questo stato di cose? Prima di tutto assumendo questa diversa impostazione, di cui poco fa par-

lava l’assessore Chieffo, e cioè uscendo una volta per tutte dalle politiche per l’emigrazione come politiche assistenziali e di puro sostegno, e facendo del-l’emigrazione una chiave per l’internazionalizzazione della regione. Devo dire che, sia pure in termini oratori, questa esigenza è stata avvertita negli anni passati, se non sbaglio anche dal Presidente Iorio, ma non si è tradotta in misure concrete. In realtà, ci vorrebbero progetti di internazionalizzazione

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di largo respiro e, in quella prospettiva, cercare di capire quale possa essere il contributo che può venire dai molisani all’estero per la loro realizzazione.

In questa nuova prospettiva si può rivitalizzare anche l’associazionismo, chiamandolo a fare non soltanto le feste di tradizione ma iniziative capaci di parlare anche ai soggetti che hanno perduto i contatti con le proprie origini. Don Piccoli ha ragione nel dire che è molto importante conservare gli ele-menti della tradizione religiosa e di quella delle origini, ma se si resta seduti sulla tradizione a lungo andare si rischia di estinguersi. Poiché i processi d’integrazione dei molisani sono stati diffusi, profondi e penetranti, c’è la necessità che alcune realtà associative si trasformino in soggetti attivi, capaci di ricollegarsi ad una molteplicità di forze vive nei contesti di insediamento. Sono da tempo convinto, ad esempio, che sul piano della comunicazione per anni dovremmo cercare di toccare quelli che chiamo gli opinion leaders di origine molisana, cioè quelli che hanno peso sociale e professionale e un ruolo autorevole nelle loro realtà.

E poi c’è il grande problema dei giovani. Non nascondo qualche perplessità sull’efficacia degli scambi giovanili co-

me sono fatti attualmente. Alberto Tarozzi, da educatore, sa bene che se a livello formativo non fai progetti ben motivati culturalmente e ben calibrati dal punto di vista organizzativo, e non cose improvvisate magari per inse-gnare un po’ d’italiano in quindici giorni, è difficile seminare qualcosa di fruttuoso. La presenza sporadica in Molise forse può riscaldare il cuore per un momento, ma rischia di lasciare il tempo che trova.

Ci vorrebbero progetti formativi di un certo respiro e di lunga scadenza per i giovani che vanno dalle scuole superiori all’università. In più, facendo un percorso di preparazione si potrebbero recuperare e rilanciare in modo ade-guato alcuni motivi di fondo della cultura d’origine. Ad esempio, l’imma-ginario delle prime generazioni contiene una forte valenza localistica, di cui essi hanno impregnato i loro racconti familiari, ma che si sta diluendo sul piano culturale con il passaggio del tempo. Se alle nuove generazioni questi motivi li riproponi in forme e con tecnologie moderne, con il fascino dei grandi scenari ambientali molisani, l’evocazione dei paesi, delle tradizioni popolari, allora è facile che scocchi una scintilla di suggestione e di interes-se. Non a caso, quando si fanno scambi a livello di ospitalità familiare, i gio-vani vanno nei paesi e impazziscono perché il modello di relazioni sociali delle nostre piccole comunità li affascina.

Noi abbiamo – credo – due grandi carte da giocare. La prima è quella che i giovani si stanno già giocando da soli, cioè l’uso diffuso delle tecnologie della comunicazione. Il problema aperto è che andrebbe qualificata l’offerta culturale di molisanità. Ogni comune ha ormai il suo sito ma ci trovi cose utili e cose meno utili, ci vorrebbero progetti sia riguardanti i retroterra fami-liari che la storia molisana e la ricerca culturale più aggiornata.

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L’altra grande carta è la spinta alla multiculturalità che si manifesta ormai in ogni parte del mondo. Anche nei paesi che nel passato sono stati più di-chiaratamente assimilazionistici, l’apprendimento e la formazione sono fatti tendenzialmente in forma interculturale. Negli Stati Uniti, ad esempio ci so-no i giapponesi, i cinesi, gli italiani, i polacchi, gli slavi e arrivano a ondate gli ispanici. Si possono tenere tutti insieme, soprattutto in un percorso forma-tivo, se si riesce a realizzare una dialettica positiva fra tutte queste soggetti-vità culturali.

A questo proposito, vorrei raccontare un episodio che prima mi ha fatto sor-ridere e poi mi ha fatto capire tante cose. Un amico mi ha raccontato della dif-ficoltà nei rapporti con i nipoti per le diversità di lingua e di cultura che si sono sedimentate. I nonni un po’ alla volta erano rimasti ai margini della famiglia:

Io parlavo un po’ più di inglese per via del lavoro e mi davo un po’ da fare quando venivano i nipoti, ma mia moglie gli faceva trovare torte, maccheroni e altre cose nostre, ma nel dialogo non si andava oltre, perché non riusciva a comunicare. Stavamo morendo dentro. Un giorno si presentano i nipoti accompagnati dai genitori e dicono: “Senti nonno, perché non ci racconti com’era la vita nel paese?” Io stavo cascando dalla sedia; quelli che prima non volevano sentire le cose tradizionali del pae-se, adesso si mostravano interessati. Che era successo? Era accaduto sempli-cemente che a scuola quella settimana avrebbero dovuto parlare della loro famiglia, delle loro origini, delle loro tradizioni, della loro cultura gastrono-mica, della loro lingua, eccetera. Si era compiuto il miracolo!

Se noi cogliessimo questo momento di forte domanda di interculturalità fa-

cendo delle offerte intelligenti e organiche, «dialoganti», probabilmente col-locheremmo il Molise in un circuito vivo, attivo. E qui l’Assessore dovrebbe farsi sentire contro i viaggi general-generici: può mai essere che la Regione Molise non abbia un pacchetto turistico da offrire ai tanti molisani che po-trebbero venire in visita nella terre delle loro origini familiari in un momento di così grave difficoltà economica e sociale? Può mai essere che manchi un sia pur modesto fondo per dare alle scuole la possibilità di scambi? L’Uni-versità ha beneficiato di strumenti di questo tipo, ma per cose ancora abba-stanza volatili. So bene che voi docenti eccepite che state solo rispondendo alla domanda che vi viene posta, però anche su questo piano forse si potreb-be fare meglio.

Soprattutto, più investimenti e maggiore continuità sul piano della comuni-cazione, qualificata e culturale.

Quello che in passato hanno fatto i parroci, da soli. A Montorio per cinquant’anni è partito un giornale parrocchiale per tutte le

parti del mondo; se lo vai a leggere, c’è tutta la storia di Montorio nel Molise e dei montoriesi nel mondo.

Questi sono forse modelli di altri tempi, ma modelli di reti.

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Antonio Ruggieri

Però questo lavoro lo si deve a Don Vecere e alla sua capacità; adesso è molto più semplice con internet, si tratta di coordinare e di qualificare gli in-terventi che sono in atto e implementarli.

Con questa domanda chiudiamo il dibattito dedicato ai flussi in uscita, al-l’emigrazione. Con l’intervento di Loredana Costa apriamo il capitolo che riguarda i flussi in entrata, l’immigrazione, perché il Molise da qualche an-no, anche se in maniera ancora limitata, è meta d’immigrazione, un fenome-no che non si conosceva.

Come ti pare che stia rispondendo la nostra comunità a questo fenomeno? questi nuovi flussi possono risarcire in qualche modo quello che Alberto Ta-rozzi chiamava l’erosione sociale frutto dello spopolamento?

Loredana Costa

Dirò alcune cose collegate alla nostra esperienza. Come associazione “Dal-la parte degli ultimi”, abbiamo cominciato ad occuparci d’immigrazione nel 1992, qualche anno dopo la nostra costituzione, allestendo la prima casa di accoglienza per studenti universitari provenienti dall’Africa, con i fondi del-la legge Martelli.

E quindi abbiamo attraversato e accompagnato con quest’esperienza più di un decennio.

Francamente, non so se quel debito sociale che stiamo pagando con la fuo-riuscita dei nostri ragazzi dalla nostra regione, soprattutto in quest’ultima fase, possa essere risarcito attraverso gli attuali flussi in entrata. È vero che c’è un aumento costante di questa popolazione che arriva da noi casualmente, oppure attraverso quelle reti migratorie che abbiamo vissuto in senso contrario.

Noi per un decennio abbiamo accolto ragazzi che venivano nella nostra re-gione per studiare e iscriversi all’Università del Molise; li abbiamo sostenuti e li abbiamo accompagnati. Negli ultimi anni, però, ci troviamo ad affrontare un’emigrazione diversa.

Quella tipologia di migrante non c’è più, c’è una tipologia di migrante eco-nomico, ma spesso portatore di una preparazione e di una formazione molto al di sotto di quella che ci arrivava dieci anni fa, per cui in questo bilancio fra risorse che entrano e risorse che escono, io credo che il Molise ci stia perdendo, non in termini numerici ma in termini di competenza: perdiamo risorse di giovani laureati che fuoriescono e vanno alla ricerca di lavoro an-che in altre regioni. Negli ultimissimi anni, infatti, stiamo importando risorse umane che hanno un livello formativo diverso da dieci anni fa, e quindi io

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credo che anche dal punto di vista della ricchezza che dobbiamo costruire dobbiamo ripartire. In che modo? Creando le condizioni affinché i nostri giovani non vadano fuori, ma anche accompagnando queste nuove genera-zioni che stanno entrando nella nostra terra ad una qualificazione che possa essere di crescita per il nostro tessuto sociale e culturale.

Altro discorso è quello demografico; sicuramente questi processi in ingres-so stanno aiutando, sia pur in maniera molto marginale perché la realtà mi-gratoria molisana rappresenta una piccola quota parte dell’immigrazione na-zionale, a tamponare lo spopolamento dei nostri territori. L’incidenza sulla nostra popolazione complessiva è ancora molto piccola, parliamo del 2% e quindi siamo molto lontani dal raggiungere il saldo demografico tra entrate e invecchiamento, però c’è anche un trend di crescita che è costante e in ter-mini demografici questo dato è interessante.

Antonio Ruggieri

Ed è anche di supporto in alcuni settori produttivi come l’agricoltura, la zootecnia, i servizi alla persona, l’edilizia…

Loredana Costa

In questi settori operano reti migratorie che sono riferite ad alcune naziona-lità: in agricoltura e nell’allevamento gli indiani, nell’edilizia vediamo molto Marocco, Tunisia, paesi dell’Est, nei servizi alla persona le donne dell’est, quindi con una caratteristica della mediazione che è molto simile a quella descritta precedentemente per la nostra emigrazione.

Antonio Ruggieri

Diceva Loredana Costa che il risarcimento dell’erosione sociale soprattutto adesso, per questa dequalificazione dei flussi immigratori, è di là da venire, però io credo di poter dire che gli immigrati ci risarciscono almeno in termi-ni di vivacità sociale e di voglia di fare.

Quella intraprendenza di cui parlavamo prima per i nostri emigrati è la stessa di chi sceglie di rischiare la pelle su una barca e di arrivare in un luogo in cui non è ben accolto e deve lottare per traguardare la clandestinità, per-ché essere clandestini nel nostro paese è un reato; non è un risarcimento di tipo antropologico quello che ci portano gli immigrati? Cosa ne pensa Don Silvio Piccoli?

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Don Silvio Piccoli

L’interpretazione delle cose presenti è sempre più difficile, sarà tutto più chiaro fra qualche decennio. Ci sono delle caratteristiche molto significative: innanzitutto il ventaglio culturale delle presenze. Anche se noi abbiamo due o tremila immigrati, nel Molise rappresentano decine e decine di nazioni di-verse, come ho potuto verificare nei rapporti prodotti ogni anno dalla Caritas nazionale. Non è la classica “catena migratoria” per cui in un paese, naziona-le o estero, si creava nel tempo un nucleo consistente di presenze richiamate a catena dai primi che erano giunti. Pur con questa caratteristica tipica la no-stra emigrazione, di fatto, è presente in tutto il mondo. Da noi è presente il mondo e questo riproduce in modo simile lo stesso fenomeno dell’emigra-zione in uscita; sembra un processo analogo.

Al cospetto degli ingressi, siamo chiamati a vivere l’esperienza delle co-munità di arrivo e a misurarci con quel necessario “meticciato culturale”, non cercato né voluto, che ci obbliga ugualmente, sebbene da soggetti passi-vi, al riconoscimento reciproco, che fa sintesi di cultura, di emozioni, di co-stumi e di umanità. La micro realtà delle presenze ci invita maggiormente ad un rapporto diretto e spontaneo da persona a persona, ma ci sono piccole ca-ratteristiche che già stimolano un incontro anche di gruppo o per categorie, diciamo così. Si pensi al numero delle «badanti». Ad esempio le romene e le ungheresi, che sono di tradizione ortodossa, sebbene delle diverse “epar-chìe”. A Termoli, ogni mese, sono ospitate in una parrocchia cattolica della città e un pope ortodosso viene per celebrare, nella loro lingua e nei loro riti, tanto la liturgia domenicale, le grandi feste cristiane, come anche i battesimi. Pensiamo a gruppi di “operai” come gli edili, che almeno a Termoli sono rumeni o polacchi, e dunque cittadini europei, e che lavorano accanto al mondo degli africani, diversi per lingua, abitudini e cultura. Sono fenomeni nuovi, in evoluzione che ci aiuteranno, se accompagnati da una sensibilità che sappia valorizzare e riconoscerne dignità e capacità senza pregiudizi.

Al di là delle riflessioni, in parte giuste, circa la cosiddetta “fuga dei cer-velli” – penso a miei ex alunni che lavorano a Shangai in Cina – ritengo che anche l’uscita rappresenti un’opportunità. Non si tratta più del contadino a-nalfabeta e affamato, ma del giovane laureato, il quale sa cogliere opportuni-tà nell’intero pianeta perché attrezzato con strumenti culturali di livello e spendibili. In questo bilancio tra flussi in arrivo e in partenza quanto ci gua-dagnerà il Molise è presto per dirlo: certamente il Molise dovrà passare per questa trafila, sia per propria debolezza sia per ineludibile partecipazione alle vicende ordinarie del presente.

Nello specifico, a me piace proporre il recupero anche del lavoro stagionale, come esperienza nuova e analoga all’esperienza dei padri: quello dei nostri mietitori che scendevano dalle colline e si recavano nella Capitanata per poi

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risalire nei propri paesi, e quello della transumanza delle greggi che portava i pastori dall’Abruzzo attraverso il Molise fino alla Puglia e viceversa. In questa economia antica l’operaio dormiva nelle stalle, nei pagliai, mangiava quello che veniva portato dal padrone dei campi. Ugualmente i pastori avevano luo-ghi tipici di sosta, non a caso, conosciuti anche dalle popolazioni limitrofe, dove trovavano strutture, quali le fontane, normalmente comuni e di proprietà pubblica, per le necessità delle greggi; luoghi di possibili contatti con le popo-lazioni del luogo, per scambi di prodotti, per approvvigionamenti. Non voglio dare una coloritura romantica ad attività che conoscevano durezza e contesto di povertà diffusa. Voglio sottolineare che la «mobilità» lavorativa tra paesi limitrofi, tra regioni limitrofe, avveniva in un naturale rapporto di “presa in ca-rico” del lavoratore, non solo per le ore strettamente lavorative, ma per la sua vita perché fosse nutrito, potesse dormire, magari su un pagliericcio messo a disposizione. Il rapporto non si esauriva con le ore della mietitura o del raccol-to delle olive o dell’uva, ma conteneva il cibo, l’ospitalità, e l’eventuale per-manenza, per quanto povera fosse. Si generava conoscenza e relazione pur in contesto lavorativo provvisorio e ciclicamente ricorrente negli anni, quasi un piccolo punto di riferimento unito ad altri momenti lavorativi simili. Abbattere le barriere e offrire disponibilità semplici, intelligenti e concrete alla vita delle persone in mobilità temporanea – tanto per i lavori agricoli che per spostamen-ti di maestranze operaie – era connaturale e compreso in un povero ma neces-sario modello di ospitalità o almeno di non estraneità alla vita delle persone; esse, per le necessità ordinarie o straordinarie, potevano contare, nel breve e temporaneo incontro, solo sulla comunità ospitante. Appoggiarsi ad un casci-nale, accedere a una fonte, trovare un pagliaio in cui rifugiarsi o sostare, avere una casa di appoggio per maestranze, faceva parte intrinseca del rapporto tra chi chiedeva manodopera e chi la prestava, tra ospitante e ospitato.

Oggi, se comuni, privati proprietari, parrocchie, istituzioni pubbliche varie recuperassero alcuni ambienti di cui il territorio è ricco (casolari, cascinali, ex istituti vuoti) e li attrezzassero con una minima e indispensabile capacità di accoglienza, sortiremmo risultati positivi di processi di inserimento. La cultura distaccata e individualistica che chiede il tuo lavoro e poi ti riconse-gna a te stesso perché estranea alla tua vita, come se tu avessi tutto il neces-sario ulteriore alla vita in quanto nuda esistenza – ad esempio l’acqua, un fornello per cucinare, un luogo in cui dimorare, un letto – ha prodotto un ab-bassamento del tenore di rispetto e di umanità solidale e ha riprodotto l’affiorare del caporalato e dello sfruttamento brutale, connessi ad altri fe-nomeni indegni di una comunità che vuol dirsi civile.

In questa immigrazione temporanea, che potrebbe diventare stabile, con ar-ricchimento delle nostre comunità sempre più spopolate, perché non cogliere, ancora, una “transumanza dei mestieri” dai noi presenti ma oggi carenti per la semplice scomparsa di chi li possa esercitare? Potrebbero far proprio un pro-

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cesso positivo di conoscenze delle tradizioni secolari della creatività italiana e molisana. E, in modo analogo a quanto accadde alle nostre maestranze in giro per il mondo che non hanno fatto solo cose ma hanno esportato cultura e arte, il loro arrivo potrebbe risultare addirittura risarcitorio di competenze e profes-sioni che nei nostri territori vanno scomparendo, per quanto abbiano avuto grandi tradizioni; cito ad esempio i mestieri del rame ad Agnone o le coltelle-rie di Frosolone, per ricordarne solo alcuni di quelli famosi.

Una catena che consenta la provvisoria permanenza dignitosa a cui, in pro-spettiva, nasca una stabile e autonoma, spetta alla intelligenza e alla creativi-tà di chi ospita, non di chi arriva sprovvisto di tutto se non delle proprie di-sponibilità e capacità. Lo hanno sperimentato i nostri emigranti, soprattutto gli edili: non venivano contattati all’ingresso del cantiere e mollati all’uscita di esso, ma trovavano anche una baracca del cantiere in cui poter lavarsi e lavare i vestiti, cucinare i cibi e dormire, in vista della possibilità di affittare o acquistare una casa per ricongiungersi con la famiglia.

Se il nostro territorio è un mosaico di micro-comunità facciamo sì che tran-sitino persone che hanno voglia di lavorare, invece delle pecore, ma che tro-vino un minimo strutturale necessario per sopravvivere, inizialmente, in vista di una vita futura di qualità e magari residenziale con le proprie famiglie in queste nostre comunità sempre più spopolate.

Rischiare la vita per un futuro migliore, sfuggire alle maglie giuridiche del-la clandestinità, è la sfida che incontra ogni processo migratorio. Non solo la società politica è chiamata a rivedere continuamente le sue posizioni in ordi-ne ai tempi e alle reali situazioni, senza alimentare paure per un piccolo gua-dagno elettorale; c’è anche un compito fondamentale della società civile, nelle specifiche comunità locali, per rendere possibili le vie di uscita dalla clandestinità attraverso forme concrete, seppur minime, di solidarietà che consentano l’emergere della vita delle persone per dar loro la forza successi-va di passare dalla irregolarità alla normalità e, infine, quella di aprirsi al de-siderio di riconoscersi con dignità nella comunità nuova in cui si è giunti.

La vita è sempre sinfonia, in qualsiasi latitudine e per tutti i viventi, mai suono monocorde. Le “monoculture” dei territori, delle razze, delle menti, sono follia della modernità liberista, senza mente perché ridotta, mentre è chiamata a spaziare e collegare, senza cuore perché non osa contemplare con simpatia il vivente, senza futuro perché si incammina ad autodistruggersi o rischia testardamente di riuscirci.

Antonio Ruggieri

Gino Massullo, su come l’emigrazione possa lenire il saldo preoccupante della nostra demografia e supportare un progetto di sviluppo per la nostra comunità.

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Gino Massullo

La questione è eminentemente politica. Senza una precisa progettualità po-litica non si creano le condizioni di attrazione, sia temporanea che definitiva, per nuova popolazione.

Si potrebbe ripartire dalla questione centrale dell’erosione del capitale so-ciale che il Molise e tutto il Mezzogiorno ha subito con l’emigrazione e dalle modalità con le quali essa ha avuto luogo.

Guardando al futuro, io credo che relativamente al rapporto con le comuni-tà molisane all’estero, Norberto Lombardi abbia detto benissimo: il tentativo deve essere quello di internazionalizzare la regione.

Non possiamo immaginare che le terze generazioni degli emigranti di ori-gine molisana tornino ad investire e a vivere di nuovo in Molise; almeno non in numero significativo. Si possono invece creare contesti economici, im-prenditoriali, sociali e culturali delocalizzati, nei quali i Molisani – intesi come tutti quelli che, a vario titolo e in vario modo, operano in e per il Moli-se – possano risiedere, investire, lavorare, socializzare, contemporaneamente a Bagnoli del Trigno, a Campobasso, a Roma, a Torino, a New York, Van-couver, ovunque nel mondo.

Il ruolo della scuola e dell’università nel creare questa nuova dimensione antropologica di tipo “glocale” è ovviamente fondamentale. Utili possono essere progetti culturali e di formazione che attraggano verso la regione la terza, o la quarta generazione di emigrati, facendo leva sul frequente loro bi-sogno di recupero di memoria e di radici familiari e culturali.

Altrettanto utili possono essere tutte le occasioni fornite ai giovani molisani di formazione ed esperienze lavorative fuori dalla regione. Il problema non mi sembra essere tanto quello dei giovani che lasciano il Molise, quanto quello che quei giovani che vanno a fare un’esperienza di formazione e di lavoro fuori dal Molise, in Italia o all’estero, non tornino più, privando defi-nitivamente la regione di risorse importanti.

Per quanto riguarda specificatamente il riequilibrio demografico, io imma-gino un Molise non più densamente abitato, ma con una popolazione me-diamente più giovane e meno spazialmente polarizzata.

Ci sono almeno due Molise; quello interno e montano, praticamente un de-serto sociale, e quello con qualche sia pure debole segno di urbanesimo e vita-lità (Campobasso, Isernia, Termoli, il litorale adriatico), nel quale è concentra-to il grosso della popolazione e delle realtà produttive. Il problema è dunque quello di come offrire opportunità a dei giovani che possano essere indotti a lavorare e a vivere nelle zone interne dove maggiori sono il diradamento de-mografico, la povertà imprenditoriale, economica, l’isolamento culturale.

Non lo si può certo fare fidando sui flussi spontanei di immigrazione legati alle poche – e spesso offerte in forme illegali dal punto di vista retributivo,

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previdenziale, assicurativo e fiscale – opportunità occupazionali derivabili dall’attuale sistema agricolo regionale o dall’invecchiamento della popola-zione da cui deriva la richiesta crescente di badanti. Lo si può fare unica-mente producendo e praticando un preciso e originale modello di sviluppo della regione e in particolare delle sue aree più marginali.

Basti dire a questo proposito che ancora oggi molti paesi molisani sono sen-za una connessione veloce alla rete telematica. A proposito di delocalizzazio-ne, io, che lavoro a Roma, mi fermerei più spesso, a vivere e lavorare al mio paese, a Bagnoli del Trigno, ma non lo posso fare perché non c’è ancora l’adsl.

Ci sono risorse e progetti europei di un certo interesse, che però non vengono utilmente recepiti e gestiti a livello regionale. Il Piano regionale di sviluppo agricolo costituisce a questo proposito un esempio eclatante. L’Europa affida, ormai da oltre dieci anni a questa parte, allo sviluppo agricolo delle aree mar-ginali un ruolo strategico. Secondo la nuova Pac (Politica agricola comunitaria ndr) i finanziamenti all’agricoltura dovrebbero essere indirizzati alla gover-nance del territorio e alla sua sostenibilità ambientale e sociale. Si dovrebbero cioè finanziare quei progetti agricoli che puntano alla sostenibilità ambientale, all’introduzione dei giovani nel comparto, al ripopolamento, eccetera.

Quando si va a verificare si trova che nel Piano di Sviluppo Rurale regionale, non solo nel Molise per la verità, i fondi destinati a questi aspetti sono appena il 2 o 3 %. Con il resto si continuano a finanziare, in maniera spesso inutile e clientelare, per evidenti ragioni di opportunità elettorale, i tradizionali mecca-nismi produttivi, per cui i risultati sul territorio sono di ulteriore degrado, con l’agricoltore che costruisce l’ennesimo magazzino, capannone, abitazione, del tutto sovradimensionato rispetto alle necessità aziendali; che continua, sempre più inconsapevolmente al passare delle generazioni, a praticare coltivazioni di rapina del territorio, senza molta coerenza con le vocazioni agricole locali, senza alcuna connessione neppure con le esigenze di un mercato sempre più interessato a produzioni di qualità, biologiche, e così via.

Una politica agricola gestita diversamente, capace di mettere a frutto le possibilità esistenti per uno sviluppo economico che si coniughi con la so-stenibilità ambientale e l’equilibrio sociale, culturale, antropologico territo-riale, potrebbe attrarre non in maniera estemporanea e molto spesso al nero e senza nessuna tutela, il pastore macedone, il contadino pakistano, la badante rumena che mira a tornare quanto prima al suo paese, ma anche nuove fami-glie di immigrati stabili che possano intravvedere nel trasferimento in Molise un concreto e duraturo miglioramento delle loro condizioni di vita rispetto a quelle presenti nei paesi di provenienza; proprio come è stato per i nostri e-migranti del secolo scorso. Questa mi sembra l’unica speranza di riequilibrio demografico ma anche di sviluppo economico delle aree marginali molisane.

Lo studio della realtà su cui si dovrebbe operare è utile, ma resta un eserci-zio sterile se poi la traduzione politica di queste cose, a dir poco, stenta. Per

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tornare all’esempio della comunicazione, il quadro appare davvero depri-mente; ad ogni piano regionale si torna a parlare di autostrade telematiche, prima attraverso il cablaggio di intere comunità, ora con il wi-fi, ma poi non succede proprio nulla.

I flussi molisani d’immigrazione sono tanto più bassi e aleatori di quelli di altre regioni, semplicemente perché non si offrono opportunità a chi potreb-be venire da fuori; del resto è la stessa ragione per la quale i nostri giovani se ne vanno. Perché mai dovrebbero venire giovani da altri paesi se sono i no-stri stessi giovani a lasciare la propria terra?

Alberto Tarozzi

Mi sembra giusto mettere a fuoco la questione con alcuni dati sull’immi-grazione in Italia per la quale il 2010 è stato un anno cruciale, perché nel 2010 abbiamo avuto un calo verticale degli arrivi nel nostro paese.

Anche se i residenti hanno continuato ad aumentare in maniera consistente, c’è stato un fatto che tende a farci sovrastimare quest’aumento: molti immi-grati erano già presenti ma sono diventati “legalmente e statisticamente” pre-senti usufruendo della sanatoria del 2009.

Se depuriamo i dati dei nuovi residenti da questa aliquota di persone che erano già presenti, abbiamo che nel 2010 c’è un aumento solo di settantamila persone, contro un aumento medio di quattrocentomila persone degli anni precedenti.

Se andiamo a confrontare questi dati nazione per nazione, a parte la Roma-nia che continua a fornirci immigrati in quantità notevole, le altre nazioni sono praticamente ferme.

L’accoglienza è naturalmente sempre importante, ma deve essere finalizza-ta al radicamento delle persone che arrivano sul nostro territorio.

Due dati mi sembrano importanti per quello che riguarda il Molise: uno è una ricerca 2009/2010 dello Svimez che evidenziava come in Molise, unica regione nel Mezzogiorno d’Italia, il saldo demografico fra nati e morti non so-lo sia stato negativo, ma abbia addirittura controbilanciato in eccesso il saldo migratorio. Il saldo fra immigrati ed emigrati, pur mantenendosi positivo, non ha colmato il rapporto fra i nati e i morti e questo è un ulteriore elemento che ci fa considerare il depauperamento delle risorse umane nel Molise.

Un altro dato che va invece ritenuto positivo perché va nella direzione del radicamento, è che sono diminuite le migrazioni interne degli emigrati; dico solo un numero: la Sicilia vedeva nel 2002-2003 il 64% degli stranieri che si muovevano verso altre regioni e viceversa l’Emilia Romagna vedeva un 37% di stranieri già in Italia, che sceglieva di andare entro i suoi confini. In Emilia Romagna questo tasso è calato al 17% e il tasso di uscita dalla Sicilia dal 64% è passato al 28%. Questo va nel senso del radicamento e della mag-

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giore appartenenza al territorio; c’è un’uscita di risorse anche nel Molise per-ché nel 2002-2003 si arrivava al 28% e si è ridotto al 17%; questi sono tutti indicatori relativi ad una maggiore stabilità.

Io credo inoltre che bisogna però fare una certa attenzione dal punto di vi-sta economico a fenomeni come l’insediamento degli indiani Sik, che si è registrato anche in Molise. Già nella zona di assorbimento tradizionale dei Sik, l’area della bassa padana, il reggiano, il mantovano e il bresciano, il loro inserimento negli allevamenti ha permesso salari più bassi e quindi ha de-terminato una minore modernizzazione delle imprese agroalimentari, quindi dovremmo stare attenti a non cadere nel solito difetto italiano, che siamo di-ventati competitivi perché abbiamo contenuto i costi della forza lavoro entro una certa soglia, ma non abbiamo innovato il prodotto. Abbiamo semplice-mente risparmiato sul costo del lavoro.

Io volevo darvi questi due o tre segnali perché mi sembravano rilevanti ai fini di un modo di ragionare che probabilmente si gonfierà nei prossimi anni e secondo modalità che non siamo in grado di prevedere fino in fondo. E dobbiamo anche non enfatizzare come inevitabilmente positivo il radicamen-to dal punto di vista delle relazioni etniche: il radicamento vuol dire tante co-se, può voler dire maggiore integrazione ma anche maggiore razzismo. Per-ché quando radicamento significa che rimangono quelli che grosso modo so-no riusciti ad inserirsi, vuol dire che quegli emigrati diventano competitivi per posti ambiti anche dagli italiani.

Tutte le ricerche internazionali ci dicono che il vero razzismo, quello più pericoloso, non è quello becero e plateale che pure ci fa tanto schifo, ma è quello strisciante; il vero luogo del razzismo non è il bar ma è la fabbrica e viene esercitato non contro il migrante emarginato, ma contro quello che ri-schia di far carriera.

Antonio Ruggieri

Si può dire che il Molise sia ancora al di qua di questo scenario?

Alberto Tarozzi

Per quel che riguarda il Molise faccio riferimento ad un’ultima ricerca, anzi ad una coppia di ricerche che io utilizzo sempre in maniera abbinata. Una è quella fatta dall’Ismu che è l’Istituto studi sulla Multietnicità con cui io col-laboro, e un’altra è fatta dal Cnel; entrambe avevano per oggetto l’integra-zione dei migranti in Italia, però partendo da due chiavi interpretative en-trambe legittime, ma contrapposte.

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La ricerca Ismu era fatta rivolgendosi agli immigrati, chiedendo loro se partecipavano, a livello sociale, culturale, politico, come si trovavano, ecce-tera. Quella Cnel invece era tutta centrata sulle strutture, le leggi, gli sportelli messi a disposizione dalle istituzioni.

Bene, il Molise nella ricerca Ismu era ai primi posti, mentre nella ricerca del Cnel era agli ultimi.

Questo vuol dire che l’immigrato nel Molise tutto sommato non si trova male, perché non c’è la dispersione della grande città, perché il costo della vita riesce a gestirlo, perché se sei in una famiglia come badante hai anche qualche beneficio collaterale; manca, però, il livello istituzionale. So che parlare di soldi in questo momento agli enti locali è inutile, ma io credo che esistano in Molise requisiti per ottimizzare la cultura dell’accoglienza.

Quello che mi ha sempre stupito e che non avevo trovato altro che in Jugo-slavia, è stato il trovare in Molise quartieri con zingari stanzializzati come quello di S. Antonio Abate; questa stanzializzazione degli zingari vuol dire, senza delineare scenari idilliaci, una disponibilità all’accoglienza che è frutto della storia, che sicuramente è superiore alla media e che tutto sommato è confermata dall’integrazione individuale dei migranti.

Don Silvio Piccoli

Sono fenomeni avvenuti molto tempo fa…

Alberto Tarozzi

Si, infatti, quando parlo di radicamento, parlo del lungo periodo, l’unica cosa del suo discorso sulla quale non ero del tutto d’accordo era proprio que-sta della temporaneità; se agiamo sulla temporaneità capisco che c’è una ri-sposta al mercato, però la vera sfida è il radicamento.

Antonio Ruggieri

Voleva intervenire Norberto Lombardi…

Norberto Lombardi

La presenza di certi stranieri, per esempio delle badanti, segnala una frattu-ra culturale di cui parliamo poco ma che è molto significativa: ci stiamo la-

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sciando alle spalle un asse portante della cultura dei molisani, qual è il fami-lismo. La famiglia è stata, per secoli, l’istituzione fondamentale in una socie-tà rurale e paesana come la nostra (noi siamo paesani anche culturalmente, e non solo per come risiediamo sul territorio). Oggi siamo di fronte non solo a emigrati che non sanno a chi lasciare i propri anziani e si rivolgono a badan-ti, ma a persone che abitano nella casa a fianco oppure a Campobasso rispet-to a Vinchiaturo o a Baranello; persone che decidono di non gestire più i loro anziani in famiglia e ricorrono alla badante. Secondo me questo è un elemen-to – e non lo dico in termini di giudizio di valore – di profonda laicizzazione del nostro orientamento culturale e del nostro tessuto sociale, di cui do-vremmo capire gli sviluppi e le prospettive. Meriterebbe maggiore attenzio-ne di quella che gli dedichiamo.

Un secondo motivo di riflessione è quello che accennava Loredana Costa prima e che tutto sommato rientra nel discorso più generale fatto da Alberto Tarozzi, cioè come la crisi ha agito sui flussi di migranti in generale e quindi anche sul Molise.

Per i dati, mi riferisco al rapporto Caritas del 2010, che ho incrociato con qualche altra fonte. In quel rapporto ho letto che l’incidenza della crisi sui flussi è stata certamente evidente ma meno forte rispetto alle attese. In so-stanza, c’è una spinta espulsiva da alcune realtà, che può disincentivare gli arrivi, che però non si fermano nemmeno di fronte alle minori opportunità dettate dalla crisi. Bisogna considerare, inoltre, che in molti casi l’Italia è so-lo un paese di approdo per una migrazione che ha altre mete. Nonostante ciò, mi pare di capire che la presenza degli stranieri in Molise tende ad aumenta-re. In concreto, tendiamo a colmare, sia pure lentamente, la differenza che c’è con altre regioni meridionali e, ancora di più, con quelle settentrionali.

Il tasso di natalità così come il tasso di scolarizzazione dei figli degli im-migrati si mantengono invece ai livelli nazionali. La quantità di non italiani è minore ma la tendenza è uniforme rispetto a quella generale.

Ora, il vero problema è che noi gli immigrati li abbiamo usati per fare im-presa nell’edilizia, nell’agricoltura e nei servizi, adottando la regola del sot-tosalario e dell’evasione contributiva; in tutti i bar della costa ormai lavorano solo stranieri.

Personalmente, sono molto legato a una famiglia di albanesi: il capofamiglia s’ammazza quotidianamente di lavoro e ha una passione straordinaria per l’a-gricoltura, ma prende trenta euro al giorno a fronte dei quaranta che vengono dati a un lavoratore locale, che casomai fa anche qualche ora in meno.

I problemi, allora, sono chiari da vedere e difficili da risolvere. Il punto cen-trale è come si possa fare una politica in termini di accoglienza immediata (e Don Piccoli poco fa diceva cose interessanti) ma anche in termini di progetti volti, come diceva Tarozzi, al radicamento, facendo in modo che la crisi que-sta volta diventi per noi un’opportunità. Siccome i fattori d’attrazione nelle re-

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gioni forti diminuiscono, noi potremmo offrire qualche opportunità in più per-ché queste persone vengano e si radichino. Ma è chiaro che non sarà possibile se queste persone non saranno almeno in parte liberate da una condizione di sfruttamento e di sottosalario per potere entrare dalla porta principale in un circuito virtuoso di cittadinanza da un lato e di produttività dall’altro.

Per il peso che l’agricoltura ha nel Molise, pensare a quello che queste per-sone potrebbero offrire per ridare, ad esempio, un minimo di respiro agli al-levamenti e all’indotto che gira intorno agli allevamenti sarebbe una cosa molto positiva per la nostra economia.

Il problema è capire come, anche utilizzando i fondi europei, si riesca a mettere a punto progetti di sviluppo in agricoltura capaci di aprire spazi a questi nuovi soggetti.

Se crei opportunità, i migranti una certa autonomia l’acquisiscono, ma pur-troppo finora gli unici autonomi che si vedono sono quelli che al mercato e-spongono le bancarelle…

Antonio Ruggieri

Nel commercio perché sono soprattutto ambulanti, ma lo scenario che deli-neavano prima Massullo e poi Lombardi ha molto a che vedere con quello che si è chiamato il “modello Riace” realizzato da Mimmo Lucano nel suo comune della Locride, rivitalizzato con l’accoglienza prima e poi con l’inte-grazione dei migranti.

Affinché il comune accolga e poi integri l’immigrato c’è bisogno di una funzione insostituibile, che è quella del sindaco, il fondamentale agente di sviluppo della sua comunità.

Chiederei in conclusione a Loredana Costa, anche alla luce dell’esperienza della sua associazione, se nel Molise ci sono sindaci che vogliono misurarsi strategicamente con questo problema.

Loredana Costa

Nell’ultimo anno noi stiamo accompagnando l’emergenza migranti nel Molise e stiamo seguendo, per conto della protezione civile, i centoventotto migranti arrivati nel Molise dopo i disordini nel Maghreb e che sono stati ac-colti in otto o nove differenti comuni molisani. Sono tutti richiedenti asilo politico; ad alcuni è stato rifiutato lo status di rifugiato, alcuni devono essere ascoltati e per altri la domanda è stata accolta.

L’esperienza di quest’anno qual è? Segnalo che la nostra comunità è una comunità che accoglie, non abbiamo avuto problemi con i cittadini molisani,

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anche se rileviamo questo doppio binario: il cittadino accoglie e l’imprendi-tore sfrutta e spesso succede che la stessa persona si toglie un abito e se ne mette un altro.

I sindaci: ci sono dei sindaci che avrebbero anche il desiderio, la voglia di valorizzare queste presenze sul loro territorio, io credo però che debba esser-ci sempre una visione e una strategia politica che consenta loro di fare delle cose rispetto alle quali la volontà del sindaco, soprattutto in una fase econo-mica come questa, trova una difficile concretizzazione.

Mi chiedo quanto la capacità di Domenico Lucano, quella sua personale, abbia potuto tradursi in quel bellissimo progetto che ha consentito a Riace di rinascere. Sinceramente, se non ci fosse stato quel sindaco non so come sa-rebbero andate le cose, perché non conosco la realtà di quel territorio.

Alberto Tarozzi

Conoscendo di persona il sindaco di Riace e avendolo tra l’altro invitato in Molise due anni fa, posso dire che ha dovuto fare molto da solo…

Loredana Costa

Mah, non lo so, anche rispetto alla possibilità di accedere a fondi con pro-getti europei, Paesi terzi, Fei, Fer, Fondi europei per i rifugiati: quando tutto questo cade nel territorio molisano trova sempre una traduzione che tende a valorizzare non le opportunità per i migranti ma quelle per i potentati e le lobbies locali.

Norberto Lombardi

I progetti in Molise diventano fatalmente contributi…

Loredana Costa

Sulla progettazione europea e sulla ricerca dei finanziamenti scontiamo an-che un’incapacità endemica dei nostri amministratori…

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Antonio Ruggieri

Bene, allora direi di chiudere questa intensa discussione auspicando che si realizzi quello che diceva l’assessore Chieffo: il varo di una politica per l’e-migrazione che punti all’internazionalizzazione della nostra regione, all’in-terno della quale possano inserirsi anche gli sforzi che diversi soggetti com-piono sul territorio.

Il Molise sul terreno dell’emigrazione, ma soprattutto sull’immigrazione, deve avere una visione che punti ai tempi lunghi e deve mettere in opera po-litiche concrete e soprattutto verificate, in modo che gli interventi messi in campo siano migliorati con modulazioni successive, valutando i risultati conseguiti e progettando gli obiettivi della fase successiva; insomma come si fa normalmente e che purtroppo da noi quasi mai si fa.

Page 50: Glocale 04 Ieri oggi domani.pdf · 1. I limiti della riforma agraria 2. Forme e tempi dell’esodo 3. Il sorpasso meridionale 4. I quartieri italiani 5. Il polo europeo 6. L’inarrestabile

Finito di stampare nel mese di gennaio 2013

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