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7. LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO ALESSANDRO CORVINO, MICHELE TIRABOSCHI SOMMARIO: 1. Alle origini della riforma della giustizia del lavoro e il rilancio dell’arbitrato. – 2. Gli antecedenti: dalla legge n. 533/1973 al decreto legislativo n. 40/2006. – 3. Arbitrato irrituale e transazione. – 4. La natura dell’arbitrato introdotto dalla legge n. 183/2010. – 5. L’impugnazione del lodo arbitrale. – 6. L’equità. – 7. La clausola compromissoria. 1. Alle origini della riforma della giustizia del lavoro e il rilancio dell’arbitrato. Oltre 1.200.000 cause pendenti. Ben 786 giorni, come durata media, per una decisione di primo grado in materia di lavoro (813 per le controversie pre- videnziali) e 701 giorni in grado di appello ( 1 ). Sono questi scarni dati a indica- re la crisi conclamata della giustizia del lavoro – che non si sottrae, invero, al più generale quadro di crisi della giustizia civile ( 2 ) – e a spiegare, al contem- po, le ragioni di una riforma da tempo perseguita dal nostro legislatore e, se- gnatamente, la ricerca di strumenti stragiudiziali di risoluzione delle contro- versie di lavoro secondo modelli da tempo collaudati nella esperienza di altri Paesi ( 3 ). Ed in effetti tutte le principali iniziative legislative presentate nel corso degli ultimi anni – tra cui, in particolare, il disegno di legge n. 1047/2006 (c.d. ( 1 ) I dati sul contenzioso del lavoro sono reperibili, per quanto non aggiornati, sul sito internet dell’Istat con riferimento al 2006. ( 2 ) Cfr., per un quadro complessivo della giustizia civile, A. PROTO PISANI, Intervento scon- solato sulla crisi dei processi civili a cognizione piena, in FI, 2008, V, 11 ss. ( 3 ) Per un quadro comparato cfr., per tutti, A. OJEDA AVILÉS, Métodos y práticas en la so- lución de conflictos laborales: Un estudio internacional, Oficina Internacional del Trabajo, Ser- vicio de Diálogo Social, Legislación y Administración del Trabajo, ILO, 2007 (in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato), cui adde, con riferimento all’Europa, il recente stu- dio per la Fondazione Europa di Dublino condotto da J. PURCELL, Individual disputes at the workplace: Alternative disputes resolution (il rapporto di sintesi è reperibile in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato).

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7.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO

ALESSANDRO CORVINO, MICHELE TIRABOSCHI

SOMMARIO: 1. Alle origini della riforma della giustizia del lavoro e il rilancio dell’arbitrato. – 2. Gli antecedenti: dalla legge n. 533/1973 al decreto legislativo n. 40/2006. – 3. Arbitrato irrituale e transazione. – 4. La natura dell’arbitrato introdotto dalla legge n. 183/2010. – 5. L’impugnazione del lodo arbitrale. – 6. L’equità. – 7. La clausola compromissoria.

1. Alle origini della riforma della giustizia del lavoro e il rilancio

dell’arbitrato. Oltre 1.200.000 cause pendenti. Ben 786 giorni, come durata media, per

una decisione di primo grado in materia di lavoro (813 per le controversie pre-videnziali) e 701 giorni in grado di appello (1). Sono questi scarni dati a indica-re la crisi conclamata della giustizia del lavoro – che non si sottrae, invero, al più generale quadro di crisi della giustizia civile (2) – e a spiegare, al contem-po, le ragioni di una riforma da tempo perseguita dal nostro legislatore e, se-gnatamente, la ricerca di strumenti stragiudiziali di risoluzione delle contro-versie di lavoro secondo modelli da tempo collaudati nella esperienza di altri Paesi (3).

Ed in effetti tutte le principali iniziative legislative presentate nel corso degli ultimi anni – tra cui, in particolare, il disegno di legge n. 1047/2006 (c.d.

(1) I dati sul contenzioso del lavoro sono reperibili, per quanto non aggiornati, sul sito internet dell’Istat con riferimento al 2006.

(2) Cfr., per un quadro complessivo della giustizia civile, A. PROTO PISANI, Intervento scon-

solato sulla crisi dei processi civili a cognizione piena, in FI, 2008, V, 11 ss. (3) Per un quadro comparato cfr., per tutti, A. OJEDA AVILÉS, Métodos y práticas en la so-

lución de conflictos laborales: Un estudio internacional, Oficina Internacional del Trabajo, Ser-vicio de Diálogo Social, Legislación y Administración del Trabajo, ILO, 2007 (in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato), cui adde, con riferimento all’Europa, il recente stu-dio per la Fondazione Europa di Dublino condotto da J. PURCELL, Individual disputes at the

workplace: Alternative disputes resolution (il rapporto di sintesi è reperibile in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato).

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 110

“ddl Salvi-Treu”) e il disegno di legge n. 1163/2006 (c.d. “ddl Sacconi”) – hanno previsto, pur con evidenti divergenze di impostazione e contenuto, il ri-lancio degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie in ambito di lavoro (4).

Nel disegno di legge n. 1047/2006 si ipotizzava, in particolare, la via della conciliazione endogiudiziale (5): il giudice, una volta ricevuto il ricorso, a-vrebbe condotto personalmente il tentativo di conciliazione ovvero avrebbe rimandato le parti a un apposito conciliatore. In ogni fase del tentativo di con-ciliazione, o al termine di esso in caso di mancata riuscita, le parti avrebbero potuto affidare al conciliatore il mandato a risolvere in via arbitrale la contro-versia. Come è stato rilevato sin dai primi commenti, la proposta Salvi-Treu, al di là di talune evidenti complicazioni procedurali (6), era destinata, con ogni probabilità, a risultato pratico del tutto marginale se non nullo. L’arbitrato de-lineato dal disegno di legge in questione scontava, infatti, i limiti della piena impugnabilità del lodo per qualsiasi vizio, ivi compresa la violazione e falsa applicazione di norme inderogabili di legge e di contratto collettivo.

(4) Il riferimento va, in particolare, ai disegni di legge presentati nelle passate legislature n.

3777/2003 della Camera dei deputati (firmatari, tra gli altri l’on. A. Finocchiaro), n. 106/2006 della Camera, e n. 2144/2003 del Senato (firmatario, tra gli altri, il sen. Treu) e n. 1047/2006 (primi firmatari i sen. Salvi e Treu), quest’ultimo riproposto anche nella presente legislatura (ddl n. 959, d’iniziativa dei senatori Treu, Roilo e altri comunicato alla presidenza il 30 luglio 2008). A questo filone di disegni di legge si contrapponeva, nella scorsa legislatura, il ddl n. 1163/2006 (primo firmatario il sen. Sacconi), il cui contenuto è stato sostanzialmente ripreso nel ddl n. 1441 presentato il 2 luglio 2008 dai Ministri Tremonti, Scajola, Brunetta, Sacconi, Calderoli ed Alfano recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la

stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, dal cui stralcio è poi nato il disegno di legge che, come noto, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare è stato approvato in via definitiva dalla Camera il 19 ottobre scorso. www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazio-

ne e arbitrato). Sui ddl n. 1047/2006 (Salvi-Treu) e n. 1163/2006 (Sacconi) vedi, in particolare, i commenti di M. MAGNANI, Quale riforma del processo del lavoro?, A. VALLEBONA, I disegni

di riforma del processo del lavoro, C. ENRICO, Il processo del lavoro e il “giusto processo”, P. MALANETTO, Crisi della giustizia del lavoro e prospettive di riforma del processo: l’apporto

dell’analisi empirica. Il caso del Tribunale di Torino, e M. CRIPPA, Ruolo e ideologia del pro-

cesso del lavoro: commento alle recenti proposte di riforma, tutti pubblicati in DRI, 2007, n. 2. (5) Dalla obbligatorietà del tentativo di conciliazione si sarebbero sottratte, secondo il ddl

Salvi-Treu: a) le controversie previdenziali; b) le controversie per le quali siano stabiliti dalla legge procedimenti sommari o da esperirsi in via d’urgenza; c) le controversie relative ai rappor-ti di lavoro di cui all’art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Fra i procedimenti sommari si sa-rebbero annoverati quelli elencati all’art. 1 del ddl, per i quali era prevista una particolare proce-dura in via sommaria (cause in materia di a) licenziamenti, anche qualora presuppongano la ri-soluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; b) recesso del committente nei rapporti di cui all’art. 409, pri-mo comma, numero 3), del codice di procedura civile e nelle collaborazioni a progetto di cui all’art. 61 e seguenti del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, con riferimento ai casi in cui il recesso avviene secondo causali o modalità diverse da quelle previste dall’art. 67 del medesimo decreto legislativo; c) trasferimento ai sensi dell’art. 2103 e dell’art. 2112 c.c.).

(6) M. MAGNANI, Quale riforma del processo del lavoro?, cit.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 111

Diametralmente opposto, per contro, era disegno di legge n. 1163/2006, le cui norme sono state riprese, con non poche modifiche, nel disegno di legge n. 1441/2008 dal cui stralcio è nata – dopo un lungo travaglio parlamentare che ha ampiamente influito sull’impianto originario della riforma – la legge n. 183/2010. Incentrato su una piena valorizzazione dell’arbitrato di equità, il di-segno di legge Sacconi rappresentava, a ben vedere, il naturale completamento del percorso riformatore avviato con la legge Biagi.

«In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro» – si leggeva nel Libro Bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001 (7) – «anche la preven-zione e la composizione delle controversie individuali di lavoro deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situa-zione attuale. La crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale, sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronunce, da risolversi in un diniego della medesima, con un dan-no complessivo per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro. È necessa-rio anche in proposito guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di rifles-sione e di approfondimento. La situazione, specialmente in alcune sedi giudi-ziarie, è davvero grave e deve essere affrontata con assoluta urgenza. A tal proposito il Governo considera assai interessante la proposta, da più parti a-vanzata, di sperimentare interventi di collegi arbitrali che siano in grado di di-rimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi. Tutte le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate con maggiore equità ed efficienza per mezzo di collegi arbitrali».

In questa linea progettuale si ponevano, coerentemente, i principi e i criteri direttivi di delega contenuti nel disegno di legge n. 848 (c.d. riforma Biagi), comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2001, poi stralciati nell’ambito della nota vicenda dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (8): compromettibilità in arbitri delle controversie; natura volontaria della com-promissione in arbitri delle controversie individuali di lavoro, risultante da atto scritto contenente, a pena di nullità, il termine per l’emanazione del lodo e i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all’arbitro; possibilità di pat-tuire clausole compromissorie; possibilità delle parti, in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, di affi-dare allo stesso conciliatore il mandato a risolvere in via arbitrale la controver-

(7) Vedilo in www.adapt.it, indice A-Z, voce Politiche per l’occupazione. Cfr. altresì M.

BIAGI, L’arbitrato europeo che sognava Marco Biagi (stralci da un appunto di M. Biagi), in Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2010.

(8) Cfr. il ddl 848-bis (comunicato alla Presidenza del Senato il 13 giugno 2002) recante

Delega al Governo in materia di incentivi alla occupazione, di ammortizzatori sociali, di misure sperimentali a sostegno dell’occupazione regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato,

nonché di arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato). Per un riepilogo della vicenda rinvio a M. TIRABOSCHI, Il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276: alcune premesse e un percorso di lettura, in M. TIRABO-

SCHI (a cura di), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Giuffrè, Milano, 2004, 3 ss.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 112

sia; superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie individuali in relazione a clausole compromissorie che abbiano ad oggetto di-ritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità; decadenza del collegio arbitrale allo spirare del termine di incarico senza emissione del lodo; immediata esecutività del lodo (9).

La legge n. 183/2010 porta ora a compimento questo lungo e tormentato percorso riformatore. Siamo indubbiamente lontani dalle prospettive aperte con il progetto originario di riforma. Pur con tutti i limiti e le cautele contenute nel provvedimento, in ragione di un percorso parlamentare a dir poco acciden-tato, si pongono ora le premesse per un progressivo radicamento anche nel no-stro ordinamento dell’istituto dell’arbitrato che conquista margini di utilità pratica fino a poco tempo fa impensabili.

2. Gli antecedenti: dalla legge n. 533/1973 al decreto legislativo n. 40/2006. La riforma dell’arbitrato tocca, in effetti, uno dei punti storicamente più

controversi e spinosi nell’ambito relazioni industriali e di lavoro del nostro Pa-ese. Non a caso la legge n. 533/1973 di riforma del processo del lavoro ha consegnato a lavoratori e imprese un arbitrato privo di qualunque interesse e utilità pratica (10). La devoluzione delle controversie ad arbitri era infatti pos-sibile solo ove previsto da contratti e accordi collettivi di lavoro e a condizione che ciò avvenisse senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria. La riforma del processo del lavoro sanciva, per contro, la nullità della clausola compromissoria che autorizzasse gli arbitri a pronunciare se-condo equità ovvero dichiarasse il lodo non impugnabile e disponeva la impu-gnabilità della sentenza arbitrale per le nullità previste dall’articolo 829 del codice di procedura civile, nonché per violazione e falsa applicazione dei con-tratti e accordi collettivi. Per l’arbitrato irrituale si disponeva, parimenti, l’ammissibilità soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero dai contratti e ac-cordi collettivi e, in questo ultimo caso, senza pregiudizio della facoltà delle

(9) Per un commento alla proposta in materia di arbitrato contenuta nel ddl 848 cfr. M.

GRANDI, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: problemi e prospettive, in DRI, 2003, I; R. FLAMMIA, Conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali secondo il disegno di legge di

delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro, in DRI, 2002, n. 3, 420. (10) Di «scelta mortificatrice» parla G. PERA, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle con-

troversie di lavoro, in RIDL, 1999, IV, 363. A VALLEBONA, Una buona svolta nel diritto del

lavoro, in MGL, 2010, IV, 210 ss., ricordando – a sua volta – G. GIUGNI, Intervista, in RIDL, 1992, I, 348 – definisce la riforma del 1973 un «massacro» dell’istituto dell’arbitrato. Sulla di-sciplina dell’arbitrato vedi, più diffusamente, C. CECCHELLA, L’arbitrato nelle controversie di

lavoro, Franco Angeli, Milano, 1990; R. FLAMMIA, Arbitrato e conciliazione in materia di lavo-ro, in Enc. Giur., 1988; F. CORSINI, L’arbitrato rituale nelle controversie individuali di lavoro, in Rivista dell’arbitrato, 2003, 3, 613 ss.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 113

parti di adire l’autorità giudiziaria. Del pari si sanciva la invalidità del lodo in caso di violazione di disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi. Il lodo, inoltre, era soggetto alle disposizioni dell’articolo 2113, commi 2 e 3, codice civile, con conseguente possibilità di impugnazione entro sei mesi con qualunque atto scritto anche stragiudiziale.

Neppure si può sostenere che a risultati migliori abbiano portato le riforme attuate con i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998. La permanenza del comma 1 dell’articolo 5 della legge n. 533/1973 – che contempla la ammissi-bilità dell’arbitrato soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero da contratti o accordi collettivi – e l’introduzione degli articoli 412-ter e 412-quater del co-dice di procedura civile lasciavano irrisolte diverse questioni (11). Ad esempio se il disposto di cui all’articolo 5 della legge n. 533 dovesse ormai valere sol-tanto per gli arbitrati irrituali ex lege, essendo riportabili tutti gli arbitrati irri-tuali di origine sindacale interamente all’articolo 412-ter del codice di proce-dura civile, ovvero se si dovesse piuttosto intendere che nelle controversie di lavoro coesistessero due tipi di arbitrato irrituale di fonte sindacale: quello ri-portabile all’articolo 412-ter del codice di procedura civile e quello riconduci-bile all’articolo 5 della legge n. 533/1973, quest’ultimo da assoggettare alla disciplina dell’arbitrato negoziale o libero (12). O anche, per altro verso, i dubbi sulla reale natura dell’arbitrato introdotto dall’articolo 412-ter, definito “irritu-ale” dalla lettera della legge, ma per il cui esito si prevedeva un lodo soggetto a impugnazione e al quale era possibile attribuire efficacia esecutiva con mo-dalità tipiche dell’arbitrato rituale. Per non parlare della ritenuta persistenza di un monopolio sindacale dell’arbitrato e la previsione, nei contratti collettivi, della impugnabilità del lodo per violazione di legge o di contratto collettivo, che svuotavano nei fatti l’utilità del ricorso ad arbitri (13).

Non sorprende che un certo ricorso all’arbitrato sia stato fatto limitatamen-te alle controversie in tema di licenziamenti dei dirigenti, laddove è possibile l’impugnazione del recesso in sede arbitrale, venendo liquidata al dirigente, che si ritenga ingiustificatamente licenziato, una corposa penale risarcitoria. Peraltro, essendo possibile l’arbitrato – per contratto collettivo – per la sola questione del licenziamento, qualora il dirigente avanzasse altre rivendicazioni la via giudiziale risultava l’unica concretamente perseguibile (14).

Nemmeno la più recente riforma del titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile, attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (15),

(11) Su cui cfr., fra gli altri, F. LUISO, L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo

la riforma del 1998, in Rivista dell’arbitrato, 1999, 31 ss.; L. SALVANESCHI, Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in Rivista di diritto processuale, 1999, I, 25 ss.

(12) Sul punto, cfr. Cass. 2 febbraio 2009, n. 2576, in GD, 2009, 13, 74, s.m. (13) Cfr. A. MARTONE, Una proposta in tema di conciliazione e arbitrato all’esame del

Cnel, in DRI, 1992, 2, 78. (14) G. PERA, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. (15) Su cui cfr., ex multis, i contributi contenuti in E. FAZZALARI (a cura di), La riforma del-

la disciplina dell’arbitrato, Giuffrè, Milano, 2006, e ivi, per quanto concerne le questioni lavo-ristiche, M. BOVE, Arbitrato nelle controversie di lavoro.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 114

chiariva le questioni dubbie. La riforma del 2006 aveva indubbiamente il pre-gio di tracciare legislativamente la differenza fra arbitrato rituale e irrituale. Il primo veniva ricondotto a un fenomeno sostanzialmente giurisdizionale, an-corché privato, in quanto l’arbitro fa ciò che altrimenti avrebbe potuto fare il giudice statale; il secondo veniva invece ricostruito nei termini di una defini-zione negoziale della lite.

Dopo la novella del 2006 l’arbitrato rituale (articoli 806 e ss. del codice di procedura civile) conduce a un lodo equiparabile a una sentenza del giudice dello Stato (articolo 824-bis del codice di procedura civile), munibile di exe-quatur (articolo 825 del codice di procedura civile) e soggetto all’onere di im-pugnazione. L’arbitrato irrituale (articolo 808-ter del codice di procedura civi-le), per contro, conduce a un lodo che è nulla di più di una determinazione contrattuale, «in deroga a quanto disposto dall’art. 824 bis», non munibile di exequatur e non soggetto all’onere dell’impugnazione. Con la conseguenza che la sua eventuale invalidità è sindacabile, in via di azione o di eccezione, di fronte al giudice competente secondo le disposizioni del libro I del codice di procedura civile.

La riforma del 2006 scioglieva inoltre ogni dubbio con riferimento all’arbitrato rituale sulle controversie di lavoro, in ordine alla ammissibilità del compromesso (16). Rimaneva invece irrisolto il problema dei rapporti con le discipline dell’arbitrato irrituale contenuti negli articoli 5 della legge n. 533/1973 e 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile.

Posta la definizione di arbitrato irrituale, così come sancita dall’articolo 808-ter del codice di procedura civile, le divergenze fra l’articolo 412-ter e l’arbitrato irrituale si acutizzano. Sicché, l’arbitrato di cui agli articoli 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile pare assimilabile, piuttosto, agli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile.

Se questo è vero, resta da chiarire se l’arbitrato genuinamente irrituale – cioè normato esclusivamente (17) dalle scarne disposizioni contenute nell’articolo 808-ter – sia applicabile anche in relazione alle controversie lavo-ristiche.

3. Arbitrato irrituale e transazione. L’arbitrato irrituale – come dispone ora, senza più possibilità di equivoci,

il novellato articolo 808-ter del codice di procedura civile – ha valenza di una

(16) A tal proposito nel codice di procedura civile emergeva una evidente contraddizione, in quanto, nonostante fosse ormai superato il principio della non arbitralità delle liti di lavoro, a seguito della novella dell’art. 808 c.p.c. avvenuta con la legge 533/1973, era tuttavia rimasto invariato il disposto originario dell’art. 806 c.p.c., ai sensi del quale era vietato, in dette liti, la stipula del compromesso. Cfr. M. BOVE, op. cit., 216.

(17) Non sono, infatti, applicabili le ulteriori disposizioni del titolo VIII del codice di proce-dura civile come può desumersi dall’avverbio “altrimenti” nell’art. 808-ter c.p.c. Cfr. G. VERDE, Arbitrato irrituale, in E. FAZZALARI (a cura di), op. cit., 13.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 115

“determinazione contrattuale” della controversia. Il lodo emesso in esito a un arbitrato irrituale è accostabile, di conseguenza, a una transazione. Vale a dire, alla stregua della definizione codicistica, a un accordo mediante il quale le par-ti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può insorgere fra di loro.

Vero è che la transazione e il lodo irrituale differiscono. Il primo presup-pone il consenso dell’interessato all’esito specifico della conciliazione. Nel ca-so dell’arbitrato il consenso riguarda invece solo l’affidamento del caso. Inol-tre, nella transazione o nella rinuncia si prescinde dall’accertamento, mentre quest’ultimo è alla base del lodo arbitrale.

La natura dell’arbitrato irrituale è tale, tuttavia, per cui sono le parti ad ac-cordarsi per devolvere la loro lite a un terzo e ad accettare, quale loro “deter-minazione contrattuale”, la decisione che l’arbitro adotterà. Questa caratteristi-ca del giudizio espresso in veste transattiva è particolarmente evidente nell’esperienza del cosiddetto “biancosegno”, laddove le parti sottoscrivono un foglio in bianco affidando agli arbitri il compito di scrivere su quel foglio il testo della transazione che, pertanto, nel momento stesso in cui viene docu-mentata, cessa di essere il prodotto di un giudizio per ricondursi direttamente (sia pure per l’effetto di un artificio) alla volontà concorde delle parti. La stes-sa giurisprudenza inquadra pacificamente questa fattispecie – anche nei casi in cui la decisione arbitrale non sia stata poi trascritta su quegli stessi fogli prece-dentemente sottoscritti dalle parti – nella transazione (18).

Ricondotto questo negozio privatistico, a formazione progressiva, nel tipo legale della transazione (19) occorre tuttavia tenere presente i limiti che

(18) Cass. 8 agosto 1990, n. 8010, in MGC, 1990, 8: «il lodo per biancosegno configura un

arbitrato irrituale, caratterizzato dal fatto che le parti conferiscano ad arbitri l’incarico di deter-minare il contenuto sostanziale di un accordo per la comparizione di una lite tra loro insorta, sostituendosi ad esse nel fissare un regolamento negoziale da trascrivere su fogli preventiva-mente firmati in bianco e, quindi, destinati ad assumere, anche da un punto di vista formale, il valore di una loro diretta manifestazione di volontà. Ne consegue che detto lodo è impugnabile solo per i vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico o dell’arbitro stesso) e, in particolare, che l’errore rilevante è solo quello attinente alla formazione della volontà degli arbitri e ricor-rente quando questi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà per non aver preso visione degli elementi della controversia o per averne supposti altri inesistenti ovvero per aver dato come contestati fatti pacifici o viceversa; mentre è preclusa ogni impegnativa per errori di giudizio, sia in ordine alla valutazione delle prove che in riferimento all’idoneità della decisione adottata a comporre la controversia». Cass. 6 giugno 1987, n. 4953, in MGC, 1987, n. 4953: «con riguardo alla individuazione della natura, rituale od irrituale, dell’arbitrato, la preventiva sottoscrizione di fogli in bianco da parte di soggetti in lite e la consegna degli stessi ad arbitri con il mandato di effettuarvi la definizione della controversia, comportando che la scrittura, una volta completata, si presenta formalmente come negozio stipulato dagli stessi interessati, impor-ta la manifestazione della volontà dei sottoscrittori di dar luogo ad un arbitrato irrituale per la definizione transattiva della controversia, senza che sia ostativa la circostanza che la decisione arbitrale non sia stata poi trascritta su quegli stessi fogli».

(19) Di «ipotesi di contratto per relationem, che attrae e assorbe la decisione arbitrale, pre-valentemente configurata come un mero atto giuridico», parla G. VERDE, op. cit., 8.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 116

l’articolo 2113 del codice civile pone, in ambito lavoristico, con riguardo alle rinunzie e alle transazioni che abbiano per oggetto diritti del prestatore di lavo-ro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi. Solo in questo specifico caso l’ordinamento offre una tutela di an-nullabilità attraverso l’impugnazione dell’atto nel termine semestrale, essendo viceversa di per sé valide e inoppugnabili, per esempio, le rinunce o transazio-ni su qualsiasi diritto che al lavoratore derivi soltanto dal suo contratto indivi-duale (20).

La inderogabilità della norma non comporta poi necessariamente la indi-sponibilità del relativo diritto: i negozi abdicativi di diritti derivanti da norme inderogabili non possono considerarsi contrari alle norme che contemplano l’attribuzione dei diritti medesimi, perché non tendono a una esclusione o limi-tazione dell’acquisto da parte di colui in cui favore sono predisposti, ma a una disposizione di diritti già acquistati a opera del titolare (21). In altre parole, se alla base della imperatività della norma sta un interesse super-individuale o collettivo (anche se realizzabile attraverso la soddisfazione dell’interesse del singolo), non v’è alcuna difficoltà ad ammettere che essa si arresti alla fase successiva, quando avvenuta tale attribuzione, l’interesse super-individuale può dirsi realizzato e si rientra nell’ambito di un interesse meramente indivi-duale. Del resto, non v’è dubbio che qualora negozi formalmente dispositivi fossero in realtà sostanzialmente in deroga, configurandosi come rinunce a di-ritti futuri, essi verrebbero colpiti da nullità (22).

Non vi sono ragioni, a questo punto, per non applicare il regime di impu-gnabilità sancito dall’articolo 2113 del codice civile anche all’arbitrato irritua-le, stante la possibile sussunzione di quest’ultimo nel tipo legale del negozio transattivo. Donde la conclusione, già avanzata in dottrina (23), secondo cui

(20) Sul punto vedi soprattutto G. PERA, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, in

Comm. Schlesinger, 1990); G. FERRARO, Rinunce e transazioni del lavoratore, in Enc. Giur., XXVII, Roma 1991); M. MAGNANI, M. FERRARESI, Garanzie e tutele dei diritti dei lavoratori, in A. VALLEBONA (a cura di), I contratti di lavoro, Utet, Torino, 2009; C. CESTER, Rinunzie e transazioni (diritto del lavoro), Enc. Dir., XL, 1989, 987; R. VOZA, L’autonomia individuale

assistita nel diritto del lavoro, Cacucci, Bari, 2007. È ad esempio valida e non impugnabile la rinunzia al diritto a un «superminimo» ad personam, oppure a una riduzione o collocazione par-ticolare dell’orario di lavoro pattuita direttamente con il datore (ex multis, cfr. P. ICHINO, Il con-

tratto di lavoro, vol. III, Giuffrè, Milano, 2003, § 559). Sono valide le rinunzie e le transazioni aventi a oggetto la misura delle provvigioni spettanti all’agente, nonché la determinazione dell’ammontare della indennità di scioglimento del contratto e della indennità suppletiva di clientela in quanto non vertono su diritti presidiati da norme inderogabili di legge o di contratto o accordo collettivo, dal momento che la determinazione di dette somme è rimessa unicamente alla libera disponibilità delle parti individuali (Cass. 8 gennaio 1988, n. 6, in MGC, 1988, 1; Trib. Trieste 2 gennaio 2001, in LG, 2001, 484).

(21) F. SANTORO PASSARELLI, Sull’invalidità delle rinunzie e transazioni del prestatore di lavoro, Saggi di diritto civile II, Jovene, Napoli, 1961.

(22) M. MAGNANI, M. FERRARESI, op. cit. (23) In questo senso P. ICHINO, Il contratto di lavoro, cit., § 568. Contra E. ZUCCONI GALLI

FONSECA, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, in Rivista

dell’arbitrato, 2008, 4, 459, secondo cui «non si può fare riferimento, oggi, all’art. 2113 c.c.,

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 117

questo negozio giuridico complesso è valido o invalido nei modi e nei limiti stabiliti dall’articolo 2113 del codice civile per le transazioni in materia di la-voro. Più precisamente: 1) l’arbitrato-transazione è pienamente valido quando esso abbia per oggetto diritti del lavoratore non nascenti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo; 2) l’arbitrato-transazione è invece annullabi-le, mediante impugnazione entro sei mesi dall’emanazione del lodo o dalla cessazione del rapporto se successiva, quando esso abbia per oggetto diritti già maturati in capo al lavoratore, nascenti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo; 3) l’arbitrato-transazione è nullo quando abbia per oggetto diritti non ancora maturati in capo al lavoratore, nascenti da norme inderogabi-li di legge o di contratto collettivo, cioè quando abbia la pretesa di sostituire per il futuro la disciplina inderogabile del rapporto.

4. La natura dell’arbitrato introdotto dalla legge n. 183/2010. L’arbitrato che la legge n. 183/2010 delinea ora per le controversie di la-

voro – sia nel settore privato che nel pubblico impiego (24) – è di tipo irrituale. L’articolo 412 e l’articolo 412-quater del codice di procedura civile come ora novellati, richiamando l’articolo 1372 e l’articolo 2113, ultimo comma, codice civile, sono inequivocabili nella scelta della natura irrituale dell’arbitrato.

Sebbene certamente la conciliazione e l’arbitrato mantengano una identità dogmatica alquanto differenziata – in quanto la prima è contraddistinta da una attiva partecipazione delle parti alla definizione dell’accordo conciliativo che deve essere alla fine reciprocamente accettato, mentre nel caso dell’arbitrato la decisione finale viene delegata a un soggetto terzo che si esprime attraverso un provvedimento che, ancorché di matrice negoziale, evoca inevitabilmente una

perché, oltre a non esservi espresso rinvio, il lodo è accertamento e non rinuncia o transazione». Seppur fra le fattispecie vi siano differenze, secondo T. TREU, La riforma della giustizia del la-voro: conciliazione et arbitrato, in DRI, 2003, 1, 87, la ratio non è irrimediabilmente diversa, e l’identità di trattamento si giustifica a condizione che l’arbitrato risolva, per il passato, una con-troversia e non incida anche sulla regolamentazione generale per il futuro del rapporto di lavoro (come è il caso previsto dall’art. 2113 c.c. stesso, che si riferisce solo alle conciliazioni incidenti su diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore e non a quelle riguardanti diritti futuri, che so-no nulle in radice). M. GRANDI, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: problemi e prospettive, cit., pare sostenere la diversità fra la fattispecie dell’arbitrato (irrituale) rispetto ai negozi dispo-sitivi; più recentemente, tuttavia, lo stesso autore, a commento della nuova legge afferma: «il fine della stabilità del lodo è prevalso sulla residua tutela dei diritti indisponibili, prevista dall’art. 2113 del codice civile, tutela non applicabile alle conciliazioni in tema di rapporti di lavoro. Questo punto farà certamente discutere. Si può tuttavia osservare che l’arbitrato contrat-tuale, nella sua sostanza dispositiva, e per le garanzia sindacali di cui è premunito, non è diverso dalla dalle conciliazioni (sia in sede amministrativa che in sede sindacale), per cui l’equiparazione a queste ultime, ai fini della validità, in quanto opera da incentivo all’arbitrabilità» (M. GRANDI, L’arbitrato che fa bene ai lavoratori, in Conquiste del Lavoro, 29 ottobre 2010).

(24) Cfr. gli artt. 410 ss. c.p.c. e l’art. 31, comma 9, l. n. 183/2010.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 118

decisione esterna – nella attuale configurazione le differenze tra le due fatti-specie vanno progressivamente erodendosi, come figurativamente evidenziato dal richiamo ricorrente alla stessa normativa, quella in materia di rinunzie e transazioni ex articolo 2113 del codice civile, ai fini dell’intangibilità dell’atto finale (25).

La legge aggiunge quindi un nuovo tassello alle conclusioni cui si poteva già giungere argomentando dagli articoli 2113 del codice civile e 808-ter del codice di procedura. Se è valido l’arbitrato irrituale avente per oggetto diritti del lavoratore che non derivino da norme inderogabili di legge o contratto o accordo collettivo (articolo 2113, comma 1, codice civile) ed è viceversa an-nullabile, mediante impugnazione entro sei mesi, laddove abbia per oggetto diritti (già maturati) derivanti da norme inderogabili (articolo 2113, commi 2 e 3, codice civile), l’arbitrato irrituale è ora valido e non è annullabile laddove la procedura arbitrale si sia svolta avanti sedi che il legislatore ha individuato quali competenti ad assistere la volontà delle parti e a tutelare imparzialmente le stesse. Sedi avanti le quali è già possibile stipulare transazioni o abdicare definitivamente a propri diritti (articolo 2113, comma 4, codice civile).

Sono infatti designate, in primis, quali sedi presso le quali è possibile ri-solvere in via di “determinazione contrattuale” la controversia, le Direzioni provinciali del lavoro, già da tempo competenti a espletare il tentativo di con-ciliazione (oggi meramente facoltativo, tranne che in relazione ai contratti cer-tificati, a seguito delle modifiche di cui alla legge n. 183/2010), nonché a ren-dere inoppugnabili le conciliazione e le transazioni formalizzate avanti a esse.

In base al nuovo articolo 412 del codice di procedura civile, in qualunque fase del tentativo di conciliazione avanti le Direzioni provinciali del lavoro, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzio-ne, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.

Alle Direzioni provinciali del lavoro sono ora equiparate – oltre che per le funzioni legate alla certificazione dei rapporti di lavoro (26) – le sedi di cui all’articolo 76 decreto legislativo n. 276/2003 che, in base al comma 12 dell’articolo 31 della legge n. 183/2010, possono istituire al loro interno came-re arbitrali per la definizione delle controversie ai sensi dell’articolo 808-ter del codice di procedura civile. Il comma 12 dell’articolo 31 richiama, peraltro, i soli commi 3 e 4 del riformato articolo 412 del codice di procedura civile:

(25) In questi senso cfr. G. FERRARO, La composizione stragiudiziale delle controversie di

lavoro: la conciliazione. Osservazioni introduttive, in A. CORVINO (a cura di), Il Collegato al

riesame del Parlamento: e ora?, Bollettino speciale Adapt, 7 aprile 2010, n. 12, in www.adapt.it.

(26) Cfr. l’art. 76 d.lgs. n. 276/2003. Sul punto vedi, se vuoi, i contributi di E. RAVERA, La

certificazione, sedi e procedure, M. PARISI, Le Direzioni provinciali del lavoro, M. TIRABOSCHI, Le sedi universitarie, tutti in C. ENRICO, M. TIRABOSCHI (a cura di), Compendio critico per la

certificazione dei contratti di lavoro, Giuffrè, Milano, 2005.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 119

l’arbitrato avanti i collegi costituiti in seno alle commissioni di certificazione, pertanto, dovrebbe essere libero quanto alla procedura, mentre l’efficacia e le modalità di impugnazione sono le stesse previste per l’arbitrato avanti le Dire-zioni provinciali del lavoro.

Tutti gli organi certificatori – e non più le sole sedi istituite presso gli enti bilaterali come previsto originariamente dall’articolo 76 decreto legislativo n. 276/2003 – sono competenti peraltro a certificare le rinunzie e le transazioni di cui all’articolo 2113 del codice civile a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse (qualche dubbio, sul punto, potrebbe invero insor-gere in relazione alle commissioni di certificazione istituite presso i consigli provinciali dei consulenti del lavoro di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12, dal momento che l’articolo 76, lettera c-ter, decreto legislativo n. 276/2003, pare limitare la competenza di queste sedi alla sola certificazione dei “contratti di lavoro”). All’indomani della entrata in vigore della legge Biagi si era dibat-tuto, in relazione alla disposizione di cui all’articolo 82 decreto legislativo 276/2003, riguardo al significato da attribuire alla conferma della volontà ab-dicativa o transattiva e alla utilità pratica di una certificazione di detta volontà, quando invece l’ultimo comma dell’articolo 2113 del codice civile accorda al-le rinunce e transazioni stipulate ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 del codi-ce di procedura civile il più pregnante vantaggio della inoppugnabilità (27).

Il richiamo – operato dall’articolo 31, comma 13, della legge n. 183/2010 – all’articolo 410 del codice di procedura civile, per effetto del quale gli organi certificatori sono altresì sedi avanti le quali è possibile esperire il tentativo di conciliazione, porta a ritenere che le transazioni e le rinunzie formalizzate a-vanti gli organi di certificazione abbiano la stessa efficacia di cui all’ultimo comma dell’articolo 2113 codice civile.

L’arbitrato potrà essere inoltre svolto presso le sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative (28), i quali stabiliranno altresì le relative procedure.

V’è infine una ulteriore modalità di espletamento dell’arbitrato avanti un collegio composto, su istanza delle parti, da un rappresentante di ciascuna di esse e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accor-do dagli arbitri di parte. Possono essere nominati arbitri i professori universita-ri di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di Cassazione (29).

(27) E. RAVERA, Altre ipotesi di certificazione, in C. ENRICO, M. TIRABOSCHI (a cura di), op.

cit., 39 ss. (28) Cfr. l’art. 412-ter c.p.c. su cui vedi A. CORVINO, M. TIRABOSCHI, Altre modalità di

conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva, che segue in questa Sezione. (29) Cfr. l’art. 412-quater c.p.c. su cui vedi M. SCILLIERI, Altre modalità di conciliazione e

arbitrato, che segue in questa Sezione.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 120

5. L’impugnazione del lodo arbitrale. Depone per la irritualità dell’arbitrato anche il richiamo all’articolo 808-

ter del codice di procedura civile quanto alle modalità e ai motivi di annulla-mento del lodo. Tale rinvio si trova sia nell’articolo 412 che nell’articolo 412-quater del codice di procedura civile, entrambi novellati, mentre l’articolo 412-ter nulla dice sul punto, delegando l’intera regolamentazione dell’arbitrato in sede sindacale alla contrattazione.

Si specifica, peraltro, che per le controversie in materia di impugnazione del lodo – il legislatore ricorre al concetto di “validità” coerentemente, anche in questa occasione, a quanto previsto dall’articolo 2113 del codice civile se-condo cui le rinunce e transazioni «non sono valide» – è competente in unico grado il tribunale in funzione di giudice del lavoro nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato e il ricorso deve essere depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo.

L’azione di annullamento del lodo è peraltro soggetta al termine di deca-denza di trenta giorni in caso di notificazione del lodo. Decorso tale termine o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione ar-bitrale ovvero se il ricorso proposto è stato respinto dal tribunale, il lodo è de-positato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato e il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regola-rità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto. La notifica-zione del lodo e – dopo il decorso dei trenta giorni o la sentenza del tribunale – il deposito dello stesso in cancelleria è finalizzato a conferire al lodo efficacia di titolo esecutivo, unica particolarità sui generis rispetto alla irritualità dell’arbitrato. La parte potrebbe peraltro agire in via ordinaria (o in via moni-toria), a prescindere dalla esecutività, al fine di ottenere l’adempimento del lo-do irrituale.

Dalla irritualità dell’arbitrato deriva – in coerenza con l’articolo 808-ter del codice di procedura civile – che i motivi di annullabilità del lodo siano e-sclusivamente i seguenti: 1) se la convenzione dell’arbitrato è invalida o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la re-lativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; 2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione ar-bitrale; 3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato ar-bitro; 4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; 5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.

Nella formulazione finale della legge n. 183/2010, a seguito del messaggio del Presidente della Repubblica, è stato eliminato il riferimento all’articolo 829 del codice di procedura civile, che non era presente nemmeno nella prima versione del disegno di legge n. 1441/2008 né nel successivo stralcio del dise-gno di legge n. 1441-quater, ma che era stato introdotto nell’iter parlamentare che aveva portato al testo approvato dal Senato il 3 marzo 2010. Il richiamo a

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 121

questo articolo del codice di rito (30) – che riguarda l’arbitrato rituale – era, in-vero, tecnicamente improprio (31), sebbene la formulazione espressa dalla de-roga agli ultimi due commi potesse rafforzare il principio della inoppugnabilità per violazione di norme di legge o contratto collettivo (32). Ma dalla elimina-zione di questo riferimento, invero superfluo e forse possibile fonte di dubbi sulla natura dell’arbitrato, non pare possibile argomentare – come pure è stato sostenuto (33) – che il lodo sia allora impugnabile in caso di violazione delle norme inderogabili.

La non impugnabilità del lodo per violazione di legge è – si deve ribadire – conseguenza della natura contrattuale dell’arbitrato. La stessa giurisprudenza ribadisce che il lodo arbitrale irrituale è impugnabile solo per i vizi che posso-no vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la vio-lenza, il dolo o l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico o dell’arbitro stesso. Al riguardo l’errore rilevante è solo quello attinente alla formazione della volontà degli arbitri, che si configura quando questi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà per non avere preso visione degli elementi della controversia o per averne supposti altri inesistenti, ovvero per non avere dato come contestati fatti pacifici o viceversa, mentre è preclusa o-gni impugnativa per errori di diritto, sia in ordine alla valutazione delle prove che in riferimento alla idoneità della decisione adottata a comporre la contro-versia (34).

E, in ogni caso, il richiamo all’ultimo comma dell’articolo 2113 del codice civile non lascia dubbi, quanto alla efficacia del lodo, sulla inoppugnabilità per violazione di legge o contratto collettivo anche qualora siano in gioco diritti derivanti da norme inderogabili.

(30) Il comma 5 dell’art. 31 del disegno di legge approvato dal Senato il 3 marzo disponeva:

«Il lodo è impugnabile ai sensi dell’articolo 808-ter, anche in deroga all’articolo 829, commi quarto e quinto, se ciò è stato previsto nel mandato per la risoluzione arbitrale della controver-sia».

(31) A. CORVINO, M. TIRABOSCHI, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, in A. CORVINO (a cura di), op. cit.; V. SPEZIALE, La riforma della certificazione e dell’arbitrato nel “collegato

lavoro”, in DLM, 2010, I, 161. (32) A. VALLEBONA, Una buona svolta nel diritto del lavoro, cit. (33) V. SPEZIALE, op. cit. (34) Ex multis, Cass. 6 febbraio 2009, n. 2988, in Foro Padano, 2009, 1, 1. In particolare, in

relazione all’arbitrato irrituale in campo lavoristico Cass. 17 agosto 2004, n. 16049, in MGC, 2004, 7-8: «È infatti principio affermato da questa Corte che il provvedimento emesso in un ar-bitrato irrituale risolve la controversia in via negoziale e non in funzione sostitutiva di quella del giudice, sicché tale provvedimento non potrebbe dar vita ad una “sentenza arbitrale”: con la conseguenza che avverso tale provvedimento non è ammissibile l’impugnazione alla Corte di appello prevista dall’art. 828 c.p.c., ma solo un’azione per eventuali vizi del negozio da proporre con l’osservanza delle norme ordinarie sulla competenza e sul doppio grado del giudizio». Nel pubblico impiego, Trib. Bologna 5 novembre 2008, 551, LPA, 2009, 1, 139, s.m.: «poiché il lo-do arbitrale irrituale previsto dal CCNQ 23 gennaio 2001 per il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ha natura negoziale, esso non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare le manifestazioni della volontà negoziale».

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 122

I dubbi di legittimità costituzionale, avverso la inoppugnabilità del lodo arbitrale non paiono condivisibili. Si è obiettato che la violazione della indero-gabilità delle norme collettive non penalizzerebbe solo il singolo lavoratore, ma renderebbe altresì impossibile l’attività sindacale, che senza questa indero-gabilità non avrebbe senso, argomentando che i contratti collettivi a nulla ser-virebbero «se i singoli lavoratori e i singoli datori potessero, con una loro pat-tuizione privata, ignorarli e derogarli» (35). Ma a ben vedere – e fermo restando che, nel disegno costituzionale, il sindacato è strumento di tutela e promozione della persona e non viceversa come si è invece verificato, e ancora si verifica, nei sistemi totalitari che si spingono a negare la libertà e l’autonomia della persona – non v’è nulla di nuovo su questo fronte. Altrimenti dovrebbe solle-varsi (anzi, si sarebbe già dovuta sollevare in questi anni) la questione di legit-timità costituzionale sullo stesso articolo 2113, ultimo comma, del codice civi-le che già da tempo consente di stipulare pattuizioni private non impugnabili su materie disciplinate da norme inderogabili. Al pari delle transazioni, l’arbitrato non deroga – peraltro – a diritti derivanti da norme inderogabili re-golamentando in maniera diversa, per il futuro, il rapporto di lavoro. L’arbitrato non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di derogabilità assistita se-condo meccanismi di certificazione e/o validazione della volontà individuale avanzata da tempo in dottrina (36) e presente nel Libro Bianco del 2001, bensì dirime, per il passato, controversie su diritti – anche derivanti da norme inde-rogabili – già entrati nel patrimonio del lavoratore (37).

6. L’equità. La stessa possibilità – che rappresenta indubbiamente uno dei punti più di-

scussi del provvedimento assieme alla non impugnabilità e alla clausola com-promissoria (38) – che la controversia fra le parti venga decisa facendo ricorso all’equità è conseguenza della natura irrituale dell’arbitrato ed è strettamente

(35) P. ALLEVA, G. NACCARI, “Legge Sacconi”: un fascio di incostituzionalità, in il Manife-

sto, 25 marzo 2010. (36) A partire da A. VALLEBONA, Norme inderogabili e certezza del diritto: prospettive per

la volontà assistita, in DL, I, 2002, 479 ss. (37) Peraltro si deve notare come anche il ddl n. 959/2008 comunicato alla Presidenza il 30

luglio 2008 (sen. Treu, Roilo ed altri), all’art. 26, contiene una ipotesi di risoluzione arbitrale della controversia – del tutto simile a quella introdotta dal novellato art. 412 quater c.p.c. – per la quale si prevede la impugnabilità esclusivamente ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c. e, pertanto, non per violazione di norme, anche inderogabili, di legge o contratto collettivo.

(38) Fra i commenti critici, in punto di equità, cfr. L. ZOPPOLI, Certificazione dei contratti di

lavoro e arbitrato: le liaisons dangereuses, Working Paper C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” – IT, 2010, n. 102; P. ALLEVA, G. NACCARI, op. cit.; M. ROCCELLA, Lo squilibrio legalizzato tra

imprese e lavoratori, in il Manifesto, 21 ottobre 2010; F. SCARPELLI, Giurisdizione, tutela dei

diritti, arbitrato: l’ossessione del legislatore di centrodestra, in Note informative, 2010, 47.

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 123

legata alla non impugnabilità del lodo. La proposta non è, peraltro, nuova es-sendo stata avanzata, in sede istituzionale, già nel corso degli anni Ottanta (39).

L’equità viene variamente definita con espressioni come «la giustizia del caso concreto», «la regola del giudice trovata nella coscienza sociale», e simi-li. Si distingue poi tra la equità integrativa – che si ha nelle ipotesi in cui il le-gislatore rinuncia a predisporre la disciplina legale di particolari aspetti di una fattispecie e preferisce affidare al giudice il compito di intervenire caso per ca-so – e la equità sostitutiva, che si ha quando, pur essendoci una disciplina lega-le, si consente di decidere il caso concreto in modo diverso.

Alla equità integrativa il giudice è chiamato a fare ricorso in molteplici ca-si, per esempio in tutte le ipotesi in cui il legislatore prevede, come in materia di licenziamento, un indennizzo o un risarcimento stabilendo un minimo e un massimo. O anche, come nel caso dell’articolo 432 del codice di procedura ci-vile, dove si stabilisce che il giudice del lavoro, quando sia certo il diritto per cui il ricorrente ha agito in giudizio ma non sia possibile determinare la som-ma dovuta, la liquidi con valutazione equitativa. Per quanto riguarda questo tipo di equità non ricorrono particolari questioni problematiche, trattandosi di una valutazione consentita dall’ordinamento stesso.

Più delicato è il ricorso alla cosiddetta equità sostitutiva. Secondo il codice di procedura civile (articoli 113 e 114 del codice di procedura civile), il giudi-ce può decidere una controversia secondo equità solo quando previsto dalla legge ovvero quando il merito della causa riguardi diritti disponibili e le parti gliene abbiano fatto concorde richiesta: in questo secondo caso la sentenza è inappellabile (articolo 339 del codice di procedura civile).

La giurisprudenza che si è occupata di equità lo ha fatto, prevalentemente, al fine di porre dei paletti con riguardo alle sentenze secondo equità a richiesta di parte pronunciate dal giudici di pace a norma dell’articolo 114 del codice di procedura civile. In questo contesto, la Corte costituzionale, nella sentenza 6 luglio 2004, n. 206 (40), ha sottolineato come anche nelle valutazioni secondo equità, il giudice non sceglie la regola in maniera del tutto libera, slegata da vincoli precostituiti; il giudizio di equità si traduce, con riferimento alla fatti-specie concreta posta all’esame del giudicante, non nella applicazione di una regola soggettiva e particolare avulsa dal sistema o a questo estranea, ma nella possibilità di una mitigazione o temperamento delle norme di legge, giustifica-ti dalla peculiarità della fattispecie medesima e sorretti comunque da una ade-guata motivazione che dia conto del processo logico seguito, tale da consentire di cogliere la motivazione e la ratio della decisione.

La sola funzione che alla giurisdizione di equità può riconoscersi – in un sistema come il nostro, caratterizzato dal principio di legalità, a sua volta anco-rato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è lo strumento principale di attuazione dei principi costituzionali – è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta

(39) Vedi A. MARTONE, op. cit., 73 ss. (40) In GC, 4, I, 2537.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 124

una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi «principi generali dell’ordinamento cui si ispira la disciplina positiva». Principi che non potreb-bero essere posti in discussione dal giudice, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggetti-ve di equità e ragionevolezza.

Il giudizio di equità, in altre parole, non è e non può essere un giudizio ex-tra-giuridico. Esso incontra precisi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa ga-ranzia di tutela giurisdizionale.

Anche nel solco dell’arbitrato rituale si concorda sul principio che il ri-spetto delle disposizioni e dei principi di ordine pubblico di carattere proces-suale e sostanziale rappresenti un limite invalicabile comunque imposto agli arbitri di equità, pena la nullità del lodo impugnabile ai sensi dell’articolo 829, comma 3, codice di procedura civile. La giurisprudenza ha spesso sostenuto, a tale riguardo, che le norme inderogabili vadano applicate dai giudici di equità perché non suscettibili di formare oggetto di compromesso (41).

Limitatamente all’arbitrato irrituale l’attenzione ai limiti del giudizio equi-tativo è sensibilmente più sfumata, essendo stata a lungo prevalente l’idea che agli arbitri non si chieda di applicare norme (di diritto ovvero di equità) per esprimere un giudizio sul torto o la ragione dell’una o dell’altra parte, ma di transigere la lite o comunque conciliarla con un atto negoziale a nome di en-trambe. Più facile è stato pertanto collegare il richiamo alla amichevole com-posizione al tipo negoziale del fenomeno e tradurre il riferimento alla equità come indicativo di una amichevole composizione, facendo una operazione e-sattamente inversa a quella in uso per l’arbitrato rituale (42). Ha finito quindi per essere quasi consequenziale la tesi per cui il riferimento alla amichevole composizione alluderebbe a un arbitrato irrituale e non è mancato chi ha soste-nuto che l’arbitrato irrituale non possa che essere di equità (43).

Chiarita la natura irrituale dell’arbitrato e l’efficacia transattiva del lodo, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 2113 del codice civile, e posta la non impugnabilità per violazione di norme di legge o di contratto collettivo, ben avrebbe potuto il legislatore ogni riferimento alla equità, così come – forse più accortamente e strategicamente dal punto di vista della opportunità politica – hanno fatto altri disegni di legge che pure hanno proposto arbitrati irrituali e non impugnabili (44). Del resto, anche in base alla previgente formulazione de-gli articoli 412-ter e 412-quater era stato autorevolmente sottolineato come,

(41) Cass. 4 maggio 1994, n. 4330, in Rivista dell’arbitrato, 1994, 499, con nota di F. LUI-

SO, L’impugnazione del lodo equitativo per violazione di norme inderogabili. Sul punto cfr. C. TENELLA SILLANI, L’arbitrato di equità, Giuffrè, Milano, 2006, 32 ss.; F. GALGANO, Diritto ed

equità nel giudizio arbitrale, in Contratto e impresa, 1991, 469; A. BRIGUGLIO, Arbitrato rituale

ed equità, in Rivista dell’arbitrato, 1996, 276. (42) In questi termini C. TENELLA SILLANI, op. cit., 310. (43) A. SCIALOJA, Gli arbitrati liberi, in Rivista di diritto commerciale, 1922, 520 ss. (44) Cfr. l’art. 26 del ddl n. 959/2008 (Treu, Roilo ed altri).

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 125

eliminato l’antico precetto contenuto nell’articolo 5 l. n. 533/1973 – a mente del quale il lodo irrituale non era valido ove vi fosse stata violazione di legge ovvero di contratti o accordi collettivi – il giudizio degli arbitri irrituali fosse svincolato da regole eteronome, e che pertanto essi potessero giudicare secon-do equità (45).

V’è da chiedersi allora perché sia stato precisato, all’articolo 412 del codi-ce di procedura civile, che nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia le parti debbano indicare – oltre che il termine per la ema-nazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal confe-rimento del mandato, spirato il quale l’incarico deve intendersi revocato – le norme invocate a sostegno delle loro pretese e la eventuale richiesta di decide-re secondo equità. Parimenti, l’articolo 412-quater del codice di procedura ci-vile dispone che «il ricorso deve contenere il riferimento alle norme invocate dal ricorrente a sostegno della sua pretesa e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità».

Si tratta, in effetti, di una precisazione non necessaria e forse ridondante, plausibilmente dettata dalla volontà di ribadire – ancora una volta – la precisa scelta della irritualità dell’arbitrato.

Resta, piuttosto, da chiarire la portata del richiamo, con riguardo alla equi-tà, ai principi generali dell’ordinamento e – nel testo successivo al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica – ai principi regolatori della mate-ria, anche derivanti da obblighi comunitari, presente tanto nell’articolo 412 del codice di procedura civile quanto nell’articolo 412-quater del codice di proce-dura civile. Anche questo è, in effetti, un richiamo superfluo se solo si ricorda-no i limiti insiti nel giudizio di equità ribaditi dalla stessa Corte Costituzionale.

La norma in questione deve essere interpretata nel senso che la scelta con-corde delle parti, di consentire al collegio arbitrale una decisione secondo e-quità anziché secondo diritto, abbia la funzione di delimitare il mandato. Il lo-do sarà impugnabile ai sensi dell’articolo 808-ter, n. 4, codice di procedura ci-vile per non essersi gli arbitri attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo, laddove esso sia stato emesso secondo equità qualora le parti abbiano optato per una decisione secondo diritto (46). Parimen-

(45) In questi termini, cfr. R. FLAMMIA, Arbitrato, in Enc. Giur., 1999. (46) Cfr., sul punto, Cass. 15 luglio 2004, n. 13114, in MGC, 2004, 7-8, secondo cui «in te-

ma di arbitrato libero, l’avere le parti assegnato agli arbitri, all’esito di procedimento non forma-le, il potere di adottare decisioni secondo diritto non impugnabili comporta che il lodo così pro-nunciato è impugnabile [...] se la decisione [...] trovi fondamento in una regola di decisione dif-forme da quella assegnata come l’equità o il diritto straniero. Ne consegue che l’eventuale mal-governo del diritto applicabile da parte del collegio arbitrale rappresenta nulla più di un abuso dei poteri conferiti agli arbitri, che non inficia neanche la riferibilità ai mandanti del “decisum” oggetto del lodo, posto che questi ultimi ebbero a conferire agli arbitri proprio il potere di dare contenuti giuridici non impugnabili alla loro stessa volontà negoziale. Error iuris non censurabi-le deve, peraltro, ritenersi quell’errore che infinge un’erronea valutazione della norma di diritto (che la natura negoziale dell’arbitrato fa ovviamente ritenere insindacabile da parte del giudice), e non anche l’errore percettivo di diritto (attinente alla erronea supposizione di esistenza o inesi-stenza di una norma, e la cui sindacabilità è, viceversa, correlata alla stessa rilevanza attribuita

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA DEL LAVORO 126

ti, il lodo sarà impugnabile laddove sia stato emesso secondo diritto qualora le parti abbiano optato per una decisione secondo equità (a meno che gli arbitri non abbiano motivatamente ritenuto che il principio di equità coincida, nel ca-so concreto, con il giudizio di diritto (47)). Con l’avvertenza che, ove le parti intendano delegare al collegio la soluzione arbitrale secondo equità, i principi generali dell’ordinamento e i principi formatori della materia (derivanti anche dall’ordinamento comunitario) fungeranno da presupposto di validità del giu-dizio. Detti principi costituiscono quindi limiti alla volontà delle parti sul con-tenuto del mandato che può essere conferito agli arbitri. Sicché, ove i principi non fossero rispettati, il lodo sarebbe annullabile ex articolo 808-ter, n. 4, co-dice di procedura civile, per violazione delle regole stabilite dal compromesso o dalla clausola compromissoria. Il che non comporta, tuttavia, che allora il lodo diventi impugnabile per violazione di norme inderogabili, come è stato argomentato (48).

Al pari di quanto sostenuto in tema di arbitrati stranieri – ove, ai fini del riconoscimento e della esecuzione, l’articolo 839 del codice di procedura civi-le richiede che il lodo non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico (49) – si deve anzi rilevare che, se oggetto del lodo sono effetti già sorti, non v’è mai contrasto con l’ordine pubblico, in quanto – proprio come avviene nel caso delle rinunce ex articolo 2113 del codice civile – il soggetto protetto può liberamente rinunciare a tali effetti. Tuttavia, se il lodo riguarda la futura di-sciplina del rapporto, esso può risultare in contrasto con l’ordine pubblico quando ponga regole confliggenti con la normativa inderogabile.

Contrasta, ad esempio, con l’ordine pubblico un lodo che dichiari inesi-stente il diritto del consumatore a reagire agli inadempimenti del professioni-sta. Non contrasta con l’ordine pubblico, per contro, un lodo che decida degli effetti di un inadempimento già verificatosi. Del resto, sarebbe paradossale ri-tenere che una parte possa validamente rinunciare a un proprio diritto e che, viceversa, contrasti con l’ordine pubblico un lodo che neghi un tale diritto.

all’errore di fatto), che non vi è ragione di escludere dall’area dell’impugnativa per vizi della volontà, ad istanza e nell’interesse della parte, tutte le volte in cui l’ambito della decisione degli arbitri irrituali abbia investito la (erroneamente supposta e predicata) esistenza o inesistenza di una norma di diritto».

(47) Cass. 25 maggio 1981, n. 3414, in GC, 1981, I, 2600, secondo cui «costituisce “error in

procedendo” denunziabile come motivo di nullità del lodo nonostante qualsiasi rinunzia, l’ipotesi in cui gli arbitri investiti del giudizio di equità, non rendano tale giudizio per erronea nozione giuridica dell’equità (nella specie: ritenendo che essa debba essere configurata come necessaria conseguenza dello stretto diritto). Così pure vi rientra l’ipotesi in cui dal lodo risulta l’intendimento degli arbitri di volersi attenere allo stretto diritto anziché all’equità per effetto di una aprioristica rinunzia a pronunziare secondo equità o mediante una denegata applicazione dell’equità alla questione risolta nonostante la riconosciuta possibilità di una difformità di deci-sione. Non vi rientra, invece, l’ipotesi in cui gli arbitri motivatamente ritengano che il principio di equità coincide con il giudizio di diritto, dovendo allora il controllo esplicarsi sull’adeguatezza della motivazione».

(48) V. SPEZIALE, op. cit., 162. (49) F. LUISO, L’impugnazione del lodo di equità, in www.judicium.it.

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Lo stesso ragionamento può farsi in ambito lavoristico. È senza dubbio contrastante con le norme inderogabili l’accordo con il quale un lavoratore, in corso di rapporto o all’insorgere di esso, rinunci a fare valere, in caso eventua-le di licenziamento ingiustificato, la tutela di cui all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ma contrasterebbe con i principi generali dell’ordinamento un lodo che, pur dichiarando la illegittimità del recesso datoriale, sanzionasse il licenziamento diversamente da quanto prevede l’articolo 18?

La giurisprudenza della Corte Costituzionale e quella di Cassazione hanno ribadito come la tutela reale non si qualifichi come connotato dell’ordine pub-blico e tanto meno come diritto fondamentale del lavoratore. Di tale dimensio-ne fa parte non già il concreto meccanismo attraverso il quale si sanziona il re-cesso ingiustificato del datore di lavoro, bensì il principio che quest’ultimo non possa a proprio arbitrio recedere dal rapporto (50).

Si può pertanto concludere, sul punto, che il combinato disposto degli arti-coli 412 (o 412-quater) e 808-ter del codice di procedura civile vincoli l’arbitro ad attenersi al principio generale della illegittimità del recesso arbitra-rio dal rapporto di lavoro, lasciando invece a una valutazione di equità la deci-sione circa le conseguenze della illegittimità del licenziamento stesso.

7. La clausola compromissoria. Non poco ha fatto discutere, infine, la disposizione relativa alla clausola

compromissoria (51). Per impostare correttamente il problema occorre in primo luogo ricordare che l’opzione tra la risoluzione arbitrale della controversia e la via giudiziale resta una libera scelta delle parti.

All’arbitrato è possibile accedere soltanto in forza di un compromesso, e cioè di un accordo scritto, pattuito a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione o in qualunque fase di esso, nel quale sia determinato l’oggetto della controversia già insorta fra le parti (articolo 807 del codice di procedura civile). Viceversa, la clausola compromissoria – e cioè il patto nel quale si sta-bilisca che le eventuali controversie che dovessero insorgere, per il futuro, dal

(50) Cfr. la sentenza n. 36/2000 della Corte costituzionale. Chiamata a decidere circa la

ammissibilità del referendum radicale sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori indetto nel corso della passata legislatura, la Corte ha chiaramente e inequivocabilmente affermato che la «stabili-tà reale» del posto di lavoro non è un diritto fondamentale del lavoratore. Nello stesso senso cfr. Cass. 11 novembre 2002, n. 15822, in RIDL 2003, II, 663; Cass. 9 maggio 2007, n. 10549, in DRI, 2008, I, 139.

(51) Secondo A. PICCINNI, C. PONTERIO, La controriforma del lavoro, in Questione giusti-

zia, 2010, n. 3, la clausola compromissoria rappresenterebbe «l’aspetto più ipocrita e arrogante della legge, che la dice lunga su quanto si voglia salvaguardare la effettiva volontà di scelta del lavoratore». Secondo M. FEZZI, Collegato lavoro: un attacco ai diritti dei lavoratori, in Note

informative, 2010, 47«la vera nefandezza di questa proposta di legga resta l’introduzione dell’arbitrato obbligatorio, simulato tuttavia come volontario».

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rapporto di lavoro saranno decise da arbitri (articolo 808 del codice di proce-dura civile) – è consentita unicamente nel caso in cui concorrano due requisiti.

In primo luogo, la possibilità di pattuire clausole compromissorie è inte-ramente rimessa agli accordi interconfederali e ai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparati-vamente più rappresentative sul piano nazionale. In assenza degli accordi in-terconfederali o contratti collettivi, trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali convocherà – come si legge nel comma 11 dell’articolo 31 della legge n. 183/2010 – le or-ganizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappre-sentative, al fine di promuovere l’accordo. In caso di mancata stipulazione dell’accordo, entro i sei mesi successivi alla data di convocazione, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individuerà in via sperimentale, con proprio decreto, tenuto conto delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti socia-li stesse, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni ri-guardanti la clausola compromissoria.

Inoltre, quest’ultima, a pena di nullità, deve essere certificata, in base alle disposizioni di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dagli organi di certificazione a ciò abilitati dal medesimo decreto legisla-tivo, i quali devono accertare, all’atto della sottoscrizione della clausola com-promissoria, la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controver-sie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro; davanti alle commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante dell’organizzazione sindacale o professio-nale a cui abbiano conferito mandato.

Oltre a questo duplice filtro – intervento a monte della contrattazione col-lettiva per delimitare ambiti e limiti della clausola compromissoria e successi-va certificazione della singola clausola compromissoria – il Parlamento, a se-guito del messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica, ha previsto ulteriori garanzie. La clausola compromissoria, infatti, potrà essere pattuita e sottoscritta solo concluso il periodo di prova, ove previsto, ovvero trascorsi trenta giorni dalla stipulazione del contratto di lavoro in tutti gli altri casi ed, inoltre, non potrà riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro.

Alle parti sociali, mediante accordi interconfederali o contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparati-vamente più rappresentative sul piano nazionale, è pertanto affidato il compito di regolamentare le modalità concrete di accesso agli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro.

Non può condividersi – al riguardo – la critica secondo cui, se pure in via suppletiva, l’eventuale intervento ministeriale escluderebbe qualsiasi ruolo della autonomia collettiva ed entrerebbe in contraddizione con il ruolo centrale

LA RISOLUZIONE ARBITRALE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO 129

che i contratti collettivi dovrebbero svolgere su una materia così delicata (52). L’intervento del Ministero è infatti, oltre che condizionato al mancato previo accordo fra le parti sociali, cedevole rispetto ad eventuali accordi interconfede-rali o contratti collettivi. Starà dunque alle parti sociali decidere se giocare o meno un ruolo attivo della regolamentazione dell’istituto.

L’arbitrato introdotto dalla legge n. 183/2010 intende del resto caratteriz-zarsi non solo quale possibile strumento di deflazione dell’abnorme contenzio-so in materia di lavoro ma, più ancora, quale completamento e rafforzamento di un libero e responsabile sistema di buone relazioni industriali (53), dotato di adeguati strumenti sanzionatori di gestione e amministrazione delle controver-sie che possano insorgere nell’ambito dei rapporti di lavoro. Ciò secondo pa-rametri di tutela sostanziale dei diritti e in considerazione del comune interes-se, del lavoratore e datore di lavoro, al buon funzionamento del mercato del lavoro e a una pacifica prosecuzione della attività lavorativa nel rispetto della persona che lavora e della solidità competitiva della impresa (54). Pare davvero condivisibile, a tale riguardo, l’opinione secondo cui la riduzione del ruolo complessivo del contenzioso giuslavoristico in sede giudiziale nel sistema di tutela dei lavoratori non persegue affatto un depotenziamento del diritto del lavoro e del diritto sindacale, bensì – al contrario – un incremento di effettività di entrambi. Il sovradimensionamento del contenzioso giudiziale è sempre sin-tomo di ineffettività del diritto sostanziale e il sovradimensionamento del ruolo di giudici ed avvocati è anche sintomo della crisi dell’organizzazione sindaca-le, che vede in parte usurpate le proprie funzioni, invaso il proprio campo na-turale di azione (55).

Questo spiega probabilmente perché, ancor prima della entrata in vigore del provvedimento legislativo, oltre trenta tra associazioni datoriali e sindacali (con l’esclusione della sola Cgil) abbiano definito, con la dichiarazione comu-ne dell’11 marzo 2010 (56), alcune brevi, ma importanti, linee guida finalizzate alla regolamentazione dell’arbitrato in sede interconfederale e nei contratti col-lettivi nazionali di lavoro ribadendo l’utilità dell’arbitrato, laddove scelto libe-ramente e in modo consapevole dalle parti, in quanto strumento idoneo a ga-rantire una soluzione tempestiva alle controversie in materia di lavoro a favore della effettività delle tutele e della certezza del diritto.

(52) V. SPEZIALE, op. cit., 158. (53) In questa prospettiva si vedano R. FLAMMIA, A proposito della riforma dell’arbitrato

per le liti di lavoro, in DRI, 1992, n. 2, 8, e A. MARTONE, op. cit., che, giustamente, indica nell’arbitrato un istituto posto a completamento dell’ordinamento intersindacale. Il problema “non è infatti soltanto quello della stipula, ma anche quello della amministrazione e della ge-stione dei contratti collettivi”.

(54) Ancora R. FLAMMIA, A proposito della riforma dell’arbitrato per le liti di lavoro, cit. (55) In questi termini P. ICHINO, Il lavoro e il mercato, Mondadori, Milano, 1996, 176. (56) Vedila in www.adapt.it, indice A-Z, voce Conciliazione e arbitrato.