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39 1. Cos’è il lavoro sociale? Prime distinzioni concettuali 1. Premessa Sara è madre di quattro figli. La figlia maggiore, Giovanna, ha 14 anni e soffre di anoressia nervosa da un anno. In questo tempo, Sara si è sentita pesantemente coinvolta nella preparazione dei pasti per Giovanna, negli incontri con medici e psicologi e negli attacchi di depressione quotidiani della figlia. Il marito di Sara, Giorgio, lavorando a tempo pieno, non poteva essere disponibile durante il giorno per aiutare la moglie a gestire le crisi di Giovanna, per offrire supporto o per dare una mano nelle faccende domestiche. Sara ha provato, durante quest’anno, una forte tensione per le sue responsabilità in famiglia, ed è diventata quasi insopportabile. La paura che la figlia potesse morire di fame in mezzo all’abbondanza e lo stress costante che ha provato nell’osservarne il dolore, la confusione e i «rituali» hanno consumato la sua energia e la sua abilità di attivarsi nella soluzione dei problemi. Inoltre, sente di non aver mai tempo per se stessa e non riesce a intravvedere alcuna possibilità di tregua. Si sente pressata dal lavoro e ingiustamente caricata della responsabilità di tutte le faccende di casa, della cura dei bambini e di Giovanna; tuttavia si sente in colpa nell’esprimere il suo bisogno intenso di un po’ di sollievo. Sara si è sempre considerata competente e indipendente e per questo motivo attribuisce il suo bisogno di aiuto a una sua debolezza e a un egoistico «fallimento» da parte sua. Invece di esprimere i suoi bisogni, Sara si è scoperta a parlare con asprezza a suo marito per ragioni apparentemente trascurabili, a rimproverare i bambini e ad avere delle esplosioni d’ira con Giovanna. I bambini più piccoli non capiscono l’irritabilità della madre e l’attribuiscono a qualcosa di male che essi hanno fatto. Giovanna da parte sua si considera la principale responsabile del suo personale dolore oltre che di quello della famiglia. A volte si chiede addirittura se il suicidio non potrebbe essere la soluzione di tutti i problemi. Questa descrizione della famiglia di Sara 1 coglie una realtà di fatto, o meglio una realtà plurale di fatti interconnessi, che può essere osservata, interpretata e agita secondo differenti punti di vista. Il lavoro sociale — il 1. Tratto da L.A. Goldfarb et al., Meeting the challenge of disability or chronic illness. A family guide, Baltimore, Paul H. Brookes, 1986, trad. it. La sfida dell’handicap e della malattia cronica, Trento, Erickson, 1989, p. 144.

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1. Cos’è il lavoro sociale?Prime distinzioni concettuali

1. Premessa

Sara è madre di quattro figli. La figlia maggiore, Giovanna, ha 14 anni e soffre dianoressia nervosa da un anno. In questo tempo, Sara si è sentita pesantemente coinvolta nellapreparazione dei pasti per Giovanna, negli incontri con medici e psicologi e negli attacchi didepressione quotidiani della figlia. Il marito di Sara, Giorgio, lavorando a tempo pieno, nonpoteva essere disponibile durante il giorno per aiutare la moglie a gestire le crisi di Giovanna,per offrire supporto o per dare una mano nelle faccende domestiche.

Sara ha provato, durante quest’anno, una forte tensione per le sue responsabilità infamiglia, ed è diventata quasi insopportabile. La paura che la figlia potesse morire di famein mezzo all’abbondanza e lo stress costante che ha provato nell’osservarne il dolore, laconfusione e i «rituali» hanno consumato la sua energia e la sua abilità di attivarsi nellasoluzione dei problemi. Inoltre, sente di non aver mai tempo per se stessa e non riesce aintravvedere alcuna possibilità di tregua. Si sente pressata dal lavoro e ingiustamentecaricata della responsabilità di tutte le faccende di casa, della cura dei bambini e di Giovanna;tuttavia si sente in colpa nell’esprimere il suo bisogno intenso di un po’ di sollievo.

Sara si è sempre considerata competente e indipendente e per questo motivo attribuisceil suo bisogno di aiuto a una sua debolezza e a un egoistico «fallimento» da parte sua. Invecedi esprimere i suoi bisogni, Sara si è scoperta a parlare con asprezza a suo marito per ragioniapparentemente trascurabili, a rimproverare i bambini e ad avere delle esplosioni d’ira conGiovanna. I bambini più piccoli non capiscono l’irritabilità della madre e l’attribuiscono aqualcosa di male che essi hanno fatto. Giovanna da parte sua si considera la principaleresponsabile del suo personale dolore oltre che di quello della famiglia. A volte si chiedeaddirittura se il suicidio non potrebbe essere la soluzione di tutti i problemi.

Questa descrizione della famiglia di Sara1 coglie una realtà di fatto, omeglio una realtà plurale di fatti interconnessi, che può essere osservata,interpretata e agita secondo differenti punti di vista. Il lavoro sociale — il

1. Tratto da L.A. Goldfarb et al., Meeting the challenge of disability or chronic illness.A family guide, Baltimore, Paul H. Brookes, 1986, trad. it. La sfida dell’handicap e dellamalattia cronica, Trento, Erickson, 1989, p. 144.

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campo disciplinare che tenteremo di seguito di definire — è uno di questi,forse anche il più pertinente, ma non il solo possibile. Di Sara potrebberointeressarsi, innanzitutto, diversi studiosi: il sociologo, l’economista, l’an-tropologo, il politologo sociale, lo psicologo, ecc. Ciascuno potrebbeintervistarla o sottoporle un questionario con l’intenzione di studiare ecomprendere qualche sfaccettatura dei fenomeni umani, in particolaredella vita familiare. Il sociologo potrebbe studiare il caso di Sara come unesempio di disparità di gender nel lavoro di cura. L’economista lo potrebbeutilizzare per studiare il valore in termini di economia «sommersa» dell’as-sistenza informale prestata da familiari. Il politologo sociale potrebbeessere interessato alle forme di intreccio tra servizi sociosanitari pubblici eservizi informali delle famiglie. L’antropologo potrebbe guardare allerelazioni spontanee di buon vicinato e di mutuo aiuto nelle città modernee comparare analoghi fenomeni nelle società primitive. Lo psicologoaccademico potrebbe studiare gli effetti del pensiero disfunzionale suilivelli di autostima e quindi sul burn-out delle persone sottoposte a stresscronico e così via.

In tutti questi casi, l’interesse per le vicende di Sara è di tipo scientifico(conoscitivo), cioè si tratta di «sfruttare» il fatto empirico particolare perosservarne (dopo averlo accostato ad altri) delle regolarità, e dunquetrarne delle inferenze generali. Trattandosi di scienze umane, non necessa-riamente (anzi mai per il vero) la conoscenza che così si produce arriva adassumere la valenza di leggi universali o teorie «forti» in grado di prevede-re e controllare deterministicamente i fenomeni, come invece sembraaccadere nelle scienze esatte naturali, ma non per questo il loro status diuniversalità (il loro potere nomologico) viene meno. Il rapporto con il fattospecifico è comunque strumentale, per dir così: la storia di Sara come tale,le sue cause o le sue vicissitudini, non interessa di per sé ma solo comepunto d’appoggio empirico per meglio descrivere e interpretare astratta-mente i fenomeni sociali, di cui il caso specifico è una manifestazionesingolare.

Facciamo ora un «salto» in una dimensione differente. Ipotizziamo cheil resoconto di inizio capitolo sia la sintesi di un colloquio riportato nellacartella clinica di un operatore del welfare state: un assistente sociale, unopsichiatra oppure uno psicoterapeuta, ecc. I personaggi sono, com’è evi-dente, diversi dai precedenti: «operatori» invece che «studiosi». Ognuno diquesti agisce in modo diverso, con modalità di osservazione, tecniche eanche obiettivi diversi l’uno dall’altro, pur occupandosi tuttavia dellastessa realtà di fatto. Ognuno potrebbe veder arrivare un giorno nel proprioufficio la signora Sara, o il marito, o entrambi, e ognuno potrebbe farsiraccontare la sua storia con lo stesso intendimento: fare qualcosa per

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2. Graham afferma: «Quando si ha a che fare con problemi sociali, quale sia esattamenteil problema, quale la cura e se essa sia o meno efficace, sono sempre questioni oscure edibattute» (G. Graham, Filosofia e società, Milano, Il Saggiatore, 1991, p. 229).

3. Si definisce tanto più «complessa» una situazione o un sistema quanto più numerosisono gli elementi componenti e quante più interazioni si stabiliscono tra loro e quindi quantomaggiori sono le implicazioni e le alternative possibili (cfr. G. Piazzi, Teoria dell’azione ecomplessità, Milano, Angeli, 1984).

migliorare proprio quella situazione. Lo psichiatra potrebbe prendere incura la figlia e agire sulla patologia diagnosticata come «anoressia». Lopsicoterapeuta potrebbe concentrarsi sulla madre e lavorare sui suoi sensidi colpa. L’assistente sociale potrebbe decidere di organizzare un’assisten-za domiciliare, con periodici colloqui di controllo e così via. Pur nellagrande diversità, ciascuno condivide a monte una medesima intenzionepragmatica: quella di arrivare, anche se per strade che poco possono averein comune, ad alleviare le sofferenze e il disagio in quella famiglia. Pertutti, lo scopo dichiarato, così «dichiarato» da essere in realtà dato perscontato, è quello di migliorare il «fatto» particolare di cui si devonooccupare. Questa modificazione di una disfunzione viene chiamata «aiu-to» e l’insieme degli operatori che se ne occupano «operatori di aiuto».

Per definizione, ogni problema sociale si presenta sempre come unaquestione «oscura e dibattuta», per dirla con Graham.2 Il problema di Sara— che è poi anche il problema dei familiari, dei parenti o degli amiciinteressati, dei servizi, della comunità, ecc. — non è da meno. È unesempio emblematico di ciò che i sociologi intendono per «complessità».3

Questa complessità può riguardare sia le cause — da dove deriva questasituazione, i motivi «per i quali» essa esiste — sia la gamma delle intercon-nessioni, le reciproche possibilità di influenzamento delle singole personecoinvolte. Pensando invece alla «modificazione» più che allo stato di fatto,vi è complessità (variabilità) sia riguardo ai fini, ciò che è bene sia fatto, siarispetto ai mezzi, i modi e gli strumenti per fare ciò che si pensa di doverfare. È naturale pertanto che, prima di agire, mettendo mano a una situazio-ne di tal genere, un operatore voglia prendersi il tempo necessario e«lavorare» innanzitutto il fatto cognitivamente, per attribuirgli significatooperativo e intravvedere almeno l’imbocco di una qualche strada pratica-bile. Diciamo volutamente «almeno l’imbocco di qualche strada» perché,se l’operatore pretendesse di capire tutto fin dall’inizio, di chiarire l’esattatrafila di cause e controcause e poi di progettare passo dopo passo tutto ilpercorso di risoluzione, probabilmente si paralizzerebbe, ipnotizzato dallemille sfaccettature della situazione. Contrariamente a quanto spesso sicrede, analisi e programmazioni esaustive su situazioni simili a quelle diSara non sono possibili, e neppure spesso necessarie, come si vedrà più

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4. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendente, Milano,Il Saggiatore, 1961, p. 79.

5. Dice Popper: «La conoscenza oggettiva consiste di supposizioni, ipotesi o teorie, disolito pubblicate in forma di libri, riviste o conferenze» (cfr. K. Popper, La conoscenza e ilproblema corpo-mente, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 20-21).

6. Dice Boudon: «La spiegazione di qualsiasi comportamento individuale è infinitamen-te complessa» (R. Boudon, Al posto del disordine, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 60). Amaggior ragione, si potrebbe aggiungere, questa affermazione vale quando la singolaritàdella situazione è costituita in realtà da un «singolare» intreccio di azioni individuali, comeè evidente nel caso che qui consideriamo.

avanti in questo libro, ma una decodifica ai livelli minimi compatibili conl’azione è ovviamente indispensabile.

Per procedere in questa «lettura» gli operatori debbono attingere dadiversi «saperi», parte dei quali saranno esperienziali, cioè riconducibilialle loro personali esperienze di situazioni simili già affrontate in passatocon più o meno successo — esperienze che Husserl colloca in ciò che luichiama «mondo realmente intuitivo —4 e parte invece oggettivi, intenden-do conoscenze razionali, socialmente «costruite», desunte da disciplineformali o da tradizioni di pensiero consolidate. (Per semplificare, seguen-do Popper, si potrebbe dire che il sapere «oggettivo» è quello che si trova...stampato sui libri).5 Alcuni di questi saperi, riferendosi a scienze di portatagenerale, saranno condivisi e in parte utilizzati nello stesso modo dallopsichiatra, dallo psicoterapeuta, dall’assistente sociale o da ogni operatore.Altri invece dovranno essere specifici, cioè essere «esclusivi» di ciascunoperatore e interiorizzati attraverso distinti training formativi.

Per riassumere: di un unico fatto (il caso di Sara) possiamo avere, al dilà degli svariati possibili punti di vista dello stesso, due prospettive difondo che si intersecano in qualche modo: la prospettiva euristica e quellapragmatica. Rifacendoci a delle vecchie categorie marxiane, potremmodire che l’una porta alla comprensione del reale, l’altra alla sua trasforma-zione. Abbiamo visto tuttavia che la trasformazione intenzionale di realtàcomplesse e «singolari» — e complesse proprio perché singolari, perrifarci a Boudon6 — richiede sempre un qualche grado di comprensione,ma una comprensione circostanziata, cioè trasferita dall’universale al par-ticolare e ricamata ad hoc sulla situazione contingente.

E veniamo ora al lavoro sociale, per chiederci che cosa esso sia esatta-mente. Siamo partiti con l’affermazione che ciò che designamo con questotermine offre, rispetto alla storia di Sara o ad altre simili, un punto di vistaoriginale. Rifacendoci alla schematizzazione di cui sopra, possiamo pen-sare al lavoro sociale come a un punto di vista per la conoscenza, cioè unarmamentario logico per trarre (dal fatto) significati che non possono

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7. Per il concetto di «aver cura» (care) si veda P. Bowden, Caring, London, Routledge,1997.

essere ricavati dalle altre scienze disponibili. Oppure come a un punto divista operativo, cioè un modo particolare di concepire una possibile tra-sformazione di quel fatto.

Definiamo il lavoro sociale allo stesso tempo come una particolarevisione scientifica (lavoro come attività intellettuale) e una particolareprospettiva operativa (lavoro come prassi).

In questa ultima accezione, si fa riferimento in genere a prassi di ordineprofessionale, cioè interventi esperti, di «razionalità secondo lo scopo»,per usare la terminologia weberiana, resi possibili dalla moderna divisionedel lavoro nelle società tecnologicamente sviluppate. In linea di principio,tuttavia, pensando a ciò che può essere fatto per il benessere, si potrebberoricomprendere anche dimensioni di tutt’altro ordine. Se pensiamo adesempio alla famiglia di Sara in due momenti distinti, ad esempio nel-l’istante che coincide con la descrizione di cui sopra, che chiamiamoistante t0, e poi in un momento successivo (istante t1), potremmo senz’al-tro scoprire delle modificazioni, per il meglio o per il peggio, rispetto allasituazione di partenza, che possono avere poco a che fare, per così dire, conl’azione professionale di qualche operatore che si fosse nel frattempo presocura del «caso». Ciò sarebbe evidente se l’azione intenzionale non ci fossestata ma, anche nel caso contrario, quando un esperto si fosse veramentedato da fare, questi effetti «estranei», non dovuti alla sua azione, vannomessi nel conto e tenuti distinti con chiarezza.

Ciò che fa l’operatore si mescola e si intreccia con ciò che fanno altrisoggetti nella situazione, mossi dall’intuitiva produzione «di senso» chequella situazione riserva loro. Il lavoro sociale potrebbe essere ancheinteso, allora, come azione immediata di soggetti nel cosiddetto mondo-della-vita, non eseguita nel contesto di un ruolo professionale e con diffe-renti — talvolta anche molto bassi — gradi di intenzionalità cognitiva. Perdistinguere bene i piani del formale e dell’informale, che non possono innessun modo essere confusi, dato che si tratta di realtà inconciliabili, percosì dire, si è soliti indicare la classe degli aiuti non intenzionali con unadenominazione diversa, e cioè «cure informali».7

2. L’ipotetica scienza del lavoro sociale e i suoi rapporti con le altrescienze umane

La curiosità di sapere se il lavoro sociale sia un punto di vista scienti-fico originale — curiosità che sembra inarrestabile, nonostante il «princi-

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8. Conosciuta anche come «economia del pensiero» o «principio di semplicità», la leggedella parsimonia è legata al nome di Occam e alla sua famosa espressione «entia non suntmultiplicanda praeter necessitatem». In epistemologia, questo principio si riferisce allaregola di privilegiare, a parità di potere esplicativo, ipotesi o teorie del livello più semplice.

9. Cfr. R. Roberts, Lesson from the past. Issues for social work theory, London,Routledge, 1990.

10. J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Brescia, Morcelliana, 1974.11. H.M. Bartlett, The common base of social work practice, New York, NASW, 1970.

pio della parsimonia»8 dovrebbe suggerire qualche cautela — accompagnaquesta «super» disciplina dalle sue origini,9 peraltro con scarsa fortuna.Non è possibile qui soffermarsi troppo su questa controversa questione. Inogni caso, anche ammesso che sia — o che possa essere — una scienza, illavoro sociale dovrebbe comunque ridefinirsi come scienza pratica-prati-ca, per usare un’espressione di Maritain,10 una scienza applicata che volarasoterra, lambendo le situazioni contingenti. Il lavoro sociale come scien-za è da intendersi come quell’apparato concettuale (e i metodi per ri-produrlo) che permette alla varietà di esperti di aiuto che realizzano inpratica il lavoro sociale — che chiameremo qui appunto «operatori sociali»— di agire sulla base di un senso loro proprio. La faccia scientifica dellavoro sociale è tutt’una con quella applicativa.

Gli operatori sociali, stante il loro nome, dovrebbero costruire la loroidentità grazie al fatto di attingere, oltre che genericamente qua e là dallescienze sociali più accreditate, dalle conoscenze specifiche del lavorosociale. Come vedremo alla fine di questo capitolo, più che dalla diversitàempirica delle mansioni, e quindi sulla base di un criterio meramenteamministrativo o di consuetudine, è soprattutto da una tipicità epistemolo-gica — da uno specifico «modo di pensare» la loro pratica, per dirla con laBartlett11 — che gli operatori sociali possono rivendicare una propriaragione d’essere rispetto ad altri operatori di aiuto. È un elemento logicoche dovrebbe fare, ad esempio, uno psicoterapeuta qualcosa di diverso daun assistente sociale, non una lampante evidenza della realtà (e in effettinella realtà c’è piuttosto confusione). Ma questo elemento logico esiste?

Ciò che ci proponiamo di discutere, in modo solo sommario, è quantoil lavoro sociale possa avere un proprio oggetto epistemologico e quantoquesto oggetto sia differenziabile — cioè possa essere «altro da» —rispetto alle due scienze affini più rilevanti, vale a dire la sociologia e lapsicologia.

2.1. L’oggetto della sociologia e la deriva del sociologismo

La sociologia è la scienza del «sociale» per eccellenza, dal momentoche si pone come oggetto, più direttamente delle altre scienze anch’esse

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3. Le professioni del sociale

Il servizio sociale e l’educazione sociale

1. Premessa

Il concetto di «capacità di azione» ci ha permesso di tracciare unconfine per distinguere le professioni sociali dal più ampio fronte delleprofessioni di aiuto. Tenteremo ora di compiere un ulteriore passo. Analiz-zeremo con maggiore accuratezza il lavoro sociale professionale, metten-done meglio a fuoco i contenuti e il suo potenziale logico. Quando utiliz-ziamo l’onnicomprensivo termine di professioni sociali facciamo riferi-mento a realtà di cui nel capitolo primo abbiamo semplicemente anticipatole denominazioni. Ora si tratta di approfondire, in particolare di prestareattenzione alle due maggiori discipline che convenzionalmente si ritrova-no collocate nel lavoro sociale: il servizio sociale e l’educazione sociale,campi d’azione esperta coperti principalmente dall’operatore assistentesociale e dal cosiddetto educatore extrascolastico o educatore professionale.

L’assistente sociale e l’educatore sociale sono due figure professionaliormai totalmente differenziate in area italiana, anche se la prima ha radicistoriche più profonde,1 mentre la seconda è più recente. Daremo perscontata almeno una sommaria conoscenza delle competenze di ciascunodi questi operatori, nelle comuni tipologie di servizi di aiuto dove la loropresenza è contemplata.2 Vedremo invece se è possibile cogliere i puntisalienti e un tantino «esagerati», secondo la logica dei tipi ideali, di ciò cheli differenzia l’uno dall’altro. Ci chiediamo, in altri termini, quale sia la

1. Cfr. B. Bortoli, Teoria e storia del servizio sociale, Roma, NIS, 1997.2. Per un’analisi comparata delle professioni sociali in ambito italiano vedi: Ministero

dell’Interno, Professioni sociali e Università, Roma, 1986; R. Maurizio e D. Rei, Leprofessioni nel sociale, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1991; AA.VV., Le professionisociali oggi, Roma, TER, 1993. Per il servizio sociale: AA.VV., Il servizio sociale come

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processo di aiuto, Milano, Angeli, 1987; M. Bianchi e F. Folgheraiter (a cura di), L’assisten-te sociale nella nuova realtà dei servizi, Milano, Angeli, 1993; M. Toscano (a cura di),Scienza sociale, politica sociale, servizio sociale, Milano, Angeli, 1991; S. Coragli e G.Garena, L’operatore sociale, Roma, NIS, 19962; S. Giraldo e E. Riefolo (a cura di), Ilservizio sociale: esperienza e costruzione del sapere, Milano, Angeli, 1996 . Per l’educazio-ne sociale: M. Groppo (a cura di), L’educatore sociale oggi, Milano, Vita e pensiero, 1990;S. Miodini e M.T. Zini, L’educatore professionale: forme, regole e competenze, Roma, NIS,1992; R. Maurizio, L’educatore professionale, «Animazione Sociale», settembre 1996.

3. Il fatto che concettualmente non siano state, e non siano tuttora, chiare a sufficienzale differenze interne al lavoro sociale, così come non sono chiare più in grande le differenzetra il lavoro clinico e quello sociale (si vedano le considerazioni svolte nel capitolo primo),ha determinato inevitabili confusioni e sovrapposizioni. Ma questo non ha impedito chenella realtà i differenti ruoli in qualche maniera si imponessero di fatto.

4. Cfr. J.M. Rosenfeld, The domain and expertise of social work: A conceptualization,«Social Work», 1983, pp. 186-191, trad. it. in F. Folgheraiter e B. Bortoli (a cura di), Il lavorosociale tra interrogativi epistemologici e prospettive di operatività, Trento, Analisi diServizio Sociale, 1984.

loro ragion d’essere astratta, se mai esiste, e questo interrogativo lo avan-ziamo non tanto per curiosità di ordine tassonomico, per incasellare un po’di qua e un po’ di là una materia altrimenti sfuggente. L’intenzione è quelladi cogliere il senso delle funzioni essenziali che queste professioni sembra-no assolvere, stante la logica moderna della divisione del lavoro, anche perscorgerne le evoluzioni possibili in linea teorica.

Agli inizi del processo di professionalizzazione delle attività di aiuto,tutto il lavoro sociale coincideva di fatto con il servizio sociale. Nonc’erano sulla scena altri operatori sociali se non gli assistenti sociali, i qualidovevano occuparsi di tutto genericamente (generic work) comprese permolto tempo le stesse competenze cliniche. Poi, in forza di potenti spintealla differenziazione, sono comparsi sulla scena altri operatori sociali, eprima ancora altri operatori clinici, che hanno occupato proprie nicchie dicompetenza, sulla base di logiche funzionali incontrovertibili, anche senon sempre ben comprese.3

Ciò ha portato qualche autore, ad esempio Jona Rosenfeld,4 a dubitareche il servizio sociale e le professioni che si sono storicamente differenzia-te al suo interno siano realtà tra loro confrontabili, come invece qui siassumerebbe. Pressappoco il ragionamento di Rosenfeld è il seguente. Seil servizio sociale è una sorta di matrice, un contenitore da cui si sonostaccate e ancora si staccheranno, per andare per conto loro, sempre nuovefunzioni specializzate, queste si collocherebbero perciò su un differentepiano logico, come una madre è su un piano diverso rispetto ai suoieventuali pur numerosi figli. Se fosse vera questa ipotesi, l’assistentesociale sarebbe un operatore non del tutto assimilabile agli altri esperti pursociali anch’essi. Sarebbe un jolly che si trova a fare supplenza di tutto unpo’ genericamente, fino a quando il progresso nominerà finalmente i veri

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5. Cfr. F. Folgheraiter, I nuovi approcci reticolari nel lavoro sociale: riflessi sul ruolodell’assistente sociale, in M. Bianchi e F. Folgheraiter (a cura di), L’assistente sociale nellanuova realtà dei servizi, Milano, Angeli, 1993, pp. 109-121.

titolari delle funzioni surrogate. Come dire: il servizio sociale sarebbe unresiduato premoderno, destinato a esaurirsi nel momento in cui ogni possi-bile funzione di aiuto avrà una sua propria professione corrispondente.

Un’altra ipotesi, quella che qui noi prendiamo per buona, è che di unintervento «generico» — che vuol dire integrato o non acutamente specia-lizzato — non si possa fare a meno nel lavoro di aiuto. Anzi, si potrebbedire che questa è una funzione in sé, una paradossale «specializzazione»postmoderna che permette di tagliare le punte e colmare i vuoti dellespecializzazioni.5 Tutto il lavoro sociale, come si è detto, possiede unapropensione genericista, ma il servizio sociale al suo interno ancora di più.

Considereremo il servizio sociale e l’educazione sociale come le duepietre d’angolo del lavoro sociale. Ciascuna potrà differenziare in futuroulteriori figure professionali — e diventeranno così a loro volta «campiprofessionali» invece che semplici «professioni» — ma la loro identità,che è quella che qui cercheremo di tratteggiare, rimarrà. A questo scopodobbiamo ritornare al concetto-guida del lavoro sociale, quello di «capaci-tà di azione». L’ipotesi è che ciascuna distinta professione sociale siapressappoco in asse con un differente livello dell’autonomia personale. Perquesto occorre partire da una presupposizione ancora più a monte, e cioèche questi diversi livelli esistano, che la capacità di azione risulti in qualchemodo stratificata, una specie di cipolla costituita di significati sovrapposti.Vediamoli.

2. I livelli della capacità di azione

Nel precedente capitolo abbiamo chiarito a grandi linee cos’è e poi checosa costituisce la capacità di azione. È stata definita come la possibilitàdelle persone di riunire assieme le loro facoltà sparse un po’ qua e un po’là, dentro e fuori da se stesse, così da poter fronteggiare le situazioni esoddisfare i bisogni, processo da cui emerge, e si ricarica continuamente,il loro benessere. Si tratta adesso di vedere meglio come si articola.Propongo qui di disaggregare il concetto generale di «capacità di azione»(o autonomia) e ipotizzare che si possano distinguere tre «stati» dinamicidi esso (figura 3.1) che chiameremo autosufficienza (autonomia basilare),autorealizzazione (autonomia superiore) e eterorealizzazione (autonomiasociale propriamente detta).

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6. P. Wehman, A. Renzaglia e P. Bates (1984), Functional living skills for moderatelyand severely handicapped individuals, trad. it. Verso l’integrazione sociale, Trento, Erick-son, 1988.

7. Per quanto riguarda la misurazione dei deficit di autosufficienza in bambini o giovanicon ritardo mentale si veda una serie di specifici test (ad es., Test BAB, Test LAP, Test ABI,ecc.) editi dalle Edizioni Erickson di Trento. Per quanto riguarda la valutazione funzionaledegli anziani, si veda ad esempio il cosiddetto Test Geronte (P. Halkein, L’évaluation dudegré d’autonomie des personnes agées. Mise en application d’une échelle simple: leGeronte, «Info-Nursing», Bruxelles, 1987).

2.1. L’autosufficienza: cura di sé

Il livello più semplice dell’autonomia è la capacità di svolgere compitiessenziali e indifferibili della vita quotidiana. Definiamo questa competen-za come l’insieme delle capacità/abilità che rendono le persone capaci dirispondere a bisogni che attengono (a) alla sopravvivenza fisica e (b) almantenimento di almeno minimi standard di qualità di vita socialmentedefiniti.

Sul piano funzionale l’autosufficienza si concretizza nella padronanzadelle cosiddette survival o functional living skills,6 ovvero abilità di ali-mentazione, di igiene della persona e dell’ambiente di vita, di mobilità, disicurezza personale, di gestione del tempo, ecc.; delle abilità della vita direlazione, come il rispetto di norme e routines sociali, ecc.; delle piùsemplici abilità relative alla vita lavorativa ed economica, come prerequi-siti al lavoro, uso del denaro, e così via. Gli indici oggettivi dell’efficienzafunzionale possono essere agevolmente definiti e danno la possibilità diarrivare a misurazioni relativamente precise della competenza in questio-ne, anche sulla base di test e checklist standardizzati.7

La caratteristica concettualmente più rilevante di queste competenzeelementari, e dei bisogni che le sorreggono motivazionalmente, è la loronatura coattiva o comunque poco discrezionale. Entro certi limiti, la perso-na è indotta ad agire (se poi ne è capace è tutt’altra cosa) indipendentemen-te dalla sua voglia di farlo o comunque dal suo grado di consapevolezza odi decisione attiva. I bisogni tipici dell’autosufficienza risultano segnati daun marcato determinismo. Essi in qualche grado si impongono alla perso-na. Non si può non alimentarsi, cioè non rispondere allo stimolo della fameo della sete, oltre un dato livello. Non si può non salvaguardare la propriatemperatura corporea, cioè non ripararsi dal caldo o dal freddo, anche quioltre parametri determinati. Non si può non evitare traumi o danni fisici.Non si può non rispettare un minimo equilibrio nel rapporto sonno-vegliae così via. Al di sotto di una soglia critica, variabile da persona a persona,il mancato soddisfacimento di questi bisogni biologici porta alla morte.Sopra questa soglia, ma ancora al di sotto di un livello in qualche modo

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8. In questo caso non sarebbe una carenza di autosufficienza ma una precisa scelta diautorealizzazione.

9. L’epoca moderna è caratterizzata dall’estendersi a gran parte della popolazione delprivilegio tipico delle classi nobiliari di non dover dedicare tutto il tempo dell’esistenza allenecessità della sussistenza e quindi da un più favorevole rapporto tra tempo di lavoro e tempolibero (cfr. I. Illich, Il lavoro ombra, Milano, Mondadori, 1985).

considerabile come soddisfacente, si rimane in una fascia di sofferenza ocarenza di benessere più o meno rilevante.

Meno tassativi dei bisogni biologici, ma pur sempre vincolanti, sono ibisogni sociali. Si dice così di quei bisogni indotti dalla società in cui lapersona vive. Ovviamente, la ricezione di queste obbligazioni è soggetta adampia variabilità. Esse, tuttavia, non possono essere trascurate oltre limiticritici, pena un altro genere di sofferenza, o addirittura di sopravvivenza,appunto quella sociale, vale a dire l’emarginazione o l’esclusione dallerelazioni con i propri simili. Per fare un esempio: in qualsiasi societàcivilizzata, una persona potrebbe anche andare in giro svestita, o vestita inun modo che entri in radicale contrasto con lo stile tradizionale dellasocietà e che quindi violi le consuetudini date-per-scontate al suo interno.Lo può fare, sia che lo decida deliberatamente8 o che non sia capace diastenersene, ma a costo di un certo allontanamento dal sentire comune.

Parte del tempo di vita delle persone è spesa a rispondere a questibisogni obbligati. Esattamente quanta parte, non dipende solo dal lorointrinseco grado di competenza, cioè dalla capacità delle persone di affron-tare routinariamente le incombenze del vivere quotidiano. Dipende anche,come si è detto nel capitolo precedente, dalla presenza di strutturali facili-tazioni (facilities) nell’ambiente, connesse a loro volta al grado di sviluppodella civiltà umana.9 Nelle società tecnologizzate, molti bisogni possonoessere soddisfatti automaticamente o astrattamente (nel modo di dire diGiddens) secondo logiche di sistema che semplificano o sostituisconol’azione umana. Accendere il gas con il piezoelettrico è più semplice checreare il fuoco con la pietra focaia e l’acciarino e lo stesso è per molte altreincombenze pratiche.

Quando le persone, autonomamente o in interdipendenza, non ce lafanno ad agire sui loro bisogni basali neppure con la facilitazione di tutti ipossibili automatismi astratti, siamo di fronte a una classica categoria diproblemi sociali. Notoriamente le professioni sociali hanno a che fare conpersone che presentano limitazioni strutturali nell’apprendimento e nel-l’esercizio delle elementari capacità di autosufficienza. Ad esempio, per-sone con ritardo mentale, che non le hanno potute acquisire o le hannoacquisite in parte; gli anziani non autosufficienti, che le hanno in parteperse; i malati di mente, che ne hanno smarrito le coordinate di esercizio;i malati cronici, che non le possono fisicamente esercitare e così via.

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10. A. Storr, L’integrazione della personalità, Roma, Astrolabio, 1969, p. 19.11. Oltre a Storr sopra citato, si veda, ad esempio, l’impostazione di E. Fromm, Dalla

parte dell’uomo, Roma, Astrolabio, 1971; A.H. Maslow, Motivazione e personalità, Roma,Armando, 1973.

12. Deve essere ovviamente ricordato che il fatto che una persona possa dirsi realizzataè sempre un giudizio di valore, formulato sulla base di parametri sociali o criteri ideali. Adesempio: il delinquente che eccelle nel delinquere, può dirsi realizzato?

2.2. L’autorealizzazione: sviluppo di sé

Un differente livello di autonomia riguarda un campo di competenzache attiene allo sviluppo della persona come tale, ovvero il complessodelle capacità necessarie ad assicurare ciò che comunemente si dice «rea-lizzazione di sé». Con questa espressione si può intendere, nelle parole diStorr,

[...] la estrinsecazione più completa possibile […] delle potenzialità innate nell’individuo, larealizzazione, nella personalità di ciascun uomo, della unicità a lui propria: e avanzereianche l’ipotesi che questa è la meta che, in modo più o meno consapevole, ogni uomopersegue sostanzialmente.10

Questo livello di competenza a fare, coglie requisiti che permettonoalle persone di essere in un certo senso costruttrici, intenzionali o meno, dise stesse. Qualora il tempo libero che rimane a disposizione dopo ildisbrigo delle vincolanti incombenze tipiche dell’autosufficienza vengaimpiegato in modo compatibile con lo sviluppo progressivo delle propriepotenzialità, nel senso appunto in cui ne parlano tutti gli psicologi umani-sti,11 Maslow in testa, siamo in presenza di atteggiamenti o competenzeautorealizzative.

Mentre il primario campo dell’autosufficienza è segnato da bisogni ingran misura coatti, l’autorealizzazione richiama invece il dominio dell’op-zionale. Implica il fatto che il soggetto interessato sappia darsi degliobiettivi, fare delle scelte, prendere iniziative più che rispondere a bisognitassativi. In generale, l’atto discrezionale di scegliere, per via conscia oinconscia, valori, orientamenti e piaceri a cui tendere, richiama alla mentela cultura, la spiritualità, l’arte, lo sport, la socialità, il lavoro creativo, laprevenzione della salute, ecc., tutte realtà il cui denominatore comune vaindividuato nella loro capacità di animazione dei soggetti umani o nell’evi-tamento della «sclerotizzazione» del loro agire. La realizzazione personalepresuppone il cambiamento, la progressiva trasformazione di aspetti su-perficiali o profondi della personalità, un cambiamento che si direzionilungo una direttrice ideale di «progresso», ancorché sia difficile oggettiva-mente definirla.12

Parente stretto del concetto di autorealizzazione è ciò che gli anglossas-soni indicano con l’espressione self-empowerment o con quella quasi

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13. Il concetto di self-empowerment è ben illustrato in M. Connor, Training the counsel-lor, London, Routledge, 1994; quello di self-efficacy, in A. Bandura, Self-efficacy in chan-ging societies, Cambridge University Press, trad. it. Il senso di autoefficacia, Trento,Erickson, 1997.

14. B. Hopson e M. Scally, Lifeskills teaching, London, McGraw, 1981, p. 57.

equivalente di self-efficacy.13 Il sentimento di «aver potere», cioè di esserein grado di padroneggiare il corso, oltreché i singoli eventi, della propriavita — sentimento che ovviamente deriva dal fatto lapalissiano di poterlofare veramente — è in effetti l’indicatore più esplicito di «realizzazione».Hopson e Scally hanno tentato di precisare le singole competenze checostituiscono il self-empowerment:

(a) sentire di poter essere aperti al cambiamento; (b) avere le abilità necessarie per cambiareaspetti di se stessi o del proprio mondo vitale; (c) saper riconoscere dove ci sia discrepanzatra ciò che uno è e ciò che vorrebbe essere; (d) saper individuare delle mete e specificare ipassi operativi (action steps) per raggiungerle; (e) implementare le azioni prefissate; (f) esserecoscienti del proprio potere di valutazione e rivalutazione, di influenza e autodirezione.14

Il lavoro sociale professionale si interessa tradizionalmente alle disfun-zioni o all’atrofia delle competenze autorealizzative. Naturalmente nonparliamo qui dello spreco subliminale di potenziale umano, di cui nemme-no ci si accorge e che ogni società «produce» in quantità incalcolabili.(Nessuna persona raggiunge mai il massimo del suo potenziale «teorico»,per cui enorme è lo spreco complessivo a livello dell’intera società.)Parliamo delle situazioni più marcate in senso individuale. Ad esempio,varie forme di devianza o di dipendenza da sostanze possono essere vistecome intrappolamento forzoso del comportamento in rigidi condiziona-menti psichici, dove il progresso oggettivo della persona si arresta eaddirittura si inverte. Rientrano in questa classificazione anche manifesta-zioni di disorientamento esistenziale o di mancata capacità di programma-zione o di governo della propria vita, come nel caso di persone ipodotate oregredite con storie di emarginazione o di grave abbandono e così via.Persone in queste condizioni potrebbero anche essere in grado di badarealla propria sopravvivenza pura e semplice, mentre invece, per causeinterne/esterne imponderabili, non riescono a evitare continue azioni/scelte regressive della personalità.

Anche al di là di casi così marcati, vi sono tante altre situazioni menovistose in cui le restrizioni di interessi, valori, significati della vita provo-cano sofferenza e disagi esistenziali che sempre più arrivano a interessaregli operatori sociali. Si pensi al vasto fronte delle cosiddette «nuovepovertà», dove il disagio non deriva tanto dalla mancanza di risorse odall’incapacità di funzionare praticamente, quanto dalla difficoltà a man-tenere saldo il senso dell’esistenza.

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15. R. Wuthnow, Learning to care: Elementary kindness in an age of indifference, NewYork, Oxford University Press, 1995.

16. M. Bulmer, The social basis of community care, London, Allen & Unwin, 1987, trad.it. Le basi della community care, Trento, Erickson, 1992.

17. Cfr. T. Nagel, La possibilità dell’altruismo, Bologna, Il Mulino, 1994.18. Ibidem, p. 131.

2.3. L’eterorealizzazione: cura/sviluppo di altri

La capacità di azione può anche essere pensata come eccedente lapersona che la «possiede». Questo livello di competenza ricomprendeattitudini e abilità che rendono possibile l’interesse/la cura per gli altri,ovvero tutto ciò che permette l’assunzione di precise responsabilità sociali.Un surplus di competenze che può riversarsi all’esterno, a vantaggio dialtre persone relazionalmente collegate. Una misura di questa capacità puòessere indicata con il suo raggio di estensione, ovvero sulla base di quantola persona riesca eventualmente a trascendere la ristretta cerchia dellerelazioni primarie, cioè la propria famiglia o la propria parentela, per poiarrivare fino alla comunità più estesa. I cosiddetti volontari, ad esempio,sono persone comuni che si sentono in grado di occuparsi della sorte dipersone anche a loro non vicine o estranee, alle quali cioè non sono legateda vincoli affettivi preesistenti.15

Rispetto alla variabile coazione/libertà, che differenziava i due livelli diautonomia visti sopra, si può dire che qui sono presenti entrambi, incombinazioni diverse a seconda delle concrete situazioni.16 Occuparsidegli altri può essere in certe circostanze un obbligo e in altre una liberascelta, e quindi un’espressione di autorealizzazione. Qui si ritrova ciò chei filosofi sociali hanno sempre messo in luce e cioè che nella motivazionedell’altruismo vi possa essere, alla fin fine e in senso buono, un po’ diegoismo.17 Il benessere, facilitato in altri, può ritornare poi in qualchemisura e andare a coincidere con il benessere proprio: la persona ricava«egoisticamente» autorealizzazione per se stessa dal fatto di favorire ana-loghi stati di benessere in altre persone.

Si può perfino parlare, a questo livello, di un bisogno di interessamentoall’altro come tipico dell’essere sociale (si pensi ad esempio all’istintomaterno alla cura). Questo bisogno nella specie umana, come affermaNagel, «consente agli individui di superare l’unitarietà del soggetto perattingere una condizione impersonale ed oggettiva».18 L’eterorealizzazio-ne costituisce in effetti lo snodo tra l’individuale e il sociale. Il benesseredi ogni persona si basa sulla possibilità che un suo deficit di competenzapossa essere compensato da surplus di autonomia di qualche altra personao di molte altre in interdipendenza. Il più o meno consapevole intreccio discambi di aiuto tra un dato set di persone, che si traduce nell’innalzamento

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19. R. Lubove, The professional altruist, Cambridge, Cambridge University Press, 1965.20. P. Reder e C. Lucey, Assessment of parenting. Psychiatric and psychological

contributions, trad. it. Cure genitoriali e rischio di abuso, Trento, Erickson, 1997.

della loro autonomia media, è ciò che si indica di solito con l’espressione«cura informale». Ci si riferisce qui in un certo modo alla eterorealizzazio-ne societaria, vale a dire all’eccedenza di disponibilità di cura presentespontaneamente nell’intera società. Ma l’eterorealizzazione può ancheessere in parte fabbricata o istituzionalmente condizionata. Che cosa sonoin effetti gli operatori professionali di aiuto? Sono persone appositamenteperfezionatesi, con training nel sapere e nell’essere, in questa più sofistica-ta dimensione dell’autonomia personale, divenendo, come dice Lubove,«altruisti per professione».19

Molti problemi tipici delle professioni sociali derivano dal fatto che lacura di altri è un obbligo senza presupposti: le persone che se la assumono,o che se la ritrovano attribuita, talvolta non posseggono sufficienti capacitàper prestarla. Quando una responsabilità di cura è priva di una corrispon-dente capacità, il destinatario di queste cure improbabili si trova a essere,com’è ovvio, malcapitato. Un’antica tradizione vede il lavoro socialeprofessionale applicarsi al fronte delle disfunzioni familiari — mancatacura ed educazione dei figli in particolare — che per l’appunto sonoriconducibili all’incapacità strutturale o motivazionale dei genitori a soste-nere le tipiche responsabilità connesse al loro ruolo.20

Riflessione a margine. La distinzione dei tre livelli della capacità diazione è un esercizio analitico e come tale va soprattutto inteso. Nella realtàovviamente non esiste frammentazione. Ad esempio, una persona chepossa dirsi autosufficiente, vale a dire capace di assolvere i compiti basilaridella sopravvivenza fisica e sociale, con ciò stesso porta un primo mattonealla propria realizzazione personale. Il senso di una sufficiente realizzazio-ne assicura la riserva di autostima e di empowerment per far fronte amomenti di crisi o a difficoltà contingenti che alla lunga potrebbero, se nongovernate, compromettere l’autosufficienza funzionale, ed eventualmenteanche preesistenti capacità di badare agli altri (cura eterodiretta). Occupar-si efficacemente degli altri, come si è detto, non solo presuppone un’ade-guata realizzazione personale, ma allo stesso tempo la rinforza e così via.In realtà tra i livelli qui discussi vi è circolarità, più che una progressionelineare dall’uno all’altro, come si può visualizzare nella figura 3.1.

Analoghe considerazioni si possono svolgere circa l’idea che i trelivelli di capacità di azione richiamino altrettanto distinte fasi del ciclo divita: l’autosufficienza l’infanzia, l’autorealizzazione l’adolescenza, l’ete-

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21. Cfr. E. Erickson, I cicli della vita, Roma, Armando, 1991.22. Cfr. W.H. Missildine, Your inner child of the past, New York, Simon & Schuster,

1963, trad. it. Il bambino che sei stato, Trento, Erickson, 1996; D. Heard e B. Lake, Thechallenge of attachment for caregiving, London, Routledge, 1997.

rorealizzazione l’età adulta.21 Certamente vi è una qualche progressionenegli apprendimenti che sostanziano la capacità di azione, e quindi ancheun grossolano frazionamento temporale nella sua acquisizione. Ma anchequi occorre considerare le continue intersecazioni tra i livelli: nell’infan-zia, mentre soprattutto si acquisiscono le abilità basilari dell’autonomia, sigettano ovviamente le fondamenta dell’identità e dell’autorealizzazione.Allo stesso modo, dall’amore e dalla cura ricevuti dai genitori nei primianni di vita si stampa nella psiche l’attitudine adulta alla cura di altri.22

Nell’età matura ci possono essere occasioni di riorientamento consapevoledella personalità (di autorealizzazione) impensabili nell’età adolescenzia-le, ad esempio, con il tempo libero del pensionamento, con la maggiorecapacità di discernimento, le maggiori opzioni e così via.

3. I livelli dell’intervento sociale

Conosciamo ora in modo più dettagliato l’oggetto del lavoro sociale, lamateria su cui si applica. Sappiamo che gli operatori sociali, quandoguardano a disfunzioni o problemi di loro attinenza, possono focalizzaredistinti segmenti di incapacità di azione, dal più basale al più sofisticato,

Fig. 3.1 Livelli di capacità di azione e loro interdipendenza.

Eterorealizzazione(capacità di agire per soddisfarebisogni/desideri di altre personesentiti, o imposti, come propri)

Autosufficienza(capacità di agire per soddisfare

propri bisogni tassativi)

Autorealizzazione

(capacità di agire per soddisfare proprieaspirazioni/desideri autogenerati)

➤➤

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8. La guida relazionale di rete

Cenni tecnici introduttivi

1. Premessa

Il lavoro di rete è l’azione intenzionale di un operatore, o anche di piùoperatori congiuntamente, che si esplica in una relazione — in pratica: inun’azione che si compenetra — con una rete di persone, cioè con altrerelazioni preesistenti o potenziali, migliorando in tal modo la reciprocaqualità e la reciproca capacità di azione, dell’esperto e della rete, nellaricerca di indeterminate soluzioni ad hoc, cioè appropriati corsi di azione— concrete cose da fare — incognite alla partenza.

Ragionando invece secondo l’ottica dell’empowerment, possiamo defi-nire il lavoro di rete come l’attività di un operatore (o più) che non accentrasu di sé, o sul proprio servizio, il compito delle persone con cui è venuto incontatto e che ha deciso di affrontare. Quest’operatore lascia stazionare ilcompito su di loro e, se possibile, lo diffonde anche su altre persone, o altrioperatori suoi colleghi, a vario titolo coinvolgibili in quel medesimocompito, presupponendo in tutti la capacità di fare, fino a prova contraria.Dopodiché l’operatore non si ritira, sennò tenterebbe solo di delegare escaricare, dunque tutt’altro che un «lavoro». Egli ci mette del suo in duemodi: (a) facendo anche lui qualcosa di specifico, come ogni altro membrodella rete e (b) impegnandosi in un lavoro sovraordinato nei confronti dellarete come un tutto, che, seguendo Donati, chiameremo di guida.1 Ovvia-

1. In realtà Donati, in accordo con Wilke, usa l’espressione «osservazione – diagnosi –guida» (O.D.G.) che è soprattutto pensata per gli interventi sociali di livello macro, cioè dipolitica sociale. (Cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 1991; H.Willke, Observation, Diagnosis, Guidance. A system theoretical view of intervention, in K.Hurrelmann et al. (a cura di), Social intervention: potential and constraints, Berlin, deGruyter, 1987). Per il lavoro sociale la più sintetica espressione di «guida» (guidance)esprime bene il concetto, togliendo anche ogni connotazione sanitaria collegabile al termine«diagnosi».

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mente, per quanto detto sin qui, si tratterà in generale di una guida blanda,non più di quanto sia necessario per aumentare la probabilità che la retepossa agire con superiore efficacia sul compito, e di conseguenza altrettan-to possa fare lui stesso.

2. Il lavoro di rete è una relazione «al lavoro» con altre relazioni

Tutte queste argomentazioni possono essere rilevate nello schema dellafigura 8.1. Come si ricorderà, nella figura 6.9, che è stata il perno delcapitolo sesto, l’esperto era in posizione osservativa, e deduceva l’esisten-za di un problema accertando l’insufficienza dell’azione delle personeeffettivamente coinvolte rispetto a un loro compito comune, o che avrebbedovuto essere inteso come comune. Qui si coglie l’esperto dopo che hafatto un passo avanti e si è posto in relazione attiva con quelle relazioninaturali che prima si limitava a osservare. Con questa manovra, l’azionesignificativa sul compito si allarga: è l’azione congiunta «rete più esperto».

Fig. 8.1 Schematizzazione di un possibile assetto iniziale (in t0) di un fronteggiamentocongiunto. Il punto t0 segna il momento in cui l’esperto e la rete si incontrano.

Compito

Esperto

Azionecongiunta

Persona 3

Persona 2 Persona n

Persona 1

➤ ➤

➤➤

➤➤

Ambiente naturaledel compito

Ambiente espertodella rete naturale

Retecongiunta(in t0)

➤Relazioneguida

Retenaturaledi aiuto

t0 tx➤

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2. Qui abbiamo considerato «bene» il compito (il problema) mentre in genere sembre-rebbe più logico attribuire tale qualifica al prodotto dell’azione della rete (per esempio, lasoluzione eventuale). In realtà anche il fatto che tutti gli interessati possano disporre delcompito, senza che qualcuno lo sottragga loro, è un bene, secondo il punto di vista dell’ap-proccio di rete, perché è il presupposto per un’azione più efficace.

3. P. Donati, Teoria ..., op. cit., p. 166.

Il compito diviene «bene comune»2: oltre a essere accomunato tra i membridella rete (di fatto o potenzialmente, agli occhi dell’osservatore), è acco-munato anche all’esperto, il quale si muove allora nel senso indicato daDonati, cioè rispettando una

[...] strategia di azione sociale che non si rivolge in termini di beneficenza ai soggetti deboli...nel senso di “dar loro qualcosa” ma li coinvolge in un progetto di bene comune.3

L’idea di azione congiunta verso un fine condiviso, rappresentata nelloschema da quell’unica freccia che raccoglie la pluralità delle azioni a frontedel compito, è il fulcro del lavoro di rete. Essa scardina l’insidiosa ideatradizionale della presa in carico e altrettanto fa con l’insidiosa tentazionedella delega. Ci mostra che quando inizia un intervento formale né la retené l’esperto si sottraggono all’azione, così come né la rete né l’espertomonopolizzano l’azione. La presa in carico della situazione di problema daparte dell’esperto può aver luogo, ma la rete rimane ancora in gioco. Se larete resta in gioco, non è che l’esperto allora non abbia niente da fare, o nondebba avere un ruolo e così via.

Questo passaggio è cruciale. La crisi dei sistemi istituzionali di welfare,maturata nelle spire della modernità, ci riporta all’incapacità di questisistemi di ricomporre intelligentemente il dilemma coinvolgimento/di-stacco nei confronti dei problemi che sono chiamati a risolvere. L’atteggia-mento è quello dell’out/out, piuttosto che dell’et/et. Si dà per scontato che,a coinvolgersi nei problemi, debba essere o l’uno o l’altro delle due sferetitolari delle cure: o quella esperienziale, fin quando i problemi giaccionoinosservati nel mondo della vita, al di fuori del raggio di consapevolezzadelle apposite istituzioni di cura, oppure si debba coinvolgere la sferaesperta, quando i problemi emergono con tale evidenza da richiamareappunto un trattamento formale. Si pensa sempre all’una o all’altra, di-sgiuntamente. I servizi tecnici sono concepiti per supplire o sostituire gliinteressati, con questi ultimi pronti a riprendersi ancora il problema quandoil servizio coinvolto gettasse la spugna, ma sempre in attesa di trovare poi,prima possibile, un’altra organizzazione disposta ancora a farsi carico dasola del problema e così via. Ognuno di questi mondi — il «mondo 1»esperienziale e il «mondo 2» tecnico — è tendenzialmente in sospeso tra ilfare tutto e il fare niente, tra l’espropriazione e la delega. La teoria relazio-nale ci permette di immaginare, riprendendo la famosa metafora di Popper,

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4. A.H. Collins e D.L. Pancoast, Natural helping networks, Washington, NASW, 1976;C. Froland et al., Helping networks and human services, Berverly Hills, Sage, 1981.

un «mondo 3» più adeguato, il mondo prodotto dalla coniugazione deiprimi due, sottesa al quale c’è per l’appunto un’idea chiara di «benecomune».

Abbiamo detto qui in vari modi che la soluzione è una dinamica. Ciòvuol dire che l’azione congiunta è per definizione insufficiente al tempoiniziale (t0) in cui il problema diviene formalmente accertato. Non solo, maanche che assai improbabilmente diverrà sufficiente solo un istante dopo incui l’esperto entra in contatto con la situazione difficoltosa, attraverso larelazione-guida. Pertanto, la rete congiunta dovrà crescere — appunto:dovrà sviluppare una dinamica — per un tempo indeterminato fino aquando il compito risulti fronteggiato adeguatamente (il che non semprevuole dire ottimalmente).

I concetti chiave sono quelli di guida e di crescita. Ci chiediamo: in cosasi esplica l’azione di guida dell’operatore affinché la rete, dentro cui c’èanche lui stesso, possa crescere? E in cosa consiste questa crescita recipro-ca della rete e dell’esperto? Per rispondere a queste domande è utilecompiere un ulteriore lavoro analitico attorno al concetto di «rete naturaledi aiuto».

2.1. La rete naturale di aiuto: uno sguardo al suo interno

L’idea del lavoro di rete come «relazione al lavoro con altre relazioni»ci porta a chiederci che cosa siano queste «altre relazioni» di cui si parla.Più sopra le abbiamo chiamate anche «relazioni naturali» o «reti naturali diaiuto» (natural helping networks).4 In generale, la rete naturale è ciò cheappare come controparte dell’osservatore, nel senso di essere ciò che lui sitrova di fronte quando per la prima volta guarda gli interessati nel lorofronteggiamento sul compito.

Definiamo «naturali» le relazioni di aiuto che preesistono in situazione,nell’ambiente dato di fronteggiamento, vale a dire relazioni che ci sono giàprima dell’intervento dell’operatore nei loro confronti, cioè prima chequelle relazioni entrino globalmente in rapporto con chi farà loro da guidaintenzionalmente. Si tratta di relazioni spontanee, nel senso di non essereappunto condizionate da qualcuno. (Quando questo succede, cioè quandoun operatore modifica volutamente l’assetto o l’andamento di una rete,essa non è più naturale ma diviene «formale» o «lavorata»). Le relazioninaturali possono essere primarie, cioè esserci sempre state, non solo (a)prima dell’intervento dell’operatore ma anche (b) prima dell’insorgere del

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5. La tradizionale visione sociologica definisce primarie quelle relazioni che uno trovaalla nascita già precostituite o che coltiva da tempo nel proprio ambiente di vita, findall’infanzia o altro (cfr. M. Bulmer, Le basi della community care, Trento, Erickson, 1992).In tal senso la rete primaria coincide con l’intera rete sociale storica di una persona. In questotesto noi definiamo le relazioni in riferimento al compito o al fronteggiamento, e inparticolare in riferimento al tempo in cui il problema si impone alla percezione.

problema.5 Oppure possono essere secondarie, cioè relazioni che sponta-neamente si attivano in conseguenza del problema. Le relazioni naturali siaprimarie che secondarie possono essere informali, relazioni tipiche delmondo della vita, e formali, cioè relazioni sostenute da uno specifico ruolodi aiuto. Esemplifichiamo:

Daniela, l’assistente sociale di un Comune, è chiamata a seguire da vicino una famigliacomposta da papà, mamma e tre figli, che non riesce più ad andare avanti. Da due anni lamamma ha ricorrenti crisi psichiatriche, e ora i familiari non ce la fanno più. Quando hannoincominciato a verificarsi gli episodi della malattia, la rete della donna, e della famiglia, siè in parte trasformata. Fra tutti i parenti, i conoscenti, gli amici, i vicini della mamma, di tuttala sua numerosa rete sociale, l’assistente sociale trova impegnati nell’aiuto, oltre ai familiari,una sorella e una nipote, la negoziante di pane e latte che è anche sua amica, la vicina difronte, il parroco e il medico condotto.

Questa è la rete naturale di aiuto primaria, ossia, come si diceva,preesistente all’insorgenza del problema.

Subito dopo la prima crisi, la famiglia si è rivolta al medico che ha provveduto alricovero della donna. Da quel momento è stata presa in cura in particolare da un «aiuto» delServizio psichiatrico e da un’infermiera, che l’ha seguita poi anche a domicilio. Tramite ilServizio la famiglia ha conosciuto un volontario di un’associazione assistenziale, che ditanto in tanto dà una mano. Frequenta anche da qualche tempo un day hospital o centrodiurno, dove è seguita da educatori: qui ha conosciuto due altre pazienti e i loro familiari.

Questa è la rete di aiuto secondaria, composta anche in questo caso darelazioni formali, ad esempio il medico psichiatra, l’infermiere, gli educa-tori professionali, e relazioni informali, cioè gli altri pazienti e i lorofamiliari.

Con l’insorgenza del problema — che può essere improvvisa, come inquesto nostro esempio, oppure progressiva — la rete di interessati iniziasempre un movimento di adattamento spontaneo. Un movimento chelascia intravvedere, «sopra» la più estesa rete sociale — sopra le normalirelazioni di tutti i giorni già in essere — una più circoscritta rete di aiuto.Le relazioni subiscono come una sorta di selezione darwiniana: quelle ingrado di farsi in qualche misura più impegnative, più coinvolte, più orien-tate coscientemente o meno alla gestione del compito nuovo che si èdeterminato, quelle rimangono nella situazione e per l’appunto la fronteg-giano. Diciamo «rimangono nella situazione» perché l’insorgenza di pro-blemi consistenti in genere crea un fenomeno di allontanamento di quelle

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persone che, pur facendo parte di quella rete sociale, non intendono o nonsono in grado di coinvolgersi nell’aiuto. Ciò può verificarsi anche per laconcomitante chiusura su se stesso del nucleo più interno della rete, adesempio la famiglia. Da un altro lato, il movimento spontaneo della reteesistente porta al suo stesso allargamento. Nel caso considerato, portaall’incontro con l’ambiente della psichiatria, sia quello specialistico chequello di volontariato, da cui si staccano varie relazioni di secondo livelloche si incastrano nella rete preesistente e la integrano in qualche misura.6

Tecnicamente siamo soliti indicare come rete naturale di aiuto questo«ammasso» di azioni in fronteggiamento, ma ora dobbiamo distinguere. Edistingueremo appunto ora tra reti statiche a bassa densità di connessionee reti dinamiche ad alta densità di connessione. Le seconde sono reti chepossono essere ritenute tali anche secondo il punto di vista dei soggetti chele compongono: la rete esiste anche nella coscienza della rete stessa. Leprime sono reti che possono essere invece ritenute tali o dal punto di vistadi un unico elemento della rete o da quello di un osservatore esterno.

2.1.1. Reti naturali a bassa o nulla connettività

Immaginiamo la seguente situazione.

Una giovane insegnante, Daria, vive sola in una città in cui si è trasferita da due anni.Non ha amici e, a causa del suo carattere riservato e scontroso, solo una collega di tanto intanto la va a trovare, con qualche titubanza. Ha contatti con la mamma a casa e con unfratello. Da tre mesi è in malattia quasi costantemente a causa di una forte depressione. Vededi tanto in tanto il medico di base — per i certificati di malattia e per qualche parola diincoraggiamento — uno psichiatra da cui è in terapia privata, ogni tanto riceve qualchetelefonata da casa e qualche visita o qualche telefonata dalla sua collega.

Che rete di aiuto è questa? È una rete in cui le varie persone coinvolteassolvono ciascuna una qualche funzione, ma senza che vi sia connessionediretta e quindi qualsiasi tipo di integrazione, funzionale o psichica, ecc.Non entriamo nel merito se la rete di cui parliamo sia «sufficiente» o menorispetto al compito (il sostegno a Daria). Diciamo solo che strutturalmentela rete è frammentata e tenuta assieme dall’unico punto di mediazione cheè Daria. Un qualche tipo di azione comune c’è dal punto di vista diquest’ultima, che integra in sé i tanti interventi separati, oppure dal punto

6. Va fatta attenzione a non confondere le singole relazioni formali (al plurale) con la reteformale nel complesso. Per rete formale intendiamo non una rete che abbia al suo internoanche delle relazioni formali (professionali), bensì una rete che esiste formalmente come talein quanto un esperto la «seleziona» e entra in relazione con essa, svolgendo il lavoro di rete.Una rete formale è l’opposto di una rete naturale, mentre in una rete naturale a tutti gli effetti,cioè in una rete non guidata, ci possono essere relazioni formali, anzi essa potrebbe essereanche tutta costituita da relazioni di quel tipo.

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di vista di qualcuno che può cogliere dall’esterno quel tipo di integrazione.Dall’interno manca la giusta visuale per un’osservazione di sintesi. Ilneuropsichiatra sa solo ciò che fa lui e ignora o trascura di fatto l’esistenzadegli altri elementi della rete. Lo stesso per la mamma a casa o il medicocondotto o la collega, ecc. Ogni persona è a sé, ma il fatto di essere tutte inqualche modo collegabili allo stesso compito permette comunque di con-siderarle in linea logica una rete.

Un osservatore vede che il compito di «sostenere Daria nel momentodifficile» è di fatto ripartito tra quattro elementi, due formali e due informa-li, che si muovono individualmente, reagendo ciascuno al compito — cioèdi fatto alla loro relazione con Daria — in base alla propria competenza esensibilità individuale. La loro singola azione può essere influenzata inqualche modo dagli altri elementi della rete, ma solo indirettamente, per iltramite di Daria. Ad esempio, se il neuropsichiatra sbagliasse un farmaco,la mamma da casa dovrebbe stare più del solito al telefono a consolarla, ilmedico condotto dovrebbe forse decidere di prolungare il suo certificato dimalattia e così via.

Questa è una rete senza connessioni laterali dirette: è una rete di aiutoa bassa densità di connessioni e può essere rappresentata come nella figura8.2. Le persone in altre parole non si ritrovano mai — né a due a due, né treper volta, né tutte assieme — per parlare tra loro, per confrontarsi, pervalutare strategie comuni e così via. Non vi è quindi produzione relaziona-le. Le azioni dei singoli non si coniugano né cambiano per effetto delleinterazioni dirette o di eventuali accordi e così via. Cambiano solo inrisposta al compito e alle sue modificazioni nel tempo. È quindi una rete«frammentata» che, ripetiamo, è comunque opportuno continuare a chia-

Persona 1 Persona 2 Persona 3

Compito

Fig. 8.2 Rete di aiuto a connessione nulla (densità zero).

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mare sempre «rete», per effetto della indiretta comunanza delle personecon il compito e quindi con la persona che lo incarna (in questo caso,Daria). Ovviamente la frammentarietà strutturale rallenta il diffondersidell’innovazione nella rete e impedisce la dinamica della creatività relazio-nale, cioè l’emergere di soluzioni o adattamenti condivisi.

Dal punto di vista pratico, una rete frammentata può essere tuttavia unarete efficiente. È così qualora i singoli pezzetti di compito siano tutticoperti da azioni o iniziative individuali pertinenti. Non è efficiente ovvia-mente, come spesso capita, quando questo patchwork non riesce, cioèquando rimangono dei buchi o i singoli interventi si sovrappongono, ecc.È più facile che una rete di questo tipo risulti efficiente quando il compitonon cambia nel tempo e i tanti singoli che agiscono separatamente hannocosì modo di prendere le misure esatte del loro pezzetto di compito,divenendo così qualcosa di simile a un «sistema». Nei momenti di crisi,quando si verificano improvvise variazioni di assetto della situazione, unaentità di questo tipo ha stretti margini di apprendimento. Ciascuna personaè sollecitata a cambiare, e però il suo cambiamento risponde solo a logicheproprie, cosicché è spesso insufficiente o disfunzionale rispetto alla logicacomplessiva della situazione.

2.1.2. Reti naturali a connettività totale

In pratica, le reti a totale frammentazione, come è quella rappresentatanella figura 8.2, sono piuttosto rare. Lo schema indica un idealtipo, unapossibilità più teorica che reale. Così come è idealtipica una rete naturaleche, di fronte a un compito, operi a piena connessione, come si vede nellafigura 8.3. Si vede qui come ogni azione di ogni singolo sia attraversata emodificata dai reciproci contatti, cioè da azioni di altri singoli nella rete. Isingoli hanno diretta connessione, e ne esce un senso congiunto delle cosee un’azione comune, un insieme di tante azioni superiore alla loro aritme-tica sommatoria.

L’idea dell’azione congiunta o dell’azione comune, che si crea pereffetto dei processi integrativi all’interno di una rete naturale, si cogliemeglio con qualche precisazione. Dobbiamo distinguere in particolare tradue componenti essenziali dell’azione, che già conosciamo: la componen-te psichica interna, cioè la parte cognitiva/emotiva, e la componente ope-rativa esterna, cioè i concreti atti comportamentali che la «eseguono» difatto. Rispetto a un compito, la prima componente ci fa pensare a un rangedi processi psichici che va ad esempio dalla produzione del senso dell’azio-ne fino a più specifici atti di valutazione o di presa di decisione, ecc. Lapsiche dei molteplici soggetti coinvolti — le emozioni, i pensieri, ecc. —

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TABELLA 8.1

Sintesi dei concetti

Rete naturale di aiuto Insieme di azioni sul compito preesistenti all’in-tervento dell’operatore che fa lavoro di rete.Detta anche «ambiente naturale del compito»per intendere il contenitore entro cui il compitoha il suo primo impatto o entro cui si organizzail fronteggiamento spontaneo.

Relazioni primarie naturali Relazioni naturali del mondo vitale quotidianoche, alla comparsa del compito, si selezionanoe persistono come relazioni di aiuto. Relazioniesistenti prima dell’insorgere del problema difronteggiamento, e che mantengono svariatealtre funzioni. Tali relazioni possono essere an-che formali, cioè con professionisti del welfaregià coinvolti nella rete sociale, per problemidifferenti da quello considerato.

Relazioni secondarie naturali Relazioni naturali che si attivano successiva-mente all’insorgere del problema di fronteggia-mento. In un sistema articolato di welfare, que-ste relazioni possono essere formali, con profes-sionisti o volontari noti per occuparsi del pro-blema considerato, oppure informali (ad esem-pio, di mutuo aiuto spontaneo).

Relazione-guida Relazione tra la rete naturale di aiuto e un esper-to che fa lavoro di rete, cioè colui che, contraria-mente a eventuali altri professionisti già coin-volti che erogano prestazioni specialistiche, sipone come interlocutore e integratore del fron-teggiamento complessivo della rete. Relazioneche non solo aggiunge un nodo in più alla reteesistente, ma che anche la collega globalmentecon l’ambiente esperto al suo esterno, toglien-dole la sua naturalezza (facendola divenire unarete formale).

Rete formale di aiuto Insieme di relazioni naturali che si sono riorga-nizzate o attivate in seguito alla guida di unesperto, cioè in seguito a un intenzionale lavorodi rete.

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7. Si distingue in genere tra «reti di mutuo aiuto» e «gruppi di mutuo aiuto» per segnalarela differente natura spazio-temporale. La rete di mutuo aiuto è fatta di persone che, avendolo stesso problema, si aiutano in momenti, circostanze e luoghi diversi, mediante interazioniseparate. Il gruppo di mutuo aiuto è fatto di persone con lo stesso problema che si ritrovanofisicamente assieme (cfr. L. Farris Kurtz, Self help and support groups; A handbook forpractitioners, London, Sage, 1996).

può essere efficacemente raccordata e potenziata attraverso le interazioni.A rigore, lo stesso non può dirsi per la componente operativa dell’azione,cioè per i concreti comportamenti finali, i quali rimarranno sempre staccatiper definizione, cioè sempre in capo a ogni singolo isolatamente. Solo sepensiamo a qualcosa di simile a un… tiro alla fune possiamo immaginaretante singole azioni ridotte di fatto, alla fine, ad una sola.

In genere l’agire effettivo sul compito di ciascun elemento della rete èsempre fisicamente separato. L’unica cosa che si può fare è solo disquisire,osservando dall’esterno, se ci sia, tra l’uno e l’altro, una qualche oggettivasincronia, seppur dispersa nello spazio/tempo. Invece le attività intellettua-li di decision making (decidere, soppesare e valutare ipotesi ecc.) cosìcome l’atto del sentire e dell’emozionarsi, possono divenire un processorealmente accomunato, cosicché l’azione eventuale è il frutto congiuntodell’interazione. Il substrato cognitivo delle singole azioni, e anche quelloemotivo, possono essere facilmente interrelati, anche se poi l’azione effet-tiva, all’atto pratico, può disperdersi e camminare sulle differenti gambe diciascuno all’interno della rete. Affinché vi sia un buon raccordo psichico,la rete naturale deve esistere fisicamente: le persone che la costituisconodevono ritrovarsi assieme hic et nunc, in uno spazio/tempo puntuale, cometipicamente avviene ad esempio nei gruppi di mutuo aiuto,7 che si ritrovanosempre in una sede fissa, a un tal giorno e ora, una volta alla settimana oogni due, eccetera.

Fig. 8.3 Rete di aiuto ad alta connessione.

Persona 1 Persona 2 Persona 3

Compito

raccordo cognitivo/emotivo