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1. Caratteri generali dell'agricoltura medievale

1. La società medievale, società agricolaAncora all’inizio del Trecento, quando una profonda rivoluzione commerciale aveva reso l’Europa molto diversa da quella che era al tempo di Carlomagno o al tempo degli Ottoni, l’agricoltura rimaneva l’attività economica predominante nel continente e forse i nove decimi degli abitanti erano lavoratori agricoli. La società medievale poggiava su basi rurali e, fra tutti i lavoratori, era in primo luogo il contadino a rendere possibili con la sua umile attività le più alte realizzazioni intellettuali e culturali. Ciò non vuol dire che proprio tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento questo compatto panorama rurale non apparisse ormai differenziato e qua e là non si fossero affermati dei poli di più intensa attività commerciale, bancaria, industriale. Zone in cui la popolazione concentrata in città e non addetta all’agricoltura appariva particolarmente alta rispetto al resto del continente erano le Fiandre, il bacino parigino, la Toscana. Per quest’ultima regione la percentuale degli addetti all’agricoltura di cui abbiamo parlato andrebbe, ad esempio, sensibilmente abbassata. Per l’Inghilterra, al contrario, c’è chi pensa che verso la fine del Trecento l’industria della lana, che pur segnava nel regno, proprio in quegli anni, una rilevante espansione, doveva occupare, a pieno impiego, meno dell’uno per cento della popolazione. Abbiamo preso le mosse dalla fine del Medioevo proprio per sottolineare meglio come ancora in questi secoli di espansione mercantile e manifatturiera, di relativa «urbanizzazione», le strutture portanti della società siano strutture rurali. Quasi tutti i prodotti oggetto di scambio, sia elaborati che allo stato grezzo, provengono dalla coltivazione o dall’allevamento. Foreste e agricoltura offrono quasi tutte le materie prime da elaborare, perché nel complesso ancora bassa è l’importanza dei metalli nella vita economica. Quella che potremmo chiamare l’industria «pesante» del tempo, cioè l’industria della lana, è legata all’allevamento degli ovini. I boschi forniscono combustibili e materiali con cui costruire, del tutto o in parte, abitazioni, navi, telai, attrezzi agricoli, utensili artigianali.2. Debolezze e «scoperte» dell'agricolturaI successi o gli insuccessi dell’agricoltura sono connessi – nel Medioevo molto più di ora – alle condizioni dell'ambiente naturale: clima e natura del suolo. Due diversi tipi di rilievo dividono grosso modo il continente lungo una linea est-ovest. La maggior parte della Spagna, la Francia sud-orientale, la Svizzera, la maggior parte dell’Italia – eccettuata la Valpadana – la Grecia, la penisola balcanica al di sotto dei Carpazi ed escluso il bacino danubiano comprendono regioni montagnose o generalmente al di sopra dei 500 metri sul livello del mare. Al nord, invece, a partire dall’Inghilterra meridionale e dalle coste occidentali della Francia, si stendono fino agli Urali e al Caucaso vasti bassopiani, raramente al di sopra dei 200 metri. Su entrambe le zone la media annua delle precipitazioni si situa tra 500 e 1000 millimetri. Uniformità questa, tuttavia, solo apparente. Le precipitazioni sono infatti utili all’agricoltura solo se adeguatamente distribuite nel corso dell’annata, ciò che avviene solo nella grande pianura europea. I venti prevalenti nell’Europa occidentale, che spirano da occidente, vi portano aria addolcita dall’influenza dell’Atlantico e contribuiscono a rendere eccezionalmente mite il clima della regione. Nella grande pianura la piovosità è regolarmente distribuita, le estati sono piovose, la temperatura moderata. La piovosità del quadrimestre giugno-settembre si aggira sui 230 millimetri a Londra e sui 250 millimetri a Berlino. Singolare contrasto con i 130 millimetri di Roma o i soli 60 di Lisbona nello stesso periodo dell’anno. Le regioni meridionali, tagliate fuori dall’influenza climatica dell’Atlantico, durante la stagione estiva mostrano un regime pluviometrico completamente diverso da quello delle pianure del nord. Nell’Italia peninsulare e lungo la costa dalmata la piovosità si accentua in due stagioni, quella autunnale e quella primaverile. Mano a mano che si scende in ambiente più francamente mediterraneo, le estati sono sempre più secche. La siccità estiva domina anche nella penisola iberica, sebbene la media delle precipitazioni vari notevolmente passando dal nord-ovest atlantico al sud-est mediterraneo. Anche la natura del suolo nelle varie zone d’Europa risente delle diverse condizioni climatiche oltre che delle diverse condizioni orografiche. Nelle regioni mediterranee i terreni sono leggeri e generalmente secchi. Dato che il clima è caldo, l’evaporazione dell’acqua superficiale è particolarmente forte, così che il contenuto minerale del suolo non può essere disciolto. Sui ripidi pendii, invece, il rapido deflusso delle acque provoca un dannoso processo di erosione. Al nord, le «terre brune» della grande pianura europea sono sufficientemente profonde, pianeggianti e più ricche di humus. Con una opportuna aggiunta di sali minerali risultano molto adatte a una coltivazione intensiva. A oriente, nelle «terre nere» della Russia, ricche, oltre che di humus, anche di calcio, il suolo è naturalmente fertile. Su questi terreni così diversi domina nel Medioevo una agricoltura di carattere spesso «estensivo», nonostante diversità notevoli tra zona e zona. Probabilmente in nessun settore della vita medievale come in quello agricolo una delle tipiche caratteristiche della mentalità del tempo, cioè l’orrore della novità, ha agito con maggiore forza antiprogressista. Innovare doveva apparire talvolta una mostruosità, un peccato. Per molti secoli il Medioevo occidentale non ha avuto nessun trattato tecnico, perché l’elite culturale giudicava tali cose indegne di essere scritte. Ancora all’inizio del XII secolo il monaco tedesco Teofilo, pur autore di un’opera intitolata Diversarum artium Schedula, si preoccupa più di dimostrare che l’abilità di un tecnico è dono di Dio che di istruire artigiani e contadini. Diverso invece (ma siamo all’inizio del XIV secolo) l’atteggiamento del bolognese Pier de’ Crescenzi, che con il suo Liber ruralium commodorum si riallaccia alla illustre tradizione degli agronomi romani. Le conseguenze del mediocre equipaggiamento tecnico si fanno sentire in primo luogo nel settore agricolo. La terra è avara perché gli uomini sono incapaci di trarne tutto il profitto possibile. L’attrezzatura è rudimentale, le arature, poco profonde, la terra lavorata male. L’aratro antico, a vomere simmetrico di legno temperato al fuoco o rivestito di ferro, adatto ai suoli superficiali e accidentati delle regioni mediterranee, persiste a lungo anche dove la sua funzionalità è chiaramente discutibile. Senza dubbio la comparsa e la diffusione dell’aratro a vomere dissimmetrico e a versoio, con l’avantreno mobile, munito di ruote, tirato da un attacco più vigoroso, rappresentò per le pianure europee un notevole progresso. Tuttavia i tentativi di miglioramento dell’aratura sembrano identificarsi più con una ripetizione del lavoro nel corso dell’annata agricola che con un perfezionamento degli attrezzi. Si diffonde poco a poco in certe regioni, al più tardi intorno al XII secolo, l’abitudine di arare due volte la parte di terra lasciata annualmente a riposo. Più comunemente tuttavia l’aratura, doveva essere fatta una sola volta prima della semina. Che essa fosse talora molto superficiale risulta anche da una miniatura inglese della prima metà del Trecento, dove si vede che le zolle venivano frantumate a mano con una mazza. La terra, scavata, rimossa malamente, avrebbe potuto ricostituirsi solo con l’impiego ripetuto di sostanze fertilizzanti. Ma l’agricoltura medievale rivela, anche per questo aspetto, la sua arretratezza. Il concime più conosciuto e utilizzato era naturalmente il letame. E quello di capre o suini che vivevano nella foresta, dei greggi che pascolavano la maggior parte del tempo all’aria aperta, andava in gran parte perduto. Per i grossi capi risulta che molto spesso le comunità agricole non erano in grado di nutrirne un gran numero. In certe zone più intensamente popolate e coltivate si può chiaramente notare poi, negli ultimi secoli del Medioevo, un conflitto aperto tra agricoltura e allevamento brado del bestiame. Ma in qualche caso ciò non

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significava necessariamente una più bassa disponibilità di letame per le terre a cultura. In Toscana anzi, ma probabilmente anche altrove in Italia, i proprietari fondiari cittadini intervenivano con i loro capitali anche nella dotazione di bestiame da lavoro dell’azienda rurale o comunque, magari a dure condizioni, ne favorivano l’acquisto da parte dei contadini. Stabulati in un apposito ambiente della casa rurale, o in una vicina capanna, due buoi o un paio di vacche, un’asina, dieci o quindici pecore potevano talvolta fornire un concime sempre insufficiente, ma comunque interamente utilizzabile. Conseguenza di tutte queste deficienze organiche dell’agricoltura medievale è che la terra, lavorata male e poco arricchita, tende di regola a esaurirsi presto ed è necessario lasciarla riposare perché si ricostituisca. Ma è opportuno precisare subito che anche il Medioevo ebbe le sue scoperte e conobbe dei progressi. Il più notevole riguarda proprio la parte di terra da lasciare ogni anno a riposo, la sostituzione cioè della rotazione biennale con la rotazione triennale. Nel sistema di rotazione biennale, l’unico conosciuto dai romani, circa metà della terra veniva seminata con cereali d’autunno, mentre l’altra metà veniva lasciata a riposo («maggese»). Il secondo anno le funzioni tra le due porzioni si invertivano. Nella rotazione triennale la superficie arabile era invece divisa in tre parti. Una di queste veniva seminata in autunno con frumento e segala. Nella primavera successiva veniva seminata invece la seconda porzione con avena, orzo, piselli, ceci, lenticchie o fave. La terza porzione di terra arabile era lasciata a maggese. Nell’anno successivo la prima porzione veniva seminata con colture primaverili, la seconda rimaneva a maggese, la terza riceveva grani d’autunno. Quando, a partire almeno dal XII secolo, si cominciò, sia nella rotazione biennale che in quella triennale, ad arare due volte il maggese invece che una come si era fatto nell’VIII-X secolo alla fine di giugno, per eliminarne meglio le erbe e aumentarne la fertilità, la rotazione triennale vide crescere la sua produttività. Lynn White calcola, in modo chiaro ma un po’ astratto, che dei contadini che avessero da coltivare 600 acri a rotazione biennale e arassero due volte il maggese, avrebbero arato ogni anno 900 acri (300 + 600) per soli 300 messi a coltura. Utilizzando invece gli stessi 600 acri a rotazione triennale e arando due volte il maggese, essi avrebbero arato ogni anno 800 acri (200 + 200 + 400) per 400 di seminativo. L’incremento della produzione, con la nuova rotazione, sarebbe già stato di un terzo. Ma dato che il mutamento riduceva 100 acri di aratura ogni anno, si sarebbero potuti aggiungere, senza lavoro ulteriore, 75 acri (25 + 25 + 50), nel caso che ci si fosse potuta procurare con la bonifica o il diboscamento nuova terra da seminare. Gli stessi contadini sarebbero stati così in grado di coltivare, in luogo di 600, 675 acri dei quali 450 seminativi. Rispetto ai 300 della rotazione biennale il vantaggio del nuovo sistema sarebbe stato del 50%. Fra i molti vantaggi della nuova rotazione c’era quello della facilitazione data ai nuovi dissodamenti, all’abbattimento delle foreste o al prosciugamento dei terreni paludosi. Un altro, forse non meno notevole, fu, nella grande pianura europea, la sostituzione del cavallo al bue nel lavoro dei campi. Il primo, già migliorato nelle razze per l’uso militare che ne faceva l’aristocrazia, era allora nettamente più forte e resistente del secondo, le cui razze erano molto lontane dal perfezionamento e raffinamento raggiunto più tardi. Mentre il bue consuma erba, il cavallo consuma avena e solo la rotazione triennale – l’avena è una coltura primaverile – permetteva di produrre la biada necessaria per i cavalli. Altre notevoli innovazioni di quella che è ormai consuetudine fra gli studiosi chiamare una vera e propria «rivoluzione agricola» riguardarono il miglioramento della trazione animale, che rese più efficace l’unione dell’aratro. Per il cavallo, al pettorale che soffocava la bestia togliendole forza, venne sostituito il collare di spalla. Per il bue entrò nell’uso il giogo frontale. Lo sforzo diventa così molto più efficace, la forza di trazione ne risulta enormemente accresciuta. Inoltre l’uso, che ora (X-XI secolo) si diffonde, di ferrare gli zoccoli del cavallo ne rende più sicuro e più spedito il passo. Per calcolare l’incidenza economica di una «scoperta» è necessario studiarne l’espansione geografica. Da Plinio veniamo solo a sapere che nel I secolo la coltura dei cereali di primavera era eccezionale nella regione di Treviri. Poi la rotazione triennale compare improvvisamente alla fine dell’VIII secolo, con notizie databili al 763, 783, 800. Data la povertà della documentazione non si può affermare, naturalmente, con assoluta sicurezza che essa non fosse già abbastanza diffusa nella Gallia del VII, del VI o anche del V secolo, al tempo dell’impero, quando si ebbero anche altre innovazioni tecniche. D’altra parte, ancora in pieno Trecento, la rotazione triennale era lontana dall’esser diventata generale anche nelle zone pianeggianti dell’Europa – Inghilterra, Francia a nord della Loira, Germania, parte dei Paesi Bassi – che si presentavano come il terreno ideale per le loro condizioni climatiche. Troppo alto è sempre il peso dei fattori demografici, economici, o anche genericamente «culturali», perché si possa tutto ricondurre alle caratteristiche dell’ambiente naturale. Ciò non toglie che nelle regioni mediterranee furono in primo luogo le condizioni climatiche e la minore fertilità del suolo a rendere impossibile l’adozione del nuovo sistema e a mantenervi, sostanzialmente inalterata, la rotazione biennale dell’antichità. Nell’arretrata e conservativa Sardegna gli stessi termini diaradorias e di agrile, di vecchia tradizione romana, sono una spia sicura dell’antichità del sistema.3. Il ruolo delle carestie e il mito dell’autarchiaLe vicende climatiche, una siccità eccezionale o una eccessiva piovosità o un freddo troppo intenso, le sempre possibili variazioni insomma del clima che di regola si registra in una determinata regione, rendevano un’agricoltura scarsamente tecnicizzata e rudimentale come quella del Medioevo preda continua dei capricci della natura. La carestia, dati i bassissimi rendimenti della semente, era una presenza ricorrente, anche perché il sistema di circolazione dei cereali era spesso difficoltoso, mentre le capacità di conservazione delle scorte negli anni di più alta produttività erano molto ridotte. Sulle carestie medievali, nonostante il continuo avanzamento della ricerca, le nostre conoscenze sono in verità ancora approssimative. In ogni modo «gli annali carolingi registrano accuratamente le epidemie, le carestie e le epizoozie e parlano di questi mali più spesso che delle battaglie» (J. Dhondt). Pare tuttavia che i progressi agricoli abbiano diradato, dopo il primo terzo dell’XI secolo e per più di duecento anni, le grandi carestie generali. Nondimeno l’irregolarità dei raccolti, connessa indissolubilmente all’agricoltura del tempo, nei secoli XI e XII «portava qua e là la penuria, e turbe di affamati, in cerca di soccorsi alimentari, premevano periodicamente alla porta dei monasteri ». Per queste comunità « l’elemosina aveva carattere istituzionale» e assolveva nel contempo «ad una regolare funzione, economica» (G. Duby). I monaci di Saint-Benoît-sur-Loire nutrivano annualmente da cinquecento a settecento mendicanti. Il grandissimo monastero di Cluny divideva ogni anno, all’inizio della Quaresima, duecentocinquanta maiali salati fra sedicimila poveri. È significativo che per la parte opposta dell’Europa, cioè per un territorio meno densamente popolato di molte regioni occidentali o meridionali e ricco di cereali, la Cronaca di Novgorod registri, per il XII e XIII secolo, copiose notizie sugli alti prezzi dei cereali, sui cattivi raccolti, sull’insufficienza dell’approvvigionamento, sulle carestie ricorrenti. Si capisce come il mito dell’autarchia e dell’autosufficienza domini il mondo rurale. Certamente, e lo si è osservato (J. Le Goff), nelle grandi proprietà – in pieno Medioevo – il mito dell’autarchia non è solo la conseguenza di una precisa realtà economica e di una società continuamente sull’orlo della catastrofe alimentare, ma anche di una precisa forma mentis. Ricorrere all’esterno, non produrre tutto ciò di cui si ha bisogno non è solo, per la classe signorile, una dimostrazione di debolezza, ma è anche, soprattutto, un disonore. Nel caso delle proprietà monastiche evitare qualsiasi contatto con l’esterno è conseguenza diretta dell’ideale spirituale della solitudine, essendo l’isolamento economico condizione della purezza

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spirituale. Ma tutto questo è assai meno valido, ad esempio, per le campagne toscane del Tre-Quattrocento, per una regione cioè largamente servita dalle più intense correnti commerciali del tempo e perciò teoricamente in grado – e in pratica questo avveniva – di far affluire grano dall’estero. Eppure nelle campagne toscane di quest’età il contadino, il «mezzadro», vuole nel suo podere in primo luogo il grano di cui sfamarsi, poi, un gradino più sotto, il vino, poi l’olio, poi, se possibile, qualche pecora, qualche maiale, polli e piccioni. E quel che è più significativo, questo desiderio, lontano dall’essere combattuto dai proprietari cittadini delle terre su cui i mezzadri lavorano, viene da loro programmaticamente incoraggiato. Infatti la borghesia cittadina, sui cui ideali mercantili, sulle cui capacità affaristiche si sono scritte tante pagine brillanti e precise, mira in fondo ancora, non troppo diversamente dal signore laico o ecclesiastico di qualche secolo prima, all’autosufficienza, alla sicurezza alimentare. Per cogliere questo lato fondamentale della vita medievale non ricorreremo a esempi eccellenti già fatti da altri. Ci accontentiamo di rimandare ancora una volta a tarde fonti toscane, di una regione cioè all’avanguardia nell’Europa tre-quattrocentesca. Si leggano in questa chiave le molte novelle del Sacchetti che parlano di solenni mangiate, di commensali che, posti intorno a un unico «tagliere», fanno a gara per mangiare più in fretta del compagno onde riservarsi una parte più consistente. Si leggano svariati episodi di quella raccolta divertentissima che sono i  Motti e facezie del piovano Arlotto. Quel buon arnese del piovano, un cuore generoso in fondo, deve continuamente provvedere a famiglie di contadini che non hanno grano in casa, che non hanno, qualche volta, neppure un pezzo di pane con cui mettersi a tavola.4. I rendimenti della terraUsciamo dal generico delle fonti narrative e cominciamo a vedere in base alle cifre quali fossero i rendimenti delle terre medievali, così mal coltivate, così poco concimate, così facilmente destinate all’esaurimento. Per l’alto Medioevo è difficilissimo reperire dati di questo tipo nella scarsissima documentazione esistente. Ma qualcosa gli specialisti sono riusciti a rintracciare. C’è chi parla, per la Francia del IX secolo, di rese della semente del 2,2 per 1 come di un livello già rispettabile. Per l’Italia, in alcune corti del monastero di San Tommaso di Reggio, si è potuto constatare che almeno nelle terre «dominiche» la redditività della terra era nel secolo X un po’ più alta, variando il prodotto da poco più o meno del doppio della semente a pressappoco il triplo della stessa.« Colpiscono, però, le forti variazioni intercorrenti fra un possesso e l’altro ». A Zeola, l’attuale Sciola di Tizzano, nella montagna parmense, si registra la resa minima: 1,7. Ad Inciola, l’odierna Enzola, nella bassa pianura reggiana, la resa massima: 3,3 per 1. Ragioni climatiche e pedologiche stanno alla base del fenomeno. In Emilia, infatti, «il territorio più adatto alla coltivazione del grano è la bassa pianura, soprattutto quella più vicina al Po. Dopo viene l’alta pianura. Collina e montagna sono ben lontane dall’offrire alla coltura dei cereali i vantaggi delle due prime zone. Infatti, tranne la nebbia, che favorisce la ruggine del frumento, le altre caratteristiche della pianura emiliana sono propizie al grano: il freddo e la neve dell’inverno; l’aumento graduale della temperatura da gennaio a giugno, più regolare nella Bassa; la forte umidità dell’aria, che cresce a mano a mano che ci si allontana dall’Appennino e ci si avvicina al Po o al mare, e colla presenza di canali, stagni, paludi; la nebulosità del cielo, così frequente in quelle zone» (V. Fumagalli). Tutte le «scoperte» medievali alzarono, poco a poco, questi bassissimi livelli, che rimasero tuttavia sempre bassi. Nelle campagne di Neubourg, in Normandia, il rendimento medio del grano è attualmente del 20 per 1, ma fino all’inizio del XV secolo non pare superasse mai il 3,2 per 1. I rendimenti di Roquetoire, nell’Artois, dove il grano rese il 7,5 per 1 nel 1319, l’11,6 nel 1321, appaiono eccezionalmente alti per l’epoca. Gli agronomi inglesi del XIII secolo fissano come tassi di rendimento normali 8 per l’orzo, 7 per la segala, 6 per le leguminose, 5 per il frumento, 4 per l’avena. Slicher Van Bath, che ha riunito i dati raccolti da studiosi diversi per numerose proprietà, giunge però a dimostrare che nella realtà i rendimenti erano, nell’Inghilterra di quel secolo, sensibilmente più bassi: 3,8 per il frumento, 3,6 per l’orzo, 3,4 per la segala, 2,4 per l’avena, 3,4 per i piselli. In montagna le rese ovviamente si abbassavano. Nelle Alpi provenzali il grano pare rendesse, verso il 1340, il 4 per 1, ma nelle zone alte solo il 2 per 1. Per l’Italia disponiamo ancora di scarsissimi dati. Nelle terre di un mercante aretino si ebbero probabilmente, verso la fine del Trecento, rese del 5-7 per 1. C’è chi pensa che rese oscillanti tra l’8 e il 12 per 1 non fossero troppo lontane da quelle del Polesine o del Valdarno nel Quattrocento, considerate zone fertili. Normale in altre regioni doveva essere una rendita del 3-6 per 1 e forse non si andava lontani da una media del 4 per 1.

2. Gli uomini e lo spazio coltivato

1. Il regno della foresta e dell’incolto (V-X secolo)«Silva infructuosa roncare…», «et per lungo in silva quanto runcare potueritis de terra bona…». Queste espressioni, relative a monasteri e contadini della pianura padana, sono, nel loro sgrammaticato latino, emblematiche di lunghi secoli del Medioevo rurale. C’è chi ha suggerito scherzosamente, per questa lunga fase della storia europea, battezzata in cento modi diversi, anche la qualifica di «età della colonizzazione». Ma prima vediamo quale fosse la situazione di partenza. Nei primi secoli il paesaggio era dominato dalle foreste, che ricoprivano gran parte del continente. Nei paesi mediterranei, per la verità, il clima secco e il degradamento del suolo avevano in molti casi impedito che rinascessero i grandi boschi distrutti nell’antichità. Ma alcune zone della Spagna come il sud-ovest e l’Algarve, costituivano un’immensa pineta; in Italia il Piemonte era ricoperto di boschi; nella pianura padana una enorme foresta copriva, ad esempio, gran parte del territorio veronese, fra i fiumi Tartaro e Menago; «la palude, interrotta qua e là da fitte foreste, si stendeva uniforme su gran parte della frangia inferiore adiacente al Po…, conferendole un aspetto selvaggio» (V. Fumagalli). Il vero regno della foresta era comunque più a nord. Nella Gallia la conquista romana aveva dato il via a una intensa distruzione di foreste, soprattutto nella parte meridionale. Nelle regioni settentrionali, meno romanizzate, foreste ed economia forestale avevano alla fine dell’impero un ruolo molto importante. Più boscosa era alla stessa data la Germania. Tuttavia le foreste meglio studiate sono quelle dell’Inghilterra. Un fitto mantello ricopriva il Kent, il Sussex, l’Essex, l’East-Anglia. Gli alberi circondavano da presso anche la regione di Londra. Altre grandi distese esistevano un po’ ovunque. Lontana dall’essere abbandonata a se stessa, la foresta, almeno nelle zone più vicine ai nuclei abitati, occupava nella vita del tempo un posto economico di rilievo. Gli uomini la vedevano in modo abbastanza diverso da noi. I pinastri erano considerati alberi da frutto. Le pine erano particolarmente adatte per accendere il fuoco e in Provenza si facevano seccare i semi che servivano come cibo. L’albero più pregiato era tuttavia la quercia, che forniva ottimo legname da costruzione e cibo per i maiali. Legno pregiato era anche quello del castagno, i cui frutti fornivano in molte regioni la base dell’alimentazione. Nella foresta si potevano raccogliere i frutti, si poteva pescare negli stagni e cacciare la selvaggina. Lì si trovava il miele, unica sostanza edulcorante del tempo. Ma la foresta era soprattutto preziosa per il pascolo, particolarmente per quello dei maiali, ghiotti di faggiuole e di ghiande. La carne di maiale, il lardo soprattutto, era parte essenziale del nutrimento. Il legno infine, oltre che materiale da costruzione, era l’unica sorgente di calore contro il freddo invernale «che minacciava gli uomini nelle loro

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fragili capanne, spesso fatte solo di frasche intrecciate» (J. Dhondt). Studiare le fasi della colonizzazione agricola senza tener presenti le vicende del popolamento sarebbe procedimento discutibile. E in effetti la messa a coltura di nuove terre, cui si associa spesso la fondazione di nuovi villaggi, è da molti decenni uno dei metodi di cui gli studiosi si sono serviti per ipotizzare un incremento della popolazione a partire da un certo momento dell’alto Medioevo. Ma in quale secolo fissare il momento più basso? Negli ultimi secoli dell’impero, nel VI, nel VII o nell’VIII secolo? Manca una qualunque fonte che possa permettere di rispondere con precisione a questi quesiti. Tanto più è impossibile, per il lunghissimo periodo che va dall’agonia dell’impero alla fine del XIII o all’inizio del XIV secolo, stabilire fasi interne di durata relativamente breve (cinquanta, cento anni), durante le quali la tendenza generale si sia interrotta o accelerata. L’affermazione, ad esempio, che «un temporaneo incremento di popolazione si è senz’altro verificato tra il 750 e l’850» (G. Fourquin) e che «in seguito» si è avuto, almeno in certe zone, «un brusco arretramento», appare più un postulato che una certezza, almeno allo stato attuale della ricerca. Quale posto poi assegnare alla pandemia di peste del VI secolo, la «peste di Giustiniano», nelle vicende demografiche del continente? Lo stesso di quella del XIV secolo di cui parleremo più avanti? Tutto fa in effetti pensare che la sua incidenza sia stata notevole, anche se non disponiamo di dati numerici sull’entità delle vittime. Si può dunque supporre che il punto più basso nei livelli demografici sia da fissare proprio alla fine del VI secolo? Qualche studioso ha avanzato anche le sue ipotetiche cifre. Si capisce come su questo terreno gli errori, anche macroscopici, siano facili. Sarà perciò opportuno dare a queste cifre non altro che un significato di larghissima approssimazione. Secondo lo storico americano Josiah Cox Russell la popolazione dell’Europa — parte orientale esclusa — sarebbe scesa da 25.600.000 abitanti intorno alla nascita di Cristo a 18.800.000 prima del 543 e a soli 14.700.000 abitanti dopo il 600. La boscosa Germania — nei confini dell’odierna repubblica federale — non avrebbe avuto, secondo Wilhelm Abel, nel VI secolo, cioè dopo le grandi migrazioni, più di 600.000-700.000 abitanti, con una densità di 2,4 o 2,8 individui per chilometro quadrato. Sempre secondo il Russell la popolazione europea sarebbe poi risalita a 22.600.000 abitanti intorno al 950. Sull’incremento concorda, a prescindere dalla sua vera entità, M. K. Bennett, anch’egli convinto, d’altra parte, della grave crisi demografica del tardo impero e dei primissimi secoli del Medioevo (la punta massima della popolazione sarebbe stata raggiunta verso la fine del II secolo, ma in Italia i sintomi di spopolamento sono precedenti, e di una penuria hominum si può forse parlare non solo nel tardo impero, ma già nel II secolo a.C. per il Mezzogiorno e per il Lazio, nel I sec. a.C. per il resto della penisola). Al declino demografico si accompagnò una forte ruralizzazione della vita del continente — il discorso vale naturalmente per le zone effettivamente romanizzate e «urbanizzate» — e un marcato declino delle città, evidenziato, tra l’altro, dalla riduzione dell’anello murario e dall’allargarsi, al suo interno, di spazi disabitati e coltivati. «La terra diventava quasi l’unica fonte di sussistenza, guadagno e ricchezza» (P. J. Jones). Ma la decadenza era grave anche nelle campagne, per le quali le fonti documentano l’abbandono di centri abitati, l’avanzamento diagri deserti e di inculti, il che fa supporre un arretramento della migliore agricoltura romana verso forme più tipicamente medievali di agricoltura «estensiva» e la conversione, in certe zone, anche sotto l’influenza germanica, dell’agricoltura in pastorizia. Il diboscamento massivo, il pascolo sregolato sui latifondi creatisi dopo le guerre puniche, il declino della coltivazione e l’abbandono dei lavori idraulici romani provocarono in varie regioni italiane impaludamenti malarici. Le popolazioni germaniche penetrate entro l’impero pare che dal punto di vista strettamente demografico abbiano poco contribuito, in un senso o nell’altro, a modificare la situazione. Esse rimasero un’esigua minoranza rispetto alla popolazione totale, soltanto il 5% secondo il Pirenne. La consistenza complessiva dei vari popoli invasori varia per la verità moltissimo nella valutazione dei vari studiosi, dimostrazione eloquente dell’assoluta impossibilità di arrivare a conclusioni sicure. Per i visigoti, ad esempio, si oscilla tra 70.000 e 500.000 persone, «ma un fatto è certo: questi popoli erano tutti poco numerosi». Tuttavia «la loro partenza fu sufficiente a vuotare quasi completamente intere zone della Germania» (G. Fourquin). Si deve d’altra parte aggiungere che neppure le loro stragi, sulle quali in passato si è forse un po’ esagerato, devono aver troppo inciso, in senso opposto, sulla situazione demografica dell’impero. Fin verso la fine del X secolo il paesaggio agrario dell’Europa è ancora, nel complesso, un «oceano di terre incolte» punteggiato da isolotti coltivati. Ciò non vuol dire che la prima ripresa demografica e la riduzione a coltura dello spazio boscoso o incolto sia andata ovunque di pari passo. Né va dimenticato che non identiche erano le condizioni di partenza fra le varie regioni. I pochi e isolati dati che gli studiosi hanno potuto mettere insieme fanno supporre in verità, già per il IX secolo, densità demografiche molto varie. All’inizio del secolo, otto parrocchie situate nella parte meridionale dell’attuale banlieu parigina sembrano suggerire che già a tale data la zona fosse molto fittamente popolata. Gli otto villaggi, vicinissimi ma non contigui, annoveravano 4100 abitanti, con una densità di circa 39 abitanti per kmq. Solo un po’ meno alta la densità nei dintorni di Saint-Omer: 34 abitanti per kmq. Ma questi dovevano essere livelli limite. Già molto rari dovevano essere i 20 abitanti per kmq che si incontravano nel Westergoo (Paesi Bassi) verso il 900. Più diffusa doveva essere una densità oscillante tra i 9 e i 12 abitanti. Queste erano le cifre per i dintorni di Lille nell’868-869, per i dintorni di Munster più tardi (inizio dell’XI secolo), per la Frisia e l'Oostergoo (Paesi Bassi) intorno al 900, per l’Inghilterra intera nel 1086 (ma la contea di Warvick, ad esempio, era completamente colonizzata nella sua parte meridionale e, al contrario, completamente coperta di boschi in quella settentrionale). Certe zone della Mosella o certe altre degli attuali Paesi Bassi non avevano forse raggiunto, invece, tra l’800 e il 900, densità superiori ai 4-5 abitanti per kmq. Addirittura fino al XII secolo la Brie orientale appariva un «deserto boschivo» fra la Champagne, punteggiata di centri abitati fin dall’epoca romana, e l’Ile de France, intensamente colonizzata. Non si deve tuttavia credere che le foreste dell’alto Medioevo fossero sempre vigorose. Spesso erano anzi mal tenute, molto rade e rovinate, soprattutto quando sorgevano ai margini o in mezzo a zone più fittamente popolate, da uno sfruttamento disordinato. Per dimostrare come i bei fusti da lavoro fossero rari si cita spesso un’avventura di Sigieri di Saint-Denis (m. 1151). L’abate cercava dodici grosse travi per la costruzione della sua stupenda chiesa abbaziale. I carpentieri si meravigliarono che egli volesse cercarle nella grande foresta di Iveline, dominio del monastero, perché il sire di Chevreuse, che teneva in feudo dall’abbazia la metà del bosco, aveva fatto man bassa degli alberi per costruire le sue fortificazioni. Nonostante il consiglio di acquistare i tronchi nel Morvan, Sigieri non si dette per vinto e li trovò nei suoi possessi, ma si parlò di miracolo.2. L’«età dell’espansione» (XI-XIII secolo)Nella storia del continente i secoli XI-XIII sono l’«età dell’espansione». Difficile dire quanta parte di questa espansione sia stata preparata nel mondo oscuro della vita rurale dei secoli immediatamente precedenti. Difficile altresì misurare la parte da attribuire alla penisola italiana, anche questa volta in anticipo nel preparare, attraverso l’attività delle sue città marinare (Amalfi, Venezia) e i suoi mai interrotti legami con l’Oriente, la successiva espansione mercantile del continente. Non c’è alcun dubbio tuttavia che in questi tre secoli «l’Occidente si anima e diventa conquistatore» (G. Fourquin). Il mondo cavalleresco conosce una più grande espansione. Le conquiste normanne — dei normanni da tempo stanziati nella Francia del nord — dell’Italia meridionale, della Sicilia, dell’Inghilterra, legano per sempre all’Europa queste zone periferiche, sottraendole rispettivamente alle influenze bizantino-arabe o al

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dominio degli ancora barbari uomini del nord. La penisola iberica vive la parte centrale della  reconquistacristiana. In Oriente, attraverso le crociate, si forma un impero coloniale-mercantile delle città marinare italiane e un più effimero sistema di stati «franchi». La rivoluzione mercantile non avviene solo a sud. Se il Mediterraneo tende sempre più a diventare un lago italiano, il Mare del Nord e più tardi il Baltico si trasformano in laghi germanici, in laghi dei mercanti dell’Hansa. E a questo predominio mercantile, che finisce per estendersi anche a vaste zone delle terre slave dell’interno, si accompagna, da parte tedesca, anzi talvolta lo precede, una capillare e intensa colonizzazione contadina, una continua «marcia verso est» alla ricerca di nuove terre da arare. La circolazione dei beni si accelera notevolmente rispetto ai secoli precedenti, conseguenza e causa insieme di un rafforzarsi dei poteri statali, siano monarchie nazionali che muovono i primi passi o potenti città-stato dell’Italia centro-settentrionale. Il ritorno alla coniazione di forti monete d’oro pone fine al monometallismo argenteo fissatosi in età carolingia. Anche l’immenso mondo slavo, tra l’Elba e il Volga, per impulso esterno, ma anche per uno sviluppo autoctono, vede apparire, al più tardi dalla metà del X secolo, accanto ad aziende agricole di sussistenza, arcaiche e tradizionali, correnti di commercio locale e di commercio a distanza non più limitate ai soli prodotti di lusso per l’aristocrazia. L’espansione fu accompagnata, a partire dall’XI secolo, da un fortissimo incremento demografico, ma non è escluso che l’entità dell’incremento possa apparire maggiore perché le fonti — raramente «quantitative» almeno fino alla seconda metà del XIII secolo — sono ora più abbondanti. Crebbero in ogni modo le città e cominciò a riaffermarsi in maniera sempre più netta una divisione delle funzioni fra il centro urbano, sede di manifatture e di commerci, e la campagna circostante, produttrice di derrate agricole e consumatrice dei manufatti della città. Fenomeno particolarmente vistoso nella zona dei grandi comuni italiani, anche se va tenuto presente che la resistenza delle città e una «tradizione cittadina» era stata nella penisola più forte che nel resto d’Europa lungo tutto l’alto Medioevo. Fenomeno tuttavia registrabile anche nelle arretrate terre slave, a conferma della sua universalità nel continente. Per la Russia si è potuto, ad esempio, constatare che l’artigianato cittadino, nell’XI e XII secolo, inviava i suoi prodotti in un raggio di territorio compreso tra i cinquanta e i cento chilometri. Ma le grandi città di Kiev, Smolensk, Novgorod lavoravano per mercati molto più ampi. Il primo di questi centri inviava i suoi prodotti di oreficeria in un raggio di 1400 chilometri. Se l’incremento della popolazione fu in effetti imponente, lo si può attribuire, almeno in parte e per certe zone, come crede Lynn White, a un miglioramento nella dieta degli uomini per l’introduzione nell’alimentazione delle leguminose, frutto a loro volta della diffusione della rotazione triennale? Bisogna riconoscere che, almeno allo stato attuale della ricerca, è impossibile stabilire fino a qual punto la esplosione demografica stessa sia una causa e fino a qual punto invece un effetto del perfezionamento delle tecniche agricole e dell’estensione dello spazio coltivato. La stessa complessiva «vitalità» politica ed economica può apparirne di volta in volta effetto e causa. Accontentiamoci perciò di puntualizzare le concomitanze. La stessa affermazione che settore motore della rinascita economica fu quello primario, cioè quello agricolo, potrebbe apparire pacifica. Ma a scendere più a fondo bisognerebbe fare distinzioni notevoli, inserire sfumature, calcolare quale funzione stimolante e vivificante sulla ripresa possano avere avuto quei traffici, certo «marginali», ma mai interrotti neppure nel secoli più oscuri del Medioevo e sulla cui inconsistenza si è forse in passato un po’ esagerato.3. Mutamenti nella dinamica degli investimentiUna novità che va sottolineata subito è la diversa natura e la diversa dinamica degli investimenti. L’alto Medioevo era stato nel complesso dominato dal sotto-investimento. Scarse, anche se non necessariamente inesistenti, le possibilità dei contadini, che sulle terre dominiche dovevano riversare a vantaggio del grande proprietario una parte più o meno consistente del loro lavoro (vedi 1. La grande proprietà alto-medievale). In un grande complesso agricolo si trattava di migliaia di giornate lavorative sottratte alle aziende familiari del mondo rurale: 150.000 giornate, parziali o complete, per la grande abbazia di Saint-Germain-des-Prés, 60.000 per quella di Santa Giulia di Brescia. L’abate di Saint-Trond riusciva a riunire sui suoi prati per la fienagione da 140 a 180 falciatori. Più largo il margine di investimento per i grandi proprietari e non tanto per i versamenti in natura o in denaro da parte dei loro contadini, quanto per ciò che essi ritraevano dalle terre dominiche, reddito proporzionalmente più alto. «Tuttavia, salvo eccezioni, solo una parte assai ristretta della produzione» aveva potuto partecipare anche in quest’ultimo caso «all’economia del profitto e dello scambio» (G. Fourquin). Comunque qualcosa di nuovo sembra lentamente apparire nelle campagne europee. La mentalità dei grandi lentamente si modifica e si realizza un progressivo aumento di investimenti produttivi. Mulini ad acqua appaiono un po’ ovunque tra l’VIII e il X secolo nelle contrade più attive come il bacino parigino. Può essere — la questione è discussa e nel complesso tutt’altro che dimostrabile – che la stessa radice di molte attività mercantili sia da ricercare nell’accumulazione della rendita fondiaria. A Venezia i primi patrizi erano anche proprietari fondiari sulla terraferma e forse da questa trassero i primi capitali per quella che sarebbe stata poi una folgorante ascesa. A Genova nobili proprietari avrebbero fornito i primi capitali per il commercio marittimo. Non è neppure escluso che i capitali dei banchieri ebrei provenissero dalle estese proprietà fondiarie che essi avevano accumulato in Italia, Spagna e Gallia e di cui furono, tra il VI ed il VII secolo, gradatamente costretti a spogliarsi. Dall’XI secolo, ma la radice va certo ricercata più addietro, le fonti, se pure in forma indiretta e non «quantitativa», mostrano chiaramente che il sotto-investimento è ormai finito. A partire dal XIII secolo la comparsa di fonti dirette permette di valutare meglio gli investimenti nelle campagne. La seconda fase dei grandi dissodamenti, di cui parleremo più avanti, che vide la nascita di nuovi terreni agricoli e di «villenove», avrebbe potuto più difficilmente concepirsi senza l’apporto di capitali. Una nuova preoccupazione del guadagno e i primi segni dell’idea del profitto si diffondono fra la classe signorile. Soprattutto i signori ecclesiastici mettono a frutto i capitali di cui dispongono. La «signoria di banno» fornisce, come vedremo (2. La signoria rurale (XI-XIII secolo)), a chi ne usufruisce, tutta una nuova serie di proventi economici. I mulini continuano a crescere di numero e in una fase di espansione demografica ciò vuol dire proventi in rialzo. In un secondo momento, nell’Italia centro-settentrionale, saranno gli uomini d’affari delle ricche e popolose città comunali a spostare in campagna capitali guadagnati nel commercio o nella banca, che rimangono tuttavia le loro attività preminenti.4. La grande battaglia contro il bosco, l’incolto, le paludi, il mareLa lotta che l’uomo ha condotto tra la fine del X secolo e il XIII contro la natura selvaggia per meglio dominarla è senza dubbio uno dei grandi avvenimenti della storia. L’arretramento delle foreste e l’avanzamento degli spazi coltivati assumono ora un ritmo nettamente più intenso. Per quanto sia difficile fissare zona per zona le fasi del fenomeno, il secolo XII fu secondo il Duby il momento culminante delle bonifiche e dei diboscamenti. Miglioramenti tecnici degli strumenti del boscaiolo e una organizzazione più razionale del lavoro permisero di ridurre a coltura non solo le sterpaglie, le foreste più degradate da un intenso sfruttamento degli uomini e dai danni del bestiame, ma anche le vere e proprie «foreste impenetrabili», come la Laye, la Bière, la Loge. Intorno al XIII secolo ciò che è rimasto di queste compatte distese è ormai indicato con il nome dell’abitato più vicino, segno evidente della frammentazione da loro subita: foresta di Rambouillet, foresta di Fontainebleau, foresta di Saint-Germain-en-Laye, foresta d’Orléans. L’ampliamento dello spazio coltivato avviene sia estendendo i confini del vecchio territorio del villaggio, sia creando nuovi territori e

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nuovi villaggi. Le nuove fondazioni diventano, spesso, a loro volta, il punto di partenza per una nuova colonizzazione e gli agglomerati contadini sorti a quell’epoca sono ancor oggi riconoscibili dal loro nome: «villenove»,  bourgs delle province francesi dell’ovest, abergements della Francia orientale (Borgogna soprattutto), bastides delle province francesi del sud-ovest, e, nei paesi di lingua tedesca, i tanti nuclei abitati contrassegnati da un nome d’uomo e dal suffisso berg, feld, dorf, rode, reuth. Se per allargare la radura del vecchio villaggio era sufficiente spostare un po’ di mano d’opera sul terreno in precedenza sgombrato dalla vegetazione — soluzione si può dire «automatica» in una fase di popolazione crescente — la creazione di un nuovo villaggio implicava un processo più complesso, quanto meno, di regola, la deliberata volontà dei detentori del potere, fossero re, signori laici o ecclesiastici, comuni italiani. Frutto invece di iniziative individuali, signorili o contadine, è il diffondersi di abitazioni isolate nelle campagne, l’affermarsi di un «popolamento intercalare» (G. Duby). In Francia questo tipo di abitato, eccezionale fino al 1100 circa, pare in seguito farsi meno raro e addirittura moltiplicarsi verso il 1200-1225. In Toscana esso è strettamente connesso con il passaggio delle terre nelle mani dei cittadini, con la maggior sicurezza che la città assicura alla campagna, con la nascita del «podere» mezzadrile. Nelle zone più evolute della regione la nuova forma di insediamento è già evidentissima e affermata verso la metà del Trecento. Meglio informati siamo sulle imprese collettive di dissodamento più difficili. Quando il posto era solitario o il terreno ingrato e da prosciugare, sì che il signore era obbligato, per attirare coltivatori, a tutto un lavoro di preparazione, egli cercava dei soci e stringeva con loro dei patti scritti che ci informano sull’avvenuto. A volte il socio era un «ministeriale», un membro della  familia signorile, cui veniva demandato il compito di dirigere tutta l’operazione. Frequenti in Francia erano anche i contratti di pariage [DOC. 10] fra due signori, spesso un laico e un ecclesiastico. Uno mette nella società la terra da bonificare e i connessi diritti di bannalità, l’altro si impegna a reclutare gli uomini e il denaro per il loro insediamento. I profitti vengono divisi a metà. Particolarmente diffusa nelle terre della Germania orientale dalla metà del XII secolo è invece l’associazione tra i grandi signori e tutta una varietà di  locatores, familiari, chierici, laici, abitanti delle città, forniti di un modesto capitale da far fruttare. «Viene loro assegnato uno spazio deserto da dividersi in un numero di poderi fissato in precedenza, e ad essi spetta il compito di delimitare le quote, raccogliere gli immigrati e insediarli. Per la loro fatica ricevono un cospicuo lotto di terra e una parte dei diritti signorili riscossi nel villaggio che hanno contribuito a far sorgere» (G. Duby). Spesso alla base delle nuove fondazioni stanno insieme moventi di natura politica ed esigenze di natura economica. Molte bastides costruite nel XIII secolo lungo le frontiere ebbero funzioni militari. L’insediamento di forti comunità contadine nelle zone boscose o deserte era un modo per rendere le strade più sicure. Le «terre nove» o i «borghi franchi» istituiti dai comuni cittadini italiani furono di regola un mezzo per combattere la feudalità del contado. Nelle zone periferiche, sulle principali vie con le città antagoniste, qualche volta a «coppie contrapposte», sorsero degli insediamenti a carattere militare. La carta di fondazione di molte «villenove» francesi, qualcuna poi cresciuta fino ad assumere caratteristiche di città, garantiva alle nuove entità esenzione o riduzione dei pedaggi e delle gabelle. Frutto della vitalità agricola e della espansione demografica, le «villenove» si inseriscono nello stesso tempo in quello sviluppo economico e in quella ripresa degli scambi di cui la crescita delle città costituisce l’aspetto più appariscente. Tra i secoli IX e XI la migrazione dei tedeschi si era diretta verso il sud-est e l’Austria, e l’Elba costituiva nella parte settentrionale del paese la frontiera tra germani e slavi. La avanzata verso le meno popolate contrade al di là del fiume cominciò nel XII secolo, sotto la spinta dell’incremento demografico. Tre furono le linee di penetrazione: lungo la costa del Baltico, attraverso Meklemburgo, Brandeburgo, Pomerania e Prussia; verso la Sassonia, la Lusazia, la Slesia, e l’Erzgebirge; infine verso la Transilvania. L’acme della migrazione fu raggiunto tra il 1210-1220 e il 1300 circa. Essa fu favorita dai principi tedeschi per ragioni politiche oltre che economiche e da vescovi e ordini religiosi o religioso-cavallereschi come cistercensi, premostratensi, Cavalieri Teutonici. Si ritiene che anche in Germania, come in altre regioni, un ruolo più particolare nella lotta contro l’incolto abbiano avuto i cistercensi, la cui organizzazione, con la gestione diretta e centralizzata, con le grandi aziende agricole («grange») [1], con l’impiego nei lavori agricoli di fratelli laici («conversi») o di salariati, rappresentò una novità rispetto alle altre grandi proprietà laiche o ecclesiastiche. Ma su questo problema la discussione «è aperta» (Slicher Van Bath). La regola imponeva a questi monaci di costruire i loro monasteri nelle solitudini, ma per la Bassa Sassonia si sa di monasteri che ricevettero terre a coltura per la cui bonifica i monaci non ebbero quindi alcun merito. Le terre slave conobbero anche una forte colonizzazione interna. Nel XII secolo nei territori polacchi le superfici arative si allargarono notevolmente a scapito delle vaste foreste che separavano l’uno dall’altro gli insediamenti umani nell’alto Medioevo. Le fonti rivelano anche un accrescimento del numero delle aziende contadine e ciò par significare, non diversamente da quanto riguarda il resto del continente, una crescita demografica. Certo non tutto il mondo slavo presenta, nel XIII secolo, lo stesso livello di sviluppo. In Russia, soprattutto nella «zona delle foreste», l’abitato è a maglie molto rade, «raggruppato in isolotti tra i grandi spazi boschivi» (A. Gieysztor). Del resto, anche lo sviluppo del mercato, pur presentando la stessa genesi e gli stessi fattori di crescita, è in ritardo rispetto alle terre degli slavi occidentali. Più difficile e più incerta è spesso la lotta contro le acque, le paludi, il mare. L’episodio più illustre è in questo campo la costruzione deipolders della Fiandra e della Zelanda, ma contro le acque marine lottarono con successo anche gli inglesi nei Fens, i bretoni e gli abitanti del Poitou. La Fiandra marittima era almeno parzialmente abitata in età preistorica e romana e in uno strato di torba, due o tre metri sotto l’attuale superficie del suolo, sono stati rinvenuti manufatti di quei periodi storici. Un lungo e lento processo, culminato probabilmente all’inizio del V secolo, aveva ricondotto il mare sulle terre più basse depositandovi sabbia e argilla. Per questo i franchi invasori evitarono la pianura stabilendosi nella Fiandra più interna. Solo lentamente il mare si ritrasse, ma nel IX secolo pare che il processo fosse ormai avanzato. Si costituì una linea di dune sabbiose spezzettate in una serie di isolotti, dietro la quale si stendeva una piana alluvionale, poco al di sotto del livello dell’alta marea. La costruzione di una serie di dighe avrebbe potuto permettere la bonifica della piana. Gli isolotti accolsero presto una serie di villaggi, come Dunkerque, la «chiesa delle dune». Sugli isolotti i conti di Fiandra fondarono castelli e abbazie. Dal X-XI secolo l’espansione demografica e la necessità di moltiplicare i mezzi di sussistenza accelerarono l’opera naturale di colmata. Al pari che sulle lagune (meersen, broeken), sulle terre alluvionali vigeva il potere dei conti e furono conseguentemente i conti o le abbazie da loro beneficate che portarono avanti l’opera di redenzione delle terre. L’impresa necessitava di tutta una tenace opera collettiva di collaborazione degli abitanti dei nuovi insediamenti, gli «ospiti», con i loro signori, e dei contadini fra loro. Una grande marea d’equinozio poteva tutto distruggere, perciò prima dell’inizio d’ottobre (festa di Saint Remi), gli «ospiti» erano obbligati a riparare dighe e fossati [ DOC. 9]. Altri obblighi comunitari e di collaborazione fra coltivatori e signori riguardavano il  Watergang, cioè il costoso processo di drenaggio e di scorrimento delle acque. In un primo tempo i polders, non sufficientemente drenati e ancora troppo salati, venivano utilizzati per il pascolo. La loro coltivazione cominciava solo in un secondo momento. Verso la metà del secolo XI i progressi erano già considerevoli. Dal secolo successivo nell’estuario della Schelda e lungo la costa del Mare del Nord su tutta una serie di polders più vecchi l’allevamento lasciava progressivamente il posto alla coltivazione. In Italia una grande e secolare opera di prosciugamento

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delle terre acquitrinose e di drenaggio delle acque, iniziata già nel IX o X secolo, si ebbe nella pianura padana. Alla fine del XV secolo Philippe de Commynes rimase stupito della sistemazione idraulica della pianura lombarda e della sua fertilità e paragonò proprio alle Fiandre il paesaggio lombardo tutto disseminato di fossati. Certo nella lotta contro le acque non ovunque i risultati furono i medesimi e ciò dipese dalla varietà della densità demografica, da una maggiore o minore necessità di approvvigionamento granario, da una maggiore o minore disponibilità di capitali, ma una parte notevole di responsabilità va certo attribuita alle insufficienti capacità tecniche di quel tempo. Ancora a metà del XVI secolo nei territori veronese e padovano i campi vallivi, paludosi, incolti rappresentavano rispettivamente il 14,6% e il 25% della terra. A nord di Ravenna si estendeva, ancor dopo la fine del Medioevo una grande laguna, l’interno era malsano e le spiagge deserte. Anche nel Ferrarese, parzialmente bonificato nel Medioevo, i bacini compresi tra i dossi fluviali e tra questi e le vecchie dune sono stati redenti solo in epoca moderna mediante colmate ed eliminazione delle acque con mezzi meccanici.5. Il momento dei progressi tecniciAi «secoli dell’espansione» o al periodo immediatamente precedente sono ascrivibili anche quei miglioramenti nell’attacco del bestiame e quella diffusione del pesante aratro dissimmetrico a ruote che rappresentarono due delle scoperte del Medioevo rurale. Dal 1300 circa è sicuramente documentato nelle grande pianura francese a «campi aperti» anche il sistema d’assolement (il che non vuol dire che non possa essere iniziato anche prima). Il sistema, che presuppone una forte coesione della comunità rurale, consiste nella divisione in grandi settori,quartiers o «suoli», di tutta la terra coltivabile del villaggio. Tutti i possessori di parcelle di un suolo devono praticare in un anno stabilito lo stesso tipo di coltura o tutti lasciare la terra a riposo. Progressi segnò anche la metallurgia. Il moltiplicarsi delle botteghe di fabbro nei villaggi o comunque le notizie sempre più frequenti sull’uso di attrezzi di ferro stanno a indicare un miglioramento nell’attrezzatura contadina, che tuttavia rimase ancora poverissima, dato il costo quasi proibitivo di questi strumenti di lavoro. Sulla montagna bolognese alla fine del Trecento un contadino per comprare una zappa avrebbe dovuto lavorare quattro giorni abbondanti alla pulitura di un castagneto. Ai piedi dell’Appennino forlivese una famiglia di piccoli proprietari contadini possedeva, negli stessi anni, un numero ridottissimo di attrezzi: l’occorrente per l’aratura, una sola vanga, per di più spezzata, due zappe, delle quali una ormai consunta dall’uso. A questi secoli pare altresì attribuibile, almeno per le ricche e profonde terre tra Loira e Reno, quella moltiplicazione di lavori agricoli sul maggese della quale abbiamo già parlato. Tuttavia anche qui l’insufficienza delle concimazioni incideva sul rapporto tra agricoltura e allevamento. Un palliativo costituì in certe zone dell’Inghilterra, nell’Ile de France, nell’Artois, in Normandia, nell’Anjou e nel Poitou, l’uso della marna, concime minerale incompleto. Ruolo più importante aveva in tutte le regioni a «campi aperti» del centro-nord il passaggio del bestiame grosso dopo la mietitura. «Ma le bestie ritornavano molto presto nelle lande e nei boschi » (G. Fourquin). Con il XIII e il XIV secolo vengono anche scritti e diffusi un po’ ovunque trattati di agronomia, italiani e inglesi, ma in verità è difficile discernere tra descrizioni di pratiche reali e semplici trascrizioni dai classici latini [DOCC. 15-18]. Miglioramenti si notano ovunque anche negli ingredienti fondamentali dell’alimentazione. Sono i signori del nord o i borghesi delle città italiane a imporre in primo luogo la diffusione del frumento da cui si trae il più apprezzato «pane bianco», a scapito dei cereali inferiori come il miglio, da cui si trae il «pane nero». La rivoluzione mercantile e le connesse trasformazioni sociali dei secoli XI-XIII incrementarono anche l’estensione della coltura viticola. Bisogna dire che la vite aveva sempre goduto di un altissimo prestigio: era stata fonte di entrate private e pubbliche; causa di emulazione fra i signori laici e fra le comunità e i signori ecclesiastici anche per motivi liturgici; ed era amorosamente curata dalle folle rurali tutte le volte che il clima e la natura del suolo non ne rendessero proibitiva la coltura. Essa fu anzi «estesa anche e fin dove appariva impossibile, per la permanente ostilità del clima contro una produzione regolare e sopportabilmente conveniente. La vite partiva dal Mediterraneo e arrivò al Mare del Nord» (I. Imberciadori). Nulla è più significativo, per valutare il prestigio che aveva acquisito la coltura viticola nell’alto Medioevo, delle testimonianze relative a figure di religiosi. San Didier, vescovo di Cahors nel VII secolo, fu definito «padre di vigne», al pari di Teodulfo, vescovo di Orleans, verso l’800. Un diploma di Carlomagno sintetizza l’elogio di un abate scrivendo: «costruì chiese e piantò vigne». «Umile, affettuosa e campagnola» appare una confessione di San Remi: «la vigna mia, che piantai e costituii con il mio lavoro». Alla «viticoltura ecclesiastica» e alla «viticoltura dei signori laici», che dopo aver dominato per lunghi secoli, mantengono ancora nella più gran parte d’Europa una notevole importanza, si affiancava ora una «viticoltura borghese», continuamente in ascesa. L’espansione delle città e il continuo moltiplicarsi al loro interno di una classe di benestanti ne sono la premessa, sia nelle terre mediterranee, in Italia soprattutto, dove il cittadino può coltivare viti sulle sue terre, sia nel nord, dove i benestanti delle città delle Fiandre chiedono gli ottimi vini francesi. «Mai fino allora — scrive Roger Dion, lo storico della vigna francese — la difficile produzione dei vini di qualità sulle frange settentrionali del mondo viticolo era stata giustificata e incoraggiata quanto lo fu dal favore di queste borghesie del nord, largamente provviste di denaro e amiche delle tavole fastose».6. Il sovrappopolamento e i sintomi del malessere (fine XIII-inizio XIV secolo)Tra la fine del XIII secolo e i primi decenni del XIV l’Europa raggiunse densità demografiche mai conosciute in passato. Secondo i calcoli del Russell, da altri emendati o discussi, la parte occidentale del continente avrebbe visto la sua popolazione toccare i 54.400.000 abitanti prima del 1348, registrando un incremento del 140% rispetto al 950. Le ricerche di demografia storica, che vanno sempre più moltiplicandosi, dimostrano anche che la popolazione era diversamente distribuita nei vari paesi e all’interno dei medesimi. Per la Francia (nei confini attuali, notevolmente più ampi di quelli di allora) si propongono cifre oscillanti tra i 19 e i 21 milioni di abitanti tra il 1328 e il 1340; per la Germania intorno al 1340 si parla di 14 milioni; per l’Inghilterra tra il 1340 e il 1348 si oscilla tra 3 milioni e mezzo e 4 milioni e mezzo. Verso l’inizio del secolo, infine, 8.300.000 abitanti avrebbe annoverato la penisola iberica, 8.500.000-8.700.000 l’Italia, 600.000 la Svizzera, altrettanti i quattro paesi scandinavi, 1.100.000 i Paesi Bassi, 1.300.000 la Polonia. Per la Germania si parla di una densità di 24 abitanti per kmq. Un po’ superiore, anche se non di molto, doveva essere la densità dell’Italia, nella quale, però, dai 19,4 abitanti per kmq della Sicilia e alla più scarsa popolazione del Meridione in genere, si passava alla densità tre, forse quattro volte più alta della Toscana. In Fiandra si sarebbero raggiunti i 60 abitanti per kmq, mentre infinitamente più radi erano gli abitanti dei paesi scandinavi. Tutte queste cifre, quelle di alcuni paesi più delle altre, hanno solo valore indicativo. Se osservate nel loro complesso e tenendo conto che l’agricoltura del tempo, nonostante tutti i progressi realizzati, è ancora a livelli bassissimi di produttività, esse sono tuttavia sufficienti a farci concludere che l’Europa occidentale dell’età di Dante era molto fittamente popolata, che anzi, come si ripete ormai sempre più spesso, era con ogni probabilità sovrappopolata, così da creare gravi problemi di sussistenza. Dalla metà del XIII secolo, del resto, i dissodamenti cessano di progredire, non tanto perché non ci siano più terre incolte o boscose da bonificare quanto perché si tratta di terre di rendimento sempre più scarso e ipotetico. Molteplici sono i segni indiretti delle aumentate difficoltà. Le reiterate spartizioni successorie delle terre contadine danno una dimostrazione della

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proliferazione familiare e del rapido aumento della popolazione sulle tenures o sulle libere proprietà. In Inghilterra, dove una documentazione particolarmente preziosa ha permesso di condurre studi più precisi, si nota un rialzo sostenuto del prezzo dei cereali, indice della «crescente tensione della domanda». Equiparato a 100 il prezzo negli anni 1160-1179, si passa a 139,3 nei venti anni seguenti, a 203 nel 1209-1219, per salire a 214,2 nel 1240-1259 e a 279,2 nel 1280-1299. Solo in parte questo aumento potrebbe essere attribuito all’aumento del numerario circolante, perché nessun altro prodotto pare averne subito uno di tal misura. Più violento ancora, almeno a partire dall’inizio del XIII secolo, sarebbe stato l’incremento nell’Italia settentrionale, dove da un indice 37,8 nel 1201-1250 il prezzo del frumento passa a un indice 72,8 nel 1251-1300. Per converso i salari paiono, in Inghilterra, immobili o anche in leggero regresso. Più probante, anche se costituisce una statistica isolata, l’evoluzione dei tassi di mortalità calcolabile attraverso i conti conservati negli archivi vescovili di Winchester per il periodo 1240-1350. Nel 1245 la «speranza di vita» di un uomo di più di vent’anni era di ventiquattro anni. Nell’intero periodo il tasso di mortalità risulta del quaranta per mille, mortalità infantile esclusa. Calcolandovi anche quest’ultima, di cui i documenti non parlano ma che era sempre altissima, si può ragionevolmente arrivare a una mortalità del 70 per mille per l’insieme della popolazione, un tasso cioè molto più alto di quello rilevato dalle statistiche moderne nelle popolazioni più arretrate. Questo tasso cresce comunque ancora a partire dal 1290, raggiungendo, per gli adulti, il 52 per mille tra il 1297 e il 1347. La speranza di vita cade allora a vent’anni soltanto. Questi dati rivelano un progressivo peggioramento organico e una forte sensibilità alle epidemie da parte di una popolazione in stato di deperimento fisico. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, anche se in alcuni settori si registra un aumento, la crescita demografica pare ormai arrestarsi e anzi, qua e là, inizia la recessione. Dal 1250 circa sembra che sulle campagne inglesi e su quelle francesi si abbattano crisi granarie molto gravi, di entità superiore a quelle verificatesi nei duecento o duecentocinquant’anni precedenti. La prima metà del secolo successivo poi segna un netto peggioramento. Indipendentemente dalle carestie locali, sempre normali per il Medioevo, e anche da quelle regionali, è stato possibile identificare negli anni 1315-1317 e nel decennio 1340-1350 momenti particolarmente difficili. Si tratta, in questi casi, di carestie generali che coinvolgono tutto il continente o una sua larghissima parte, passando sopra alle differenze di clima, di coltivazioni, di densità demografica fra le varie regioni. Più in particolare per la Francia sono state accertate carestie per gli anni 1304, 1305, 1310, 1315, 1330-1334, 1344, 1349-1351. Per la regione parigina è necessario aggiungere gli anni 1322 e 1325, per alcune zone della Francia meridionale gli anni 1312, 1313, 1323, 1329, 1335-1336, 1337, 1343. Ogni carestia determinava un’alta mortalità fra le classi più umili, contadini compresi. Ad Ypres dall’inizio di maggio all’inizio di novembre del 1316 morirono 2660 cittadini, cioè il 10% circa della popolazione. A Bruges, meglio approvvigionata di cereali per via marittima, i morti furono 2000, cioè il 5,5% della cittadinanza. Terribile per le città toscane, emiliane, umbre risultò l’annata 1346-1347. A Firenze sarebbero morte di fame 4000 persone dei ceti più umili, cioè il 5% circa della popolazione. Gravissima la mortalità infantile a Bologna.Si pensa normalmente che la causa dei cattivi raccolti e delle crisi ricorrenti sia da ricercare nell’esaurimento di una parte almeno delle terre coltivate, per eccessivo e prolungato sfruttamento cerealicolo e mancata rigenerazione per scarsità di concimi. Forse — in questi ultimi anni il problema è al centro delle discussioni fra gli studiosi — si registrò anche un peggioramento nelle condizioni climatiche, un ritorno verso un livello più rigido, con «spaventosi uragani» e «temporali gelati». I segni e le conseguenze sarebbero evidenti e molteplici: spopolamento della Groenlandia; ghiacci circondanti, almeno in un certo numero di annate, il Mar Baltico; avanzamento dell’area dei ghiacciai alpini; abbassamento del limite di altitudine delle foreste dei Sudeti; abbandono della cerealicoltura in Islanda; regressione della viticoltura tedesca e crollo di quella inglese.7. La recessione demografica e le conseguenze sullo spazio coltivato e sul popolamento. Il momento della ripresaL’indebolimento organico conseguente alla carestia e l’uso di cibi d’ogni genere, uniti ai bassi livelli igienici, scatenavano continue epidemie, causa a loro volta di nuovi cattivi raccolti per le falcidie che causavano fra gli addetti alla agricoltura. Tra la fine del 1347 e il 1350 fa infine la sua ricomparsa e imperversa in Europa, portata dall’Oriente, la peste, le cui terribili stragi, terribili soprattutto nei ceti più umili, trovano un facile terreno nel debilitamento organico conseguente alla carestia. Il morbo riesplode a più riprese, un anno qui l’altro là, per i decenni successivi. La stasi demografica o il lento declino già annunziatisi trenta o cinquant’anni prima lasciano ora il posto a una vera catastrofe. Verso il 1430-1450, quando, in un luogo prima nell’altro dopo, la tendenza si inverte di nuovo e la popolazione riprende lentamente a crescere, l’Europa appare almeno un terzo meno popolata che nel 1347. Per certe città italiane, come Firenze, il crollo fu anche più vistoso. Milano, risparmiata dalla peste del ’48, rappresenta un caso eccezionale fra le grandi città. Le conseguenze più appariscenti di questa brusca decongestione demografica furono la riconversione in pascoli di molte terre marginali prima coltivate e la concomitante scomparsa di un certo numero di villaggi e località minori delle campagne. Lo studio della toponomastica o più moderne tecniche di ricerca come la fotografia aerea a luce radente hanno permesso di scoprirne le tracce. L’analisi dei pollini delle torbiere di Roten Moor, in Germania, sembra rivelare un arretramento dei cereali tra il 1350 circa e il 1420 circa e un progresso, viceversa, delle specie silvestri. Gli alberi di più facile crescita come noccioli e betulle spuntano per primi sui campi abbandonati preparando il terreno ai faggi e alla boscaglia densa. Nella Germania, che è per questo aspetto, insieme all’Inghilterra, il paese meglio studiato, le Wüstungen furono numerosissime, particolarmente nella Germania centrale, un po’ meno in quella orientale e meridionale, insignificanti in quella nord-occidentale. Per la Francia villages désertés sono stati rinvenuti in Alsazia, dove il fenomeno par continuare le Wüstungen tedesche, in Provenza, nell’Artois. L’Inghilterra conosce un po’ ovunque questi «villaggi perduti» (lost villages). In Spagna scomparvero villaggi nella Nuova Castiglia, nell’Andalusia, in Navarra, Catalogna e Aragona. Per l’Italia inchieste recenti hanno rinvenuto villaggi abbandonati in Sardegna, Lazio, Toscana, Sicilia. Bisogna comunque andar cauti nelle spiegazioni. In certi casi il declino demografico non fu affatto la causa dell’abbandono dei villaggi o almeno non fu l’unica causa. Per molte regioni francesi, ad esempio, è difficile valutare la responsabilità che in questo fenomeno ebbe la guerra dei cent’anni. Nella bassa Alsazia a un certo numero di abbandoni contribuirono le ripetute inondazioni e, viceversa, in altri casi, la mancanza d’acqua. Per la stessa Germania alle Wüstungen devono aver contribuito le migrazioni dei contadini in città. In Inghilterra certi villaggi marginali erano in declino già molto prima della «peste nera» Tenures e campi vacanti sono un lamento molto consueto nei documenti signorili all’inizio del Trecento. Nella Nuova Castiglia, lo spopolamento della provincia di Toledo e della Mancia fu in primo luogo determinato dall’insalubrità del clima, dalle paludi, dalla configurazione del terreno. Numerosi villaggi furono abbandonati già nel XIII secolo a causa della grande emigrazione verificatasi in Castiglia dopo la conquista della valle del Guadalquivir. Nell’Andalusia lo spopolamento di tutta la parte occidentale della provincia di Siviglia pare imputabile soprattutto all’impaludamento e alla malaria, che favorirono la concentrazione della popolazione nei centri urbani meglio situati dal punto di vista delle condizioni sanitarie. Sullo spopolamento della campagna romana o su quello della Sicilia, infine, le guerre continuate e l’estendersi e il rafforzarsi del latifondo paiono aver avuto un ruolo importante. In Sicilia il processo di abbandono di molti villaggi,

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d’altra parte già evidente nel XIII secolo, assume dimensioni catastrofiche. Guerre, epidemie, concentrazione dei latifondi danno tinte tragiche alla fuga dei «villani» in città. Di 470 località scomparse, la metà risale al XIV e XV secolo. Si ritiene abbastanza fondato fissare intorno alla metà del XV secolo l’inizio della ripresa agricola, ma ciò non vuol dire, naturalmente, che la data sia accettabile per tutte le regioni e che non ci siano state anticipazioni o ritardi. Come per il passato, l’andamento demografico è la spia di questa inversione di tendenza. Con ritmo quasi sempre più modesto che nei secoli XI o XII la popolazione riprende a salire. Ciò risulta da studi diretti sull’andamento della popolazione, i cui risultati rimangono tuttavia, non diversamente che per il passato, sempre approssimativi (fonti eccezionali, nonostante un certo margine di imprecisione, sono, per i problemi demografici come per quelli economici, i «catasti» della repubblica fiorentina); ciò risulta altresì da studi «indiretti» sull’andamento della popolazione, quali quelli che indagano sui tassi della mortalità infantile o sull’indice di nuzialità. Alla ripresa demografica si accompagna di nuovo, in particolare nella Francia convalescente dalle distruzioni della guerra dei cent’anni, una nuova fase di dissodamenti, le cui dimensioni non paiono tuttavia paragonabili, neppure in Francia, a quelle del Medioevo «eroico».8. La commercializzazione dei prodotti agricoliI prodotti agricoli conoscono, a partire dall’XI secolo, una crescente commercializzazione e non pare che per questo aspetto la crisi del XIV secolo rappresenti una vera inversione di tendenza anche se ancora non è possibile calcolarne, su scala continentale, le influenze su eventuali mutamenti nei prodotti oggetto di scambio e sul loro volume, stabilire cioè se lo scambio dei prodotti si adeguò semplicemente alla loro più ridotta produzione e alla loro più ridotta richiesta da parte di una popolazione meno numerosa o se, viceversa, vi furono mutamenti ulteriori. Per i cereali, ingrediente principale dell’alimentazione, pare comunque certo che il punto massimo sia da situare intorno al 1300, cioè al culmine dell’espansione demografica. La lunga tendenza dei prezzi, salvo impennate durante le cattive annate, dimostrerebbe in seguito una diminuzione della richiesta. Già dopo la prima grave crisi del 1315-1317 si registra un primo sensibile calo temporaneo sia in Inghilterra che nell’Ile de France. Dopo un nuovo generale rialzo che dura fin verso il 1370, il calo dei prezzi dei cereali panificabili, molto forte, pare diventare generale: 63% in Inghilterra, 76% a Francoforte, 59% a Cracovia. Anche in Alsazia, salvo un incremento lievissimo per l’avena, i prezzi calano nettamente nella seconda metà del Trecento rispetto alla prima metà: il frumento da 96 denari a 74, la segala da 95 a 56, l’orzo da 50 a 24. Il fenomeno non avrebbe invece toccato l’Italia settentrionale, dove l’indice del prezzo del frumento continua a salire: 106,8 nella prima mela del secolo, 112,2 nella seconda metà. Aumento molto lieve e in singolare contrasto con i forti incrementi registrabili nei centocinquant’anni precedenti, ma tuttavia sfasato rispetto al resto dell’Europa occidentale. Almeno per l’economia lombarda è del resto aperta la discussione se essa, nelle difficoltà del Trecento, non costituisca «un’eccezione alla regola» (G. Miani) [1]. Per certe regioni l’andamento del prezzo della terra conferma perfettamente le tendenze al ribasso dopo un secolare incremento. In Danimarca, fatto uguale a 100 il prezzo del 1334-1339, si scende a 60 nel 1340-1345, si risale a 65,7 nel 1350-1369, si precipita a 37,1 nel 1370-1389. In Svezia, fatto uguale a 100 il prezzo del 1278-1304, si raggiunge la punta altissima di 314 nel 1318-1349, per scendere poi a 303 nel 1350-1359, a 225 nel 1360-1379, a 149 nel 1400-1409. Concomitanti paiono, secondo recenti ricerche, i risultati per una città toscana. A Pistoia l’affitto di uno «staioro» di terra aveva reso staia 1,50 di grano nel 1201-1225, staia 2,30 nel 1226-1250, staia 2,67 nel 1251-1275, staia 2,50 per il periodo 1276-1350, ma con il 1351-1375 si cala a 1,60 e si scende a 1,50 nel 1376-1400, a 1,40 nel 1401-1425. L’estensione del mercato e le distanze tra zone di approvvigionamento e zone di consumo erano spesso notevolissime. Fra i trasporti, quello per mare, totale o parziale, costituiva per i cereali quello di gran lunga più importante, perché più facile e meno costoso. Per questa ragione città marinare con un misero entroterra — è in Italia il caso di Genova — erano di regola meglio approvvigionate e più al sicuro dalla fame di quanto non lo fossero i centri dell’interno circondati da campagne intensamente coltivate. In ogni modo il volume degli scambi era strettamente determinato dalla densità demografica della zona importatrice, dal suo grado di «urbanizzazione», cioè dalla percentuale di popolazione non addetta ai lavori agricoli e concentrata in città o nei centri maggiori del territorio. Dati i bassi rendimenti della terra, anche un vasto territorio poteva essere lontano dall’autosufficienza anche in annate di raccolto normale. Talvolta discutibili, i calcoli che sono stati fatti sono tuttavia utili per dare un’idea delle capacità di assorbimento di derrate alimentari da parte dei centri urbani e delle possibilità di approvvigionamento delle campagne circostanti. L’approvvigionamento di Opole, nella Slesia, all’inizio del Duecento, sarebbe dipeso dalla produzione cerealicola proveniente da sessanta villaggi di dieci aziende ciascuno, che fornivano al mercato il 10-11% della loro produzione. Tra regioni fortemente urbanizzate e popolate, esportatrici di prodotti industriali, di capitali e di servizi, e regioni produttrici di derrate alimentari e di materie prime si vennero in molti casi a costituire veri e propri legami di natura «coloniale». Così in genere avvenne tra le grandi città dell’Italia centro-settentrionale, come Venezia, Genova, Firenze da un lato, la Sicilia, la Puglia, la penisola balcanica, i porti del Mar Nero dall’altro. I fiorentini, il cui contado, pur intensamente coltivato e puntigliosamente organizzato dai proprietari cittadini, era nella prima metà del Trecento nettamente insufficiente ai bisogni anche nelle annate normali, spendevano negli anni di carestia, per l’acquisto di cereali, somme notevolissime, nell’ordine di varie decine di migliaia di fiorini.I caratteri dell’agricoltura medievale e gli assillanti bisogni alimentari esigevano che i cereali fossero sempre al centro delle coltivazioni e che a loro soprattutto si rivolgessero anche le richieste del mercato internazionale. L’aspetto delle campagne tendeva perciò a uniformarsi più di quanto non permettessero clima e natura del suolo. Rarissima è, di regola, la monocultura specializzata. Coltivazioni più particolari come quelle orticole occupano gli spazi immediatamente a ridosso delle città ed entrano anzi negli spazi vuoti all’interno delle mura. Del tutto eccezionale, dettata insieme dalla natura e dalla relativa facilità per la cittadinanza di approvvigionarsi di grano, è, per fare un esempio, la situazione sul ripido versante marino delle montagne alle spalle di Genova. Situazione morfologica e dolcezza del clima destinano la riviera alle colture del vino e dell’olio e vi impediscono la coltura granaria. Qualcosa di simile avveniva sul Garda, sulle cui rive i grandi proprietari delle città più vicine concentravano i loro oliveti. Se non per una vera coltura specializzata alcune zone si distinguevano tuttavia per alcune colture preponderanti. Tali i vini francesi, le cui vicende e le cui fortune sono ben note. Ma l’espressione di «coltura preponderante» usata da Guy Fourquin va ulteriormente precisata. Neppure in una zona di grandi vigneti come l’Ile de France la vite ha mai occupato più del 10 o 20% del suolo coltivato. La nudità delle terre è del resto notevole anche in una zona di coltura promiscua come la Toscana nel XIV e XV secolo. Su dodici zone-campione del contado fiorentino all’inizio del Quattrocento, in sette grano e biade — queste ultime con percentuali mai superiori a dieci — costituivano più del 50% del reddito dominicale nelle terre di proprietà cittadina. In due altre zone superavano il 40%. Il vino è sempre presente con percentuali consistenti e anzi in tre zone superava il valore del grano e delle biade messi insieme. Molto meno importante la raccolta dell’olio, superiore al 10% dei raccolti solo in quattro zone-campione e in una sola superiore al 20%. Le colture cerealicole seguivano più di ogni altra la distribuzione degli abitati, spesso spingendosi in zone troppo alte e poco adatte. La vite, in

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Italia, cercava di seguire i cereali il più da presso possibile, ma finiva per concentrarsi in prevalenza nelle zone più vicine alle città, più «umanizzate» e meglio servite dagli investimenti dei capitali cittadini. Qualcosa di simile risulta per il territorio aretino all’inizio del Quattrocento. Fino a un miglio e mezzo dalle mura cittadine le terre coperte di viti — di regola su campi a grano — giungevano al 33,6% del totale. Da qui a cinque miglia dalle mura la percentuale scendeva invece al 14,8. La comparsa del bosco, sconosciuto nella prima zona, andava in questa seconda fascia a completo detrimento della coltura viticola mentre il lavorativo nudo vedeva anzi crescere leggermente la percentuale occupata. Certo solo il clima, oltre che particolari vicende storiche, potevano rendere così diverse, pur in questo comune predominio dei cereali, gran parte delle colture mediterranee da quelle dell’Europa centro-settentrionale. Grazie agli arabi furono importanti in Sicilia gli agrumi, il fico d’India, la palma da datteri, il lazzeruolo o azzeruolo, i bagigli, la susina piccola (celeca), il carrube, il ribes, lo zibibbo, lo zucchero, il «cubèle» (nome volgare di una specie di pepe), la mora prugnola di macchia, il pistacchio, il sesamo. Alcuni fiori, o anche alcune piante officinali, si diffusero poi in tutto l’Occidente. Gli stessi agrumi risalirono tutta la penisola e alcune specie giunsero fino al lago di Garda. In ogni modo, accanto al suo grano, la Sicilia inviava sui mercati europei, non diversamente del resto dalla Spagna, anche questi prodotti del Mediterraneo. E non sempre la stessa frutta era destinata alle tavole. L’agricoltura arabo-sicula dette infatti origine a notevoli specialità anche nel settore profumiero. Il bergamotto e il fiore d’arancio dettero vita con le loro essenze odorose al profumo di bergamotto e alla famosa «acqua nanfa», di cui parlano tante fonti letterarie.[1] Di diverso significato pare invece la marcata ascesa del prezzo delle derrate alimentari registrata da Ciro Manca per il mercato di Cagliari nella seconda metà del Trecento. L’ascesa sarebbe riconducibile alla particolare situazione politico-militare della Sardegna, alle asprezze della guerra terrestre e marittima fra aragonesi, genovesi e isolani.

3 Signori, contadini e borghesi1. La grande proprietà alto-medievaleIl «problema della continuità», cioè di quanto di romano sia sopravvissuto in Europa alle invasioni germaniche e di quale effettiva entità sia stata la rottura da queste provocata, è al centro delle discussioni storiografiche. La tendenza prevalente, almeno in Italia, è attualmente quella di sottolineare questa continuità. Il discorso è valido soprattutto per le strutture del mondo rurale, delle quali sono universalmente note la lentezza a modificarsi e la greve capacità di resistenza. Il tardo impero consegnò al Medioevo una serie di grandi proprietà coltivate attraverso l’opera di schiavi («servi») o di coloni. La tendenza in tali grandi aziende era già quella di produrre per il consumo piuttosto che per la vendita. È questo un aspetto e insieme un effetto della crisi economica del mondo romano. Aspetto della crisi politica, dell’insicurezza ritornata dopo secoli di pax romana, è invece il fenomeno parallelo che vide molti liberi accomandarsi a un potente, a un «patrono», cioè a un grosso proprietario, per diventare suoi coloni e suoi clienti; che vide molte villae e grandi proprietà fortificarsi. Sostituitasi nel dominio della grande proprietà l’aristocrazia germanica a quella romana — quali dimensioni abbia avuto questo trapasso è impossibile sapere — e diffusasi in tutto il continente la proprietà ecclesiastica, l’alto Medioevo vide rafforzarsi queste tendenze e insieme lentamente modificarsi le strutture esistenti. Il sistema classico di conduzione diretta per mezzo del lavoro degli schiavi, del resto già parzialmente in crisi nel tardo impero, declina sempre più e viene sostituito poco a poco da un «sistema misto», in cui una parte soltanto della proprietà (pars dominica, la reserve dei francesi) viene gestita in economia diretta. Per la sua coltivazione più che il lavoro dei servi domestici (prebendarii, mancipia) vengono utilizzate le giornate di lavoro dei coloni stabiliti sulle terre tributarie. Curtis italiana o villagallo-romana, il sistema determinò lente modifiche anche nella condizione giuridica personale delle classi rurali, deprimendo la condizione dei liberi coloni e innalzando quella degli schiavi, con la tendenza in definitiva a farne un’unica classe di «semiliberi». Si stabiliscono, dunque, in questi primi secoli del Medioevo, «le forme di una società, di una economia e di un sistema politico che comunemente, anche se confusamente, si chiamano feudali». Detto questo bisogna aggiungere che queste non sembrano altro che «tendenze dominanti», che man mano che gli studi avanzano diventano sempre più difficili «da misurare e da definire» (P. J. Jones). I limiti del periodo in cui furono prevalenti rimangono perciò incerti e si può oscillare dal III, IV, V secolo al IX, o anche al X e XI. Le dimensioni di alcuni di questi grandi complessi, che comprendevano una parte più o meno estesa di terra incolta, possono darci un’idea di come essi costituissero un elemento dominante delle campagne europee. All’inizio del IX secolo l’abbazia di Saint-Germain-des-Prés possedeva 32.748 ettari di terra, raggruppati in venticinque villae. L’abbazia di Nivelles, nel Brabante belga, ricevette in dotazione, quando fu fondata subito dopo il 640, 16.000 ettari. Quella di Saint-Bertin a Saint-Omer possedeva, intorno all’850, circa 10.120 ettari. L’abbazia inglese di Ely, nella seconda metà dell’XI secolo, era proprietaria di terre in 116 villaggi di sei diverse contee. Dal monastero dipendevano altre 1200 persone in altri 200 villaggi. I suoi greggi annoveravano 9000 pecore. Non tutte le proprietà monastiche erano naturalmente così estese. L’abbazia di Tavistock, nel Devonshire, possedeva nel 1066 circa 1200 ettari, scesi a meno di 800 vent’anni dopo, cifre però tutt’altro che disprezzabili. Sulle proprietà dell’aristocrazia laica, che non teneva archivi, sappiamo infinitamente di meno, «ma è quasi certo» che anch’essa possedeva vastissime proprietà disperse a volte in un estesissimo territorio. Se un grande arrivava a donare a una chiesa una villadi un migliaio di ettari, «è evidente che ne conservava molte altre per la sua famiglia e per sé» (G. Fourquin). Un grande proprietario veronese possedeva, nell’846, oltre ad altri beni minori, otto corti. Le proprietà erano distribuite su un territorio che andava «dalla bassa pianura veronese e mantovana alle colline moreniche del lago di Garda». Il proprietario risiedeva nella corte di Erbé, quasi al limite inferiore della zona, «e qui doveva essere il centro economico e direttivo, e forse il nucleo originario della proprietà». Se nella formazione di questo vasto patrimonio un criterio ci fu, questo deve essere rintracciato anche nel desiderio «di ottenere nel campo dei prodotti agricoli una certa completezza, in modo da contribuire all’autosufficienza della proprietà» (A. Castagnetti). E il criterio doveva essere valido sia per i grandi proprietari laici che per quelli ecclesiastici. Non c’è alcun dubbio che, almeno all’inizio, i sovrani carolingi e, in Italia, quelli longobardi, fossero i proprietari più ricchi. Forse anche per questo le  villae dei primi erano raggruppate in fisci. I cinque fisci il cui inventario dettagliato è stato conservato in uno dei Brevium exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales [DOC. 3] devono aver costituito solo la dote di una figlia di Ludovico il Pio. Ciascuno pare comprendesse una grande villa con dipendenze molto più piccole. Uno misurava da 2800 a 2900 ettari, un altro 1867 ettari, altri due rispettivamente 1406 e 1855 ettari. Esclusi tuttavia i sovrani, non è improbabile che, per quanto la proprietà laica appaia in età carolingia complessivamente più estesa di quella ecclesiastica, chiese e monasteri fossero invece individualmente più ricchi. Il concilio di Aix-la-Chapelle, nell’816, ripartiva le chiese in tre categorie: quelle che possedevano 3000, 4000, 8000 mansi o più; quelle che ne avevano da 1000 a 2000; quelle che ne avevano da 200 a 300. Un capitolare del 779-780 parla invece di conti proprietari di 200-400 mansi, di vassalli che ne possedevano da 30 a 200. Cifre non certo da prendere alla lettera, ma comunque abbastanza significative nel loro complesso. L’aspetto e il momento classico di quello che gli italiani chiamano il «regime curtense», i francesi il

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regime domanial, vengono comunemente identificati dagli studiosi nelle grandi villae delle regioni comprese tra la Loira e il Reno nell’età carolingia, per la quale, però, è bene aggiungere subito, disponiamo anche di una serie di documenti eccezionali, dai «polittici» al Capitulare de villis [DOCC. 2, 4], ai Brevium exempla. Non è escluso che la stessa importanza politica della zona del domain classique in questo periodo sia parzialmente riconducibile all’organizzazione e all’importanza delle sue grandi proprietà. Difficile stabilire una media nel rapporto tra pars dominica e poderi tributari. Con maggior sicurezza si può affermare che le terre dominiche comprendevano una percentuale più alta di incolto. Nelle terre di Saint-Germain-des-Prés la pars dominica, boschi compresi, copriva un’estensione vicina a quella delle terre tributarie (rispettivamente ettari 16.020 e 16.728). La  terra arabilis del dominico rappresentava invece solo un po’ più di un quarto dello spazio coltivato. In ogni complesso le terre dominiche potevano superare i 250 ettari. Per Saint-Remi di Reims la media era di 175 ettari, per Saint-Bertin di 155. A Staffelsee, in Baviera, la pars dominica misurava 247 ettari. Curioso il caso dell’abbazia di Lobbes, nell’Hainaut, che disponeva di blocchi di terre dominiche la cui porzione coltivata variava da 450 ettari a 30. I monasteri e i proprietari più piccoli, che poi dovevano essere la maggioranza, avevano terre arabili di estensione oscillante tra 5 e 50 ettari. Ad esempio quelle dell’abbazia di San Pietro di Gand misuravano 25 ettari. Nella piccola villa di Bousignies il monastero di Saint-Amand disponeva di una pars dominica di soli 14 ettari, cioè, grosso modo, l’equivalente di una azienda contadina. Le terre dominiche contenevano di regola al centro una serie di immobili: l’abitazione («casa», «sala dominica») col granaio, le stalle e altri eventuali annessi agricoli, talvolta locali per il lavoro degli artigiani e delle donne. Il tutto era, nelle villae francesi, circondato da un muro. Un giardino, un frutteto, anch’essi spesso protetti di mura, si addossavano agli immobili. Dove il clima lo permetteva c’era anche un vigneto. Parte integrante del dominico erano il mulino e il frantoio. Essi potevano essere sfruttati in economia, ma anche affittati per un versamento annuale in natura. La mano d’opera necessaria per coltivare le terre dominiche era fornita dai poderi tributari. I contadini dovevano al grande proprietario, oltre a un censo in denaro o in natura, un certo numero di giornate di lavoro, con o senza bestiame, nel corso dell’annata agricola. In alcuni grandi complessi si trattava, come abbiamo visto (3. Mutamenti nella dinamica degli investimenti), di una ingente mole di mano d’opera. Al proprio sostentamento i contadini provvedevano con le terre che avevano in concessione, di fatto ereditariamente, anche quando manchi — come avviene quasi ovunque — una regolamentazione scritta. Alle terre contadine erano connessi diritti d’uso su prati e boschi della corte o della villa o su prati e boschi comuni a più ville o più corti. Il nome con cui il complesso delle terre di una famiglia contadina veniva allora designato era quello di «manso» (mansus), diffuso in tutta Europa, dalla Francia all’Italia, dalla Germania all’Inghilterra e ai paesi scandinavi (Hoba, Hova in lingua germanica = Hufe in tedesco moderno; hida per gli anglosassoni). Tralasciando il tormentatissimo problema delle sue origini, basterà dire che il manso era una «unità fiscale», perché designava «l’insieme delle terre gravate da certe prestazioni a favore del dominus»; era «nello stesso tempo una unità di coltura calcolata in modo da poter provvedere ai bisogni di una famiglia » (Ch. Ed. Perrin). Il manso rivela in età carolingia una notevole complessità. Intanto c’erano varie categorie di mansi: «ingenuili», «servili», «aldionali», questi ultimi due particolarmente diffusi tra Reno ed Elba. A Saint-Germain-des-Prés, invece, su un totale di 1646 mansi, 1430 erano ingenuili, 191 servili, 25 soltanto aldionali. Incerta la condizione di altri 35 mansi. I loro nomi diversi stanno a indicare le diverse categorie di coltivatori — liberi, schiavi, affrancati — che in passato si erano insediati nel manso. Ma nel IX secolo, ad esempio nelle terre di Saint-Germain, la corrispondenza tra la qualità del manso e quella di chi lo lavora non è più costante. Mentre le famiglie dei «servi», cioè degli antichi schiavi, sembrano essersi estinte o aver modificato il loro status personale, quelle dei «coloni» liberi appaiono insediate anche sui «mansi servili». La distinzione fra le categorie di mansi continua solo perché l’estensione e i gravami erano diversi: più estesi e meno oberati quelli ingenuili rispetto a quelli servili. Nelle terre di Saint-Germain il manso ingenuile misurava in media più di 10 ettari, quello servile solo 7,43. Da luogo a luogo l’estensione del manso variava in misura molto notevole, in conseguenza, com’è logico supporre, della qualità del suolo e della densità demografica. In quattro differenti villaggi dei dintorni di Parigi, dipendenti da Saint-Germain-des-Prés, la misura media era rispettivamente di ettari 4,85; 6,10; 8,00; 9,65. I mansi dell’abbazia di Lobbes andavano da 15 a 38 ettari. A Poperinghe, nelle Fiandre occidentali, 47 mansi dell’abbazia di Saint-Bertin così si dividevano 1029 ettari di terra: dieci misuravano in media 30 ettari, dieci circa 25, dieci circa 19, dieci circa 17. Anche i canoni erano molto vari e non necessariamente limitati ai soli prodotti agricoli. A Bussy, nella Perche, dove il minerale abbondava, il monastero di Saint-Germain-des-Prés esigeva da ogni manso servile cento libbre di ferro. In una sua proprietà l’abbazia di Fulda riceveva complessivamente — da 594 aldi — 630 porci, 434 pezze di stoffa, 739 polli, 8194 uova, 189 montoni, 39 carrette di grano, 455 moggi d’avena. Un manso di Quillebeuf dava uno staio di luppolo, un pollo e cinque uova. A Lorsch, in Renania, i mansi ingenuili dovevano 5 moggi di orzo, una libbra di lino, e, a Pasqua, 4 denari, una gallina, 10 uova, 2 carichi di legna; i mansi servili una uncia, una gallina, 10 uova, un porco del valore di quattro denari. L’aumento della popolazione si ripercuote molto presto sui mansi, che appaiono «sovrappopolati», indice quanto mai eloquente della impellente necessità di alzare le rese della terra e di allargare l’area coltivata. Già all’inizio del IX secolo in una delle villae di Saint-Germain a sud di Parigi vivevano in media, su ogni manso, quasi due famiglie. Anche nei casi in cui si fosse trattato di più famiglie povere associatesi per coltivare una unità di cultura originariamente destinata a una sola famiglia e corrispondere insieme al dominus i relativi censo e servizi, l’unità del manso era ormai solo fittizia. E infatti altrove, nelle terre di Saint-Germain come a Prüm, nella diocesi di Treviri, la divisione, sia per spartizione fra eredi che per altri motivi compresa la compravendita, si impose anche di diritto e si cominciò a parlare di «mezzi-mansi» o «quarti di manso». Non ovunque si affermarono le forme «classiche» della grande proprietà, ma tipi più o meno «bastardi». C’è altresì da precisare che Georges Duby ha probabilmente ragione quando parla del regime domanial classico come di una breve fase in una lunga evoluzione, come di una struttura in fondo transitoria. Più che nelle zone comprese tra il Reno e l’Elba, dove le grandi proprietà, in particolare ecclesiastiche, pare superassero in estensione quelle francesi, dove la percentuale dei mansi servili era più alta e più bassa quella dei servizi per la presenza di un alto numero di servitori domestici (mancipia) [1] il regime curtense rivela forse maggiori diversità nell’ovest e nel sud. Neppure in Inghilterra, sebbene il terminemanor sia d’importazione normanna, la situazione pare essere stata molto diversa da quella della Francia del nord. La Borgogna costituisce invece un terreno di transizione verso tipi di proprietà in cui la scissione dei mansi dal dominico è molto frequente. Anche nella Lombardia il ruolo delle prestazioni, almeno allo stato attuale della ricerca, appare un po’ più esiguo. Vi compare d’altra parte una fitta classe di libellarii, legati al proprietario da un contratto scritto — l’uso della scrittura si è meglio conservato in Italia — e in posizione, almeno giuridica, migliore rispetto ai coltivatori d’Oltralpe. Resta da precisare quale fosse il rapporto tra la curtis e la villa da un lato, il villaggio dall’altro. Anche in questo caso le varietà sono notevoli e tendono, d’altro canto, a modificarsi con il tempo. Si può così parlare di una curtis e di una villa che si identifica con il villaggio; di altre le cui terre tributarie sono concentrate in un medesimo villaggio, che accoglie però anche terre di altre proprietà; di terre di una medesima

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proprietà distribuite in più villaggi, a contatto sempre con quelle di proprietà diverse (tipi, questi due ultimi, quanto mai adatti a evoluzioni semplificatrici). Potevano esserci infine corti con terre disperse in un gran numero di villaggi (poche terre tributarie in ciascuno). Proprietà di questo tipo erano prevalenti nella Germania occidentale, nei Paesi Bassi, nell’Inghilterra settentrionale e orientale (Danelaw). [1] Di fronte ai quasi 2000 mansi di Saint-Germain-des-Prés stanno, ad esempio, i 4000 del monastero di San Gallo, gli 11.000 che nell’IX secolo possedevano sia un’abbazia sassone che un’abbazia bavarese. Ma ci sono anche problemi di cronologia che rendono difficili questi paragoni. Per esempio si ritiene che nella parte orientale degli attuali Paesi Bassi il regime domanial sia penetrato dalla Germania renana solo nel X e XI secolo.2. La signoria rurale (XI-XIII secolo)Il crollo dell’autorità statale durante i secoli IX e X, le incursioni normanne, saracene, magiare determinarono in Europa un rafforzarsi dei centri del potere locale e un ulteriore atomizzarsi della vita politica. La terra, la proprietà, i contadini, l’aristocrazia fondiaria ne uscirono trasformati e la grande proprietà vide potentemente rafforzate certe tendenze che le erano già connaturate da secoli. Il regime «curtense»,domanial, venne a poco a poco demolito, meglio sarebbe dire si trasformò, per far posto alla «signoria rurale».Quale fosse la percentuale dei liberi piccoli proprietari ancora sfuggiti alla forza attrattiva della grande proprietà è praticamente impossibile dire. Non è da escludere che in Italia, dove la grande proprietà, la curtis, pare essere stato fenomeno meno invadente che nella Francia del nord, essi fossero in numero più alto che in varie altre regioni d’Europa. Ma ovunque la loro progressiva diminuzione appare nei secoli IX e X marcata, ovunque chiara la tendenza dei piccoli allodi contadini a trasformarsi in terre tributarie, o tenures, secondo l’espressione francese comunemente usata dagli studiosi. Il grande proprietario che fortifica la propria  curtis o il villaggio finisce per occupare il posto lasciato vacante dalle autorità centrali e dalle loro articolazioni regionali. Anche sui liberi si impone così la protezione del potente del luogo; la signoria assume per questo aspetto una chiara base territoriale e politico-amministrativa che finisce, se non per cancellare, certo per ridurre, nell’insieme dei legami che legano l’uno all’altro coltivatore e signore, la parte strettamente fondiaria della passata organizzazione curtense. La signoria presenta aspetti svariati, non tutti e in toto sempre concentrati nelle mani di un medesimo signore laico o di un medesimo istituto ecclesiastico. Con diversità notevoli da regione a regione e da signoria a signoria, il signore sfrutta in primo luogo i sottoposti sul piano giudiziario, essendo a lui passati  de facto e poi de iure più o meno larghi diritti giurisdizionali. Ma anche su un altro terreno egli si è impadronito di prerogative statali, per esempio del diritto sulle acque. Questo diritto si trasforma per il signore, in primo luogo, nel monopolio del mulino. È un nuovo forte prelievo, da parte sua, sul lavoro contadino. Ad esso si associa talvolta il monopolio del frantoio e quello del forno. Sono questi i ricavati economici del diritto di «banno» (da cui l’espressione «signoria bannale»), cioè del «diritto generale di comandare, di costringere, di punire». Ad aggravare questo diritto un altro se ne aggiunse, genericamente collegato alla protezione accordata dal signore rurale ai suoi uomini (e paragonabile, su un gradino più alto, all’«aiuto» dovuto dal vassallo), cioè la «taglia», un contributo in denaro, il cui ammontare, almeno all’origine, veniva fissato arbitrariamente dal signore. Pare, dai pochi dati disponibili, che in molte regioni i diritti di giustizia, la taglia, le «bannalità», tutte le novità che ai vecchi coltivatori dellacurtis dovevano apparire spesso superimpositiones (l’espressione compare in documenti dell’Italia padana), finissero per superare largamente i redditi che il signore traeva dalle terre. Ciò almeno per la Francia del regime domanial classico. Per l’Inghilterra, viceversa, un potere reale molto più solido limitò il potere signorile sia per quel che riguarda l’ammontare della taglia, sia per quel che riguarda l’amministrazione della giustizia. A queste diversità sembra riconducibile il maggior disinteresse di molti signori continentali per ciò che rendeva la terra e per la gestione diretta della pars dominica e, viceversa, un impegno crescente di quelli inglesi, a partire dalla fine del XII secolo, per un migliore sfruttamento della terra. È impossibile stabilire quale ruolo abbia avuto nella vita economica delle aziende rurali questo più o meno regolare prelievo di ricchezza da parte della signoria. Non è escluso che esso abbia, da un lato, funzionato come «stimolante» della produzione contadina, ma il periodico salasso di riserve che esso determinava rallentava senza dubbio la possibilità di ascesa economica dei contadini più attivi o più fortunati. Delle trasformazioni di cui abbiamo parlato si conoscono, per la verità, solo i punti di partenza e di arrivo. La scarsità della documentazione e di specifiche monografie lascia nelle tenebre le fasi successive del lungo processo. Fra le zone meglio conosciute, la Lorena occupa un posto privilegiato grazie alle pazienti ricerche di Ch. Ed. Perrin. In questa regione le prime menzioni di monopoli signorili — forno, frantoio, mulino — appaiono nei documenti tra il 984 e il 1069. I secoli della lenta maturazione della signoria sono anche contrassegnati dalla scomparsa del manso e dei suoi sottomultipli, dal frazionamento progressivo del dominico, dal suo parziale spezzettamento in tenures, dall’assottigliarsi dei servizi contadini e dal parziale ricorso dei signori al lavoro salariato per coltivare le terre rimaste. Prima di scomparire il manso continuò a frazionarsi. In Normandia esso scomparve prestissimo, probabilmente già nel corso del X secolo, lasciando il posto alla charruée. Nel territorio senese i documenti relativi al monastero della Berardenga, studiati da Paolo Cammarosano, rivelano, a partire dalla metà del secolo XI, un frazionamento crescente e il manso viene ricordato per l’ultima volta nel 1131. Intorno alla stessa data esso compare per l’ultima volta anche nelle carte della canonica di Santa Maria di Siena e in quelle della Badia a Isola. Più o meno simile e forse ancor più netta fu l’evoluzione nel confinante territorio fiorentino, dove il manso, sempre più frazionato, si dissolse nel secolo XI o nei primi decenni del secolo successivo. In Lorena il quarto di manso diventò, nel corso del XII secolo, l’unità di tenure per eccellenza. Nel secolo successivo scomparve anche il quarto di manso. Nel territorio di Namur, a partire dal 1200, le fonti non nominano più il manso, ma solo il quarto di manso. Parallelamente la Hufe tedesca si divise presto in Halbehufe e Viertelhufe. Più a lungo resistette la hide inglese, che fu sostituita nel corso del XIII secolo dalla virgata (un quarto di hide) e dalla bovata (un ottavo di hide), Ma ciò avvenne così tardi perché l’imposta reale era basata sulla misura originaria. Scomparso il manso, entità territoriale di percezione dei servizi e dei censi, questi si individualizzarono, con crescenti difficoltà per il signore di goderne come in passato. Non mancarono tuttavia delle regioni, come la Baviera o la Germania nord-occidentale, in cui l’unità della tenuresi mantenne grazie al principio di primogenitura fra i contadini o al divieto di dividere fra gli eredi le terre bonificate. In Lorena per le prestazioni di lavoro rimase responsabile il quarto di manso mentre il censo riposò su ogni parcella di terra. Nel territorio di Namur invece, nel XIII secolo e anche più tardi, per il censo continuerà a rispondere il quarto di manso, che pure era ormai frantumato. Per quel che riguarda l’evoluzione del dominico vanno introdotte nel discorso generale notevoli sfumature e precisazioni. Certamente molte grandi reserves francesi paiono essersi assottigliate per far posto sulle loro terre alla crescente popolazione contadina. Alle sterminate distese di alcune grandi proprietà carolingie si è sostituita una terra dominica più compatta, assai più ristretta e più vicina all’abitazione del signore. Sono state trasformate in tenures soprattutto le terre più lontane e più scomode. Ma il fenomeno è quanto mai complesso e molto difficile da misurare nella sua reale portata. Altrettanto complesse, anche se meglio note, sono le fasi della scomparsa dei servizi. Nella Francia a sud della Loira e della Borgogna, nell’ovest armoricano, in Italia, in tutte le regioni in cui le prestazioni erano state sempre più

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leggere, nel corso del XII secolo esse appaiono in via di estinzione o già estinte. «In tal senso l’Ovest e il Mezzogiorno della Francia, oltre all’Italia, appaiono come precursori» (G. Fourquin). In ogni modo ovunque, nel continente, l’«unione organica» tra dominico e terre tributarie era ormai in pieno disfacimento e il XII secolo vide un po’ ovunque l’alleggerimento dei servizi concesso dai signori ai contadini dietro un versamento in denaro. A volte la riduzione avvenne, o continuò, nel corso del secolo successivo, come risulta per Vlierzele, presso Aalst, nelle terre dell’abbazia di San Bavone di Gand. Una zona di ritardo appare, nel complesso, l’Inghilterra, dove i servizi rimasero, per tutto il XII secolo, molto più vitali.3. La comunità rurale e le sue conquisteUn altro protagonista, anzi un protagonista antichissimo ma per il passato scarsamente illuminato dai documenti, occupa in questi secoli il quadro delle campagne: la comunità rurale. Le sue richieste e la sua pressione — codificate in tutta l’Europa in centinaia di «carte di libertà», di «carte di franchigia», di consuetudines, di Weistümer, di «statuti» — possono in una certa misura apparire una reazione ai nuovi prelievi sul bilancio della famiglia contadina instaurati dalla signoria, ma non è meno vero che le richieste sono dettate dal desiderio sempre più sentito di adeguarsi alla rinascita e alla sempre maggiore mobilità del mercato, dalla necessità di rendere sempre più libere le persone e sempre più larga la disponibilità della terra per poterla vendere e acquistare, impegnare, lasciare in eredità. Diritti e doveri vengono in ogni modo messi per scritto, sempre più al riparo dall’arbitrio signorile. La presa e la disponibilità crescente che il contadino riesce ad affermare sulla tenure fanno apparire sempre più questa come terra «sua» piuttosto che come terra del signore. Si può affermare che quel passaggio di diritti politico-giurisdizionali alla grande proprietà di cui abbiamo parlato ha favorito, alla lunga, la ricostituzione della piccola proprietà contadina, perché nella pratica corrente la tenure si avvicina sempre più all’allodio, alla proprietà piena non gravata da censi o servizi. Per quanto sulla tenure coesistano due diritti, entrambi ereditari, cioè quello «eminente», che spetta al signore, e quello «utile», che spetta al contadino, è infatti quest’ultimo che finisce per prevalere. A rappresentare materialmente il primo è infatti soltanto un censo, talvolta modesto; a rappresentare il secondo è la ben più tangibile utilizzazione e coltivazione della terra attraverso le generazioni. In molte province francesi come l’Ile de France, dove i diritti del contadino sulla tenure pare si fossero allargati in modo particolare, i giuristi cominciarono, dal XV secolo, a qualificare come proprietà il «dominio utile», cioè, a rigore, il semplice «possesso» di cui godeva il contadino sulla tenure. Questa tendenza appare altrettanto e anche più marcata nell’Italia centro-settentrionale, dove risulta altresì chiarissima, anche per influsso della politica cittadina e degli interessi cittadini, una vera e propria «corsa verso l’allodio», una progressiva liberazione delle terre da fitti e censi. In larghi settori delle nostre campagne «comunali» la trasformazione si accompagna a una vera e propria distruzione totale delle strutture signorili, che meglio resistettero nelle zone marginali e di montagna. Pur conosciuto nelle sue linee generali, di questo fenomeno è ancora difficile misurare l’entità luogo per luogo, ma non par dubbio che la Toscana in genere, il contado fiorentino più in particolare, rappresentino dei casi limite, se non il caso senz’altro più appariscente del fenomeno. In tutta l’Italia del centro e del nord i contadini ottennero spesso la «libertà», cioè furono sciolti dai legami della signoria, per intervento diretto dei grandi comuni cittadini, che in tal modo completarono e condussero al limite estremo le spinte interne alla società rurale. Ma come vedremo sono proprio le campagne italiane a dimostrare in modo inequivocabile che a una maggiore libertà giuridica delle terre e degli uomini si accompagnava una sempre più forte differenziazione sociale e una crescente proletarizzazione contadina, sia attraverso contratti a breve termine, che di fatto rimettevano il signore in pieno possesso della tenure contadina, sia attraverso il massiccio intervento della borghesia cittadina nelle campagne.4. La signoria nel XIV e XV secoloNon sempre chiaro e comunque abbastanza discusso è il ruolo della «crisi» del Trecento, dei «tempi difficili», sulle vicende della signoria e sull’evoluzione sociale di lungo periodo. Indipendentemente dai fattori quantitativi non si può negare che l’economia signorile continua a regredire e che salvo temporanee riprese l’impoverimento del mondo signorile continua almeno fin verso la metà del XV secolo. Di pari passo continua la progressiva «liberazione personale» dei contadini e il progressivo divergere delle fortune all’interno della società rurale. Il marasma dei prezzi cerealicoli e poi la loro tendenza depressiva, la penuria della mano d’opera e il concomitante rialzo dei salari, in Francia le difficoltà politiche della guerra dei cent’anni con le connesse distruzioni e insicurezza (ma anche per l’Italia sarebbe interessante calcolare il ruolo negativo per le campagne avuto dalle compagnie di ventura) ebbero sulla signoria effetti profondamente negativi. Con chiarezza, come al solito, i preziosi conti delle signorie inglesi denunziano l’abbassamento delle entrate. Nel manor di Forncett il censo medio di un acro di terra, che era ancora di più di 10 denari nel 1376-1378, scese a 9-8 denari nel 1400-1440, a meno di 8 nel 1441-1450, a un po’ più di 6 nel 1451-1460. Questo abbassamento in valore nominale di più di un terzo, in meno di un secolo, corrisponde a una perdita reale più consistente a causa della svalutazione della moneta d’argento. Al di qua della Manica nel 1395 il censo delle vigne di Saint-Germain-des-Prés a Valenton era di 8 soldi per arpento, ma nel 1456 era calato a soli 4 soldi di media. Le terre di Meudon corrispondevano all’abbazia, nel 1360-1400, un censo medio di 7 soldi parisis, scesi a 4 soldi e 8 denari nel 1422-1461, a 2 soldi e 7 denari nel 1461-1483. A fatica, tra il 1483 e il 1515, si risale a 3 soldi. Esempi della caduta della rendita signorile esistono anche per la Germania. I redditi fondiari dell’Ordine Teutonico scesero dai 23.370 guldens del 1361 ai 19.649 del 1459. Tra il 1352 e il 1437 il capitolo cattedrale di Schleswig vide le sue entrate, valutate in grano duro, scendere da 1.057.651 litri a soli 336.519 litri. I signori di Holloben in Sassonia, che percepivano nel 1394 30 misure di segala, 54 d’avena, 33 monete, ricevevano solo 5 misure di segala, 9 d’avena, 5 monete nel 1421. La riduzione del dominico sembra in certi casi continuare, questa volta non più, come in passato, a causa della pressione demografica, ma piuttosto per gli alti salari e il basso prezzo dei cereali. Il fenomeno è comunque più avvertibile nella Francia del nord, mentre in Inghilterra appare molto meno evidente e in certi casi sconosciuto. Le terre dominiche costituiscono ancora, tuttavia, verso il 1400-1450, in molti casi, dei blocchi rispettabili, non solo in Inghilterra, ma anche nell’Ile de France: un centinaio di ettari e anche di più. Fra le fortune signorili meglio sembrano aver resistito quelle ecclesiastiche, soprattutto le maggiori, e quelle della grande aristocrazia laica, mentre dalla crisi sarebbero state più duramente colpite le medie fortune signorili (ma per l’Inghilterra gli studiosi sono in disaccordo). Generale appare, comunque, nelle grandi signorie, la tendenza, sia in Francia che in Inghilterra, ad abbandonare la gestione diretta per l’affitto. I lords inglesi affittavano talvolta in blocco un loro manor, ma altre volte ne suddividevano l’affitto tra più locatari. Il movimento interessò anche i grandi proprietari ecclesiastici, ad esempio l’arcivescovado di Canterbury, che tra il 1380 e il 1420 affittò i suoi quaranta dominii con i loro mulini, i loro prati, tutti i loro annessi. Si può parlare, di fronte a questo diffondersi dell’affitto, di un mutamento di mentalità dei signori, di un loro progressivo distaccarsi dalla terra e di una loro trasformazione in  rentiers? La risposta appare incerta e, in molti casi almeno, l’attaccamento alla terra, l’attenzione all’andamento del mercato, la cura nella scelta dei propri fittavoli non potrebbero ragionevolmente essere messi in dubbio. Non in tutta l’Europa l’evoluzione fu la medesima. In buona parte

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della penisola iberica e nell’Italia meridionale la grande proprietà con i connessi diritti rimase vigorosa, anzi si rafforzò, ed in entrambi i casi per lo scarso potere dello stato nei riguardi delle grandi famiglie. In Castiglia, in Andalusia, nell’Estremadura i «grandi» di Spagna, non contrastati da una borghesia locale, accrescono, nella seconda metà del Trecento, le loro già immense fortune, i loro «favolosi domini». Evoluzione abbastanza simile all’altra estremità dell’Europa, cioè nella Germania orientale. In questo «paese nuovo» la caduta demografica ebbe effetti particolari. I signori si impadronirono delle terre contadine rimaste deserte per ammassare vaste proprietà. La rarefazione della libera mano d’opera salariata, di cui la nobiltà si era servita fino ad allora, creava un difficile problema. Essa lo risolse, grazie alla debolezza del potere politico dei principi, istituendo una specie di nuovo diritto di banno e piegando i contadini a prestazioni d’opera sulle terre dominiche. La classe rurale della Germania orientale, che era stata la più libera d’Europa perché attirata a condizioni favorevoli in una terra di bonifica, cadde cosi in un nuovo servaggio proprio quando i contadini dell’Occidente miglioravano il loro status giuridico personale. La ripresa agricola della seconda metà del Quattrocento segnò in molte regioni una ripresa anche per la classe signorile. Alla fine del secolo le sue risorse paiono essersi notevolmente elevate rispetto al 1430-1440, pur rimanendo molto lontane da quelle dell’inizio del Trecento. Per questi ultimi cinquant’anni del Medioevo si parla perfino di una «reazione signorile», che in Inghilterra si riassume in primo luogo nel nascente fenomeno delle  enclosures. Il signore si impadronisce, a danno della comunità rurale, dei campi aperti a coltura cerealicola e delle terre comuni su cui i contadini hanno inviato da secoli al pascolo il loro bestiame, le unisce alle sue terre e, tutte ridotte a pastura, le affida a un mercante di lana o di bestiame per il pascolo degli ovini. Questa espansione della pastorizia, riconducibile ad una espansione del lanificio inglese, è avvertibile anche in alcuni settori del mondo mediterraneo dove si rafforza la pratica secolare della transumanza (Mezzogiorno italiano, Provenza, Spagna). Per l’Italia centro-settentrionale, l’Italia della civiltà comunale — ormai già tramontata — non sappiamo se la reazione signorile si fece ugualmente sentire, frenando il profondo processo di crisi della signoria, invertendone la marcia e rafforzandone le strutture dove queste erano più largamente sopravvissute. Per la Toscana, per Firenze senza alcun dubbio, le tendenze ormai da secoli operanti pare non si interrompessero. La reazione signorile avviene nella regione solo nel secolo successivo, col granducato mediceo. Non sicuramente documentata, per quella che era stata l’Italia dei grandi comuni cittadini, è anche fino ad ora una riconversione in pascoli delle terre a coltura. È possibile che una parte almeno delle terre liberate dal crollo demografico siano andate a costituire poderi più vasti, più sicuramente sufficienti a nutrire una famiglia contadina. Non si deve dimenticare infatti che in pochissimi altri luoghi le terre erano state così sovrappopolate e il bisogno di cereali per le cittadinanze così impellente come in questo settore dell’Europa.5. Le difficoltà contadine. Proletarizzazione rurale e proprietà cittadina nell’Italia centro-settentrionaleA partire dal secolo XIII il mondo contadino diventa sempre più largamente campo di sfruttamento per usurai, ebrei e mercanti, mentre vede al tempo stesso accentuarsi le differenziazioni al suo interno ed emergere sulle sfortune dei più una classe di  kulak. Anche per i contadini il bisogno di denaro è cresciuto e la circolazione del numerario si è fatta molto più vivace. Il denaro è necessario per migliorare l’azienda, acquistare bestiame o terre che rincarano di continuo, per comprare le franchigie e le «libertà» che i signori mettono in vendita, per rifornirsi dei beni e degli attrezzi prodotti dagli artigiani della città, del borgo o del villaggio, per soddisfare infine le richieste di una crescente fiscalità. Molti contadini ricorsero ai prestatori «e la moltiplicazione dei crediti rurali figura fra le più sicure testimonianze dell’espansione economica di quel tempo» (G. Duby). Fra i prestiti, i più frequenti sono quelli per il consumo immediato. L’acquisto di stoffe a credito era del resto un fenomeno normale. In un piccolo borgo della regione di Namur, dei finanzieri «lombardi» — di loro sono piene le campagne della Francia orientale, il Delfinato, la Lorena, l’Hainaut — stipularono con contadini, tra il 1295 e il 1311, una serie di prestiti a breve scadenza che si concludevano in sostanza con l’operazione particolarmente esosa, ma diffusissima, dell’acquisto anticipato delle messi. A Perpignano erano invece gli ebrei a percorrere le campagne e si è calcolato che intorno al 1300 il 65% dei loro crediti erano stati contratti con dei campagnoli. Prestiti camuffati rappresentano spesso i vari contratti — bail à cheptel nella Francia settentrionale, gasaille in Provenza, «sòccida» in Italia — con i quali i ricchi, signori o borghesi, anticipavano denaro ai contadini perché potessero costituire o aumentare il loro armento. Talvolta i contadini in difficoltà si rivolgevano invece a un vicino più agiato. Numerosi prestiti di questo tipo sono stati segnalati dal Duby per i villaggi provenzali. Rimborsabili in numerario o in grano — quest’ultimo al prezzo del mese di maggio — servivano per l’acquisto di un bue, di un asino, di una casa, di cereali. Si impegnava, di volta in volta, la casa o la terra, ma anche il raccolto futuro, talvolta il raccolto di un certo numero di anni, che sarebbe servito a restituire a rate il debito. Con questo tipo di transazione, che si diffonde largamente dalla metà del XIII secolo, il debitore accende sul proprio fondo, in cambio di una fornitura immediata di denaro, una rendita in natura, a favore del creditore, della durata di quattro, dieci, venti anni. Nella letteratura il tipo del contadino ricco compare abbastanza spesso: «ce ne sono parecchi nel Roman de Renart, e sono i nemici personali dell’eroe» (J. Le Goff). Anche altrove la società contadina appare sempre più articolata e differenziata. Da un censimento inglese del 1279 risulta che solo il 20% circa dei villani e il 10% circa dei livellari liberi possedevano un’estensione di terra sufficiente a farli classificare come contadini agiati. Aumenta, fra i contadini, il numero di coloro che per lavorare hanno solo le braccia: in Francia manouvriers o brassiers, in Inghilterra «i poveri cottiers che si procurano di che vivere con il lavoro delle braccia». Per un piccolo villaggio dell’Appennino, vicino alle sorgenti del Tevere, mi è stato possibile contare 81 prestiti — l’elenco è sicuramente incompleto — contratti con un usuraio dai compaesani o da abitanti dei villaggi circostanti tra il 1302 e il 1315. Anche in questo caso si trattava di prestiti di consumo. Il prestito si innestava talvolta a una speculazione sul prezzo dei cereali, sottoposti come nessun altro prodotto a forti variazioni. A far emergere nella comunità rurale queste figure di contadini ricchi aveva del resto contribuito, fin dalle soglie dell’XI secolo, la signoria stessa. Villici, servientes incaricati della riscossione di gabelle ai ponti o sui mercati, mugnai o guardaboschi, non diversi dagli altri contadini per la loro posizione giuridica, misero a profitto le loro funzioni particolari, che divennero talvolta ereditarie, e dettero vita ad un ceto di semiliberi benestanti. Alcuni di loro divennero cavalieri e ammassarono grandi ricchezze, finendo per minacciare la posizione stessa del signore. In Francia lo sfruttamento del contadino da parte dei prestatori sembra assumesse soprattutto la forma della costituzione di rendita, che appare nel corso del XII secolo, si diffonde lentamente nella prima metà del XIII e diviene d’uso universale nella seconda. Il meccanismo dell’operazione, semplicissimo, offriva al capitale un impiego sicuro perché la mancata corresponsione degli interessi consentiva al creditore di impadronirsi del bene sul quale era stata costituita la rendita. Le rendite erano inoltre commerciabili e il loro mercato era sempre vivace. Fu questa una strada per cui i detentori di numerario — in primo luogo, sembra, signori e clero, più che borghesi e contadini ricchi — investirono capitali nelle aziende contadine e presero parte attiva e diretta alla produzione agricola. In cambio della somma di cui aveva bisogno, il contadino infatti costituiva sul suo allodio o sulla sua  tenure una rendita annua e perpetua, oscillante tra il 5 e l’8% della somma prestata. Tali interessi venivano pagati in denaro, ma molto spesso

Page 15: 1 file · Web view1. La società medievale, società agricola. Ancora all’inizio del Trecento, quando una profonda rivoluzione commerciale aveva reso l’Europa molto diversa da

anche in grano. Il malessere e le difficoltà contadine vengono rivelate anche da un altro fenomeno, sostanzialmente comune a tutti i paesi del continente nonostante le molte varietà locali e la possibile diversa intensità. Si tratta della trasformazione che i signori riuscirono talvolta a imporre, almeno sulle terre «a censo» divenute vacanti, delle concessioni ereditarie in concessioni a tempo breve o revocabili a volontà del padrone. Con tale meccanismo, che a differenza di quel che accadeva nelle concessioni ereditarie poneva il coltivatore nella condizione di un nullatenente, al signore era possibile adeguare il fitto alle variazioni della produzione. Così, nella seconda metà del XIII secolo, vediamo moltiplicarsi nelle signorie inglesi le concessioni per cartam, cioè i contratti a tempo breve. La chiesa di Ely riuscì a triplicare il loro gettito tra il 1251 e il 1336. Nel 1342 questo rappresentava il 57% dei canoni. Gli ultimi quarant’anni del Duecento vedono anche molti contadini dei Costwolds perdere l’ereditarietà delle loro terre e divenire affittuari a tempo. Il sistema della concessione temporanea è largamente utilizzato in questi anni anche nei polders fiamminghi. La Germania occidentale conosce soprattutto aziende contadine affittate a nove, dodici o ventiquattro anni. In Baviera si afferma nel corso del secolo il Freistift, che è una specie di tenure revocabile (di fatto, pur riconcedendola di regola al solito detentore, il signore otteneva ogni anno da lui un dono e un ritocco al censo). Anche i monasteri italiani cercarono di imporre sempre più concessioni a breve termine. La signoria milanese di Sant’Ambrogio quasi raddoppiò in tal modo l’ammontare dei suoi canoni nel comune rurale di Origgio tra il 1250 e il 1320. In Toscana l’abbazia cistercense di Settimo affittava nel 1338 quasi tutte le sue terre con contratti non più lunghi di cinque anni. Georges Duby osserva che solo la circolazione del denaro e l’aumento della popolazione avrebbero potuto determinare novità così sfavorevoli per i contadini. Per l’Italia va osservato che sui tempi precisi e il ritmo di questi fenomeni non siamo ancora informati mentre ne conosciamo abbastanza bene, nel complesso, le risultanti finali. Ma non par da escludere che quel fenomeno di proletarizzazione contadina, così caratteristico e così profondo nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale, si sia verificato in larga misura, almeno nelle campagne fiorentine, tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, in concomitanza cioè con quei «tempi difficili», con le carestie generali e col momento di massima fame di terra. Tra il 1281 e la metà del XIV secolo la badia di Passignano finisce per riacquistare le terre allivellate ai contadini del villaggio di Poggialvento, spogliandoli poco a poco delle loro tenures e l’operazione pare accelerarsi negli anni di carestia. Anche nel territorio dell’Impruneta, abbastanza vicino al precedente, la ricchezza dei contadini indipendenti si assottiglia di continuo nella prima metà del XIV secolo, come ha dimostrato recentemente David Herlihy. Per tutto il contado fiorentino sono del resto rivelatori alcuni rapporti delle commissioni incaricate di sottoporre il contado all’imposta fiscale. Nel 1329 si riferisce che gli abitanti di sessantacinque parrocchie rurali erano così impoveriti che senza un alleggerimento dell’imposta sarebbero stati costretti «ad andare mendicando per il mondo». Nel 1339 si ritiene impossibile imporre alle campagne la somma fiscale preventivata, perché le famiglie più povere sono incapaci di venire incontro alle richieste del fisco. Esse «hanno venduto i loro beni e le loro proprietà a cittadini fiorentini ed anche a chierici, e sono ancora oppresse da vari e diversi debiti usurarii». Le terribili carestie rendono intollerabile una situazione giunta al limite di rottura. Per il contado di Arezzo è stato possibile intravedere sui documenti i pesanti effetti di quella del 1346-1347. Si incontrano contadini indebitati con usurai, con uomini d’affari della città, con monasteri. Si vede perfettamente la loro impossibilità di pagare l’affitto della terra o la necessità assoluta di vendere le loro proprietà per sopravvivere, oppure di sottostare a un peggioramento contrattuale. A un miglioramento — miglioramento relativo dati i bassissimi livelli di vita del contadino — durato forse un mezzo secolo o qualcosa di più, non è escluso che succeda, almeno in Toscana, un nuovo peggioramento a partire dal terzo o quarto decennio del XV secolo, quando la popolazione riprende a salire. Queste oscillazioni altrove appaiono chiarissime. In alcuni manors inglesi i salari degli operai agricoli salgono sensibilmente nella seconda metà del Trecento. Nelle campagne fiorentine si tratta soprattutto, per i contadini del Quattrocento, di un peggioramento contrattuale nei rapporti col proprietario [DOC. 27], perché a tale data ben poca terra è ormai rimasta ai coltivatori. Il catasto fiorentino del 1427 ha infatti consentito a Elio Conti di rilevare che nei dintorni di Firenze i contadini possedevano ormai percentuali di terra oscillanti tra il 2,9 e il 7,9; poco più del 4% era loro rimasto nella Valdipesa, il 12,8% nella Valdigreve, il 12% nella Valdimarina. Il passaggio delle terre contadine ai proprietari cittadini pare non si fosse interrotto neppure nella seconda metà del Trecento — questo osserva per il territorio dell’Impruneta David Herlihy — e alla scarsa competitività della piccola proprietà rurale, sfornita di capitali e di bestiame, ben poco sollievo doveva aver portato la recessione demografica, che rappresentò forse addirittura un peggioramento. Per altre regioni italiane gli studi non sono così precisi e soprattutto riguardano una situazione più tarda. Forse in alcune località marginali e arretrate, come risulta per una piccola zona delle Marche, la spoliazione dei contadini avvenne realmente più tardi, nel corso del XV secolo. In ogni modo per la Lombardia o il territorio padovano, o le campagne cremonesi, o il contado lucchese, i risultati appaiono, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, più o meno gli stessi. Molto meglio la proprietà contadina, la piccola proprietà del contadino-allevatore, resiste nelle zone di montagna. Non si creda che questo processo si fosse compiuto tutto grazie alla spoliazione dei contadini da parte degli abitanti della città. Molto spesso la differenziazione, come del resto anche altrove nel continente, avviene in campagna. Solo che i contadini agiati, i piccoli borghesi di campagna — naturalmente non loro soltanto — abbandonano le zone di origine per spostarsi in città, spesso conservando la proprietà avita. Il fenomeno è documentato per l’età comunale a Firenze, Lucca, Pisa, Genova, Bologna, Modena, Brescia. In tal modo, anche per un’altra via, la campagna diventa il mondo dei poveri, mentre la città, pur con le sue violente sperequazioni interne e le sue turbe di miserabili, diventa il mondo della ricchezza. Anche nelle regioni in cui all’inizio del Trecento i contadini avevano conservato una presa maggiore sulla terra, gli effetti provocati dall’alleggerimento della pressione demografica non pare avessero modificato le tendenze precedenti. Allorché è possibile studiare la ripartizione della ricchezza contadina, la differenziazione interna delle comunità sembra continuare anche nella seconda metà del XIV secolo. Nel manor inglese di Weedon Beck la crescita demografica aveva prodotto tra il 1248 e il 1300 lo spezzettamento di un gran numero ditenures e accresciuto il numero dei contadini poveri. Sessantacinque anni più tardi il numero dei coltivatori risulta diminuito, ma il raggruppamento di alcune tenures aveva portato alla formazione di una decina di proprietà soltanto superiori alla media. Più chiara ancora la tendenza che risulta per le terre del monastero di Stoneleigh, nei Midlands. Mentre nel 1280 solo il 2% dei contadini possedeva una tenuresuperiore a diciotto ettari, nel 1392 essi erano diventati il 23%. Tendenze dello stesso genere sono rintracciabili nella contea di Leicester e, al di qua della Manica, in Sologne. Per quanto le comunità rurali si sforzassero di impedirlo, le grosse aziende contadine continuarono a progredire sulle rovine dei più. Per l’Inghilterra risulta che nel 1377 e nel 1381 la maggioranza dei salariati, numerosissimi in certi villaggi, lavorava per contadini agiati. Anche per la Francia l’impoverimento contadino appare qualche volta molto chiaro e strettamente collegato alle vicende della guerra dei cent’anni. Per esempio il diritto di pascolo nella foresta di Neubourg fruttava al suo titolare 23 lire nel 1397-1398, ma solo 5 lire e 15 soldi nel 1437-1438, 3 lire e 11 soldi nel 1444-1445. Mentre all’inizio di questi cinquant’anni i contadini inviavano al pascolo più di 2000 porci, alla fine i contadini ve ne spingevano 430 soltanto.