filippoviola.org · 4 edizione web: maggio 2013 web edit edizione depositata e-mail:...
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FILIPPO VIOLA
LA SOCIETA' ASTRATTA
Un sistema di indifferenza
alla realtà esistenziale
degli uomini e delle donne in carne e ossa
Libro Primo
ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE
Testo del volume unico a stampa
con l’aggiunta di nuovi capitoli
Edizione definitiva ampliata e aggiornata
in tre volumi
Web Edit
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FILIPPO VIOLA
LA SOCIETA' ASTRATTA
Un sistema di indifferenza
alla realtà esistenziale
degli uomini e delle donne in carme e ossa
Libro Primo
ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE
Testo del volume unico a stampa
con l’aggiunta di nuovi capitoli
Edizione definitiva
ampliata e aggiornata
in tre volumi
Web Edit
4
Edizione Web: Maggio 2013
Web Edit
www.filippoviola.org
Edizione depositata
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E’ consentita la libera circolazione, non commerciale.
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alle mie figlie
Letizia ed Elisa
con la infondata speranza
che non abbiano a vivere
in una società astratta
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PRESENTAZIONE
1980 – 2010 «La società astratta» compie trenta anni
La società astratta è stata scritta nel 1979 e pubblicata nel 1980. Compie
quindi trenta anni. Per onorare questa ricorrenza, ci siamo decisi ad
approntare questa Edizione definitiva. Rispetto alle altre edizioni, in volume
unico, questa edizione si compone di tre volumi. Il primo volume copre l’area
tematica del volume unico, centrata su astrazione e indeterminazione, con
l’aggiunta di dieci capitoli. Il secondo volume affronta i problemi connessi a
crisi e ripresa. Il terzo volume analizza le dinamiche di alterità sociale e
antagonismo politico.
Viviamo in una società astratta, fondata su un sistema di indifferenza alla
nostra condizione esistenziale. Astratta, non nel senso che è una società
irreale, ma nel senso che fa astrazione dalla realtà sociale, non tiene conto di
come le persone realmente vivono.
L’astrazione sociale, questa glaciale indifferenza all’essere reale della
gente, investe la vita quotidiana e tende a cancellare i connotati dell’identità
personale e collettiva. La dimensione esistenziale viene così subordinata alle
nuove cadenze del processo materiale e immateriale di organizzazione e di
produzione.
L’indifferenza sistematica alle specificità sociali ed esistenziali si traduce in
pretesa di definire l’attività lavorativa e la vita di relazione in termini di
indeterminazione sociale. La società astratta esige che tutte le espressioni
della vita sociale siano indeterminate, cioè prive di riferimenti alle particolarità
personali e collettive.
Questa ipotesi di lettura della società capitalistica avanzata attraversa – in
forma accessibile anche ai non specialisti – tutte le sfere della dinamica
sociale: l’individuo, l’ambiente, i rapporti interpersonali la ricchezza sociale, i
valori, il tempo, la vita quotidiana, il lavoro. In questo senso, non si tratta di
un modello interpretativo costruito a tavolino, ma di una proposta nata come
strumento di ricerca-intervento e destinata a quanti/e, resistendo ad una
fortissima pressione ideologica, si ostinano a guardare alla realtà sociale con
gli occhi delle persone concrete.
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I N D I C E
Libro Primo
ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE
Pag.
Presentazione 7
Premessa 23
Introduzione 27
Definizione di società astratta
Sezione Prima 31
IL SISTEMA DI ASTRAZIONE SOCIALE
Premessa Sezione Prima 33
ASTRAZIONE MATERIALE E ASTRAZIONE SOCIALE
0.1 L'astrazione materiale
0.2 L'astrazione sociale Capitolo Primo 39
L’INDIVIDUO ASTRATTO
1.1 L'individuo astratto come pura funzione della valorizzazione capitalistica 1.2 Individuo astratto e persona concreta 1.3 Concretezza esistenziale e astrazione sociale 1.4 La separazione fra persona e qualità umane 1.5 La contrapposizione fra l'individuo e le sue qualità 1.6 Il bisogno di reintegrazione esistenziale 1.7 Dal disagio esistenziale alla fuga nel mondo artificiale prodotto dalla droga
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Capitolo Secondo 53
I RAPPORTI SOCIALI ASTRATTI
2.1 La desoggettivazione dei rapporti sociali 2.2 La socialità astratta 2.3 La segregazione del personale nell’individuale
2.4 La rigidità dei rapporti interpersonali profondi
Capitolo Terzo 61
LA RICCHEZZA ASTRATTA
3.1 Ricchezza concreta e ricchezza astratta 3.2 Ricchezza astratta e bisogni sociali 3.3 Denaro e materialità della ricchezza astratta 3.4 l comando del denaro sulla ricchezza sociale
come dominio di classe
3.5 Lo scontro sociale fra il valore d'uso
e il valore di scambio
Capitolo Quarto 67
I VALORI ASTRATTI
4.1 I valori astratti come valori di classe
4.2 Valori "altri" e società astratta
4.3 Dall’ambivalenza all’ambiguità dei valori astratti
4.4 Opzioni individuali e astrazione sociale
4.5 Valori mercantili e valori comunitari
Scheda A 77
DEFINIZIONI DI VALORI
Scheda B 79
VALORI CRISTIANI
E SOCIETA’ ASTRATTA
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Capitolo Quinto 81
I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI
5.1 La relazione tra rapporti e valori nel mondo giovanile
5.2 La dinamica del mondo giovanile
5.3 I giovani tra rapporti comunitari e valori mercantili 5.4 Rapporti e valori dei ragazzi di scuola
5.5 Il mondo dei ragazzi di scuola 5.6 La soggettività giovanile tra rapporti e valori 5.7 I valori dei ragazzi di scuola
Capitolo Sesto
IL TEMPO ASTRATTO 89
6.1 Tempo esistenziale e tempo astratto 6.2 Il tempo come tempo di vita
Capitolo Settimo 93
L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA
7.1 Identità sociale e sistema di astrazione 7.2 La ridefinizione della identità sociale
7.3 La rigidità della identità sociale 7.4 La precarietà esistenziale come identità sociale
Capitolo Ottavo 97
L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA
8.1 I capisaldi dell’ideologia della società astratta: la competizione e la meritocrazia 8.2 L’ideologia della flessibilità 8.3 L’ideologia della “modernizzazione” 8.4 L’ideologia della convenienza 8.5 La sintesi dell’ideologia della società astratta:
la logica del mercato
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Capitolo Nono 103
LA REGOLAMENTAZIONE MORALE
DELLA CONDOTTA SOCIALE
9.1 Regolazione sociale e regolamentazione morale 9.2 Astrazione sociale e regolamentazione morale 9.3 Società astratta e valori “altri”
9.4 Regolamentazione morale della condotta sociale e valorizzazione capitalistica
Capitolo Decimo 109 LA COMUNICAZIONE ASTRATTA 10.1 Comunicazione primaria e comunicazione secondaria 10.2 La comunicazione di massa 10.3 La comunicazione astratta 10.4 Comunicazione televisiva e valori astratti 10.5 Comunicazione di massa e potere 10.6 Telematica, comunicazione multimediale e realtà virtuale: Internet 10.7 Internet e differenziazione sociale di classe 10.8 Telematica e astrazione comunicativa
Capitolo Undicesimo 117
SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE
11.1 Soggettività sociale e comunicazione 11.2 La comunicazione mediata dalla tecnologia 11.3 Dalla comunicazione a circuito chiuso alla comunicazione a circuito aperto 11.4 Tv domestica e soggettività sociale 11.5 Dalla Tv come mezzo di comunicazione alla Tv come agenzia di socializzazione
11.6 Soggettività sociale, condizione materiale e processi immateriali
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Capitolo Dodicesimo 123
INFORMATICA E ASTRAZIONE
12.1 L’oggettivazione delle funzioni intellettive: computer e soggettività 12.2 La logica del computer
Capitolo Tredicesimo 125
LA CITTA' ASTRATTA
13.1 Vita di città e astrazione sociale
13.2 La rarefazione dei rapporti interpersonali
nella città astratta
13.3 La struttura di classe della città astratta
13.4 Periferia urbana e marginalità sociale
Capitolo Quattordicesimo 131 DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE
14.1 Astrazione e razzismo
14.2 Diversità etnica e valorizzazione del capitale
14.3 Astrazione sociale e specificità etnica
Capitolo Quindicesimo 135 ASTRAZIONE SOCIALE E VITA QUOTIDIANA
15.1 Astrazione sociale e ricerca di senso della vita
15.2 Vita quotidiana e uso della forza-lavoro
15.3 L'appropriazione della vita sociale
da parte del capitale
15.4 La separazione fra lavoro e vita
15.5 15.5 Bisogni quotidiani e valorizzazione capitalistica
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Capitolo Sedicesimo 143
ASTRAZIONE SOCIALE E QUALITA’ DELLA VITA, FRA AMBIENTE NATURALE E RISCHIO NUCLEARE 16.1 Organizzazione capitalistica della società e qualità della vita
16.2 Astrazione sociale e ambiente naturale
16.3 Astrazione sociale e rischio nucleare
Capitolo Diciassettesimo 151
ASTRAZIONE POLITICA E DOMANDA SOCIALE
17.1 L'astrazione come funzione della politica 17.2 Astrazione politica e bisogni sociali 17.3 L'astrazione come sistema di elusione della domanda sociale
17.4 La domanda sociale come prodotto dell'astrazione politica
Sezione Prima - Conclusione 159
L'ASTRAZIONE SOCIALE COME SISTEMA
18.1 L'astrazione come sistema di indifferenza sociale
18.2 L'astrazione sociale come sistema di formalizzazione
18.3 L'astrazione sociale come sistema di dominio 18.4 Sistema di astrazione e bisogni sociali
18.5 Sistema di astrazione e aspirazioni sociali 18.6 Sistema di astrazione e "visibilità" delle distanze sociali
15
Sezione Seconda 171
IL PROCESSO DI INDETERMINAZIONE SOCIALE
Sezione Seconda – Introduzione 173
LA SUSSUNZIONE DELLA SOCIETA’ AL CAPITALE:
DALL’ASTRAZIONE ALLA INDETERMINAZIONE
19.1 La società astratta come società sussunta al capitale 19.2 L'emancipazione del capitale dai vincoli sociali 19.3 Astrazione e indeterminazione
Capitolo Ventesimo 177 L'INDETERMINAZIONE TECNICA DEL LAVORO 20.1 Il lavoro tecnicamente indeterminato
20.2 L'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro 20.3 Sistema formativo e sistema produttivo nel processo di indeterminazione 20.4 La desoggettivazione del lavoro 20.5 L'oggettivazione del processo lavorativo: dalla meccanizzazione all'automazione
Scheda C 187
TAYLORISMO E DESOGGETTIVAZIONE DEL LAVORO
Capitolo Ventunesimo 191
L'INDETERMINAZIONE SOCIALE DEL LAVORO
21.1 L'indeterminazione della forza-lavoro nel mercato del lavoro 21.2 La flessibilità della forza-lavoro come indeterminazione esistenziale 21.3 L'indeterminazione della retribuzione 21.4 come rischio esistenziale
21.5 L'indeterminazione della mansione lavorativa
21.5 L'indeterminazione del rapporto di lavoro
16
21.5.1 La valenza sociale del «posto di lavoro»
21.5.2 Sperimentazione della indeterminazione
occupazionale e doppio mercato del lavoro
21.5.3 Le forme del lavoro irregolare 21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione
lavorativa
21.5.5 L'istituzionalizzazione della instabilità
del rapporto di lavoro
21.6 L’indeterminazione nel processo
di trasformazione del lavoro
21.7 Innovazione tecnologica e indeterminazione
del lavoro
21.8 Destabilizzazione del sistema delle professioni
e precarietà sociale
Capitolo Ventiduesimo 221
FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE
22.1 L’individualizzazione del rapporto di lavoro
22.2 La flessibilità del tempo di lavoro: il part-time
22.3 Un lavoro sempre in prova: il contratto a termine
22.4 Professionalità e precariato giovanile:
il contratto di collaborazione
22.5 Una forma di regressione: il lavoro in affitto
22.6 La flessibilità al massimo grado: il lavoro nero
22.7 Dal «posto di lavoro» alla ideologia del rischio
17
Capitolo Ventitreesimo 233
GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA
E INDETERMINAZIONE SOCIALE
23.1 La delocalizzazione della produzione industriale
23.2 Globalizzazione dell’economia
e indeterminazione sociale
23.3 Globalizzazione economica, astrazione sociale
e condizione delle classi subalterne
23.4 Globalizzazione economica e nuovo colonialismo
Capitolo Ventiquattresimo 237
LA NEGAZIONE DEL LAVORO UMANO
24.1 Negazione del lavoro umano
e indeterminazione sociale
24.2 Le forme della negazione del lavoro umano
24.3 La negazione del lavoro umano
come sistema di esclusione sociale
Capitolo Venticinquesimo 251
L'INDETERMINAZIONE DELLA VITA SOCIALE
25.1 Vita sociale e valorizzazione capitalistica nel processo di indeterminazione
25.2 La separazione fra individualità e socialità
25.3 La spettacolarizzazione della vita sociale
25.4 L'indeterminazione dell'essere sociale
18
Capitolo Ventiseiesimo 261
LA REGOLAZIONE DELLA VITA SOCIALE
26.1 Indeterminazione e regolazione della vita sociale
26.2 Regolazione e integrazione sociale
26.3 Le forme della regolazione della vita sociale
26.4 La giornata lavorativa come sede
di regolazione della vita sociale 26.5 Regolazione sociale ed espropriazione della progettualità esistenziale
Libro Primo - Conclusione 266
LA SOCIETA’ ASTRATTA FRA ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE
27.1 La dinamica della società astratta
27.2 Forza e debolezza della società astratta
Postilla metodologica I 273
SULLA ESPLORAZIONE TEORICA
DELLA REALTA' SOCIALE
Postilla Metodologica II 277 PER UNA ANALISI SISTEMATICA
DEI PROCESSI IMMATERIALI
II.1 Lo stato dell’analisi dei processi immateriali
II.2 Una prospettiva di lavoro teorico ed empirico
II.3 L’intreccio fra materialità e immaterialità
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Appendici 281
SOCIETA’ E CAPITALE
Appendice A 283
UNA FIGURA STORICA: L'OPERAIO-MASSA
FRA INDETERMINAZIONE SOCIALE
E SOGGETTIVITA’ POLITICA
A.1 La condensazione dell'essere sociale: l’operaio-massa A.2 L'operaio-massa pre-sessantotto: forza-lavoro indeterminata A.3 L'operaio-massa post-sessantotto: da forza-lavoro indeterminata a soggetto politico A.4 La risposta del capitale all'operaio-massa: la rarefazione dell'essere sociale
A.5 La duplice valenza dell'operaio-massa
Appendice B 293
LA CITTA' COME FABBRICA SOCIALE
B.1 La città, sede del capitale sociale
B.2 L'utopia capitalistica
B.3 Il comportamento capitalistico nella città
come risposta alle lotte operaie
B.4 Il "consumo" sociale di forza-lavoro
B.5 La società come fabbrica
Appendice C 305 SISTEMA DI MACCHINE E MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE NELLA TEORIA DI MARX
Sezione Terza 309
20
STUDI
Teoria di riferimento
LAVORO ASTRATTO E LAVORO OGGETTIVATO
NELLA TEORIA DI MARX
Studi S1 311
DAL LAVORO ASTRATTO
ALLA INDETERMINAZIONE SOCIALE
S1.1 La centralità della nozione di lavoro astratto
S1.2 L’astrazione come indifferenza ai contenuti
S1.3 Il processo capitalistico di espropriazione
S1.4 Il processo di indeterminazione sociale
S1.5 Il processo sociale di valorizzazione capitalistica S1.6 Ridefinizione della sussunzione reale del lavoro al capitale
S1.7 Indeterminazione e rarefazione dell’essere sociale
Studi S2 317
L'OGGETTIVAZIONE DEL LAVORO
S2.1 Oggettivazione del lavoro e valorizzazione capitalistica S2.2 Oggettivazione e sussunzione del lavoro al capitale S2.3 Oggettivazione del lavoro e antagonismo di classe
S2.4 La forza-lavoro come soggettività oggettivata
S2.5 Il lavoro vivo come lavoro non oggettivato S2.6 Oggettivazione ed estraniazione S2.7 Oggettivazione del lavoro e misurazione del valore
21
Studi S3 323
IL LAVORO ASTRATTO
IN QUANTO LAVORO OGGETTIVATO
S3.1 Lavoro astratto e lavoro oggettivato in Marx S3.2 Dal lavoro astratto alla legge del lavoro-valore S3.3 Oggettivazione e astrattizzazione del lavoro S3.4 Distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato S3.5 Rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto S3.6 Distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro S3.7 L’astrattizzazione del lavoro come categoria dello scambio S3.8 Critica di alcune interpretazioni della nozione marxiana di lavoro astratto S3.9 Ridefinizione della nozione di lavoro astratto
Dalla Prima Edizione (1980) 343
LA SOCIETA’ ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
Dalla Prima Edizione (1980) 345
ATRAZIONE E INDETERMINAZIONE NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
Dalla Prima Edizione (1980) 349
L’INDIVIDUO ASTRATTO NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
Dalla Prima Edizione (1980) 351 LA RICCHEZZA ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
Nota editoriale 353
Nota biografica 355
22
23
Edizione definitiva
PREMESSA
Presuppongo naturalmente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé.
Karl Marx
L'astrazione sociale, connotato di fondo della società in cui viviamo, ha un
andamento tutt'altro che lineare e continuo. Quando sembra piegata alle forti
valenze del concreto, si inventa una via di uscita per riprendere la sua
marcia. E quando naviga a gonfie vele, può porre le premesse per un
arretramento.
La società astratta è sospesa fra crisi e ripresa. Ed è nell'oscillazione fra
questi due stati che va colto il suo modo di essere. Bisogna dunque evitare di
vincolare la dinamica dell'astrazione alle particolari contingenze con le quali
volta a volta è costretta a misurarsi. A volere interpretare il suo modo di
essere sulla base dell'attualità di oggi, si rischia di essere smentiti da quella
che sarà l'attualità di domani.
In queste condizioni, ho scelto di cogliere la società astratta nei due stati
significativi del suo essere: da una parte in fase di crisi, dall'altra in fase di
ripresa. Si tratta di una schematizzazione, assunta per comodità di analisi. In
realtà, i fattori di crisi sono fortemente intrecciati ai fattori di ripresa. E' qui
una delle diverse forme dell'ambivalenza della società astratta.
A questo punto, spero risulti esplicito l'obiettivo che mi sono proposto
nell'approntare questa nuova edizione: svincolare il modello teorico dalle
situazioni di fase, per proiettarlo in una prospettiva comprensiva delle
dinamiche di fondo dell'astrazione sociale.
Una tale ambizione, non so in quale misura realizzata, ha comportato un
notevole ampliamento dell'area di analisi, che si è tradotto in una nuova
struttura editoriale in tre libri, al posto della struttura in unico volume. Rispetto
alla precedente edizione, il primo libro copre l'area di analisi del volume
unico, il cui testo è stato revisionato ed accresciuto, con l'aggiunta di nuovi
capitoli e di nuovi paragrafi. Il secondo libro ridisegna la struttura del modello
teorico e coglie la società astratta prima in fase di crisi e poi in fase di
24
ripresa. Per la dinamica della crisi, il testo riprende alcuni passaggi di analisi
presenti nella prima edizione e soppressi nelle edizioni successive. Il terzo
libro cerca di dare conto, in sede di analisi, delle fratture tra la società
astratta e l"altra società", cioè fra l'astrazione sociale attivata dal sistema
istituzionale e la concretezza esistenziale affermata dalle aree di alterità
sociale e di antagonismo politico. I materiali di studio, presenti nella
precedente edizione, vengono accresciuti con una ricostruzione critica della
teoria di Marx sulla crisi, inserita nel secondo libro e ripresa dalla prima
edizione. In luoghi opportuni dei tre libri vengono inseriti, come appendici,
vari articoli che, sebbene elaborati al di fuori del progetto teorico della società
astratta, attengono alle dinamiche analizzate nel testo.
Con questa nuova edizione, che aggiunge due nuovi volumi al testo delle
precedenti edizioni, spero di avere dato una sistemazione definitiva alla mia
proposta teorica, fermo restando che il discorso sulla società astratta non
può mai dirsi concluso.
A questo punto, la vicenda complessiva de La società astratta ha già un
profilo abbastanza leggibile. Nella premessa alla edizione precedente a
questa ho accennato alla nascita della mia ipotesi di lettura della società
sussunta al capitale (sottotitolo della prima edizione). In questi anni, la
proposta ha circolato moltissimo, oltre ogni aspettativa, al di fuori dei canali
ufficiali della distribuzione editoriale. Una sorta di diffusione spontanea, da
mano a mano, soprattutto nelle realtà di base, come i ciclostilati di antica
memoria, senza supporti pubblicitari e nell'ermetico, ostico silenzio di quanti
passano per “addetti ai lavori”.
E' stato sempre un problema assicurare, in misura adeguata, la
disponibilità delle copie, pur mettendo nel conto la circolazione parallela di
fotocopie. Oggi siamo alla quarta edizione italiana. Ma, fra una edizione e
l'altra, si è spesso dovuto ricorrere a veloci ristampe, per colmare i vuoti di
disponibilità. Per dare una idea della anomala circolazione del testo, vale la
pena raccontare un episodio. Mi arriva da Torino la telefonata di un amico, il
quale mi informa di avere visto in Grecia il libro tradotto. Rispondo che non
ne so niente, ma - al di fuori di ogni logica utilitaristica - mi fa piacere
apprendere che La società astratta, per autonoma iniziativa di un Editore
greco - che l'ha letta alla Fiera del Libro di Torino, durante un suo viaggio in
Italia - circoli anche fuori dai confini nazionali.
L'edizione che qui viene approntata prende in considerazione le dinamiche
sociali emerse negli ultimi tempi e si avvale delle discussioni che la proposta
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ha provocato. Una riflessione a parte meriterebbe la profonda identificazione
che il testo ha suscitato in quanti/e, soprattutto giovani, l'hanno letto in
chiave esistenziale, al di là della valenza teorica della proposta.
Risonanze del discorso sulla società astratta sono entrate nei circuiti della
pratica sociale di base. «Gente senza casa e case senza gente», un
passaggio dell'analisi della ricchezza astratta, è diventato uno slogan delle
lotte sulla casa. Queste forme di simbiosi sono una conferma dell'origine de
La società astratta, che è nata ed è sempre vissuta come opera di
movimento. Scambi, in un senso e nell'altro, tra le espressioni del movimento
e una ipotesi teorica rientrano nella dinamica teoria-prassi.
Risonanze di altro tipo sono state riscontrate nella produzione teorica
ufficiale e in alcuni interventi giornalistici. In questi casi, il silenzio rigoroso su
La società astratta non ha impedito una sua indebita utilizzazione. In un
editoriale apparso sulla prima pagina del quotidiano «L'Unità» alcuni
passaggi dell'analisi dell'individuo astratto sono stati riportati quasi alla
lettera, senza citazione della fonte (nota).
Come autore, sono - per indole - estremamente autocritico. E sono portato
a vedere ne La società astratta un contributo limitato rispetto alla portata
dell'oggetto di analisi. Nei confronti di questa opera sono però in debito di
una testimonianza, che prescinde assolutamente dal valore intrinseco della
proposta teorica. In questi anni La società astratta è vissuta tra due opposte
esagerazioni: da un lato il silenzio a catenaccio dei cosiddetti esperti,
dall'altro le manifestazioni di amore viscerale dei comuni lettori. In varie
occasioni, mi è capitato di parlare del primo. Mentre, per pudore, non ho mai
voluto fare cenno delle seconde. Nel licenziare quella che ritengo l'edizione
definitiva, mi sono sentito in dovere di saldare un debito di verità nei confronti
di una opera che vive vita autonoma anche nei confronti del suo occasionale
autore.
F. V.
Roma, Febbraio 2013.
26
NOTA
A conclusione dell’opera, nel terzo volume, vengono dati i seguenti
materiali:
a) Articoli dell’autore su temi di attualità, riconducibili al quadro della
società astratta e pubblicati su riviste.
b) Saggi dell’autore, pubblicati su riviste, in cui vengono
approfonditi alcuni aspetti della società astratta.
c) Materiali di studio dell’autore sul quadro teorico di riferimento.
27
Introduzione
DEFINIZIONE DI SOCIETA’ ASTRATTA
La società capitalistica, per potere funzionare come società formalmente
democratica, deve prescindere dalla concreta esistenza degli esseri umani,
deve cioè non tenere conto di come le donne e gli uomini realmente vivono.
Sulla base di questa considerazione, definiamo società astratta
I'organizzazione capitalistica della società, regolata dalle istituzioni della
democrazia fomnale. Astratta, non nel senso che è una società irreale, ma
nel senso che fa astrazione dalla realtà sociale. Società astratta, dunque, nel
senso che è un sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli
uomini e delle donne in carne e ossa.
Il sistema di indifferenza sociale è l'esito della combinazione della realtà
del capitalismo con la forma della democrazia. Tale esito è da imputare non
alla forma democratica, ma alla realtà capitalistica.
Un connotato fondamentale della società sussunta al capitale in forma di
democrazia è la separazione di fatto della sfera politica dalla sfera sociale.
Nella sfera politica vengono affermati principi di partecipazione, libertà,
uguaglianza, fratellanza, giustizia. Nella sfera sociale vengono istituite
strutture e attivati rapporti che producono autoritarismo, repressione,
disuguaglianza, rivalità, ingiustizia. La società capitalistica formalmente
democratica è dunque una società ambigua. Da una parte proclama principi,
dall'altra crea presupposti strutturali perché non si realizzino. In sostanza, è
una società truccata.
La separazione tra la sfera politica e la sfera sociale produce astrazione
sociale. La sfera politica si struttura facendo astrazione dalle condizioni reali
che si vengono a creare nella sfera sociale. Di conseguenza, la dinamica del
sistema istituzionale prescinde dalla concretezza esistenziale degli uomini e
delle donne in carne e ossa.
In un sistema di democrazia formale, chi - per esempio - ha bisogno di
andare in albergo è libero di scegliere un hotel di gran lusso o una modesta
locanda. Una legge che riservasse gli alberghi di prima categoria ad un
28
particolare ceto sociale sarebbe incompatibile con le istituzioni della
democrazia formale. D'altra parte, la società capitalistica è una società divisa
in classi. E tale rimane, nella sostanza, pur nella complessità
dell'articolazione sociale. Ora, una struttura classista produce, ai diversi livelli
della stratificazione sociale, stili di vita che talvolta sono incompatibili fra di
loro. Un imprenditore miliardario non sopporterebbe di vedersi accanto, nella
hall di un albergo, un modesto impiegato. E lo stesso impiegato proverebbe
disagio a convivere con gente di altro pianeta sociale.
Come risolvere tali contraddizioni? Nel caso specifico, come distribuire la
popolazione ai diversi livelli della piramide sociale, senza fare ricorso a leggi
formalmente antidemocratiche? In pratica, come attivare una regolazione
della vita sociale a misura della struttura di classe, senza ricorrere ad una
regolamentazione delle scelte personali?
L'astrazione sociale è la via per la quale la società capitalistica
formalmente democratica tenta di dare soluzione a questo tipo di problemi E'
una via tortuosa e tormentata. La sfera sociale viene strutturata in modo da
produrre sistematicamente una realtà che, di fatto, vanifica i principi sanciti
nella sfera politica. La società astratta nega, in quanto società capitalistica,
ciò che afferma in quanto società formalmente democratica. L'astrazione
sociale è dunque la via per la quale il capitalismo si avventura - in un
alternarsi di vittorie e di sconfitte - sul terreno minato della democrazia
formale.
Per tutto ciò, I'indifferenza sociale non è una degenerazione del dominio
del capitale, ma il suo specifico modo di funzionare in forma di democrazia.
L'astrazione sociale si definisce non come una disfunzione della democrazia
nel sistema capitalistico, ma come una sua ragione di essere, che consiste
nel fare funzionare il sistema istituzionale secondo modalità estranee al
vivere reale degli uomini e delle donne. Questa indifferenza istituzionale non
è dovuta ad un qualche dissesto organizzativo. La società capitalistica
formalmente democratica è astratta perché è strutturata per l'affermazione di
un valore "altro" rispetto alla realizzazione esistenziale degli esseri umani.
Ognuno di noi non è già dato in partenza. E' un potere essere sociale, un
campo di possibilità da realizzare nella dimensione sociale. La persona
sociale, cioè l'essere umano in quanto dotato di socialità, realizza la propria
concretezza esistenziale - il suo pieno esistere nelle situazioni concrete della
vita quotidiana - se è in condizione di esprimere tutte le sue potenzialità.
29
In rapporto a questo bisogno di autorealizzazione dell'essere umano, una
società è tanto meno astratta quanto più assume come valore fondante
l'organizzazione e la messa in atto di tutto il potere essere che emerge nella
collettività. La realizzazione della specificità personale - cioè dell'esistere
come uomo o donna particolare e irripetibile - non è in antitesi con lo sviluppo
dell'essere sociale, con il movimento della realtà collettiva. La dimensione
collettiva trova concreta attuazione solo quando anche il più piccolo
frammento personale raggiunge la pienezza dell'essere reale.
Non si tratta di immaginare il classico paradiso terrestre. Quel che conta
per la qualificazione di una società è la direzione del suo movimento,
determinata dal valore centrale che fa da motore al processo sociale
generale. In questi termini, una società a tanto più astratta quanto più
astratto è il valore centrale che realmente la muove, al di là delle
enunciazioni di principio.
In tale quadro, la società sussunta al capitale ci appare come un aereo in
mano a dirottatori professionisti, che hanno stravolto l'originario piano di volo.
Il modo capitalistico di produzione tende a deviare il processo sociale
generale dalla concretezza esistenziale ed a convogliarlo verso un valore
astratto: il profitto.
Questo scandaloso dirottamento sociale si svolge, come ogni dirottamento,
fra tensioni latenti e aperti conflitti, sia sul piano degli interessi materiali, sia
in ordine agli orientamenti ideali. C'è in esso il tentativo di mettere le
potenzialità presenti nella collettività al servizio del dominio di classe. Nella
società astratta, in quanto società dirottata, ognuno/a è costretto a lasciare
inespresse le proprie possibilità e a diventare strumento in mano di altri, per
fini non solo estranei, ma anche antitetici alla propria realizzazione
esistenziale.
Il dirottamento sociale è dunque funzionale all'astrazione. Solo indirizzando
la società complessiva verso un valore "altro" è possibile chiudere ogni varco
all'espressione delle potenzialità che emergono nella collettività. Soltanto in
una società organizzata per "altro" gli uomini e le donne non trovano spazio
per esprimersi in quanto persone. A sua volta, I'astrazione è funzionale al
dirottamento sociale. La società complessiva può essere dirottata in
direzione di un fine "altro" nella misura in cui viene ignorato l'essere concreto
delle persone.
La deviazione della società dai fini che presiedono alla realizzazione
esistenziale degli uomini e delle donne incide pesantemente sulla dinamica
30
sociale. La nostra lettura di tale dinamica è basata sulla distinzione fra
società intesa come struttura - cioè come insieme di istituzioni - e società
intesa come collettività, ossia come insieme di uomini e donne in carne e
ossa. Si tratta ovviamente non di due distinte realtà, ma di due dimensioni
della realtà sociale, che nella società capitalistica formalmente democratica
tendono a divaricarsi. La società-struttura si orienta in direzione "altra"
rispetto alla piena realizzazione delle potenzialità esistenziali presenti nella
società-collettività.
La divaricazione tra la sfera politica e la sfera sociale costituisce non
I'oggetto della nostra indagine, ma il suo presupposto. Al centro del quadro di
analisi è non la contraddizione tra la forma democratica e la realtà di classe,
ma l'astrazione sociale che essa produce.
In tale ambito, il compito che presiede a questa ipotesi di lettura della
società sussunta al capitale è ben delimitato. Si tratta di ricostruire i processi
attraverso i quali l'astrazione percorre e plasma le più significative
espressioni dell'universo sociale: la soggettività individuale, i rapporti
interpersonali, la ricchezza materiale, il sistema di valori, la vita quotidiana, il
mondo del lavoro. L'intento è di cogliere, lungo questi percorsi, il senso della
condizione umana, trasfigurata dall'astrazione sociale. In fondo,
avventurandoci sui sentieri impervi dell'indifferenza della società astratta,
andiamo alla ricerca di una chiave di lettura sociologica del disagio
esistenziale.
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Sezione Prima
IL SISTEMA DI ASTRAZIONE SOCIALE
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33
Premessa Sezione Prima
ASTRAZIONE MATERIALE
E ASTRAZIONE SOCIALE
0.1 L'astrazione materiale
Punto di partenza della nostra indagine teorica è un aspetto singolare
della trasformazione del bene di consumo in merce di scambio. Quando non
si prende in considerazione l'uso che si può fare di un prodotto, ma soltanto il
valore che esso ha sul mercato, perdono di importanza i suoi connotati
rnateriali. Per chi traffica in edilizia una casa non è una particolare
costruzione con una data struttura e con determinate caratteristiche abitative.
E' una merce come un'altra 1.
La trasformazione del bene in merce comporta dunque una trasfigura-
zione del prodotto materiale in entità astratta. Chiamiamo astrazione
materiale questo particolare stato del prodotto, considerato non nella sua
specificità corporea, in quanto bene di consumo, ma nella sua indistinta
generalità, in quanto merce di scambio.
Una tale trasfigurazione non è conseguente ad una mutazione intrinseca
del prodotto. Non è che una casa diventi, di per sé, immateriale. Essa rimane
lì, con tutto il peso della sua struttura in cemento armato. Solo che, se la si
guarda non come luogo da abitare, ma come merce da piazzare sul mercato,
i suoi connotati materiali perdono di rilievo. E' come stare davanti ad una
ribalta buia, percorsa da un cono di luce. Ad uno spostamento del faro, un
tavolo, che si stagliava nettamente sul fondale, d'improvviso si immerge
nell'ombra e scompare. Il tavolo è ancora lì, ma è come se non ci fosse più.
La sua realtà è stata come cancellata da un cambiamento scenico.
L'astrazione è dunque non inerente all'oggetto, ma conseguente ad un
modo di considerarlo. Il connotato di fondo di tale modo di considerare il
1 Come è noto, tale aspetto è stato evidenziato da Marx nel quadro dell'analisi della merce: «[...] il
prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore
d'uso, facciamo astrazione anche dalle partl costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso» (K.
Marx, II capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 70).
34
prodotto è l'indifferenza ai contenuti dell'oggetto. Una sedia non è più una
sedia non perché cessa di essere fatta in modo da potercisi sedere, ma
perché questa sua adeguatezza all'uso viene considerata solo un espediente
per poterne fare merce di scambio. Chi guarda ad un prodotto non per l'uso
che intende farne, ma per il profitto che pensa - per suo tramite - di
realizzare, è indifferente nei confronti del suo contenuto. Non gli importa che
si tratti di un frigorifero o di una chitarra. Gli importa soltanto che si venda e
si venda bene, cioè con profitto. Del resto, basta osservare da una parte chi
intende comprare una casa per abitarci e dall'altra chi intende acquistarla per
venderla e realizzare un guadagno. I due acquirenti si comportano in modo
diverso. Il primo sta attento soprattutto alla grandezza ed al numero delle
stanze, alla loro dislocazione ed alla loro esposizione al sole. Il secondo
presta attenzione soprattutto al valore di scambio della costruzione in
relazione all'andamento del mercato edilizio. Il primo considera la casa come
un bene concreto. Il secondo la prende in considerazione come una entità
astratta.
A questo punto dovrebbe risultare chiara la sequenza che sta dietro
I'astrazione materiale. La trasformazione del bene in merce sposta
I'interesse dal valore d'uso al valore di scambio. Questo spostamento
produce indifferenza ai contenuti materiali dell'oggetto. Esito di tale
indifferenza è l'astrazione materiale.
0.2 L'astrazione sociale
L'astrazione materiale è una nozione estremamente feconda. E' però
ristretta entro l'ambito, ben definito, della produzione di beni. Risulta pertanto
inadeguata a cogliere il livello della società complessiva.
Ad un tale livello, si tratta di definire l'astrazione non più soltanto in
relazione al prodotto rnateriale, rna anche - e soprattutto - in relazione alla
produzione della stessa società. Ed è lungo questa linea che si coglie il
passaggio dall'astrazione materiale all'astrazione sociale. Chiamiamo
astrazione sociale l'esito della indifferenza del sistema politico-economico nei
confronti della condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e
ossa.
Non è possibile dare corpo a questa nuova nozione con una semplice
trasposizione e amplificazione dell'astrazione materiale. L'allargarsi dello
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scenario comporta una mutazione qualitativa dei processi che stanno a
monte e a valle dell'astrazione.
Il primo segnale di questo vero e proprio salto di qualità ci arriva non
appena trasferiamo la nozione di astrazione dall'esame della produzione
materiale all'analisi della produzione della vita sociale. In questo contesto,
I'indifferenza ai contenuti è ancora tutta da definire. Innanzi tutto non è
possibile parlare dei contenuti della vita sociale come si parla dei contenuti
dei prodotti materiali. I processi interni alla produzione della vita sociale non
hanno la consequenzialità e la linearità che si possono riscontrare nella
produzione dei beni materiali. Non è un caso che la politica fa fatica ad
omologarsi alla ingegneria industriale.
In questo quadro, dovrebbe essere chiaro che fare astrazione dalle realtà
esistenziali degli esseri umani è operazione qualitativamente diversa dal
praticare indifferenza nei confronti dei contenuti materiali dei prodotti.
L'astrazione sociale è "altra" rispetto all'astrazione materiale, anche se
entrambe discendono dalla indifferenza ai contenuti.
A questo punto, ci imbattiamo in un interrogativo: I'astrazione attiene
all'essere sociale o al dover essere della società? In altri termini, è astratta la
società com'è o la società come la vorrebbero i rappresentanti degli interessi
capitalistici?
La collettività è una complessa entità concreta. Ma la struttura sociale
formale, in tutte le sue articolazioni istituzionali, la tratta con indifferenza alle
sue molteplici realtà. La tratta come se fosse priva di essere sociale
concreto. In questo senso, la società astratta è non la società com'è, ma la
società come la vorrebbero le forze del capitale. Questo dover essere della
società non rimane però allo stato di pura aspirazione. Si traduce in strutture
materiali ed organizzative, che tendono a svuotare la società-collettività del
suo essere concreto. In altri termini, la società-struttura, organizzata a
prescindere dalla concretezza della vita sociale, tende a produrre una
società-collettività astratta, cioè un insieme di persone che negli
atteggiamenti e nei comportamenti fanno astrazione dalla loro concretezza
esistenziale. A forza di operare senza fare i conti con l'essere reale delle
persone, finisce con l'erodere il fondo di concretezza della vita sociale.
In particolare, il sistema politico-economico opera come se non
esistessero uomini e donne in carne e ossa, ma soltanto articolazioni sociali
prive di identità soggettiva. Opera quindi sulla base di una presunzione. Ma
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questa presunzione diventa, in realtà, il modo di funzionare delle strutture
sociali, con le quali le persone sono costrette, in qualche modo, a misurarsi.
La struttura sociale funziona a prescindere dalla concretezza degli esseri
umani. E pretende che le persone si rapportino ad essa mettendo fra
parentesi il loro specifico essere concreto. In ciò ritroviamo un connotato
qualificante della nozione di astrazione sociale, che non ha nulla a che
vedere con l'indifferenza come atteggiamento soggettivo e si definisce in
termini di struttura. L'indifferenza non è qui da ricercare nel soggetto, ma nel
sistema politico-economico, che definisce gli individui non in quanto esseri
umani, ma in quanto portatori di forza-lavoro manuale-intellettuale 2. Per
questa via, la società-struttura tende a piegare la società-collettività al suo
bisogno di astrazione ed a ridurre la ricchezza dell'essere sociale all'arido
paradigma del dover essere astratto.
Una tale pressione non riesce a cancellare la concretezza esistenziale
degli uomini e delle donne in carne e ossa. Vengono quindi a profilarsi due
opposti movimenti. La collettività tende a produrre una dinamica sociale volta
a dare espressione al concreto esistere degli esseri umani. Il fiume della
concretezza esistenziale trova però davanti a sé la diga dell'astrazione
sociale. Ma la sua spinta è tale da farlo scorrere, a piccoli rivoli, tra le pieghe
dell'organizzazione sociale. Gli uomini e le donne riescono in qualche modo
a crearsi piccoli spazi di concretezza. In particolari momenti storici questi
spazi si allargano al punto che l'onda della concretezza rischia di travolgere
la diga dell'astrazione.
Ora, se la società sussunta al capitale funzionasse soltanto sulla base
della contrapposizione fra astrazione e concretezza, il sistema sociale
complessivo rischierebbe in permanenza di saltare. La concretezza
esistenziale ha, in sé, una tale forza di espressione e di espansione da
travolgere, prima o poi, qualsiasi ostacolo.
2 A rigor di termini, bisognerebbe parlare di forza-lavoro, senza aggettivi. Infatti, la forza-lavoro è, per
definizione, I'energia manuale-intellettuale che può essere tradotta in attività lavorativa.
A livello di senso comune, l'espressione viene però di solito associata a capacità esclusivamente
manuali. La specificazlone, se pure impropria, si rende quindl necessaria. Ed abbiamo deciso di adottarla
lungo tutto l'arco dell'analisi.
Altra è la questione della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che abbiamo ritenuto di non
affrontare in sede di discorso sulla società astratta. Essa si è infatti invischiata in tali complicazioni - per
effetto della innovazione tecnologica - che sarebbe difficile approfondirla senza deviare dalla nostra
prospettiva di ricerca teorica.
37
Per evitare che questo rischio sia sempre incombente, I'astrazione sociale
per un verso si pone come argine all'espandersi della concretezza, per l'altro
penetra nella vita sociale e occupa gli spazi dell'esistenza reale degli esseri
umani. Ne viene fuori un intreccio di concretezza e astrazione, difficile da
districare.
Non stiamo parlando di un semplice processo di assimilazione. Certo, gli
uomini e le donne assimilano l'astrazione e la vivono come se fosse la loro
realtà. Ma c'è qualcosa di più. C'è che, a forza di essere vissuta come realtà,
I'astrazione finisce per essere, in qualche modo, la realtà degli uomini e delle
donne. La vita astratta finisce per essere la vita che le donne e gli uomini
realmente vivono, giorno dopo giorno.
D'altra parte, chi vive una vita astratta è portato/a paradossalmente a
percepire la propria concretezza esistenziale come qualcosa che non attiene
alla sua vita, cioè come astrazione. L'astrazione si fa realtà e la realtà si fa
astrazione.
L'impasto realtà-astrazione è un dato caratterizzante della società astratta,
che è - per definizione - una società ambigua, proprio perché pretende di
essere funzionale alla collettività facendo astrazione dall'essere concreto dei
soggetti. Se le persone avvertissero di vivere nel vuoto dell'astrazione, la
società-collettività si estranierebbe dalla società-struttura, con il rischio di
provocare una rottura. E' il gioco astrazione-realtà che tiene legata la
collettività alla struttura, malgrado la seconda operi ignorando la prima.
L'estraneazione della società-collettività dalla società- struttura è tuttavia
un processo latente. Il rischio della rottura emerge solo in fasi storiche in cui
l'intreccio astrazione-realtà si allenta e la concretezza esistenziale invade la
vita sociale, provocando una contrazione delI'astrazione.
Astrazione sociale e concretezza esistenziale si contendono il campo, con
il prevalere dell'una o dell'altra, a seconda dei rapporti di forza che
caratterizzano ogni fase storica della società.
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39
Capitolo Primo
L’INDIVIDUO ASTRATTO
1.1 L'individuo astratto come pura funzione della valorizzazione
capitalistica
I soggetti che costituiscono la collettività sono persone concrete, uomini e
donne in carne e ossa. Sono persone robuste, snelle, alte, basse, bionde,
brune, bianche, nere. Sono persone estroverse, introverse, talvolta allegre,
talvolta tristi. Nella società astratta, nel sistema di indifferenza alla condizione
esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa, si prescinde da tutti
questi caratteri, che fanno di una persona questa persona e non un'altra. La
persona concreta viene diluita in una entità astratta: la forza-lavoro 3. E' il
primo passo verso la configurazione di un individuo astratto, concepito come
pura funzione della valorizzazione capitalistica 4.
Le persone concrete vivono nel contesto di una determinata cultura, che
crea abitudini di vita, atteggiamenti, comportamenti. Una cultura può, per
esempio, creare l'attaccamento ad un luogo determinato, ad un tipo
determinato di attività, ad un determinato tipo di rapporti sociali. Ecco, il
processo di valorizzazione capitalistica richiede che le persone facciano
astrazione da tutto ciò. Richiede che le donne e gli uomini siano disponibili
a spostarsi continuamente da un luogo all'altro, a cambiare continua-
mente attività e rapporti sciali. Può darsi anche il caso inverso. Una persona
è incline a girovagare, a non fissarsi in una particolare attività. Ed è costretta
ad inchiodare la sua vita ad un lavoro e ad un luogo fissi.
Ora, non importa che le esigenze del processo di valorizzazione del
capitale entrino realmente in conflitto con le singole specificità delle persone
concrete. Quel che importa è che la società astratta, per essere tale, deve
3 Anni fa uno studente, segretario di sezione di un partito della sinistra, mi chiese se poteva contattare un
autorevole personaggio politico, per chiedergli di presentare in pubblico «La società astratta». Non ebbi difficoltà a dare il mio assenso. Lo studente avanzò la richiesta, accompagnandola con una copia del libro. Ma l’iniziativa non ebbe seguito. Dopo qualche tempo, il personaggio in parola, che non si era dichiarato disponibile per la presentazione, firmava su un quotidiano un editoriale in cui veniva riportata esattamente, senza virgolette e senza la citazione della fonte, la parte iniziale di questo capitolo.
4 Per i non addetti ai lavori è opportuno precisare che per valorizzazione capitalistica - espressione
ricorrente nel nostro discorso - si intende il processo attraverso il quale il capitale, riproducendosi, aumenta di valore e di potenza.
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poter contare, in qualsiasi momento ed a qualsiasi livello, su una disponibilità
allo stato puro. E questa disponibilità la può offrire, in senso pieno, soltanto
un individuo considerato come entità astratta, avulsa dalle concrete
specificità esistenziali.
L'individuo astratto - in quanto pura funzione della valorizzazione
capitalistica - è una irrealtà reale. Irrealtà, perché - nella sua purezza ideale -
non esiste in carne e ossa. Reale, perché tutto il sistema capitalistico è
fondato su questa irrealtà. Ed è per questo - perché fa leva sull'individuo
astratto, sulla irrealtà reale di un individuo spogliato delle sue specifiche
caratteristiche umane - che I'apparato economico e politico si qualifica come
sisterna astratto. Astratto, nel senso che produce astrazione e nel senso che
è l'esito di una astrattizzazione.
Funzionale all'impianto del sistema economico- politico fondato sul
capitale è l'individuo spogliato di ogni vincolo sociale. Un individuo non legato
né a luoghi particolari, né a persone specifiche. Un individuo senza storia e
senza affetti. Disponibile a presentarsi come un contenitore vuoto ed a
riempirsi dei contenuti del processo di valorizzazione del capitale. Pronto a
fare un lavoro qualsiasi, in un posto qualsiasi, in orari qualsiasi, di giorno o di
notte, a qualsiasi ritmo, insieme a gente qualsiasi. Pronto a trapiantarsi dal
sud al nord, dal proprio ad un altro paese, da un contesto agricolo ad un
contesto industriale. In sostanza, un individuo che non oppone nessuna
rigidità al processo di valorizzazione capitalistica. Estremamente mobile,
flessibile, docile, manovrabile. Immemore della sua storia personale, sempre
pronto a cancellare il suo ieri ed a vendere il suo domani. Una sorta di pagina
bianca, su cui la valorizzazione capitalistica segna di volta in volta le sue
indicazioni. Una pagina bianca, su cui di tanto in tanto gli economisti fanno
I'elenco delle vecchie e delle nuove compatibilità. Una pagina bianca, su cui
gli ideologi segnano il comportamento adeguato alla prospettiva del
capitalismo. Una pagina bianca, su cui i politici di professione scrivono i loro
programmi. Insomma, un individuo concepito come terminale
dell'organizzazione capitalistica della società complessiva.
1.2 Individuo astratto e persona concreta
L'individuo astratto è il soggetto considerato dal punto di vista della
valorizzazione capitalistica. La persona concreta è il soggetto considerato dal
41
punto di vista della realtà esistenziale. Nei termini del nostro discorso,
individuo figura come espressione della società-struttura, persona figura
come espressione della società-collettività 5.
Ora, se individuo e persona si definissero come entità separate e non
comunicanti, avremmo da una parte un soggetto concepito, in astratto,
secondo le esigenze del capitale e dall'altra uomini e donne in carne e ossa
radicati nella propria concretezza esistenziale. In tale quadro, la
valorizzazione capitalistica non potrebbe piegare alle proprie esigenze la vita
sociale e sarebbe condannata ad un graduale, ma inarrestabile declino.
Per tutto ciò, il sistema capitalistico non può limitarsi a concepire un
individuo a sua immagine, disinteressandosi degli orientamenti delle persone
concrete. Deve fare di tutto per tentare di incarnare le sue esigenze negli
atteggiamenti e nei comportamenti sociali.
Di conseguenza, I'individuo astratto non può definirsi come pura
aspirazione del capitale. Per un verso non esiste, in carne e ossa, nella
pienezza della sua valenza ideale, perché non è possibile azzerare in una
persona concreta le specificità esistenziali. Ma, per altro verso, si insinua
nelle pieghe della vita sociale, inquinando il rapporto fra la persona e
I'universo della concretezza.
Accade così di incontrare uomini e donne delle classi subalterne che
ragionano non nei termini del proprio concreto esistere e della propria reale
condizione sociale, ma secondo schemi astratti. Tipico è il caso di povera
gente indotta a spiegare le proprie difficoltà materiali in base alle leggi del
libero mercato, cioè secondo i parametri dell'economia borghese. E' facile
supporre che qui è l'individuo astratto a parlare per bocca delle persone
concrete.
Ora, non è da pensare che il soggetto coinvolto nella logica della
valorizzazione capitalistica abbia coscienza di escludere dal suo orizzonte
esistenziale la propria concretezza in quanto donna o uomo in carne e ossa.
E' opportuno dunque chiedersi per quale via l'astrazione prodotta dalla
società-struttura penetra nella società-collettività sino al punto di fare di un
soggetto l'espressione di altro da se stesso, di fare cioè di un uomo o di una
donna in carne e ossa una contraddizione vivente.
Attraverso l’assimilazione di valori astratti, viene operata nella coscienza
collettiva una inversione. E così la persona vive l'astrazione come
5 Per la distinzione fra società-struttura e società-collettività, si veda l'Introduzione.
42
concretezza e percepisce la propria concretezza come astrazione. Nella
misura in cui questa inversione incide sulla dinamica della coscienza
collettiva, la società astratta allarga la sua base nella collettività. Quanto più
è diffuso e profondo l'orientamento in direzione dell'astrazione, tanto più la
società astratta viene percepita dalla collettività come realtà sociale. E' un
punto cruciale per il destino della società astratta. La società-struttura ha
bisogno da una parte di operare su una base di astrazione, dall'altra di
legittimarsi su una base di concretezza. Una società-struttura che venisse
percepita dalla collettività come società astratta non potrebbe durare a lungo.
1. 3 Concretezza esistenziale e astrazione sociale
Come si è già avuto modo di osservare, milioni di uomini e di donne
assimilano come proprie le esigenze della valorizzazione capitalistica. Così
vivono l'astrazione come realtà propria. D'altra parte, l’assimilazione di valori
"altri" produce nelle donne e negli uomini una sorta di "distanza" dalla propria
specificità. La concretezza esistenziale viene vissuta come astrazione. Per
quali vie si giunge a questa inversione?
La realtà che vive una donna o un uomo è un impasto di concretezza e di
astrazione. Questo groviglio produce una condizione di disagio, difficile da
definire. E' come se la vita ci scorresse sotto, senza che si riesca a fare
presa su di essa. E' una strana sensazione. La persona cerca, spesso con la
forza della disperazione, un contatto stabile con la propria vita. Ma se la
sente continuamente sfuggire di mano. Il sistema di astrazione mette dunque
gli uomini e le donne in condizione di non poter vivere la propria vita o,
peggio, di doverla vivere come se non fosse la propria vita.
Questa condizione raramente prende corpo nella coscienza dei soggetti.
Molti finiscono per fare propria la vita regolata dal sistema di astrazione. Ciò
è reso possibile dal fatto che l'astrazione non si presenta mai allo stato puro.
La realtà degli uomini e delle donne in carne e ossa mantiene la forma della
concretezza. Solo che tale forma non si riempe dei contenuti della specificità
personale, ma dei valori del sistema di astrazione. Così accade che molte
persone vivono l'astrazione come concretezza. Non riescono ad andare oltre
la forma con la quale si presenta la realtà. E spendono tutte le loro energie
nel cercare di adattarsi ad una vita di cui non colgono il senso.
Vivere nella società astratta è dunque per milioni di donne e di uomini un
lento deperire in quanto persone concrete. Uno ad uno si spezzano i fili che
43
legano la persona alla propria specificità. Il soggetto si trova nella condizione
di chi non è esperto di nuoto e sente di non "toccare". In tale situazione,
vivere è un continuo annaspare, per cercare di stare a galla nel mare
dell'astrazione sociale. Vivere è un continuo tentare di vivere. E quando si
crede di posare un piede sul fondo della propria personale concretezza, ci si
accorge - quando ci si accorge - che l'astrazione, attraverso vari processi di
assimilazione, è arrivata fin là, diventando carne della nostra carne, sangue
del nostro sangue.
Dobbiamo dunque resistere alla tentazione di concepire concretezza e
astrazione come due sfere separate. La società astratta è intrecciata con la
società concreta. L'astrazione è il guscio istituzionale della realtà sociale.
Questo modo di essere della società astratta rende estremamente difficile
per gli uomini e per le donne cogliere la sede e il momento della concretezza
sociale. L'astrazione si annida tra le pieghe della vita di tutti i giorni.
1.4 La separazione fra persona e qualità umane
Nella società sussunta al capitale la persona è separata dalle proprie
qualità e spogliata del suo essere concreto. A loro volta, le qualità sono
separate dalla persona e spogliate del loro essere qualità umane. Questa
separazione si traduce in astrazione. La concretezza sociale è infatti nella
unità dei due termini. E' nella persona che gode delle sue qualità urnane. La
separazione produce da una parte persone prive di qualità proprie, dall'altra
qualità prive di concretezza esistenziale. Da una parte individui astratti,
dall'altra astratte qualità. Produce cioè estraneazione e infelicità. Ecco
perché il processo di liberazione si configura come processo di
ricomposizione esistenziale. La liberazione è nella riconquista della
concretezza esistenziale da parte di donne e di uomini reintegrati nelle loro
qualità umane.
Adesso facciamo un passo in avanti. Quando l'astrazione viene a toccare
gli uomini e le donne in carne e ossa, il processo che si è fino a quel punto
accumulato si azzera. L'individuo astratto è il punto di partenza di un nuovo
processo, dominato non più dalla persona, ma dal capitale. Si tratta di un
processo complesso, attraverso il quale il capitale, dopo avere disaggregato
l'unità concreta che fa capo all'essere umano ed avere così interrotto il
circuito sociale basato sulle qualità integrate nella persona, mette a contatto i
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poli sociali separati dal sistema di astrazione e, in quanto poli astratti, li fa
funzionare insieme dentro il processo di valorizzazione del capitale.
Da tale punto di vista, il processo di valorizzazione del capitale è il
risultato dell'accostamento di componenti sociali, che, disaggregate dal
sistema di astrazione, entrano in rapporto utilitaristico. Il soggetto, espro-
priato della sua attività creativa, viene immesso, in quanto lavoratore o
lavoratrice, nell'attività che si è incarnata nel processo di produzione.
Espropriato dei suoi rapporti sociali, viene calato nei rapporti utilitaristici.
Donne e uomini, fra loro separati in quanto persone concrete, vengono
ricollegati come componenti del processo di produzione. La ricomposizione
capitalistica realizzata nel corpo mistico della società astratta.
1.5 La contrapposizione fra l'individuo e le sue qualità
Dopo avere cercato di definire l'astrazione propria delle qualità umane
separate dall'individuo, abbiamo cominciato a sondare l'altro versante
dell'astrazione: l'individuo espropriato delle sue qualità. Da un lato la vita
sociale congelata e commisurata alla valorizzazione capitalistica, dall'altro la
persona espropriata della quotidianità che le è propria, della quotidianità
come espressione della sua umanità. Il trait-d'union dei due versanti è
l'organizzazione e l'utilizzazione delle qualità umane non per la realizzazione
degli uomini e delle donne in quanto persone, ma per la valorizzazione
economica e sociale del capitale.
L'estraneazione delle qualità umane non si risolve in una semplice
esteriorizzazione. Le qualità umane estraneate non diventano solo qualità
esterne all'individuo. L'estraneazione si risolve in contrapposizione. Le
qualità, una volta separate dall'individuo, gli si contrappongono 6. E', questo,
un passaggio decisivo. Perché è da qui che parte un processo complessivo,
il cui esito è la società sussunta al capitale. Questo processo prende avvio
da un atto violento di estraneazione. Ed è per noi estremamente significativo
che la "materia" che dà corpo al capitale è I'esito dell'uso di una qualità
umana sottratta al controllo delle persone, che ne sono state espropriate. Il
prodotto che diventa capitale è frutto dell'attività creativa della collettività.
L'ideologia borghese vorrebbe trarre da ciò la legittimazione del capitale
6 Marx ha chiarito questo aspetto riguardo alla estraneazione del prodotto. Il prodotto, sottratto
all'operaio, gli si contrappone come un essere estraneo (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844,
trad. it., Torino, Einaudi, 1968, p. 71).
45
come forza naturale. Ma, al di là dell'ideologia, I'origine del capitale è non
nell'esito dell'attività creativa, bensì nella sua espropriazione ed
estraneazione.
Alla base del modo capitalistico di produzione c'è dunque il processo di
espropriazione-estraneazione. Questo scorporo delle qualità umane dalla
persona produce da una parte il capitale e dall'altra l'individuo adeguato al
capitale. Da dove nasce allora la contrapposizione? Se il sistema di
astrazione investe tutto lo spazio sociale, com'è che salta fuori un dato così
"anomalo", da cui discende l'antagonismo sociale?
In effetti, la contrapposizione è, per il capitale, una conseguenza non
voluta della valorizzazione. Ma resta per noi il problema di individuare il
processo attraverso il quale la valorizzazione del capitale produce per un
verso astrazione, per l'altro contrapposizione.
C'è un primo interrogativo da risolvere. La contrapposizione è un dato
collaterale all'astrazione, è cioè un dato che "sta insieme" - in rapporto
dialettico - all'astrazione, oppure è, rispetto all'astrazione, un dato alter-
nativo? In altri termini, la contrapposizione si produce per effetto del-
I'astrazione o in mancanza di essa?
La questione non può essere risolta in modo schematico. Le qualità
umane, scorporate dalla persona, si fanno - in quanto qualità astratte -
capitale e si contrappongono all'individuo. Qui l'astrazione si traduce
direttamente in contrapposizione. Ma il soggetto, spogliato delle sue qualità
umane, è in grado di contrapporsi, in quanto individuo astratto, al capitale?
Qui la contrapposizione non è immediata, diretta. Una spoliazione violenta
come quella che subisce la persona da parte del capitale provoca, in
potenza, contrapposizione. Ma questa contrapposizione, per mettersi in atto,
deve passare per una persona reintegrata nelle sue qualità umane. E' un
tragico circolo vizioso. Il soggetto che può mettere in atto un processo di
liberazione è la persona liberata.
Il circolo vizioso può essere spezzato soltanto con una forzatura politica.
Attraverso una tale forzatura, chi si fa carico del processo di liberazione è la
persona non ancora liberata, ma che ha preso coscienza del suo bisogno di
liberarsi. La spinta alla liberazione viene al soggetto dal bisogno di
reintegrarsi nelle sue qualità umane.
In questa condizione, il soggetto viene a trovarsi di fronte ad una
alternativa: da una parte la disperazione passiva, dall'altra la scelta politica
attiva.
46
In tale quadro, la pratica politica recupera tutta la sua concretezza e si
definisce come tensione continua verso la conquista della perduta integrità
della persona. Il soggetto espropriato lotta per ricongiungersi alla parte di sé
che gli è stata estraneata. Per questa via, si capovolge il segno politico
dell'individuo astratto. Il soggetto spogliato delle sue qualità è I'individuo
adeguato al capitale, perché in grado di ricongiungersi alle qualità
incorportate nell'apparato di produzione. Ma il soggetto espropriato che
prende coscienza della sua condizione e ne trae le conseguenze pratiche a
livello politico non funziona più in questo senso. Non solo rifiuta di integrarsi
alle qualità incorporate nella struttura produttiva del capitale, ma lotta per
riappropriarsi delle sue qualità, in quanto attributi dell'essere umano. E' qui
l'ambivalenza dell'individuo astratto: una faccia di soggetto subalterno e
l'altra di soggetto politico antagonista.
1.6 Il bisogno di reintegrazione esistenziale
E' importante, a questo punto, esaminare da vicino il bisogno di
reintegrazione esistenziale, cioè l'esigenza che ha ogni persona di ri-
congiungersi alle proprie qualità. Occorre partire dalla situazione in cui viene
a trovarsi l'individuo per effetto del processo di estraneazione. Il soggetto ha
davanti a sé le qualità umane che gli sono proprie, ma non come qualità sue,
bensì come qualità del capitale. Ora, una situazione del genere è tutt'altro
che lineare. Le due parti che si trovano di fronte per un verso sono estranee
e contrapposte, per l'altro sono parte I'una dell'altra. Sono estranee e
contrapposte in quanto individuo e capitale. Sono parte I'una dell'altra in
quanto individuo e qualità umane. L'estraneazione, in sé, in quanto
espropriazione, produce contrapposizione. Ma I'estraneazione di qualità
umane, oltre che contrapposizione, produce bisogno di reintegrazione
esistenziale.
Questo bisogno si esprime in forme diverse. Il soggetto - uomo o donna - è
come preso in una morsa. Spogliato delle sue qualità, ha un senso di vuoto
dentro di sé, ma prova repulsione per le qualità estraneate. Da qui una
sensazione di impotenza, che procura angoscia e disperazione e si traduce
in fredda indifferenza nei confronti della realtà esterna. Gli orizzonti di vita si
chiudono. Si oscura lo spettro delle soluzioni. L'individuo, chiuso nel suo
isolamento, si sente come un topo in trappola e non vede vie di uscita. Ha
bisogno di reintegrarsi nelle sue qualità, ma la realtà che lo circonda gli si
47
prensenta come l'esatta negazione del suo volere essere persona. In tale
situazione si rispecchia la condizione dell'essere umano nella società
astratta. E' una condizione che viene sperimentata soprattutto dalle giovani e
dai giovani, i quali avvertono più degli altri il malessere per non potere
attivarsi senza vedersi espropriare delle proprie qualità.
E' difficile dare voce ai sogni e alle paure di un uomo e di una donna
combattuti fra il bisogno di impegnarsi in qualcosa per cui valga la pena di
vivere e le frustrazioni derivanti dal sentirsi usati per fini estranei alla propria
realizzazione esistenziale. E' difficile rendere lo stato d'animo di una donna e
di un uomo che tentano di tuffarsi nella vita sociale e si sentono ricacciati
indietro nelle proprie solitudini interiori. E' difficile dare un senso ad una
giornata che ti si apre davanti e non sai cosa metterci dentro, mentre altri,
intorno a te, non hanno abbastanza tempo per correre dietro alle loro piccole
e grandi incombenze.
La società astratta, questo grande consorzio degli affari, si sveglia di buon
mattino e scorre veloce, con i suoi mille occhi ancora assonnati, la lunga lista
delle cose da fare. Ma, se guardi dietro le sigle pompose, non una delle
frenetiche attività che sono in programma ti riguarda personalmente, in
quanto uomo o donna in carne e ossa. Eppure, dicono tutti di lavorare per la
collettività. E, in effetti, tutti i santi giorni mettono le loro rapaci mani dentro la
vita di ognuno/a di noi.
Quando si parla di affari, dal fondo della memoria emerge quella incredibile
rappresentazione scenica che è la contrattazione dei titoli in una sala della
borsa valori. Eccola lì la società astratta. E' in quella torma di fantasmi che
gesticola freneticamente, facendo strani segni con le dita. Quel gesticolare
non ha nulla di umano. Le braccia levate a tagliare l'aria densa di fumo
sembrano i tentacoli di un mostro che fruga nelle viscere della vita sociale.
La sensazione dolorosa di essere continuamente frugati dentro da chi
vuole trarre un utile persino dai nostri pensieri inespressi induce alla chiusura
nei confronti del mondo esterno. Il bisogno di attivarsi viene così ricacciato
indietro dal rifiuto di mettere le proprie qualità al servizio di fini estranei alla
propria realizzazione esistenziale. Il soggetto, uomo o donna, si sente come
una lepre che freme dalla voglia di tuffarsi nel verde luminoso dei prati ed è
invece spinta sempre più in fondo alla tana dalle schioppettate dei cacciatori
in agguato.
L'astrazione sociale dissolve dunque le qualità umane, in quanto attributi
degli uomini e delle donne in carne e ossa, per tradurle in fattori della
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valorizzazione capitalistica. Ed è quindi la barriera che blocca il rifluire nella
vita sociale dell'attivismo finalizzato alla realizzazione esistenziale della
persona. E' una sorta di labirinto. Le qualità umane, per potersi attivare nella
società complessiva, devono attraversare la barriera dell'astrazione sociale.
Le altemative sono due. O rimangono di qua dalla barriera, nel qual caso
continuano ad essere attributi della persona, ma non hanno la possibilità di
arricchirsi della dinamica sociale complessiva. Oppure attraversano la
barriera, si immettono nel flusso della dinamica sociale, ma ne escono
spogliate delle specificità personali e ridotte a funzioni dell'apparato
produttivo del capitale. Nell'uno e nell'altro caso, la persona concreta viene
ridotta a individuo astratto. Il soggetto viene bloccato nella sua individualità e
messo in condizione di non potere attivare le prorpie qualità umane per dare
corso alla realizzazione della propria concretezza esistenziale.
1.7 Dal disagio esistenziale alla fuga nel mondo artificiale prodotto dalla droga
La difficoltà ad attivarsi per la propria realizzazione provoca, in presenza di
una acuta sensibilità soggettiva, disagio esistenziale. Nel contesto del nostro
discorso, per disagio esistenziale si intende la sensazione di non essere in
sintonia con il mondo esterno. Il soggetto sente di non essere preso in
considerazione in quanto potenzialità da realizzare, ma soltanto come
strumento per il perseguimento di fini che gli sono estranei. Se si espone
come essere umano, non trova riscontro nella realtà che lo circonda. Per
potere sperare di farsi ascoltare, deve proporsi non come universo di
energie creative, ma come anello impersonale del processo di
valorizzazione del capitale.
In una società che pretende di qualificarsi in termini di razionalizzazione
dei processi sociali gli uomini e le donne non sono in condizione di darsi un
progetto di vita. Non si tratta di una disfunzione, dovuta a inefficienza, ma di
una contraddizione strutturale. In tanto il sistema di produzione può essere
programmato in direzione di un valore astratto, in quanto gli uomini e le
donne rinunciano a progettare la propria esistenza. La programmazione
capitalistica può avere corso solo in un vuoto di progettualità esistenziale. La
razionalità del capitale è fondata sulla irrazionalità e casualità delle vite
umane.
49
In mancanza di una ben definita prospettiva esistenziale, il soggetto, uomo
o donna, non può dispiegare le proprie attitudini in funzione della propria
realizzazione in quanto persona.
Il disagio esistenziale ha dunque origine in una chiusura della prospettiva
di autorealizzazione. La società sussunta al capitale, strutturandosi come
sistema di indifferenza sociale, chiude ogni spazio alla dinamica esistenziale
degli uomini e delle donne.
Le reazioni soggettive a questa chiusura sono varie. C'è chi si adatta a
vivere una vita non sua. C'è chi tenta percorsi alternativi per riaffermare la
propria identità. C'è chi, invece di cercare di riappropriarsi del senso
dell'esistere, agisce sul proprio io, per alterarlo e renderlo non recettivo nei
confronti della realtà esterna. Per effetto di una sostanza stupefacente, l'io si
dilata e rimane temporaneamente sospeso in un mondo artificiale.
Una delle possibili risposte al disagio esistenziale è dunque la fuga dalla
realtà. E uno dei possibili esiti di tale fuga è l'approdo al mondo artificiale
prodotto da una droga. Nell'ambito di tale esito, la nostra attenzione è rivolta
non all'insieme di azioni-reazioni connesse alla dipendenza da una sostanza,
ma alla dinamica sociale che può predisporre il soggetto ad orientarsi in
direzione del consumo di droga.
Dovrebbe, a questo punto, emergere il quadro entro cui si muove il nostro
discorso. Nella società astratta, il sistema di indifferenza produce una vasta
area di disagio esistenziale. Entro tale area si innescano varie dinamiche,
una delle quali conduce alla fuga dalla realtà. Una delle forme che assume la
fuga è il consumo di droga.
La tossicodipendenza copre dunque solo una piccola parte dell'area del
disagio esistenziale. In realtà, il disagio non produce automaticamente
consumo di droga. Espone al rischio di un orientamento in direzione di una
fuga dalla realtà. Altri fattori - psicologici, culturali e sociali (fra cui la
pressione del mercato) - concorrono poi a tradurre tale fuga in consumo di
droga.
Non sempre il disagio è avvertito come tale dal soggetto. A volte il
soggetto, mancando di un rapporto vitale con la realtà esterna, finisce per
girare su se stesso, in una sorta di vuoto esistenziale.
Il vuoto esistenziale è una condizione in cui sono assenti le spinte alle
attività vitali. Il quadro delle motivazioni è spento. Manca un collegamento tra
la soggettività e le sfere dei comportamenti. Il soggetto non controlla i suoi
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stessi atti. Non è attore, ma semplice ricettacolo di dinamiche esterne, che
intersecano la sua quotidianità.
Molti/e tossicodipendenti dichiarano di avere cominciato per caso, per
curiosità o per gioco. Ma, se si va oltre l'immediatezza della situazione, viene
spesso fuori che tutto ciò accade all'interno di circuiti sociali in cui è assente
una progettualità esistenziale. Ora, in circuiti privi di prospettiva vitale è facile
che si introducano elementi di artificio, che tendono a surrogare la realtà.
Non potendo operare nel concreto, si gioca a "viaggiare" in un mondo
artificiale.
Le vie che conducono ad una droga sono strettamente legate alle vicende
personali. Una qualsiasi generalizzazione può risultare fuorviante. Tuttavia,
sul filo di quanto è emerso, è possibile tracciare due percorsi, entrambi
collegati al sistema di indifferenza sociale.
Un primo percorso parte dal disagio esistenziale e approda al distacco
dalla realtà esterna ed alla fuga nella irrealtà del mondo prodotto dalla droga.
L'indifferenza alla condizione esistenziale provoca uno scompenso tra la
sfera dell'aspirazione e la sfera dell'attivazione. Non essendo preso in
considerazione per quello che è in quanto persona, il soggetto - uomo o
donna - non si può attivare in direzione della propria autorealizzazione. Ora,
in persone fortemente motivate, questa caduta della progettualità
esistenziale può indurrre alla fuga.
In un secondo percorso, il sistema di indifferenza produce nella vita sociale
sacche di vuoto esistenziale, in cui si innescano dinamiche artificiose, che
coinvolgono soggetti demotivati sul piano dell'attivazione vitale.
In entrambi i percorsi c'è, all'origine, una situazione di scollatura nei
confronti della realtà esterna. In tale situazione, la persona finisce per essere
svuotata della sua identità e ridotta a individuo astratto.
Il cerchio dell'astrazione sociale si chiude. Il soggetto, quando è cosciente
dl ciò che fa, si illude di salvare la propria integrità esistenziale rifugiandosi in
un mondo artificiale. E invece, senza rendersene conto, si spinge più
addentro al sistema di astrazione sociale.
Il/la tossicodipendente è un soggetto svuotato della propria identità
personale e ridotto a semplice macchina di consumo, che alimenta un settore
specializzato del mondo degli affari. E' un individuo astratto alla massima,
tragica potenza.
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53
Capitolo Secondo
I RAPPORTI SOCIALI ASTRATTI
2.1 La desoggettivazione dei rapporti sociali
La soggettività degli uomini e delle donne è, per il processo di
valorizzazione del capitale, una mina vagante. Proprio perché la
valorizzazione capitalistica esige la passività dei fattori di produzione rispetto
al sistema produttivo, la soggettività, in quanto fonte di attività, si configura
come variabile disvalorizzante. In quanto espressione di vita della persona
concreta, la soggettività è, per il capitale, minaccia di morte.
Particolarmente pericolosa è la presenza attiva della soggettività nei
rapporti sociali. Da qui la necessità di rendere astratte le relazioni sociali,
cioè di disancorarle da ogni interferenza della soggettività. I rapporti sociali
astratti sono rapporti desoggettivati, cioè svincolati da ogni espressione della
soggettività. Sono rapporti indifferenti ai propri contenuti, perché non sono
strutturati in relazione a ciò che hanno da comunicarsi, come persone, gli
uomini e le donne in carne e ossa.
L'origine di tutto ciò si può fare risalire, sul piano storico, alla
contrattualizzazione dei rapporti sociali, cioè alla istituzione di relazioni
strandardizzate e codificate, attraverso le quali gli individui entrano in
contatto fra loro per scambiarsi beni o servizi. In conseguenza della
contrattualizzazione, i rapporti sociali si definiscono come relazioni non tra
persone, ma tra funzioni e ruoli, in cui si prescinde dalle specificazioni proprie
dei soggetti. Nel sistema di relazioni contrattuali gli individui figurano soltanto
in quanto veicoli di funzioni e di ruoli direttamente o indirettamente produttivi
o, comunque, assunti come tali. Non le funzioni e i ruoli sociali come
espressioni degli individui, ma gli individui come espressioni delle funzioni e
dei ruoli produttivi 7.
7 La contrattualizzazione dei rapporti sociali comporta, come è noto, la transizione dal rapporto servile al
rapporto libero. Il rapporto servile coinvolge tutta la vita dell'individuo. Il servo della gleba è
servo in qualsiasi momento della sua vita, perché tale lo definisce la sua condizione sociale complessiva,
nella forma e nella sostanza. Non c'è un angolo della vita sociale in cui, almeno formalmente, la sua
condizione possa definirsi non-servile. Il rapporto contrattuale invece investe, formalmente, solo un aspetto
54
Il riscontro reale di tale inversione si può ritrovare nell'intreccio di funzioni e
di ruoli di cui è intessuta la società sottomessa al capitale. In questo senso,
la società astratta si definisce come sistema di funzioni e di ruoli sociali, più
che come insieme di persone.
Il sistema di funzioni e di ruoli sociali funziona come apparato del sistema
di astrazione(*). Nella società astratta il ruolo sociale rappresenta infatti -
nella sua purezza ideale - I'istituzionalizzazione della funzione direttamente o
indirettamente produttiva, spogliata di ogni interferenza personale.
I rapporti fra ruoli sociali sono - nella loro astrazione - i rapporti sociali
adeguati al capitale. E ciò perché, in primo luogo, si tratta di relazioni
standardizzate e quindi prevedibili. Quanto più un ruolo è astratto, quanto più
cioè riesce a mettere fra parentesi il soggetto che lo ricopre, tanto più è
funzionale al processo complessivo di valorizzazione del capitale. In ogni
caso, un ruolo sociale ha la funzione di mediare tra l'imprevedibilità della
persona e il bisogno di prevedibilità del sistema. I rapporti sociali astratti,
realizzati attraverso la mediazione di ruoli funzionali al sistema di potere in
atto, non solo non corrispondono al bisogno di relazione dei soggetti, ma
sono il risultato della espropriazione dei rapporti interpersonali, cioè della
estraneazione di un dato fondamentale del comportamento umano. Rapporti sociali dunque come canali non di realizzazione esistenziale delle
donne e degli uomini, ma di estraneazione della loro socialità. La socialità viene sradicata dalla persona e trasferita nel ruolo. L'individuo ritrova, nel ruolo, la sua socialità come sfera a lui estranea. Ed egli, per attivare questa socialità estraneata, deve negare se stesso come uomo o donna in carne e ossa.
2.2 La socialità astratta
Non facendo funzionare il sistema di comunicazioni interpersonali, si cerca
di ottenere individui isolati, più facilmente disponibili nei confronti del sistema
di relazioni astratte. Fare il vuoto di socialità reale attorno ad ogni uomo e ad
ogni donna significa creare le condizioni perché l'individuo funzioni come
conduttore di ruoli astratti. L'estraneazione della socialità reale delle persone
è funzionale all'attivazione della socialità astratta del sistema.
specifico della vita dell'individuo, l'uso della forza-lavoro per un tempo determinato. In tal senso, fa astrazione dagli
altri momenti della vita sociale. Questo aspetto formale del rapporto contrattuale ha conseguenze pratiche
enormi, che interessano il sistema sociale complessivo.
55
La socialità astratta non dispone di un suo spazio autonomo rispetto alla
persona concreta. Deve dunque realizzarsi entro la vita quotidiana. Il
soggetto non solo è privato della socialità che gli è propria, ma è costretto a
farsi carico di una socialità che gli è estranea. La socialità astratta per un
verso è estranea alla persona, per l'altro deve attivarsi attraverso la persona,
ridotta a individuo. E può attivarsi soltanto occupando lo spazio vitale della
persona e svuotandolo di ogni contenuto reale. L'attivazione della socialità
astratta può darsi soltanto attraverso l'astrattizzazione della vita reale.
Una vita sociale carica di contenuti e di significati personali è una sede
inadatta per il funzionamento del sistema di relazioni astratte. Le relazioni
astratte pretendono di essere impersonali e soffrono il carico di contenuti e di
significati personalizzati. In questo senso, la vita quotidiana adeguata alla
socialità astratta è la routine, con tutto il suo carico di noia e di solitudine. La
socialità astratta crea routine, che a sua volta genera rapporti sociali astratti.
L'astrazione si rivela, a tutti i livelli, come un sistema a circuito chiuso. In
particolare, il sistema di astrazione è continuamente chiamato a ripulire i
processi sociali delle scorie di relazioni interpersonali ed a sgombrare la vita
sociale dei detriti di valenze personali, di cui tendono a caricarsi le stesse
relazioni impersonali. E' cioè continuamente chiamato a riprodurre le
condizioni per riportare la vita sociale entro i binari della routine quotidiana.
Come viene vissuta la routine delle relazioni impersonali? Come viene
cioè vissuta la privazione di relazioni sociali personalizzate? In altri termini,
interessa vedere come si definisce l'insediamento della socialità astratta
entro la dinamica della vita quotidiana, quali conflitti provoca, a quali reazioni
va incontro.
Il tempo di vita è - dal punto di vista della persona concreta - indivisibile.
La socialità astratta deve quindi potere trovare il modo di funzionare entro le
mura della vita quotidiana. E qui entra in conflitto con tutta la carica
personale che sta dentro il vissuto degli uomini e delle donne in carne e
ossa. Il vissuto personale che tenta di farsi strada nei rapporti di vita
quotidiana si imbatte continuamente nella violenza prodotta dal sistema di
astrazione, che tenta di metterlo fra parentesi.
Nella sfera dei rapporti interpersonali penetrano diverse forme di
astrazione. Una delle forme più ricorrenti è la spersonalizzazione. E' un
connotato tipico dei rapporti formali, cioè di rapporti regolati da precise norme
di comportamento, che schiacciano la soggettività e la mortificano,
inchiodandola ad espressioni standardizzate, che le sono del tutto estranee.
56
Altra forma, propria delle grandi città, è la casualizzazione. I rapporti casuali,
che si intrecciano nel corso di incontri fortuiti, sembrano assolutamente
personalizzati. E in effetti non ubbidiscono, mani-festamente, a canoni
espressivi esterni. Il limite è pero qui interiore. La casualità del rapporto non
consente alla soggettività di dar fondo alle sue potenzialità espressive.
Pertanto, pur non essendo sottoposto ad imposizioni esterne, il soggetto si
limita spesso, in questi casi, tranne rare eccezioni, a rifugiarsi in espressioni
ripetitive e banali. La banalizzazione delle relazioni sociali, che è una
conseguenza dell'astrazione propria dei rapporti non personalizzati, lascia
nel soggetto una dolorosa sensazione di frustrazione e di impotenza e lo
induce talvolta a ridurre le sue manifestazioni verso l'esterno alle
comunicazioni indispensabili per la sopravvivenza.
2.3 La segregazione del personale nell’individuale
Quando l'astrazione viene a toccare i rapporti interpersonali, si pone un
problema di grande portata. E' il problema dello sbocco sociale del vissuto
personale. Nella società astratta il vissuto personale non ha modo di
esprimersi, di uscire fuori dall'ambito individuale, di intersecarsi con altre
esperienze soggettive. L'astrazione ha, nella sfera dei rapporti sociali, questa
conseguenza immediata: la segregazione del personale nell'individuale. E
qui bisogna intendersi. Personale e individuale sono ambiti non
necessariamente coincidenti. Anzi. Il personale ha bisogno di arricchirsi
continuamente attraverso esperienze intersoggettive. Ha bisogno di aprirsi a
prospettive collettive, in cui la sfera individuale abbia la possibilità di
dilatarsi. L'individuo diventa persona quando incontra gli altri/e e quando
prende coscienza del fatto che la realizzazione delle proprie potenzialità può
avvenire soltanto attraverso gli altri/e.
Nella società astratta il personale e l'individuale invece coincidono. Non
perché sono la stessa cosa, ma perché sono costretti a muoversi entro la
stessa sfera: la sfera del privato. Il personale è come imprigionato nell'ambito
individuale. Questa condizione procura un doloroso senso di solitudine, con
punte di vera e propria disperazione. Il personale non ha la possibilità di
espandersi, di intersecare l'«altro da sé» in esperienze collettive e
intersoggettive. Bloccato nella prigione della sfera individuale, è costretto a
ritorcere la sua dinamica su se stesso.
57
I rapporti sociali reali danno spazio alla dialettica interiore delle persone
concrete. Il personale ha, per questa via, la possibilità di strutturarsi in forme
mobili, tali da potersi volta a volta adeguare al livello di realtà con cui si deve
confrontare. Viceversa, i rapporti sociali astratti ricacciano continuamente
indietro, nel privato, il personale che tenta di emergere, di invadere i canali
che gli si aprono davanti. Il soggetto ha difficoltà ad esternare i problemi che
lo affliggono. Fuori della persona c'è la sfera pubblica, dove regna
l'astrazione e dove la presenza di contenuti personali crea scandalo.
Il confinamento del personale nella sfera privata non è casuale. Rientra in
una logica di controllo sociale. L'individuo, messo in condizione di non potere
vivere insieme ad altri/e il suo personale, si ripiega su se stesso e si colloca
in una posizione soggettiva di estraneità rispetto alla realtà sociale
complessiva.
Questa estraneità può essere vissuta in modi diversi. C'è chi si lascia
fagocitare dalla routine quotidiana, arrivando ad un alto grado di
depersonalizzazione. C'è chi perde il senso della realtà e vive il suo
personale in modo onirico. C'è chi rifiuta la realtà esterna e si rifugia nello
stordimento artificiale procurato dalle droghe.
Quanto si è detto fin qui mette in evidenza la funzione di fondo che ha
l'astrazione in sede di rapporti sociali: bloccare i bisogni nella sfera privata e
chiudere i canali attraverso i quali essi possono organizzarsi ed avere un
impatto con il sistema politico-economico.
In relazione a questa funzione dell'astrazione, è necessario, a questo
punto, cercare di vedere che cosa rappresentano i rapporti sociali per
l'espressione dei bisogni. I rapporti sociali sono i canali attraverso i quali i
bisogni circolano e si organizzano nella società- collettività. Non si tratta di
una funzione puramente esterna e strumentale. Attraverso i rapporti sociali, i
bisogni avviano processi politici collettivi, che producono nuove prospettive,
più avanzate. Una intensificazione accelerata dei rapporti sociali dà talvolta
luogo ad una spirale di bisogni, che può rappresentare una seria minaccia
per le compatibilità, economiche e politiche, dell'apparato capitalistico.
Rapporti sociali e bisogni sono connessi in modo dialettico. I rapporti
sociali sono il presupposto per la definizione e l'espressione del sistema dei
bisogni a livello sociale complessivo. E, a sua volta, il sistema dei bisogni
rappresenta l'insieme delle motivazioni, personali e collettive, che stanno alla
base dei rapporti sociali.
58
In questo quadro, la realizzazione di una autentica socialità è, di per sé,
affermazione dei bisogni fondamentali delle persone concrete. Di
conseguenza, per negare i bisogni, il sistema si deve strutturare in modo da
essere di ostacolo alla realizzazione dei rapporti interpersonali. E, viceversa,
per impedire la realizzazione dei rapporti interpersonali, deve negare i
bisogni.
2.4 La rigidità dei rapporti interpersonali profondi
L'astrazione sociale incontra non poche difficoltà a penetrare nei rapporti
personali profondi, cioè nei rapporti di amore, di affetto, di amicizia. In questa
sfera i soggetti si mettono in relazione fra di loro in quanto persone,
prescindendo dai loro ruoli formali. Si pensi quanto la persona, con il suo
specifico e irripetibile bagaglio esistenziale, viene coinvolta in un autentico
rapporto di amore o di amicizia. Un dirigente è in rapporto con la propria
moglie e con i propri figli non come funzionario, ma come persona.
Può anche accadere che due persone abbiano un doppio rapporto,
astratto e concreto. Un dirigente ha una relazione sentimentale con una sua
subordinata (o una dirigente con un suo subordinato). Davanti agli altri si
danno del lei e si rapportano in quanto portatori di ruoli. Hanno cioè un
rapporto formale, astratto. Ma, appena si trovano soli nella stanza dell'ufficio,
si danno del tu e si sintonizzano in quanto persone concrete. Su questo
doppio binario possono insorgere equivoci, derivanti dall'intersecarsi dei due
piani di rapporto. Per cui si rendono spesso necessari chiarimenti, che
rimettano le cose a posto. Tipico è il caso del militare graduato che è in
stretto rapporto di amicizia con un militare semplice. Il graduato chiede
qualcosa al militare semplice, il quale, pensando di parlare all'amico, ci
scherza sopra. A questo punto, il graduato riporta la sua richiesta nell'ambito
del rapporto formale, da superiore a subordinato, precisando: «E' un ordine».
Il coinvolgimento della persona nei rapporti profondi può provocare
atteggiamenti di rigidità, cioè di resistenza all'astrazione sociale, di
riaffermazione della propria specificità personale. Tale resistenza si esprime
nell'attaccamento affettivo alla propria compagna o al proprio compagno, ai
figli e alle figlie, ai familiari, alle amiche ed agli amici, ai luoghi, alle abitudini
di vita.
Ora, se l'astrazione sociale fosse limitata ai rapporti formali, lasciando la
sfera dei rapporti profondi sotto il dominio della concretezza, la società
59
astratta non riuscirebbe ad incidere sul sistema di relazioni quotidiane. E
questo vuoto di astrazione finirebbe per condizionare il processo
complessivo di valorizzazione capitalistica, creando vincoli sociali, che sono
di ostacolo alla piena disponibilità della forza-lavoro manuale-intellettuale.
Per tutto ciò, l'astrazione deve attaccare ed intaccare la rigidità dei rapporti
interpersonali profondi, la non-indifferenza presente nella struttura portante
del sistema di relazioni quotidiane. A questo livello, l'astrazione non può agire
in modo diretto. Segue vie traverse, incidendo sui fattori che concorrono alla
struttura dei rapporti sociali, in modo che le relazioni astratte appaiano come
un esito di progresso, come il risultato di una evoluzione sociale. In effetti, dal
punto di vista del sistema politico-economico, i rapporti astratti si definiscono
in termini di "modernizzazione", in quanto tendono a liberare la valorizzazione
capitalistica da ogni vincolo sociale. E i rapporti sociali concreti, con la loro
pregnanza di contenuti e di significati, con la loro tendenza alla
specificazione soggettiva, si definiscono come relazioni "arretrate" ed
"anguste" rispetto al sistema di relazioni industriali.
In questo quadro, il sistema di relazioni industriali è il sistema di rapporti
sociali astratti per eccellenza. E' il sistema di relazioni adeguate alla società
astratta.
60
61
Capitolo Terzo
LA RICCHEZZA ASTRATTA
3.1 Ricchezza concreta e ricchezza astratta
Gli uomini e le donne producono oggetti concreti, trasformando la materia
attraverso tecniche specifiche. Soddisfano così il bisogno di sentirsi attivi e si
realizzano negli oggetti prodotti. Gli oggetti prodotti hanno forme e colori.
Sono grandi, piccoli, gialli, rossi. Hanno qualità diverse. Nella società astratta
le qualità particolari degli oggetti vengono ridotte ad astratte quantità
comparabili.
Le donne e gli uomini producono oggetti per farne un uso particolare. Il
fine della produzione reale è il valore d'uso dei beni. Nel processo di
valorizzazione capitalistica l'uso diventa mezzo per la realizzazione del
valore di scambio. Si dà forma e colore all'oggetto, per poterlo meglio
scambiare. Il valore di scambio è il fine ultimo della produzione capitalistica,
che - in questo senso - si definisce come processo di valorizzazione del
capitale. Tutti questi passaggi sono sintetizzati nella riduzione del bene
concreto, finalizzato all'uso, a merce astratta, finalizzata allo scambio.
In via preliminare, occorre individuare il significato storico del passaggio
dal dominio del valore d'uso al dominio del valore di scambio. Si tratta di un
passaggio che comporta un insieme rilevante di mutamenti nel sistema
politico-economico. Ma il senso profondo di tali mutamenti è nel graduale
passaggio da un mondo dove regna la concretezza ad un mondo dove regna
l'astrazione.
Bisogna intendersi bene su questo punto. Il processo di valorizzazione del
capitale, mentre da un lato opera nel concreto della realtà sociale, dall'altro
rimane un processo astratto, al quale sono estranee motivazioni legate alla
concretezza delle persone. Questa sua astrazione il processo di
valorizzazione capitalistica non la tiene per sé, ma - proprio perché è
costretto a funzionare nella sfera sociale - la scarica sulla società
62
complessiva, attraverso la mediazione del sistema istituzionale. La
mediazione istituzionale è, nella società formalmente democratica,
indispensabile al capitale per potere definire la produzione sociale come
produzione di merci.
La merce è il prodotto astratto, indifferente al suo valore d'uso e deferente
verso il suo valore di scambio. In questo senso, la ricchezza, in quanto
disponibilità di merci, si definisce - nella società sussunta al capitale - come
ricchezza astratta, indifferente ai suoi contenuti.
Un impatto diretto con la ricchezza astratta si ha quando si entra in una
banca. La banca è una grossa concentrazione di ricchezza. Ma non ha
magazzini pieni di roba da mangiare o da usare. Ha solo titoli monetari e reti
informatiche con la memoria zeppa di cifre. Dentro una banca circola solo
ricchezza astratta.
3.2 Ricchezza astratta e bisogni sociali
I beni sono, in sé, risposte ai bisogni. La trasfigurazione di beni in merci
stravolge una tale funzione. L'uso dei beni viene svincolato dai bisogni e
vincolato allo scambio. I bisogni, per potersi rapportare ai beni, devono
passare sotto le forche caudine del valore di scambio. Le persone che hanno
un bisogno devono riconoscere i beni come merci. Il che, a ben riflettere, è
un paradosso. La merce è una entità astratta, indifferente al contenuto del
prodotto nel quale si incarna 8. Ebbene, per potere usufruire di un prodotto
specifico, le persone devono negarlo come specifico prodotto.
Ad un livello ancora più generale, nella società astratta produzione e
valorizzazione devono coincidere. Le persone non devono poter disporre di
beni se non in forma di merci. Sta qui il ricatto economico che il capitale
esercita nei confronti della collettività. Un vero e proprio sequestro privato
della produzione sociale, per estorcere plusvalore.
Il destino sociale del modo capitalistico di produzione è legato alla
resistenza del nesso tra creazione di beni di consumo ed estrazione di
plusvalore. Finché questo nesso resiste, la collettività "non può fare a meno"
del capitale. Per tutto ciò, l'economia borghese tende a mistificare il nesso,
nel senso che cerca di non farlo vedere, per non esporlo a pericolosi
attacchi. Così fa del processo di produzione direttamente un processo di
8 Si veda il paragrafo 0.1 L’astrazione materiale nella Premessa alla Parte Prima.
63
valorizzazione del capitale. E in ciò - a livello di percezione collettiva - ha
gioco facile. Perché il processo di valorizzazione capitalistica non ha una
sede fisica, distinta dal luogo di produzione. Produzione e valorizzazione
capitalistica fanno parte di un processo complessivo. Ma solo la prima è
visibile nelle sue strutture materiali.
La coincidenza fra produzione e valorizzazione si traduce in una
separazione della ricchezza concreta - cioè della disponibilità diretta di beni -
dai bisogni sociali. E non è un caso. Solo una ricchezza astratta, una
ricchezza indifferente ai suoi contenuti, può essere separata dai bisogni
sociali. E solo una ricchezza separata dai bisogni sociali può essere
indifferente ai suoi contenuti.
Produrre ricchezza non finalizzata al soddisfacimento di bisogni particolari
(se non in modo strumentale, per realizzare valore di scambio) è, di per sé,
un atto di espropriazione. Significa espropriare le persone della gestione
diretta della soddisfazione dei loro bisogni. Significa negare il comando dei
bisogni sulla ricchezza sociale. Produrre ricchezza indifferente ai suoi
contenuti significa produrre indifferenza per i contenuti dei bisogni sociali.
A prescindere dagli stravolgimenti prodotti dalla mistificazione ideologica,
la separazione della ricchezza dai bisogni provoca una marcata
polarizzazione sociale: da una parte la società-struttura impone il dominio del
valore di scambio, dall'altra la società-collettività preme per affermare il suo
bisogno di valore d'uso.
3.3 Denaro e materialità della ricchezza astratta
La riduzione del bene a merce non muta la figura fisica del prodotto. A
questo livello, l'astrazione opera ancora nell'ambito del rapporto fra bisogni e
beni, senza nemmeno sfiorare la materialità della ricchezza. Fin qui la
ricchezza astratta è costituita da prodotti materiali considerati dal punto di
vista dello scambio 9. L'astrazione non si è ancora tradotta in trasfigurazione
fisica.
In questa traiettoria il denaro segna un passaggio estremamente
significativo. Segna il passaggio alla materializzazione dell'astrazione
applicata alla ricchezza. Il biglietto di banca, stampato in tagli diversi ad uso
del piccolo commercio, è la figura materiale della ricchezza astratta. Ma è
9 Ibidem.
64
una figura esposta ad una ulteriore astrattizzazione. Il residuo di materialità
presente nella valigia piena di soldi, che si vede nei film polizieschi, si
vaporizza in una cifra segnata a penna su un rettangolo di carta, riconosciuto
come assegno di conto corrente. Operazione che può essere evitata con la
semplice presentazione di una carta di credito. Questa smaterializzazione
del denaro, questa traduzione della residua materialità del denaro a puro
simbolo grafico - legata alla esigenza di velocizzare le operazioni di scambio
e quindi destinata ad estendersi sempre più – mette in atto indirettamente,
almeno per un certo tempo, una differenziazione di classe. Chi ha molti soldi
non è abituato a maneggiare la materialità del denaro. Ha sempre a che fare
con il denaro come pura astrazione simbolica, cioè con una ricchezza
astratta all'ennesima potenza.
3.4 Il comando del denaro sulla ricchezza sociale come dominio di classe
Il denaro rappresenta la ricchezza. Ma non la rappresenta in modo neutro.
Nel rappresentarla, la domina. E' da qui che discende il comando del denaro
sulla ricchezza sociale.
Questo comando sulla ricchezza sociale viene esercitato su basi di classe.
Il denaro è l'imperio della classe dominante sulla ricchezza sociale. Da qui la
sua ambivalenza. Per le classi privilegiate il denaro è il ponte che porta le
persone al godimento della ricchezza. Per le classi subalterne è invece il
muro che separa le persone dalla ricchezza sociale. In tal senso, la presenza
sociale del denaro si traduce in ricchezza per le classi privilegiate e in
povertà per le classi subalterne. E il comando sulla ricchezza si traduce, per
la classe dominante, in potere economico e politico. Sta qui la forza del
denaro.
Il godimento della ricchezza sociale non è mediato dai bisogni, ma dal
denaro. E il denaro - in quanto rappresentazione imperativa della ricchezza e
non mero strumento di sopravvivenza fisica - è un attributo della classe
dominante. Ora, da dove viene al denaro questo marcato segno di classe?
Per quale via esso è in grado di esprimere il comando della classe
dominante sulla ricchezza sociale e quindi sulle classi subalterne?
Ragioniamo in negativo. Se l'unico valore fosse il valore d'uso e se esso
fosse connesso strettamente ai bisogni sociali, verrebbe a mancare lo spazio
per il comando di classe sulla ricchezza sociale. I contenuti della produzione
avrebbero un tale peso sul sistema economico da sfuggire al controllo della
65
classe dominante. Il comando della classe dominante sulla ricchezza sociale
si può dunque affermare soltanto nell'ambito di un sistema di astrazione che
da una parte svuoti la persona della specificità dei suoi bisogni e dall'altra
svincoli la ricchezza sociale da particolari contenuti e ne faccia una ricchezza
per sé, una ricchezza in quanto ricchezza, una ricchezza astratta.
3.5 Lo scontro sociale fra il valore d’uso e il valore di scambio
La specificità dei contenuti è - in qualsiasi sede ed a qualsiasi livello - un
nemico mortale per il comando del capitale sulla società complessiva. Il
comando del capitale richiede astrazione, cioè indifferenza ai contenuti. E si
capisce perché. Nella misura in cui la società è indifferente ai contenuti, è
deferente verso il capitale.
In condizioni di forte tensione sociale, I'antiteticità fra valenza con-
tenutistica della vita sociale e dominio del capitale si traduce in antagonismo
sociale. In alcuni strati del proletariato giovanile emerge allora la pratica
dell'uso diretto dei beni, non mediato dal valore di scambio. Tale pratica
costituisce una minaccia per il comando del denaro sulla ricchezza sociale. I
soggetti cominciano a dimostrarsi irrispettosi nei confronti della mediazione
del denaro e vedono nella ricchezza sociale materia di godimento diretto. Il
soggetto proletario è tutt'altro che deferente verso la intangibilità del valore di
scambio. Un bene vale per il godimento che dà. E da tale godimento non
vuole sentirsi escluso. Questa indifferenza proletaria nei confronti della
"sacralità" del valore di scambio è I'esatto contrario della indifferenza
borghese nei confronti della "volgarità" del valore d'uso.
Là dove esplode, lo scontro ha radici sociali profonde. Da una parte il
valore di scambio, dall'altra il valore d'uso, ognuno dei quali cerca di
affermare, a danno dell'altro, la propria egemonia sulla società complessiva.
Nella sconvolgente immagine televisiva delle ruspe che riducono a
informe poltiglia montagne di bellissime arance dorate c'è tutta la violenza e
I'assurdità di un sistema politico-economico che assume a fondamento il
valore di scambio. E' una immagine emblematica, una sintesi delle
contraddizioni della società sussunta al capitale. Nei termini del nostro
discorso, è soprattutto la cruda evidenziazione del bisogno di astrazione del
capitale. Si distrugge valore d'uso pur di salvare valore di scambio. Si
distrugge ricchezza concreta pur di salvare ricchezza astratta.
66
Ma c'è di più. Qui la salvaguardia di ricchezza astratta sta proprio nella
distruzione di ricchezza concreta. Ciò rivela un aspetto significativo della
produzione di ricchezza astratta. La produzione di ricchezza astratta è, di per
sé, distruzione di ricchezza concreta. L'indifferenza al valore d'uso, che è
alla base della produzione del valore di scambio, condanna al
deterioramento, se non alla distruzione diretta, una ingente quantità di beni
materiali. Pensiamo a tutte le merci deteriorabili che rimangono invendute nei
magazzini delle aziende e delle ditte di commercio. Queste merci non
vengono immesse sul mercato al ribasso, per non compromettere i prezzi di
vendita, cioè per difendere il valore di scambio. Anche qui ricchezza concreta
viene lasciata putrefare per salvare ricchezza astratta.
Un caso particolare è quello dell'edilizia. Il prodotto casa non è soggetto,
entro tempi ragionevoli, a deterioramento. Anzi, il suo valore tende a
incrementarsi. Ciò conferisce un andamento particolare al mercato della
casa. Migliaia e migliaia di case di nuova costruzione rimangono per lungo
tempo invendute. E, contemporaneamente, il prezzo della casa, invece di
scendere, sale. Così una ingente ricchezza concreta rimane inutilizzata per
incrementare la ricchezza astratta.
Da tutto ciò risulta con evidenza che la ricchezza astratta è di ostacolo al
godimento della ricchezza concreta. Da una parte gente senza casa,
dall'altra case senza gente 10. Cos'è che impedisce alla gente senza casa di
andare ad abitare nelle case senza gente? Cos'è questo muro che separa
dalla ricchezza concreta i bisogni sociali? E' la ricchezza astratta. E come la
produzione di ricchezza astratta è distruzione di ricchezza concreta, così la
riappropriazione di ricchezza concreta è distruzione di ricchezza astratta.
L'occupazione di case da parte dei senza-tetto è un attentato al loro valore di
scambio, perché è difficile riuscire a vendere case occupate.
Da questo quadro emerge una contrapposizione frontale. Da una parte c'è
chi distrugge arance per mantenere il valore di mercato. Dall'altra c'è chi
delle arance apprezza non il valore di mercato, ma il sapore e le vitamine. Da
una parte chi costruisce case, per lasciarle vuote. Dall'altra chi nelle case ha
bisogno di abitarci.
Tale contrapposizione può essere superata soltanto attraverso un
processo di liberazione che tenda alla distruzione di tutta l'astrazione
presente nella società complessiva.
10 Questa frase ha avuto la ventura di essere assunta come slogan nelle lotte per la casa.
67
Capitolo Quarto
I VALORI ASTRATTI
4.1 I valori astratti come valori di classe
Definiamo valori astratti i principi che fanno astrazione dalla condizione
reale in cui vivono le persone concrete e non sono rivolti alla realizzazione
dell'umano. In tal senso, è un valore astratto l'uguaglianza formale, perché
non tiene conto delle concrete disuguaglianze, che vengono a determinarsi
nella realtà sociale. E sono astratti i valori mercantili, perché in essi si
realizza non l'umano, ma l'utile.
Il sistema di valori astratti si regge su una artificiosa compartimentazione
della vita sociale in sfere separate: la sfera politica, la sfera economica, la
sfera sociale. Sulla base di tale compartimentazione, i valori della sfera
politica fanno astrazione dalle condizioni che vengono prodotte in sede
economica. E i valori della sfera economica fanno astrazione dalle condizioni
che vengono prodotte in sede sociale.
E' attraverso questo rapporto di astrazione fra le diverse sfere della vita
sociale che valori formalmente generali funzionano, di fatto, come valori di
classe. In tale senso, i valori astratti non sono valori, in senso proprio, perché
mancano di un requisito essenziale: la generalità.
Prendiamo un valore fondante della società astratta in quanto società
formalmente democratica: la libertà. Tutti gli individui, uomini e donne, che si
accingono a fare un viaggio in treno sono formalmente liberi di scegliere la
prima o la seconda classe, la carrozza cuccette o il vagone letto, l'accelerato
o il super-rapido. Di fatto, la condizione economica e sociale indirizza ogni
individuo, uomo o donna, verso una scelta in larga parte predeterminata.
E non si tratta di una disfunzione. La compartimentazione del treno in
classi (termine quanto mai allusivo) viene operata proprio nella convinzione
che, differenziando il costo, si metterà in atto una disaggregazione
dell'universo dei viaggiatori, uomini e donne, in base al censo ed allo status
sociale. Con questo stratagemma si garantisce agli utenti di un certo livello
sociale non solo di avere in esclusiva certe comodità e certi servizi, ma
68
anche di non dovere convivere con gente di basso rango. Tanto è vero che
se, per un accidente qualsiasi, un "poveraccio/a" va a finire in un
compartimento di lusso, i "signori/e" cominciano a scambiarsi segni di
comune disagio. E possono anche arrivare a protestare presso il personale
delle ferrovie, magari di nascosto. Ciò significa che chi paga di più intende
garantirsi, fra l'altro, la certezza di avere a che fare, nel corso del viaggio,
soltanto con suoi pari.
C'è, come si vede, una frattura all'interno del rapporto tra valori della sfera
politica e condizioni prodotte nella sfera sociale. Un concerto di musica
sinfonica trasmesso in televisione è aperto a tutti o quasi. Ma solo chi ha
potuto farsi una cultura musicale di un certo livello sarà indotto/a a non
cambiare canale. Tutti siamo liberi di ascoltare musica sinfonica, ma di fatto
solo alcuni/e "scelgono" di ascoltarla.
I valori astratti sono formalmente generali, per potere essere legittimati
come valori. E sono sostanzialmente particolaristici, per potere essere
funzionali alla differenziazione di classe.
Il prestigio di cui godono i valori nella società astratta è in relazione al loro
grado di astrazione. Quanto più i valori sono lontani dalla condizione
esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa, tanto più sono
presenti nei canali ufficiali della comunicazione sociale, attraverso cui
esercitano una forte pressione ideologica sulla coscienza collettiva. Viene
così a crearsi una gerarchia rovesciata di valori, in base ad una logica di
classe. In cima a tale gerarchia è insediato il valore astratto come valore di
classe per eccellenza: il profitto.
4.2 Valori "altri" e società astratta
La società astratta privilegia i valori prodotti dal capitalismo. Ma essa si
deve misurare anche con valori di diversa provenienza, con valori "altri":
valori religiosi, culturali, ecc.. Mentre esalta lo "spirito del capitalismo", cerca
di piegare ai propri fini valori radicati nella tradizione storica.
In questo quadro, il sistema di astrazione sociale deve dare spazio a valori
che, pur non essendo propri della ideologia capitalistica, favoriscono
atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente funzionali alla valorizzazione
del capitale.
Si viene così a delineare un rapporto, estremamente complesso, fra
sistema di astrazione e quadro dei valori diffusi. C'è, innanzi tutto, da tenere
69
presente il fatto che i valori diffusi non hanno tutti lo stesso segno. Valori
contrapposti si contendono il campo. La società astratta è quindi costretta a
scegliere. E sceglie sempre quei valori che orientano le donne e gli uomini in
direzione non della propria specificità concreta, ma di una astratta generalità.
E ciò nel quadro di una contrapposizione, artificiosa e strumentale, fra
specificità individuale e generalità sociale.
4.3 Dall’ambivalenza all’ambiguità dei valori astratti
Le idee-forza della società astratta sono fondate - al di là della forma in cui
si presentano - su una visione dell'organizzazione sociale che prevede due
distinti modelli di comportamento, uno per la classe dominante ed uno per le
classi subalterne. Ed è possibile attivare un modello di comportamento nella
classe dominante solo se lo si disattiva nelle classi subalterne.
Se si tiene conto di questa ambivalenza, si può pure parlare del quadro di
riferimento della società astratta come di un «sistema di valori», ma a
condizione di qualificarlo in modo specifico, al di là della nozione di valore in
sé. In effetti, come si è visto, si tratta di un sistema di valori astratti, rivolto
alla realizzazione non delle persone concrete, ma della valorizzazione del
capitale.
L'ambivalenza dei valori astratti ha significativi risvolti pratici. I valori che
per la classe dominante indicano comportamenti da seguire, per le classi
subalterne indicano confini da non valicare. Per i lavoratori e per le lavoratrici
dipendenti i valori della società astratta si traducono in controindicazioni, in
cose da non fare. Il perseguimento del profitto comporta, per esempio, per gli
inprenditori capacità di iniziativa e di inventiva, mentre per chi lavora
comporta disciplina e assenza di iniziativa personale. Se i lavoratori e le
lavoratrici si mettessero a praticare, durante l'orario di lavoro, le "virtù
imprenditoriali", il sistema capitalistico di produzione salterebbe.
Ma c'è di più. I valori rivolti alle classi subordinate sono non solo opposti e
simmetrici, ma anche complementari ai valori rivolti alla classe dominante. Al
valore della iniziativa personale dell'imprenditore fa da supporto il valore della
disciplina del dipendente. L'iniziativa dell'uno non può darsi senza la
disciplina dell'altro. I comportamenti delle classi subordinate devono creare le
condizioni materiali per la realizzazione dei valori della classe dominante.
Ovviamente, questa doppiezza dei valori astratti non è mai resa esplicita.
Anzi, si sta molto attenti a coprirla con un velo ideologico. A tal fine, i valori
70
della classe dominante e i valori delle classi subalterne non vengono mai
presentati in contrapposizione, ma come componenti di un sistema integrato
di valori. All'interno di tale sistema, ciascuna classe trova il valore
corrispondente al proprio ruolo nella società complessiva.
Per questa via, la contrapposizione di valori perde, in apparenza, ogni
connotato di classe e si traduce in un riflesso della differenziazione sociale.
In azienda - si sente spesso ripetere - tutti lavorano, ognuno con il proprio
ruolo. La doppiezza di classe dei valori viene così diluita in una
differenziazione di ruoli all'interno dello stesso sistema di valori.
Questa complessa e articolata ambivalenza delle dinamiche valoriali si
traduce in una ambiguità di fondo dei volri astratti.
I valori della società astratta non possono presentarsi sulla scena sociale
per quel che sono. Hanno bisogno di presentarsi sotto le mentite spoglie di
valori concreti. E si capisce perché. Un valore, per essere tale, deve
affermare qualcosa. Non può essere l'astrazione, pura e semplice, da
qualche cosa. Inoltre, per legittimarsi come fattore di orientamento per la
collettività, deve trovare riscontro in un bisogno sociale.
Ecco perché il profitto, per presentarsi sulla scena sociale, è costretto a
travestirsi. Nel richiedere legittimazione come valore sociale, ha bisogno di
negarsi per quel che è e di affermare proprio quell'interesse di cui esso è la
negazione vivente. E' espressione dell'interesse privato e invece vuole
apparire come espressione dell'interesse pubblico. E' espressione
dell'interesse particolare e invece vuole apparire come espressione
dell'interesse generale.
L'ambiguità dei valori astratti ha un ruolo rilevante nella dinamica delle
opzioni individuali funzionali alla realizzazione non della persona, ma della
valorizzazione capitalistica. Il sistema di valori astratti si regge non
definendosi in conflitto con gli interessi, ma deformando la percezione degli
interessi autentici. Per questa via, esso svolge la funzione di mediare nella
coscienza collettiva gli interessi della classe dominante. Interessi che
altrimenti avrebbero un impatto troppo violento sulle classi subalterne. In tal
senso, il quadro dei valori si definisce, nella società astratta, come sistema di
mediazione sociale. Infatti, quando montano movimenti che contestano i
valori dominanti, si alza la tensione sociale. Venendo a indebolirsi la funzione
di filtro svolta dai valori astratti, gli interessi della classe dominante vanno a
scontrarsi direttamente con gli interessi delle classi subalterne. Per evitare un
71
tale rischio, la società astratta produce non solo eventi, ma anche la loro
interpretazione.
4.4 Opzioni individuali e astrazione sociale
La società astratta è gelosa, sul piano formale, delle opzioni individuali.
Proclamandosi società democratica, non può - senza rovinare la sua
immagine - mettere in discussione il principio delle libere scelte dell'individuo.
D'altro lato, le opzioni individuali che assumono come quadro di riferimento la
specificità concreta della persona si configurano come minacce permanenti
nei confronti del sistema di astrazione sociale. Pertanto il sistema di
astrazione sociale non può fare a meno di agire sulle opzioni individuali.
Così la società astratta viene a trovarsi nella morsa di una contraddizione.
Da una parte deve proclamare l'intoccabilità delle scelte individuali (sulle
quali, fra l'altro, si fonda l'imprenditoria privata, in quanto istituzione), dall'altra
deve operare in modo che le opzioni individuali facciano astrazione dalla
concretezza della persona. Questa contraddizione è una ferita sempre aperta
nel cuore della società astratta. Là dove non si può ricorrere, senza scoprirsi,
a provvedimenti restrittivi, la soluzione viene ricercata attraverso un apparato
di influenza che induca l'individuo ad optare "da sé" per i valori funzionali al
sistema di astrazione.
In Italia, lo scontro sul terreno dei valori ha aperto nuovi varchi alla
dinamica sociale. Nel quadrante dei valori immateriali l'articolazione politica
di classe, che discende direttamente dagli interessi materiali, sembra subire
alcune modificazioni. In effetti, le battaglie sul divorzio e sull'aborto - per
limitarci a due esempi significativi - hanno trovato rispondenza nell'universo
sociale al di là dell'articolazione tradizionale degli schieramenti di classe.
E tuttavia, se si va oltre la dinamica fisiologica della lotta politica, è
possibile ritrovare, anche su questo terreno, i connotati dello scontro fra
collettività e società astratta. Solo che qui l'astrazione sociale discende dagli
interessi organizzati attorno alla struttura del potere religioso. In tal senso,
l'integralismo cattolico si definisce come tentativo di imporre al paese un
modello di società astratta, attraverso cui legare la collettività ai codici di
comportamento di una particolare morale religiosa, a prescindere dalle
opzioni personali. Tale pretesa è analoga a quella del potere economico, che
chiede ai soggetti di prescindere dalle loro esigenze personali, per essere
disponibili nei confronti delle esigenze della valorizzazione capitalistica.
72
4.5 Valori mercantili e valori comunitari
La società astratta, in quanto società capitalistica, assume il mercato come
modello della organizzazione sociale. La struttura sociale viene concepita
come una grande piazza degli affari, in cui tutto si compra e si vende, in
primo luogo la forza-lavoro, cioè l'attitudine degli esseri umani a comportarsi
come soggetti attivi. E la vita sociale viene raffigurata come una gara, in cui
gli individui competono per conquistarsi una posizione.
Una tale rappresentazione della realtà sociale è impregnata di ideologia.
Mette in scena soggetti che liberamente comprano, vendono e competono,
ognuno secondo le proprie capacità. Ma si tratta di una finzione. La struttura
di classe della società capitalistica predetermina, in linea di massima, la
posizione dei soggetti nella piramide sociale.
Sulla base di questa ideologia, viene modellato un sistema di valori
adeguati alla società astratta. Parliamo di sistema di valori, perché non si
tratta di una sommatoria di singoli valori separati l'uno dall'altro. Ogni valore
ha senso all'interno del sistema e non è definibile al di fuori di esso.
Funzionale alla società astratta, in quanto società-struttura, è un sistema di
valori mercantili. Al polo opposto, funzionale alla società-collettività, alla
società degli uomini e delle donne in carne e ossa, è un sistema di valori
comunitari, cioè un insieme di orientamenti, in cui a modello della
organizzazione sociale viene assunta la comunità.
I due sistemi di valori prefigurano due tipi alternativi di società. Si tratta
ovviamente di due “tipi ideali”, nel senso weberiano dell’espressione. Da una
parte una società mercantile, dall'altra una società comunitaria. Ognuno dei
due tipi di società ha una propria specifica dinamica. La società mercantile è
basata su rapporti fra individui in quanto venditori-compratori di merci. La
società comunitaria è basata su rapporti fra persone in quanto esseri umani.
A queste diverse dinamiche corrispondono opposte finalità sociali. La finalità
di fondo della società mercantile è quella di realizzare il massimo del profitto.
La finalità di fondo della società comunitaria è quella di realizzare tutte le
potenzialità di ogni persona.
Sulla traccia di questi opposti orientamenti, vengono a profilarsi, in termini
più o meno espliciti, le alternative di valore. Alla base di tutte le alternative c'è
una distinzione di fondo fra cultura utilitaristica e cultura umanistica. La
cultura utilitaristica persegue, come dice l’attributo, l'utile. La cultura
umanistica persegue l'umano.
73
Non si tratta di una semplice distinzione teorica. Si tratta anche di una
distinzione pratica fra due opposti modelli di organizzazione sociale. Se una
persona ha bisogno, per restare in vita, di un intervento chirurgico di
altissimo costo, l'organizzazione sociale di tipo umanistico mette al primo
posto la possibilità di salvare una vita umana. Al contrario, l'organizzazione
sociale basata sull'utilitarismo pretende che il soggetto malato abbia i soldi
per pagarsi l'intervento. In sostanza, interviene soltanto se può ricavare un
utile anche da una umana tragedia.
Il valore portante della cultura utilitaristica è la competizione. Il valore
portante della cultura umanistica è la solidarietà. Si tratta di due valori
inconciliabili. Non ci può essere solidarietà là dove regna la legge della
competizione. E viceversa.
Ognuno dei due opposti valori portanti viene sorretto da una appropriata
costellazione di valori. Direttamente collegata alla competizione, nel modello
mercantile della società, è la meritocrazia. A prescindere dal suo carattere
ideologico, che la riduce a una pura finzione, la meritocrazia è la traduzione
pratica della cultura mercantile. Ogni soggetto viene preso in considerazione
dalla società-struttura in base ai propri meriti. I più bravi, i più capaci devono
avere di più, così come al mercato le mele più buone devono avere un
prezzo più alto. Al polo opposto, nel modello comunitario, ogni soggetto
viene preso in considerazione in base ai propri bisogni. Per esempio, nella
società mercantile chi ha meriti professionali deve potere disporre di una
casa di cinque stanze, anche se in famiglia sono soltanto marito e moglie.
Nella società comunitaria invece marito e moglie possono stare bene in un
appartamento di tre stanze, mentre di una casa di cinque stanze ha più
bisogno, a prescindere dalla posizione professionale, una coppia con cinque
figli. In questo ultimo caso, l'organizzazione sociale è basata sui bisogni. Nel
primo caso, essa è invece basata (a prescindere dalla finzione ideologica)
sui meriti.
Ora, se i soggetti, nei loro atteggiamenti e comportamenti, facessero
costante riferimento a valori comunitari, entrerebbero in collisione con la
struttura sociale, che è modellata su valori mercantili. Da qui la necessità di
fare sedimentare, attraverso sottili operazioni manipolatorie, il sistema di
valori mercantili nella coscienza collettiva.
Una prima significativa operazione è quella che possiamo definire in
termini di depolarizzazione dei valori. I valori comunitari e i valori mercantili
tendono a polarizzarsi, cioè a disporsi su poli opposti. Ma una accentuata
74
polarizzazione finirebbe con il marcare le scelte di campo, provocando uno
stato di disagio in chi, per esempio, essendo a favore della competizione,
dovrebbe - di conseguenza - dichiararsi contrario alla solidarietà. Per evitare
simili complicazioni, le alternative di valore vengono depolarizzate attraverso
una artificiosa conciliazione degli opposti. Si pretende di fare convivere
solidarietà e competizione. Impresa possibile soltanto nel cielo della
ideologia. Sulla terra della pratica sociale, solidarietà e competizione hanno
dinamiche fra loro incompatibili. L'atteggiamento solidaristico induce ad
operare con/per l'altro/a. L'atteggiamento competitivo impone di prevalere
sull'altro/a. Nel primo caso, si opera per la realizzazione del nos. Nel
secondo caso si opera per l'affermazione dell'ego.
Altrettanto incompatibili sono utilitarismo e solidarietà. Anche qui si cerca
di costruire un modello ideologico, in cui la ricerca dell'utile compare come la
forma più di alta di solidarietà. Al di là della ideologia, è però difficile fare
convivere comportamenti utilitaristici e comportamenti solidaristici. Si sa che
l'amicizia è una delle espressioni più significative del rapporto solidaristico.
Ma se scopriamo che un amico tenta di strumentalizzare il rapporto per
ricavarne un vantaggio, l'amicizia muore.
Non potendo mettere insieme, nella pratica sociale, utilitarismo e
solidarietà, si ricorre ad una sorta di divisione di compiti. L'organizzazione
sociale viene strutturata su base utilitaristica, mentre la solidarietà viene
lasciata alla buona volontà dei singoli. Capita spesso di vedere nei bar e nei
negozi una cassetta con richiesta di offerte per salvare la vita ad un malato
che non ha i mezzi per un costoso intervento chirurgico. Per non parlare
delle campagne televisive con l'immancabile numero di conto corrente per la
raccolta di fondi da destinare alla ricerca su un male incurabile. C'è nella
coscienza collettiva una diffusa disponibilità a gesti di solidarietà, una sorta di
compensazione all'utilitarismo che impronta la vita sociale. Questa
disponibilità si traduce in una rete di meritorie attività di volontariato. Ma
accade anche che la solidarietà diventi un vero e proprio affare per piccoli e
grandi speculatori.
Quando si mettono insieme principi di per sé contrapposti, si evidenzia un
uso veicolare dei valori. Valori mercantili che potrebbero non trovare largo
consenso vengono veicolati attraverso valori comunitari. Si dice, per
esempio, che il licenziamento di lavoratori in esubero è un atto di solidarietà,
perché consente di preservare la competitività dell'azienda e quindi di salvare
posti di lavoro. E' chiaro che in questo caso la solidarietà figura come valore
75
veicolare, richiamato per fare accettare un valore mercantile. Può anche
accadere il contrario. Forze politiche che, per tradizione storica, si
richiamano a valori comunitari, in una fase in cui il mercato appare vincente,
esaltano valori mercantili, facendone un uso veicolare, per essere legittimate
come forze di governo.
Questo processo approda all'assimilazione dei valori. Come è noto,
attraverso la socializzazione - nel corso della quale si apprendono i ruoli da
svolgere nella vita sociale - i valori funzionali alla società in atto vengono, per
così dire, acquisiti dal soggetto, il quale finisce per viverli come valori propri.
Così molti uomini e donne, che non hanno nulla da mercanteggiare, se non
la propria forza-lavoro, si orientano verso valori mercantili, cioè verso quei
valori in base ai quali vengono trattati non come persone, ma come merci. Il
cerchio si chiude. Si attua il paradosso. Molti fruttati, senza rendersene
conto, vivono lo sfruttamento come valore.
Tutto ciò non deve fare pensare a un apparato che progetta e mette in
esecuzione, dall'alto, strategie di manipolazione delle coscienze.
L'assimilazione di valori è un processo policentrico, che passa per piccole e
grandi agenzie di socializzazione, a volte in conflitto fra di loro: la famiglia, la
scuola, la parrocchia, il centro sociale, la cerchia di amici, la televisione e
così via.
Accade così che si scontrino opposte esigenze. Da un lato si esalta il
valore della maternità, dall'altro si penalizza la lavoratrice sposata, perché la
maternità viene vista come un ostacolo allo svolgimento delle funzioni
lavorative. A scuola, per un verso si esalta il valore della solidarietà, per
l'altro si crea un clima di competizione fra compagni/e di classe. Non è
difficile immaginare una scena curiosa in una classe delle elementari. Un
ragazzino, mentre è intento a svolgere un tema in cui fa le lodi della
solidarietà, mette le braccia a cerchio intorno al foglio, per evitare che il
compagno di banco possa mettere gli occhi sul suo compito.
Contraddizioni di questo tipo hanno conseguenze devastanti sulla identità
personale e collettiva. In mancanza di un quadro coerente di valori di
riferimento, l'identità soggettiva si frammenta in tante anime, che esprimono
diversi e anche opposti orientamenti Un tale processo non si traduce in un
arricchimento della soggettività - come si vorrebbe far credere quando si
parla di poliedricità dei valori - ma in un appannamento dell'identità, che ha
esiti di opposto segno: da una parte il cinismo di chi, per affermarsi, ritiene di
76
potere stare a tutti i giochi, dall'altra il disagio esistenziale di chi,
specialmente in età giovanile, non riesce a darsi una identità ben definita.
Questo quadro rende poco credibile una rappresentazione dei valori come
stelle fisse nel firmamento della vita sociale. Molti soggetti hanno
orientamenti di valore di segno opposto. Ma si tratta di un artificio. In realtà,
tali soggetti fanno - a volte inconsapevolmente - un uso strumentale dei
principi. Non li vivono sino in fondo, traendone le conseguenze sul piano
esistenziale. Cioè non li vivono come valori. I principi non sono, in sé, valori.
Sono valori solo quando vengono sentiti e praticati come principi di vita 11.
11 Si veda la Scheda C «Definizioni di valori».
77
Scheda A
DEFINIZIONI DI VALORI
Una definizione dei valori presenta problemi di non facile soluzione. Siamo di
fronte ad una categoria multidimensionale, di cui fanno uso diverse discipline. Si
parla di valori in economia, in filosofia, in antropologia culturale, in sociologia, in
psicologia. E se ne parla anche sui giornali e nelle conversazioni quotidiane della
gente comune.
Nell'ambito della sociologia e della antropologia culturale emergono alcune linee
di tendenza, abbastanza differenziate. Boudon e Borricaud definiscono i valori
come preferenze collettive, che concorrono alla regolazione sociale (Voce «valore»
in R. Boudon - F. Bourricaud, Dizionario critico di sociologia, ed. it., Roma, Armando
Editore, 1991). I valori come preferenze compaiono anche in un'altra definizione.
«Che cos'è allora il valore? - si chiede Agnes Heller - Una specie [...] di preferenza
cosciente» (A. Heller, Per una teoria marxista del valore, trad. it., Roma, Editori
Riuniti, 1980, p. 33). Per la Heller una preferenza è di valore solo se è regolata
socialmente e se è generalizzata. In questa definizione riappare la regolazione, ma
con un segno rovesciato. I valori non regolano, ma sono regolati.
In un altro tipo di definizione i valori vengono visti come concezioni del
desiderabile. Su questo versante, il valore è «una concezione, esplicita o implicita
[...] di ciò che è meritevole di essere desiderato e che influenza la selezione tra i
possibili mezzi, modi e fini dell'azione» (C. Kluckhon, Values and Value Orientation
in the Theory of Action, in T. Parsons, E.A. Shils (edd.), Toward a General Theory of
Action, Cambridge, Harward University Press, 1954). Anche qui i valori hanno una
sorta di ricaduta sulla vita sociale, influenzando le scelte connesse all'azione
sociale.
In un'altra area teorica i valori vengono definiti come principi di comportamento.
Il valore è un «principio di comportamento astratto e generalizzato» (Voce «valore»
in G.A. Theodorson, Dizionario di sociologia, trad. it., Marotta Editore, 1975).
Compare qui un collegamento diretto con il comportamento, mentre nelle
definizioni fin qui esaminate la connesione passava per la regolazione sociale e per
la selezione dei mezzi, dei modi e dei fini dell'azione.
78
Da questo quadro problematico emerge la necessità di una ridefinizione del
concetto di valori.
I valori sono principi che coinvolgono profondamente i soggetti e sono rilevanti
per la loro visione del mondo. Nessun principio è un valore in sé, ma solo se sentito
e praticato come punto di forza dell'esistenza.
Non sono dunque semplici preferenze. Preferire la pasta asciutta alla minestra
non è una scelta di valore. Non è rilevante per la visione del mondo e interessa
soltanto chi deve preparare il pranzo.
I valori sono principi irrinunciabili, non mediabili, ma non assoluti. Un principio
non è, in sé, un valore per chi lo sente valido solo nei confronti di alcuni e non di
altri, per chi può farne a meno o è disposto a barattarlo, a patteggiarlo. E tuttavia
ogni valore è espressione di una determinata cultura e può convivere con un
diverso valore, espressione di un'altra cultura.
79
Scheda B
VALORI CRISTIANI
E SOCIETA’ ASTRATTA
Quando si realizza un alto grado di assimilazione, i valori astratti vengono
percepiti dalla coscienza collettiva come parametri "naturali" - e quindi non
discutibili - della vita sociale. Non sempre però i valori astratti sono compatibili con
gli orientamenti già sedimentati nella coscienza dei singoli soggetti. A questo
punto, ogni soggetto cercherà di conciliare i valori astratti con i propri
orientamenti, operando commistioni più o meno esplicite.
Esemplare è, a questo riguardo, il caso di chi si professa cristiano. La tradizione
storica del Cristianesimo è profondamente comunitaria. Negli Atti degli Apostoli
l'organizzazione sociale dei credenti viene così presentata:
«Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa
in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti,
secondo il bisogno di ciascuno» (Atti 2, 44-45). E ancora: «La moltitudine di coloro
che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua
proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Nessuno
infatti fra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li
vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai
piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti 4,
32 e 34-35) 12.
Si dirà: l'organizzazione delle prime comunità cristiane non è oggi riproponibile
dai cristiani di oggi. Ora, la questione che qui interessa riguarda non la struttura di
quella organizzazione sociale, ma i valori che la ispirano. Ebbene, sotto questo
aspetto, si tratta di una tradizione tutt'altro che morta. Ogni domenica il sacerdote
che celebra la Santa Messa commenta un passo del Nuovo Testamento,
richiamando i fedeli ad uno spirito e ad una pratica ispirati, nella situazione di oggi,
ai valori comunitari del Cristianesimo.
12 A chi ragiona in termini di artificiosi schemi ideologici può fare impressione l’analogia, persino
terminologica («a ciascuno secondo il bisogno»), fra i valori di fondo delle prime comunità cristiane e i
principi che saranno alla base della prospettiva comunista disegnata da Marx.
80
In questo quadro è legittimo attendersi che i cristiani siano impermeabili alla
assimilazione dei valori mercantili. Ma per molti/e non è così. In questi casi, come
fanno i soggetti a conciliare i valori mercantili con la loro fede? Alcuni non
avvertono questo problema, perché non percepiscono l'incompatibilità fra
utilitarismo e comunitarismo. Nella loro coscienza si è sedimentato un sistema di
valori artificiosamente integrato, in cui sono state cancellate le linee di
demarcazione fra valori mercantili e valori comunitari. Altri vivono la fede cristiana,
caratterizzata da valori comunitari, come una sfera separata rispetto alla vita
sociale, nella quale dominano i valori mercantili. In ogni caso, l'identità cristiana ne
risulta sfigurata.
81
Capitolo Quinto
I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI 5.1 La relazione tra rapporti e valori nel mondo giovanile
«Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» recita un vecchio detto, ripetuto spesso
da mamme e papà in ansia per le amicizie dei loro ragazzi/e. Questa
espressione popolare prospetta una qualche relazione fra i rapporti
interpersonali e il modo di essere dei soggetti. E non è un caso che la frase
venga brandita come una minaccia soprattutto nei confronti dei giovani, che
sono particolarmente esposti ai rapporti con gli altri.
Nel detto popolare l’accento è posto sul tipo di persone che si frequentano.
Nel caso dei ragazzi/e, viene quindi ipotizzata una relazione tra il loro “giro di
amicizie” e il loro essere in quanto soggetti. Ma questa relazione coglie
soltanto un aspetto della dinamica giovanile. «Con chi vai?» chiedono la
mamma e il papà. Vogliono sapere con chi i loro figli/e stringono amicizia.
Temono le amicizie cosiddette “pericolose”. Ma spesso non si chiedono
come i ragazzi/e vivono le loro amicizie. A volte non hanno sentore di che
cosa significhi per un ragazzo/a vivere male i propri rapporti interpersonali. Il
detto popolare andrebbe così completato: «Dimmi con chi e come vai e ridirò
chi sei».
In tale direzione, non si può eludere una questione di fondo: sono i rapporti
interpersonali a influenzare gli orientamenti di valore o sono, viceversa, i
valori interiorizzati ad avere una qualche incidenza sulle relazioni
intersoggettive dei giovani?
5.2 La dinamica del mondo giovanile
Perché abbiamo scelto il mondo giovanile come contesto della relazione
tra rapporti e valori? Nell’età giovanile i rapporti interpersonali sono molto
intensi e il processo di formazione è in pieno corso. La sfera relazionale e la
sfera valoriale sono, per così dire, sotto tensione. Può quindi essere
particolarmente interessante cercare di vedere se c’è – e di che tipo è – una
qualche forma di comunicazione tra le due sfere.
82
I giovani vivono un particolare stato d’essere. Hanno già interiorizzato,
nella fase della prima socializzazione, tutto un mondo di orientamenti di
valore. Ma questo mondo non è in sé concluso. Rimane ancora
potenzialmente aperto e recettivo nei confronti di altri modi di sentire e di
pensare, che si propongono come modelli esistenziali. A partire da qui si
apre una complessa problematica, che ruota intorno alla relazione tra il modo
di vivere i rapporti con gli altri e l’essere orientati verso determinati tipi di
valori.
5.3 I giovani tra rapporti comunitari e valori mercantili
Molti giovani, in quanto soggetti in formazione, tendono a vivere le
relazioni interpersonali come rapporti comunitari, finalizzati alla realizzazione
del proprio essere. Ma nella loro quotidiana ricerca di comunicazione sono
assediati da valori mercantili, da modi di concepire la vita associata come un
mercato, fondato sullo scambio utilitaristico. I valori mercantili fanno
pressione sulle relazioni comunitarie di molti ragazzi/e per ricondurle al
modello utilitaristico. Non a caso. La tendenza giovanile all'aggregazione
comunitaria è una anomalia insopportabile all'interno di una organizzazione
sociale che assume le relazioni industriali come modello dei rapporti
interpersonali.
L'acuta antinomia fra l'originario bisogno comunitario dei giovani e il
sistema di valori mercantili ha esiti diversi, a seconda delle diverse storie
personali. In ogni caso, la pressione mercantile sulla soggettività giovanile si
esercita non per via diretta, con una esplicita proposta utilitaristica, ma
attraverso un sottile processo di assimilazione di valori apparentemente
neutri.
Non si può dire ad un ragazzo o ad una ragazza: in un rapporto di amicizia
bisogna perseguire i propri interessi. Un tale messaggio difficilmente
troverebbe spazio nella coscienza giovanile. E allora si procede per vie
traverse. Una delle armi più sottili e più efficaci di cui dispone l'ideologia
mercantile per espugnare la tendenza comunitaria dei giovani è
l’assimilazione dello spirito competitivo. Quando questa operazione va in
porto, il ragazzo/a assume la competizione come valore doppiamente
positivo. Nella versione ideologica, la competizione sviluppa le capacità
umane ed è quindi uno strumento indispensabile per la realizzazione delle
potenzialità personali. Inoltre, essa corrisponde alle esigenze della
83
organizzazione sociale, perché porta ai posti di responsabilità i soggetti più
capaci.
Questo modello ideologico si insedia in larghi strati della coscienza dei
ragazzi/e, interferendo pesantemente nella dinamica comunitaria propria
delle relazioni giovanili. Una tale interferenza contamina gli atteggiamenti e i
comportamenti solidali, immettendovi elementi di utilitarismo mercantile, che
li sfigurano, al punto da rovesciarne il segno. Per dare una idea di questo
fenomeno, si può citare il caso di una ragazza molto aperta ai rapporti
interpersonali e ricercatissima da amici e amiche. Ad un certo punto, la
ragazza, in seguito ad una delusione d'amore, cade in una crisi di nervi che
le crea difficoltà relazionali. Gli amici e le amiche, invece di aiutarla a
superare la crisi con una maggiore attenzione, interrompono di colpo ogni
rapporto con lei. Interpellati dai familiari della ragazza per spiegare questo
loro incredibile comportamento, se ne escono con giustificazioni che, in un
modo o nell'altro, rivelano orientamenti di tipo mercantile e suonano più o
meno così: «Per sopravvivere, bisogna sgomitare. E ognuno/a ha il suo bel
da fare per rimanere a galla. Non può occuparsi delle difficoltà degli altri. E'
bello stare insieme. Ma se qualcuno ha problemi, se li deve risolvere da sé.
Non deve creare problemi agli altri».
Non tutti i giovani piegano i loro rapporti interpersonali ai valori mercantili.
Ci sono ampie aree giovanili, in cui lo spirito comunitario resiste all'ondata
montante di rampantismo. Su questo versante, molti ragazzi/e praticano con
fatica, giorno dopo giorno, i valori solidaristici, lottando contro tutti gli
impedimenti che l'ideologia mercantile riesce a inventarsi, per restringere
sempre più i loro spazi comunitari .
5.4 Rapporti e valori dei ragazzi di scuola
Nell’ambito del Corso Avanzato di Sociologia dell’Università di Roma «La
Sapienza» abbiamo realizzato una ricerca sulla relazione tra rapporti e valori
in una area del mondo giovanile: gli studenti delle scuole superiori, che
abbiamo denominato emblematicamente «ragazzi di scuola» 13.
I ragazzi di scuola sono, certo, giovani. Ma non sono soltanto giovani.
Sono figure particolari del mondo giovanile. Per un verso dunque esprimono
13 F. Viola, Ragazzi di scuola tra rapporti e valori, Roma, Armando Editore, 1998.
84
la condizione generale dei giovani. Ma per altro verso esprimono la
condizione particolare di studenti delle scuole superiori.
Intanto la condizione socioeconomica è quella di giovani che hanno potuto
permettersi di continuare gli studi dopo la scuola dell’obbligo. Non è poco.
Ma non è tutto. La quotidianità dei ragazzi/e che frequentano le scuole
superiori ha una struttura diversa rispetto alla vita quotidiana dei giovani che
lavorano o che comunque hanno dovuto interrompere gli studi dopo la – o
addirittura prima della – licenza media inferiore. E anche la struttura delle
relazioni interpersonali è diversa. Per tutto ciò, il mondo dei ragazzi/e «zainetti in spalla» non è il mondo
giovanile tout court. E’ un mondo giovanile specificamente connotato sia sul piano sociale che sul piano esistenziale.
5.5 Il mondo dei ragazzi di scuola
Il mondo dei ragazzi di scuola, «zainetti in spalla», si compone di quattro
sfere: la famiglia, la scuola, il quartiere, la cerchia di amici/amiche. Uno dei
problemi esistenziali che i ragazzi/e si trovano a dovere affrontare giorno
dopo giorno è quello di raccordare queste sfere tra di loro. Si sa quanto è
difficile, per i ragazzi/e, mettere d’accordo le esigenze della famiglia con
quelle degli amici. Un problema che è nella biografia di molti ragazzi/e e che
spesso mete in tensione il rapporto genitori-figli/e, è quello del rientro a casa
la sera, specialmente nelle grandi città. Le città, a sera inoltrata, sono piene
di insidie, specialmente per le ragazze. Dopo una certa ora, molti genitori
sono in preda alla preoccupazione per i figli – e specialmente per le figlie –
non ancora rientrati. Dall’altra parte il gruppo amicale richiede una certa
“indipendenza” dalla famiglia. Un ragazzo/a troppo ligio alle regole imposte
dalla famiglia rischia di essere emarginato. E’ un caso classico di difficoltà
all’interno del raccordo tra sfera familiare e sfera amicale.
Le sfere in cui si muovono gli studenti delle superiori, ragazzi e ragazze in
quanto soggetti sociali, non operano allo stesso livello. La famiglia
rappresenta uno strato di sentimenti, atteggiamenti interiorizzati, che operano
nel profondo, non sempre in modo esplicito e non sempre a livello di
consapevolezza. Più esplicito è il ruolo degli amici/amiche, i quali
rappresentano un modello di socializzazione che opera più in superficie, ma
esercita una più forte attrazione nella immediatezza delle scelte quotidiane. Il
tal senso, il quartiere e la scuola funzionano come luoghi di coltura dei
85
rapporti amicali. Sono in pratica, per i ragazzi/e, i luoghi privilegiati in cui
viene intessuta la rete dei rapporti interpersonali.
Da un lato dunque una sorta di cordone ombelicale che lega questi
ragazzi/e al nucleo familiare, dall’altro le relazioni quotidiane che li collocano
nella rete amicale. Nel primo caso c’è, in prevalenza, un rapporto in verticale,
nel secondo caso c’è, in prevalenza, un rapporto in orizzontale.
E la scuola? Che posto occupa la scuola nella vita dei ragazzi «zainetti in
spalla»? La scuola segna una fase della vita e dà una impronta ai rapporti
interpersonali. Ha una struttura di rapporti interni. Da un lato rapporti fra
studenti, in quanto compagni/e di scuola, di classe o addirittura di banco.
Dall’altro il rapporto fra studenti, in quanto allievi, e insegnanti. Si tratta di
rapporti che non sono frutto di scelte personali. I rapporti fra compagni/e di
scuola – e di classe in particolare – si trasformano a volte (non sempre) in
rapporti di amicizia, che si proiettano all’esterno, nella vita extrascolastica. In
certi casi, si prolungano nel tempo o si proiettano nella memoria. Quante
volte capita di ascoltare gente avanti negli anni che rievoca i compagni/e di
classe e in particolare il compagno o la compagna di banco.
Diverso è il rapporto con gli insegnanti. Nel mondo dei ragazzi di scuola la
figura dell’insegnante rappresenta un punto di riferimento, positivo o
negativo. Quante volte capita sugli autobus di sentire ragazzi di scuola, che
parlano degli insegnati in termini macchiettistici, contraffacendone i gesti, la
voce e i modi di dire. Ma ci sono anche insegnanti che lasciano una impronta
indelebile nei loro allievi e vengono ricordati con amore. La scuola dunque, a
distanza di anni, rimane nella memoria, è parte della vita.
Della vita dei ragazzi di scuola entra a far parte anche il quartiere. A
distanza di anni, si ricorda il quartiere in cui si è cresciuti e si è vissuti da
ragazzi/e. C’è una differenza di fondo rispetto alla famiglia ed alla scuola. Il
quartiere è il luogo di elezione delle amicizie di gruppo. Ha una sua
fisionomia inconfondibile, un suo colore, un suo odore. Tutto ciò viene
interiorizzato dai ragazzi/e, che fanno del quartiere il loro teatro di vita. Anche
quando si va al centro, il punto di partenza e di riferimento è il quartiere. E’
qui che si decide il da fare quotidiano. E’ qui che si intrecciano i rapporti
interpersonali. Ed è qui che si organizza – e in gran parte si svolge – il tempo
libero.
Questi ragazzi/e come impiegano il tempo libero? A questo punto entrano
in gioco le strutture del quartiere. Ci sono nel quartiere strutture adeguate? Di
che cosa questi ragazzi/e sentono la mancanza?
86
La mancanza di strutture nel quartiere incide negativamente sulla vita
quotidiana dei ragazzi/e ed apre la strada – soprattutto in un contesto di
degrado – al consumo di droghe.
Sulle vie di accesso alle droghe non si può generalizzare. Le
testimonianze di tossicodipendenti offrono un quadro di motivazioni di non
facile lettura. A prendere alla lettera le singole esperienze, sembrerebbe che
ognuno/a arrivi alla sostanza per suo conto. Eppure, al di là degli orizzonti
individuali, c’è una vasta rete nelle cui maglie vanno a impigliarsi le vite di
tanti/e giovani. Su questo piano, le dinamiche di accesso alle droghe hanno
avuto una evoluzione significativa.
I soggetti a rischio non sono sempre giovani isolati, come vengono
rappresentati in uno stereotipo diffuso: Spesso sono giovani immersi in
circuiti di intensa socialità. Solo che si tratta di una socialità sospesa in un
vuoto di progettualità sociale ed esistenziale. Sono giovani che stanno a
lungo insieme, ma non fanno, insieme, qualcosa che attenga ad un progetto
di vita personale e sociale. Girano come ruote d’auto impantanate, che non
hanno presa sul terreno 14.
La difficoltà di attivarsi per la propria realizzazione provoca, in presenza di
una acuta sensibilità soggettiva, disagio esistenziale, cioè la sensazione di
non essere in sintonia con il mondo esterno. Il soggetto sente di non essere
preso in considerazione in quanto potenzialità da realizzare, ma soltanto
come strumento per il perseguimento di fini che gli sono estranei.
Su un universo giovanile così fragile e così esposto preme il mercato delle
droghe con le sue ramificazioni capillari, che arrivano a toccare i nostri
ragazzi di scuola.
5.6 La soggettività giovanile tra rapporti e valori
La soggettività si struttura all’interno della famiglia. In seno alla piccola
comunità familiare l soggetto si nutre delle affettività primarie e interiorizza i
valori di base. Così strutturata, la soggettività si riversa all’esterno della
famiglia, soprattutto nei rapporti con gli amici. In tal senso, la soggettività
giovanile si definisce come combinazione – non sempre agevole, a volte
conflittuale – fra i valori familiari e i rapporti amicali.
14 Si veda la Finestra B Dinamiche della tossicodipendenza e possibili interventi.
87
Fuori dalla famiglia, i giovani sono spinti da tre bisogni: a) il bisogno di
relazioni orizzontali, con i pari; b) il bisogno di relazioni non istituzionali; c) il
bisogno di protagonismo.
La famiglia viene vissuta dai giovani da una parte come comunità, dall’altra
come istituzione. La famiglia-istituzione esprime autorità, la famiglia-comunità
esprime solidarietà. I giovani tendono a prendere le distanze dalla famiglia-
istituzione, senza rinunciare ala famiglia-comunità. Il distacco psicologico
dalla famiglia-istituzione segna dunque il passaggio dai rapporti verticali ai
rapporti orizzontali, dai rapporti istituzionali ai rapporti amicali. Alla base di
tale passaggio c’è soprattutto il bisogno di protagonismo.
Quando nella vita sociale i giovani non riescono a realizzare il loro bisogno
di protagonismo, ritardano il loro distacco psicologico dalla famiglia. Le
difficoltà di affermarsi in quanto soggetti, di costruirsi una prospettiva
esistenziale, inducono il soggetto giovanile a ricercare protezione e sicurezza
nel nucleo familiare. I giovani tendono a farsi scudo della famiglia per
affrontare i rischi della vita sociale.
5.7 I valori dei ragazzi di scuola
Il disagio esistenziale è legato da una parte alla condizione personale e
sociale, dall’altro al mondo della aspirazioni e dei valori. E’ un mondo non
ancora ben definito e quindi di non facile lettura. E ciò soprattutto nella sua
proiezione verso il futuro. I ragazzi «zainetti in spalla» hanno un progetto per
il futuro? Un progetto di vita fa, in ogni caso, riferimento ad un quadro di
valori. Per questi ragazzi/e che cosa conta di più nella vita?
C’è da vedere innanzi tutto come si collocano gli orientamenti valoriali dei
soggetti rispetto alla distinzione di fondo tra valori individualistici e valori
solidaristici. Ma nell’età di questi ragazzi/e i valori sono calati nella realtà
della vita quotidiana e nei rapporti interpersonali. Come indicatori di valori
possono quindi essere utilizzate le preferenze rispetto alle doti delle persone
vicine.
Viene così a delinearsi il quadro di valori entro cui si muovono questi
ragazzi/e. Ma in che misura questo quadro trova corrispondenza nella loro
vita quotidiana? Gli studenti delle superiori sono tutt’altro che figure
monolitiche. Hanno soggettività percorse da differenze di sesso, di
estrazione sociale, di ambiente familiare. Queste differenze si riversano sul
tipo di scuola frequentata. Si tratta quindi di vedere in che misura queste
88
differenze si riflettono sugli orientamenti di valore, sulle «visioni del mondo» e
quindi sugli atteggiamenti e sui comportamenti.
89
Capitolo Sesto
Capitolo Sesto
IL TEMPO ASTRATTO
6.1 Tempo esistenziale e tempo astratto
Ognuno/a di noi ha un suo particolare tempo di vita, una sua specifica
cadenza esistenziale. C'è chi ha la tendenza a rincorrere le giornate con
frenesia spasmodica e chi invece ama vederle scorrere lentamente. C'è chi
reagisce istantaneamente agli stimoli della vita sociale e chi invece ha
bisogno di una lunga elaborazione interiore. Ogni persona ha un suo tempo
esistenziale 15.
Non solo. Nel quadro di un particolare tempo di vita, il ritmo è tutt'altro che
uniforme. Il tempo esistenziale non scorre secondo le modalità fissate sul
quadrante di un orologio. In una situazione di pericolo cinque minuti sono
una eternità. Un'ora con la persona che si ama vola via in un attimo. Non è il
tempo la misura dell'esistenza. Viceversa, è l'esistenza la misura del tempo.
La società sussunta al capitale fa astrazione dal tempo esistenziale ed
impone alla collettività un tempo astratto, indifferente alle cadenze interiori
proprie di questo o di quell'uomo, di questa o di quella donna.
Il tempo astratto è il tempo adeguato al processo di valorizzazione
capitalistica. La valorizzazione del capitale non sopporta la specificità e la
discontinuità del tempo esistenziale. Ha bisogno di un tempo generale ed
uniforme, modellato sulle esigenze della produzione. Al polo opposto, invece,
ogni uomo, ogni donna vive il tempo come tempo esistenziale, come tempo
della propria vita. E questa dimensione esistenziale del tempo rischia di
spezzare il ritmo del processo di produzione.
15 La questione del tempo emerge - nell'analisi della società astratta - ogni qualvolta si rapporta il
processo di valorizzazione del capitale alla vita quotidiana delle persone concrete. Essa attraversa quindi tutto l'arco del nostro discorso ed è frammentata in vari punti del testo.
In questo breve capitolo ci siamo limitati ad alcune considerazioni basilari, partendo dai presupposti della società astratta.
La questione del tempo è oggetto di studi specialistici, di cui non è possibile dare conto in questa nota.
90
Da qui la necessità di rimodulare continuamente il tempo a misura delIe
cadenze del processo produttivo. Da qui l'esigenza di fare del tempo
dell'esistenza il tempo della produzione. Da qui l'organizzazione capillare del
tempo come tratto qualificante della società sussunta al capitale. La
regolazione della prestazione lavorativa tende a delegittimare il tempo di vita.
Tende ad evitare che il flusso produttivo risenta della discontinuità del flusso
esistenziale. L'agire umano, per poter essere piegato alla valorizzazione
capitalistica, deve essere svincolato da specifiche cadenze esistenziali. Quali
sono i passaggi essenziali di questa sorta di riconversione capitalistica del
tempo, di questa riduzione del tempo esistenziale a tempo astratto?
L'asse del tempo viene spostato dall'esistenza alla produzione. E, per
proteggere il processo di produzione da qualsiasi interferenza esistenziale,
viene operato uno sdoppiamento del tempo: da una parte il tempo di lavoro,
dall'altra il cosiddetto tempo libero. Per questa via, si vuole fare passare
l'illusione di una specie di pacifica composizione fra esigenze produttive ed
esigenze esistenziali. Durante il tempo di lavoro il capitale consuma la
forza-lavoro. Durante il tempo libero la persona vive la sua vita. Lavoro e vita
vengono presentati come due sfere non comunicanti.
Il fine che presiede a questo modello ideologico è di evitare che l'uso della
forza-lavoro debba fare i conti con la vita quotidiana. L'ideologia della società
astratta mira a giustificare un uso della forza-lavoro che faccia astrazione dal
concreto vivere del soggetto. Così, mentre da una parte presenta il lavoro
come una sfera in cui la persona realizza se stessa, dall'altra pretende di
separare l'attività lavorativa dai bisogni personali. Pretende di ridurre il lavoro
ad attività tecnica, priva di qualsiasi implicazione esistenziale.
Lo sdoppiamento del tempo ha una duplice valenza. Da un lato il tempo
non occupato direttamente dall'attività lavorativa viene definito in termini
residuali. Il tempo libero altro non è che il residuo del tempo di lavoro, ciò che
resta una volta che si sia conclusa la giornata lavorativa. Dall'altro lato il
tempo di lavoro non è un modo abbreviato di dire tempo di vita applicato al
lavoro. E' un modo di intendere che il tempo di lavoro non è tempo di vita. In
tale contesto, il tempo di lavoro non serve solo a regolare l'attività produttiva.
Serve anche - e soprattutto - ad evitare che essa sia regolata dal tempo di
vita.
6.2 Il tempo come tempo di vita
91
Il tempo è un presupposto della vita. E la vita è un presupposto del tempo.
Non si dà vita senza tempo. E non si dà tempo senza vita. Il tempo è
dunque, in sé, tempo di vita. E il tempo di lavoro altro non è che tempo di vita
espropriato, ristrutturato a misura dei ritmi della produzione e finalizzato alla
valorizzazione del capitale.
La vita umana è indivisibile. La pretesa di sospendere il tempo di vita
durante il tempo di lavoro si rivela, nella realtà, una vera e propria utopia del
capitale. Durante le ore di lavoro gli uomini e le donne continuano a vivere.
La imprescindibile valenza esistenziale del tempo investe l'attività lavorativa,
insinuandosi negli interstizi del tempo della produzione. E, anche quando
ogni spazio esistenziale viene precluso, non si può impedire che uomini e
donne, mentre sono intenti ad operazioni lavorative, continuino a sentirsi
coinvolti in problemi personali insorti fuori dell'orario di lavoro.
Sarebbe interessante esplorare, sul piano empirico, lo spazio che il flusso
esistenziale riesce a crearsi in particolari situazioni di lavoro. Non pensiamo
solo agli spazi materiali (la telefonata a casa, la chiacchierata con il
compagno o con la compagna di lavoro). Pensiamo anche - e soprattutto -
alla condizione di chi, uomo o donna, è preso nella morsa di un problema
personale ed è costretto ad occuparsi di altro. E' penoso dovere lavorare
quando si è presi/e dalla preoccupazione per una persona cara che sta male
o quando si è attanagliati/e dall'angoscia per una delusione d’amore.
Il tempo di lavoro, in quanto tempo astratto, è concepito sulla base di un
azzeramento del flusso esistenziale. In pratica, per esempio, una donna
preoccupata per il bambino affetto da una grave malattia dovrebbe
sospendere la sua preoccupazione durante il tempo di lavoro e riprenderla a
casa. La società sussunta al capitale arriva a concepire un tempo così
astratto da segnare un confine ai moti interiori dell'essere umano.
Volendo dunque assumere - per comodità di analisi - una distinzione del
tutto artificiosa, c'è da constatare che il tempo di lavoro è fortemente
intrecciato al tempo di vita. E come con l'inizio dell'orario di lavoro non si
sospende automaticamente il tempo di vita, così con la fine della giornata
lavorativa non si conclude automaticamente il tempo di lavoro.
Da una parte il tempo di vita si prolunga nell'orario di lavoro, dall'altra il
tempo di lavoro proietta la sua ombra sul tempo di vita. Quante persone,
mentre sono intente ad un compito di lavoro, stanno con la testa altrove. E
quante persone, nel bel mezzo di una serata con amici e amiche, si
92
sorprendono a pensare ad un problema irrisolto della loro attività lavorativa.
Comunque definito, il tempo è tempo esistenziale.
C'è dunque un continuo flusso e riflusso fra tempo di vita e tempo di
lavoro. E ciò porta a concludere che solo il tempo astratto, spogliato delle
particolari situazioni della vita quotidiana, può essere sezionato e sistemato
in compartimenti stagni. Il tempo reale, il tempo vissuto dalle donne e dagli
uomini, non si presta ad essere contenuto rigidamente entro i confini del
processo di valorizzazione del capitale.
93
Capitolo Settimo
L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA
7.1 Identità sociale e sistema di astrazione
Per identità sociale intendiamo - nel contesto analitico dell'astrazione - il
"quadro sociale" nel quale le donne e gli uomini si identificano, cioè il tipo di
struttura e di organizzazione sociale in cui pensano di potersi realizzare sul
piano esistenziale. L'identità sociale di una persona è I'esito - mai definitivo -
di tutta una serie di lente sedimentazioni che si attuano attraverso lo scambio
con la realtà esterna. Se questo scambio potesse attuarsi nella sua
pienezza, le persone mutuerebbero la propria identità sociale dalla
concretezza della propria vita quotidiana. In altri termini, se gli uomini e le
donne potessero venire a contatto diretto con la propria realtà, finirebbero
per identificarsi con una organizzazione sociale finalizzata alla realizzazione
del loro specifico essere concreto.
Tale "rischio" rende necessaria la sedimentazione nella coscienza
collettiva di una identità astratta, che faccia da schermo fra i soggetti e la loro
concreta realtà e nella quale risulti rovesciata, come in uno specchio
deformante, la concretezza in astrazione e l'astrazione in concretezza.
Nella società astratta l'identità sociale di una donna o di un uomo non è
dunque espressione della sua specifica concretezza. E' - possiamo dire -
I'esito di tutto il lento e sottile lavorìo al quale il sistema di astrazione
sottopone la specificità personale. Tale lavorìo mira alla composizione - più o
meno stabile - dell'antitesi esistente fra la concretezza delle persone e
l'astrazione della società sussunta al capitale. Là dove questa composizione
non si realizza, per alcuni strati di collettività si aprono due possibilità: o si
estraneano dalla vita sociale, oppure ricercano la loro identità in una società
alternativa da realizzare. Nel primo caso una parte della collettività vive una
identità sociale segregata. Nel secondo caso vive una identità incompatibile
con il sistema di astrazione sociale e quindi in continua "tensione".
94
7.2 La ridefinizione della identità sociale
L’identità sociale non è data una volta per tutte. Viene continuamente
sottoposta a processi di adeguamento alla realtà sociale ed economica in
atto. Ciò per evitare che si venga a determinare uno scarto troppo forte fra il
sentire delle persone e il loro vissuto quotidiano. I soggetti vengono
continuamente chiamati a mettersi in sintonia con le nuove modalità della
valorizzazione.
Nella situazione in atto nel nostro paese, lo sconvolgimento del sistema di
ruoli sociali provocato dal nuovo modo di produrre e di scambiare ha
spiazzato una identità sociale ancora legata al mondo della stabilità del
lavoro e del sistema di garanzie. C’è quindi il rischio che i soggetti vivano la
nuova realtà con la testa rivolta al passato e in una condizione di forte
tensione psicologica, che potrebbe tradursi in antagonismo sociale.
Da qui la necessità di riallineare l’identità sociale con il nuovo sistema di
produzione, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata
condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà.
7.3 La rigidità della identità sociale
Come è facilmente comprensibile, una operazione sulla identità va a
toccare gli strati più profondi della sensibilità collettiva. Ed è quindi costretta
a procedere lungo un itinerario accidentato. La coscienza non è un
contenitore, nel quale sia possibile immettere determinati valori al posto di
altri. La dinamica degli orientamenti di valore è complessa e segue percorsi
tutt’altro che lineari. Nel caso specifico, l’emergere di una identità allineata
alla nuova fase della produzione deve misurarsi con la resistenza di soggetti
che ogni giorno vivono il dramma della precarietà esistenziale.
7.4 La precarietà esistenziale come identità sociale
Fin qui ci siamo mossi nel quadro delle dinamiche attuali della identità
sociale, in continuo conflitto con la concretezza esistenziale degli uomini e
delle donne in carne e ossa. Su tale quadro incombe però il disegno di una
complessa operazione ideologica, che mira a innescare una prospettiva
inquietante, non ancora ben delineata, difficile da definire. E tuttavia da
cogliere in tempo. Una esplorazione teorica della realtà sociale deve darsi
95
carico della necessità di fare emergere una dinamica sociale prima che
diventi realtà consolidata e inamovibile 16.
In una tale prospettiva, il modello di soggettività che meglio si attaglia al
sistema avanzato di produzione ha un connotato di base: la precarietà
esistenziale come identità sociale. Attenzione: non più una identità chiamata
a misurarsi con la condizione di precarietà. Ma la condizione di precarietà
che si incarna direttamente nella identità sociale e determina l’essere al
mondo delle persone, al punto che le persone percepiscano le incertezze del
futuro come percorsi della propria realizzazione esistenziale.
In questa direzione, il peggio che si possa immaginare non è che i giovani
non siano oggi in grado di progettare il proprio futuro. Il che è, di per sé,
devastante. Per paradosso, sul piano della prospettiva politica, il peggio è
che i giovani comincino a immaginare il loro futuro in termini di precarietà.
Bisogna cercare di cogliere bene il significato di questo passaggio. Ci
dobbiamo chiedere: una volta operata l’istituzionalizzazione della instabilità
del lavoro, che si traduce inevitabilmente in precarietà esistenziale, perché si
può avere interesse a proiettare questa condizione sulla identità sociale?
La risposta è semplice: perché si vuole che i soggetti si sentano realizzati
nella condizione di instabilità. In pratica, si vuole fare emergere una
soggettività collettiva, soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo
non la fonte della propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la
possibilità di scegliere ogni volta tra le alternative che offre il mercato e di
arricchire, per questa via, il proprio bagaglio esperienziale.
Tutti questi interventi sfigurano e rendono irriconoscibile l’identità sociale.
La prospettiva è allarmante. La figura collettiva di milioni di donne e uomini
rischia di ridursi a controfigura del capitale 17.
16 Si veda, al riguardo, la «Postilla metodologica».
17 Sul supplemento di economia de Il Corriere della Sera (19/03/07, p. 7), sotto il titolo
«Flessibilità: dannazione o opportunità?», risalta l’annuncio ben evidenziato, in un riquadro con foto, di un convegno di alto profilo, con la partecipazione dei maggiori “esperti”. La breve presentazione è un vero e proprio manifesto: «Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro consente ai singoli di accumulare nuove competenze e, in prospettiva, di ottenere maggiori guadagni rispetto al vecchio posto fisso».
Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. La precarietà come porto di felicità. E’ chiaro che, se una persona si sente felice nella sua condizione di precarietà, è portata a identificarsi in tale condizione. Eccola dunque, all’orizzonte, la precarietà esistenziale come identità sociale.
La copertina di Panorama (n. 52, del 26/12/07) riporta a tutta pagina la foto di una giovane donna seduta al suo tavolo di lavoro. A fianco una grossa scritta: «Vi sembro precaria?». In effetti,
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è l’immagine di una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è ancora più esplicita: «Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a vivere bene». E nell’interno si leggono le note vicissitudini del lavoro instabile, ma raccontate in chiave di «felici di essere precari». Anche qui un piccolo, ma significativo, contributo alla ridefinizione della identità sociale in termini di precarietà esistenziale.
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Capitolo Ottavo
L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA
8.1 I capisaldi dell’ideologia della società astratta: la competizione e la meritocrazia
L’organizzazione capitalistica della società, per potersi affermare nella
collettività, si avvale della sedimentazione nella coscienza collettiva di un
sistema di valori funzionale alla legittimazione del profitto. I valori proclamati
dalle istituzioni della società astratta hanno dunque un carattere strumentale
e funzionano come canali di trasmissione dell’ideologia capitalistica.
Capisaldi dell’ideologia della società astratta sono la competizione e la
meritocrazia. Questi due valori di base hanno una forte incidenza sull’identità
sociale. A prescindere da ogni considerazione di merito, la competizione è un
valore contraddittorio nella prospettiva di una società avanzata, che sempre
più richiede l’operare in gruppo. La pubblicità di una azienda, apparsa sui
giornali, diceva: il nostro valore è il gruppo. Ora, la dimensione di gruppo si
fonda sulla coesione e sulla cooperazione, cioè su modalità dell’agire
antitetiche alla competizione. Un gruppo i cui componenti competono fra di
loro, invece di cooperare, è destinato alla disgregazione. La stessa
produzione tecnologicamente avanzata si basa su un processo integrato,
cioè sulla coordinazione e sulla compenetrazione di fattori tecnici e
organizzativi.
Dunque, le aziende sono in competizione fra di loro, ma riescono a stare
sul mercato solo se sono strutturate su base di cooperazione. A livello di
lavoro dipendente, la competizione è dunque una copertura ideologica della
guerra tra sfruttati, a tutto vantaggio della valorizzazione capitalistica.
Soggetti che cercano lavoro in concorrenza l’uno con l’altro sono costretti ad
abbassare le loro richieste e quindi a lasciare spazio all’incremento del
profitto.
Parte integrante della competizione è la meritocrazia, cioè un sistema
basato sulla premiazione dei meriti. Si dice che solo un sistema che premia i
più capaci riesce a indurre i soggetti a impegnarsi, perché è nella natura
umana impegnarsi solo in vista di un utile. Questa tesi è semplicemente
infondata. La motivazione utilitaristica dell’agire umano è un dato culturale,
non naturale. Altrimenti non sarebbe spiegabile l’agire di quanti/e si
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impegnano sulla spinta di una motivazione di tipo solidaristico. In realtà, un
sistema meritocratico tende a privilegiare le capacità sui bisogni. Deve avere
di più non chi ha più bisogno, ma chi è più capace. E’ dunque una
organizzazione sociale che tende ad emarginare i soggetti deboli e a dare
spazio solo a chi è in grado di saltare gli ostacoli.
Una identità sociale che fa propria la logica meritocratica è funzionale
all’organizzazione capitalistica della società, basata sulla differenziazione
sociale. La meritocrazia è infatti la faccia ideologica della stratificazione di
classe. E’ difficile giustificare le disuguaglianze sociali, che discendono dalla
struttura classista della società capitalistica, se viene a mancare la base
ideologica della meritocrazia.
8.2 L’ideologia della flessibilità
Il tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si avvale di
una ideologia istituzionale incentrata sulla distinzione tra flessibilità e
precarietà. La flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato
di produzione. Si tratta solo di evitare che si traduca in precarietà. Come?
Adottando ammortizzatori sociali, che in pratica hanno la funzione di
assicurare la sopravvivenza nei periodi in cui i soggetti dell’attività lavorativa
vengono a mancare dei mezzi di sussistenza. E’ una tesi particolarmente
insidiosa, che va smontata alla radice, perché, attraverso il riconoscimento
della flessibilità, tende a istituzionalizzare la precarietà come modalità
tecnica del moderno processo di produzione.
Alla base di questo modello ideologico c’è una asserzione implicita. Non
c’è precarietà se viene assicurata la sopravvivenza. Non vive in condizione di
incertezza chi, perdendo il lavoro, percepisce una indennità di
disoccupazione, cioè un piccolo rattoppo alla indigenza (altra cosa rispetto al
salario sociale, destinato a chi è in cerca di una prima occupazione). Ora,
come si fa a sostenere che l’alternarsi di lavoro e non lavoro, vale a dire un
continuo movimento sismico della condizione esistenziale, non provoca
disagio? E’ irrilevante, sul piano psichico, sentirsi alternativamente soggetto
attivo e relitto sociale, al minimo della sussistenza? Ed è irrilevante, sul piano
banalmente contabile, non potere pianificare le proprie spese, già difficili da
gestire in condizione di bassi salari? Come si può tenere fede agli impegni
finanziari sottoscritti (l’affitto mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della
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macchina, ecc.) quando, da un giorno all’altro, l’entrata, già insufficiente,
viene ridotta drasticamente, nel passaggio dal salario alla indennità?
8.3 L’ideologia della “modernizzazione”
Un intervento ideologico di particolare rilievo è puntato sulla percezione
collettiva dello smantellamento del sistema di garanzie che, nel vecchio
assetto sociale, presidiava la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici. Tale
smantellamento viene presentato come processo di “modernizzazione”. E chi
si oppone a tale operazione viene fatto apparire come “conservatore”. Non si
tratta di una semplice manipolazione terminologica. Nell’immaginario
collettivo - in particolare del popolo di sinistra, che per lunga tradizione si
autodefinisce “progressista” - ritrovarsi relegati nell’area della conservazione
provoca un certo disagio.
Una strategia ideologica abbastanza efficace è quella di fare apparire i
diritti degli occupati come contrapposti ai diritti dei non occupati e di additare
la difesa delle garanzie per chi lavora come indifferenza alla condizione di chi
un lavoro non ce l’ha. Il teorema è chiaro: togliere agli occupati è il
presupposto per dare ai non occupati.
In fondo a questo percorso ideologico c’è l’esaltazione della instabilità del
lavoro. L’instabilità occupazionale viene presentata non come degrado
sociale, ma anzi come possibilità per i soggetti occupati di arricchire il proprio
bagaglio di esperienze lavorative e per i non occupati di introdursi nel mondo
del lavoro. Ancora una volta, una rinuncia alle garanzie di base crea le
condizioni per dare un futuro ai giovani.
In questo quadro, è gioco facile addossare agli anziani la responsabilità
della mancanza di prospettiva per le nuove generazioni. In particolare, sulle
pensioni la campagna ideologica assume connotati particolarmente perfidi,
perché tende a mettere esplicitamente i figli contro i padri. Si sostiene infatti
che quanti si oppongono al taglio delle pensioni sottraggono ai propri figli la
possibilità di avere una pensione. Ora, non è difficile immaginare i conflitti
generazionali che possono nascere all’interno delle famiglie se un ragazzo o
una ragazza si convince che il padre e la madre operano contro il futuro dei
loro figli. L’indisponibilità a rinunciare ai propri diritti acquisiti viene infatti fatta
passare per dimostrazione di egoismo e di indifferenza nei confronti della
condizione giovanile, generando disagio psicologico in chi non fa altro che
chiedere ciò che è dovuto. In tale contesto, si può dare il caso di un povero
100
pensionato che dichiari di essere disposto ad accettare una riduzione della
sua pensione, pur di assicurare un futuro ai propri figli.
Un significato particolare assume la questione delle pensioni di anzianità.
Qui i diritti acquisiti sono inconfutabili. E allora si sposta il discorso sul
bilancio dello Stato, che non può reggere all’impatto di una spesa così
prolungata nel tempo, dato che le aspettative di vita sono notevolmente
aumentate e le persone vivono, in media, più a lungo. Il bilancio dello Stato
non viene però tirato in ballo per le pensioni d’oro, che vengono difese a
spada tratta con la scusa che la professionalità va retribuita in modo
adeguato. Quando ci sono di mezzo interessi di classe, la logica diventa un
suppellettile di cui si può benissimo fare a meno.
L’obiettivo di fondo di questa complessa e articolata operazione ideologica
è di ripulire la vita collettiva di tutte le forme di rigidità sociale, cioè delle
resistenze alle incursioni del capitale nelle condizioni esistenziali degli uomini
e delle donne in carne e ossa. E questo obiettivo viene perseguito non con
atti autoritari, che potrebbero provocare pericolose tensioni, ma ridisegnando
l’identità di massa su base di flessibilità sociale.
Si vuole ottenere una soggettività sociale che sia pienamente disponibile
nei confronti delle esigenze della valorizzazione capitalistica. Una
soggettività pronta a rinunciare a qualsiasi garanzia sociale che sia di
intralcio al libero dispiegarsi della logica del mercato. In breve, una
soggettività che si identifichi nella organizzazione capitalistica della società.
Una tale esigenza tende a indurre il sistema istituzionale a non cercare
più, come nel passato, di mediare fra le richieste degli imprenditori e gli
interessi della collettività. Le rappresentanze istituzionali si fanno carico
direttamente delle aspettative imprenditoriali e le traducono in provvedimenti
governativi, accompagnandoli con una pressione ideologica sulla coscienza
collettiva, al fine di sintonizzarla sulla lunghezza d’onda del processo di
produzione in atto.
8.4 L’ideologia della convenienza
La favola ricorrente di ogni programma di governo è la creazione di nuovi
posti di lavoro. In realtà, si tratta di una sorta di cavallo di Troia che da
decenni viene usato per fare passare agevolazioni e finanziamenti a favore
delle forze imprenditoriali. Nei confronti di questo problema l’ideologia
istituzionale è strutturata come una sorta di catena a tre anelli: convenienze,
101
investimenti, nuovi posti di lavoro. Si dice: per avere investimenti, che creino
nuovi posti di lavoro, bisogna dare agli imprenditori adeguate convenienze.
Dunque, il destino di milioni di giovani, ragazzi e ragazze, viene legato dalle
pubbliche istituzioni alla convenienza di privati. In pratica, i giovani possono
avere un futuro solo se a qualcuno conviene dar loro una occupazione. E’ il
culmine del cinismo istituzionale, di fronte al quale occorre essere drastici.
Una società che basa la convivenza sulla ideologia della convenienza privata
si colloca fuori dalla civiltà.
8.5 La sintesi dell’ideologia della società astratta: la logica del mercato
Tutti gli aspetti dell’ideologia del capitale trovano la loro sintesi nella logica
del mercato. Nel modello ideologico che le istituzioni vogliono fare
sedimentare nella coscienza collettiva, il mercato viene rappresentato come
l’espressione più alta della moderna razionalità. Chi non fa i conti con questa
legge suprema vive fra le nuvole. Perché il mercato è la realtà e non ha
senso metterlo in discussione.
L’identità sociale, una volta ingabbiata nella ideologia del mercato, non ha
modo di connotarsi a misura dei bisogni della collettività. La vita sociale si
riduce ad una semplice rappresentazione scenica delle alterne vicende di
questo moderno dio in terra. Fa impressione leggere su giornali autorevoli
che questo o quell’evento ha reso nervoso il mercato. Ormai siamo alla
personificazione di una entità astratta. E’ un messaggio allarmante. Si vuole
far passare l’idea che sulla vita sociale pende, come una spada di Damocle,
la legge di una entità superiore. E guai a mettere in campo aspettative
incompatibili con i canoni della valorizzazione capitalistica. Il mercato si
potrebbe arrabbiare. E le conseguenze ricadrebbero soprattutto su chi vive di
lavoro.
102
103
Capitolo Nono
LA REGOLAMENTAZIONE MORALE DELLA CONDOTTA SOCIALE
9.1 Regolazione sociale e regolamentazione morale
La vita sociale è, in sé, la sede in cui si realizzano gli uomini e le donne in
quanto persone. Non ci sono altre sfere nelle quali una donna o un uomo
possa mettere in atto le potenzialità di cui dispone.
Ora, proprio perché gli uomini e le donne tendono a realizzarsi sul piano
esistenziale ed a progettare la vita sulla base della propria concretezza, la
società astratta ha bisogno, per reggersi, di un sistema in grado non solo di
"mettere ordine" nella vita sociale, ma anche di canalizzarla verso la
valorizzazione capitalistica.
Tale sistema opera a due livelli. Un primo livello è quello della regolazione
sociale attraverso gli orientamenti di valore. Con sofisticate operazioni di
manipolazione, si fanno sedimentare nella coscienza collettiva i valori
costitutivi della ideologia capitalistica. Per questa via, le opzioni di fondo che i
soggetti compiono nel corso della loro esistenza sono formalmente
demandate alle loro scelte personali, ma vengono sostanzialmente avviate
sui binari della differenziazione di classe, struttura portante della
valorizzazione capitalistica.
A questo livello, la società astratta mette formalmente in salvo la sua faccia
liberale. Ma si espone al rischio che particolari aree sociali vengano attratte
da sistemi “altri” di valore, configurandosi nel tempo come mine vaganti per
l’assetto economico e sociale in atto.
Da qui la necessità di aggiungere alla regolazione sociale un secondo
livello, più profondo, del sistema di manipolazione della coscienza collettiva.
Nella regolazione sociale manca un qualsiasi vincolo nei confronti
dell’orientamento di valore. I soggetti agiscono sulla base di indirizzi interiori,
certamente tutt’altro che spontanei, ma comunque senza sentirsi obbligati a
fare una scelta piuttosto che un’altra. Gli orientamenti di valore non sono
vincolanti.
104
La società astratta, per sentirsi al riparo da minacce sempre incombenti di
delegittimazione, avverte quindi l’esigenza di un complesso di vincoli morali,
che tenga le libertà personali, proprie del sistema liberale, entro il quadro
dell’assetto capitalistico della società.
9.2 Astrazione sociale e regolamentazione morale
La società astratta non è, sul piano della struttura formale, una società
autoritaria e teocratica. Essa si definisce formalmente come società
democratica e laica. Rigetta quindi l'istituzionalizzazione di una morale
pubblica, così come rigetta una cultura ufficiale e un'arte di regime.
L'immagine che la società astratta vuole darsi è quella di una società
moderna, dinamica, aperta alle opzioni individuali ed alla competitività
economica e sociale. In una società di questo tipo la morale è costretta a
darsi forme nuove rispetto alla tradizionale regolamentazione, basata su un
sistema di obbligazioni individuali.
La società astratta, in quanto società capitalistica avanzata, è del tutto
indifferente alla morale. L’unica morale che vige per il capitalista è la ricerca
del massimo profitto. E’ “dovere” del capitalista realizzare la valorizzazione
del suo capitale. In tal senso, nutre una forte repulsione nei confronti di
qualsiasi vincolo che frapponga un limite alla espansione dell’accumulazione
capitalistica.
Un caso particolare è quello di alcune questioni che attengono alla morale
religiosa. L’uso della morale religiosa da parte degli ideologi del capitale è
puramente strumentale. Il grande capitale ha interesse a conquistarsi, nel
nostro paese, il consenso della Chiesa cattolica. Ed hanno peso, in certe
posizioni del mondo industriale, diffusi sentimenti radicati nella coscienza dei
fedeli. Si tratta di una strategia volta a creare le migliori condizioni politiche e
sociali generali per il processo di valorizzazione.
Ma, al di là delle posizioni tattiche e strategiche, la funzione di fondo che
hanno i vincoli morali nella società astratta è la regolamentazione morale
della vita sociale. E’ dunque opportuno cercare di individuare e definire il
significato che la morale assume nel quadro dell’astrazione sociale. A tale
scopo, seguiamo, passo dopo passo, il percorso sotterraneo che seguono le
prescrizioni morali per insediarsi nella vita sociale.
Nella società sussunta al capitale la regolamentazione morale tende ad
orientare gli atteggiamenti ed i comportamenti delle donne e degli uomini in
105
direzione dei valori costitutivi del sistema capitalistico. Essa si avvale - come
è facile capire - di apparati ideologici volti a sostenere motivazioni profonde,
spinte "ideali" verso un sistema politico-economico che fa astrazione dalla
concretezza esistenziale. Ed è tanto più necessaria quanto più i valori sono
lontani dalla concretezza degli uomini e delle donne in carne e ossa. In tal
senso, da una parte la regolamentazione morale è funzionale all'astrazione
sociale, dall'altra l'astrazione sociale produce regolamentazione morale.
La persona non solo viene svuotata di ogni riferimento alla propria
specificità, ma viene anche "caricata" di riferimenti al quadro indistinto dei
valori astratti. Anzi, I"'oscuramento" delle specificità personali viene operato
proprio in funzione della "illuminazione" che discende dal sistema di
astrazione. La regolamentazione morale è, in fondo, un modo di raccordare
la fase di "eclissi" alla fase di "illuminazione". I soggetti, privati dei parametri
della propria realtà esistenziale, sono portati a rifugiarsi nel grembo
dell'astrazione sociale.
9.3 Società astratta e valori “altri”
La società astratta privilegia i valori prodotti dal capitalismo. Ma essa si
deve misurare anche con valori di diversa provenienza: valori religiosi,
culturali, ecc.. Mentre dunque esalta lo "spirito del capitalismo", cerca di
piegare a proprio vantaggio i valori radicati nella tradizione storica.
In questo quadro, la funzione del sistema morale è quella di dare spazio a
valori che, pur non essendo propri della società capitalistica, favoriscono
atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente funzionali al sistema di
astrazione.
Si viene così a delineare un rapporto, estremamente complesso, fra
sistema di astrazione e quadro dei valori socialmente diffusi. C'è, innanzi
tutto, da tenere presente il fatto che i valori diffusi non hanno tutti lo stesso
segno. Valori contrapposti si contendono il campo. La società astratta è
quindi costretta a scegliere. E sceglie sempre quei valori che orientano le
donne e gli uomini in direzione non della propria specificità concreta, ma
dell'astratta generalità. Ciò è possibile perché uno dei presupposti della
società astratta è la contrapposizione, artificiosa e strumentale, fra la
specificità individuale e la generalità sociale.
106
9.4 Regolamentazione morale della condotta sociale e valorizzazione capitalistica
La regolamentazione morale non è neutra. Ha la funzione di modulare la
condotta sociale a misura dei parametri della valorizzazione capitalistica.
Attraverso lenti e difficilmente avvertibili processi di orientamento,
sedimentati nella coscienza collettiva, i soggetti sono portati a comportarsi
nella vita quotidiana secondo canoni avulsi dalla loro concretezza
esistenziale. Le persone agiscono nell'ambito di una astrazione che ha
assunto la forma della concretezza. Ma c'è di più. La regolamentazione
morale ha anche la funzione di fare vivere come astratti i bisogni concreti, in
modo che le persone siano indotte a rigettare, in quanto astratta, la propria
specificità.
Per quali vie il sistema morale regolamenta la vita sociale? I soggetti sono
portati, per induzione, a costruire la propria identità personale in relazione ad
un quadro di valori astratti. Per questa via, i valori astratti diventano parte
integrante della personalità e vengono percepiti dai soggetti come valori
concreti, come valori della propria concretezza. La regolamentazione morale,
in quanto sistema di regolazione della vita sociale, ha dunque la funzione di
introdurre nella società valori astratti come parametri della condotta sociale e
di farli sedimentare nelle coscienze come valori concreti. Le persone
agiscono nell'ambito di una astrazione che ha assunto la forma della
concretezza. Ma c'è di più. La regolamentazione morale ha anche la
funzione di fare vivere come astratti i valori concreti, in modo che le persone
siano indotte a rigettare, in quanto astratta, la propria concretezza.
Questo complesso processo non si determina alla luce del sole. Si svolge
per vie sotterranee. Il sistema economico e sociale capitalistico è
tendenzialmente totalizzante. Ogni dinamica sociale può quindi mettersi in
atto solo a partire dalle condizioni di fondo che la valorizzazione del capitale
impone alla società. Ma è proprio sul punto di intersezione tra le condizioni di
base e le dinamiche dell’essere sociale che si insinua la regolamentazione
morale. Le condizioni dell’essere sociale nel sistema capitalistico, una volta
definite, si trasformano, surrettiziamente, in prescrizioni del dover essere
morale, che si sovrappongono alla dinamica sociale.
In questo senso, il dover essere normativo sovradetermina l’essere
sociale. E gli standard sociali imposti dalla classe dominante non sono solo
modi uniformi di essere degli uomini e delle donne, ma anche modi
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uniformanti dell’essere sociale. Sono cioè da un lato dati dell’essere sociale,
dall’altro prescrizioni del dover essere morale del sistema capitalistico.
Essere e dover essere costituiscono un circuito chiuso e tendono a riprodursi
l’un l’altro. Il sociale è come deve essere e deve essere com’è. L’essere,
attraverso il dover essere, riproduce se stesso. E le realtà non omologate al
dover essere morale non vengono fatte rientrare nella sfera dell’essere
sociale. Non essendo conformi al dover essere morale, non fanno parte
dell’essere sociale 18.
Si delineano, in questo contesto, i tratti che assume la regolamentazione
morale nella società astratta. Nulla a che fare con la morale religiosa. Se di
religione si tratta, si tratta della religione della valorizzazione capitalistica. E
se di morale si tratta, si tratta della morale della ricerca del massimo profitto.
Rientra in questo quadro, per limitarci al caso più significativo, la valenza
morale che viene attribuita al rispetto della proprietà privata e, in particolare,
della proprietà privata dei mezzi di produzione. La connotazione morale della
realtà sociale data è nel suo imporsi alla coscienza collettiva in termini di
dover essere. Per questa via, il dover essere morale discende dal cielo delle
aspirazioni religiose, per incarnarsi nel sistema economico e sociale
capitalistico. La società astratta si definisce nei termini della società morale.
Questo riporto del dover essere morale nell’essere sociale ha effetti
devastanti. Per rendersene conto, è opportuno riflettere sul suo significato in
rapporto al tradizionale bipolarismo tra società ideale e società reale. La
dialettica tra l’ideale sociale e il reale della società ha la funzione di tenere
aperto lo scarto fra l’essere e il dover essere sociale. E’ da qui che discende
quella particolare tensione sociale che sta al fondo di ogni autentico
movimento di trasformazione. Nella ideologia capitalistica la società ideale si
veste delle spoglie terrene della società reale. La società da realizzare è la
società realizzata.
18 Su questa problematica si veda F. Viola, La società morale, Roma, Edizioni Associate, 2^ ediz., 1992.
108
109
Capitolo Decimo
LA COMUNICAZIONE ASTRATTA
10.1 Comunicazione primaria e comunicazione secondaria
Le persone comunicano. Si parlano, si ascoltano, chiacchierano,
discutono, consentono, dissentono. Per questa via, si scambiano
impressioni, idee, riflessioni, sentimenti. La comunicazione è un canale di
interazione sociale.
Interagendo, gli uomini e le donne prendono coscienza dei loro bisogni e
tendono ad aggregarsi, per trovare insieme una soluzione. Affermano così la
realizzazione della loro concretezza esistenziale come problema sociale. La
comunicazione sociale è un mezzo di crescita collettiva e una mina vagante
per la società astratta.
Per disinnescare questa mina, è necessario che l'astrazione penetri nella
comunicazione sociale. Bisogna che la comunicazione venga svuotata delle
sue potenzialità dirompenti e si trasformi in un veicolo di astrazione sociale.
L'operazione è complessa e articolata, perché la comunicazione si realizza
in forme diverse, ognuna delle quali richiede un intervento specifico. Per
semplificare, ci limitiamo a prendere in considerazione due tipi fondamentali:
comunicazione primaria e comunicazione secondaria.
Per comunicazione primaria intendiamo l'interazione sociale che si realizza
per via diretta, faccia a faccia, senza l'intermediazione di un apparato tecnico
centralizzato.
La classe dominante è portata a vedere sempre un pericolo latente là dove
più persone si mettono insieme a pensare e a fare, comunicando in presa
diretta. La condensazione della soggettività in un luogo e in un progetto è
materiale esplosivo per la società astratta 19. Nel caso della comunicazione
primaria l'intervento dall’esterno è problematico. Come si fa a interferire tra
persone che comunicano direttamente, senza avvalersi di supporti tecnici?
19 Si veda, in questo volume, Appendice A, Una figura storica: l’operaio-massa fra indeterminazione
sociale e soggettività politica.
110
Da qui la necessità di intervenire all'origine, facendo mancare le condizioni
materiali perché la comunicazione si realizzi. Si spiega così l'accanimento
contro qualsiasi iniziativa di comunicazione orizzontale e di aggregazione dal
basso. Non solo non si provvede a creare spazi dove le persone possano
ritrovarsi e parlarsi a tu per tu, ma si sta molto attenti ad evitare che soggetti
collettivi si approprino di spazi nel territorio.
Ben altre sono le possibilità di intervento sulla comunicazione secondaria,
cioè sulla comunicazione che si realizza sulla base di un apparato tecnico
centralizzato, come una emittente radio o tv. In questo caso, lo stesso mezzo
tecnico crea condizioni favorevoli al determinarsi di una comunicazione
astratta.
10.2 La comunicazione di massa
I mezzi di comunicazione di massa sono in rapida evoluzione. Ed è
rischioso ragionare nei termini della situazione presente, che viene
continuamente superata dalla innovazione tecnica. Tuttavia è possibile
individuare, al di là del dato tecnico, le dinamiche di fondo della
comunicazione di massa e la loro funzionalità al sistema di astrazione
sociale.
La comunicazione di massa è una comunicazione secondaria, a circuito
aperto. Il suo emblema è la televisione. Ed è soprattutto attraverso la tv che
l'astrazione penetra nella comunicazione sociale.
Per cominciare, la televisione produce una comunicazione a senso unico.
Da una parte un soggetto che trasmette, dall'altra un soggetto che riceve.
Manca l'interazione. Vero è che alcune trasmissioni prevedono le telefonate
del pubblico. Ma si tratta di un espediente che solo in apparenza copre il
vuoto di interazione. In realtà, le poche telefonate fanno parte dello
spettacolo, che viene ricevuto passivamente da chi sta davanti al televisore.
Si dà comunicazione in senso pieno quando c'è interazione fra due o più
soggetti che, alternativamente, emettono e ricevono, scambiandosi
messaggi. Quando invece uno dei soggetti ha il ruolo fisso di emittente e un
altro ha il ruolo fisso di ricevente, si ha emissione unilaterale, con particolari
connotati comunicativi.
Intanto si tratta di una comunicazione basata su un rapporto verticale fra i
due soggetti, mentre nella comunicazione vera e propria il rapporto è
orizzontale. Questa verticalità del rapporto tra i due poli dà luogo, di fatto, al
111
di là del contenuto dei messaggi, ad una comunicazione autoritaria, calata
dall'alto.
Nel caso della televisione, come mezzo di comunicazione di massa,
l'unilateralità e la verticalità del rapporto vengono considerate semplici aspetti
tecnici e quindi fuori discussione. Quando un uomo o una donna si siede
davanti alla tv, si dispone, in partenza, ad un ruolo ininfluente rispetto
all'andamento della trasmissione. Basta osservare la differenza di
atteggiamento fra chi alza la cornetta del telefono e chi accende il televisore.
Nel primo caso il soggetto si prepara ad una comunicazione attiva, in cui
contenuto e forma dipendono da come egli si comporterà nel corso della
telefonata. E rimane interdetto quando, dall’altra parte, risponde la segreteria
telefonica (una sorta di “comunicazione blindata”). Nel secondo caso si
predispone ad una comunicazione passiva, in cui egli ha il ruolo di semplice
spettatore.
In più, il rapporto che si instaura tra lo spettatore o la spettatrice e il
televisore è del tutto particolare. La passività del soggetto arriva al punto che
egli continua a stare davanti al televisore, passando da un canale all'altro,
anche se non trova niente che lo possa interessare. E' come se dal piccolo
schermo emanasse una sorta di magnetismo, che impedisce di
distaccarsene. Un tale indecifrabile vincolo rende tutt'altro che agevole un
atteggiamento critico nei confronti delle trasmissioni televisive.
10.3 La comunicazione astratta
Gli aspetti fin qui esaminati creano le premesse di una comunicazione
astratta, cioè di una comunicazione che tende ad elidere la concretezza
esistenziale degli uomini e delle donne. L'astrazione si insedia nella
comunicazione televisiva, più che per una manipolazione della realtà sociale,
attraverso una vera e propria sostituzione di realtà. Milioni di uomini e di
donne, seduti davanti ai televisori, vivono ogni giorno, in una sorta di sogno
collettivo, una realtà "altra" rispetto alla loro concretezza esistenziale.
Ma c'è di più. La comunicazione astratta della tv tende a cancellare la
comunicazione reale fra le persone concrete. Come si sa, in famiglia a
tavola non si può conversare, perché c'è sempre qualcuno/a che reclama il
silenzio, per seguire la trasmissione.
112
10.4 Comunicazione televisiva e valori astratti
La comunicazione televisiva è il canale più adatto per la sedimentazione di
valori astratti nella coscienza collettiva. E' difficile far passare valori
esplicitamente dichiarati. Si ergono difese psicologiche, che tendono a
preservare lo stato consolidato della coscienza. La televisione è in grado di
aggirare questo ostacolo, nel senso che non ha bisogno di esplicitare i valori.
Attraverso la rappresentazone di una realtà "altra", può introdurre
nell'immaginario collettivo stili di vita e modelli di comportamento che si
traducono in orientamenti di valore funzionali alla società astratta.
Per il piccolo schermo passa ogni giorno la società che consuma, la
società dei belli, bravi e vincenti, che hanno in cima ai loro pensieri la
ricchezza e il successo. Passa la società degli affari, basata sulla
competizione e sulla meritocrazia. E passa la società politica e istituzionale,
la società libera e democratica. Le facce, i luoghi, le parole, i suoni sono
sempre gli stessi. Una sorta di finzione scenica, che si ripete ogni giorno, con
piccole variazioni. Eccola la società astratta, la società delle maschere, che
ruba la scena alla collettività degli uomini e delle donne in carne e ossa.
A volte una scheggia di realtà compare sotto le luci accecanti dei riflettori.
Accade, per esempio, quando una comunità riesce a rompere il cerchio
della emarginazione ed a richiamare l'attenzione pubblica sui propri problemi.
Allora l'incanto si rompe. Si squarcia la patina del video. Si spezzano le
litanie mercantili e irrompono sulla scena televisiva i valori comunitari. Per
pochi minuti si affacciano alla finestra della tv uomini e donne che, con le loro
facce segnate, urlano al microfono dell'incauto reporter la loro condizione
esistenziale.
10.5 Comunicazione di massa e potere
La proprietà dei mezzi di comunicazione di massa dà potere di classe
come la proprietà di mezzi di produzione in genere. Il controllo della
comunicazione dà però un potere in più. Consente un controllo culturale,
ideologico e politico. Inoltre, la comunicazione di massa, in particolare quella
televisiva, dà potere a chi ne può usufruire con una certa frequenza. Una
presenza continua sul video dà una notorietà che nessuna altra attività
sociale potrà mai conferire. Un professionista di alto valore non sarà mai
conosciuto come il suo mediocre collega che viene chiamato continuamente
113
ad esprimere pareri sul piccolo schermo. Tale notorietà viene sfruttata
nell'ambito professionale e a volte si traduce in carriera politica.
Ancora più rilevante è il potere che acquisiscono i cosiddetti intellettuali
ammessi a frequentare gli studi televisivi e le colonne dei giornali. Il controllo
dei mezzi pubblici o privati di comunicazione dà la facoltà di fare emergere,
in un particolare settore culturale o scientifico, i rappresentanti di un
particolare orientamento e di emarginare i rappresentanti di un orientamento
opposto. La comunicazione astratta non solo come espressione del potere,
ma anche come produzione di potere politico, culturale e scientifico.
10.6 Telematica, comunicazione multimediale e realtà virtuale: Internet
La telematica, cioè la comunicazione per reti di computer, si caratterizza
per una particolare mediazione tecnica, che mette in contatto, in un
complesso e articolato sistema di interazione, soggetti che hanno da
scambiarsi informazioni a distanza. Lo sviluppo del sistema telematico è
molto accelerato. Le potenzialità sono straordinarie e destano entusiasmi,
che spesso fanno perdere il senso della realtà.
Considerata in sé, sul piano strettamente tecnico, la telematica arricchisce
e potenzia le possibilità di comunicazione. Se invece si considera il sistema
telematico dal punto di vista sociale, il discorso cambia.
10.7 Internet e differenziazione sociale di classe
La differenziazione sociale di classe è il carattere fondante della società
capitalistica. Di conseguenza, tutte le funzioni della vita sociale devono
concorrere a produrre e riprodurre differenziazione. E, quando una funzione,
con il progresso sociale, si estende a livello di massa, il sistema crea una
nuova funzione, più avanzata, che rimette in moto il processo di
differenziazione.
E’ quello che sta accadendo nella sfera della comunicazione sociale.
Adesso che il saper leggere e scrivere è diventata una “funzione estesa” ed
ha perso, in gran parte, la capacità di produrre differenziazione di classe,
subentra una funzione ristretta, più avanzata che rimette in moto il sistema di
stratificazione sociale. E' già successo prima con il telefono e poi con la
televisione.
114
Attenzione. La differenziazione prodotta dalla funzione più avanzata non
ricalca quella precedente. La differenziazione prodotta da Internet è diversa
da quella prodotta dalla funzione del leggere e dello scrivere, anche se si
sovrappone ad essa. Internet ristruttura la composizione di classe su altre
basi, crea nuovi corpi sociali, rimodula la differenziazione sociale.
La tecnica più avanzata - nella comunicazione come in qualsiasi altro
settore - tende dunque a riprodurre a un livello più alto le differenziazioni di
classe. Per un certo tempo, finché non si sono diffusi a livello di massa, sono
stati segni di distinzione di classe fra chi poteva disporne e chi non poteva.
Nel caso della telematica, il fenomeno è più complesso, perché si tratta di
poter disporre non solo del mezzo tecnico, ma anche delle conoscenze e
delle abilità necessarie per poterlo usare. La comunicazione telematica,
come tutti i linguaggi tecnici, privilegia alcuni/e ed emargina altri/e,
escludendoli di fatto da un circuito comunicativo e informativo sempre più
importante per tenersi al passo con i tempi. E la linea di demarcazione non
può che essere, in una forma o nell'altra, una differenza di classe.
10.8 Telematica e astrazione comunicativa
Oltre a produrre effetti di differenziazione sociale, la telematica innesca
processi di astrazione comunicativa. I soggetti che navigano spesso in rete,
come si usa dire in gergo, a lungo andare rischiano di spendere tutte le loro
risorse comunicative all'interno del circuito telematico, perdendo contatto con
le persone concrete. Per questi soggetti la telematica si sostituisce sempre
più alla comunicazione reale.
Tale processo viene accentuato dallo sviluppo del sistema multimediale,
che crea sempre nuove connessioni tecniche fra i vari mezzi di
comunicazione. Il soggetto ha la sensazione di essere al centro di un campo
di possibilità comunicative, che fanno apparire come arretrata la
comunicazione primaria, faccia a faccia.
C'è chi vede nella telematica uno strumento di “democrazia elettronica”.
Ma il sistema telematico è un canale troppo importante perché venga lasciato
alle esigenze comunicative di singoli soggetti. Le grandi forze economiche,
che dominano i vari settori della produzione, invadono la rete on line e
determinano le scelte dei singoli operatori.
115
In tale quadro, si va verso la creazione di una realtà virtuale, prodotta per
via tecnica dai potentati economici. Il soggetto viene immerso in un mondo
artificiale e perde il contatto con la realtà della propria condizione umana.
116
117
Capitolo Undicesimo
SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE
11.1 Soggettività sociale e comunicazione
La soggettività sociale non è la somma di soggettività individuali che
vivono la stessa condizione esistenziale. Non basta che una moltitudine di
soggetti abbiano in comune esperienze di vita perché si formi una
soggettività sociale. E’ necessario che i soggetti possano scambiarsi
quotidianamente le loro esperienze esistenziali. La comunicazione è dunque
un passaggio cruciale nel processo di formazione della soggettività sociale. E
va considerata nel quadro dei processi immateriali, cioè di processi privi di
materialità, ma fortemente intrecciati ai processi materiali. E’ in questo
impasto di materialità e immaterialità il connotato specifico della soggettività
sociale. Da qui la necessità di una sorta di “anatomia” dei processi
immateriali, che prenda a modello l’analisi marxiana dei processi materiali. Il
lavoro teorico che è alla base de La società astratta va in tale direzione.
La formazione di una soggettività sociale autonoma rispetto al quadro
istituzionale è una mina vagante per il sistema capitalistico. Per disinnescare
tale mina, bisogna che la comunicazione venga svuotata delle sue
potenzialità dirompenti e trasformata in veicolo di assimilazione del modello
capitalistico. Ma un intervento di questo tipo è problematico in una società
formalmente democratica finché la comunicazione interpersonale si realizza
in forma diretta, attraverso rapporti faccia a faccia, senza l’intermediazione di
un apparato tecnico.
E’ una situazione analoga a quella che si è avuta nella sfera della
produzione materiale. Marx ha messo in evidenza l’incidenza che ha sulla
soggettività l’introduzione delle macchine. Nella fase premeccanizzata il
capitale ha il controllo economico sul lavoro, ma il controllo tecnico rimane
all’operaio 20. Analogamente possiamo dire che, prima dell’introduzione
dell’apparato tecnico, il controllo della comunicazione interpersonale rimane,
in ultima analisi, in mano ai soggetti. A meno di interventi autoritari e
20 Su questo aspetto si veda F. Viola, Il sistema di macchine, 3^ ediz., Roma, Edizioni Associate, 1996.
118
restrittivi, come si fa a intervenire tra persone che comunicano direttamente,
faccia a faccia?
11.2 La comunicazione mediata dalla tecnologia
La situazione cambia invece quando si passa dalla comunicazione diretta
alla comunicazione mediata dalla tecnologia ed ancora di più quando si
sviluppa la comunicazione basata su un sistema tecnico centralizzato.
Analogamente a quanto è avvenuto per la produzione materiale, c’è una
sorta di passaggio dalla sussunzione formale della comunicazione - per cui la
comunicazione fra soggetti deve rispettare certi canoni, ma il controllo diretto
rimane ai soggetti - alla sussunzione reale, in cui, attraverso l’apparato
tecnico centralizzato, è possibile il controllo dall’alto della comunicazione
sociale. Il sistema centralizzato consente ai funzionari dei poteri forti di
decidere le modalità e gli ambiti della comunicazione sociale.
11.3 Dalla comunicazione a circuito chiuso alla comunicazione a circuito aperto
Nel quadro della comunicazione tecnicamente centralizzata la comunica-
zione televisiva ha una connotazione specifica. Per tentare di cogliere lo
specifico televisivo, in relazione alla formazione della soggettività sociale,
occorre introdurre una distinzione fra comunicazione a circuito chiuso e
comunicazione a circuito aperto.
Nel primo caso i soggetti, per mettersi in comunicazione, devono attivarsi,
uscendo di casa e recandosi nel luogo di riunione, dove interagiscono e
partecipano alla strutturazione della comunicazione. Questo aspetto è
rilevante per la formazione della soggettività sociale. Perché agli
appuntamenti vanno soggetti che hanno un comune orientamento di base.
Nella comunicazione a circuito aperto invece da una parte c’è una stazione
emittente, dall’altra c’è una moltitudine di apparecchi riceventi. E’ questo
ultimo il tipo di comunicazione televisiva che arriva nelle case. Il soggetto può
starsene sprofondato in poltrona. Basta premere un pulsante del
telecomando per aprire la comunicazione. Questo connotato tecnico mette,
in partenza, il soggetto in condizione di passività. Di fatto, il soggetto assiste,
più che partecipare, ad un episodio comunicativo.
Certo, lo svilluppo dei mezzi di comunicazione di massa prevede un
sempre maggiore coinvolgimento del soggetto, che avrà sempre più la
119
possibilità di scegliersi programmi su misura. Ma qualsiasi evoluzione in tale
direzione non può mutare il ruolo di fondo del soggetto, che non è in grado di
intervenire su una struttura della comunicazione comunque predeterminata.
La soggettività sociale si trova così coinvolta in un processo che sfugge al
suo controllo.
11.4 Tv domestica e soggettività sociale
Come è noto, ormai nelle case delle famiglie italiane il televisore è sempre
acceso. E spesso ci sono diversi televisori sparsi per casa. In queste
condizioni non solo non c’è bisogno di uscire di casa per andare ad un
appuntamento comunicativo. Al contrario, solo uscendo di casa si può
sfuggire alla comunicazione televisiva. Ed anche per strada arrivano a volte
le risonanze televisive. Quante volte capita di sentire per strada l’eco
televisiva di una partita di calcio? Di fatto - a prescindere da aree alternative,
impermeabili alla tv - la soggettività sociale è letteralmente assediata dalla
comunicazione televisiva. Ma i soggetti non hanno sentore di questo assedio.
Tutt’altro.
La tv è in tutte le case, ma non fa pesare la sua presenza. E’ una sorta di
tv domestica, che fa compagnia, ma non lascia trapelare la sua invadenza.
Così la realtà virtuale si confonde con la realtà reale. Capita spesso che uno
squillo del telefono della fiction televisiva venga scambiato per una chiamata
al telefono di casa. I personaggi della tv domestica entrano a far parte della
famiglia. E il chiacchiericcio sulle figure del piccolo schermo ha il sapore
antico dei pettegolezzi sui parenti. Nelle telefonate delle telespettatrici (a
chiamare sono in maggioranza donne) i conduttori vengono interpellati per
nome e trattati con tono familiare: «Paolo, dammi un aiutino».
11.5 Dalla Tv come mezzo di comunicazione alla Tv come agenzia di socializzazione
Questa integrazione della tv alla famiglia, questa connotazione domestica
della tv, provoca un passaggio cruciale per l’incidenza che la comunicazione
televisiva ha sulla formazione della soggettività sociale. Si passa dalla
televisione come mezzo di comunicazione alla televisione come agenzia di
socializzazione. La socializzazione è un processo attraverso il quale i
soggetti assimilano, cioè fanno propri, i modelli sociali di atteggiamento e di
120
comportamento. Una agenzia classica di socializzazione è la famiglia. I
modelli che, all’interno della famiglia, vengono assimilati dai soggetti
nell’infanzia e nella adolescenza, si depositano nella coscienza e sono difficili
da cancellare, proprio perché le persone li sentono come propri.
Nella struttura familiare anteriore all’avvento della televisione di massa le
figure dominanti sono i genitori. La tv domestica introduce nell’ambiente
familiare nuovo figure - i personaggi delle trasmissioni più seguite - che
assumono un ruolo significativo nel processo di socializzazione. Nell’ambito
familiare i figli e le figlie fanno riferimento non solo alla madre e al padre, ma
anche alle figure del piccolo schermo. Si innesca un processo di
socializzazione televisiva. Per questa via, vengono introdotti nel nucleo
familiare, attraverso messaggi latenti, orientamenti di valore che i soggetti
fanno propri, senza rendersene conto.
Il senso di questa sofisticata operazione dovrebbe risultare abbastanza
chiaro. Attraverso un lento processo di assimilazione - che si intreccia ai ben
noti processi materiali – si sedimenta, per così dire, nel fondo della
soggettività sociale il sistema di valori funzionale al modello di
organizzazione capitalistica della società (competizione, meritocrazia, ecc.).
Tale processo fa pensare alle lunghe lavorazioni a cui i contadini
sottopongono il terreno prima di dare inizio alla semina. Il seme germoglia
solo se il terreno è stato a lungo coltivato.
Ecco, l’assimilazione che mette in atto la tv domestica, attraverso
l’intrigante proposizione di modelli virtuali di atteggiamento e di
comportamento, si traduce in un lento lavoro di conio operato sulla
soggettività sociale. L’esito è devastante. Giorno dopo giorno, si forma una
sorta di intercapedine fra la condizione materiale dei soggetti e la loro
interpretazione della realtà sociale. Questa ostruzione impedisce che la
condizione oggettiva si traduca in percezione soggettiva della realtà. I
soggetti finiscono per interpretare la loro condizione materiale con i parametri
della logica che presiede all’organizzazione capitalistica della società. Basta
pensare al disoccupato che è convinto di non riuscire a trovare lavoro per
quei “maledetti vincoli” che ancora intralciano il libero dispiegamento del
mercato.
11.6 Soggettività sociale, condizione materiale e processi immateriali
121
Fin qui le dinamiche dei processi immateriali sono state considerate in sé,
a prescindere da ogni condizionamento della condizione materiale. In realtà,
nessun processo immateriale opera in un vuoto di materialità. Nel caso
specifico, non si può immaginare che nella soggettività sociale venga
azzerato, attraverso l’induzione di una percezione deformata, il peso della
condizione materiale. Si tratta quindi di vedere, volta a volta, in situazioni
storicamente determinate, fino a che punto i processi immateriali sono riusciti
a depurare la soggettività sociale dei riscontri quotidiani della concretezza
esistenziale. E’ sempre aperta la partita fra una soggettività sociale che
tende a strutturarsi su base reale e un apparato di comunicazione di massa
che cerca di connotarla su base virtuale.
Sull’esito di una tale partita incide molto il livello di aggregazione materiale
e di coscienza di classe presente in una determinata fase storica. L’attuale
condizione di frammentazione e di precarizzazione del lavoro evoca una
soggettività sociale disgregata ed esposta al processo di interiorizzazione
indotto dalla tv domestica. Il soggetto, espropriato dei suoi connotati di
classe, si ritrova solo e indifeso davanti alle mille seduzioni del piccolo
schermo. Ancora una volta si ripropone, in sede di strutturazione della
soggettività sociale, l’intreccio fra condizione materiale e processi
immateriali.
122
123
Capitolo Dodicesimo
INFORMATICA E ASTRAZIONE 12.1 L'oggettivazione delle funzioni intellettive: computer e soggettività
L'ultimo segno di presenza della soggettività umana nel processo
lavorativo diretto, cioè nel processo di lavorazione della materia prima, è la
funzione di controllo. Con l’automazione anche tale funzione viene
oggettivata. A questo punto della evoluzione tecnologica, la soggettività
umana viene espulsa dalla lavorazione diretta. Ma il processo di produzione
non si esaurisce con l’espletamento di singole funzioni operative. E il
complesso del processo rimane ancora nelle prerogative del soggetto, che
con le sue capacità intellettive domina la produzione come sistema 21. In
questa direzione, il computer rappresenta un vero e proprio salto di qualità.
Con il computer la struttura della mente umana viene incorporata nella
macchina. Il passaggio è di eccezionale rilevanza. Non si tratta più del
trasferimento di funzioni operative. Si tratta della riproduzione tecnica di
funzioni mentali, cioè delle funzioni umane per eccellenza. E in tale
riproduzione le funzioni mentali non solo non perdono in efficacia, ma si
potenziano. Il computer è in grado di compiere certe operazioni meglio e in
modo più rapido della mente umana. Anche se non sarà mai in grado di
interpretare L’infinito di Leopardi.
La riproduzione tecnica delle funzioni mentali ha una notevole incidenza
sulla presenza della soggettività nel processo produttivo. Molte funzioni di
organizzazione e di supervisione vengono incorporate nel computer. La
soggettività viene quindi sempre più relegata alla tastiera.
Questo passaggio trasforma la qualità del rapporto tra soggetto e
operazione tecnica. In fase di meccanizzazione semplice, il soggetto ha la
mente libera da incombenze lavorative. E mentre svolge il suo compito di
addetto alla macchina, può pensare ad altro e magari fantasticare. Davanti al
21 A tale riguardo, si veda F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 3^ ediz.,
1996.
124
computer, il soggetto ha la mente occupata dai compiti di interazione con lo
strumento tecnico. Mentre interagisce con il computer, è completamente
isolato dal contesto umano e non può pensare ad altro. Il processo di
produzione si appropria non solo delle sue mani, ma anche della sua anima
12.2 La logica del computer
Tutte queste potenzialità, che aprono prospettive straordinarie e, per certi
versi, inimmaginabili, vanno però collocate entro i confini di una logica ben
definita. Il computer è in grado di misurare, in tempi rapidi, la distanza delle
stelle. E' in grado di darci all'istante la rappresentazione grafica di un
complicatissimo calcolo. Può riprodurre, in immagini in movimento,
l'evoluzione di una situazione reale. In tutto ciò supera di molto le capacità
della mente umana. Il computer non può però darci il senso di una frase, il
significato di una poesia. Non può interpretare L’infinito di Leopardi.
Non si tratta di un limite, che verrà prima o poi superato. Si tratta della
logica propria del computer, che è una logica di amministrazione di dati
codificati. Tutto ciò che non è sottoposto a codifica non rientra nella logica
del computer.
125
Capitolo Tredicesimo
LA CITTA' ASTRATTA 13.1 Vita di città e astrazione sociale
Nella società astratta non ci sono luoghi in cui gli individui possono vivere
come persone concrete. L'astrazione sociale è un effetto della
organizzazione complessiva della società. Non è quindi limitata a questo o a
quel settore sociale, a questa o a quella zona del territorio, a questo o a quel
tipo di insediamento abitativo.
Tuttavia, con il variare della vita sociale nei diversi contesti ambientali varia
anche l'impatto dell'astrazione sulla collettività. Da un tale punto di vista, un
conto è vivere in un piccolo centro, un conto è vivere in una grande città.
La grande città manca di una identità comunitaria. Gli abitanti, più che un
vero e proprio senso di appartenenza, hanno spirito di bandiera, che si
riversa, per esempio, nelle competizioni sportive. In ogni caso, non si
sentono legati fra di loro da un comune sentire. Non è un caso. La struttura
sociale non prevede momenti di vita collettiva. Ogni soggetto, uomo o donna,
ha un suo percorso obbligato di vita quotidiana, che si incrocia, ma non si
incontra, con i percorsi degli altri. Migliaia e migliaia di uomini e di donne si
alzano ogni mattina, si chiudono nelle scatole di latta delle auto o si
ammassano nei mezzi pubblici. Vanno tutti di fretta, si rubano il passo, si
ostacolano, si imbottigliano. Così una grande massa, nel tentativo di andare
di corsa, procede lentamente verso i luoghi di lavoro. Migliaia di occhi
puntati, a intermittenza, sugli orologi affibiati ai polsi. Migliaia di anime
impigliate, ognuna nel proprio impenetrabile guscio, nei pensieri della
giornata che è appena cominciata. Una massa di esseri isolati in una città
che ignora il loro concreto esistere, in una città astratta.
Lo spostamento casa-lavoro ha la sua copia conforme la sera, nello
spostamento lavoro-casa. In più c'è adesso l'ansia di tirarsi fuori dalla
mischia, per mettersi al sicuro nel fortino familiare. Varcata la soglia
domestica, rimane appena la forza di mettersi in panciolle davanti alla tv. E
126
poi a letto, perché domani il trillo della sveglia non sentirà ragioni.
Dall'isolamento fuori casa all'isolamento in casa.
In questo quadro, la grande città svuota di senso l'umana esistenza. La
città astratta non è luogo di vita collettiva. Assume le due facce dell'individuo
astratto: da una parte macchina di produzione, dall'altra terminale del
consumo. Nei luoghi di produzione i beni vengono confezionati, per essere
esposti nei luoghi di consumo. In tutti e due i luoghi la persona concreta
figura come entità astratta. Quelli che si aggirano nella città spettrale della
sera, fermandosi incantati davanti alle vetrine addobbate, non sono uomini e
donne. Sono larve messe in movimento dalla macchina del consumo. Le
insegne multicolori, a luci intermittenti, creano uno scenario fantasmagorico,
in cui il soggetto perde il contatto con la realtà e si lascia trasportare
dall'onda dell'astrazione sociale.
13.2 La rarefazione dei rapporti interpersonali nella città astratta
Nella grande città l'astrazione sociale si traduce dunque in una
atomizzazione esistenziale della soggettività collettiva e in una
frammentazione della vita quotidiana.
In queste condizioni i soggetti hanno difficoltà a tenere in vita i rapporti
interpersonali. Per incontrarsi, bisogna mettersi d'accordo sul giorno e
sull'orario. E' una sorta di complicato gioco ad incastro. Quel che andrebbe
bene all'uno non va bene all'altro. Così passano i giorni, passano anche i
mesi, senza che si riesca a combinare un appuntamento. A lungo andare, si
finisce per perdere la voglia. Ogni tanto una telefonata e via. A poco a poco,
neppure quella. Attraverso vicende in apparenza private, lo svuotamento
delle esistenze personali e la frantumazione della vita sociale approdano alla
rarefazione dei rapporti interpersonali.
E' sintomatico il caso di parenti che non si incontrano quasi mai nella città
in cui si sono trasferiti e, in occasione delle vacanze estive, si salutano
festosamente nel paese di origine, con grande stupore dei paesani.
Si potrebbe pensare che la rarefazione dei rapporti interpersonali derivi
dalle distanze che, a volte, si interpongono quando si abita in quartieri
diversi. Se questa fosse la difficoltà più grave da superare, non si
spiegherebbero certe paradossali situazioni che si vengono a creare
all'interno dello stesso quartiere. Persone che abitano a pochi metri l'una
dall'altra e vanno a prendere il latte tutte le mattine nello stesso bar, si
127
ignorano a vicenda. Persino persone che abitano nello stesso palazzo a volte
non si dicono nemmeno buongiorno e buonasera. Si incrociano, ma non si
incontrano. Letteralmente non esistono l'una per l'altra.
Se si parte dal presupposto che il paese di provincia ha una dimensione
più aperta alla vita di relazione, la grande città potrebbe avere un respiro
umano se fosse articolata in quartieri che funzionassero come tanti piccoli
centri. Ma non è così. E la ragione di fondo è che la città, nel suo insieme,
non è concepita come luogo di vita, ma come sede di produzione e di
amministrazione 22. E' concepita come città astratta.
13.3 La struttura di classe della città astratta
Nella società capitalistica la città non è concepita secondo le esigenze di
abitazione e di vita della popolazione, ma sulla base della struttura di classe.
E' anche per questo suo connotato di fondo che si definisce come città
astratta. Nella società astratta la città deve rappresentare, nella sua stessa
struttura fisica, la differenziazione di classe. I quartieri sono contrassegnati
da un marchio di classe: quartieri per la classe alta, quartieri per la classe
media, quartieri per la classe bassa.
Nei limiti della sua dimensione, la città astratta riproduce il disegno politico,
economico e sociale della società astratta. Si definisce quindi come città
formalmente libera e democratica. In tal senso, non può distribuire d'autorità
la popolazione nei diversi quartieri in base allo status sociale. Ogni famiglia
sceglie liberamente il quartiere dove abitare. Non c'è - e non ci può essere -
legge che vieti a qualcuno/a di abitare dove vuole, ovviamente nel rispetto
della proprietà privata. Eppure, l'esito complessivo è che ogni frammento di
popolazione va a collocarsi al posto giusto, nel pieno rispetto della struttura
di classe della città. E' questo il miracolo che riesce a realizzare l'astrazione
sociale nella città, come nella società.
In questo quadro si pone a volte un problema. La città non è una entità
statica. Si evolve e si espande. Perciò può accadere che zone ad
insediamento popolare acquistino, con il tempo, un valore strategico nello
sviluppo della città oppure un valore di prestigio. Per cui cadono nell'orbita
della speculazione edilizia. A questo punto, la popolazione residente è
costretta, attraverso varie forme di pressione, a spostarsi in una zona più
22 Si veda, in questo volume, l’Appendice B «La città come fabbrica sociale».
128
periferica, per lasciare spazio al nuovo insediamento e consentire una
ristrutturazione di classe del territorio.
13.4 Periferia urbana e marginalità sociale
Nella struttura di classe della città astratta la periferia urbana ha la
funzione di separare dal contesto cittadino la popolazione che si colloca alla
base della piramide sociale. Si tratta in genere di sottoproletariato e di
proletariato poco stabile.
La periferia urbana non è quindi soltanto la fascia esterna del territorio
urbano. E' anche - e soprattutto - una fascia estranea alla vita cittadina. La
struttura della periferia urbana è funzionale a questa sua caratteristica di
classe. I collegamenti con il centro e con il resto della città sono ridottissimi.
Le persone devono essere scoraggiate a uscire dalla riserva in cui sono state
relegate. All'interno della riserva mancano a volte i servizi essenziali. Ma non
è questa la discriminante fondamentale. Ci sono periferie più o meno
materialmente attrezzate. Quel che manca - e deve mancare - è soprattutto
una simbiosi con il resto della città. In tal senso, la periferia urbana viene a
configurarsi come moderno ghetto.
Questo connotato si esaspera in certe situazioni di edilizia popolare.
Migliaia di persone vengono segregate in lunghi serpentoni di cemento, con
cunicoli interni e feritoie alle pareti esterne. Qui veramente l'astrazione
sociale assolve in pieno la sua funzione più incisiva: ignorare la concretezza
delle persone per salvare la struttura di classe.
La periferia come ghetto produce marginalità sociale, in senso letterale. I
soggetti sono costretti a vivere a margine della città, sotto tutti gli aspetti.
Vengono così a sommarsi nella condizione sociale di uomini e donne tutte le
ferite che la società astratta apporta nel corpo vivo della collettività. E' come
se l'astrazione operasse in modo da concentrare e rinchiudere tutti i mali
della società in particolari zone, per rendere immuni, senza riuscirci, le zone
riservate alle classi privilegiate.
Nei moderni ghetti edilizi gli uomini e le donne mancano spesso del
minimo necessario per sopravvivere. Questa condizione scatena fenomeni
striscianti di illegalità, che trasformano, in parte, il carcere in una sorta di
appendice della periferia urbana. Molti fanno i pendolari fra una catapecchia -
in cui sono ammucchiati genitori e figli - e una cella sovraffollata. Questo
pendolarismo anomalo sgretola il nucleo familiare. I ragazzi e le ragazze non
129
vanno a scuola. Vivono per strada, sui muretti, esposti alle pressioni del
mercato delle droghe.
Attraverso impervi percorsi, l'indifferenza alla condizione esistenziale delle
persone concrete produce nella periferia urbana, nella città astratta per
eccellenza, il degrado dell'essere umano.
130
131
Capitolo Quattordicesimo
DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE
14.1 Astrazione e razzismo
La società astratta è aperta a tutte le possibilità di valorizzazione del
capitale. Riguardo all'uso della forza-lavoro, non pone quindi preclusioni di
tipo nazionalista o razzista. In tal senso, la selezione dei soggetti sulla base
della provenienza etnica o del colore della pelle, la discriminazione razziale
nella vita sociale e tutti i comportamenti che denotano atteggiamenti razzisti
non rientrano nella logica della società astratta, considerata in sé.
Sulla base di questa premessa, la società astratta non ha da avanzare
pregiudiziali ideologiche nei confronti degli immigrati. Ha soltanto l'esigenza
di regolamentare il flusso dell'immigrazione. Così milioni di uomini e di
donne, ridotti alla fame nei paesi di origine dal dominio, diretto o indiretto, del
capitale internazionale, vengono ricacciati indietro nella loro originaria
condizione di miseria.
D'altra parte, gli immigrati regolarizzati vengono trattati, nella migliore delle
ipotesi, non come cittadini del mondo, ma come ospiti in casa d'altri. Da
parte delle forze più aperte nei confronti degli immigrati si dice: «Si tratta di
esseri umani bisognosi e abbiamo il dovere di aiutarli. Ma non possiamo
accoglierne più di un certo numero. In cambio, chiediamo agli immigrati di
comportarsi bene e di integrarsi».
L'integrazione culturale e sociale è l'obiettivo cardine di quanti si dichiarano
ben disposti nei confronti degli immigrati (non parliamo degli altri). Ma nella
società sussunta al capitale chiedere agli immigrati di integrarsi significa
pretendere che rinuncino alla loro identità e facciano proprio il sistema di
valori astratti.
In questo quadro, il capitale pretende da una parte di poter circolare senza
controllo e dall'altra di potere controllare il flusso di immigrati, per limitarlo
alla quota di forza-lavoro sottopagata da potere sfruttare.
132
14.2 Diversità etnica e valorizzazione del capitale
Nel sistema di astrazione sociale la collettività non viene concepita come
società multietnica, cioè come società in cui hanno diritto di cittadinanza tutte
le etnie comunque presenti sul territorio nazionale. La società astratta non è
una società senza frontiere etniche. E' una società che concepisce
l'immigrazione come immissione nel mercato nazionale di forza-lavoro di
riserva, in misura corrispondente alle esigenze del sistema di produzione.
Tanto meno la società astratta azzera la differenziazione etnica. Apre, in
misura controllata, la struttura sociale alla diversità etnica, non per
valorizzarla come risorsa di crescita sociale, ma per utilizzarla a vantaggio
della valorizzazione del capitale. La pregiudiziale etnica viene fatta cadere in
sede di acquisizione di forza-lavoro, ma viene recuperata in sede di utilizzo
della forza-lavoro acquisita, per potere disporre di lavoro a costo più basso e
in condizione di assenza di garanzie. La discriminazione etnica, che trova
spazi più o meno ampi nella coscienza collettiva - con tutto il carico di
violenza, di discriminazione, di emarginazione materiale e immateriale -
risulta oggettivamente funzionale alla strategia capitalistica, perché rende
disponibili soggetti in grande difficoltà e quindi pronti ad accettare tutto pur di
riuscire a sopravvivere.
Nel quadro che abbiamo cercato di abbozzare fin qui si può intravedere la
trama intessuta dal sistema di astrazione per creare condizioni favorevoli alla
valorizzazione del capitale nell'ambito di una società che non esclude, sul
piano ideologico, la diversità etnica.
Quando non si riesce a subordinare completamente l'immigrazione alle
esigenze della valorizzazione e i flussi migratori non rispettano i parametri
dell'economia, il sistema istituzionale interviene d'autorità con misure
legislative e con provvedimenti di polizia. In tali casi cade il velo
dell'astrazione e viene fuori la reale considerazione che la società sussunta
al capitale ha degli immigrati, trattati come forza umana da spremere e
ammassare in condizioni di pura sopravvivenza.
14.3 Astrazione sociale e specificità etnica
La mancanza di pregiudiziali razziste nei confronti dell'immigrazione non
viene intesa come rispetto della diversità etnica, in quanto specificità
culturale. La società astratta tende a definire la specificità etnica come scoria
133
culturale, di cui una moderna organizzazione sociale si deve liberare.
Soggetti che intendono attenersi alle tradizioni culturali del paese di
provenienza, per esempio nella determinazione dei giorni e degli orari di
lavoro, creano difficoltà al processo di produzione. Perciò la società astratta
è aperta alla integrazione etnica, intesa come annullamento della cultura
etnica nella logica della cultura capitalistica industriale.
134
135
Capitolo Quindicesimo
ASTRAZIONE SOCIALE E VITA QUOTIDIANA
15.1 Astrazione sociale e ricerca di senso della vita
La ricerca di senso della vita è una delle espressioni più significative della
concretezza esistenziale degli uomini e delle donne. Nella società astratta
essa viene continuamente frustrata. L'indifferenza alla concretezza
esistenziale svuota di senso la vita.
Sentendosi ignorato in quanto persona concreta, il soggetto non riesce a
dare un significato alla propria esistenza. Ha la sensazione di vagare in un
vuoto esistenziale. La giornata gli appare come un quadrante di orologio
senza lancette. Nel tempo di lavoro e nel cosiddetto tempo libero gli atti, i
gesti, le parole non gli si dispongono come le piastrelle colorate di un
mosaico, ma gli si accumulano come i grigi detriti di una strada dissestata.
Gli accadimenti gli rovinano addosso, procurandogli graffi e ferite, senza che
egli sia in grado di farsene una ragione.
In questo quadro, l'astrazione sociale opera in direzione di una
demotivazione del soggetto nei confronti della vita sociale. Viene a mancare
la spinta ad un impegno che tenda all'autorealizzazione. Emergono
atteggiamenti di oppportunismo e di trasformismo, che mirano al
conseguimento di un vantaggio immediato.
La ricerca di senso - una tendenza dirompente all'interno di una cultura
utilitaristica - viene così dirottata verso obiettivi consoni al modello ideologico
che presiede alla valorizzazione del capitale.
15.2 Vita quotidiana e uso della forza-lavoro
La vita quotidiana di chi esiste solo per lavorare è la negazione della sua
esistenza in quanto persona. In tal senso, nel vivere quotidiano il soggetto,
invece di affermarsi, si nega. Nega il suo essere altro da quello che è in
quanto portatore di forza-lavoro manuale-intellettuale. Chiude il suo orizzonte
esistenziale entro le mura della valorizzazione capitalistica.
Al di là di ogni impalcatura ideologica, al di là di ogni rappresentazione
idealistica della realtà sociale, la persona è quale si realizza nella sfera della
136
vita quotidiana. Alla luce di tale considerazione, cerchiamo di vedere più da
vicino in quali termini e in che misura è possibile la realizzazione esistenziale
della persona nella vita quotidiana di chi è costretto/a a vendere l'uso della
sua forza-lavoro manuale-intellettuale.
Con l'uso della sua forza-lavoro il soggetto vende l'uso della sua vita
quotidiana. E' un punto decisivo, in senso letterale. Qui si decide il destino
esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. La vita quotidiana è
la sfera in cui la forza-lavoro viene usata per valorizzare il capitale. In sé,
I'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale ha finalità economiche. Ma per
la persona esso ha conseguenze esistenziali. Il capitale, con la sua sete di
profitto, è per la persona concreta l'altro da sé.
Questa estraneità degli uomini e delle donne alla valorizzazione
capitalistica è insanabile. Ma la compravendita dell'uso della forza-lavoro
manuale-intellettuale non crea soltanto un rapporto contrattuale fra due
soggetti estranei. Sulla base di tale rapporto, il capitale ha modo di insediarsi
nella sfera esistenziale delle persone concrete.
L'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale plasma la vita delle persone.
Ne fa una vita sovradeterminata dal capitale, una vita organizzata,
programmata dal capitale e finalizzata alla produzione di profitto.
E qui si apre una contraddizione di grande portata. In quanto persone, Il
lavoratore e la lavoratrice sono estranei al capitale. In quanto forza-lavoro,
sono parte del capitale. Ora, se il consumo di forza-lavoro
manuale-intellettuale fosse possibile al di fuori della vita quotidiana, un uomo
o una donna potrebbe vendere l'uso della sua forza-lavoro senza farsi
coinvolgere dal capitale sul piano esistenziale, vivendo la sua vita al di fuori
del rapporto contrattuale con il capitale. In questo caso, puramente teorico, il
consumo della forza-lavoro non entrerebbe in collisione con I'estraneità delle
persone. Gli uomini e le donne potrebbero vivere nella vita quotidiana la loro
estraneità al capitale, lasciando liberi i rappresentanti del capitale di
consumare nel processo produttivo la loro forza-lavoro.
Ma l'uso della forza-lavoro non può darsi al di fuori della vita quotidiana. Un
uomo o una donna non può vendere l'uso della sua forza-lavoro
manuale-intellettuale e tenere per sé la sua vita. Non può dire all'azienda:
usa pure come vuoi la mia forza-lavoro, però sulla mia vita, su come viverla,
su come spenderla decido io. Vendendo l'uso della sua forza-lavoro, "vende"
anche la propria vita. Non nel senso che non è più, formalmente, una
137
persona "libera", ma nel senso che la sua vita di persona "libera" sarà quella
di lavoratore o lavoratrice.
15.3 L'appropriazione della vita sociale da parte del capitale
Il rapporto di lavoro per un verso è un rapporto specifico, che interessa una
sfera particolare e prescinde dalle altre sfere della vita sociale, per I'altro è
un rapporto fondante, nel senso che è decisivo per la condizione sociale
complessiva degli uomini e delle donne. Nella forma, prescinde da ciò che
non attiene strettamente all'uso della forza-lavoro. Nella sostanza, proprio
attraverso l'uso della forza lavoro, investe l'intera vita sociale. Praticamente,
attraverso l'uso della forza-lavoro nanuale-intellettuale il capitale si appropria
della vita sociale. Ma se ne appropria in un senso particolare. Non nel senso
che è qualche rappresentante del capitale a programmare direttamente la
vita esterna alla sfera lavorativa. Certo, in questo senso ci sono fenomeni di
canalizzazione della vita extralavorativa (per esempio, tutte le forme di
organizzazione del cosiddetto tempo libero) che sono tutt'altro che estranei
agli interessi del capitale. Ma in questa sede a noi interessa vedere le
implicazioni dirette del rapporto di lavoro, in quanto rapporto contrattuale, in
sede di vita sociale complessiva.
Ebbene, il senso particolare dell'appropriazione della vita sociale da parte
del capitale sta nel fatto che essa si attua non riconducendo la vita
extralavorativa dentro la sfera di influenza della vita lavorativa, ma proprio
lasciandola fuori dal rapporto contrattuale. Per questa via, il capitale può
affermare la sua indifferenza nei confronti della vita "privata" delle persone ed
imporla alla società in termini di astrazione sociale.
La vita sociale, lasciata fuori dal rapporto contrattuale, è formalmente
libera, mentre il capitale, lasciato fuori dalla vita sociale, è formalmente
vincolato ad una sfera specifica. In realtà, la vita sociale, non rientrando nel
rapporto contrattuale, deve rimanere fuori dalle vertenze sindacali e politiche,
là dove, almeno formalmente, si decidono le condizioni dell'uso della
forza-lavoro manuale-intellettuale. Non a caso, in condizioni di rapporti di
forza favorevoli, i rappresentanti del capitale oppongono un sistematico rifiuto
sostanziale a tutte le richieste delle forze del lavoro tendenti a spostare la
contrattazione su questioni di vita sociale complessiva. I rappresentanti del
capitale rispondono - nella sostanza, al di là delle formule diplomatiche - che
138
oggetto della contrattazione è l'uso diretto della forza-lavoro. Il resto deve
rimanere fuori.
In altri termini, la contrattazione deve fare astrazione dalla vita reale,
perché il lavoratore o la lavoratrice entra nel rapporto contrattuale non in
quanto persona, ma in quanto forza-lavoro. Tanto meno rientra nella
contrattazione la condizione di chi, come il disoccupato o la disoccupata, non
è nemmeno presente nel rapporto contrattuale. Il soggetto a cui fa riferimento
il rapporto contrattuale è un individuo astratto, che in sede di contrattazione
deve essere considerato a prescindere dalla sua specificità personale. E la
vita sociale, quale è contemplata nel rapporto contrattuale, è priva di
qualsiasi particolarità concreta.
Si sa che fuori della sfera lavorativa c'è una vita sociale complessa. Ma,
dal punto di vista del contratto, non interessa quale sia. E' una vita astratta.
Si sa che al di là delle strutture produttive c'è una società organizzata. Ma dal
punto di vista del rapporto di lavoro, non interessa in concreto. E' una società
astratta. Il capitale, attraverso l'uso della forza-lavoro, produce la società
capitalistica. Ma quando si tratta di farsi carico dei costi che la conduzione di
una società comporta, pretende di ritirarsi nell'ambito del rapporto
contrattuale, considerando la sua società solo in astratto. E' da qui che
discende la società sussunta al capitale come società astratta.
15.4 La separazione fra lavoro e vita
Per questa via, il capitale ritiene di avere il diritto di "ignorare" i bisogni
sociali. Non è compito suo dare risposta al bisogno di dormire sotto un tetto,
di avere una istruzione adeguata, di disporre di ospedali dove curarsi e via
dicendo. Attraverso l'uso della forza-lavoro, il capitale ha un rapporto
complessivo con la società nel suo insieme. Succhia profitto da tutti i pori
della società. Ma non intende andare al di là dell'ambito contrattuale, appena
c'è da farsi carico degli oneri che l'ampiezza del rapporto comporta. Ed è
proprio per sfuggire a tali oneri che si prefigura una società astratta, definita
in termini puramente economici, che prescindono dai bisogni emergenti nella
vita sociale. Non è un caso che, nella discussione sulla fiscalizzazione degli
oneri sociali, gli industriali definiscono "impropri" gli oneri derivanti alle
aziende da attrezzature funzionali alla vita sociale del personale dipendente.
Non spetta alle aziende - dicono espressamente - provvedere, per esempio,
agli asili nido per i figli e le figlie di chi lavora in azienda.
139
A questo punto però sorge per l'ideologia della società astratta una
difficoltà. Un processo lavorativo che non abbia nulla a che vedere con la vita
quotidiana consente un uso della forza-lavoro adeguato al capitale. Ma,
perché i soggetti vendano l'uso della propria forza-lavoro manuale-
intellettuale, bisogna che esso abbia una qualche attinenza con la loro vita.
Bisogna che lavorare sia indispensabile per vivere. La separazione - da parte
del capitale - tra consumo della forza-lavoro e vita quotidiana per un verso
rende possibile un uso incondizionato della forza-lavoro, per l'altro rischia di
produrre una separazione - da parte del lavoratore o della lavoratrice - fra
lavoro e vita, gravida di conseguenze per il capitale.
La separazione - da parte del lavoratore o della lavoratrice - tra lavoro e
vita è la più grave minaccia che possa incombere sull'uso della forza-lavoro.
Questo uso è possibile nella misura in cui il lavoro, manuale e intellettuale, è
la fonte di sussistenza della persona, nella misura in cui cioè il lavoro è, per
la persona, legato alla vita.
Da questo punto di vista, la separazione - da parte di chi lavora - fra
lavoro e vita ha effetti opposti rispetto a quelli che ha la separazione da parte
del capitale. Questa tende a spogliare la forza-lavoro manuale-intellettuale
delle sue specificità esistenziali. Quella tende a liberare la persona dal ricatto
della sopravvivenza fisica 23.
La caduta del ricatto della sopravvivenza fisica non basta, da sola, a
liberare il lavoro ed a restituirlo alla persona come attività vitale. Non basta
ad aprire al soggetto una prospettiva di autorealizzazione esistenziale. I
termini del rapporto fra lavoro e sussistenza vanno al di là della disponibilità
dei mezzi materiali. Il lavoro si configura non soltanto come fonte di
sussistenza primaria, ma anche come fonte di sussistenza secondaria. Per
sussistenza primaria intendiamo la sopravvivenza fisica vera e propria. Per
sussistenza secondaria intendiamo invece quello spazio vitale che dà un
qualche significato al sopravvivere del corpo fisico. A questo ultimo livello, al
ricatto della sopravvivenza fisica subentra il ricatto della sopravvivenza
sociale. Chi non fa lavoro produttivo è tagliato fuori dai rapporti sociali.
Comunque, emerge la tendenza a rigettare il ricatto della sopravvivenza a
qualsiasi livello. Molti giovani e molte giovani si adattano a lavorare per
vivere, ma non accettano di vivere per lavorare. Su questo versante sono
23 Cfr F. Viola, Occupazione operaia e ristrutturazione tecnologica tra profitto e sopravvivenza, Libro
Secondo, Materiali di studio.
140
possibili fenomeni di rigidità della forza-lavoro, che si esprimono nel rifiuto dei
lavori più faticosi e meno gratificanti.
Tale rigetto significa che il tempo di lavoro viene, in fondo, vissuto da molti
giovani e da molte giovani come tempo di vita. Da questo punto di vista, la
separazione - da parte del capitale - fra lavoro e vita si rivela come una
mistificazione.
Vero è che l'ideologia della società astratta riesce a far sedimentare in
alcuni strati della coscienza collettiva la separazione fra lavoro e vita. Ma
resta il fatto che durante il lavoro la persona vive un tratto della sua vita. La
pretesa di fare astrazione, nell'uso della forza-lavoro, dalla concretezza
esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa è destinata dunque a
rimanere una utopia del capitale. In realtà, dentro l'uso della forza-lavoro
urgono e si affollano i problemi esistenziali. L'uso della forza-lavoro non potrà
mai realizzarsi, per così dire, allo stato puro. Sarà sempre, più o meno,
disturbato dalle interferenze esistenziali dei soggetti. Queste interferenze
aumentano o diminuiscono, in frequenza e in intensità, nella misura in cui
monta o rifluisce la soggettività sociale.
A prescindere dalle alterne vicende della contingenza politica, il dato
sociale di fondo, antitetico alla prospettiva della società astratta, è comunque
la realtà del tempo di lavoro come tempo di vita, in cui non possono essere
messi fra parentesi i bisogni quotidiani di questo o di quell'uomo particolare,
di questa o di quella particolare donna.
15.5 Bisogni quotidiani e valorizzazione capitalistica
L'insediamento dei bisogni quotidiani nei luoghi di lavoro introduce nel
processo di produzione, materiale e immateriale, una variabile che minaccia
la logica del sistema capitalistico. Rispetto a tale logica, i bisogni sono una
variabile del tutto anomala. Non a caso, la separazione fra tempo di lavoro e
tempo di non lavoro, all'interno della vita quotidiana, ha la funzione di tenere i
bisogni lontani dalla sfera lavorativa. In che cosa consiste questa anomalia?
Intanto, i bisogni non sono quantificabili, mentre nel processo di produzione
materiale e immateriale tutto deve poter essere calcolato sul piano
quantitativo. E poi, hanno un andamento assolutamente incompatibile con il
processo di valorizzazione del capitale, in quanto il soddisfacimento di un
bisogno crea un altro bisogno, più avanzato.
141
La presenza di fatto dei bisogni quotidiani nella sfera del lavoro costituisce
un vero e proprio scandalo. Ed hanno ragione, dal loro punto di vista, i
sacerdoti della società astratta a farne una questione di vita o di morte per il
sistema politico-economico. Il senso delle loro prediche televisive è, nella
sostanza, inequivocabile. O si riesce a depurare il sistema complessivo di
tutte le scorie introdotte dalla soggettività sociale o esso è destinato a
bloccarsi. O si libera il processo di valorizzazione del capitale da tutti i
condizionamenti imposti dalla concretezza esistenziale degli uomini e delle
donne, oppure l'accumulazione capitalistica è destinata ad arrestarsi. In altri
termini, o si riesce a concepire il sistema di produzione facendo astrazione
dalla vita quotidiana delle persone concrete o il capitalismo non ce la fa a
sopravvivere.
Ancora una volta, I'astrazione sociale come funzione della valorizzazione
economica e politica del capitale. La società astratta come società adeguata
al capitale.
142
143
Capitolo Sedicesimo
ASTRAZIONE SOCIALE E QUALITA’ DELLA VITA FRA AMBIENTE NATURALE E RISCHIO NUCLEARE
16.1 Organizzazione capitalistica della società e qualità della vita
Nei termini della ideologia borghese, I'organizzazione capitalistica della
società è finalizzata al continuo miglioramento della qualità della vita. Vanto
storico del capitalismo è di avere tratto intere popolazioni da condizioni di vita
arretrate. Quasi che, senza l'avvento del capitalismo, la storia si sarebbe
fermata.
In realtà, la qualità della vita è, in sé, una dimensione non solo estranea,
ma alternativa al processo di valorizzazione del capitale, che richiede un rito
quotidiano di sacrificio collettivo sull'altare della massi- mizzazione del
profitto.
In questo quadro, la valorizzazione capitalistica da una parte assume la
qualità della vita come fine istituzionale, dall'altra si afferma in alternativa al
processo attraverso il quale le donne e gli uomini si sforzano di realizzare
una vita vivibile.
E' il tipico contesto in cui opera l'astrazione sociale. L'operazione, di
stampo marcatamente ideologico, consiste in un insieme di provvedimenti
apparente- mente finalizzati al miglioramento della vita sociale e in realtà
funzionali alla valorizzazione del capitale. Fine ufficiale delI'organizzazione
capitalistica è I'ottimizza- zione della vita sociale. Ma tale obiettivo può
essere realizzato solo attraverso lo sviluppo economico. E, per favorire lo
sviluppo economico, occorre dare spazio alle esigenze della valorizzazione
capitalistica e sacrificare la qualità della vita sociale. Il cerchio si chiude. Per
realizzare la qualità della vita sociale, bisogna sacrificarla sull'altare della
valorizzazione del capitale.
Non solo dunque siamo espropriati delle finalità che presiedono alla nostra
esistenza, ma siamo anche costretti a vivere una vita senza qualità. Quel po'
di vita che si riesce a realizzare non passa attraverso l'organizzazione ca-
pitalistica della società, ma viene conquistato dalle donne e dagli uomini con
dure lotte. La qualità della vita non è infatti un fine dell'organizzazione
144
capitalistica, ma una esigenza sociale, che si traduce in atteggiamenti e in
comportamenti di difesa della condizione esistenziale. Siamo al paradosso.
Gli uomini e le donne sono costretti a difendere la propria vita dal potere
distruttivo dell'organizzazione che presiede alla società complessiva con il
compito di realizzare le finalità collettive.
Le donne e gli uomini devono difendere i propri spazi vitali dalla logica
produttivistica, che tende a permeare tutte le espressioni della collettività.
Devono difendere la propria integrità psico-fisica dai ritmi imposti dalla
razionalizzazione del processo di produzione.
Sentiamo di fare parte non di una comunità che si organizza e si attrezza
per rendere vivibili le nostre giornate e dare un senso alla nostra esistenza,
ma di un sistema che si struttura a prescindere dalla qualità del nostro
concreto vivere. Spendiamo le nostre energie non per contribuire a costruire
una convivenza sociale a misura del nostro essere, ma per tentare di
arginare l'arrogante invadenza della valorizzazione capitalistica, che tende a
risucchiare nel suo vortice l'unica vita che abbiamo da vivere 24.
16.2 Astrazione sociale e ambiente naturale
Gli uomini e le donne vivono in un ambiente naturale, oltre che umano.
Fare astrazione dalla concretezza esistenziale significa dunque anche non
tenere conto delle condizioni naturali in cui le donne e gli uomini vivono la
loro vita quotidiana.
L'indifferenza nei confronti della tutela dell'ambiente è un dato
significativo della società astratta. Il processo di valorizzazione del capitale
non sopporta vincoli di nessun genere. Il verde dei prati, I'azzurro dei mari, la
limpidezza dell'aria sono - per la "civiltà" capitalistica - valori arcaici, che non
24 A proposito di invadenza, ecco una perla della "civiltà" capitalistica. In anni non lontani, in alcune
fabbriche le porte dei servizi igienici erano a metà, in modo che gli operai potessero essere sorvegliati
nell'atto di soddisfare i bisogni fisiologici. E ci sono volute lotte per ottenere le porte intere.
Sul quotidiano «Il Giorno» del 5/6/1996 si dà notizia di uno sciopero nello stabilimento Zanussi di Solaro.
Motivo: la soppressione del jolly, cioè della figura che sostituisce chi deve allontanarsi dalla linea per un
bisogno fisiologico. Contro la riorganizzazione aziendale dei tempi delle pause, i dipendenti hanno
proclamato l'«autogestione delle pausa della pipì», obiettando che la pipì non può essere programmata. Un
comportamento giudicato grave dall'azienda, la quale ha replicato trattenendo un'ora di salario dalla busta
paga.
Quando occorre, il moderno capitalismo industriale ignora persino i limiti della decenza.
145
possono frenare la marcia dello sviluppo industriale. La società astratta
definisce, di fatto, la tutela dell'ambiente come sottocultura.
E' un dato rivelatore. L'ambiente è una componente importante della
condizione esistenziale. La rottura dell'equilibrio ecologico rappresenta una
pesante minaccia alla nostra esistenza. L'indifferenza della cultura
capitalistica nei confronti di tale minaccia rientra nella logica della società
astratta e porta ancora una volta in primo piano la divaricazione tra
massimizzazione del profitto e garanzia della qualità della vita. Tale
divaricazione spiega il fallimento sostanziale di tutte quelle politiche che si
basano sulla identificazione tra sviluppo capitalistico e crescita sociale.
In questo quadro, la questione ecologica non può essere definita in
termini trasversali rispetto alla finalizzazione della società complessiva. Non
si può sollevare la questione dell'ambiente senza mettere in discussione
l'organizzazione capitalistica della società. In una società finalizzata al
profitto non c'è spazio per la tutela delI'ambiente.
Tutto ciò non deve significare uno svilimento delle lotte in difesa
dell'ambiente all'interno della società sussunta al capitale. Difendere la
purezza dell'aria che respiriamo, battersi contro l'inquinamento delle acque
marine e fluviali, opporsi alla distruzione del verde ed alla devastazione del
territorio, protestare contro la distruzione della flora e della fauna significa
irrigidirsi sulla base materiale della qualità della vita. Significa contrapporre
alla voracità predatoria del capitale il nostro bisogno di vivere in modo
integrale il rapporto con la natura.
Le lotte ambientaliste vanno dunque lette in termini di rigidità ecologica.
Settori sempre più ampi della collettività fanno quadrato intorno agli elementi
primari del vivere quotidiano e si battono per sottrarli al dominio inquinante
della valorizzazione capitalistica.
Il capitalismo, irrompendo sulla scena sociale, sconvolge l'assetto naturale,
così come sconvolge l'assetto economico. Basta pensare a quel che
comporta, da tale punto di vista, un insediamento industriale in una zona
agricola. La salvaguardia dell'equilibrio ambientale non può quindi essere un
obiettivo prioritario all'interno di una logica produttivistica.
Il rischio di un movimento ambientalista che pretenda di non prendere
posizione nei confronti della logica capitalistica è quello di ridursi a
testimoniare una sensibilità nei confronti del problema dell'ambiente. E'
possibile individuare piccoli e grandi obiettivi ambientalisti solo se quadro di
riferimento della lotta è la contrapposizione fra sviluppo capitalistico e qualità
146
della vita. Possiamo sperare di guadagnarci spazi di verde solo se siamo
consapevoli del fatto che ciò significa togliere spazio alla logica del profitto.
La concretezza ambientale si afferma là dove viene sconfitta I'astrazione
capitalistica.
Il problema di fondo è quello di definire correttamente il rapporto fra due
versanti di lotta ugualmente importanti. Se gli uomini e le donne non
respirano aria pulita, si ammalano. Se vivono in una società fondata sullo
sfruttamento, non possono realizzare le loro potenzialità. Le donne e gli
uomini hanno dunque diritto a vivere in un ambiente naturale non inquinato e
in un ambiente sociale finalizzato alla loro realizzazione in quanto esseri
umani.
16.3 Astrazione sociale e rischio nucleare
L'indifferenza nei confronti del rischio nucleare rappresenta un punto alto
dell'astrazione sociale. Parliamo del rischio derivante dall'uso civile e, ancora
più, dall'uso militare dell'energia nucleare.
Diciamo subito che la semplice possibilità di un uso militare dell'energia
nucleare, comportando l'annientamento del genere umano, ha sulla
coscienza collettiva un impatto così forte da escludere ogni pubblica
controversia. Nemmeno il più fanatico militarista oserebbe presentarsi in
pubblico come sostenitore dell'uso bellico del nucleare. D'altra parte, sul
nucleare militare si impianta un sistema di potere e di interessi che non
indietreggia nemmeno di fronte ad una prospettiva così catastrofica.
Tale sistema, per continuare ad esistere, deve produrre il nucleare militare.
Ora, in genere, si produce per l'uso. Qui invece si produce qualcosa che si
giura di non volere usare. Come è dunque possibile varare un piano di
ingente entità sulla base di una così palese contraddizione? Non si può dire
a milioni di donne e di uomini: dovete rinunciare a qualcosa di necessario a
favore della produzione di qualcosa che non potrà mai essere usato.
Quando il riferimento alla concretezza mette a rischio il controllo
istituzionale di una situazione o di una prospettiva di interesse collettivo, il
sistema di potere ricorre inevitabilmente all'astrazione. L'uso bellico del
nucleare comporta l'esplosione atomica e quindi l'annientamento del genere
umano. Questo è I'uso concreto del nucleare militare, che però non può
essere esplicitamente richiamato per renderne legittima la produzione. Non
potendosi produrre per un uso concreto e non potendosi produrre per un
147
non-uso, si produce per un uso astratto. La produzione del nucleare militare
è necessaria - si dice - per scoraggiare il nemico ad usarlo. In altri termini, si
deve produrre nucleare militare come deterrente, per rendere più improbabile
il suo uso da parte del nemico.
La deterrenza nucleare è dunque un supporto di astrazione ad un sistema
di potere che pretende di tenere in piedi un apparato di distruzione globale, a
prescindere dalla minaccia di morte sospesa sul futuro delI'umanità.
Da qualsiasi lato lo si consideri, il nucleare militare ci si presenta come
I'esasperazione di una logica che, a forza di fare astrazione dagli uomini e
dalle donne in carne e ossa, può condurre alla loro distruzione. Il sistema di
astrazione non mette qui in pericolo la qualità della vita, ma la vita in quanto
tale.
Altri sono i termini della questione del nucleare civile. Innanzi tutto, il
nucleare civile ha - rispetto al nucleare militare - un impatto diverso sulla
coscienza collettiva. Non è un caso che per un certo tempo le lotte contro il
nucleare militare vengono condotte all'insegna dell'«uso civile del nucleare».
Ciò significa che il potere distruttivo viene, in una prima fase, assegnato non
al nucleare in sé, ma al suo uso bellico. E si capisce perché. La collettività
per lungo tempo recepisce Hiroshima come tragedia prodotta dalla
combinazione fra guerra ed energia atomica. Nella memoria di milioni di
uomini e di donne è impressa, come simbolo di devastazione e di morte, il
fungo atomico. In questo senso, la bomba atomica richiama scenari
tragicamente spettacolari, che colpiscono direttamente l'immaginazione
collettiva.
Gli effetti inquinanti che ha sull'ambiente una centrale nucleare non sono
invece visibili. Possono essere rilevati soltanto attraverso gli strumenti
scientifici. Sono quindi in mano alla consorteria delle centrali, che li può
gestire e manipolare a vantaggio dei suoi interessi.
In queste condizioni, il nucleare civile passa inosservato, finché non
emerge il punto di vista ambientalista. E' la cultura della tutela dell'ambiente
che, nelle sue svariate espressioni, solleva la questione delle centrali
nucleari. Ma tale cultura stenta a penetrare nella coscienza collettiva,
disponibile alla ricezione dello spettro del fungo atomico, ma scarsamente
recettiva nei confronti di discorsi di sapore scientifico sulla nocività di
"pacifiche" centrali nucleari.
E' I'incidente di Chernobyl (Unione Sovietica, aprile 1986) che muta i
termini della percezione collettiva. La nube che attraversa i confini delle
148
nazioni e rende nocivi il latte e l'insalata diventa il simbolo del rischio
connesso al nucleare civile. Dalla nube non ci si può difendere con la fuga. Si
esce sulla strada. Tutto normale. E invece si sa che sospeso per aria c'è uno
spettro di morte. L'invisibilità si traduce in una spettralità che gela.
La nuova sensibilità collettiva allarma il sistema di interessi sorto attorno
alle centrali nucleari. La difesa del nucleare civile deve, rispetto al nucleare
militare, cambiare registro. Si dice che i missili vengono prodotti ed installati
non per essere usati, ma per scoraggiare il nemico ad usare i propri. Le
centrali vengono invece costruite per essere usate. La controversia si sposta
quindi sulle conseguenze dell'uso. Né la nocività del nucleare in sé, né il
rischio di incidenti possono essere negati. E allora, ancora una volta, scatta
la dinamica dell'astrazione. Da una parte si riconosce una certa nocività del
nucleare civile, dall'altra si tende a farla apparire socialmente accettabile,
attraverso un artificioso parallelismo con altre nocività presenti nella vita
sociale. Il nucleare è nocivo? E allora? Anche il fumo è nocivo. Eppure si
fuma. Analogo giro vizioso per il rischio di incidenti. Certo, una quota di
rischio è ineliminabile. E allora? Anche viaggiare in auto o in aereo comporta
rischi. Eppure si va in auto e in aereo.
E' stato più volte spiegato che un incidente nucleare ha conseguenze
particolari, che si ripercuotono sulle future generazioni. Ma, a parte ciò, il
ragionamento a cui si ricorre in difesa delle centrali nucleari è molto strano e
rivela involontariamente le vere finalità dello sviluppo capitalistico. Se fosse
finalizzato alla realizzazione esistenziale delle persone concrete, lo sviluppo
dovrebbe tradursi in un continuo migliorarnento della qualità della vita. Ma
ecco che, invece di cercare di eliminare o di diminuire la nocività ed i rischi
esistenti, si pretende di aggiungerne altri. E tutto ciò, si badi, in nome del
bene comune. Come se la vita non fosse il bene per eccellenza. Viene in
mente l'osservazione di una donna che, chiamata a pronunciarsi in
occasione di un sondaggio, così risponde: «Non mi importa che con le
centrali nucleari mi danno l'elettricità, se poi mi ammalo di cancro». La forza
della concretezza che si sprigiona da questa risposta smonta, di getto,
I'impianto dell'astrazione. Questa donna non è stata informata sulle energie
alternative, che sono al centro della battaglia arnbientalista. Si trova quindi
davanti ad una falsa scelta: o il nucleare o il ritorno al lume di candela.
Eppure non arretra. Sceglie la vita al lume di candela. Con questa scelta
provocatoria la concretezza riesce a sventare una sottile astuzia
dell'astrazione sociale.
149
La resistenza al nucleare deve fare i conti, nella coscienza collettiva, con i
mille ricatti del cosiddetto progresso. In queste condizioni, può vincere solo
se riesce a farsi forte di una visione alternativa della società, intesa come
comunità umana, che tende alla realizzazione esistenziale degli uomini e
delle donne in carne e ossa.
150
151
Capitolo Diciassettesimo
ASTRAZIONE POLITICA E DOMANDA SOCIALE
17.1 L'astrazione come funzione della politica
Nella società sussunta al capitale l'astrazione è la funzione costitutiva della
politica istituzionale. Una politica che non si fa carico, in una qualche misura
e in forma più o meno mascherata, di tale funzione, mettendosi in sintonia
direttamente con i bisogni sociali, non ha spazio nel sistema istituzionale, a
prescindere da situazioni di particolari rapporti di forza.
In questo quadro, le forze politiche nate per dare voce alle classi
subalterne sono chiamate a risolvere, in un modo o nell'altro, il conflitto fra la
loro funzione storica e la funzione che assumono nel sistema istituzionale.
Una contraddizione particolare vivono i sindacati delle forze di lavoro. Il
fine istituzionale di tali sindacati è quello di difendere gli interessi della forza-
lavoro. Ora, gli interessi della forza-lavoro sono fortemente radicati nei
bisogni sociali. Non è possibile separare la forza-lavoro manuale-intellettuale
dal soggetto che ne è il portatore. I rappresentanti del capitale vogliono
invece avere a che fare soltanto con la forza-lavoro astratta. E pretendono di
potere prescindere dal fatto che la forza-lavoro manuale-intellettuale è
incarnata in una persona concreta, cioè in un soggetto portatore di bisogni.
Così i sindacati si trovano stretti fra due ruoli. Da un lato il ruolo
istituzionale di rappresentanti della forza-lavoro, cioè della faccia astratta
dell'individuo. Dall'altra il ruolo storico di rappresentanti dei lavoratori e delle
lavoratrici, cioè della faccia concreta della persona che lavora. Nel bene e nel
male, i sindacati sono costretti a sporcarsi continuamente le mani con i
bisogni sociali. A differenza dei partiti, non possono confinarsi nella sfera
dell'astrazione politica. In questo senso, vivono sulla loro pelle - a volte con
gravi crisi di rappresentanza - la condanna ad operare con un occhio alla loro
funzione istituzionale e l'altro alla loro funzione sociale.
152
17.2 Astrazione politica e bisogni sociali
La chiusura ai bisogni sociali si traduce in astrazione politica. L'unica via
per evitare l'impatto delle strutture istituzionali della società astratta con la
domanda sociale è quella di tessere una rete di provvedimenti legislativi che
tendano a chiudere i bisogni sociali nella gabbia delle compatibilità imposte
dal processo di valorizzazione del capitale. Il che in pratica si traduce nella
loro esclusione dalla scena politica. D'altra parte, un sisterna politico non
riesce a tenere chiuso a lungo l'orizzonte dei bisogni sociali, se non mantiene
- al suo interno - un adeguato livello di astrazione. Un sistema politico in cui
la realtà sociale ha peso in tutte le espressioni del governo della cosa
pubblica difficilmente può funzionare come sistema di astrazione.
Un alto tasso di astrazione politica presente nella società sussunta al
capitale non è dunque dovuto - come si potrebbe desumere da certe analisi -
ad un difetto "culturale" di un particolare quadro politico. L'astrazione politica
è il connotato strutturale centrale di un sistema che riesce a funzionare
soltanto "ignorando" i bisogni sociali. Nella società sussunta al capitale
l'operare politico è astratto non perché non riesce a venire al "dunque", ma
perché il "dunque" del sistema capitalistico sta nel non potere dare risposta
alla massa di bisogni che si alza dalla collettività come una marea montante.
Non è che nella società astratta non si operi a livello politico. Anzi, c'è un
operare estremamente laborioso e faticoso, volto a ritessere continuamente
le maglie rotte della rete di astrazione che protegge il processo di
valorizzazione del capitale dall'assalto dei bisogni sociali. Il quadro politico
funziona come organizzazione del livello di astrazione di cui necessita il
sistema per escludere i bisogni sociali. Le forze politiche dominanti non
operano per mantenere i bisogni entro il quadro istituzionale, secondo la loro
funzione ufficiale, ma semplicemente per espellerli dalla prospettiva sociale.
L'astrazione politica per un verso discende dalla regolazione capitalistica
del sistema, per l'altro rende possibile tale regolazione. Quanto più i bisogni
sociali acquistano forza, tanto più il capitale è costretto a regolare il sistema
politico in senso astratto.
17.3 L'astrazione come sistema di elusione della domanda sociale
La negazione dei bisogni sociali è effetto e insieme funzione del sisterna di
astrazione. Varie strutture sono chiamate a funzionare in modo da sciogliere,
153
in tutte le sedi della società complessiva, ogni coagulo di domanda sociale.
E' un'opera - minuta, sotterranea, ma sistematica e implacabile - di
prosciugamento del sociale incompatibile con la valorizzazione economica e
politica del capitale. La funzione ufficiale di queste strutture è quella di
produrre ed organizzare il soddisfacimento dei bisogni sociali. Ma la loro
funzione reale è quella di atrofizzare sul nascere ogni forma di domanda che
cerca di farsi strada nella società-collettività.
In quanto sistema di indifferenza sociale, la società astratta si qualifica per
la sua distanza stellare dai problemi che insorgono nella vita quotidiana. Di
fronte a tali problemi, le donne e gli uomini vengono lasciati soli a se stessi.
Chi ha bisogno di un intervento immediato non riesce a trovare la strada che
conduce alla soluzione sociale del suo problema. In questo ambito, sociale
diventa sinonimo di lento e inefficace. Quel che è dovuto è, certo, dovuto. Ma
solo chi può aspettare riesce ad ottenere, nella migliore delle ipotesi, quel
che gli spetta.
I tempi del sociale sono lunghi. Le urgenze non rientrano nella dimensione
che attiene ai bisogni della gente. Scattano invece quando si tratta di
rispondere alle esigenze del capitale. Provate a scordarvi di pagare, alla
scadenza, una cambiale firmata per l'acquisto dell'auto. L'ufficiale giudiziario
arriva subito a casa vostra a pignorarvi i mobili. Si tratta di due casi che ci
danno, emblematicamente, il termometro delle diverse "sensibilità" della
società astratta.
La società sussunta al capitale è "insensibile" nei confronti del bisogni
primari di un uomo o di una donna. Ed è invece "sensibilissima" nei confronti
di una cambiale scaduta. Lì si dimostra lenta e inefficiente. Qui rapida ed
efficiente. Una spiegazione c'è. Lì è in gioco un valore concreto. Qui c'è un
valore astratto da difendere 25.
La società astratta è come avvolta da una coltre di nebbia, che rende il
sistema istituzionale poco visibile per chi non è addentro alle sue segrete
stanze. E' una sorta di società spettrale. Una idea di tale spettralità ci viene
data da Kafka ne Il castello. La situazione vissuta dal protagonista, che non
25 I giornali di qualche anno fa riportano un discorso di un capo del govemo italiano (non importa chi sia),
quanto mai sintomatico. Dice, in sostanza, quel presidente del consiglio: I'Italia è arretrata e va modernizzata.
Uno pensa subito agli ospeali che non funzionano, alla scuola che fornisce una cultura vecchia. Macché. Il
capo del govemo pensa ad altro. Le nostre aziende, dice, sono efficienti. Ma i prodotti, quando escono dalle
fabbriche, vanno incontro a tutta una serie di difficoltà che ne intralciano il cammino. Per quel presidente del
consiglio, I'ltalia è un paese abitato da prodotti, che chiedono di potere circolare più speditamente.
154
riesce a mettersi in contatto diretto con i signori del castello, potrebbe
benissimo rappresentare la condizione degli uomini e delle donne, che non
riescono a portare i bisogni dentro le istituzioni della società astratta. I
soggetti, pressati dall'urgenza dei loro problemi, vanno disperatamente alla
ricerca di interlocutori dentro la fortezza dell'astrazione sociale. Percorrono
lunghi corridoi, bussano alle porte. Il competente sta sempre "di là". E
quando arrivano all'ultima stanza, si sentono rispondere che il competente
non c'è.
Là dove, malgrado tutto, i bisogni sociali riescono ad emergere e
cominciano a premere sulla sfera politica, la funzione di quelle che possiamo
chiamare «le strutture politiche del sistema di astrazione sociale» è di
eludere la domanda sociale. E quando ogni tentativo di elusione riesce vano,
allora si tratterà di svuotare la domanda sociale non solo di ogni contenuto
antagonista, ma addirittura di ogni contenuto che dia risposta al bisogno che
l'ha originata. In questo caso, la risposta alla domanda sociale viene
concepita in termini non di soddisfacimento, ma di controllo. Quando poi la
domanda sociale diventa ingovernabile, allora la risposta viene organizzata in
termini di repressione manifesta.
Dal punto di vista del suo funzionamento, il sistema di astrazione sociale è
un sistema "parassita", nel senso che, per eludere e negare la domanda
sociale, si avvale delle strutture ufficialmente addette al soddisfacimento dei
bisogni. Perciò le istituzioni del sistema di astrazione sociale sono invisibili.
Vanno individuate tra le pieghe del sistema istituzionale ufficiale, là dove gli
interessi della classe dominante si organizzano per bloccare l'emergere dei
bisogni sociali. Si tratta delle forme più svariate di reazione ai bisogni che
emergono nella collettività, tutte riconducibili ad un informale sistema di
elusione della domanda sociale.
In sostanza, la struttura politica, di fronte all'emergere della domanda
sociale, non si organizza per soddisfarla, anche soltanto al fine di autocon-
servarsi, ma impiega tutte le sue energie per bloccarla, eluderla, svuotarla.
Sotto questo aspetto - se ci è consentito un accostarnento irriverente - il
comportamento del sistema politico nella società astratta fa pensare ad una
squadra di calcio che spende tutte le sue energie non per fare gioco, ma per
contrastare il gioco della squadra avversaria.
E', questo, un aspetto che concorre a definire la società astratta come
sistema di elusione della domanda sociale. In generale, il sistema capita-
listico opera a due livelli. Ad un primo livello, si definisce come apparato
155
politico-economico che, di fronte all'insorgere della domanda sociale, è in
grado di produrre risposte di classe. Risposte che, senza soddisfare in senso
pieno la domanda (il soddisfarla in senso pieno equivarrebbe per la struttura
sociale a negarsi come sistema capitalistico), la inquadrano in una dinamica
sociale complessiva, ove ogni classe ha "ciò che le spetta". In un certo
senso, la risposta capitalistica alla domanda sociale sta all'interno di una
logica che tende a ricostituire il sistema di classi ad uno stadio più avanzato.
Ad un secondo livello, il sistema capitalistico dimostra invece una vo-
cazione tenace a definirsi come rozzo apparato di decapitazione politica del
sociale. Questa vocazione le deriva da una cronica incapacità di stare dietro
ad una sempre più complessa e accelerata dinamica sociale. Incapacità che
si traduce in una perenne "nostalgia del tempo che fu". In pratica, invece di
tendere a ricomporre il potere di classe al nuovo stadio che la società
complessiva ha ormai acquisito, si dà un grande da fare per tentare di
retrodatare il presente, per cercare cioè di riconquistare all'indietro il perduto
equilibrio. Si può dire che la domanda sociale, spingendo in avanti il sistema
politico, lo costringe a ripercorrere a ritroso, con grande sforzo, il tratto di
strada percorso per forza di inerzia. Molti dei provvedimenti legislativi hanno
questo carattere retrogrado, di recupero di posizioni superate dai tempi.
Nella situazione italiana, alla quale in particolare ci riferiamo, esemplare è,
a questo proposito, il caso della scuola. Certi settori della sinistra hanno
lavorato sulla base dell'ipotesi che il sistema di potere cercasse, attraverso
una serie di riforme, di ricomporsi ad un nuovo stadio. Nei tempi lunghi,
invece, la reazione del sistema è stata ben altra. Dopo avere eluso, per anni,
la domanda sociale per la scuola, il sistema di interessi dominanti tende a
ricomporsi al livello pre-sessantotto. Basta pensare ai rigurgiti dell'ideologia
della selezione, che fanno piazza pulita degli stessi fermenti riformistici e si
attestano su un modello chiuso di scuola, in ritardo rispetto alle stesse
esigenze di una società capitalistica avanzata.
17.4 La domanda sociale come prodotto dell'astrazione politica
Fin qui abbiamo considerato la domanda sociale come polo di concretezza
della dinamica sociale. Essa è però anche un prodotto dell'astrazione
politica.
La domanda sociale data non è, di per sé, espressione dei bisogni degli
uomini e delle donne in carne e ossa. Non è, di per sé, espressione della
156
concretezza sociale. Attraverso un processo di lenta sedimentazione, la
società astratta penetra nella realtà sociale, penetra nella coscienza
collettiva. La domanda sociale che viene dagli uomini e dalle donne è quindi,
in certi casi, una domanda stravolta, nel senso che non va in direzione della
realizzazione esistenziale delle persone concrete.
La domanda sociale è sempre, ovviamente, un dato significativo per la
piena comprensione della realtà sociale e della sua dinamica. Ma non
sempre può essere assunta come espressione della concretezza
esistenziale. Talvolta non è che il riflesso della società-struttura sulla
società-collettività. Occorre quindi cercare di individuare e definire lo scarto
che c'è fra la domanda sociale data ed una qualsiasi prospettiva di
realizzazione esistenziale delle persone concrete. Ora, l'individuazione di
questo scarto non è possibile soltanto per via teorica. E' indispensabile
avviare un processo di attivazione dei soggetti, in modo da rendere possibile
I'emergere dei bisogni sociali concreti.
L'attivazione dei soggetti è indispensabile anche soltanto a fini di
conoscenza. La domanda che proviene dai soggetti si presenta talvolta come
una sorta di specchio deformante della società concreta. Per tentare di
conoscere la domanda sociale come espressione dei bisogni reali, occorre
smuoverla, farla uscire dalla condizione di stato, per farla diventare processo.
Soltanto una realtà sociale attivata può esprimere bisogni autentici, che
vanno in direzione della realizzazione esistenziale dei soggetti concreti.
La via per la quale l'astrazione penetra nel corpo vivo della domanda
sociale è l’assimilazione, da parte dei soggetti, dei valori della società
astratta. Per esempio, l’assimilazione dell'efficienza produttiva come valore
sociale tende a frenare la domanda di qualità della vita ed a renderla
compatibile con le esigenze del sistema di produzione.
L'assimilazione dei valori della società astratta induce i soggetti a
ragionare non nei termini del soddisfacimento dei bisogni collettivi, ma nei
termini della logica che è stata messa in atto per eluderli. Per esemplificare,
si sente spesso dire per la strada che non bisogna aumentare le retribuzioni,
perché un elevato costo del lavoro manda in rovina le aziende, con gravi
conseguenze per l'occupazione. Ora, questo è proprio il ragionamento
portato avanti dalle forze imprenditoriali. In questo caso quindi i soggetti
fanno propria la logica della società astratta e stravolgono i termini della
domanda sociale.
157
Da questo quadro emerge che la società astratta, invece di approntare
istituzioni politiche adeguate alla domanda sociale, tende a precostituirsi una
domanda sociale adeguata alle istituzioni politiche del sistema capitalistico.
158
159
18 Sezione Prima - Conclusione
L'ASTRAZIONE SOCIALE COME SISTEMA
A conclusione della Parte Prima, dopo avere seguito gli itinerari
dell'indifferenza nelle varie sfere della vita sociale, è opportuno cercare di
prendere in considerazione la dinamica complessiva dell'astrazione sociale.
18.1 L'astrazione come sistema di indifferenza sociale
La società sussunta al capitale, per potere dare corso agli interessi che si
formano in sede di produzione, deve fare astrazione dai bisogni che
emergono nella società, deve "ignorare" la domanda sociale. Deve definirsi
come sistema di astrazione sociale, come astrazione sociale eretta a
sistema. Deve, in pratica, funzionare come sistema di indifferenza sociale,
come sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli uomini e delle
donne in carne e ossa.
Il sistema di indifferenza sociale non può ovviamente presentarsi in quanto
espressione di interessi di classe, in quanto esito della volontà politica della
classe dominante. Occorre che l'esclusione dei bisogni dall'orizzonte politico
si presenti come indifferenza oggettiva. Occorre cioè che l'indifferenza del
sistema sia strutturata in modo da presentarsi come conseguenza oggettiva
dell'organizzazione sociale. Funzione del sistema di indifferenza sociale è
quella di produrre condizioni, materiali e immateriali, in cui la domanda
sociale sia impossibilitata a formarsi.
18.2 L'astrazione sociale come sistema di formalizzazione
Le involuzioni delle risposte istituzionali alla domanda sociale creano nella
società sussunta al capitale delle strozzature che ricacciano indietro i bisogni
sociali, producendo nei soggetti un senso di impotenza ed uno stato di
disperazione diffusa. Per tutto ciò, il sistema istituzionale centrale non
potrebbe a lungo funzionare se agli altri livelli la domanda sociale avesse
modo di formarsi e di espandersi. Il coperchio istituzionale sarebbe destinato
160
a saltare, in tempi più o meno lunghi, se i bisogni sociali avessero nella
società spazio per fermentare. Da qui l'esigenza di un apparato di
contenimento della domanda sociale.
Tale apparato opera soprattutto in termini di formalizzazione. Intendiamo
per formalizzazione l'insieme di atti formali, attraverso i quali la volontà della
classe dominante viene codificata e tradotta in regole di comportamento
economico e sociale per le classi subalterne. Attraverso questi atti formali si
conta di rapportare il sistema sociale al sistema politico- economico, cioè - in
sostanza - alle esigenze della valorizzazione capitalistica. Si tratta,
ovviamente, di una operazione di lunga durata, che richiede continui
aggiornamenti e scatena una infinità di tensioni, di conflitti e di scontri.
In pratica, il sistema di formalizzazione consiste in un quadro di
"provvedimenti", in cui la realtà sociale è ridotta a formule economico-
giuridiche. La funzione del sistema di formalizzazione è di ingabbiare i
bisogni sociali in una fitta rete di vincoli giuridico-formali. I "provvedimenti"
sono ufficialmente concepiti come "risposte" alla domanda sociale. In realtà
ogni "risposta" è un atto di normalizzazione, cioè un atto che tende a
ricondurre alla norma ogni bisogno che emerge nella collettività. A tal fine, il
bisogno sociale incompatibile con il sistema politico-economico viene
sostanzialmente definito come un pericolo incombente sulla collettività, dal
quale occorre difendersi attraverso misure adeguate.
In apparenza, dunque, la formalizzazione serve a dare risposta - a livello
giuridico-formale - alla domanda sociale. In realtà, serve ad approntare un
sistema formale di difesa degli interessi della classe dominante nei confronti
della pressione dei bisogni sociali.
Perché il sistema economico capitalistico funzioni, il livello di formaliz-
zazione del sistema politico deve essere tale da prevedere I'elisione dei
bisogni sociali antagonisti, cioè di quei bisogni che possono trovare risposta
soltanto in un mutamento radicale del sistema. In questo senso, la
formalizzazione deve introdurre nel sistema politico tutta l'astrazione
necessaria perché venga evitato l'impatto tra bisogni sociali e interessi della
classe dominante. Serve cioè a creare un clima asettico, neutrale, attorno al
processo complessivo di valorizzazione capitalistica.
Ma quando, malgrado tutto, i bisogni sociali, ignorati nella sfera formale,
irrompono nella società-collettività ed impongono la loro realtà, il sistema di
formalizzazione salta. In tale situazione di rottura politica, i bisogni sociali
vengono percepiti da masse sempre più estese di persone come reali, in
161
quanto la loro realtà è più forte dell'astrazione prodotta dal sistema
politico-economico. In altri termini, I'astrazione prodotta non è più sufficiente
a mettere fra parentesi i bisogni sociali antagonisti. Il sistema di indifferenza
sociale non risulta adeguato ad "ignorare" una realtà sociale che impone la
sua presenza.
A questo punto, gli interessi minacciati vanno alla ricerca di un più alto
livello di formalizzazione, in cui sia ricostituita l'efficacia dell'indifferenza
sociale. Il sistema politico-economico deve approntare un più incisivo
apparato di astrazione, deve disegnare una società più astratta, dove i
privilegi possano essere ripristinati ad altro livello e il processo complessivo
di valorizzazione capitalistica possa riprendere a funzionare liberamente,
senza doversi inceppare, in presenza di pressioni della domanda sociale. Il
processo di valorizzazione economica e politica del capitale ha bisogno di
funzionare in un vuoto di domanda sociale. Ha cioè bisogno di essere
protetto da una cortina di astrazione che eviti di dovere fare continuamente i
conti con i bisogni reali degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Il processo di valorizzazione economica e politica del capitale è un
fenomeno complesso. Esso da un lato ha bisogno di essere alimentato dalle
persone concrete, dall'altro ha bisogno di funzionare al di sopra della
collettività. In tal senso, ottimale per il sistema politico-economico sarebbe
una situazione in cui potere fare uso della società concreta avendo a che
fare soltanto con la società astratta. Quando la società concreta ha un
brusco salto di livello ed invade il processo di valorizzazione del capitale,
inceppandolo, occorre o riportare la collettività al livello precedente o alzare
di livello la valorizzazione del capitale. Le due "misure" non sono alternative.
Anzi, quasi sempre si intrecciano. Da un lato, attraverso provvedimenti
restrittivi e repressivi, si opera una compressione dei bisogni sociali, dall'altro
si sposta la valorizzazione del capitale ad un livello più generale 26.
18.3 L'astrazione sociale come sistema di dominio
L'astrazione sociale si definisce, in sé, come sistema di dominio. Mettere
fra parentesi la condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e
ossa da un lato presuppone l'esercizio del potere, dall'altro è un presupposto
26 Nel caso italiano, rientrano in questo quadro le lotte sociali che si sono sviluppate a partire dal 1968 e
le risposte del capitale in termini di ristrutturazione.
162
per imporre un dominio sistematico. Nel primo caso I'astrazione viene
considerata come un insieme di atti di espropriazione, che sono possibili in
quanto possono appoggiarsi ad una struttura di potere. Nel secondo caso
viene considerata come un sistema di emarginazione della concretezza
sociale. Emarginazione che è indispensabile per la costruzione di un
sistema di dominio. A questo livello, siamo però ancora ai connotati di fondo
dell'astrazione in quanto dominio. A partire da qui, bisogna entrare nel merito
dello specifico funzionamento del dominio fondato sull'astrazione sociale.
L'astrazione sociale tende a distaccare i soggetti dalla propria concretezza
esistenziale. Quadro di riferimento degli atteggiamenti e dei comportamenti
delle persone direttamente investite dall'astrazione è non la propria
specificità esistenziale, ma il sistema di valori astratti. E' da tale sistema che
si fa discendere la soluzione dei problemi esistenziali.
Per questa via, la società astratta produce un quadro di soluzioni tecniche
da applicare alla vita pratica. Il sistema di astrazione da una parte,
"ignorando" la concretezza sociale, mette in difficoltà l'esistenza degli uomini
e delle donne in carne e ossa, dall'altra pretende di fornire le soluzioni ai
problemi che esso stesso provoca. Si viene così a creare un cortocircuito
sociale, nel senso che le "soluzioni" applicate ai problemi - operando
all'interno della logica della società astratta - non sono che ulteriori elisioni
della realtà delle persone. Le "soluzioni" tendono infatti non ad eliminare le
difficoltà che incontrano le persone nel dare corso alla loro concretezza, ma
a sciogliere i vincoli che intralciano il processo di valorizzazione economica e
politica del capitale. In tal senso, si tende a "risolvere" le difficoltà ripulendo
la società-collettività delle scorie di realtà esistenziale che il sistema di
astrazione non è riuscito ad "ignorare".
In questo modello, le difficoltà esistenziali che emergono nella vita sociale
vengono addebitate non ad un eccesso, ma ad un difetto di astrazione. Non
è la scarsità di riferimenti alla concretezza del vivere quotidiano, ma - al
contrario - è il continuo riemergere di istanze di concretezza a rendere
difficoltoso il procedere della vita sociale.
Il dominio sul sociale si attua dunque in termini di svuotamento della vita
sociale di qualsiasi riferimento allo specifco esistenziale delle persone
concrete. L'astrazione si fa motore della vita sociale, la quale, per girare
liberamente su se stessa, richiede che ogni circuito personale sia ripulito dei
residui di concretezza esistenziale.
163
La vita sociale procede perciò a sbalzi. Tutte le volte che la concretezza
esistenziale emerge, provoca un sobbalzo alla società astratta. E allora il
problema diventa quello di andare a ricercare i punti di attrito, per rimuovere
gli "ostacoli" che non consentono alla vita sociale di girare completamente a
vuoto.
18.4 Sistema di astrazione e bisogni sociali
Vediamo adesso come il sistema di astrazione si rapporta ai bisogni
sociali. In primo luogo, i bisogni sociali vengono definiti dal punto di vista
della classe dominante, vengono depurati di tutta la loro carica di impellenza
e di antagonismo e, così sterilizzati, vengono introdotti - una variabile fra le
tante - nel "quadro delle compatibilità".
Per questa via, si crea una falsa alternativa fra bisogni sociali ed interessi
generali. Questa operazione viene messa in atto sulla base di una inversione
ideologica, cioè di un rovesciamento artificioso della realtà. I bisogni sociali
vengono definiti in termini di interessi individualistici, egoistici. E invece le
sordide cupidigie della classe dominante vengono definite in termini di
interessi generali. Ovviamente, posta così la questione, i bisogni "egoistici"
devono cedere il passo agli interessi "generali". Il rovesciamento è compiuto.
Non sono i bisogni sociali ad essere affermati, a prescindere dagli interessi di
pochi. Sono gli interessi di pochi ad essere imposti, attraverso l'elisione dei
bisogni sociali.
I bisogni sociali subiscono così un trattamento di astrazione. Le
compatibilità economiche sono congegnate in modo opportuno. Tutto il
sistema si regge a condizione che si mettano fra parentesi i bisogni sociali, a
favore degli interessi della classe dominante. L'esito di questa sottile
operazione ideologica è il disegno di un sistema politico-economico astratto,
di un sistema cioè che funziona solo nella misura in cui riesce a fare
astrazione dai bisogni sociali.
E' un punto decisivo. I bisogni sociali finiscono per configurarsi come
ostacoli al funzionamento del sistema politico-economico. Si ha qui una sorta
di cortocircuito ideologico. Il sistema politico-economico viene, sulla carta,
presentato come un apparato concepito per dare risposta ai bisogni sociali.
Senonché, per potere assolvere questa funzione, è costretto ad escludere
proprio quei bisogni che, almeno ufficialmente, ha il compito di soddisfare. Si
sfiora il paradosso. Le finalità pubbliche vengono additate come ostacoli alla
164
loro stessa realizzazione. Come dire che il miglior modo di realizzare uno
scopo è quello di eliminarlo. La società-struttura si realizza nella negazione
dei suoi stessi presupposti. Si realizza come società astratta, cioè come
società oggettivamente indifferente ai contenuti della vita sociale e
disponibile nei confronti delle esigenze della valorizzazione economica e
politica del capitale. Sull'altro versante, la società-collettività si definisce
invece come società espropriata e subalterna.
Le istituzioni politiche e sociali - in quanto articolazioni del sistema di
astrazione - sono chiamate ad assolvere una funzione particolare. Devono
realizzare I'astrazione del sistema, farla passare per il corpo sociale, farla
diventare l'anima della società complessiva. La loro funzione pubblica è non
di dare risposta concreta ai bisogni sociali, ma di vanificarli, disperdendoli in
una serie interminabile di piccoli atti insignificanti, mistificandoli in una serie
di riconoscimenti formali e di disconoscimenti sostanziali.
C'è in questo modo di funzionare delle istituzioni pubbliche una perfida
volontà politica, che tende a fare apparire come pretestuosi i bisogni sociali,
al fine di poterli eliminare come superflui. Il grado di funzionamento del
sistema di astrazione può essere misurato sulla base dei bisogni sociali che
riesce a rendere superflui.
Prendiamo il bisogno che ha la gente di potere decidere direttamente le
forme ed i contenuti della vita sociale. Nell'ambito del sistema di astrazione
sociale, alcune istituzioni vengono chiamate non a realizzare, ma a vanificare
questo bisogno, per esempio attraverso l'introduzione di organi collegiali, che
si presentano formalmente come strumenti di democrazia partecipativa. Se si
va a guardare dentro il funzionamento di tali organi, ci si accorge che sono
congegnati in modo da non dare, in pratica, alla base nessun reale potere
decisionale. Non potendo decidere su niente, chi partecipa sente come
inutile lo stare a discutere. Così, mentre si riconosce formalmente il bisogno
di partecipazione dal basso, lo si svuota praticamente. Chi partecipa si
convince che è meglio che decida chi deve decidere, perché quando si è in
molti non si combina niente.
Per questa via, attraverso sottili operazioni di ingegneria politica, il sistema
di astrazione rende superflui bisogni sociali fondamentali, assolvendo la sua
funzione di contenimento e di vanificazione della domanda sociale. D'altra
parte, non potendo dare spazio ai bisogni legati alla realtà della vita sociale, il
sistema di produzione crea artificiosamente bisogni funzionali alla
valorizzazione del capitale.
165
18.5 Sistema di astrazione e aspirazioni sociali
Nella società sussunta al capitale una persona non è ciò che avrebbe
potuto essere se fosse stata in condizione di esprimere tutte le proprie
potenzialità. Si viene così a creare uno scarto fra essere e poter essere, fra
ciò che si è e ciò che si potrebbe essere. Quante donne, quanti uomini
avrebbero potuto realizzarsi esistenzialmente nella scienza, nella poesia,
nella pittura, nella narrativa, nella musica, se la loro condizione sociale non li
avesse condannati ad altro. Quante doti di intelligenza, di fantasia, di
creatività si bruciano, perché mai attivate. Tutte le doti non attivate, perché
non funzionali al processo di produzione, finiscono per atrofizzarsi. Un
ingente patrimonio umano viene sacrificato per massimizzare il profitto.
Non è dunque attraverso puri e semplici riferimenti ai dati della vita sociale
che è possibile individuare e definire, in tutta la sua portata, lo spreco di
esistenze prodotto dalla sussunzione della società al capitale. Ciò che è
andrebbe continuamente rapportato a ciò che può essere e non è. L'essere
sociale andrebbe sempre commisurato al poter essere, personale e
collettivo, delle donne e degli uomini.
Occorre intendersi. Commisurare I'essere al poter essere non significa
pretendere di rapportare due sfere definite. Come si fa a definire ciò che
poteva essere e non è? Proprio perché non è, sfugge alla nostra cognizione.
L'esigenza che intendiamo sottolineare è un'altra. Si tratta di non schiacciare
l'analisi sull'esistente. Il rischio è di prendere in considerazione ciò che il
capitalismo produce e non ciò che esso distrugge o non fa nascere. Se
esaminiamo la vita degli uomini e delle donne, non dobbiamo chiudere
I'analisi entro l'orizzonte delle possibilità che offre l'organizzazione
capitalistica della società. Per cogliere sino in fondo il potere distruttivo del
capitalismo, bisogna avere la capacità di tenere sempre presente che al di là
della siepe dell'organizzazione capitalistica c'è un universo irrealizzato di
possibilità. Ed è nell'universo di ciò che può essere e non è il quadro di
riferimento dell'analisi della società astratta, cioè della società che fa
astrazione dal reale possibile. Per arrivare al cuore dell'astrazione sociale,
occorre spostare il fuoco dell'analisi dal capitalismo come sistema di
produzione al capitalismo come sistema di distruzione.
Nella società astratta il possibile viene schiacciato sull'esistente, funzionale
al processo di valorizzazione del capitale. E' possibile solo ciò che serve alla
produzione ed alla riproduzione capitalistica. Ed è questa la versione del
166
possibile che viene fatta passare nella coscienza collettiva. Gli uomini e le
donne finiscono per convincersi che l'unica realtà possibile è la realtà
prodotta dal sistema capitalistico e ad essa commisurano i propri progetti di
vita.
L'astrazione sociale è un processo a senso unico. Il sistema capitalistico,
per funzionare, deve fare astrazione dalla vita reale degli uomini e delle
donne in carne e ossa. Viceversa, le donne e gli uomini, per vivere, non
possono fare astrazione dal capitale. Più il sistema politico-economico si
svincola dalla concretezza dei soggetti, individuali e collettivi, più la vita degli
uomini e delle donne viene vincolata all'andamento del processo di
valorizzazione del capitale.
La valorizzazione capitalistica, emancipandosi dai condizionamenti sociali,
lega alla sua logica la vita delle persone concrete. Più il capitale è libero di
manovrare la realtà sociale, meno le donne e gli uonini sono liberi di
progettare la propria vita.
Non si tratta soltanto del vincolo della sussistenza, che il capitale impone
alla collettività. Certo, gli uomini e le donne, per vivere, sono costretti a
legarsi al carro della produzione capitalistica. Ma il dominio del capitale sulla
vita degli uomini e delle donne va oltre. Raggiunge persino la sfera delle
aspirazioni.
Ci si aspetterebbe che almeno le aspirazioni spazino liberamente nel
campo aperto delle umane possibilità. Ci si aspetterebbe cioè che le donne e
gli uomini, costretti a subordinare le loro esistenze ai ritmi ed ai contenuti
della produzione capitalistica, scarichino nella sfera delle aspirazioni il
bisogno di realizzarsi pienamente in quanto persone, al di là dei limiti imposti
dall'organizzazione capitalistica della società complessiva.
Proviamo a gettare un sasso nello stagno della condizione esistenziale che
si viene a produrre nella società astratta. Rivolgiamo in giro, a uomini e
donne, questa domanda: se avessi potuto scegliere liberamente, senza
doverti procurare il necessario per vivere, come avresti voluto impiegare tutto
il tempo dedicato al lavoro nel corso della tua vita?
E', ovviamente, una provocazione, che intende svincolare, con la forza
dell'immaginazione, la condizione esistenziale dai limiti imposti dal modo
capitalistico di produzione. La domanda apre una finestra sull'infinito delle
possibilità esistenziali e invita la persona a tuffarvisi, per dare forma al
proprio tempo di vita.
167
Ebbene, la persona, spinta ad affacciarsi alla finestra del mondo delle
umane possibilità di vita, non riesce a vedere altro che le meschine realtà
prodotte dall'organizzazione capitalistica della società complessiva. Il tempo
di vita, liberato in via teorica dalla prigione del lavoro, non lo si immagina
come spazio per la realizzazione piena delle proprie potenzialità, ma come
possibilità di un piccolo avanzamento di grado nella gerarchia professionale.
Chi ha bruciato la propria vita in un lavoro umiliante risponde che, se ne
avesse avuto la possibilità, avrebbe scelto un altro lavoro. E, vedi caso,
questa altra attività non rappresenta che un lieve miglioramento della
condizione lavorativa. Ognuno/a, in fondo, si muove all'interno del suo
ristretto orizzonte sociale. La sfera delle aspirazioni non fa che riprodurre la
struttura dell'esistente. Ognuno/a di noi ha aspirazioni adeguate alla propria
condizione sociale. Si può parlare di una vera e propria stratificazione sociale
delle aspirazioni. La società astratta tiene prigioniera non solo la realtà
vissuta, ma anche la realtà desiderata.
18.6 Sistema di astrazione e "visibilità" delle distanze sociali
La società capitalistica produce distanze sociali di tale portata che
sarebbero insopportabili se gli uomini e le donne potessero averne chiara
coscienza. Da qui la necessità di erigere attorno alla condizione sociale della
classe privilegiata una sorta di cortina fumogena che la renda poco "visibile".
Provate a fare un test. Recatevi nel quartiere più povero della vostra città o
del vostro paese. Bussate alle porte e dite che state facendo una inchiesta
sulla condizione di vita degli abitanti. Troverete donne e uomini che vi
trascinano dentro a vedere tre letti in una stanza, soffitti cadenti, pareti
macchiate di muffa. Troverete donne e uomini che vi inchiodano su una
sedia ad ascoltare. E vi inondano di tutti i particolari di una vita di stenti:
quanto guadagnano, quanto spendono, come fanno a tirare avanti. E vi
sentirete spesso dire: mi raccomando, scrivi questo, non ti scordare
quest'altro.
Spostatevi poi in una zona di ville di gran lusso, abitate da imprenditori e
finanzieri di grosso calibro. Ripetete qui la prova dell'inchiesta. Come vi
aspettate di essere accolti? Ve lo immaginate un imprenditore miliardario
venire al cancello e dirvi: una inchiesta sulla condizione di vita degli
industriali? Ma certo, si accomodi. Venga a vedere che paradiso. Vede tutta
questa distesa di verde intorno alla villa? E' tutta mia. E non è niente. Venga
168
dentro. Venga a vedere che lampadari, che quadri. Lei nemmeno se li sogna.
Vuole sapere quanto guadagno? Vuole sapere quanto spendo ogni mese per
questo tenore di vita? Ma certo, adesso chiamo il mio contabile personale,
che farà vedere tutti i conti.
Chi può mai aspettarsi di essere accolto in questo modo da un
imprenditore miliardario? State certi che se al citofono pronunciate la parola
«inchiesta», il cancello non vi sarà mai aperto.
Tutto ciò ha una ragione. Chi vive di stenti non è portato ad esibire le
proprie miserie. Ma se si presenta una occasione di pubblica denuncia, non
ha nulla da nascondere. Anzi, ha interesse a rendere "visibili" le proprie
condizioni di vita. Al contrario, il ricco borghese esibisce la propria elevata
condizione di vita in luoghi riservati, dove c'è da affermare il proprio status
sociale. Ma appena vede profilarsi il pericolo di una "visibilità" pubblica del
proprio tenore di vita, reagisce barricandosi dentro irraggiungibili fortilizi.
I due diversi comportamenti nei confronti della "visibilità" sociale stanno a
indicare interessi contrapposti: da una parte l'interesse a denunciare
ingiustizie, dall'altra I'interesse a nascondere privilegi. Ma, al di là degli
interessi particolari, c'è un interesse generale del sistema istituzionale ad
evitare, fin dove è possibile, una qualsiasi "visibilità" delle distanze sociali
che la società sussunta al capitale produce. lmmaginiamo di poter mettere
sotto gli occhi di milioni di persone due situazioni, I'una accanto all'altra: da
una parte la condizione del più povero fra i poveri e dall'altra la condizione
del più ricco fra i ricchi. La possibilità di un confronto così diretto e brutale
rischierebbe di far saltare, nella coscienza collettiva, ogni apparenza di
uguaglianza sociale.
Ad evitare che le distanze sociali siano percepibili nella loro reale portata, il
sistema di astrazione appronta tutta una serie di misure, che rendono quasi
impossibile il confronto fra condizioni sociali troppo distanti. Alla base di tali
misure c'è una sorta di compartimentazione della vita sociale. ll vivere
quotidiano delle donne e degli uomini viene, di fatto, incanalato in circuiti che
sono propri di una data classe sociale. Ogni persona è libera di andare dove
vuole, di frequentare chi vuole. Di fatto, ogni persona si muove in dati spazi
sociali e frequenta date persone. E, vedi caso, persone appartenenti ad una
data classe sociale si muovono, più o meno, negli stessi spazi ed hanno
quindi occasione di incontrarsi e di frequentarsi.
Tutto ciò in un regime di libertà di movimento, che lascia ad ognuno/a la
facoltà di scegliere i luoghi e le persone da frequentare, senza ombra di
169
discriminazioni sociali e nel pieno rispetto delle regole di democrazia e di
uguaglianza. Come è possibile? Di fatto, si ergono invisibili barriere intorno a
spazi "esclusivi", cioè riservati a persone di alto rango. E viene a configurarsi
una topografia sociale degli spazi urbani, per cui ogni quartiere si
caratterizza - in linea di massima - come area abitativa di particolari ceti
sociali.
A questo esito si giunge separando la facoltà di movimento dalle reali
possibilità di vita, cioè facendo funzionare la società formalmente de-
mocratica come società astratta. E' dunque il sistema di astrazione e non un
dispositivo di legge a presiedere alla selezione degli spazi e delle persone in
base alla classe di appartenenza.
Il sistema di astrazione sociale esercita qui in pieno la sua funzione
fondamentale. Una legge sulla distribuzione delle aree urbane in base al
censo è incompatibile con una società formalmente democratica.
L'astrazione sociale serve ad ottenere lo stesso risultato senza ricorrere ad
una legge, lasciando che gli uomini e le donne si distribuiscano
"spontaneamente" sul territorio, senza violare le linee di demarcazione
sociale.
La compartimentazione della vita sociale riduce il campo di esperienza
degli uomini e delle donne all'area sociale occupata dalla classe di
appartenenza. Ognuno/a di noi ha conoscenza diretta solo di persone e di
cose che si collocano nell'ambito sociale in cui si svolge la nostra vita
quotidiana.
Questa sorta di delimitazione di classe dell'esperienza induce ad
atteggiamenti a dir poco paradossali. Chi lamenta l'ingiustizia di una
retribuzione insufficiente è portato/a a confrontare la propria condizione non
al tenore di vita del miliardario, ma alla condizione di chi ha una retribuzione
appena decente. Molte persone che alla fine del mese devono fare quadrare
i conti non hanno idea delle disponibilità finanziarie di cui gode la classe
privilegiata. Chi è abituato ad attingere alla busta paga si lamenta se il suo
vicino o la sua vicina ha una busta paga con qualcosa in più, ma non "vede"
chi, per le semplici spese correnti, ha in banca un conto con una bella fila di
170
cifre e stacca assegni a destra e a manca come se si trattasse di biglietti di
visita 27.
Attraverso I' “invisibilità” o la scarsa “visibilità” delle distanze sociali, il
sistema di astrazione raggiunge un esito rilevante: evitare che in una società
formalmente democratica facciano scandalo le abissali disuguaglianze
prodotte dal capitalismo.
L'astrazione sociale assolve così, in quanto sistema, una sua importante
funzione: far convivere, nella coscienza collettiva, la sostanza classista con
la forma egualitaria della democrazia capitalistica.
27 Per gli addetti ai lavori è d'obbligo, su questo punto, un richiarno alla teoria sociologica dei gruppi di
riferimento ed al concetto di privazione relativa (R.K. Merton, Teoria e struttura sociale, trad. it., Bologna, Il
Mulino, 1975 (1949), II, p. 451 e segg.).
171
Sezione Seconda
IL PROCESSO DI INDETERMINAZIONE SOCIALE
172
173
Sezione Seconda - Introduzione
LA SUSSUNZIONE DELLA SOCIETA’ AL CAPITALE: DALL’ASTRAZIONE ALLA INDETERMINAZIONE
19.1 La società astratta come società sussunta al capitale
La società in cui si è affermato il modo capitalistico di produzione non è, di
per sé, una società capitalistica. Parliamo di società capitalistica in senso
forte: società a immagine del capitale.
Tra società a produzione capitalistica e società capitalistica corre un lungo
e travagliato processo di trasformazioni profonde, strutturali e sovrastrutturali,
materiali e immateriali, attraverso il quale si realizza gradualmente una vera e
propria sussunzione della società al capitale.
Tale sussunzione è il presupposto basilare della società astratta, in quanto
società adeguata al capitale. Adeguata al capitale è una società in cui i
rapporti sociali complessivi coincidono con i rapporti di produzione. Una
società in cui i "valori" fondamentali del capitalismo - liberismo economico,
mercato, profitto, competitività, ecc. - sono ampiamente sedimentati nella
coscienza collettiva, a livello di massa, come valori positivi.
19.2 L'emancipazione del capitale dai vincoli sociali
La sussunzione della società al capitale si presenta, ideologicamente, in
forma di "modernizzazione" e comporta, in primo luogo, l'emancipazione del
capitale dai vincoli sociali. Si tratta di cancellare, una ad una,
implacabilmente, le garanzie relative alla salvaguardia della esistenza
concreta degli uomini e delle donne, per lasciare le forze imprenditoriali libere
di decidere i tempi e i modi dell'uso (o del non uso) delle forze di lavoro.
Questa emancipazione dai lacci e lacciuoli - per rifarsi ad una nota
espressione usata da un presidente della Confindustria 28 - si può realizzare
soltanto se al sistema di astrazione corrisponde un processo di
indeterminazione.
28 Si tratta di Guido Carli.
174
19.3 Astrazione e indeterminazione
Gli esseri umani non sono semplici terminali del sistema sociale. Sono
realtà specifiche, dalle quali non può prescindere una espressione autentica
della dimensione collettiva. I contenuti della vita sociale, considerati in sé,
non sono dunque altro che determinazioni esistenziali, cioè particolari modi di
essere delle persone che compongono una collettività.
In questo quadro, una società finalizzata alla realizzazione dei soggetti in
quanto esseri umani tende a tradurre le determinazioni esistenziali presenti
nella collettività in dinamiche della vita sociale.
Nella società astratta, invece, I'indifferenza alle specifiche realtà personali
si traduce in pretesa di definire la vita collettiva in termini di indeterminazione
sociale. Per potere sussistere in quanto sistema, la società sottomessa al
capitale esige che tutte le espressioni della vita sociale siano indeterminate,
siano cioè prive di qualsiasi riferimento alle concrete specificità esistenziali. E
si capisce perché. Il sistema politico-economico, per potere mantenere la
propria indifferenza nei confronti dei contenuti della vita sociale, pretende
una quotidianità spogliata di valenze legate alle specificità personali.
Da tale punto di vista, al sistema di astrazione sociale deve corrispondere
un processo di indeterminazione sociale. L'astrazione sociale tende a
strutturare il sistema politico-economico a prescindere dai bisogni che
emergono nella vita sociale. L'indeterminazione sociale tende a depurare i
soggetti individuali e collettivi delle loro determinazioni, per adeguarli alla
società astratta.
Dunque, I'astrazione attiene alla società-struttura, mentre I'indeterminazio-
ne attiene alla società- collettività. E' chiaro che astrazione e indeterminazio-
ne sono complementari. Non vi può essere indeterminazione sociale senza
che si faccia astrazione dai bisogni sociali. D'altra parte, non si può
prescindere dai bisogni sociali se i soggetti sono fortemente determinati.
Emerge, ancora una volta, l'ambiguità della società astratta. L'astrazione
per un verso presuppone l'indeterminazione e per l'altro le dà corso nella
società. Una società strutturata in astrazione dalle determinazioni della vita
sociale crea condizioni in cui gli esseri umani sono costretti a vivere la loro
vita quotidiana a prescindere dalle proprie specificità esistenziali. Ne risulta,
di fatto, una vita sociale indeterminata. Per questa via, quello che era un
presupposto si traduce in realtà sociale. Attraverso l'indeterminazione
sociale, I'astrazione si traduce in modo di essere della società complessiva.
175
Questa dinamica è però tutta dentro uno dei versanti del rapporto fra
struttura sociale e collettività. Nel versante opposto, i soggetti tendono a
definire il rapporto con la struttura sociale nei termini della propria
concretezza esistenziale. Alla richiesta di indeterminazione che la società--
struttura rivolge alle persone si contrappone, uguale e contrario, il bisogno di
determinazione che emerge nella società-collettività.
La richiesta di indeterminazione non è fine a se stessa. I soggetti sono
chiamati a spogliarsi delle proprie determinazioni, cioè delle forme e dei
contenuti del loro specifico essere concreto, per vestirsi delle determinazioni
della strutturazione capitalistica della società, cioè dei modi tecnici ed
organizzativi in cui il capitale impone il suo dominio alla società complessiva.
In pratica, le donne e gli uomini sono indotti, per via diretta o indiretta, a
vivere non in aderenza alla propria concretezza esistenziale, ma in funzione
della valorizzazione economica e politica del capitale.
La società-struttura può fare astrazione dalla condizione esistenziale delle
donne e degli uomini nella misura in cui nella società-collettività non hanno
modo di esprimersi le determinazioni sociali. L'indeterminazione prepara
dunque il terreno all'astrazione. La concretezza esistenziale viene, in un
certo senso, "sterilizzata", per potere essere "ignorata" senza contraccolpi
pericolosi per I'assetto sociale complessivo.
Una vita sociale carica di determinazioni esistenziali è difficile da mettere
fra parentesi. All'altro polo, il sistema di astrazione immette nella vita sociale
le determinazioni del processo di valorizzazione capitalistica. La vita sociale
da una parte viene "svuotata" delle determinazioni della concretezza
esistenziale, dall'altra viene "riempita" delle determinazioni della
valorizzazione capitalistica. Più precisamente, la vita sociale viene sguarnita
delle determinazioni delle persone concrete per potere farsi carico delle
determinazioni del capitale.
In questo quadro, come viene a definirsi la condizione esistenziale degli
uomini e delle donne in rapporto al sistema di astrazione? Quanto più la vita
sociale è indeterminata, tanto più le persone sono esposte all'astrazione.
Una vita sociale organizzata a misura degli uomini e delle donne in carne e
ossa sarebbe una sorta di cittadella nella quale non facilmente potrebbero
penetrare i valori su cui si regge il sistema di astrazione. La concretezza
esistenziale verrebbe vissuta quotidianamente con una tale intensità da
imporsi come valore centrale, da cui non sarebbe facile fare astrazione.
176
L' indeterminazione della vita sociale fa mancare alla persona il terreno
sul quale potere costruire concretamente un proprio particolare progetto di
vita. In questa condizione, il vivere quotidiano degli uomini e delle donne si
struttura sulla base degli interessi dominanti. L'indeterminazione come
funzione dell'astrazione sociale.
Attraverso l'indeterminazione, I'astrazione preme sulla vita sociale, per
svuotarla delle specificità esistenziali degli uomini e delle donne in carne e
ossa. In tale direzione, è costretta a fare i conti con la concretezza
esistenziale. Gli esiti non possono essere definiti una volta per tutte. La
società astratta è esposta alle alterne vicende della conflittualità sociale.
177
Capitolo Ventesimo
L'INDETERMINAZIONE TECNICA DEL LAVORO
20.1 Il lavoro tecnicamente indeterminato
Nella sfera dell'attività connessa alla produzione, l'esigenza fondamentale
della società astratta è non una particolare determinazione del lavoro, ma
l'assenza di ogni determinazione, cioè l'assoluta mancanza dl particolari
contenuti e di specifiche procedure operative. Quanto più è indeterminato,
tanto più il lavoro è adeguato alla società astratta. La società-struttura, per
essere in grado di fare astrazione dalla società-collettività, non ha tanto
bisogno di determinate condizioni, favorevoli alla produzione, quanto di
liberare il sistema di valorizzazione del capitale da condizioni predeterminate.
La condizione fondamentale di cui ha bisogno la società astratta è l'assenza
di condizioni predeterminate. Una società costruita sul presupposto
dell'astrazione sociale si contraddistingue per il fatto di richiedere un lavoro
non stabilmente strutturato e quindi in grado di ricevere, volta a volta, la
struttura adeguata alle esigenze della produzione. Un lavoro, insomma, a
struttura mobile, la cui organizzazione tenda alla destabilizzazione della vita
sociale.
Per lavoro tecnicamente indeterminato intendiamo un lavoro privo di
determinazioni tecniche proprie e disponibile verso qualsiasi determinazione
che venga ad esso imposta dal sistema di produzione. E' un lavoro che non
ha una propria procedura ed è disponibile verso qualsiasi procedura. Un
lavoro che non ha un proprio contenuto ed è disponibile verso qualsiasi
contenuto.
La storia del rapporto fra capitale e lavoro è nel progressivo svuotamento
del lavoro di determinazioni proprie e nella sempre più pressante richiesta di
disponibilità nei confronti delle determinazioni del processo di produzione.
Questo progressivo svuotamento ha vissuto, nel tempo, alcuni passaggi
significativi, che vanno rapidamente ricostruiti, perché consentono di cogliere
in profondità il senso della dinamica del processo di indeterminazione. ~_~
20.2 L'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro
178
In una società in via di "modernizzazione" le forze di lavoro provengono
dalle più svariate esperienze. In genere, si tratta però di esperienze cariche
di determinazioni professionali, oltre che sociali. Di conseguenza, esse
presentano - in varia misura, ma sempre in misura rilevante - caratteri di
estraneità rispetto alle esigenze di indeterminazione che emergono, nella
società sussunta al capitale, in sede di produzione industriale avanzata.
Basta pensare - per fare un solo esempio - alla radicale incompatibilità
esistente fra il curriculum lavorativo di un artigiano meridionale che emigra al
nord e i contenuti del lavoro operaio in una grande fabbrica.
Da qui la necessità di piegare al processo di indeterminazione, che
attraversa la produzione industriale, le forze di lavoro radicate in una
economia di tipo pre-industriale. Da qui l'esigenza di liberare atteggiamenti e
comportamenti lavorativi da ogni valenza legata, in qualche modo, alla
soggettività, per integrarli allo standard "razionale" della organizzazione
"scientifica" del lavoro. Si tratta di un particolare - più o meno esplicito -
processo di formazione, che tocca via via gli strati più "arretrati" delle forze di
lavoro. Queste vengono spogliate delle determinazioni lavorative originarie e
sintonizzate gradualmente - a prezzo di aspri conflitti - ai modi ed ai tempi del
lavoro tecnicamente indeterminato .
In questo contesto, il processo di formazione delle forze di lavoro viene a
definirsi in termini di disattivazione delle determinazioni proprie del soggetto e
di predisposizione ad una attività lavorativa tecnicamente indeterminata.
Determinazioni proprie del soggetto sono - in questa sede - le abilità
lavorative specifiche, che fissano la qualità della forza-lavoro in relazione ad
un particolare contenuto di lavoro.
Ora, qualità monovalenti della forza-lavoro sono di ostacolo alla sua
duttilità nei confronti delle continue ridefinizioni delle mansioni lavorative. La
formazione che risponde alle esigenze di un sistema di lavoro non fissato su
particolari procedure tecniche deve dunque essere polivalente, cioè
tecnicamente indeterminata, tale da consentire rapidi adattamenti agli
spostamenti lungo il processo produttivo. La formazione è funzionale al
sistema di lavoro indeterminato se stimola e mette in evidenza non tanto le
conoscenze-abilità incorporate in una particolare mansione lavorativa, quanto
le attitudini che stanno alla base della personalità dell'individuo: prontezza di
riflessi, capacità di attenzione prolungata e così via.
A questo punto, non ha senso parlare di formazione professionale distinta
dalla formazione non professionale. La formazione delle forze di lavoro
179
diventa, entro certi limiti, formazione tout court, in quanto sviluppo di quelle
qualità che - al di là di conoscenze particolari, suscettibili di rapido
invecchiamento - rendono più agibile la stessa applicazione specialistica, in
continua evoluzione.
Il processo di indeterminazione, considerato in sé, non abbassa dunque il
livello della formazione delle forze di lavoro. Anzi, lo innalza. Ma le
potenzialità che in sede di formazione vengono messe in moto, per
agevolare lo scorrimento della forza-lavoro lungo il processo produttivo, sono
disattivate in sede di applicazione lavorativa. Qui le attitudini soggettive del
lavoratore o della lavoratrice vengono bloccate, per dare corso alle modalità
standardizzate del sistema tecnico di lavorazione.
In pratica, il sistema di produzione ha bisogno di forze di lavoro duttili e
pronte ad apprendere rapidamente - attraverso poche istruzioni - nuove
mansioni. Ciò richiede una formazione di base, non direttamente operativa,
la quale però rimane inutilizzata nei compiti che la lavoratrice o il lavoratore
svolge. Così, un potenziale arricchimento della qualità della forza-lavoro
manuale-intellettuale diventa, nella quotidianità lavorativa, causa di
frustrazione e di abbrutimento.
In realtà, l'arricchimento richiesto in sede di formazione è finalizzato non
alla crescita della soggettività, ma al potenziamento della disponibilità tecnica
della forza-lavoro. Il lavoratore o la lavoratrice deve affinare le sue qualità
non in quanto soggetto, ma in quanto forza-lavoro. E la qualità per
eccellenza, adeguata ad un sistema di lavoro indeterminato, è la capacita di
incarnare, volta a volta, le mutevoli esigenze della lavorazione tecnica.
20.3 Sistema formativo e sistema produttivo nel processo di indeter minazione
La formazione professionale rappresenta il primo contatto del sistema
produttivo con le forze di lavoro. Ed é un contatto estremamente qualificante,
nel senso che mira a trasformare le potenzialità creative, cariche di
soggettività, in capacità produttive, desoggettivate. Le potenzialità creative
non sono, di per sé, capacità di "produrre" (nell'accezione "moderna" del
termine). Una tale finalizzazione è storica. E storico è anche il processo di
desoggettivazione, che prelude alla indeterminazione del lavoro.
La capacità di creare viene tradotta - attraverso il processo di formazione
- in disponibilità a "produrre" ed a "produrre" in condizioni di in determina-
180
zione, cioè ad attivarsi efficacemente, a prescindere dalle proprie determina-
zioni, in relazione alle esigenze che via via emergono nel processo
produttivo.
D'altra parte, un sistema formativo non nasce storicamente con la
"vocazione" capitalistica. In esso si annidano tradizioni culturali, istanze
politiche e sociali, che spesso agiscono in direzione contraria - o comunque
non nella stessa direzione - rispetto al bisogno di indeterminazione. Per
queste ragioni, un sistema formativo difficilmente fornisce risposte univoche.
I meccanismi di formazione risultano spesso ambivalenti. Nell'ambito di un
piano di "modernizzazione", mentre operano in una certa direzione per
raggiungere certi obiettivi, rischiano sempre di scatenare reazioni impreviste,
che mettono in evidenza esigenze del tutto estranee al processo di
indeterminazione.
Ma c'è di più. Il sistema formativo non è solo la risposta del sistema
produttivo al bisogno di crearsi a propria immagine le forze di lavoro. E'
anche una istituzione politica, che ha la funzione di raccogliere ed integrare
le istanze di promozione sociale provenienti dal basso.
Queste due facce del sistema formativo entrano spesso in concorrenza
fra di loro. Perché, nel momento in cui emerge una forte pressione sociale
sul sistema formativo, questo è costretto ad allentare le maglie della propria
struttura. E una tale maggiore elasticità nei confronti della domanda sociale
si traduce in una maggiore rigidità nei confronti del sistema produttivo.
Quando larghi strati della popolazione premono per avere accesso
all'istruzione, il sistema formativo è costretto ad allentare i meccanismi di
selezione scolastica. Ma una scuola di massa non è in grado di dare corso
ad una formazione che abbia le caratteristiche richieste dal mondo della
produzione.
La "modernizzazione" è un processo globale. In quanto tale, essa dà per
scontato un collegamento - a qualsiasi livello e sotto qualsiasi forma - tra
sistema formativo e sistema produttivo. Da questo punto di vista, una
struttura formativa che non tenga conto di tale collegamento si presenta - a
prescindere da ogni giudizio di merito - come struttura "arretrata". Uno dei
punti di forza del capitalismo è presentarsi come espressione della
"modernità" e fare apparire come "arretrate" tutte le realtà che non tengono
conto delle sue esigenze.
D'altra parte, le esigenze di un sistema produttivo esposto al processo di
"modernizzazione" sono - come è facile capire - in continua evoluzione. Esse
181
si legano alle risultanze, sempre provvisorie, del progresso tecnico. E questo
è già un primo aspetto che occorre, in via preliminare, mettere in rilievo.
La relativa stabilità tecnica del sistema produttivo "pre-moderno", soggetto
a mutamenti molto lenti, dava luogo ad una domanda di formazione ben
definita e di lunga durata. La "modernizzazione", accelerando in modo
significativo le trasformazioni tecniche, rende estremamente precari gli stessi
bisogni del sistema produttivo in fatto di "qualità" della forza-lavoro.
Tutto ciò aggiunge una ulteriore difficoltà al non facile raccordo fra sistema
produttivo e sistema formativo. L'articolazione tecnica della produzione
rende tutt'altro che univoca la richiesta di formazione che da essa proviene.
Inoltre, ammesso che si riesca a definire univocamente tale richiesta, la
risposta del sistema formativo necessita di tempi che la fanno giungere
sempre in ritardo, quando l'esigenza da soddisfare è già mutata. Basta
pensare ai mutamenti che si possono verificare in sede tecnica nell'arco di
tempo compreso fra l'inizio e la fine della formazione scolastica. Un aspetto
rilevante nel momento in cui un ragazzo o una ragazza intraprende il corso di
studi superiori può risultare irrilevante nel momento in cui lo porta a termine.
Quanto è emerso fin qui mette in luce una ulteriore valenza delI'indeter-
minazione nella formazione delle forze di lavoro. Non si tratta soltanto di
rendere utilizzabile la forza-lavoro manuale-intellettuale nell'arco di un
processo produttivo dato. C'è anche l'esigenza di incorporare nelle forze di
lavoro qualità che non siano soggette a rapido invecchiamento. In altri
termini, il sistema formativo è chiamato ad assicurare al sistema produttivo
forze di lavoro che dispongano non solo di fluidità orizzontale, cioè di
capacità di inserirsi in qualsiasi punto del processo, ma anche di fluidità
verticale, cioè della capacità di inserirsi in qualsiasi stadio dell'evoluzione
tecnica del sistema produttivo. In altri termini, la scuola è chiamata a dare
una formazione che consenta non solo continui spostamenti da un settore ad
un altro della produzione, ma anche il rapido apprendimento dell'uso di un
nuovo strumento tecnico.
Ora, solo una formazione tecnicamente indeterminata, cioè non legata a
procedure tecniche specifiche, è in grado di svincolare la professionalità dalle
contingenze di un particolare standard produttivo e di renderla disponibile nei
confronti della evoluzione tecnica. L'indeterminazione viene dunque a
definirsi non solo in termini di flessibilità sincronica, da un punto all'altro di un
processo dato, ma anche - e soprattutto - in termini di flessibilità diacronica,
da uno stadio all'altro della evoluzione tecnica.
182
Una formazione svincolata da moduli tecnici determinati si muove, in sé, in
direzione dell'arricchimento della persona. Solo che, nella società sussunta
al capitale, l'indeterminazione viene giocata tutta all'interno di ruoli
subordinati. In queste condizioni, la polivalenza si traduce non in capacità di
dominare il processo, ma in disponibilità a seguirlo ed a servirlo
passivamente nella sua evoluzione imperante, mortificando e ignorando le
esigenze di crescita della persona. Le donne e gli uomini sono chiamati ad
allargare la base della loro formazione non in funzione di una più attiva
incidenza sull'attività lavorativa, ma in funzione di una più passiva aderenza
alla evoluzione tecnica.
Alla base dell'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro c'è
dunque non lo sviluppo delle potenzialità della persona, ma l'accentuarsi
della instabilità tecnica del processo produttivo. Nella società astratta persino
le qualità umane vengono formate a prescindere dalle esigenze delle donne
e degli uomini.
20.4 La desoggettivazione del lavoro
Quando il processo di produzione si definisce come processo lavorativo, si
impone per l'apparato di comando sul lavoro la necessità di fare i conti con la
presenza del soggetto portatore della forza-lavoro manuale-intellettuale,
uomo o donna in carne e ossa.
La presenza di una valenza soggettiva della forza-lavoro nel processo
produttivo si pone come limite del processo di indeterminazione. La
soggettività è carica di determinazioni, che - in un modo o nell'altro -
premono sull'attività lavorativa e tendono a personalizzarla, a impregnarla di
significati esistenziali.
Un lavoro affidato alla soggettività umana non sarebbe dunque
disponibile a lasciarsi continuamente destrutturare e ristrutturare, sull'onda
del processo di indeterminazione tecnica. Inoltre, attraverso la soggettività, il
flusso esistenziale, con le sue discontinuità di ritmo e di intensità,
spezzerebbe il continuum della produzione. Le procedure tecniche e gli esiti
produttivi sarebbero in balia degli umori degli operatori e delle operatrici. In
altri termini, la produttività si ridurrebbe a valore subordinato al concreto
esistere del lavoratore o della lavoratrice in quanto essere umano. Il che, nel
quadro della società astratta, è una contraddizione.
183
Per tutto ciò, non è un caso che il problema della organizzazione del lavoro
si è sempre più definito, nel modo capitalistico di produzione, in termini di
desoggettivazione del lavoro, cioè di svincolo delle operazioni tecniche di
lavoro dalla personalità del soggetto.
Il senso di molti provvedimenti, tecnici ed organizzativi, è quello di
eliminare via via dal processo produttivo le interferenze legate, in un modo o
nell'altro, alla vita quotidiana. Dal punto di vista del capitale, ogni soggetto
dispone di capacità lavorativa, che si deve tradurre in attività di lavoro.
Senonché, tra la sfera della capacità e la sfera dell'attività interferiscono
situazioni di vita quotidiana, che "disturbano" questa trasposizione.
L'interesse dell'azienda sarebbe che tutta la capacità lavorativa, tutta l'attività
lavorativa in potenza, si traducesse in attività lavorativa in opera. Di fatto,
soltanto una parte delle potenzialità lavorative del soggetto diventa lavoro
effettivo.
I dirigenti aziendali potrebbero, in teoria, tentare di quantificare lo scarto fra
capacità ed attività lavorativa. Proviamo ad immaginare i calcoli dei ragionieri
del capitale. Un operaio la mattina, quando si sveglia, ha una potenzialità
lavorativa 100. Poi si mette a litigare con la moglie e ciò riduce la sua
potenzialità a 90 (interferenza di una situazione familiare). Esce per andare
al lavoro. L'autobus ritarda, l'operaio si innervosisce. La sua potenzialità
lavorativa si riduce a 80 (interferenza della organizzazione dei servizi sociali).
Arriva sul posto di lavoro in ritardo. C'è uno scambio di battute con il capo-
reparto. La sua potenzialità si riduce a 70 (interferenza di una situazione
lavorativa). Come si vede, si tratta di un vero e proprio campo di interferenze,
analogo a quello che si ha nelle trasmissioni radiofoniche a modulazione di
frequenza, quando il programma di una stazione viene disturbato da una
trasmissione che vi si sovrappone.
20.5 L'oggettivazione del processo lavorativo: dalla meccanizzazione all'automazione
184
A questo punto, è opportuno cercare di definire il significato che assume, nel quadro della nostra analisi, l'evoluzione tecnica che va dalla meccanizzazione all'automazione del processo lavorativo.
All'origine della meccanizzazione c'è - per quel che qui interessa - la
necessità di depurare il processo lavorativo di qualsiasi interferenza della
soggettività umana. Si tratta di trovare il modo di usare la forza-lavoro
manuale-intellettuale senza avere a che fare con le intemperanze degli
uomini e delle donne in carne e ossa.
Ora, il valore d'uso della forza-lavoro ha una sua specificità rispetto al
valore d'uso della merce in generale. Il valore d'uso della merce in generale è
la sua disponibilità a lasciarsi trasformare - cioè logorare e consumare -
attraverso l'utilizzazione che si fa di essa. Il valore d'uso di una caramella
consiste nel piacere che si prova quando la si succhia. Al contrario, il valore
d'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale è non la sua disponibilità a
lasciarsi trasformare, ma la sua capacità di trasformare. Il valore d'uso della
forza-lavoro di un meccanico consiste nella capacità di trasformare un
cumulo di pezzi in un motore funzionante. L'uso della forza-lavoro implica sì -
in quanto uso di una merce - una trasformazione. Non però una
trasformazione operata sulla forza-lavoro, ma dalla forza-lavoro. Lo specifico
del valore d'uso della forza-lavoro è in ciò: che la merce forza-lavoro è il
soggetto e non l'oggetto della trasformazione. Rispetto all'azione di
trasformazione, la forza-lavoro figura al nominativo e non all'accusativo. Il
valore d'uso della forza-lavoro consiste nella sua capacità di trasformare,
tramite i mezzi di lavoro, la materia prima in prodotto finito.
Questo quadro è coerente con la nozione di forza-lavoro in quanto fattore
soggettivo del processo produttivo. Si verrebbe in effetti a creare uno scarto
fra definizione concettuale e funzionamento reale, se da un lato la
forza-lavoro si definisse come fattore soggettivo e dall'altro funzionasse
come oggetto di trasformazione. L'uso di un fattore soggettivo non può
essere che l'utilizzazione del suo funzionamento in qualità di soggetto. Finché
la forza-lavoro si definisce come fattore soggettivo della produzione, I'unico
modo di usarla è quello di farla funzionare come soggetto di trasformazione 1.
E' in questa specificità dell'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale
l'origine della complessità del processo di indeterminazione all'interno della
sfera lavorativa. Da un lato il processo lavorativo presuppone la presenza di
1 F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 2^ edz., 1996, pp. 15-16.
185
una soggettività umana attiva, dall'altro la soggettività umana attiva è di
ostacolo alla indeterminazione del processo lavorativo.
Ora, è su questa contraddizione che interviene la meccanizzazione del
processo lavorativo. Nei termini della nostra analisi, I'introduzione delle
macchine comporta una operazione che possiamo chiamare oggettivazione
del processo lavorativo. Con questa espressione intendiamo il trasferimento
di funzioni manuali e intellettuali proprie del lavoro umano ad una struttura
oggettiva - tecnica ed organizzativa - del sistema di produzione.
Dall'oggettivazione del processo lavorativo discende una inversione di
ruolo fra chi lavora e la condizione di lavoro. Non è più chi lavora ad usare la
condizione di lavoro, ma è la condizione di lavoro ad usare chi lavora. Per
questa via, la soggettività umana viene disattivata, in modo da essere usata
come pura e semplice forza-lavoro manuale-intellettuale.
Tuttavia, il processo meccanizzato prevede l'intervento umano là dove
insorgono fattori di disturbo che deviano la produzione dallo standard
previsto. Si rende quindi necessaria la sorveglianza della macchina.
L'oggettivazione del processo lavorativo presenta, in questa fase della
evoluzione tecnica, una lacuna: la funzione di controllo è ancora prerogativa
della soggettività umana. Con l'automazione questa lacuna viene colmata:
anche la funzione di controllo viene incorporata nella struttura tecnica. Il
processo automatizzato si autocontrolla e richiede soltanto una attività
umana di programmazione e di supervisione.
Con l'automazione vengono annullati gli scarti, sempre insorgenti, fra
struttura del processo lavorativo e struttura del processo produttivo. Viene
cioè risolto il problema della efficacia produttiva del processo lavorativo, che
è poi il problema della produttività. Quando il processo lavorativo è vincolato,
in qualche modo, alla forza-lavoro manuale-intellettuale, la sua efficacia è
legata a fattori esterni alla sua dinamica, perché deve fare i conti con le
interferenze della soggettività umana. Da qui la necessità di incorporare -
attraverso l'automazione - il processo lavorativo nella struttura del processo
produttivo. Il processo produttivo è in grado di funzionare direttamente, senza
la mediazione del processo lavorativo. E ciò perché, nella struttura tecnica
automatizzata, il processo lavorativo viene a coincidere senza residui - a
prescindere dai compiti di programmazione e di supervisione - con il
processo produttivo. II processo lavorativo si fa direttamente - senza
mediazione umana, se non ad un certo livello - processo produttivo. E,
affermandosi come oggettività tecnica, si nega come attiva soggettività.
186
In queste condizioni, è possibile incorporare l'indeterminazione del lavoro
nell'apparato tecnico. Un sistema automatico ad alta flessibilità tecnica, in
grado di adattarsi a diversi tipi di lavorazione, può dare soluzione a molti di
quei problemi che emergono ogni qualvolta l'esigenza capitalistica di
indeterminazione si scontra con il bisogno dei soggetti concreti di affermare
le proprie determinazioni. In conclusione, con l'automazione il processo di indeterminazione del
lavoro tende a liberarsi dai condizionamenti della concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. A partire da qui, si apre per il sistema di produzione una prospettiva nuova, in fondo alla quale si profila un riassetto della società capitalistica ad un più alto livello di astrazione sociale.
.
187
Scheda C
TAYLORISMO E DESOGGETTIVAZIONE DEL LAVORO
L'organizzazione del lavoro ha avuto nel tempo, come è noto, una evoluzione
significativa. Tuttavia, essa ha fatto costante riferimento, da un certo punto in poi, ai
principi del Taylorismo, cioè del procedimento teorizzato dall'ingegnere
statunitense F. W. Taylor e basato sullo studio dei tempi e dei modi di ogni
operazione lavorativa. Tali principi sono fondamentalmente tre: a) è possibile
individuare il modo migliore ed unico di fare una qualsiasi operazione (il principio
della one best way); b) questo modo può essere individuato soltanto attraverso la
sperimentazione e la ricerca, studiando i tempi richiesti per qualsiasi operazione
(valutazione cronometrica del rendimento); c) lo studio del modo e del tempo di
lavoro è prerogativa esclusiva della direzione dell'azienda 29.
Di questi tre principi è il primo che ci interessa adesso in modo particolare. La
one best way ha un significato ben preciso. A prescindere dagli altri suoi effetti,
essa - di fatto - sottrae al soggetto portatore di forza-lavoro il controllo della sua
funzione produttiva. E' qui che si opera la vera "rivoluzione industriale".
Fino all'avvento del Taylorismo, il soggetto mantiene un certo controllo sui modi
della produzione. Questo controllo non è diretto. Non è cioè Iegato immediatamente
alla soggettività del lavoratore o della lavoratrice. E tuttavia passa per il soggetto, in
quanto portatore di un mestiere. Il mestiere infatti, se da un lato si definisce come
insieme di conoscenze-abilità accumulate ed organizzate in base ad una tradizione,
dall'altro si caratterizza per il fatto di non potere prescindere da una soggettività
che se ne faccia portatrice dinamica, ma durevole.
Il mestiere si comincia ad apprendere in giovanissima età e dura tutta la vita. E
come da un lato questo tesoro di conoscenze-abilità ha bisogno, per esercitare la
sua funzione, di depositarsi in maniera duratura (da qui il vanto che si esprime in
frasi come «sono vent'anni che faccio questo mestiere»), dall'altro questa
durevolezza è espressione del legame esistente fra la personalità del soggetto ed il
mestiere di cui tale personalità è portatrice. Si può dire, sotto tale profilo, che il
29 L'opera fondamentale di F. W. Taylor è The Principles of Scientific Management, del 1911, trad. it.:
L'organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Comunità, 1952; Milano, Etas Kompass, 1967.
188
mestiere non è altro che la professionalità incorporata nella forza-lavoro. E
l'accento va messo sulla incorporazione, perché quel che interessa - in sede di
ricostruzione del processo di desoggettivazione del lavoro - non è la struttura
interna dell'attività lavorativa che si esprime nel mestiere, ma il rapporto fra tale
attività ed il soggetto che la realizza.
Certo, il mestiere, se pure legato al soggetto, non nasce né muore con esso. Ma
anche la trasmissione delle conoscenze-abilità risente, in questo caso, del più o
meno alto grado di personalizzazione dei contenuti trasmessi. Si spiega così perché
la trasmissione del mestiere avviene quasi sempre per via verticale: da padre-madre
a figlio-figlia, da chi si avvia a lasciare l'attività lavorativa a chi si appresta a
cominciarla. Ciò accade appunto perché si tratta di una trasmissione fortemente
personalizzata, significativamente diversa dalla trasmissione che si attua, per
esempio, ad opera di istituzioni formative.
Per questi suoi caratteri, la struttura interna del mestiere si rivela antitetica al
processo di indeterminazione tecnica del lavoro. La struttura del mestiere ha infatti
il suo centro organizzativo all'interno del soggetto e si definisce quindi come
determinazione soggettiva. E' il soggetto che decide la successione delle
operazioni e coordina i movimenti necessari ad ogni singola operazione. E' chiaro
che nella divisione pre-tayloriana del lavoro questa struttura da un lato ha un
carattere di corpo rispetto alla singola operazione interna alla mansione lavorativa,
dall'altro si pone già come membro rispetto al processo complessivo di produzione.
Il mestiere è cioè un insieme unitario di operazioni tecniche, ma il lavoro che
compie I'operaio/a di mestiere all'intemo della fabbrica è solo una parte del ciclo
lavorativo necessario alla produzione.
Che significato assume allora la "moderna" organizzazione del lavoro per la
soggettività coinvolta nell'attività lavorativa? Spostare il centro motore
dell'organizzazione interna dell'attività lavorativa dai singoli soggetti alla direzione
dell'azienda è il significato del terzo principio del Taylorismo: lo studio dei tempi e
dei modi richiesti per qualsiasi operazione fa parte delle prerogative esclusive delle
direzioni aziendali. Per raggiungere questo obiettivo, I'organizzazione del lavoro ha
bisogno di sgretolare la struttura del mestiere, in modo da spersonalizzare al
massimo le singole operazioni, la cui conduzione viene accentrata a livello di
direzione.
La funzione lavorativa finisce di configurarsi come prerogativa soggettiva del
lavoratore o della lavoratrice, che la contratta con I'azienda. Adesso è l'Ufficio Studi
che progetta l'organigramma delle funzioni necessarie al processo produttivo. Ed è
189
l'Ufficio Studi che traduce queste funzioni in una serie di operazioni e decide i
tempi per ogni operazione.
In tal modo l'azienda si appropria della professionalità del lavoratore o della
lavoratrice e, dopo averla polverizzata, ne fa una prerogativa della organizzazione
del lavoro, per imporla dall'esterno al lavoro deprofessionalizzato. Una tale
appropriazione impone tutte quelle trasformazioni che, nel loro insieme,
costituiscono il progresso tecnico. Si può dunque dire che il progresso tecnico non
è la causa del declino della professionalità, ma soltanto lo strumento attraverso il
quale l'organizzazione del lavoro realizza tale declino.
L’«organizzazione scientifica del lavoro», progettata e promossa da Taylor, sente
come estranee a sé le qualità professionali incorporate nella forza-lavoro. Ad una
tale organizzazione non può bastare che la professionalità sia al servizio
dell'azienda. Non può bastarle che lavori per I'azienda. Occorre che diventi la
professionalità dell'azienda. Così, da prerogativa del soggetto, il corpo di
conoscenze-abilità che discende dall'arcaico mestiere, si trasforma in oggetto di
responsabilità dell'Ufficio Studi.
Ai lavoratori ed alle lavoratrici non resta che vestirsi ogni mattina delle funzioni,
manuali e intellettuali, predisposte dalla Direzione. L'attributo professionale, da
carne e sangue della persona che lavora, viene ridotto ad una specie di divisa, di
proprietà dell'azienda, da indossare all'entrata e togliere prima di uscire. All'uscita
dal luogo di lavoro, il lavoratore o la lavoratrice torna ad essere padre o madre di
famiglia, utente della televisione, ecc.. Neppure un riflesso dell'energia spesa
nell'attività lavorativa si incorpora nella forza-lavoro come attributo professionale.
Tutto ciò provoca una serie di conseguenze di grande rilievo. Segna da un lato la
morte della specializzazione come attributo del soggetto e dall'altro la nascita della
specializzazione come prerogativa dell'azienda. La prima, essendo attributo
personale, rendeva il soggetto - in una certa misura – indipendende, sotto l'aspetto
professionale, rispetto alla singola azienda. Passando da una azienda all'altra, il
soggetto si portava addosso il mestiere. La seconda specializzazione invece si
riferisce non al particolare bagaglio di conoscenze-abilità del soggetto, bensì alla
particolare tecnologia adottata dall'azienda. Il soggetto diventa qui una componente
del processo produttivo. Passando da una azienda all'altra, anche dello stesso
settore, viene a trovarsi di fronte a un diverso processo e soprattutto a una diversa
configurazione delle funzioni lavorative. D'altra parte, il fatto che il lavoratore o la
lavoratrice non abbia attribuzioni soggettive da fare valere rende la sua prestazione
intercambiabile all'interno del quadro di funzioni previste per un particolare
processo di produzione.
190
Così il rapporto fra azienda e forza-lavoro rivela tutta la sua unilateralità. La
specializzazione rispetto alla mansione diventa specializzazione rispetto al
processo produttivo. E come la specializzazione rispetto alla mansione si traduceva
in polivalenza rispetto ai processi produttivi in cui compariva quella mansione, così
la specializzazione rispetto al processo produttivo si traduce in polivalenza rispetto
alle mansioni che compaiono in quel processo.
In pratica, chi era esperto/a in una particolare mansione, poteva inserirsi in tutti i
processi produttivi in cui era presente quella mansione. Chi invece, ad uno stadio
avanzato del progresso tecnico, è esperto/a in un particolare processo produttivo, è
in grado di apprendere rapidamente le diverse mansioni comprese in quel
processo. Nel primo caso i lavoratori e le lavoratrici erano relativamente liberi di
spostarsi da una azienda all'altra. Nel secondo caso è l'azienda relativamente libera
di spostare il personale da una mansione all'altra. Inoltre, la prima specializzazione
compariva - in linea di massima - nella qualifica della forza-lavoro e veniva, come
tale, pagata dall'azienda. La seconda compare solo nell'organigramma dell'Ufficio
Studi e non produce quindi alcun effetto retributivo per le forze di lavoro. Né è da
dire che nel primo caso i lavoratori e le lavoratrici trasmettevano al processo
produttivo le loro "qualità professionali", mentre nel secondo caso non hanno
"qualità" da trasmettere. In realtà, il processo produttivo a tecnologia avanzata
consuma una nuova "qualità": I'indeterminazione della forza-lavoro.
191
Capitolo Ventunesimo
L'INDETERMINAZIONE SOCIALE DEL LAVORO
La società astratta è condannata ad uno stato di precarietà finché alla
indeterminazione tecnica non fa riscontro una indeterminazione sociale del
lavoro, finché cioè un lavoro privo di determinazioni tecniche è in grado di
opporre alle pretese delle forze imprenditoriali le sue determinazioni sociali,
cioè la sua collocazione in un quadro sociale rapportato ai bisogni delle
donne e degli uomini.
In tal senso, il processo di indeterminazione sociale del lavoro attraversa e
scompagina tutti gli aspetti della condizione lavorativa - l'uso della forza-
lavoro, il quadro delle mansioni lavorative, la retribuzione - fino ad attaccare
lo stesso rapporto di lavoro.
21.1 L'indeterminazione della forza-lavoro nel mercato del lavoro
Perché il lavoro sia socialmente indeterminato, è necessario che sia
indeterminata la forza-lavoro manuale-intellettuale, cioè l'insieme delle
energie, delle attitudini e delle conoscenze che stanno alla base di ogni
attività lavorativa.
L'indeterminazione della forza-lavoro manuale-intellettuale ha inizio nel
mercato del lavoro e si definisce come assenza di corrispondenza fra la
qualità dell'offerta di prestazioni lavorative e la qualità della domanda. Si
tratta soprattutto di scarto di livello tra la qualificazione della forza-lavoro e il
tipo di prestazioni richieste. Questo scarto quasi generalizzato induce il
sistema socio-economico a non tenere conto del livello di qualificazione della
forza-lavoro, cioè a definire la qualità della domanda a prescindere dai livelli
di capacità e di conoscenza acquisiti dai soggetti che si presentano sul
mercato del lavoro.
In tale situazione, la forza-lavoro che presenta credenziali di qualificazione
a più alto livello ha minori probabilità di trovare una occupazione. Il che
induce quanti/e bussano alle porte del lavoro a nascondere, più che ad
esibire, la propria qualificazione. Chi è in possesso di laurea preferisce
192
presentare la licenza di terza media per un lavoro esecutivo, ad evitare di
essere scartato per "eccesso di qualificazione" 30.
Per tale via, il sistema socio-economico intende indurre i soggetti in cerca
di occupazione a presentarsi sul mercato come forza-lavoro indeterminata,
disponibile ad assumere qualsiasi determinazione, a svolgere qualsiasi ruolo
nell'attività lavorativa. L'indeterminazione della forza-lavoro prepara il terreno
all'indeterminazione dell'attività lavorativa. L'indeterminazione infatti qui si
definisce rispetto alla qualificazione della forza-lavoro. Dal momento che non
si vuole tenere conto delle determinazioni acquisite dalla forza-lavoro, si
preferisce lasciare indeterminata la qualificazione, in modo da indurre il
soggetto ad una maggiore disponibilità nei confronti delle esigenze della
produzione. Chi non ha una precisa qualifica da rivendicare sarà costretto/a
a mostrarsi più accondiscendente verso le richieste della controparte.
L'indeterminazione che i giovani e le giovani in cerca di prima
occupazione sono costretti a portarsi addosso nel momento in cui si
presentano sul mercato del lavoro è una sorta di costume di scena, che
indossano sopra le determinazioni, per nascondere le loro specifiche
capacità, i loro bisogni particolari, le loro aspirazioni personali ed apparire
completamente disponibili nei confronti di qualsiasi richiesta. E' dunque,
all'origine, per chi cerca occupazione, una "finzione". Ma chi siede dall'altra
parte del tavolo ha interesse a prendere la "finzione" per realtà. Assume
dunque il comportamento della forza-lavoro nel mercato del lavoro come
modello del suo comportamento nel processo lavorativo. Si aspetta cioè che
chi è docile e arrendevole all'atto dell'assunzione lo sia poi anche nel
rapporto di lavoro. Al polo opposto, chi viene assunto/a ha piena
consapevolezza del fatto che l'indeterminazione esibita sul mercato del
lavoro era una "finzione" necessaria per farsi assumere.
Con questi presupposti, appena stipulata l'assunzione, si apre un aspro
conflitto. La Direzione tende a fare dimenticare al soggetto la realtà della sua
determinazione. Il soggetto tende a fare dimenticare la "finzione" recitata sul
mercato ed a reclamare i diritti della sua determinazione.
In un sistema come quello capitalistico, basato sul rapporto tra le forze in
campo, I'accumulazione dell'esperienza sociale si traduce spesso in un
danno per i più deboli, perché da tale esperienza i potenti apprendono a
30 Sul quotidiano «La Repubblica» del 15/9/1996, pag. 21, è riportata la seguente notizia: «Un tale ha
partecipato a un concorso alla Dogana, per poi sentirsi rispondere: Lei ha vinto, ma non La possiamo
assumere, perché il titolo di studio è troppo elevato».
193
sventare le piccole astuzie di chi è costretto/a a ricorrere a mille stratagemmi
per sopravvivere. Così accade che, ad un certo punto, chi chiede prestazioni
lavorative non si fida più del comportamento che viene esibito in sede di
trattativa per l'assunzione, perché sa che, dopo l'assunzione, verrà richiesto il
rispetto dei diritti acquisiti.
21.2 La flessibilità della forza-lavoro come indeterminazione esistenziale
In seguito alla immissione della forza-lavoro nel processo lavorativo,
I'esigenza di indeterminazione si traduce in richiesta di mobilità e di
flessibilità. La mobilità è l'indeterminazione della forza-lavoro rispetto al luogo
di produzione (mobilità territoriale), al settore di produzione (mobilità
intersettoriale) o al tipo di lavoro all'interno di un settore di produzione
(mobilità intrasettoriale). La flessibilità è l'indeterminazione della forza-lavoro
rispetto al modo e al tempo di produzione. Data la centralità che ha l'attività
nella vita umana, la flessibilità della forza-lavoro tende a definirsi come
indeterminazione esistenziale.
Prendiamo la mobilità territoriale. Chiedere ad un soggetto, uomo o
donna, di spostarsi continuamente sul territorio, secondo le esigenze della
produzione, di fatto significa chiedergli di non mettere radici in nessun posto.
Significa cioè condannarlo ad essere uno sradicato. La mobilità territoriale
prescinde, di fatto, dai vincoli - affettivi, culturali, esistenziali - che lega la
persona al "suo" ambiente. E ciò nella pretesa - più o meno esplicita, da
parte di chi controlla il sistema economico - di poter decidere, volta a volta, la
destinazione della forza-lavoro manuale-intellettuale semplicemente sulla
base delle esigenze della produzione.
DI fronte a tali esigenze, i bisogni immateriali dell'essere umano - in
questo caso, il suo sentirsi legato ad un particolare ambiente - vengono
opportunamente presentati dall'apparato ideologico borghese come scorie
sottoculturali, da cui un moderno sistema industriale si deve liberare. In
realtà, il sistema capitalistico tecnologicamente avanzato ha bisogno di una
forza-lavoro manuale-intellettuale socialmente indeterminata, di una forza-
lavoro liberata da tutte le pastoie della concretezza umana. E non vuole
sentirne di prendere in considerazione la personalità di quel particolare uomo
o di quella particolare donna che è il soggetto portatore di forza-lavoro.
Preme cioè per riportare il rapporto di lavoro ai suoi termini originari di pura e
194
semplice compravendita della forza-lavoro, spogliandolo di ogni valenza
sociale ed esistenziale.
In altri termini, le forze imprenditoriali intendono fare valere una definizione
formale del rapporto di lavoro, come rapporto puramente economico - e
quindi astratto - fra capitale e lavoro, in cui non possono interferire questioni
di carattere personale. Chi desidera essere assunto/a deve sempre
rispondere a qualsiasi richiesta dell'addetto al personale: no problem. In
questo senso, in fabbrica o in ufficio deve entrare la forza-lavoro, mentre il
soggetto, che ne è il portatore, deve restare fuori dalla sede di lavoro.
Non si tratta di una sottigliezza filosofica. C'è, dietro, una questione
politica di fondo. Perché è proprio nel rifiuto delle persone concrete di
definirsi esclusivamente come forza-lavoro l'atto politico fondante
dell'antagonismo sociale.
Non è un caso che i rappresentanti del capitale individuano nell'universo
dei bisogni una mina vagante e una minaccia incombente sul sistema di
privilegi. E pretendono di esorcizzarlo con la quotidiana predica sulle leggi
ferree dell'economia e soprattutto con la volontà proterva di comprimere i
bisogni sociali. L'attacco è rivolto contro la realtà esistenziale delle donne e
degli uomini, su cui gravita l'universo dei bisogni. Disinnescando le persone
concrete dall'universo dei bisogni, si pretende di potere accedere all'uso di
una forza-lavoro indeterminata, sorda al richiamo dei sentimenti, degli affetti,
indifferente alla qualità della vita, pronta ad abbassare le proprie esigenze
quotidiane al minimo vitale.
La pretesa di fare uso di una forza-lavoro manuale e intellettuale
socialmente indeterminata si definisce così più distintamente. C'è in essa il
rifiuto ostinato di dare legittimazione politica ai bisogni, materiali e
immateriali, sempre più diffusi nella collettività, proprio perché in essi viene
individuato un fattore di opposizione sociale.
In tale contesto, la determinazione presente nei bisogni sociali si polarizza
nei confronti dell'astrazione presente nell'uso capitalistico della forza-lavoro
manuale-intellettuale. In altri termini, I'insieme delle particolarità concrete e
delle irrinunciabili necessità personali presenti nell'essere sociale viene
gradatamente a definirsi come un mondo separato e contrapposto al quadro
economico astratto, entro il quale gli uomini e le donne in carne e ossa
vengono ridotti ad unità indifferenziate.
Questa polarizzazione apre un ventaglio di conflitti sociali più o meno
marcati, più o meno tesi, con punte di scontro e periodi di stasi, con vittorie e
195
sconfitte da una parte e dall'altra, a seconda dell'andamento dei rapporti di
forza fra capitale e lavoro.
In ogni caso, permangono i presupposti della contrapposizione fra bisogno
capitalistico di indeterminazione e bisogno sociale di determinazione. Alla
richiesta di mobilità territoriale viene a contrapporsi l'affermazione del
bisogno delle persone concrete di avere un rapporto stabile con l'ambiente e
con la comunità.
Un discorso analogo può farsi per le altre forme di indeterminazione della
forza-lavoro. La mobilità rispetto alle mansioni si definisce, dal nostro punto
di vista, come indeterminazione della forza-lavoro manuale-intellettuale
rispetto ai contenuti del lavoro. Non essendo definite le mansioni lavorative,
la persona viene chiamata a funzionare come "forza-lavoro", in senso
letterale, cioè come semplice "macchina di lavoro". Si badi bene. L'astrazione
è qui introdotta all'interno della stessa definizione di forza-lavoro, in quanto
entità priva di qualsiasi specificazione contenutistica, a prescindere dal
rapporto fra persona e attività lavorativa.
Non è dunque in questione l'opzione personale per le forme e per i
contenuti dell'attivazione. La forza-lavoro manuale-intellettuale, chiamata ad
applicarsi a contenuti sempre diversi, a seconda delle esigenze del processo
produttivo, può essere definita come entità indeterminata in sé, ancora prima
che venga presa in considerazione in quanto requisito di questa o di quella
persona particolare. E ciò perché per questa via I'attività lavorativa tende a
definirsi come vuota forma, in grado di riempirsi di qualsiasi contenuto.
Ancora più coinvolgente, se possibile, è la flessibilità dell'uso della forza-
lavoro manuale-intellettuale, cioè la possibilità di usare la forza-lavoro in
modo elastico rispetto ai ritmi, agli straordinari, ecc.. In questa sede, la
flessibilità coinvolge direttamente la determinazione esistenziale degli uomini
e delle donne. Essa presuppone una vita quotidiana indeterminata, una vita
quotidiana priva di qualsiasi struttura autonoma e volta a volta modellata -
attraverso il controllo della giornata lavorativa - sulle scadenze del
programma di produzione.
La flessibilità dell'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale - se
applicata, per esempio, all'orario di lavoro - estende il tempo di lavoro a tutto
il tempo di vita, in quanto ogni segmento del tempo di vita viene ad essere
potenziale tempo di lavoro. E quindi, attraverso il comando sul tempo di
lavoro, il sistema politico-economico comanda tutto il tempo di vita. La
giornata lavorativa - pur rimanendo immutato, sul piano quantitativo, il tempo
196
di lavoro - scorre lungo il tempo di vita e riesce così a contaminare l'intero
arco della vita quotidiana.
Tutto ciò ha conseguenze notevoli sulla struttura della vita quotidiana. Non
essendo fissati stabilmente i confini temporali dell'uso della forza-lavoro
manuale-intellettuale, la vita quotidiana non può avere un minimo di
organizzazione, non può darsi una qualsiasi struttura stabile, nemmeno
quella struttura subalterna al capitale che è possibile in concomitanza di un
uso rigido della forza-lavoro. La vita quotidiana di ognuno/a di noi è
condannata a rimanere informe, per potere assumere la forma che le dà,
volta a volta, la struttura della giornata lavorativa. Per questa via, il comando
del capitale sulla vita quotidiana, proprio perché è indeterminato, privo di
qualsiasi codifica, diventa totale.
Abbiamo considerato gli effetti della flessibilità applicata all'orario di lavoro,
presupponendo immutato, sul piano quantitativo, il tempo di lavoro. Ma, nel
quadro delle esigenze della programmazione capitalistica della produzione,
flessibilità non significa solo elasticità della struttura dell'orario di lavoro entro
determinati limiti quantitativi. Significa anche possibilità, attraverso un uso
discrezionale degli straordinari, di variare quantitativamente il tempo di
lavoro, secondo le esigenze della produzione. Così la giornata lavorativa non
solo scorre lungo l'arco della vita quotidiana, ma si dilata e si restringe. Il
tempo di vita è sotto il completo dominio del tempo di lavoro.
21.3 L'indeterminazione della retribuzione come rischio esistenziale
Nei termini della nostra analisi, le determinazioni della persona concreta si
realizzano nel quadro esistenziale. Ora, perché la retribuzione sia legata alle
determinazioni esistenziali delle donne e degli uomini, bisogna che sia
indipendente dal quadro economico. La retribuzione legata alla congiuntura è
una retribuzione sganciata dai bisogni esistenziali delle persone e agganciata
ai bisogni economici del sistema. E' una retribuzione indeterminata per la
vita concreta dei soggetti e regolata sulla base delle determinazioni del
sistema economico.
Nella società astratta, la tendenza a definire la retribuzione come variabile
dipendente dalla congiuntura economica, cioè ad abbassarla e ad elevarla
secondo l'andamento degli indici dell'economia, è dunque una specificazione
dell'esigenza capitalistica di indeterminazione sociale. Una tendenza che
197
mira a subordinare la qualità della vita al processo di valorizzazione del
capitale 31.
Dal punto di vista delle donne e degli uomini che sono costretti a
vendere l'uso della propria forza-lavoro manuale-intellettuale per procurarsi
di che vivere, considerare la retribuzione una variabile indipendente significa
da un lato subordinare l'economico al sociale e dall'altro mettere il sociale al
riparo dall'economico. Da un lato il profitto è costretto a rapportarsi alla
qualità della vita sociale, dall'altro la qualità della vita sociale cessa di
rapportarsi al profitto. Al pendolo, che oscilla pericolosamente tra il profitto
capitalistico e la qualità della vita sociale, viene imposto un determinato
arco di oscillazione, oltre il quale non può andare.
Tutto ciò che è garanzia per le persone concrete è limite per l'apparato di
astrazione. E, viceversa, tutto ciò che è mancanza di limite per l'apparato di
astrazione è rischio per le persone. Finché la retribuzione è variabile
dipendente, la qualità della vita sociale è legata alle alterne vicende della
imprenditorialità.
Il rischio imprenditoriale è un vanto storico della borghesia. L'aspetto
ideologico di tale vanto sta nel non chiarire che si tratta di rischio soltanto
economico. A fronte del carattere tutto economico del rischio
dell'imprenditore, sta il carattere tutto esistenziale del rischio del lavoratore
o della lavoratrice. Da una parte l'individuo mette a rischio il suo essere
capitalista, dall'altra la persona mette a rischio il suo essere tout court. Da
qui discendono da una parte il tanto osannato amore borghese e all'altra il
tanto deprecato odio proletario nei confronti del rischio imprenditoriale.
La retribuzione come variabile indipendente è il rifiuto del rischio
esistenziale in quanto conseguenza diretta del rischio imprenditoriale. La
retribuzione come variabile dipendente è la pura e semplice traduzione del
rischio economico dell'imprenditore in rischio esistenziale per chi vive di
lavoro.
Fin qui abbiamo considerato la questione, per così dire, allo stato puro, in
termini di rischio dell'imprenditore contrapposto al rischio del lavoratore o
della lavoratrice, al fine di evidenziare il salto qualitativo che c'è fra un
31 La retribuzione degli operai Fiat è legata, fra l'altro, ad un indice di qualità del prodotto. Sulla base di
questo vincolo, pare che la Fiat vorrebbe far dipendere il salario degli operai da un sondaggio che verifichi il
livello di gradimento del prodotto da parte degli utenti (Da una trasmissione radiofonica del gennaio 1996).
198
rischio e l'altro 32. Abbiamo perciò dovuto assumere come reale il rischio
imprenditoriale. In realtà, è noto che raramente l'imprenditore rischia di suo,
anche in termini strettamente economici. Quante volte un capitalista che si
rispetti va in rovina se gli fallisce una iniziativa imprenditoriale? Si dirà per
contro: quante volte un lavoratore o una lavoratrice muore fisicamente se
perde il posto di lavoro?
Si tratta di intendersi sul termine sopravvivenza. Prescindiamo dai casi in
cui la disoccupazione porta alla disperazione ed alla autosoppressione
fisica. Ebbene, il non avere la certezza dei mezzi di sussistenza getta la
persona in una particolare condizione esistenziale, che può essere posta in
termini di messa in discussione della sopravvivenza. Il che non deve
necessariamente comportare la morte fisica. Quando parliamo di
sopravvivenza del lavoratore o della lavoratrice come polo opposto al
profitto dell'imprenditore, crediamo di non operare nessuna forzatura sulla
realtà. Venire a mancare dei mezzi di sussistenza significa per una persona
dover vivere sul filo della sopravvivenza, anche quando questa
sopravvivenza si prolunga per tutta una vita. Una società che fa mancare ad
un uomo o ad una donna i mezzi di sussistenza può essere ritenuta -
senza in nulla esagerare - responsabile della sua morte, anche se quella
persona tira avanti per anni. Per intendersi, mettere a rischio la certezza
della sopravvivenza di una persona è come mettere a rischio la sua
sopravvivenza.
Se consideriamo questi aspetti, la distanza qualitativa fra di due rischi
aumenta a dismisura, si fa abissale. Anzi. Ci accorgiamo che un paragone
fra i due rischi è impossibile. Si tratta, in effetti, di entità non paragonabili.
Da una parte c'è il rischio di venire a mancare dei mezzi di sussistenza,
dall'altra c'è il perseguimento del profitto anche attraverso il ricatto della
messa in discussione dei mezzi di sussistenza.
Come si vede, siamo tornati ai termini originari di ogni questione che
coinvolga il rapporto fra la società-struttura e la società-collettività. Gira e
rigira, la partita si gioca, anche in questa sede, tra gli interessi del capitale e
la qualità della vita sociale. Attaccando la determinazione esistenziale della
retribuzione, la struttura capitalistica mira a controllare quella sorta di
insubordinazione della collettività che si esprime nella definizione della
32 Se non si tiene conto di questa distinzione, diventa plausibile il discorso di un imprenditore, il quale,
intervenendo in un dibattito, si chiedeva, a proposito della libertà di licenziare: dal momento che gli
imprenditori mettono a rischio i loro capitali, perché gli operai pretendono di avere certezza di lavoro?
199
retribuzione come variabile indipendente. Mira a piegare la qualità della vita
sociale alle "leggi" dell'economia capitalistica. L'autonomia della
retribuzione si esprime da un lato come indipendenza nei confronti del
profitto, dall'altro come dipendenza nei confronti del costo della vita. Da
una parte la retribuzione come variabile indipendente, dall'altra l'indicizza-
zione della retribuzione in rapporto al costo della vita.
L'argomentazione che gli economisti borghesi sono soliti portare avanti a
favore dell'imprigionamento della retribuzione è che, in un sistema
altamente integrato come quello capitalistico avanzato, nessuna delle
variabili in gioco può agire in modo indipendente dalle altre. Si tratta,
ovviamente, di una difesa di ufficio degli interessi capitalistici e di un
sostegno ideologico - ammantato di scientificità - all'attacco contro la qualità
della vita sociale. Tanto è vero che una tale argomentazione viene gettata
alle ortiche quando - cambiando il fronte di attacco - non porta acqua al
mulino degli interessi delle forze imprenditoriali.
L'indicizzazione della retribuzione è rispettosa del carattere integrato del
sistema. Essa fa in modo che la variabile retribuzione non agisca in modo
indipendente rispetto alla variabile costo della vita. Coerenza perciò
vorrebbe che quegli economisti che usano l'argomento del sistema integrato
contro la definizione della retribuzione come variabile indipendente, lo usino
anche in difesa della indicizzazione. Ci si aspetterebbe cioè che coloro che
sostengono la tesi della retribuzione come variabile dipendente difendano
un meccanismo che assicura già la dipendenza della retribuzione. E invece
no. Gli economisti che attaccano la retribuzione come variabile indipendente
rispetto al profitto, I'attaccano come variabile dipendente rispetto al costo
della vita.
La ragione c'è. Gli economisti borghesi non possono difendere
l'indicizzazione della retribuzione, perché essa va sì in direzione
dell'integrazione del sistema, ma questa volta dal punto di vista delle forze
di lavoro. L'indicizzazione della retribuzione è, come si sa, per le forze di
lavoro un meccanismo di difesa del potere di acquisto della retribuzione,
un meccanismo di difesa della retribuzione reale. Una retribuzione non
indicizzata è una retribuzione esposta alla variabilità del costo della vita 33.
33 Come è noto, l'indicizzazione della retribuzione - nota come «scala mobile» - è stata abolita con
l'accordo del 31 luglio 1992.
200
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che nella società sussunta al
capitale, in quanto società astratta, I'attacco alla retribuzione viene portato -
al di là delle acrobazie ideologiche degli economisti borghesi - su due
fronti. Da un lato il blocco sistematico delle retribuzioni nominali, attraverso
il loro agganciamento al profitto, dall'altro il sistematico taglio delle
retribuzioni reali, attraverso il loro sganciamento dal costo della vita.
Come è noto, i rapporti fra capitale industriale e capitale finanziario sono
molto stretti. Le grosse concentrazioni di capitale hanno la loro appendice
finanziaria. In tale contesto, le manovre monetarie sono parte integrante del
processo di accumulazione, in quanto incidono direttamente sul valore reale
delle componenti della produzione e soprattutto - per quel che qui interessa
- sulla retribuzione reale.
E' ormai di dominio pubblico quanto di manovrato c'è nel processo di
inflazione, che è uno dei fenomeni più appariscenti della vita economica. Il
margine di manovra che I'inflazione lascia al grande capitale industriale
viene utilizzato per riportare continuamente il valore reale della retribuzione
al di sotto del valore nominale. Per questa via, il capitale per un verso riesce
a recuperare quel che è costretto a cedere, volta a volta, in termini di
incrementi retributivi, per l'altro crea le condizioni per assorbire nuovi aumenti
di retribuzione.
L'ostacolo più grosso ad un uso dell'inflazione come manovra di
restrizione retributiva è la nozione di retribuzione reale, che consente una
rigidità retributiva verso il basso. E' infatti questa nozione che fornisce alle
forze del mondo del lavoro il punto di riferimento per contenere gli effetti
delle manovre inflazionistiche sulle retribuzioni. Mentre la nozione di
retribuzione nominale lascia, da sola, la retribuzione completamente in balia
delle operazioni monetarie, più o meno occulte.
D'altra parte, una restrizione retributiva può essere ottenuta anche
attraverso una manovra deflazionistica. Per ridurre l'inflazione, vengono
bloccati i meccanismi di incremento delle retribuzioni. Si dice che i
lavoratori e le lavoratrici non perdono niente, perché con la riduzione
dell'inflazione resta immutato il potere di acquisto delle retribuzioni. Ciò
sarebbe vero se l'incremento delle retribuzioni rallentasse esattamente in
proporzione alla riduzione del tasso di inflazione. In realtà, viene impresso
alle retribuzioni un rallentamento più significativo rispetto alla riduzione
dell'inflazione. Attraverso questa sottile manovra, un abbassamento del
201
tasso di inflazione viene tradotto in una diminuzione del potere di acquisto
delle retribuzioni.
Per tutto ciò, la nozione di retribuzione reale rispecchia il punto di vista
delle forze di lavoro. La nozione di retribuzione nominale rispecchia invece il
punto di vista delle forze imprenditoriali, che hanno interesse a fare di essa
la nozione generale di retribuzione e mirano alla distruzione della nozione
di retribuzione reale.
21.4 L'indeterminazione della mansione lavorativa
La libertà di spostare la forza-lavoro manuale intellettuale da un punto
all'altro del processo di produzione di beni o di servizi significa - nella
società sussunta al capitale - possibilità di spezzare il rapporto fra il soggetto
ed uno specifico contenuto del lavoro.
L'obiettivo che sta alla base di tale operazione è l'indeterminazione della
mansione lavorativa. Tale indeterminazione cambia la qualità della
prestazione lavorativa. Il soggetto perde il rapporto tradizionale con una
specifica mansione, senza d'altra parte acquisire un qualsiasi rapporto con
l'insieme del processo di produzione.
Il rapporto tradizionale del soggetto con uno specifico contenuto del lavoro
faceva - in una certa misura - da tramite per il rapporto con il sistema sociale
di produzione. Venendo a mancare quel tramite, la forza-lavoro manuale-
intellettuale resta in balìa degli interessi delle forze imprenditoriali.
La mobilità da una parte ha dunque il significato tecnico di fare cadere
qualsiasi condizionamento professionale all'uso della forza-lavoro manuale-
intellettuale, dall'altra ha il significato politico di fare della persona una
individualità priva di identità lavorativa.
21.5 L'indeterminazione del rapporto di lavoro
Nello stato di avanzamento della nostra analisi, il processo di
indeterminazione non ha ancora investito il rapporto di lavoro. La distinzione
fra indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro da una parte
e indeterminazione del rapporto di lavoro dall'altra non è soltanto analitica.
In realtà - e non soltanto in teoria - può darsi un lavoro indeterminato
all'interno di un determinato rapporto di lavoro.
202
In sede di rapporto di lavoro, I'indeterminazione si definisce in termini
di instabilità. Ora, è vero che l'indeterminazione dei contenuti e delle
condizioni di lavoro, rimettendo continuamente in discussione la
collocazione della forza-lavoro lungo l'arco del processo lavorativo e sul
terreno delle garanzie sociali, apre sempre nuovi conflitti, che mettono in
tensione la stabilità del rapporto di lavoro. Ma la stabilità del rapporto in
quanto tale non è toccata - se non indirettamente - dalle richieste relative, per
esempio, alla flessibilità ed alla mobilità, che anzi presuppongono l'esistenza
di un rapporto di lavoro definito e formalizzato. (Nel lavoro senza contratto
mobilità e flessibilità sono implicite).
In questo quadro si intravede già la direzione del processo di
indeterminazione nella sfera lavorativa. Partendo da un assetto generale
delI'universo del lavoro in termini di relativa stabilità, si può ipotizzare una
graduale scompaginazione di tutti gli aspetti della condizione lavorativa.
Questo processo ha il suo culmine in un attacco diretto al rapporto di
lavoro.
Il punto terminale della libertà di spostare è la libertà di licenziare, cioè
di rompere il rapporto fra il soggetto portatore di forza-lavoro manuale-
intellettuale e il sistema di produzione. E' in questo quadro che
l'indeterminazione lavorativa acquista significato, in quanto anello di una
catena di attacchi alla stabilità della presenza delle forze di lavoro nel
sistema di produzione.
Fra l'indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro e
I'indeterminazione del rapporto di lavoro c'è però un duplice scarto di
livello. Per quanto attiene alle conseguenze sociali, è evidente la differenza
che corre fra una ridefinizione dell'attività lavorativa e una rottura del
rapporto di lavoro, cioè fra uno spostamento da una mansione ad un'altra
ed un licenziamento.
Per quanto attiene all'oggetto che viene investito dal processo,
I'indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro riguarda le
modalità d'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale. L'indeterminazione
del rapporto di lavoro mette invece in discussione l'uso stesso della forza-
lavoro. Nel primo caso si tratta di una riorganizzazione qualitativa delle forze
di lavoro acquisite al processo di produzione. Nel secondo caso si tratta
invece di una ridefinizione quantitativa dell'acquisizione, al processo
produttivo, delle forze di lavoro disponibili. Questi due versanti del
203
processo vanno tenuti distinti, anche se la strategia capitalistica opera
contemporaneamente sui due fronti.
L'impiego capitalistico del potenziale di operatività e di creatività che è
nella collettività obbedisce a criteri di convenienza, in vista della
realizzazione del massimo profitto. E sono tali criteri che stabiliscono, volta a
volta, la quota di forza-lavoro da acquisire al sistema di produzione.
La questione viene complicata dai risvolti sociali che ha sempre una
qualsiasi ridefinizione quantitativa della base produttiva. Ma, a prescindere
da tali implicazioni, la quota di forza-lavoro necessaria al processo
produttivo è rapportata non al bisogno di occupazione che hanno gli uomini
e le donne, ma al disegno di massimizzazione del profitto che può essere
realizzato in una fase data della evoluzione tecnologica.
Ne consegue che la necessità di forza-lavoro manuale-intellettuale varia
con il variare delle situazioni. E ciò sul piano semplicemente quantitativo, in
termini di uomini e di donne da acquisire alla produzione di beni e di
servizi, oltre che, ovviamente, sul piano della qualità delle forze di lavoro
da impiegare. Tale necessità è legata a due fondamentali fattori: da un lato
la strutturazione tecnica del processo lavorativo, dall'altro l'andamento del
mercato. Questi due fattori non hanno la stessa evoluzione.
La strutturazione tecnica del processo lavorativo procede - in generale - in
direzione della sostituzione di lavoro umano con lavoro tecnico, cioè di
uomini e di donne con macchine. Su questo versante, la necessità di forza-
lavoro manuale-intellettuale da acquisire al processo lavorativo ha un
andamento relativamente lineare, in direzione di una progressiva
diminuzione. La produzione di beni e di servizi, via via che si struttura in
sistema tecnico, ha bisogno di espellere lavoro umano, manuale e
intellettuale. C'è quindi una tendenza alla restrizione della base produttiva.
E' invece difficile tradurre in tendenza lineare l'andamento del mercato in
relazione ad un particolare prodotto. Può, per esempio, andare bene, in
generale, il mercato delle auto. Ma un modello non "tira", come si dice in
gergo, cioè non si vende abbastanza. E allora, in quel particolare settore, la
forza-lavoro diventa "esuberante". Poi invece si immette nel mercato un
nuovo modello, che ha un successo clamoroso. E allora, per andare dietro
alla richiesta, occorre aumentare la produzione e quindi assorbire una quota
più alta di forza-lavoro. Senza dire che ci sono prodotti che hanno un
consumo prevalentemente stagionale (si pensi, per esempio, ai gelati).
Inoltre, nella società avanzata uno degli incentivi al consumo è la continua
204
variazione della gamma dei prodotti. Il mercato allargato ha bisogno di
novità. E le novità provocano l'alternarsi di impennate e di cadute del
consumo.
Da questo quadro emerge la necessità che ha il sistema produttivo
capitalistico di definire il rapporto di lavoro in termini di estrema instabilità,
per potere rapportare l'impiego di lavoro umano da una parte alla
evoluzione del sistema tecnico e dall'altra all'andamento del mercato. Le
risposte che via via vengono date a tale esigenza di fondo si collocano a
diversi livelli di intervento e sono comunque esiti provvisori di una ricerca
che tende a rifondare il rapporto complessivo fra capitale e lavoro.
21.5.1 La valenza sociale del «posto di lavoro»
In un assetto del rapporto di lavoro improntato alla stabilità, la ricerca di
un lavoro ha una collocazione ben precisa nella fase iniziale dell'età adulta.
E' la fase della ricerca del «posto di lavoro».
In tale assetto, il «posto di lavoro» ha una valenza sociale che va ben al
di là della semplice collocazione professionale. In una società che pretende
di ignorare i bisogni primari degli uomini e delle donne, potere contare su
una attività retribuita relativamente stabile significa mettere la propria
esistenza al riparo da imprevisti. La società astratta non dà sicurezza e
spinge quindi chi non dispone di mezzi propri a cercare rifugio in un lavoro
dipendente, il più possibile stabile e sicuro. Da qui il valore esistenziale
dell'approdo ad un «posto di lavoro». Valore che, del resto, è possibile
intravedere nell'espressione «si è sistemato», riferita a chi un «posto» I'ha
finalmente trovato.
In realtà, in un quadro di relativa stabilità del rapporto di lavoro, la ricerca
del «posto» si risolve nella ricerca - più generale - di dare, una volta per
tutte, una "sistemazione" alla propria vita. Non è un caso che, in questo
quadro, il «posto di lavoro» viene comunemente percepito - a torto o a
ragione - come il passaggio dalla "irresponsabilità" giovanile alla
"responsabilità" dell'età adulta.
Ora, la stabilità del rapporto di lavoro, che si esprime nella nozione di
«posto di lavoro», è un dato antitetico al processo di indeterminazione, che
tende al continuo azzeramento della condizione sociale degli uomini e delle
donne. Tutto ciò che rappresenta sicurezza per i soggetti concreti si qualifica
in termini di destabilizzazione per la struttura della società astratta.
205
Da qui la tendenza a liberare il rapporto di lavoro da ogni vincolo sociale.
Questa tendenza si esprime, in una prima fase, in una sorta di
sperimentazione della indeterminazione occupazionale, che è volta alla
costruzione, in prospettiva, di un nuovo assetto del rapporto di lavoro,
adeguato alla società astratta.
Questa tendenza mette in crisi la nozione tradizionale di «posto di
lavoro». Tale nozione ha una doppia valenza. Da un lato fa riferimento alle
attitudini necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa,
dall'altro si riferisce alla capacità che ha il sistema sociale di assicurare
occupazione. Da un lato dunque il carico di qualità lavorativa necessaria
per fare funzionare il processo complessivo di produzione, dall'altro il carico
di unità occupazionali che il processo è in grado di garantire.
Ora, nella società astratta queste due valenze tendono a contare sempre
meno. Il «posto di lavoro», in quanto professionalità sedimentata e inglobata
in una singola unità produttiva, viene investito da profonda crisi, per via
dell'accelerazione del processo di innovazione tecnologica. Il «posto di
lavoro», in quanto unità di misura delle capacità occupazionali del sistema
sociale, diventa sempre meno definibile. Le capacità occupazionali di un
sistema produttivo capitalistico avanzato sono sempre meno quantificabili in
modo rigoroso e sempre più determinate dai rapporti di forza. A monte di
tali capacità ci sono infatti tali e tante scelte soggettive, che è pura ideologia
volerle presentare come potenzialità neutre del sistema.
Da tutto ciò emerge la necessità, per le forze imprenditoriali, di aprire una
nuova prospettiva in sede di definizione globale del rapporto di lavoro.
21.5.2 Sperimentazione della indeterminazione occupazionale e doppio mercato del lavoro
In vista di un nuovo assetto del rapporto di lavoro, si procede alla
sperimentazione della indeterminazione occupazionale, nel cui ambito
assume particolare significato il ricorso a un doppio mercato del lavoro: un
mercato, ufficiale, del lavoro regolare e un mercato, non ufficiale, del lavoro
irregolare, cioè non garantito da contratto.
L'apparato di produzione tende a schiacciare la forza-lavoro manuale-
intellettuale con una strategia a tenaglia: da una parte una stretta alla forza-
lavoro ufficialmente occupata in termini di blocco retributivo, di utilizzo
flessibile e di espulsione dal processo lavorativo; dall'altra un uso indi-
206
scriminato - al di fuori del sistema di garanzie contrattuali - della forza-
lavoro non ufficialmente impiegata. Si viene così ad aprire una doppia
prospettiva: da una parte sostituzione di lavoro umano con lavoro tecnico,
dall'altra sostituzione di lavoro regolare con lavoro irregolare.
In ambedue i casi si tende ad ottenere una restrizione delle forze di
lavoro, manuali e intellettuali, ufficialmente impiegate. Ma nella sostituzione
di lavoro regolare con lavoro irregolare c'è anche l'utilizzo di un secondo
mercato del lavoro, complementare al mercato ufficiale.
Operare in un sistema di doppio mercato del lavoro significa per le forze
imprenditoriali avere la possibilità di scaricare sul secondo mercato ogni
onere che deriva dall'operare sul primo mercato. Non solo. La situazione di
doppio mercato - con notevole scarto di costi fra il primo e il secondo -
produce una tendenza a trasferire retribuzioni dal primo al secondo mercato,
espellendo forza-lavoro in condizione contrattuale, per riassumerla in
condizione non contrattuale.
La complessa manovra a tenaglia - tendente a spremere, con pressioni
opposte e convergenti, il primo e il secondo mercato del lavoro - viene
sostenuta, sul piano ideologico, con un curioso ragionamento a doppia
faccia. Per ottenere di potere operare liberamente nel mercato ufficiale, le
forze imprenditoriali si fanno scudo della condizione dei disoccupati, che
meritano più attenzione degli occupati, perché mancano dei mezzi di
sussistenza. Per sentirsi legittimate ad operare nel secondo mercato,
mettono avanti la condizione degli occupati, che godono di retribuzioni
"troppo alte". Per un verso si sostiene che, per fare nuovi investimenti ed
incrementare l'occupazione, è necessario bloccare le retribuzioni, per I'altro
si richiede il riconoscimento ufficiale del carattere "fisiologico" del lavoro
irregolare.
Su questa via si muovono e convergono due tendenze: da una parte la
tendenza al blocco delle retribuzioni, dall'altra la tendenza alla
istituzionalizzazione del mercato del lavoro irregolare.
21.5.3 Le forme del lavoro irregolare
Per quel che qui interessa, il processo di indeterminazione attacca
I'attività lavorativa su due punti: il rapporto di lavoro e il contenuto del
lavoro. In sede di rapporto, I'indeterminazione si esprime in termini di
207
instabilità del lavoro. In sede di contenuto, si esprime in termini di
incertezza delle rnansioni lavorative.
L'intrecciarsi di questi due modi di esprimersi dell'indeterminazione
produce una miriade di forme di lavoro irregolare. Definiamo lavoro
irregolare una attività lavorativa che viene svolta, per conto terzi, al di fuori
di un quadro definito di garanzie contrattuali.
La casistica è ricchissima. Cerchiamo di esaminare rapidamente alcuni
casi esemplari, tratti dalla situazione italiana. Per cominciare, prendiamo -
per esempio - il caso di chi fa il cameriere in un ristorante in posizione
lavorativa irregolare. Qui l'indeterminazione riguarda il rapporto di lavoro, ma
non le mansioni lavorative, dal momento che questo cameriere irregolare fa,
più o meno, ciò che farebbe in posizione di lavoro regolare. Certo, è
possibile che gli vengano richiesti lavoretti extra. Ma, nella sostanza, egli fa il
cameriere.
Diversa è la situazione di chi non solo non ha un rapporto regolare di
lavoro, ma non può nemmeno fare riferimento ad un quadro definito di
mansioni. Sono gli irregolari "tuttofare". In questo caso, I'indeterminazione
investe sia il rapporto di lavoro che il contenuto dell'attività lavorativa.
Fin qui, comunque, un rapporto di lavoro sussiste di fatto, anche se non
formalizzato e quindi non garantito. Ci sono invece situazioni particolari in cui
è possibile scorporare dal processo complessivo singole produzioni, che
vengono affidate all'esterno. Tipico è il caso del lavoro a domicilio. Qui il
rapporto di lavoro viene azzerato non solo nella forma, ma anche nella
sostanza. La lavoratrice (quasi sempre si tratta di donne) non entra a far
parte dell'azienda. Viene ignorata non solo nei diritti, ma anche nella
persona. La sede di lavoro è casa sua. C'è un mediatore che porta
periodicamente il lavoro da fare e ritira il lavoro fatto.
In relazione al processo di indeterminazione, il lavoro a domicilio
presenta una serie di aspetti che vanno presi in esame. Il dato più rilevante
è senz'altro la sede di lavoro. Il lavoro a domicilio viene presentato, negli
avvisi economici, come un lavoro comodo: «Potrete guadagnare bene
standovene a casa vostra». In realtà, è il capitale che produce profitto
standosene comodamente in casa di altri. Il lavoro invade la vita familiare e
la sconvolge. Il tempo di vita ha la stessa lunghezza d'onda del tempo di
lavoro. Il tanto decantato "focolare domestico" si trasforma in un piccolo
laboratorio, con la donna sballottata tutto il santo giorno fra il ruolo di moglie
208
e di madre e il ruolo di lavoratrice, fra una cena da preparare, un sederino
da pulire e il prodotto da consegnare.
Questo dilatarsi della dimensione lavorativa al punto di sovrapporsi alla
dimensione di vita non deriva da un comando diretto sul lavoro. Non c'è
infatti un controllo sui modi e sui tempi dell'attività lavorativa.
L'indeterminazione del lavoro sembrerebbe quindi giocare a favore della
lavoratrice a domicilio, la quale - in teoria - può adattare il tempo ed il ritmo
del lavoro alle proprie esigenze. In realtà, il comando sul lavoro è mediato
dallo stato di necessità materiale, che spinge la lavoratrice a cercare di
raggiungere il massimo della produzione, prolungando i tempi ed
intensificando i ritmi, dal momento che viene pagata per pezzo lavorato. Per
una via traversa, si ottiene dunque lo stesso risultato: I'indeterminazione
come disponibilità del soggetto a mettere fra parentesi le proprie
determinazioni, per farsi carico delle determinazioni del sistema di
produzione.
Nell'arcipelago del lavoro irregolare è difficile classificare le diverse
situazioni sulla base di una scala di indeterminazione del rapporto di
lavoro. Ogni tipo di lavoro costituisce un caso a sé ed è l'esito di un
intreccio di interessi che si incarnano in una forma particolare. Da qui
I'andamento un po' erratico, del caso per caso, che inevitabilmente tende ad
assumere l'analisi all'interno di questo quadro.
Tuttavia stiamo cercando, nei limiti del possibile, di procedere lungo una
linea che va da un minimo ad un massimo di indeterminazione, cioè da
situazioni in cui sussiste, quanto meno, un rapporto informale, a situazioni in
cui il rapporto è, sotto tutti gli aspetti, azzerato e dissolto. Ora, nel caso del
lavoro a domicilio, il rapporto - come abbiamo visto - non sussiste. Di
contro, rimane in piedi - se pure in sede separata - una ministruttura tecnica,
che fa da supporto all'attività lavorativa. La lavoratrice a domicilio deve farsi
- fra l'altro, a proprie spese - I'attrezzatura indispensabile per lavorare in un
determinato settore della produzione. Una donna che lavora a domicilio nel
settore della maglieria non può fare a meno di una data macchina e di altri
opportuni arnesi. Inoltre, la lavoratrice a domicidio finisce per "specializzarsi"
in una particolare lavorazione.
La base tecnica acquisita e la specifica abilità accumulata danno luogo,
di fatto, ad una certa continuità dell'attività lavorativa, che a volte si traduce
in una sorta di "rapporto a distanza" - prolungato nel tempo - con una ditta.
La lavoratrice a domicilio non può passare continuamente da un tipo di
209
lavoro ad un altro, né da una ditta ad un'altra, perché ciò significherebbe
cambiare di continuo attrezzatura e tipo di lavorazione. Dall'altra parte, le
ditte tendono ad ottenere con una certa continuità un dato tipo di prodotto,
che soltanto lavoratrici con una specifica esperienza lavorativa sono in grado
di garantire.
In sintesi, dunque, il lavoro a domicilio presenta - rispetto al processo
di indeterminazione - una relativa stabilità di fatto del contenuto del lavoro
in un contesto di separatezza sociale dell'attività lavorativa (la lavoratrice a
domicilio non ha contatti con compagni e compagne di lavoro) e in assenza
di un qualsiasi rapporto di lavoro, formale o informale.
Nettamente differenziato appare, rispetto a questo quadro connotativo, il
lavoro di propaganda e di vendita esterna, porta a porta, come si dice.
Questa area è, al suo interno, molto variegata. Si va da chi gira per le case
per vendere enciclopedie a rate a chi mette la pubblicità dei detersivi entro
le cassette della posta.
Dando per scontata l'assenza di rapporto formale di lavoro - assenza
che è alla base della nozione di lavoro irregolare - ci sono differenziazioni
per quanto riguarda la continuità del lavoro e la presenza di un qualsiasi
rapporto informale di lavoro, cioè di un contatto continuato fra il lavoratore o
la lavoratrice e la ditta. E' facile, per esempio, supporre che il lavoro di
propagandista editoriale abbia una "durata" maggiore rispetto al lavoro di
distribuzione di fogli pubblicitari. E non perché il primo lavoro preveda un
qualche vincolo formale, ma semplicemente perché la propaganda editoriale
presuppone, quanto meno, I'acquisizione di alcuni standard di conoscenza
e di comportamento, oltre che un certo "stile". Requisiti che non sono
richiesti per mettere foglietti dentro le cassette della posta.
Si può dunque dire che - entro i parametri di una estrema precarietà,
dovuta all'assenza di vincoli formali - la "durata" del lavoro irregolare è
correlata alla "qualità" (si fa per dire) del suo contenuto.
Fanno, in un certo senso, parte a sé i lavori stagionali. Si tratta soprattutto
di lavori agricoli. In zone di intensa produzione di frutta, la raccolta è una
occasione di forte mobilitazione del lavoro irregolare. Giovani, in particolare
immigrati, vengono supersfruttati, a basso costo ed al limite della resistenza
fisica. Si tratta infatti di lavori faticosissimi, perché fatti in estrema intensità e
per un numero elevato di ore al giorno.
A questa intensificazione quasi ossessiva concorrono da una parte
I'interesse dello “stagionale” (si tratta in genere di uomini) - pagato per ogni
210
cesta di frutta raccolta - a guadagnare più che può nel più breve tempo
possibile e dall'altra l'interesse del proprietario a portare a termine
l'operazione il più presto possibile, dato che la raccolta non può essere
prolungata oltre un certo termine.
Il primo dato che emerge è il carattere particolare della situazione di
lavoro. Innanzi tutto, si tratta di una situazione predeterminata. C'è una
quantità determinata di frutta da raccogliere. L'occasione di lavoro è quindi
limitata. Finita la raccolta, I'occasione - per quell'anno - si esaurisce. Entro
questa sorta di contenitore il lavoratore stagionale riversa un lavoro
estremamente "concentrato", non perché venga sottoposto a particolari
controlli, ma perché ha interesse a fare più presto che può. Anche qui il
comando sul lavoro viene mediato dalla necessità materiale del soggetto.
Il carattere di esasperata "concentrazione" di questo lavoro produce, se
pure per periodi relativamente brevi, un vero e proprio azzeramento della
qualità della vita dei soggetti coinvolti. Alla "concentrazione" dell'attività
lavorativa corrisponde, come è ovvio, una elevazione del livello di
indeterminazione. Alla persona si richiede il massimo della disponibilità: la
disponibilità a sospendere per un certo periodo le proprie esigenze
quotidiane.
C'è nel lavoro stagionale un dato che ritroviamo in altri lavori irregolari: la
delimitazione dell'occasione di lavoro. Ci sono lavori che possiamo
chiamare "occasionali", perché nascono in occasione di un qualche evento
pubblico e finiscono nel giro di qualche giorno. C'è da sistemare sedie e
transenne per una manifestazione pubblica o per uno spettacolo. E' una
"occasione" delimitata, che mobilita lavoro irregolare. Rispetto alla raccolta
della frutta, di diverso c'è qui il controllo diretto dell'attività lavorativa. E si
capisce perché. Non è possibile, nel lavoro "occasionale", pagare per
quantità di prodotto. E allora è necessario comandare direttamente il lavoro.
Il che mette in evidenza la funzione suppletiva di comando che ha il
pagamento "tanto quanto".
In questa area il lavoro irregolare assume le forme più svariate e
raggiunge punte estreme di frammentazione. E, soprattutto, si presenta
come prestazione allo stato puro, separata dalla persona. Il soggetto non si
sente minimamente coinvolto. La singola prestazione viene ovviamente
inserita in una struttura organizzativa. Ma l'insieme viene composto e
scomposto con una tale rapidità da non lasciare segno alcuno in chi spende
le sue energie, si prende la paga e se ne va.
211
E' praticamente impossibile dare conto di tutte le forme del lavoro
irregolare. Del resto, quel che qui interessa non è tanto un panorama
esaustivo delle modalità esteriori, quanto una ricognizione delle risposte
che, attraverso il lavoro irregolare, le forze imprenditoriali approntano rispetto
all'esigenza di indeterminazione del rapporto di lavoro. Il lavoro irregolare
assume, volta a volta, la forma adatta al contesto in cui viene ad inserirsi.
Ma non è tanto il tipo di attività (raccogliere frutta, montare transenne) che
qui interessa, quanto l'assenza di un rapporto formale o di un qualsiasi
rapporto. In sostanza, qui interessa non tanto il lavoro irregolare quanto il
lavoro irregolare. Il lavoro irregolare interessa cioè non tanto per il suo
contenuto, quanto per il tipo di rapporto che comporta. L'irregolarità è infatti
riferita non all'attività lavorativa, ma al rapporto di lavoro.
Nella definizione adottata, un lavoro è irregolare non in quanto I'attività è
priva di regole, ma in quanto è privo di regole, o addirittura assente, il
rapporto entro cui l'attività viene svolta. Ciò non significa che nel lavoro
irregolare non ci possa essere anche una irregolarità dell'attività lavorativa.
Significa che chiamiamo irregolare anche un lavoro in cui l'attività lavorativa
si svolge con regolarità, ma in assenza di un rapporto regolare.
21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa
II lavoro irregolare, nelle sue svariatissime forme, ci interessa - in questa
sede - non tanto in sé, come ventaglio di risposte immediate all'urgenza del
problema della instabilità del rapporto di lavoro, quanto come spia delle
esigenze di fondo che stanno dietro a quella urgenza. Il lavoro irregolare da
un lato si definisce come soluzione non contemplata nel vecchio assetto,
dall'altro si propone come prefigurazione di un nuovo assetto. Da un lato
rottura pratica della stabilità del vecchio rapporto di lavoro, dall'altro
proposizione di un nuovo rapporto di lavoro, fondato sulla instabilità.
Ora, è possibile individuare nell'arcipelago del lavoro irregolare la
prefigurazione di un nuovo assetto del rapporto di lavoro? Dobbiamo
partire da un dato. La molteplicità delle forme che assume il lavoro
irregolare non è casuale. E' la traduzione pratica della molteplicità delle
situazioni in cui viene ad incardinarsi il rapporto di lavoro. Il montaggio
occasionale della struttura di uno spettacolo all'aperto presenta - in sede di
rapporto di lavoro - problemi diversissimi rispetto alla produzione di auto in
serie. Non è quindi immaginabile un assetto in cui l'instabilità del rapporto si
212
esprima negli stessi termini in tutte le situazioni. E tuttavia I'individuazione
delle esigenze di fondo presenti nel lavoro irregolare può consentire di
tracciare le linee lungo le quali si snoda il processo di istituzionalizzazione
della instabilità del rapporto di lavoro.
C'è da osservare innanzi tutto che, in assenza di vincoli formali, la
"durata" del rapporto di lavoro è - a un dato stadio dell'evoluzione
tecnologica - I'esito di una mediazione fra il grado di continuità lavorativa
di cui necessita un particolare processo di produzione e il grado di instabilità
che caratterizza l'andamento di un particolare prodotto sul mercato.
In teoria, in assenza di una esigenza apprezzabile di continuità e in
presenza di un andamento fortemente instabile del prodotto sul mercato,
ogni lavoro tende a definirsi, in sede di rapporto, come lavoro "occasionale".
In questo modello, a parte uno staff tecnico ed organizzativo, non c'è
bisogno di acquisire forza-lavoro manuale-intellettuale all'interno del
processo di produzione. Basta prelevare dal mercato del lavoro le
prestazioni che volta a volta servono al ciclo produttivo, senza che ciò debba
comportare l'assunzione al sistema di produzione dei soggetti che
forniscono le prestazioni.
Una tale prospettiva comporta la scissione fra soggetto e prestazione
lavorativa. Per cogliere la portata di tale innovazione, occorre tenere
presente che nell'assetto tradizionale del capitalismo industriale la
prestazione lavorativa è, almeno formalmente, integrata ad un soggetto
concreto, ad un uomo o ad una donna in carne e ossa. Il sistema di
produzione si garantisce l'uso di una data prestazione assumendo il
lavoratore o la lavoratrice che quella prestazione è in grado di fornire. Nel
nuovo modello è invece possibile acquisire, dietro compenso, specifiche
prestazioni lavorative, senza dovere necessariamente instaurare un rapporto
con le persone concrete 34.
Questa prospettiva viene prefigurata nel «lavoro interinale». Si tratta di un
vero e proprio salto di qualità, che strappa il velo ideologico e porta allo
scoperto la mercificazione del lavoro umano nel modo capitalistico di
produzione. il lavoro interinale è l'attività umana concepita come merce, che
si può dare «in affitto», esattamente come una casa per la villeggiatura. E,
siccome il lavoro umano è incarnato in uomini e donne in carne e ossa, non è
34 Il quotidiano «La Repubblica» del 6/3/1996 titola: «Cambia la mappa dell'occupazione: non più
dipendenti, ma fornitori di servizi per la grande impresa».
213
azzardato affermare che, con simili espedienti, il capitalismo avanzato
regredisce ad una sorta di "mercato degli schiavi".
Per questa via, si evita che donne e uomini si insedino stabilmente
all'interno del sistema di produzione e possano servirsi della struttura
produttiva come base materiale per la propria organizzazione di classe. La
lavorazione passa sotto il completo dominio della Direzione tecnica, che
opera l'assemblaggio delle singole prestazioni lavorative ad un livello
superiore rispetto al processo materiale di produzione.
In sintesi, il senso di fondo del processo di indeterminazione nella sfera
lavorativa si definisce in termini di emancipazione del lavoro dai vincoli
sociali. Ora, i vincoli sociali del lavoro umano discendono dalle implicazioni
esistenziali che ha per gli uomini e per le donne il problema
dell'occupazione. Pertanto, il modo capitalistico di emancipare il lavoro
umano è "liberarlo" dall'umano, assumendo - ove è possibile - la
prestazione lavorativa come pura e semplice performance tecnica, sganciata
dalla persona concreta. Il lavoro umano viene disinnescato dall'universo
della soggettività e integrato all'universo del sistema tecnico. La persona
diventa veramente - e non soltanto metaforicamente - macchina fra le
macchine.
21.5.5 L'istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro
Da quanto si è osservato emerge che un nuovo assetto del rapporto di
lavoro si configura non come passaggio da una regolazione ad un'altra, ma
come transizione da un sistema regolato ad un sistema non regolato.
L'istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro pone un
problema non di new regulation, ma di deregulation. Non si tratta cioè di
sostituire i vecchi con nuovi vincoli, ma semplicemente di azzerare il sistema
dei vincoli sociali nell'utilizzo della forza lavoro manuale-intellettuale.
L'emancipazione del rapporto di lavoro dai vincoli sociali si traduce in
liberazione dell'utilizzo della forza-lavoro dal rapporto formale di lavoro.
Una tale liberazione mette in moto tutte le possibili combinazioni fra capitale
e lavoro e si definisce quindi in termini di differenziazione del rapporto di
lavoro. Nella nuova posizione di forza, gli imprenditori possono attingere al
mercato del lavoro adottando, volta a volta, il rapporto per loro più
vantaggioso in relazione al tipo di produzione. In questo senso,
214
istituzionalizzazione della instabilità lavorativa significa per gli imprenditori
libertà di manovra nelle situazioni date.
Dal punto di vista delle forze di lavoro, I'istituzionalizzazione della
instabilità del rapporto di lavoro ha un significato di segno opposto.
L'azzeramento dei vincoli nel rapporto di lavoro produce - nei termini della
nostra analisi - il massimo di esposizione della forza-lavoro manuale-
intellettuale al processo di indeterminazione. Quanto più spazio ha
I'imprenditore per fare valere le esigenze relative alla produzione - che sono,
nel sistema capitalistico, le esigenze relative alla massimizzazione del
profitto - tanto meno spazio ha il lavoratore o la lavoratrice per far valere le
esigenze relative alla qualità della vita. Quanto più libere sono le aziende di
decidere i tempi e i modi del processo lavorativo, tanto meno libero/a è il
lavoratore o la lavoratrice di decidere i tempi e i modi del proprio vivere
quotidiano. Quanto meno vincolata è la Direzione aziendale nelle sue
richieste di prestazioni lavorative, tanto più vincolato/a è il lavoratore o la
lavoratrice nelle sue risposte. Al massimo di liberalizzazione del rapporto di
lavoro corrisponde il massimo di asservimento della forza-lavoro manuale-
intellettuale.
In questo quadro, I'indeterminazione si definisce come sovradetermi-
nazione, cioè come determinazione dall'alto, da parte di una forza esterna.
In realtà, I'indeterminazione non è soltanto assenza di determinazioni
proprie, ma anche disponibilità a farsi carico delle determinazioni del
processo produttivo. Essere indeterminati significa essere in condizione di
farsi sovradeterminare.
21.6 L’indeterminazione nel processo di trasformazione del lavoro
Il processo di indeterminazione opera sempre nel quadro di una
trasformazione sociale. Ma ha una sua specificità. Segna il passaggio da
situazioni più definite a situazioni meno definite. Una indagine
sull'indeterminazione del lavoro in un particolare contesto dovrebbe prima
individuare un quadro significativo di trasformazioni del lavoro e poi
accertare se e in che misura in tale quadro si è prodotta una evoluzione da
situazioni di lavoro più definibili a situazioni meno definibili da parte dei
soggetti coinvolti.
215
La rottura dei vincoli sociali è, da questo particolare punto di vista, un
modo per rendere fluida - e quindi difficilmente definibile da parte dei
soggetti coinvolti - la situazione di lavoro.
La difficoltà di definire la situazione non riguarda la direzione del
lavoro. Anzi. La minore definibilità da parte delle forze di lavoro deriva dal
fatto che la Direzione detiene il potere di definire, volta a volta, la
situazione secondo le esigenze del sistema di produzione. Per esempio,
nell'ambito del rapporto di lavoro, I'indeterminazione, in sé, si qualifica non
come assenza di un qualsiasi rapporto formale strutturato, ma come
impossibilità, per chi lavora, di poter contare - nell'organizzare la propria vita
- su una determinata durata e su una determinata continuità del rapporto.
Al limite, I'indeterminazione del rapporto di lavoro può anche riferirsi ad
una situazione di lavoro non priva di garanzie contrattuali. Il rapporto di
lavoro può pure essere formalizzato in un contratto. Ma se il contratto può
essere sciolto sulla base di motivazioni rispetto alle quali è determinante il
giudizio della Direzione, il rapporto di lavoro risulta, nella sostanza,
indeterminato. Da una parte infatti chi lavora non è in grado di definire, in
prospettiva, la sua condizione lavorativa e quindi esistenziale, dall'altra la
Direzione è sempre in grado di decidere se continuare o interrompere il
rapporto. I due aspetti sono legati. Chi lavora è impossibilitato a definire la
propria prospettiva di lavoro proprio perché chi dirige ha il potere di
decidere, quando vuole, la sua interruzione.
La presenza o meno di vincoli sociali relativi al rapporto di lavoro è
discriminante per l'analisi dell'indeterminazione del lavoro. Tale analisi deve
partire da una distinzione di fondo fra indeterminazione in condizione di
stabilità lavorativa e indeterminazione in condizione di instabilità lavorativa.
In un quadro di relativa stabilità lavorativa, il processo di
indeterminazione deve fare i conti con i vincoli contrattuali. Ciò vale
soprattutto per il rapporto di lavoro. Più agevole è invece l'indeterminazione
dei contenuti del lavoro, perché può operare facendosi velo della
innovazione tecnologica.
Non potendo attaccare direttamente il quadro delle garanzie contrattuali,
il processo di indeterminazione tende ad aggirare i vincoli sociali con una
serie di provvedimenti volti a indurre il lavoratore o la lavoratrice a ridurre
l'impegno lavorativo, in modo da indebolire il rapporto di lavoro.
Completamente diverso è, ovviamente, I'andamento del processo di
indeterminazione in un quadro di instabilità lavorativa, dove - in assenza di
216
vincoli sociali - I'indeterminazione può operare in piena libertà, sia in sede di
contenuti e di tempi di lavoro, sia in sede di rapporto di lavoro.
Il panorama del lavoro nero e del lavoro precario in genere ci dà la
misura della forza di scompaginazione e di frammentazione che può
sviluppare, in condizione di piena deregulation, il processo di
indeterminazione. Sotto l'azione di tale processo, il lavoro cessa di definirsi
in forma stabile sul piano dei contenuti, dei tempi e del rapporto. Diventa
una sorta di area a pareti mobili, entro la quale è possibile comporre e
scomporre, volta a volta, spazi lavorativi. Attraverso l'indeterminazione, il
capitale si crea ogni volta un modello di struttura del lavoro a misura della
particolare congiuntura del processo di valorizzazione.
21.7 Innovazione tecnologica e indeterminazione del lavoro
L'innovazione tecnologica - allo stadio dell'automazione - introduce, di per
sé, elementi oggettivi di indeterminazione del lavoro umano.
Nell'organizzazione del lavoro legata al primo stadio della meccanizzazione
molte funzioni sono ancora incorporate nel lavoro umano. In tale contesto si
rende necessaria una certa continuità del rapporto fra lavoratore o
lavoratrice e mansione lavorativa. Infatti, maggiore è l'incidenza delle
funzioni lavorative - in senso stretto - incorporate nella componente umana
del lavoro, più stabile risulta il legame fra soggetto e mansione lavorativa. Il
lavoro umano, a differenza del lavoro incorporato nelle macchine, è sempre
fondato sulla esperienza accumulata. Certo, per quanto riguarda la struttura
tecnica, anche le macchine sono il frutto dell'accumulazione di esperienza.
Ma, per l'incidenza sul processo di lavorazione, una macchina può essere
talmente innovativa da azzerare tutte le precedenti esperienze..
L'innovazione introdotta dall'automazione ha, per quel che qui interessa,
un effetto significativo: tutte le funzioni lavorative, in senso stretto, sono
incorporate nelle macchine. Al lavoro umano rimangono soltanto compiti di
gestione, di programmazione e di manutenzione. A questo livello, il lavoro
umano è chiamato ad operare con estrema duttilità e fluidità. Da una
parte, deve essere in grado di affrontare e risolvere i problemi che volta a
volta insorgono nell'arco del processo. Dall'altra, deve ricercare ogni volta
l'assemblaggio più economico e più efficace - dal punto di vista della
massimizzazione del profitto - delle componenti del processo lavorativo.
217
L'avvicendarsi delle soluzioni tecniche ed organizzative produce una
continua scomposizione e ricomposizione delle mansioni. Questa fluidità
delle mansioni lavorative richiede la completa disponibilità della forza-lavoro
manuale-intellettuale a seguire le esigenze della organizzazione Iungo tutto
l'arco del processo di produzione. L'innovazione tecnologica va dunque in
direzione della indeterminazione dei contenuti del lavoro e fornisce il
pretesto per la richiesta di disponibilità a cambiare mansione anche in un
quadro di stabilità lavorativa.
Inoltre, il progresso tecnico produce labour saving, risparmio di lavoro
umano, liberando tempo di lavoro, che può essere occupato attraverso un
ampliamento degli impegni lavorativi del singolo/a dipendente.
Prendiamo il caso di una ragazza che lavora in una piccola ditta
commerciale 35. E' addetta al carico e scarico. I contenuti e i tempi del suo
lavoro sono definiti. Ad un certo punto, viene introdotto un computer. E'
chiaro che nella nuova situazione non c'è più bisogno di qualcuno o
qualcuna che si occupi esclusivamente di carico e scarico. Alla ragazza
vengono assegnati anche altri compiti. Le viene richiesto di fare anche
l'elaborazione statistica dell'andamento dei prodotti sul mercato. Le
mansioni lavorative cominciano ad essere meno definite. Si libera tempo di
lavoro e si creano quindi spazi per altri compiti. La ragazza si sente spesso
dire: «Dato che ti rimane tempo, fammi pure quest'altra cosa». Ad un certo
punto, le viene chiesto di occuparsi non solo di amministrazione, ma anche
di vendita. La sua giornata lavorativa viene divisa in due parti: la mattina
vendita, il pomeriggio amministrazione. L'indeterminazione prodotta dalla
introduzione del computer investe dunque non solo le mansioni lavorative,
ma anche il tempo di lavoro.
E non basta. Si crea una sorta di reazione a catena. Essendo adesso
addetta anche alla vendita, dove vige la regola della incentivazione, la sua
retribuzione viene divisa in due parti: una parte fissa ed una parte variabile,
per provvigione. Come si vede, I'innovazione tecnologica si traduce in
processo di indeterminazione, che investe tutta la condizione di lavoro.
35 Si tratta di un caso reale, presentato da una studentessa lavoratrice nell'ambito di una lezione
universitaria di sociologia.
218
21.8 Destabilizzazione del sistema delle professioni e precarietà sociale
In un sistema di produzione ad alta tecnologia i contenuti delle mansioni
lavorative sono in rapida evoluzione. Ciò produce non solo un continuo
invecchiamento dei contenuti del lavoro, ma - aspetto ben più rilevante -
una destabilizzazione del sistema delle professioni.
Tale destabilizzazione si traduce in una destrutturazione delle singole
professioni - che cambiano continuamente i loro connotati di fondo - e in
una permanente mutazione del quadro lavorativo, con un continuo com-
parire e scomparire di attributi professionali.
In una situazione così fluida, il soggetto ha grosse difficoltà a program-
mare la propria occupazione lavorativa. In un sistema in cui I'occupazione
lavorativa è un dato qualificante dell'esistenza, la difficoltà a darsi una
prospettiva occupazionale si traduce in difficoltà a darsi una prospettiva di
vita, si traduce cioè in precarietà sociale.
Per precarietà sociale intendiamo lo stato di insicurezza materiale e
immateriale, in cui sono costretti a vivere tanti uomini e tante donne. E'
importante sottolineare il fatto che non si tratta soltanto della mancanza o
della insufficienza dei mezzi di sussistenza, ma anche della incertezza
della prospettiva esistenziale. L'accento - già in sede di definizione della
precarietà sociale - va messo non tanto sulla mancanza di mezzi di vita,
quanto sulla incertezza della prospettiva, materiale e immateriale, di
esistenza. Questo punto è importante, perché c'è tutta una tendenza a
vanificare il problema della sussistenza con il dire che in fondo, nella società
capitalistica avanzata, le persone riescono, in un modo o nell'altro, a
sopravvivere. Spostare i termini della questione dall'aspetto quantitativo
all'aspetto qualitativo permette quindi intanto di recuperare all'analisi un
disagio che non può essere spiegato nel quadro di una sorta di contabilità
di mezzi di sussistenza.
La precarietà sociale è, in questo senso, una delle categorie esplicative
del disagio esistenziale. Il problema è quindi di definire tale categoria in
termini adeguati all'oggetto che intende spiegare. Dire che la precarietà
sociale non può essere definita soltanto in termini di mancanza di mezzi
materiali di vita significa affermare che tale mancanza non può spiegare, da
sola, ciò che vuole spiegare. L'ipotesi è che il disagio deriva non soltanto
dal non avere, nell'immediato, di che vivere, ma anche dal non avere la
certezza di potere continuare a disporre dei mezzi di sussistenza. Ciò sul
219
piano materiale. Ma l'aspetto materiale non esaurisce l'origine del disagio.
E' I'incertezza del progetto di vita che è alla base del disagio esistenziale.
Tale incertezza è funzionale all'astrazione, perché non essere in condizione
di progettare la propria vita significa essere alla mercé del processo di
valorizzazione economica e politica del capitale.
L'indeterminazione del lavoro porta così a compimento la sua opera di
destabilizzazione della vita sociale. Minando alla base la prospettiva
esistenziale dei soggetti concreti, apre la strada alla sussunzione della
società al capitale ed alla sua qualificazione come società astratta.
220
221
Capitolo Ventiduesimo
FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE
L’insorgere, anche soltanto potenziale, di una soggettività sociale che si
richiami all’appartenenza di classe è una mina vagante per la società
sussunta al capitale. Da qui una continua ricerca di misure che tendano ad
evitare la coagulazione di componenti di classe nella soggettività sociale.
Un pesante intervento in questa direzione è la graduale scompaginazione
di tutti gli aspetti del lavoro. Al suo culmine, tale intervento va a investire il
rapporto di lavoro, dando luogo ad un sempre più alto grado di flessibilità del
mercato del lavoro. E’ qui il centro propulsore del processo di
indeterminazione, cioè del processo che tende a depurare i soggetti delle
loro determinazioni, per adeguarli al sistema di astrazione sociale, al sistema
di indifferenza alla concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in
carne e ossa 36.
La flessibilità del mercato del lavoro produce una agibilità multiforme della
forza-lavoro, che si traduce in una molteplicità di percorsi lavorativi e si
esprime, sul piano normativo, nelle diverse forme del lavoro flessibile: part-
time, lavoro a termine, contratto di collaborazione, lavoro in affitto 37. Queste
forme potranno, nel tempo, essere cambiate, lasciando intatta la sostanza
del lavoro instabile. La soggettività sociale viene attraversata e contaminata
da ognuna di queste modalità d’uso della forza-lavoro, disarticolandosi e
frastagliandosi in un poliformismo di risposte individuali alle condizioni di vita
e di lavoro.
Non si tratta soltanto di una disaggregazione della soggettività di classe in
una molteplicità di corpi sociali, che si coagulano lungo ognuno dei percorsi
lavorativi. Le forme del lavoro flessibile hanno dentro di sé una sorta di
anticoagulante, che dissolve in partenza qualsiasi processo di aggregazione
36 Si veda, in questo volume, Introduzione alla Sezione Seconda, paragrafo 19.3 Sistema di astrazione e processo di indeterminazione.
37 Per le norme che regolano le diverse forme del lavoro flessibile, si può vedere Lavoro flessibile,
supplemento de Il Sole 24 Ore, maggio 2001.
222
sociale. Il part-time, il lavoro a termine, la collaborazione, il lavoro in affitto,
non danno luogo a corpi della classe e nemmeno a semplici categorie di
lavoratori e lavoratrici. Il lavoro flessibile non dà identità. I singoli soggetti non
fanno corpo sociale con gli altri soggetti che hanno lo stesso tipo di rapporto
di lavoro.
In tale direzione, si va verso una lenta decomposizione della comunità del
lavoro e ad una sempre più accentuata esposizione dei singoli soggetti alla
sofisticata assimilazione dei valori portanti della organizzazione capitalistica
della società. Per questa via, tramonta la percezione del lavoro legato - pur
nella sua accezione alienata - alle capacità creative dell’essere umano. Il
lavoro si appiattisce sul salario. E’ sempre meno lavoro salariato, con
l’accento sull’attività lavorativa, e sempre più lavoro salariato, con l’accento
sulla variabile salariale.
Al di là dei connotati di fondo del lavoro flessibile, ogni forma di flessibilità
si caratterizza per una propria specifica modalità di intervento sulla
soggettività sociale. E’ quindi opportuno, a questo punto, guardare dentro
ognuna delle forme del lavoro flessibile, per cercare di individuare e definire
le modalità di destrutturazione della soggettività sociale.
22.1 L’individualizzazione del rapporto di lavoro
Il lavoro flessibile opera una prima disarticolazione della soggettività
sociale in sede di rapporto di lavoro. Tutte le forme del lavoro flessibile hanno
in comune, nella normativa che le regolamenta, un aspetto: sono basate su
contratti individuali. Attraverso l’individualizzazione del rapporto di lavoro si
passa dalla contrattazione fra le rappresentanze delle forze imprenditoriali e
le rappresentanze delle forze del lavoro alla contrattazione fra la singola
azienda e il singolo lavoratore, uomo o donna. L’orologio del rapporto fra
capitale e lavoro viene bruscamente spostato all’indietro, con pesanti
conseguenze in sede di determinazione dei rapporti di forza e di
salvaguardia dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.
Questa svolta produce la disarticolazione della soggettività sociale delle
forze di lavoro. Il soggetto, uomo o donna in carne e ossa, non si sente,
come nella tradizione del movimento operaio, membro di un corpo sociale in
grado di reggere il confronto e lo scontro, anche in sede di contrattazione,
con il padrone. Si ritrova inchiodato al suo contratto individuale. Ogni
soggetto è parte a sé e se la deve cavare come può, in perfetta solitudine.
223
Una tale situazione squilibra completamente il rapporto di lavoro: da una
parte un soggetto fragile e indifeso, dall’altra un potere forte e arrogante.
22.2 La flessibilità del tempo di lavoro: il part-time
Il part-time è una forma ambivalente di lavoro flessibile. Dal punto di vista
dell’azienda, esso consente di modulare nel tempo la prestazione lavorativa,
modellandola a misura di specifiche procedure di produzione. E questo
vantaggio non solo non ha un costo aggiuntivo, ma comporta una riduzione
della retribuzione. Dal punto di vista del lavoratore o della lavoratrice, la
riduzione del tempo di lavoro lascia spazio ad un secondo lavoro e,
soprattutto per le donne (nell’assetto dato dei ruoli), alla cura della famiglia
ed alle faccende di casa. I due versanti si intrecciano. L’azienda sfrutta, a
proprio vantaggio, il bisogno degli uomini e delle donne di avere tempo “per
altro”.
Sono previste tre modalità di part-time. Il tempo parziale di tipo orizzontale
comporta una riduzione dell’orario giornaliero di lavoro. Il tempo parziale di
tipo verticale lascia inalterato l’orario giornaliero di lavoro, ma riduce - nel
corso della settimana, del mese o dell’anno - le giornate lavorative. Il tempo
parziale di tipo misto è una combinazione dei due tipi precedenti.
Di fronte ad una tipologia così articolata dell’orario di lavoro, bisogna
chiedersi: a chi spetta scegliere l’una o l’altra modalità? Sulla base dei
rapporti di forza, c’è da supporre che, al di là della copertura formale, è
l’azienda a decidere, sulla base delle proprie convenienze. Può dunque
accadere che ad una riduzione della retribuzione non corrisponda una
modalità di orario conveniente per il lavoratore o per la lavoratrice. Al limite,
può darsi che la riduzione dell’orario sia modulata ad esclusivo vantaggio
dell’azienda. In tale quadro, la funzione del part-time è di consentire
all’azienda di concentrare il tempo di lavoro, in modo da evitare vuoti
fisiologici nell’utilizzo della forza-lavoro.
A questa logica risponde il lavoro supplementare, cioè la prestazione
svolta oltre l’orario di lavoro previsto dal tipo di part-time adottato, ma entro il
limite dell’orario di lavoro full-time. Dunque, l’azienda non solo può scegliere
la modalità di orario parziale che meglio risponde alle esigenze della
produzione, ma può anche dilatare e restringere il tempo parziale di lavoro, a
misura dell’andamento del processo di produzione. Inoltre, nel caso del tipo
verticale di tempo parziale, può anche andare oltre il limite del full-time. Per
224
esempio, può richiedere prestazioni lavorative in giorni non compresi nel
calendario del tempo parziale, sforando così la soglia del tempo pieno. Solo
che, in questo caso, le prestazioni aggiuntive vengono considerate lavoro
straordinario. Come si vede, la flessibilità del part-time offre un’ampia gamma
di combinazioni, dando all’azienda la possibilità di fare aderire, volta a volta,
senza sbavature, il tempo di lavoro al tempo di produzione.
La parzializzazione del tempo di lavoro sembra non avere effetti sulla
soggettività sociale. In fondo, il lavoratore o la lavoratrice a tempo parziale ha
un lavoro stabile. Cambia soltanto una modalità contrattuale: l’orario di
lavoro. C’è però da tenere presente che il part-time si basa su una
contrattazione individuale, con le ricadute sul soggetto già evidenziate. Ma, al
di là di questo dato, chi fa un lavoro a tempo parziale finisce per sentirsi
estraniato dai ritmi dell’ambiente di lavoro, quasi fosse una semplice
appendice del corpo sociale della forza-lavoro impiegata in azienda. La
parzializzazione del tempo di lavoro si traduce così in parzializzazione della
soggettività.
22.3 Un lavoro sempre in prova: il contratto a termine
Il contratto di lavoro a termine mette l’impresa in condizione di estrema
forza e il lavoratore o la lavoratrice in condizione di estrema debolezza. Chi
dà prestazioni a termine è, di fatto, in balia della direzione dell’azienda. E’
continuamente chiamato a dare buona prova di sé. Di fatto, il lavoro a
termine è un lavoro sempre in prova.
La normativa generale prevedeva le condizioni in cui si può derogare dal
contratto di lavoro a tempo indeterminato e apporre un termine al rapporto di
lavoro. Condizioni che potevano essere agevolmente aggirate. In ogni caso,
è intervenuto un decreto legislativo per la completa liberalizzazione del
contratto a tempo determinato.
Il lavoro a termine può essere considerato, già nell’etichetta, il simbolo
dell’incertezza del domani. Incertezza che non riguarda soltanto i mezzi di
sussistenza. Il soggetto che fa un lavoro a termine, o un qualsiasi lavoro
flessibile, non è in condizione di darsi un progetto di vita. La sua è una vita a
corrente alternata. Ha appena il tempo di assaporare il piacere di avere un
lavoro. E già deve pensare alla scadenza del contratto.
In questo quadro manca la continuità di una condizione esistenziale
diffusa, che è alla base del formarsi di una soggettività sociale. I soggetti
225
sono costretti a seguire percorsi lavorativi ed esistenziali non lineari, in una
sorta di corsa ad ostacoli, con tratti veloci e lunghe soste. Paradossalmente,
il lavoro a termine richiede un impegno senza termine. E’ una continua
ricerca di lavoro. E non c’è lavoro più faticoso del cercare lavoro. Il lavoro
instabile finisce per diventare un pensiero fisso. Non c’è spazio per impegni,
culturali o politici, che non siano legati alla quotidianità immediata.
22.4 Professionalità e precariato giovanile: il contratto di collaborazione
La normativa che regola il contratto di collaborazione è ancora piuttosto
incerta. Comunque, essa fa riferimento ad una figura che si colloca al livello
medio-alto della gerarchia aziendale. Tale connotato è evidente già
nell’etichetta che contraddistingue questo istituto: «Rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa». Etichetta che fa pensare a
prestazioni qualificate. Del resto, se si scorrono le prerogative previste per i
collaboratori, ci si rende conto che si tratta di collaborazioni di un certo livello.
Si parla, per esempio, di indennità di trasferta, da corrispondere quando il
collaboratore è chiamato a svolgere una attività fuori sede. Non può certo
riguardare figure di secondo ordine.
Nella realtà del mercato del lavoro flessibile, le imprese utilizzano il
contratto di collaborazione per attingere prestazioni di un certo spessore
qualitativo nell’area del precariato giovanile. In tale area si sono infatti
formate, negli ultimi anni, competenze qualificate, soprattutto nel settore
dell’informatica. Non è difficile per una impresa trovare giovani esperti di
computer, che vivono a carico della famiglia e aspirano a crearsi un minimo
di autonomia economica e sociale. Nella loro condizione, non possono che
essere disponibili a qualsiasi forma di rapporto di lavoro, pur di mettere a
frutto, in sede di occupazione lavorativa, la loro professionalità.
Queste potenzialità del mercato del lavoro vengono sfruttate dalle imprese
in modo estremamente spregiudicato. Una azienda che deve realizzare un
progetto di informatizzazione assume giovani, uomini e donne, con le
necessarie competenze. Li tratta come dipendenti, ma senza riconoscere i
diritti connessi al lavoro dipendente. Stabilisce, volta a volta, l’orario di lavoro,
a misura delle proprie esigenze organizzative. Li paga a giornata, con ritardi
di mesi. E se in particolari giornate non prevede la loro presenza in azienda,
li lascia a casa. Non è tenuta nemmeno a rispettare un termine per il rapporto
226
di lavoro. In qualsiasi momento il collaboratore, uomo o donna, può sentirsi
dire che non c’è più bisogno della sua collaborazione.
In netta contraddizione con questa condizione materiale di estrema
precarietà, chi lavora con contratto di collaborazione viene coinvolto in un
processo immateriale di assimilazione del modello manageriale. E, come
spesso succede a chi desidera assumere un ruolo, comincia ad anticipare i
comportamenti e l’ideologia del manager. Comincia ad essere ciò che
vorrebbe essere. Può così accadere di imbattersi in soggetti che, pur vivendo
una condizione di estrema precarietà, declamano l’ideologia liberista. Come
dire: una soggettività non solo coartata, ma anche deformata.
22.5 Una forma di regressione: il lavoro in affitto
Il lavoro in affitto non è soltanto una forma di lavoro a termine. In tal senso,
l’etichetta «lavoro interinale» o «lavoro temporaneo», che viene spesso usata
nella normativa, fa riferimento soltanto ad un aspetto - la durata del rapporto
di lavoro - che questo tipo di lavoro ha in comune con le altre forme di lavoro
flessibile. Il dato fondante di questo istituto non è però la temporaneità del
rapporto, ma l’istituzionalizzazione della intermediazione fra domanda e
offerta di lavoro. Intermediazione che viene evidenziata nella etichetta «in
affitto».
Una tale connotazione del lavoro segna un salto culturale, all’indietro, di
grande rilievo. Da qui la tendenza, nelle fonti ufficiali, a camuffarla sotto
mentite spoglie. Una sorta di pudore istituzionale, che segnala la
consapevolezza della portata storica, in negativo, di questa operazione nel
quadro della civiltà del lavoro. Al pudore terminologico corrisponde una
manifesta sfrontatezza ideologica, che pretende di presentare il lavoro in
affitto come un dato di modernizzazione.
E’ dunque necessario cercare di decifrare il segno culturale e politico che è
impresso a fuoco nell’istituto del lavoro in affitto. A tale scopo, bisogna
seguire, passo passo, le trasformazioni che la struttura del rapporto di lavoro
subisce nei vari passaggi del lavoro flessibile, fino ad arrivare al salto nel
buio del lavoro in affitto.
E’ nota la definizione classica del rapporto di lavoro. Da una parte un
soggetto che dispone dei mezzi di produzione, dall’altra un soggetto che
dispone della forza-lavoro. Il rapporto prevede, nel quadro della contrat-
tazione collettiva, un uso determinato, cioè limitato nel tempo e nello spazio,
227
della forza-lavoro. Oggetto del rapporto non è dunque la compra-vendita
della forza-lavoro, ma il suo uso in condizioni determinate. I soggetti che
figurano nel rapporto di lavoro sono gli stessi che sottoscrivono, tramite le
rispettive rappresentanze, le condizioni del contratto. Questo dato è di
estremo rilievo. Si sa che il rapporto si svolge nel contesto del confronto-
scontro che volta a volta si determina fra le due parti, insieme titolari del
contratto e del rapporto di lavoro. Basta pensare ai conflitti che si scatenano
nella stagione di rinnovo dei contratti. Ognuna delle due parti cerca di
ridefinire il rapporto di lavoro a proprio vantaggio. E ciò è possibile perché i
soggetti titolari del rapporto di lavoro sono anche titolari del contratto di
lavoro.
Nelle altre forme del lavoro cosiddetto «atipico» (etichetta destinata, negli
anni, a diventare sempre più impropria) – part-time, lavoro a termine,
collaborazioni - la struttura del rapporto rimane quella classica. I soggetti del
rapporto sono anche titolari del contratto. Il lavoro in affitto segna invece una
netta rottura della struttura classica del rapporto di lavoro. Il contratto non
vede in campo due parti, che si confrontano direttamente. Coinvolge tre parti:
la società fornitrice di prestazioni, l’impresa che richiede le prestazioni e il
soggetto che rende disponibile la propria forza-lavoro. In questa nuova
struttura il rapporto di lavoro si disarticola. Da una parte il rapporto fra
l’impresa che richiede le prestazioni e l’agenzia che le fornisce. Dall’altra il
rapporto fra l’agenzia e il lavoratore o la lavoratrice. Nel corso dell’uso della
forza-lavoro, il lavoratore o la lavoratrice non ha più davanti a sé la sua
controparte contrattuale. Il soggetto è quindi spiazzato su due fronti. Con il
contratto individuale gli viene a mancare la forza della classe di
appartenenza e, di conseguenza, dell’appartenenza di classe. Con il doppio
contratto gli viene a mancare, in sede di uso della forza-lavoro, cioè nella
sede storica dello scontro di classe, la controparte diretta. Non ha nulla da
rivendicare nei confronti di chi fa uso (e abuso) della sua forza-lavoro, perché
la sua controparte contrattuale sta altrove.
In pratica, il lavoro in affitto consente di prelevare dal mercato del lavoro le
prestazioni che volta a volta servono al ciclo produttivo, senza che ciò debba
comportare l’assunzione al sistema di produzione dei soggetti che forniscono
le prestazioni. Alla base di questo passaggio c’è la scissione fra soggetto e
prestazione lavorativa. Per cogliere la portata di questa innovazione, occorre
tenere presente che, nell’assetto tradizionale, la prestazione lavorativa è
integrata ad un soggetto. E il sistema di produzione si garantisce l’uso di una
228
data prestazione assumendo il soggetto che quella prestazione è in grado di
fornire. Nel nuovo modello è invece possibile acquisire una specifica
prestazione lavorativa, senza dovere necessariamente instaurare un rapporto
diretto con il soggetto titolare di quella prestazione. Per questa via, si evita
che donne e uomini si insedino stabilmente all’interno del sistema di
produzione e possano servirsi della struttura produttiva come base materiale
per la propria organizzazione di classe. La lavorazione passa sotto il
completo dominio della Direzione tecnica, che opera l’assemblaggio delle
singole prestazioni lavorative ad un livello superiore rispetto al processo
materiale di produzione 38.
La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa apre il varco ad una
prospettiva di disattivazione dei conflitti di classe. Viene infatti a mancare la
linearità delle relazioni industriali, che si fonda sul confronto-scontro fra i due
soggetti titolari del contratto e dell’uso della forza lavoro. Confronto-
scontro che non può darsi in una struttura del rapporto di lavoro a doppio
binario, in cui la controparte in sede di contratto di lavoro non è controparte in
sede di uso della forza-lavoro. Il lavoratore o la lavoratrice in affitto con chi se
la deve vedere per questioni che attengono alle sue condizioni di lavoro: con
l’agenzia di lavoro interinale o con l’impresa che utilizza le sue
prestazioni lavorative? E non basta risolvere il quesito sul piano giuridico-
formale, per neutralizzare questa sofisticata operazione. Inoltre, non è un
caso che qui si parla di lavoratore o lavoratrice, al singolare. Uno degli effetti
del lavoro in affitto è quello di individualizzare il soggetto portatore della
forza-lavoro e quindi di svuotarlo della sua appartenenza di classe. Per
questa via, attraverso la cancellazione del rapporto diretto di lavoro, si
persegue un obiettivo di grande portata: la disarticolazione della soggettività
sociale.
Tutti questi connotati del lavoro in affitto danno luogo ad una trasforma-
zione antropologica del lavoro. Dare in affitto il lavoro significa, nel
38 Si veda, in questo volume, il Capitolo Ventunesimo, paragrafo 21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa, dove il processo, in tempi antecedenti all’attuale realtà del lavoro in affitto, viene preso in esame come prefigurazione di una tendenza che oggi giunge a maturazione.
229
sistema capitalistico di produzione, degradare la forza-lavoro da merce
specifica, in quanto espressione di un soggetto, a merce qualsiasi 39.
Significa trattare, di fatto, la capacità creativa dell’essere umano alla stregua
di una nuda energia produttiva. Ora, il lavoro non è soltanto impiego di
energia. E’ anche una delle sfere in cui si forma l’identità del soggetto. In
lavoro in affitto viene a mancare di ogni connotazione identitaria. Il soggetto
finisce per non riconoscersi nell’attività che svolge. Non solo fa un lavoro
alienato. Viene anche alienato dal lavoro.
E’ in questa regressione il connotato che fa del caporalato una forma
“medioevale” di rapporto di lavoro. Ora, il lavoro in affitto non fa altro che
trasformare la figura “medioevale” del caporale nella struttura “moderna”
dell’«Agenzia di lavoro interinale». Una tale trasfigurazione lascia però
inalterata la regressione qualitativa del rapporto di lavoro. Il lavoro in affitto
non è altro, nella sostanza, che l’istituzionalizzazione del caporalato.
Gli effetti sulla soggettività sono devastanti. E tuttavia, pure in presenza di
allarmanti segnali di putrefazione della soggettività sociale, non possono
essere considerati chiusi gli orizzonti del futuro. Una soggettività, per quanto
frammentata, è sempre in grado di ricomporsi su un altro piano. Per quanto
spenta, è sempre in grado di ricaricarsi. Sta qui la sua specificità: nel potere
essere altro da quel che è.
22.6 La flessibilità al massimo grado: il lavoro nero
Un argomento a cui spesso si ricorre per giustificare l’introduzione del
cosiddetto «lavoro atipico» nel nostro ordinamento è che la
regolamentazione di pratiche esistenti di rapporto di lavoro ha la funzione di
fare emergere il lavoro nero. Ora, non c’è dubbio che il lavoro nero incarna la
forma estrema di flessibilità del lavoro. E se il lavoro atipico si traducesse in
una regolamentazione dell’area del lavoro nero, assolverebbe una utile
funzione, pur nella sua intrinseca degradazione istituzionale. Ma così non è.
Il lavoro atipico può anche - nell’immediato - sostituire quote di lavoro nero,
ma - nei tempi lunghi - tende ad erodere l’area del lavoro stabile. Tende, nel
tempo, a perdere progressivamente la sua atipicità ed a proporsi come forma
tipica del nuovo assetto del mercato del lavoro.
39 F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 1996, 3^ ed., pp. 15-16.
230
Si viene così a rendere disponibile un doppio mercato del lavoro: un
mercato del lavoro ufficiale, regolato da contratto, e un mercato del lavoro
non ufficiale, non regolato. Da qui la tendenza ad espellere forza-lavoro in
condizione contrattuale, per riassumerla in condizione non contrattuale. La
complessa manovra a tenaglia - tendente a spremere, con pressioni opposte
e convergenti, il primo e il secondo mercato del lavoro - viene sostenuta con
una operazione ideologica a doppia faccia. Per ottenere di potere operare
liberamente nel mercato ufficiale, l’impresa si fa scudo della condizione dei
disoccupati, che meritano più attenzione degli occupati. Per sentirsi
legittimata ad operare nel secondo mercato, mette avanti la condizione degli
occupati, che godrebbero di retribuzioni “troppo alte”. Per un verso si
sostiene che, per fare nuovi investimenti ed incrementare l’occupazione, è
necessario bloccare le retribuzioni, per l’altro si richiede il riconoscimento
ufficiale del carattere “fisiologico” del lavoro irregolare 40.
22.7 Dal «posto di lavoro» alla ideologia del rischio
Nel quadro del lavoro stabile, il «posto di lavoro» ha una precisa valenza
sociale. Significa certezza del futuro. Il passaggio da un assetto basato sul
lavoro stabile ad un assetto basato sul lavoro instabile segna quindi una
svolta sociale di grande portata, che va a sconvolgere la prospettiva
esistenziale di milioni di persone. Da qui la necessità, per il sistema
istituzionale, di sostenere l’operazione con un intervento ideologico di
particolare incisività.
Il senso di fondo di tale intervento consiste nel fare percepire il «posto
fisso» come un residuo del passato, che blocca il soggetto in una situazione
statica e gli fa mancare la spinta per crescere sul piano culturale e
professionale. Di contro, il lavoro flessibile viene presentato come un fattore
di modernità, che induce al dinamismo ed all’inventiva. Per questa via, si
persegue una soggettività sociale funzionale ai valori portanti del sistema
capitalistico, in particolare alla competizione ed alla meritocrazia. Gli uomini e
le donne sono chiamati a competere senza sosta nel mercato del lavoro,
dove possono affermarsi solo se hanno particolari meriti da far valere.
Devono quindi essere capaci di guadagnarsi il loro percorso lavorativo metro
40 Si veda, in questo volume, il Capitolo Diciannovesimo, paragrafo 19.5.2 Sperimentazione della
indeterminazione occupazionale e doppio mercato del lavoro.
231
dopo metro e comportarsi come donne e uomini spregiudicati, temprati per
farsi largo sgomitando.
L’architettura di questo modello si basa sulla ideologia del rischio. La
ricerca del lavoro deve seguire la stessa logica del rischio imprenditoriale.
Una tale pretesa trascura una discriminante decisiva. Il rischio di chi fa
impresa ha un carattere tutto economico, mentre il rischio di chi cerca lavoro
ha un carattere tutto esistenziale. Da una parte viene messo a rischio
l’essere imprenditore, dall’altra viene messo a rischio l’essere persona 41.
Al di là di ogni impalcatura ideologica, al fondo della flessibilità del lavoro
c’è la prefigurazione di una vita sociale depauperata, in cui gli esseri umani
sono costretti a contendersi lo spazio della propria sopravvivenza, a danno
della sopravvivenza di altri. Dal lavoro come diritto si passa al lavoro come
conquista. E non una conquista data una volta per tutte, ma continuamente
riproposta. E poiché il lavoro è per milioni di persone l’unica fonte dei mezzi
di sussistenza, mettere in forse continuamente il lavoro significa minare alla
base l’esistenza di esseri umani. La logica della flessibilità pretende,
nell’intervallo fra un lavoro e l’altro, di mettere fra parentesi l’esistenza di chi
vive di lavoro. Ora, a differenza del lavoro flessibile, la vita non è
intermittente. Gli uomini e le donne continuano a vivere anche dopo la
scadenza del lavoro a termine. Solo che, a quel punto, i soggetti vengono a
mancare di un quadro esistenziale ben definito. E la loro vita viene ridotta a
semplice sopravvivenza.
Una tale realtà viene occultata. Non solo. La flessibilità del mercato del
lavoro viene iscritta in un ambizioso progetto di “modernizzazione”. Questa
complessa operazione approda così ad un paradosso ideologico. Assegna
alla modernità un cammino a ritroso dell’assetto capitalistico della nostra
società, in direzione di una istituzionalizzazione sistematica della inciviltà del
lavoro, con le sue devastanti ricadute sulla soggettività sociale.
41 Si veda, in questo volume, il Capitolo Ventunesimo, paragrafo 21.3 L’indeterminazione della
retribuzione come rischio esistenziale.
232
233
Capitolo Ventitreesimo
GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E INDETERMINAZIONE SOCIALE
23.1 La delocalizzazione della produzione industriale
Il capitale non ha patria. Va dove lo porta il profitto, dove cioè trova le
condizioni più favorevoli per valorizzarsi al massimo. E quando tali condizioni
si realizzano al di là dei confini nazionali, non c'è niente che possa indurre gli
industriali a investire nel proprio paese.
Si avvia così un processo di delocalizzazione della produzione industriale.
Le imprese dell'occidente industrializzato spostano interi settori della
produzione in paesi in cui il costo del lavoro e l'imposizione fiscale sono
molto bassi e l'uso della forza-lavoro non è sottoposto a vincoli sociali. Per
questa via, gli industriali perseguono un doppio obiettivo: abbassare i costi di
produzione e invadere dall'interno i consumi dei paesi di nuovo
insediamento.
Questo processo viene agevolato dalla modernizzazione delle vie di
comunicazione mondiale, che riduce le distanze e consente rapidi
spostamenti di materie prime e di prodotti finali. Viene così a configurarsi una
nuova concezione dell'impresa. Non più una struttura produttiva concentrata
in un'area circoscritta. Il nuovo modello di impresa ha una struttura centrale,
dalla quale si diramano insediamenti in paesi vicini e lontani.
23.2 Globalizzazione dell’economia e indeterminazione sociale
La delocalizzazione della produzione si realizza in un quadro di
globalizzazione dell'economia. La competizione economica non conosce
frontiere. Ogni sistema economico nazionale, legato a particolari condizioni
politiche e sociali, deve confrontarsi con tutti gli altri sistemi, sparsi nel globo
terrestre. Questa mondializzazione della competizione capitalistica provoca
due operazioni di grande rilevanza. Da una parte i capitalisti si mettono in
giro per il mondo, alla ricerca delle migliori condizioni per realizzare profitto.
Dall'altra i governanti fanno di tutto per creare condizioni favorevoli alle
imprese e indurre così i capitalisti a investire nei loro paesi.
234
Ora, per un capitalista quale attrazione può essere più forte della libertà di
usare la forza-lavoro a proprio piacimento, al di fuori di qualsiasi vincolo
sociale? Così la gara internazionale di seduzione del capitale si traduce in
una sorta di asta mondiale, con offerte al rialzo di indeterninazione del
lavoro, dalla indeterminazione della mansione lavorativa alla indetermina-
zione dell'orario e del ritmo di lavoro, dalla indeterminazione della
retribuzione alla indeterminazione del rapporto di lavoro, fino ad arrivare alla
libertà di licenziare.
La globalizzazione economica provoca dunque un attacco sempre più
diffuso alla condizione sociale delle classi subalterne. Tutti i dati di tale
condizione vengono spinti sempre più verso il basso. La possibilità di
ritrovarsi senza mezzi di sussistenza dall'oggi al domani diventa, per milioni
di uomini e di donne in tutto il mondo, una delle tante alternative di vita in
regime di liberismo selvaggio.
23.3 Globalizzazione economica, astrazione sociale e condizione delle classi subalterne
Il sistema economico globale è indifferente alle specificità sociali e culturali
dei popoli. La globalizzazione economica si traduce così in astrazione sociale. Le storie delle nazioni vengono azzerate e costrette a misurarsi con gli standard della produzione mondiale.
In questo quadro, il ruolo dei governi nazionali diventa sempre più
subordinato. L'economia globalizzata fa riferimento a parametri decisi da
organismi sovranazionali, costringendo i diversi paesi ad una rincorsa
affannosa degli indici economici e monetari, per non essere tagliati fuori dai
consessi comunitari. Di conseguenza, le rappresentanze politiche e sindacali
delle forze del lavoro si trovano spiazzate di fronte ad un interlocutore
governativo che porta sul tavolo della trattativa parametri stabiliti ad altro
livello.
A partire da qui, si apre una prospettiva cosparsa di incognite, dalla cui
soluzione dipende il destino di masse ingenti di esseri umani.
Ora, finché l'economia si muove nell'ambito nazionale, le variabili possono
essere controllate con provvedimenti di governo. Con la globalizzazione
dell'economia, non sono più i governi nazionali a decidere gli interventi, ma i
grandi organismi mondiali. Le classi subalterne sono continuamente
chiamate ad abbassare il loro livello di vita, per potere consentire
235
all'economia nazionale di stare dentro parametri che vengono decisi altrove.
La globalizzazione dell'economia si risolve quindi nella sottrazione alle classi
subalterne di qualsiasi possibilità di intervenire sull'andamento dell'economia
nazionale.
23.4 Globalizzazione economica e nuovo colonialismo
Nel quadro dell’economia mondiale, il capitale va alla ricerca delle
condizioni più favorevoli alla sua valorizzazione. Per realizzare i suoi obiettivi
di espansione, si appoggia spesso a forze reazionarie al potere. Le
economie nazionali vengono destabilizzate e subordinate agli interessi del
capitale internazionale.
Questo nuovo colonialismo ha effetti devastanti sulle condizioni di vita
delle popolazioni dei paesi del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo. Una
grande quota della ricchezza mondiale viene accentrata nelle mani delle
borghesie dei paesi sviluppati, mentre folle sterminate di esseri umani
vengono lasciate marcire al limite - e spesso al di sotto - della sopravvivenza.
A questo punto, il capitale dovrebbe farsi carico degli oneri sociali derivanti
dalla globalizzazione dell'economia di mercato. Alla globalizzazione del
mercato dovrebbe corrispondere la globalizzazione degli oneri sociali. Inoltre,
alla libera circolazione dei capitali dovrebbe corrispondere la libera
circolazione delle persone. Se il capitale si mondializza, perché ogni essere
umano, nato in qualunque zona del globo terrestre, non deve potersi
dichiarare cittadino del mondo? La risposta è semplice. Perché la
mondializzazione dell’economia prevede la ricerca, da parte dei capitalisti,
della massimizzazione del profitto là dove sussistono le condizioni più
favorevoli.
Il capitale pretende da una parte di operare sul piano mondiale e dall'altra
di farsi carico degli oneri sociali soltanto sul piano nazionale. E pretende da
una parte di fare cadere le barriere economiche e dall'altra di mantenere le
barriere sociali.
236
237
Capitolo Ventiquattresimo
LA NEGAZIONE DEL LAVORO UMANO
24.1 Negazione del lavoro umano e indeterminazione sociale
La destabilizzazione del rapporto di lavoro - dalle forme del lavoro
irregolare fino alla prospettiva di istituzionalizzazione della instabilità
lavorativa - non riguarda, almeno in teoria, la dimensione quantitativa del
lavoro complessivo, ma soltanto il quadro di garanzie entro cui l'attività
lavorativa si realizza. Per esempio, nella fase di transizione l'instabilità
lavorativa si traduce in una sorta di travaso di parte dell'attività lavorativa
complessiva dalla sfera del lavoro regolare alla sfera del lavoro irregolare.
L'oggettivazione del lavoro - cioè il trasferimento di funzioni lavorative ad
un apparato tecnico - va invece ad investire proprio la dimensione
quantitativa dell'attività umana necessaria per mettere in funzione il processo
di produzione. Nella fase dell'automazione tale dimensione ha una caduta
verticale. La presenza di lavoro umano nel processo produttivo si riduce ai
minimi termini.
Nonostante l'evidenza di tale realtà, non mancano tentativi ideologici di
nascondere il crollo del lavoro umano, mettendo in primo piano il processo di
trasformazione delle funzioni lavorative.
L'automazione, si dice, elimina alcuni lavori, ma ne crea altri. Ed è vero.
Ma è anche vero che la ridefinizione qualitativa del lavoro umano si opera
all'interno di una sua fortissima riduzione quantitativa. Peggio. La
ridefinizione del lavoro umano si opera anche in funzione della sua riduzione.
In pratica, il lavoro umano cambia anche per potere essere ridotto.
Il velo di reticenza che copre questo segno del cambiamento ha, secondo
noi, una sua ragione storica. Il capitalismo, nella sua veste
tradizionale, si presenta sulla scena sociale con due credenziali: a) offrire
una produzione di beni su vasta scala; b) garantire una occupazione
lavorativa di massa. Ebbene, I'introduzione dell'automazione fa venire meno
la seconda credenziale. Nella fase tecnica dell'automazione, il modo
capitalistico di produzione - considerato in sé, al di fuori di qualsiasi
condizionamento esterno - porta alla disoccupazione di massa.
238
Si badi bene. Non si tratta dell'esito tecnico del processo di automazione in
quanto tale, ma della sua combinazione con il modo economico di produrre
proprio del capitalismo. L'automazione, in sé, riduce in modo significativo la
presenza di lavoro umano nel processo di produzione. Ma tale
ridimensionamento quantitativo può essere tradotto o in riduzione dell'orario
di lavoro oppure in riduzione dell'occupazione. Si può cioè fondare
l'organizzazione delle attività lavorative sulla base del principio «lavorare
sempre meno, per lavorare sempre tutti» o, viceversa, sulla base del
principio «lavorare come prima e più di prima, per essere sempre in meno a
lavorare».
Il modo capitalistico di produzione - per sua costituzione strutturale -
traduce la riduzione quantitativa del lavoro umano in riduzione
dell'occupazione. Quando in un luogo di lavoro arriva la notizia di una nuova
macchina che compie una data operazione in metà tempo rispetto alla
vecchia, i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero saltare dalla gioia al pensiero
che la giornata lavorativa si ridurrà in proporzione. E se questo non accade è
perché, invece della giornata lavorativa, viene ridotta la forza-lavoro
impiegata.
Per questa via, I'automazione porta non - come si vorrebbe far credere -
ad una liberazione della persona dal lavoro, ma ad una liberazione del
lavoro dalla persona, cioè ad una emancipazione del processo produttivo dai
condizionamenti della soggettività umana. Il modo capitalistico di
produzione persegue - attraverso la sofisticazione esasperata delle
procedure tecniche - una vera e propria negazione del lavoro umano, cioè
uno sfruttamento, al massimo grado, delle risorse umane, spogliate della
corposità e della soggettività delle donne e degli uomini. E' una prospettiva
ambiziosa: spremere la qualità del lavoro umano complessivo, per sorbirsela
concentrata nell'apparato tecnico e nelle quote selezionate di forza-lavoro di
volta in volta impiegate 42.
La negazione del lavoro umano è dunque un disconoscimento di fatto della
indispensabilità della presenza diffusa e capillare di donne e uomini ai fini
della strutturazione del processo produttivo. Attraverso questo
disconoscimento, il capitale tende a liberarsi dai condizionamenti imposti da
42 Si veda, in questa opera, Libro Secondo, il Capitolo Trentaseiesimo, Ristrutturazione e
occupazione tra profitto e sopravvivenza.
239
un rapporto di massa con la forza-lavoro manuale-intellettuale ed a scaricare
sulla singola persona il lavoro come assillo quotidiano.
Chi è senza occupazione lavorativa e non sa come tirare avanti non pensa
ad altro che al lavoro. Vive la schiavitù del lavoro ancora più di chi lavora. Chi
ha urgenza di trovarsi un lavoro, anche un lavoro qualsiasi, non ha tempo per
sé, perché tutte le sue giornate vengono risucchiate in un vortice: annunci sui
giornali, telefonate, lettere da spedire, corse speranzose e rientri carichi di
delusioni. Non c'è lavoro che possa prendere tanto la persona quanto la
ricerca di un lavoro. Ci viene in mente, al riguardo, un piccolo, ma
significativo episodio. Un giovane sparisce dalla circolazione. Un amico lo
incontra e gli chiede: «Com'è che non ti fai più vedere? Hai forse trovato
lavoro?». Il giovane risponde: «Peggio. Lo sto cercando».
La negazione del lavoro umano produce indeterminazione esistenziale,
cioè indeterminazione della vita sociale elevata alla massima potenza.
Ma c'è di più. In un sistema sociale in cui per avere di che vivere bisogna
vendere l'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale, il soggetto, spogliato
delle sue funzioni lavorative, non ha niente da offrire per avere in cambio un
minimo di certezza del domani. La negazione del lavoro umano si traduce
così in un azzeramento della condizione sociale degli uomini e delle donne.
Attraverso tale azzeramento, il processo di indeterminazione investe la vita
sociale. Volendo ridurre a schema un processo estremamente complesso, si
potrebbe dire che la negazione del lavoro si colloca fra I'indeterminazione del
lavoro e l'indeterminazione della vita sociale. Rinnegando l'attività umana,
come attività sociale di massa, il processo si spinge oltre il confine della
indeterminazione del lavoro. Azzerando la condizione della persona, bussa
alla porta della indeterminazione della vita sociale.
La negazione del lavoro umano provoca un movimento circolare fra
indeterminazione del lavoro e indeterminazione della vita sociale.
L'espulsione delle forze di lavoro dal processo produttivo espone la vita
umana al peso quotidiano delle necessità materiali e immateriali, rendendola
estremamente indeterminata. D'altra parte, I'indeterminazione della vita
quotidiana, il dover vivere alla giornata, produce nei soggetti disponibilità a
rinunciare alle proprie esigenze ed a farsi carico delle esigenze della
valorizzazione economica e politica del capitale. Produce cioè condizioni
favorevoli al processo di indeterminazione del lavoro.
La negazione del lavoro tende non solo a ridurre all'osso l'impiego di lavoro
umano, ma anche a impiegare lavoro umano fortemente indeterminato. Sono
240
due facce della stessa medaglia. Da una parte disoccupazione di massa,
dall'altra impiego di quote selezionate di forza-lavoro estremamente flessibile
e disponibile. La negazione del lavoro umano viene così a definirsi in termini
di dequalifcazione e di delegittimazione della forza-lavoro come corpo
massificato e potenzialmente antagonista.
In sostanza, il lavoro umano viene negato come espressione di classe, per
potere essere assunto, in quote ridotte e disarticolate, come componente
tecnica del processo produttivo. In quanto variabile - una fra le tante - del
processo, il lavoro umano non può avere una propria struttura interna,
dovendosi modellare sulle forme che la produzione volta a volta assume.
Inoltre, mentre una presenza diffusa del lavoro umano riduce al minimo gli
spostamenti lungo il processo, perché ad ogni passaggio della lavorazione
corrisponde una specifica unità di lavoro, il diradarsi del lavoro umano
comporta continui movimenti da un punto all'altro del processo tecnico. E a
questa esigenza può dare risposta adeguata solo una forza-lavoro
polivalente, flessibile e disponibile, cioè una forza-lavoro estremamente
indeterminata.
La negazione del lavoro umano va dunque oltre l'indeterminazione e nello
stesso tempo la potenzia. Pur qualificandosi come attacco diretto
specificamente alla dimensione quantitativa del lavoro, produce effetti che
ricadono sulla qualità dell'attività lavorativa. Rinnegando il lavoro umano, il
capitale non solo lo riduce, ma lo trasforma, modellandolo a misura del
processo di valorizzazione del capitale. E non si tratta soltanto di una
trasformazione della struttura tecnica del lavoro. Si tratta anche - e
soprattutto - di una radicale modificazione del suo modo di rapportarsi
all'apparato di direzione e di controllo del processo produttivo.
Così la negazione del lavoro umano si traduce in una ulteriore
subordinazione della forza-lavoro manuale-intellettuale, sia della forza-lavoro
occupata che della forza-lavoro non occupata. La prima perché esposta ad
un comando che, presentandosi in forma di esigenza tecnica, non ammette
replica. La seconda perché, esclusa da qualsiasi rapporto con I'apparato di
produzione, è costretta a subire passivamente le condizioni che esso impone
alla collettività.
Negare il lavoro non significa dunque, per il capitale, fare a meno
dell'attività umana. Il problema della negazione del lavoro umano non può
essere posto in termini di estinzione dell'uso di forza-lavoro. Sarebbe facile
obiettare che qualsiasi procedura tecnica di produzione - compresa quella
241
che riduce al minimo la presenza di uomini e di donne - è, in ultima analisi,
frutto del lavoro umano. A questo livello, un apparato produttivo che neghi il
lavoro come attività umana è una contraddizione in termini.
In effetti, presa alla lettera, la negazione del lavoro umano è una sorta di
paradosso, che serve a mettere in evidenza un salto nella evoluzione della
società capitalistica. Un salto destinato a sconvolgere l'assetto sociale del
capitalismo. La drastica riduzione della presenza della forza-lavoro manuale-
intellettuale nel processo complessivo di produzione muta alla radice i termini
del rapporto fra capitale e collettività.
Il rapporto di massa con la forza-lavoro costringe il capitale a misurarsi
continuamente con i problemi che emergono nella società-collettività. E,
d'altra parte, quando gli uomini e le donne entrano in massa nei luoghi di
lavoro è come se la collettività penetrasse, in qualche modo, nelle viscere del
capitale. La caduta del rapporto di massa provoca una tendenza alla
separatezza del capitale rispetto alla collettività. Il che non comporta affatto
un abbassamento di livello del potere capitalistico. Anzi. La separatezza
consente alle forze imprenditoriali di emanciparsi dai vincoli sociali e di
esercitare il loro potere come dominio incondizionato sulla società
complessiva. Consente loro di tenere ancora in minor conto la domanda
sociale, cioè di fare riferimento ad una società ancora più astratta.
In questo nuovo quadro viene meno la base sociale che la presenza in
massa delle forze di lavoro conferiva al fermentare delle attività produttive. Il
grande capitale che opera appartato in un processo produttivo
completamente automatizzato rivela la sua natura affaristica e avida. D'altra
parte, la caduta del velo della socialità mette in difficoltà la legittimazione del
capitalismo in quanto modello di sistema sociale. E' ancora possibile
giustificare l'adozione di un modo di produzione come quello capitalistico,
che utilizza risorse sociali senza dare in cambio occupazione di massa? Si
può a lungo sostenere che l'apparato produttivo è, nel suo insieme, la
struttura centrale della società e poi invitare i giovani e le giovani a cercare
lavoro "altrove"?
Con la negazione del lavoro umano il capitale da una parte cerca di dare
forma sistematica alla società astratta, dall'altra apre una contraddizione di
fondo, che difficilmente può essere sanata con orpelli ideologici. Esaspera a
tal punto il suo cinismo utilitaristico da compromettere la sua stessa
credibilità. Concepisce una società talmente astratta da non riuscire a
mistificarla con l'ideologia.
242
A questo punto, viene da chiedersi se è umana una società fondata su
una "visione del mondo" il cui principio costitutivo è l'indifferenza alla
condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.
24.2 Le forme della negazione del lavoro umano
La negazione del lavoro umano non può tradursi immediatamente - per
evidenti ragioni di opportunità sociale - in licenziamenti in massa. Ad evitare
un impatto troppo violento, l'obiettivo di una drastica riduzione della presenza
delle forze di lavoro nel processo complessivo di produzione viene perseguito
attraverso una serie di provvedimenti di vario tipo.
C'è, innanzi tutto, un provvedimento che le forze imprenditoriali adottano
senza rendere conto a nessuno: il blocco delle assunzioni.
Il blocco delle assunzioni equivale ad un vero e proprio licenziamento. E'
un licenziamento sociale, perché rivolto contro forze di lavoro in cerca di
prima occupazione, cioè contro quelle forze giovanili che sono già forze
sociali, ma non ancora forze direttamente produttive. E' un licenziamento
preventivo, perché, essendo rivolto contro forze che non hanno ancora un
rapporto di lavoro, tende a prevenire, attraverso la non-assunzione, la
necessità di licenziamenti, che andrebbero incontro a possibili rivalse legate
all'acquisizione di diritti.
L'unità lavorativa non assunta, in sostituzione di quella che esce per
ragioni fisiologiche, è - di fatto - una unità "licenziata" prima di essere
assunta, perché, nella fisiologia del sistema, a quanti/e non hanno un lavoro
spetterebbe l'occupazione dei posti che si rendono liberi. Negare loro quei
posti di lavoro significa, di fatto, "licenziarli/e". E' un licenziamento continuato,
perché non viene operato una volta tanto, ma si ripete in continuità, ogni
volta che un lavoratore o una lavoratrice esce, per ragioni fisiologiche, dal
sistema produttivo e la sua uscita non viene compensata. E' un
licenziamento in massa, perché un alto numero di lavoratori e di lavoratrici
lascia ogni anno il sistema produttivo ed è come se ogni anno venissero
licenziati in blocco altrettanti ed altrettante giovani in cerca di prima
occupazione. Infine, malgrado il suo carattere sociale e di massa, si tratta di
un licenziamento invisibile, perché, mentre dà all'occhio anche una sola
persona gettata sul lastrico, la non-assunzione di migliaia di giovani in cerca
di prima occupazione è un fatto talmente generale che non colpisce
individualmente nessuno. Un licenziamento è la soppressione di una realtà
243
esistente, mentre una mancata assunzione è soltanto la mancata creazione
di una realtà che ancora non esiste. Sopprimere qualcosa è odioso. Non
creare qualcosa che poteva esistere è, al massimo, deplorevole.
L'uscita fisiologica di forze di lavoro, manuali e intellettuali, dalla
produzione di beni e di servizi raggiunge dimensioni quantitative
considerevoli. E tuttavia non basta, da sola, a coprire il bisogno, sempre
crescente, di espulsione di lavoro umano. Si provvede quindi ad incentivare
la disattivazione volontaria delle forze di lavoro. I lavoratori e le
lavoratrici vengono sollecitati, con riconoscimenti aggiuntivi, a licenziarsi o a
collocarsi a riposo in anticipo rispetto all'età massima. Per questa
via, si ottiene una ulteriore riduzione del lavoro umano presente nel processo
produttivo.
Nella stessa direzione va l'introduzione del part- time. Viene offerta ai
lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di optare per una riduzione delle ore
di lavoro, a cui corrisponde una riduzione della retribuzione. Questa
possibilità incontra il favore di quanti - specialmente uomini - vanno in cerca
di tempo da impiegare in un secondo lavoro, irregolare. In questo caso si ha
quindi una sostituzione di lavoro regolare con lavoro irregolare. Molte donne
optano invece per il part-time al fine di potersi dedicare con più tempo alla
famiglia ed ai lavori di casa. E compensano magari la riduzione della
retribuzione facendo a meno della collaboratrice familiare.
Ma tutto ciò non basta. Il progresso tecnologico comporta una continua
espulsione, per via diretta, di quote rilevanti di forza-lavoro manuale-
intellettuale. Finché la libertà di licenziare non è istituzionalizzata, l'istituto
che agevola tale espulsione è la cassa integrazione. Lavoratrici e lavoratori
vengono via via dichiarati "esuberanti" - cioè in eccesso rispetto al
fabbisogno di forza-lavoro - e vengono mandati a casa, ma non sono
formalmente licenziati, anche se si sa che, nella maggioranza dei casi, non
rientreranno più nel posto di lavoro.
In pratica, le aziende si liberano della forza-lavoro eccedente e ne
scaricano i costi sulla collettività. Si viene così a creare un rapporto
particolare fra capitale e collettività. La collettività fornisce la forza-lavoro
manuale-intellettuale al capitale, che la mantiene, per poterla sfruttare.
Quando però lo sfruttamento di una quota di forza-lavoro non è più
conveniente per il capitale, la collettività è chiamata a intervenire, per
mantenerla a proprie spese. Come dire che il capitale tiene per sé i frutti del
rapporto con la forza-lavoro manuale-intellettuale e scarica i costi sulla
244
collettività. Oltre a consentire di espellere la forza-lavoro eccedente, la cassa
integrazione, in quanto minaccia di espulsione, ha la funzione di piegare al
comando del capitale la forza-lavoro eccedente. Riduce la base produttiva ed
attacca, all'interno della base ridotta, la rigidità della forza-lavoro.
Per quanto si è detto, la funzione della cassa integrazione si esaurisce via
via che si afferma l'istituzionalizzazione della libertà di licenziare.
24.3 La negazione del lavoro umano come sistema di esclusione sociale
La negazione del lavoro umano si definisce come sistema di esclusione
sociale. E I'esclusione sociale è, nella sostanza se non nella forma, uno dei
connotati qualificanti della società astratta. E' il terreno sul quale la società
astratta, con maggiore evidenza, mentre si afferma in quanto sistema di
astrazione, si nega in quanto società comunitaria.
In tal senso, I'esclusione sociale è una delle contraddizioni interne
all'impianto della società astratta. Mentre afferma in teoria che tutti i membri
della collettività devono concorrere alla realizzazione dei fini sociali, la
società sussunta al capitale in pratica dimostra che i suoi fini possono essere
raggiunti soltanto con la sistematica esclusione di una parte della collettività
dalla vita sociale.
E' in questa contraddizione la prova del fuoco della società astratta. Per
legittimarsi in quanto formazione sociale di lunga durata, la società astratta
deve, quanto meno, prospettare una soluzione di fondo alla necessità di
restringere sempre più la base produttiva, senza ridurre la sua base sociale.
Intanto, ridurre la base produttiva non significa, di per sé, restringere la
sfera sociale della valorizzazione. La forza-lavoro espulsa, pur essendo
inattiva rispetto al processo di produzione, concorre alla valorizzazione
proprio attraverso il suo stato di inattività.
Immaginiamo che un sistema, impiegando tutta la forza-lavoro a
disposizione, produca un plusvalore complessivo X e che invece, lasciando
inattiva una quota di forza-lavoro, produca un plusvalore X + Y. E' chiaro che,
in questo caso, è stato possibile produrre il plusvalore aggiuntivo Y solo a
prezzo di una certa quota di disoccupazione. In un certo senso, quindi, il
plusvalore Y viene "prodotto" - se pure indirettamente e in senso lato - dai
disoccupati e dalle disoccupate. Tanto è vero che se essi/e, per ipotesi, si
inserissero a forza nella produzione, farebbero abbassare il livello del
245
plusvalore. Questa sorta di paradosso mette in luce la funzionalità della
disoccupazione alla valorizzazione capitalistica.
Come si vede, nella società astratta può darsi anche il caso in cui la
persona venga quasi investita del "dovere sociale" di lasciare inattiva la
propria laboriosità, per non danneggiare il processo di valorizzazione del
capitale. E ciò mentre I'ideologia dominante esalta I'attivismo produttivo. Il
soggetto viene spesso a trovarsi nella condizione di chi da una parte è spinto
a qualcosa e dall'altra è trattenuto. Per esempio, la vita dei giovani e delle
giovani viene programmata, attraverso un corso di studio, in vista di una
attività da svolgere. E poi viene lasciata inattiva.
C'è, dietro questa incoerenza, una incongruenza di fondo. Nel sistema
capitalistico chi non produce viene fatto/a passare per una sorta di rottame
sociale. Questo modello ideologico ha una funzione di incentivazione
dell'attivismo produttivo, di cui iI capitale ha bisogno. Ma, d'altra patte, un
sistema di produzione a tecnologia avanzata tende sempre più a ridurre la
base produttiva e quindi ha bisogno di una quota sempre più alta di
inattivismo produttivo.
L'uomo o la donna senza lavoro è spesso un soggetto che ha assimilato il
modello ideologico dominante e si sente veramente un rottame sociale. La
sua condizione non può essere ridotta alla mancanza di salario, che pure ne
costituisce la base materiale. Ci sono aspetti che riguardano il problema della
integrità esistenziale. Da tale punto di vista, la condizione prodotta dalla
cassa integrazione è rivelatrice. Essa porta allo scoperto alcuni risvolti della
negazione del lavoro umano che altrimenti sarebbe difficile mettere in
evidenza.
In tale condizione, il rapporto classico fra capitale e lavoro subisce una
trasformazione rilevante. Chi è in cassa integrazione ha un salario non in
cambio di un uso della sua forza-lavoro, ma in cambio di un non-uso della
sua capacità lavorativa. I lavoratori e le lavoratrici in cassa integrazione
vengono pagati per stare senza fare niente. Ai fini della valorizzazione del
capitale, il far niente dei cassintegrati e delle cassintegrate è comunque un
"fare", in quanto produce, come si è visto, la quota di plusvalore che il
sistema perderebbe se quelle unità lavorative fossero inserite nella
produzione.
E qui viene fuori una delle espressioni più esasperate dell'astrazione
sociale. Qui la produzione di valore richiede l'azzeramento della persona in
quanto centro di attività. Le esigenze della valorizzazione del capitale
246
finiscono per oscurare il bisogno della persona di essere attiva. Tale
situazione smaschera l'ideologia dell'attivismo borghese. Il capitalismo
accampa il merito storico di valorizzare la persona, mettendo in moto tutte le
sue energie. In effetti, della persona non gli importa nulla. E ciò risulta
evidente nel momento in cui si inventa una condizione nella quale si riduce il
soggetto ad una bocca da sfamare, facendo astrazione da tutte le sue qualità
umane. E' così che la società astratta intende risolvere il conflitto tra profitto
e sopravvivenza 43.
Dal punto di vista delle forze di lavoro, la condizione di chi è in cassa
integrazione dovrebbe, in teoria, rappresentare il meglio che si possa
desiderare all'interno del sistema capitalistico. Le donne e gli uomini vengono
liberati dalla schiavitù del lavoro salariato, senza venire a mancare dei mezzi
di sussistenza. La realtà è di segno opposto. I lavoratori in cassa
integrazione (un po' meno le lavoratrici) vivono, in genere, una vita da
sbandati e cadono in uno stato di prostrazione tale da portare, nei casi di
estrema fragilita psichica, a gesti suicidi. Come mai?
Per cercare di capire, proviamo ad addentrarci nella vita quotidiana degli
uomini e delle donne in cassa integrazione. La giornata di chi lavora si
definisce, nella sua struttura centrale, come giornata lavorativa. E' intorno
alle ore di lavoro che si organizza la vita quotidiana nella società sussunta al
capitale. Per questa via, la vita sociale viene strutturata in sintonia con i
tempi e con i modi del processo di produzione. Nella società astratta la vita
quotidiana di chi lavora è organizzata a prescindere dalle esigenze e dalle
scelte personali. E' una vita sovradeterminata.
Le lavoratrici e i lavoratori dipendenti vivono per anni una vita organizzata
da altri. Vivono una vita che altri riempiono di propri contenuti. Vivono una
vita a cui altri danno fini e significati. Di conseguenza, non sono abituati,
svegliandosi la mattina, a porsi il problema: che si fa oggi? Non sono abituati
ad elaborare alternative ed a scegliere fra diverse possibilità. Non sono
abituati - non certo per loro colpa - a riempire la vita quotidiana dei propri
desideri e dei propri interessi. Non sono attrezzati - né materialmente né
culturalmente - ad usare per sé la propria vita.
In queste condizioni, I'improvvisa disponibilità della propria vita quotidiana,
sottratta all'altrui organizzazione, invece di essere percepita come un evento
43 Si veda, in questa opera, Libro Secondo, il Capitolo Trentaseiesimo, Ristrutturazione e coccupazione
tra profitto e sopravvivenza».
247
liberatorio, viene vissuta come una sorta di svuotamento esistenziale. Il
lavoratore (un po' meno la lavoratrice) vive il tempo liberato come tempo
vuoto. Il tempo non strutturato a misura dei ritmi del processo produttivo non
può - nelle condizioni date - essere strutturato sulla base di un progetto di
vita. Diventa tempo senza ritmo: noia. La giornata finisce di essere giornata
lavorativa, ma non comincia ad essere giornata di vita realizzata. E' una
giornata balorda, che dà solo angoscia e smarrimento.
Che significa tutto ciò nei termini della nostra analisi? Il soggetto viene
svuotato delle sue detemminazioni, al punto di vivere le determinazioni
dell'organizzazione del lavoro come determinazioni proprie. Viene espro-
priato della sua vita quotidiana, al punto di vivere la giornata lavorativa come
la sua giornata. E finisce per avere bisogno del lavoro, non solo per potere
disporre dei mezzi di sussistenza, ma anche per dare un senso alla sua
giornata. Diventa lavoro-dipendente. Ha con il lavoro un rapporto analogo a
quello che ha con la droga il tossico-dipendente.
Ma c'è un altro aspetto da prendere in considerazione. La vita quotidiana
del lavoratore o della lavoratrice è organizzata come giornata lavorativa.
Ed è quindi nel posto di lavoro che il soggetto vive i suoi rapporti
interpersonali quotidiani. Il cassintegrato non viene soltanto espulso dal
processo produttivo. Viene anche tagliato fuori dai rapporti con i compagni e
con le compagne di lavoro. E si sente escluso da quella convivenza che
quotidianamente si intesse di occhiate, di battute, di commenti ai fatti del
giorno, cioè di tutto il vissuto che riesce ad insinuassi negli interstizi della
organizzazione del lavoro. Il soggetto, privato dell'attività lavorativa, vive la
sua nuova situazione esistenziale come una condizione di emarginazione
sociale. Si sente come un arnese buttato nel ripostiglio dei ferri vecchi. E non
è in condizione di costruirsi una nuova prospettiva di vita. Il dramma della
sospensione dell'attività lavorativa discende dalla paura della morte civile.
La struttura produttivistica della vita quotidiana, pur essendo astratta,
svolge dunque, di fatto, una funzione centrale nel processo di integrazione
sociale. La giornata lavorativa, proprio perché è sovradeterminata, serve ad
integrare le persone concrete alla società astratta. E serve a collegare la
persona alle sue qualità, espropriate ed incorporate nella struttura produttiva.
Ovviamente, si tratta di una integrazione estraneata, nel senso che è
finalizzata non alla realizzazione esistenziale dei soggetti, ma al loro
asservimento. E tuttavia essa è per la persona l'unica via per uscire
dall'isolamento e collegarsi alla collettività.
248
Solo in questa chiave è possibile spiegare lo smarrimento da cui si
sentono presi i lavoratori (soprattutto uomini) in cassa integrazione quando,
alzandosi la mattina, si trovano ad affrontare una giornata "liberata" dalle
incombenze dell'attività lavorativa. La giornata si presenta ai loro occhi come
una costruzione alla quale venga a mancare la struttura in cemento armato
che la tiene in piedi.
E' il massimo della inversione che riesce a mettere in atto la società
astratta. La giornata lavorativa si presenta come una giornata "piena",
mentre una giornata liberata dalle scadenze e dai ritmi della produzione si
presenta come una giornata "vuota".
Il cassintegrato che va davanti ai cancelli della fabbrica e chiede di
lavorare desidera ricongiungersi alle sue qualità espropriate ed esprime
apprezzamento non per il lavoro in quanto sede del rapporto con il capitale,
ma per il lavoro in quanto attività e in quanto sede del rapporto con i
compagni e con le compagne. In breve, chiedendo di lavorare, il soggetto
esprime - nell'unico modo che ha a disposizione - il suo bisogno di
reintegrazione esistenziale 44.
Diversa, in parte, è la condizione prodotta dallo stato di disoccupazione. A
prescindere dalle distinzioni che vengono fatte ai fini delle rilevazioni
statistiche, nell'area della disoccupazione occorre considerare a parte la
situazione di chi è senza lavoro pur avendo lavorato in passato e la
situazione di chi è in cerca di prima occupazione.
Chi, in seguito a licenziamento, viene improvvisamente a trovarsi senza
lavoro, è nella peggiore situazione. Ha, al pari dei cassintegrati, una vita già
strutturata sulla base del lavoro e vive quindi lo stesso smarrimento derivante
dal vuoto esistenziale prodotto dal collocamento in cassa integrazione. Ma in
più, venendo a mancare della retribuzione, si trova, di punto in bianco, a
dovere affrontare il problema della sussistenza per sé e spesso anche per la
propria famiglia. E' facile immaginare lo sgomento, la disperazione,
I'angoscia di una persona alla quale viene di colpo a mancare la prospettiva
di una vita preordinata da anni 45.
44 Nei paragrafi 1.4 e 1.6 si analizza da una parte la separazione fra persona e qualità umane e dall'altra
il bisogno di reintegrazione della persona alle qualità espropriate. Tutto ciò può servire ad individuare un altro
aspetto della condizione del cassintegrato, il quale sente la mancanza delle sue qualità incorporate nel
sistema di produzione.
45 Uno studio ha rilevato che la perdita del posto di lavoro provoca un danno psicologico equivalente al
dolore per la morte di un congiunto.
249
Altri sono i caratteri della condizione di chi è in cerca di prima occupazione.
In genere, si tratta di soggetti relativamente giovani, che non hanno ancora
dato una struttura stabile alla propria vita ed hanno anzi, in un modo o
nell'altro, trovato la via per vivere la propria condizione di precarietà materiale
e immateriale. La vita di chi è in cerca di prima occupazione è destrutturata
ed ha quindi un grado di elasticità che consente un continuo - anche se
faticoso - adattamento e riadattamento alle nuove e sempre diverse
situazioni prodotte dallo stato di precarietà.
In comune le due condizioni hanno la sofferenza acuta delle persone che
si sentono espropriate della progettazione, della produzione, della finalizza-
zione e dell'uso della propria vita.
Abbiamo così tracciato - per grandi linee - il quadro delle soluzioni che
vengono adottate per corrispondere al bisogno di riduzione del lavoro umano,
all'interno del processo produttivo automatizzato. Tale quadro si colloca in
una fase di transizione. La negazione del lavoro umano che discende dal
processo di automazione trova un adeguato corrispettivo solo nella
istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro. E la instabilità
lavorativa istituzionalizzata si traduce in una scompaginazione sistematica
della socialità che si coagula lungo il percorso del processo produttivo.
Siamo ormai sulla soglia della indeterminazione della vita sociale.
In questo quadro si spiega la seguente notizia: «Il quotidiano Usa Today del 19 febbraio [1996] pubblica
un decalogo del manager il cui compito consiste nel licenziare: una specie di terapia destinata a evitare il
peggio a chi riceve la notizia (non si dimentichi il numero di sparatorie dovute a licenziamenti che i giornali
americani continuano, chissà perché, a registrare in cronaca nera invece che nella pagina «Affari e Finanza»
») (F. Colombo, Finisce il lavoro, inizia l'avventura, in «La Repubblica» del 5/3/1996).
250
251
Capitolo Venticinquesimo
L'INDETERMINAZIONE DELLA VITA SOCIALE
25.1 Vita sociale e valorizzazione capitalistica nel processo di indeterminazione
L'indeterminazione sociale è un processo graduale, che tende a rendere le
condizioni di vita delle donne e degli uomini sempre meno definibili in termini
di stabilità e di continuità. Da tale punto di vista, essa ha la funzione di
allargare la sfera della disponibilità delle persone nei confronti delle
esigenze del processo di valorizzazione del capitale.
Consideriamo gli effetti della indeterminazione del tempo di lavoro sulla
vita quotidiana. Meno il tempo di lavoro è determinato, più il tempo di vita si
deve rendere disponibile. Lasciando invariata la quantità del tempo di
lavoro, se le ore lavorative occupano stabilmente la mattina o il pomeriggio, è
possibile organizzare la propria vita nel tempo di non lavoro. Ma se il lavoro
occupa ora la mattina ora il pomeriggio, il tempo di non lavoro deve essere
sempre disponibile per il lavoro e quindi si definisce come potenziale tempo
di lavoro. In tal senso, l'indeterminazione del lavoro è la via per la quale il
sistema di valorizzazione del capitale estende il suo dominio alla vita
sociale.
Una società non può essere astratta al punto di far coincidere il tempo di
lavoro con il tempo di vita. Ma lo scarto fra tempo di lavoro e tempo di vita
non è fisso, perché il tempo di lavoro è estremamente mobile e scorre
continuamente lungo il tempo di vita. E nemmeno scorre compatto, in modo
che, comunque, si possa configurare una giornata lavorativa, se pure
estremamente flessibile. Tempo di lavoro e tempo di vita sono talmente
intrecciati che tutto il tempo di vita viene vissuto come tempo di lavoro in
potenza, come tempo indeterminato di lavoro.
Per questa via, I'indeterminazione viene ad investire il tempo sociale.
Mentre ci misuriamo con l'indeterminazione del lavoro, ci ritroviamo nel bel
mezzo del processo di indeterminazione della vita sociale.
Finché regge la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro,
I'indifferenza ai contenuti del lavoro può stare insieme - se pure in termini
252
conflittuali - alla non-indifferenza alle determinazioni, materiali e immateriali,
presenti nella vita sociale. Ma, quando tutto il tempo di vita diventa tempo
potenziale di lavoro, la contraddizione fra indeterminazione del lavoro e
determinazione della vita sociale esplode. Le zone di compensazione
vengono sommerse dal fluire continuo del processo produttivo complessivo.
Nel quadro generale di tale processo, che valore può avere per il capitale
multinazionale l'indifferenza del soggetto ai contenuti della sua attività, se poi
egli si rifiuta di seguire sul territorio sovranazionale le mutevoli esigenze della
produzione, perché affettivamente legato a luoghi determinati, a determinati
rapporti interpersonali? Se, per esempio, ci si dichiara disponibili a fare
qualsiasi lavoro, a condizione però di non doversi sradicare dal proprio
ambiente, se cioè al lavoro indeterminato si vuole far corrispondere una vita
sociale determinata, la disponibilità non è adeguata al processo complessivo
di produzione.
Il lavoro indeterminato è la forma di lavoro adeguata al processo di
valorizzazione semplice del capitale, cioè alla produzione diretta di profitto
attraverso lo sfruttamento di forza-lavoro. Analogamente, ad altro livello, la
vita sociale indeterminata è la forma di vita adeguata al processo di
valorizzazione sociale del capitale, cioè al processo generale attraverso il
quale il capitale sfrutta la dinamica della società per accrescere la propria
forza e la propria potenza.
Per vita sociale indeterminata intendiamo una vita sociale non vincolata
da particolari determinazioni psichiche, culturali, politiche, dei soggetti
individuali e collettivi. Una vita spogliata di tutto ciò che è espressione della
soggettività. Per dirla in breve, una vita qualsiasi, indifferente ai suoi
contenuti. Una vita senza qualità.
Tutto ciò non perché i soggetti siano indifferenti ai contenuti della loro vita
quotidiana, ma perché il sistema politico-economico definisce la vita a
prescindere dai significati che le persone danno al loro vivere quotidiano. In
altri termini, i contenuti ed i significati che i soggetti danno alla loro esistenza
non trovano riscontro nella definizione che il sistema politico-economico dà
della vita sociale, proprio perché tale definizione fa astrazione dalla
concretezza esistenziale. Così la società vive una continua tensione fra la
vita sociale astratta, come è definita dal sistema politico-economico, e la vita
quotidiana concreta, come è vissuta da uomini e donne in carne e ossa.
253
All'origine di tale tensione c'è una inversione. La vita reale diventa astratta
e la valorizzazione capitalistica diventa realtà, I'unica realtà con la quale
sono chiamati a misurarsi le donne e gli uomini.
Cercheremo di spiegarci con un paradosso. Un giovane in cerca di lavoro
si presenta ad una ditta e dice: «Vorrei essere assunto. Però anche la mia
compagna dovrebbe essere assunta da questa ditta e dovrebbe lavorare
nello stesso reparto dove lavoro io, in modo che anche durante il lavoro si
possa stare insieme». La risposta più gentile che il dirigente addetto al
personale potrebbe dare a questa "folle pretesa" è la seguente: «A noi quello
che tu dici non interessa. A noi interessa che tu lavori sodo e produca (cioè,
fuori dai denti, a noi interessa che dal tuo lavoro si possa ricavare profitto)».
Ecco, I'inversione sta nel fatto che la vita reale, la vita che ognuno/a di noi
vive realmente - con la propria compagna o con il proprio compagno, con le
proprie figlie e con i propri figli, con i propri amici e con le proprie amiche -
diventa astratta («a noi non interessa», dice il dirigente). E invece il profitto -
che è, in sé, valore astratto - diventa reale («a noi interessa che tu
produca»).
Il processo di indeterminazione della vita sociale ha la funzione di rendere
fluido il processo di valorizzazione economica e politica del capitale. La vita
quotidiana, così ricca di determinazioni (amori, amicizie, affetti) viene
immersa nell'acqua santa della indeterminazione sociale e, purificata di tutte
le concrete specifità delle donne e degli uomini, viene rivestita delle astratte
determinazioni del processo di valorizzazione economica e politica del
capitale.
Dal punto di vista dei ministri di culto della società astratta, la non-
specificità della vita sociale deve tradursi in disponibilità ad assumere, volta a
volta, la mutevole forma in cui si presenta la valorizzazione economica e
politica del capitale. La vita sociale deve mancare di proprie determinazioni,
per potere assumere le determinazioni della produzione. Deve essere
indifferente verso i propri contenuti, per potere essere deferente verso i
contenuti che volta a volta assume l'attività lavorativa. Deve essere
indifferente verso la propria qualità, per potere essere deferente verso la
quantità del valore da produrre. Deve, in pratica, essere la vita di chi - uomo
o donna - presentandosi ad una ditta per chiedere di essere assunto/a, si
limiti a dire, molto semplicemente: «Pur di lavorare, sono disposto/a a
trasferirmi in qualsiasi posto ed a fare qualsiasi cosa, rinunciando a stare nel
luogo che amo, vicino alle persone che amo, con le amiche e con gli amici
254
che mi sono cari». Ecco, questa è la "vita vuota" che i ministri di culto della
valorizzazione capitalistica vogliono vedere offrire alla società astratta, in
cambio del diritto a vivere.
Tutto ciò però non spiega perché alla base del processo di valorizzazione
sociale del capitale c'è non più soltanto il lavoro socialmente indeterminato,
ma la vita sociale indeterminata, dal momento che I'indeterminazione sociale
è già nel lavoro. Sembrerebbe che fra lavoro socialmente indeterminato e
vita sociale indeterminata ci sia soltanto una differenza di grado e che, in
ogni caso, questa differenza non riguardi I'indeterminazione sociale.
In realtà, il lavoro può essere, sì, socialmente indeterminato, ma entro una
determinata condizione sociale, che è il suo presupposto: la condizione
sociale di attività lavorativa. E', sì, indifferente ai propri contenuti, ma, in ogni
caso, essi saranno contenuti di lavoro. Quella del lavoro è dunque una
indeterminazione, per così dire, determinata. Essa riguarda una sfera ben
definita e non può essere estesa a tutta la vita sociale. L'indeterminazione
del lavoro non è sociale al punto di prevedere, tra le realtà possibili, la
condizione di inattività lavorativa. Il problema dell'indeterminazione sociale
del lavoro non riguarda il disoccupato o la disoccupata. Non perché il
disoccupato o la disoccupata faccia un lavoro socialmente determinato.
Semplicemente perché non fa lavoro.
Il lavoro è dunque socialmente indeterminato se riferito al tempo di lavoro.
Se riferito al tempo di vita - che è il tempo del processo di valorizzazione
sociale del capitale - è determinato, perché presuppone una condizione
particolare. Ed è per questo che I'indeterminazione è adeguata alla
valorizzazione sociale del capitale soltanto a livello di vita sociale.
A tale livello, il processo di indeterminazione tende a svuotare di significato
la contrapposizione fra condizione lavorativa e condizione non lavorativa. La
vita sociale indeterminata non sopporta, al suo interno, steccati. L'esistenza
materiale e immateriale degli uomini e delle donne è funzionale alla
valorizzazione capitalistica non in quanto radicata in una condizione sociale
specifica, rna in quanto disponibile nei confronti di qualsiasi condizione.
255
25.2 La separazione fra individualità e socialità
Nella vita sociale si esprime una componente fondamentale della persona:
la socialità. La persona ha una struttura circolare, che parte dal sé e ritorna
al sé, attraverso gli altri e le altre. Ed è in tale viaggio attraverso gli altri e le
altre che si realizza questo uomo o quella donna.
Una piena espressione della socialità porta alla realizzazione della persona
nella sua concreta specificità. Da qui il pericolo che costituisce per il
processo di indeterminazione una socialità in quanto espressione di uomini e
donne in carne e ossa. Una vita sociale indeterminata non sopporta l'attività
di donne e uomini impegnati a dare corso alla loro socialità in quanto
persone concrete. D'altro canto, il sistema di produzione deve potersi
avvalere del lavoro in quanto processo sociale e quindi legato, in qualche
modo, alla socialità della componente umana.
La via che il processo di indeterminazione percorre per uscire da questa
contraddizione è la separazione fra individualità e socialità. La socialità viene
estrapolata dal contesto personale, carico di determinazioni esistenziali, ed
usata nel processo lavorativo come pura e indeterminata variabile tecnica. E
l'individuo, svuotato della sua socialità, non ha modo di introdurre nella vita
sociale la propria concretezza esistenziale, perché non può usare per sé, per
la sua realizzazione, la propria socialità. L'individualità, separata dalla
socialità, anzichè esprimere la specificità dell'apporto personale alla vita
collettiva, viene rinchiusa nel gretto egoismo dell'interesse particolare. E la
socialità, avulsa dalla concretezza personale, anziché segnare la
realizzazione del soggetto, diventa sede della sua spersonalizzazione.
Ora, in che senso tutto ciò è funzionale alla indeterminazione della vita
sociale? Una vita sociale che tendesse alla piena espressione della persona
si arricchirebbe di tante e tali specificità da diventare inutilizzabile per un
processo sociale che richiede fluidità, flessibilità e intercambiabilità. Per
essere adeguata ad un processo di valorizzazione capitalistica non confinato
nelle sedi della produzione diretta, la vita sociale non può rimanere Iegata
alle specificità personali. Deve liberarsi dai vincoli della concretezza
esistenziale. E ciò è possibile soltanto da una parte recidendo la socialità dal
corpo vivente della personalità e dall'altra astraendo l'individualità dal suo
essere sociale.
L'individualità e la socialità, una volta separate, funzionano entrambe al
servizio del processo di valorizzazione del capitale. L'individuo - cioè il
256
soggetto chiuso in sé - viene indotto a ricercare l'utile egoistico in
concorrenza con gli altri. E questa ricerca si risolve nel suo asservimento alla
valorizzazione economica e politica del capitale.
Attraverso la separazione tra sfera individuale e sfera sociale viene
dunque preclusa l'attivazione della soggettività collettiva. La pienezza della
vita sociale si realizza in una attività collettiva in cui le soggettività personali
possano esprimere creativamente la loro socialità. Ma nella società astratta il
soggetto ha un solo modo di attivarsi insieme agli altri soggetti: lavorare per
la valorizzazione economica e politica del capitale. Ora, nel lavoro
subordinato alla valorizzazione capitalistica la soggettività è sempre un
mezzo, mai un fine. L'attivazione capitalistica della socialità si traduce
dunque in un uso strumentale della soggettività.
25.3 La spettacolarizzazione della vita sociale
Non potendo attivarsi per sé nel tempo di lavoro, la soggettività cerca di
esprimersi attivamente nel tempo di non lavoro. Ma tale attivazione, se
venisse portata a compimento, finirebbe per creare una pericolosa tensione
tra sfera lavorativa e sfera non lavorativa. Dopo avere provato il gusto della
creatività attiva nella sfera extralavorativa, la soggettività difficilmente si
adatterebbe ad un ruolo passivo e subordinato nella sfera lavorativa. La
compartimentazione della società richiede dinamiche che tendano a
disinnescare tensioni tra le sfere separate della vita sociale.
Da qui la necessità di organizzare il tempo di non lavoro in modo da
ingabbiare la soggettività. Tutta la vita sociale extralavorativa viene
strutturata in modo che il soggetto vi figuri non come attore, ma come
passivo spettatore. La vita extralavorativa consiste non nel fare sport,
musica, teatro, ecc., ma nell'assistere ad uno spettacolo di sport, di musica,
di teatro, ecc.. Tutta l'organizzazione del tempo di non lavoro funziona sulla
base della passività dei soggetti. Una partita di calcio si può svolgere
regolarmente soltanto perché la massa degli spettatori e delle spettatrici si
limita ad assistere, magari con manifestazioni verbali, ai calci dati al pallone
dai ventidue in campo. Immaginiamo che cosa succederebbe se le persone
che stanno sugli spalti si scrollassero improvvisamente di dosso il ruolo di
spettatori e di spettatrici loro assegnato e, cedendo alla voglia matta di
sgranchirsi le gambe e dare i classici quattro calci al pallone, invadessero il
rettangolo di gioco.
257
E' in questa degradazione della persona la logica di fondo della società-
spettacolo. Persino la politica - che è, per eccellenza, la sfera dell'attività -
viene ridotta ad uno spettacolo di controversie fra i partiti, a cui il pubblico è
invitato ad assistere tramite i mezzi di comunicazione di massa.
Questa passività di massa è funzionale alla indeterminazione della vita
sociale. Il vivere collettivo è indeterminato nella misura in cui in esso non ha
modo di esprimersi attivamente la soggettività delle persone concrete. E ciò
perché solo una soggettività socialmente attiva produce determinazioni
sociali.
Abbiamo finora analizzato il funzionamento della sfera lavorativa da una
parte e della sfera extralavorativa dall'altra in relazione all'attivazione della
soggettività delle persone concrete. E abbiamo visto che, nella società
astratta, le due sfere funzionano in modo da precludere tale attivazione. Ciò
non significa che nella vita sociale, sia lavorativa che extralavorativa, la
soggettività rimanga in uno stato di assoluta inattività. Dobbiamo dunque
adesso cercare di vedere per quali vie il bisogno di attivazione presente nella
soggettività riesce comunque ad esprimersi, se pure occasionalmente e con
difficoltà.
Per farsi una idea della impellenza del bisogno di attivazione, proprio della
soggettività, basta pensare alla pienezza di vita da cui ci sentiamo invadere
tutte le volte che, invece di assistere ad attività spettacolari, mobilitiamo le
nostre risorse per fare attività in prima persona. Dare quattro calci ad un
pallone su un prato verde, in una splendida giornata di sole, insieme a
persone che ci sono amiche, ci fa sentire più vivi/e che sedersi sui gradini
di uno stadio per assistere ad una partita. Stare a cantare insieme,
accompagnandosi magari con strumenti improvvisati, dà più gioia che fare da
spettatori e da spettatrici alla esibizione di un cantante o di una cantante di
professione. Di questo bisogno sono consapevoli quei cantanti e quelle
cantanti che dal palco invitano il pubblico ad accompagnare il ritmo con il
battito delle mani. Il bisogno di attivazione talvolta rompe gli argini. I soggetti
presenti abbandonano il ruolo di spettatori e di spettatrici e si appropriano
dell'occasione di stare insieme, per mettersi a cantare ed a ballare per conto
loro, facendo girotondi e disinteressandosi della esibizione che si svolge sul
palco.
Il bisogno di attivazione sociale è, nella società astratta, compresso e
ostacolato. La socialità viene espropriata ed organizzata tramite il processo
lavorativo o attraverso la partecipazione passiva ad attività spettacolari. C'è
258
un sistema di regole che presiede alla organizzazione ed al consumo delle
attività spettacolari. Intanto, gli spettacoli indirizzati a soggetti che lavorano
sono collocati in giorni ed in orari non lavorativi. Si svolgono in ambienti
strutturati sulla base della separazione fra lo spazio riservato al pubblico e lo
spazio riservato alla esibizione. Prevedono il coinvolgimento del pubblico
entro i limiti dell'approvazione o disapprovazione della esibizione, con
applausi o fischi. Tutte queste regole sono, per così dire, incorporate nello
schermo televisivo, che - in tal senso - si qualifica come lo strumento per
eccellenza della spettacolarizzazione della vita sociale.
Il bisogno di attivazione sociale, per esprimersi, deve rompere
I'accerchiamento della organizzazione dello spettacolo, far saltare il ruolo
passivo di spettatore o di spettatrice, abbattere gli steccati che proteggono le
riserve di spazi e infrangere le regole del comportamento collettivo
standardizzato. In presenza di queste condizioni o di qualcuna di esse,
espressioni, magari limitate, di soggettività sociale attiva si realizzano e si
infiltrano negli interstizi della società astratta. Sono squarci di vita piena, che
riescono talvolta a incrinare la palude stagnante della indeterminazione
sociale.
25.4 L'indeterminazione dell'essere sociale
Presupposto di base della vita sociale è l'essere sociale, cioè il concreto
esistere di donne e uomini come entità collettiva. Non può dunque darsi
astrazione sociale in un quadro di forte determinazione dell'essere sociale,
perché le specificità esistenziali delle persone concrete finiscono, in un modo
o nell'altro, per tradursi in particolari modi di vivere.
La società astratta non può reggere a lungo se non è fondata su un essere
sociale indeterminato. Se milioni di uomini e di donne costruiscono il loro
essere a misura delle proprie particolari potenzialità, nella società si produce
una massa di determinazioni che premono per trovare espressione nella vita
sociale. Si crea così una tensione fra il modo di essere delle persone e il loro
modo di vivere.
Sotto la spinta di questa tensione, le determinazioni più forti si aprono
varchi sotterranei e invadono la vita sociale. E allora il processo di
indeterminazione si rimette in moto, per dissolvere le determinazioni presenti,
come mine vaganti, nel vivere quotidiano. Per dare l'idea, è come se si
venisse a creare una sorta di circuito sociale, che - in presenza di un tasso di
259
determinazione superiore alla soglia di sopportazione - si chiude, rimettendo
in moto il processo di indeterminazione. Quando, nel vivo dello scontro delle
forze in campo, si accumulano bisogni legati all'essere concreto delle
persone, le istituzioni della società astratta si mobilitano per svuotare la
domanda sociale dei suoi contenuti.
Talvolta la pressione dell'essere sociale rompe gli argini della
indeterminazione. E' il momento alto della dinamica sociale. Milioni di uomini
e di donne pretendono di vivere tutte le possibilità che derivano dal loro
essere concreto. Il processo di indeterminazione viene messo in difficoltà e
non riesce a disinnescare i bisogni collettivi, prima che vadano a impattarsi
con I'apparato della società-struttura.
Ad evitare questo rischio, che incombe sempre sulla società astratta,
bisogna che il processo di indeterminazione non si limiti ad attaccare, nella
vita sociale, le determinazioni che via via vengono prodotte, ma investa
direttamente l'essere sociale, in quanto fonte di determinazioni.
Una vita sociale può essere indeterminata sino in fondo solo se è
indeterminato l'essere sociale. Un uomo o una donna non aspira a vivere una
vita determinata solo quando non ha determinazioni da esprimere.
L'indeterminazione della vita sociale richiede persone che non siano in
condizione di strutturare il loro essere lungo l'asse delle proprie autonome
possibilità di realizzazione.
Nelle loro particolarità, i soggetti sono persone in carne e ossa.
L'indeterminazione dell'essere sociale è il processo attraverso il quale, in
condizioni date, I'essere collettivo si definisce a prescindere dal particolare
esistere delle persone concrete.
Il processo di valorizzazione del capitale impone dunque alle persone di
prescindere dalle determinazioni particolari del loro esistere. Impone alla vita
sociale di svuotarsi di ogni determinazione esistenziale e culturale dell'essere
sociale.
Ovviamente, non pensiamo che il processo di valorizzazione tenda a
bloccare l'essere sociale in una forma astratta attraverso un utopico black out
della concretezza esistenziale. Qui si vuole soltanto sostenere che la
fissazione dell'essere sociale in una particolare determinazione della vita
materiale e immateriale è antitetica alla logica della valorizzazione
capitalistica, che ha a suo fondamento l'indeterminazione sociale. Non si
tratta dunque di immaginare un impossibile oscuramento del substrato
esistenziale della vita sociale. Si tratta semplicemente di definire - in questo
260
contesto problematico - la tendenza capitalistica a subordinare la
concretezza dell'essere sociale. Si tratta di specificare la subordinazione
della vita sociale al processo di valorizzazione del capitale come tendenza
all'astrazione dalle specifiche determinazioni esistenziali dell'essere sociale.
In questo quadro, I'indeterminazione dell'essere sociale viene a
configurarsi come la via attraverso la quale la società astratta recide i legami
fra la vita sociale e la concretezza esistenziale degli uomini e delle donne.
261
Capitolo Ventiseiesimo
LA REGOLAZIONE DELLA VITA SOCIALE
26.1 Indeterminazione e regolazione della vita sociale
La vita sociale è ricca di determinazioni concrete. Il processo di
indeterminazione non può dunque non investire il vivere quotidiano degli
uomini e delle donne in carne e ossa. Non sarebbe pensabile una società
astratta nella quale i riferimenti al concreto superassero una certa soglia. Ma
per potere essere indeterminata, cioè spogliata delle sue determinazioni
concrete, la vita sociale deve essere regolata dall'esterno. La regolazione
della vita sociale è dunque funzionale alla sua indeterminazione. Se ogni
persona vive a modo suo, la vita quotidiana sfugge al processo di
indeterminazione sociale.
Per regolazione della vita sociale intendiamo - nel contesto problematico
della società astratta - il processo attraverso il quale la vita quotidiana delle
donne e degli uomini viene sottoposta ad un sistema di regole che la
rendano compatibile con le esigenze della valorizzazione economica e
politica del capitale. In tal senso, la vita sociale viene regolata, viene cioè
modellata non sulle esigenze dei soggetti, ma proprio sulla negazione di tali
esigenze.
E' in questo quadro che, attraverso la regolazione, si tende a rendere
indeterminata la vita sociale, cioè a svincolarla dalla concretezza degli uomini
e delle donne in carne e ossa.
26.2 Regolazione e integrazione sociale
Non sempre il sistema di regole presiede al vivere quotidiano in forma
esplicita. Spesso la regolazione è l'esito oggettivo della organizzazione della
società. La società complessiva è strutturata in modo da indurre le donne e
gli uomini ad adottare comportamenti conformistici, se non vogliono restare
tagliati fuori dalla vita sociale. Accade così, in generale, che - pur potendo
scegliere di fare o non fare certe cose - si finisca per adeguarsi agli standard
di condotta sociale.
262
E ciò perché la scelta fra le diverse alternative di comportamento è
caricata di significati relativi al problema della integrazione sociale. Di fatto,
un uomo o una donna, ogni volta che deve decidere come comportarsi in una
data situazione, si pone - in modo più o meno cosciente - il problema di cosa
verrà a significare la sua scelta nell'ambito dei suoi rapporti con gli altri.
Ora, si sa che la rottura con l'ambiente che ci circonda non è una
prospettiva che si possa affrontare a cuor leggero. Comporta tutta una serie
di difficoltà, che rendono la vita estremamente complicata. Vivere
controcorrente è come camminare in salita. Ogni tanto viene voglia di
sedersi.
Da qui la ricerca - più o meno consapevole - di soluzioni di compromesso,
che evitino il rischio dell'isolamento, senza fare perdere - come si suole dire -
la faccia. In questo quadro, la spinta all'integrazione è funzionale al sistema
di regolazione della vita sociale.
26.3 Le forme della regolazione della vita sociale
Il sistema di regolazione dispone di una serie di alternative ed è quindi in
grado di adattarsi alle mutevoli forme della vita sociale. Nell'ambito di tale
sistema è possibile una grande varietà di procedure, che vanno di volta in
volta individuate e definite..
Innanzi tutto va fatta una distinzione fra regolazione diretta e regolazione
indiretta. Per regolazione diretta intendiamo una regolazione messa in opera
attraverso l'organizzazione della vita sociale. Per regolazione indiretta
intendiamo una regolazione attuata attraverso l'assimilazione, da parte delle
donne e degli uomini, di un sistema di regole di comportamento. In altri
termini, la regolazione diretta agisce sulla vita sociale, organizzandola. La
regolazione indiretta agisce invece sui soggetti, i quali - facendo proprie certe
regole - organizzano la loro vita quotidiana in conformità agli standard di
comportamento.
Si tratta - come è facile capire - di due forme di regolazione che si
integrano a vicenda. Una qualsiasi organizzazione della vita sociale non
sarebbe in grado di funzionare se non potesse contare sul rispetto delle
regole da parte dei soggetti. Rispetto che non può essere ottenuto soltanto
per via coercitiva, senza un qualche riconoscimento morale. E, viceversa, un
sistema di regole finirebbe con il rimanere inattivo e con l'esaurirsi per inerzia
263
se non trovasse riscontro in una qualche forma di organizzazione della vita
sociale.
Ma, a prescindere da tale interconnessione, le due forme di regolazione
agiscono contemporaneamente sulla vita sociale, con prevalenza dell'una
sull'altra, a seconda delle circostanze. Per esempio, durante le ore di lavoro
prevale la regolazione diretta, mentre durante il tempo di non lavoro prevale
la regolazione indiretta. Nel primo caso, la giornata Iavorativa rappresenta il
massimo di regolazione diretta, attraverso I'organizzazione della vita sociale.
Nel secondo caso, il sistema morale è la codifica di una regolazione indiretta,
ottenuta attraverso l'assimilazione di norme.
26.4 La giornata lavorativa come sede di regolazione della vita sociale
La giornata lavorativa viene di solito definita come sede in cui si realizza
l'uso della forza-lavoro in cambio di mezzi i sussistenza. In tale ambito, la
definizione della giornata lavorativa viene concepita in termini di modalità
dell'uso della forza-lavoro. Tale uso è il terreno su cui si esercita la
contrattazione fra capitale e lavoro ed è quindi il quadro in cui si muove il
processo di indeterminazione tecnica e sociale del lavoro.
Adesso si tratta di definire la giornata lavorativa da un ben diverso punto di
vista: come sede di regolazione della vita sociale. La giornata lavorativa
struttura la vita quotidiana non solo dei soggetti impegnati in un lavoro, ma
anche di quanti non hanno un lavoro.
Per farsi una idea del peso che ha la giornata lavorativa nel sistema di
regolazione, basterà osservare la vita comune in un giorno festivo. La
struttura della vita sociale in un giorno festivo cambia radicalmente rispetto
agli altri giorni della settimana. Non vogliamo certo dire che nella parentesi
domenicale si realizza una vita sociale libera da condizionamenti. Ai vincoli
del lavoro subentrano vincoli di altro tipo, che continuano a regolare la vita
comune. D'altra parte, non è pensabile che una volta a settimana la vita
sociale rimanga sospesa in un vuoto di regolazione. E tuttavia non si può
negare che la giornata domenicale è strutturalmente - a prescindere dalla
qualità - "diversa" da una giornata feriale. Per cui, chi perdesse la cognizione
del tempo sarebbe in grado di distinguere - in un contesto sociale dato - la
domenica dagli altri giorni della settimana.
264
Questa "diversità" è da ascrivere non ad una mancanza di regolazione, ma
ad una differenza di procedura, all'interno dello stesso sistema generale di
regolazione.
26.5 Regolazione sociale ed espropriazione della progettualità esistenziale
La vita quotidiana di molte donne e di molti uomini procede lungo le linee
segnate dall'organizzazione sociale: ore e ore di lavoro, serata davanti alla
tv, gitarella di fine settimana, ecc.. Per gli aspetti essenziali, la vita quotidiana
viene regolata attraverso l'organizzazione delle attività lavorative e non
lavorative. Si innesca così un processo, attraverso il quale la società astratta
ci espropria, giorno dopo giorno, del nostro progetto di vita. A poco a poco, ci
troviamo a vivere una vita non nostra.
Questa espropriazione della progettualità esistenziale si attua per vie
diverse. Nella maggior parte dei casi non viene nemmeno percepita. Molti
uomini e molte donne non si rendono conto di vivere una vita che non sono
stati loro a progettare. Il più delle volte la vita delle donne e degli uomini si
organizza intorno a una fortuita occasione di lavoro. Spesso ci si trova a
vivere la propria vita secondo modalità che non abbiamo mai scelte.
Talvolta le persone non si rassegnano a vivere una vita che non sentono
propria. E cercano, per vie diverse, di riappropriarsi del senso dell'esistere.
C'è, per esempio, chi si tuffa nell'attività lavorativa, nell'illusione, a volte
persino cosciente, di riempirla di contenuti personali. Alla base di questo
rapporto con il lavoro non c'è identificazione. La persona esercita, è vero,
nell'attività lavorativa il suo bisogno di affermare la propria identità. Non però
perché si identifica nel lavoro che fa, ma proprio perché avverte il rischio che
la sua identità venga letteralmente cancellata. E' una sorta di giornaliero
braccio di ferro tra il processo oggettivo di espropriazione e lo sforzo
soggettivo di preservazione dell'identità personale.
Su questo terreno, una tensione troppo prolungata porta spesso ad un
cedimento su tutta la linea. Il soggetto assume un atteggiamento di passività
e lascia azzerare, in sede di lavoro, la sua identità, per cercare altrove
occasioni di compensazione. Il lavoro viene così a configurarsi come una
sorta di parentesi, che si apre e si chiude ogni giorno. Quel che accade entro
tale parentesi viene vissuto come lo scotto da pagare per farsi una vita
265
propria. Solo che la vita quotidiana reale finisce per essere rinchiusa entro la
parentesi lavorativa. E non rimane spazio per dare un fine all'esistenza.
E' veramente un circuito chiuso. Siamo costretti a darci da fare per crearci
le condizioni minimali di vita. Ma tutto questo da fare finisce per diventare la
nostra vita. Mentre cerchiamo di vivere, viviamo. O, per meglio dire,
sopravviviamo. Il vivere, in senso pieno, viene continuamente rinviato, come
un programma sempre da realizzare. E consumiamo la vita mentre
cerchiamo di realizzarla in una società indifferente alla nostra condizione
esistenziale.
266
Libro Primo - Conclusione
LA SOCIETA’ ASTRATTA FRA ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE
27.1 La dinamica della società astratta
La società sussunta al capitale può funzionare come società formalmente
democratica nella misura in cui riesce a fare astrazione dalla realtà sociale, a
definirsi come società astratta, come sistema di indifferenza sociale, come
sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli uomini e delle donne
in carne e ossa.
Funzionale al sistema di astrazione sociale è il processo di
indeterminazione sociale. La società complessiva in tanto è sussunta al
capitale in quanto la vita sociale è priva di determinazioni proprie e
disponibile nei confronti del processo di valorizzazione capitalistica. D'altra
parte, la struttura sociale può fornire l'indeterminazione necessaria al libero
gioco della valorizzazione del capitale nella misura in cui riesce a fare
astrazione dalla realtà sociale.
L'indeterminazione sociale è un prodotto della sovradeterminazione
capitalistica della società complessiva. Il capitale in tanto ottiene
indeterminazione sociale in quanto riesce a sovradeterminare la società
complessiva. L'indeterminazione non è dunque assenza di determinazione,
ma spostamento di determinazione dalla società complessiva al capitale.
Questo spostamento, operato tramite il sistema istituzionale, produce nella
collettività uno stato di subalternità.
La fruizione capitalistica dell'essere sociale richiede I'emancipazione del
soggetto dalla sua stessa identità culturale ed esistenziale. La specificazione
sociale della persona - in termini di radicamento in una cultura determinata,
di attaccamento ad un particolare contesto di rapporti sociali - è un limite per
la sua prestazione in quanto forza-lavoro manuale-intellettuale.
In tal senso, è adeguato al processo di valorizzazione capitalistica un
individuo astratto, cioè un soggetto - uomo o donna - che si nega in quanto
persona ed è disposto a definirsi come "uno, nessuno e centomila", per dirla
267
con un famoso titolo pirandelliano. E sono adeguati alla società sussunta al
capitale rapporti sociali astratti, cioè relazioni svincolate da qualsiasi
espressione della soggettività.
L'astrazione tende a investire tutti gli aspetti della dinamica sociale. Le
idee-forza su cui si regge l'organizzazione capitalistica della società si
rivelano come valori astratti che, recidendo ogni riferimento alla concretezza
della vita sociale, tendono a far sedimentare nella coscienza collettiva il
punto di vista della classe dominante.
Così la dimensione esistenziale viene segregata dentro la sfera della
valorizzazione capitalistica. E la vita quotidiana di milioni di uomini e di donne
viene piegata alle cadenze del processo di produzione. Al tempo
dell'esistenza si sovrappone il tempo astratto dell'uso della forza-lavoro.
Il sistema di astrazione sociale crea dunque le condizioni per la
valorizzazione capitalistica e predispone la sussunzione della società al
capitale. Esso è fonte di potere economico e presupposto per il potere
politico. Questo doppio potere tende per un verso a legare la struttura sociale
al capitale, per l'altro a liberare il capitale dal carico della collettività. Da un
lato la sussunzione della società al capitale, dall'altro I'emancipazione del
capitale dai vincoli sociali. Quanto più la società-struttura è sussunta al
capitale, tanto meno il capitale si sente condizionato dalla società-collettività.
L'ideologia borghese tende a presentare i vincoli sociali come ostacoli allo
sviluppo della società. Nel modello ideologico borghese la vita reale degli
uomini e delle donne in carne e ossa compare come limite della società
astratta. Si tratta, come al solito, di una inversione. In effetti, è la società
astratta che tende ad imporsi come limite della vita reale. E' la
società-struttura che tende a sovrapporsi artificiosamente alla società--
collettività.
Questa sovrapposizione produce conseguenze drammatiche nella vita
sociale. Le persone hanno bisogno, per esempio, di case. Ma, appena
questo bisogno primordiale emerge e si impone, subito si mette in funzione il
sistema di astrazione sociale, che pretende di incastrarlo in una logica
particolare, dove la necessità inderogabile di dormire sotto un tetto viene
rapportata all'andamento del mercato edilizio. In tale logica, dormire sotto un
tetto è certo un diritto sacrosanto, ma a condizione che non venga
minacciata la dinamica del profitto, che è alla base degli investimenti privati
in edilizia.
268
Il mondo dove regna I'astrazione del valore di scambio si contrappone al
mondo dove regna la concretezza del valore d'uso. La ricchezza astratta si
insedia nella vita collettiva ed ostacola il godimento dei beni concreti,
ponendosi come argine al dilagare dei bisogni sociali.
E' per questa via che i diritti primari vengono affermati nella forma e
vanificati nella sostanza. E' attraverso l'elusione della domanda sociale che la
società astratta tenta di imporsi sulla vita reale degli uomini e delle donne.
Il sistema di elusione della domanda sociale è la via per la quale I'apparato
istituzionale della società astratta cerca di evitare l'impatto con i bisogni
sociali emergenti. Eludere, svuotare, rinviare. Sono questi i verbi che
definiscono l'agire della società-struttura, la quale tenta così di sfuggire ad un
problema di fondo. Non può darsi autorealizzazione là dove la specificazione
culturale ed esistenziale di una persona o di una comunità viene stravolta o
cancellata o comunque appiattita nell'indistinto universo della valorizzazione
capitalistica. E, d'altra parte, non può darsi valorizzazione piena del capitale
là dove si affermano specifiche determinazioni culturali ed esistenziali
dell'essere sociale. L'indeterminazione sociale si rivela sempre più come
condizione vitale per la valorizzazione del capitale.
Dietro questo dilemma si profila la questione della qualità della vita, che è
una sorta di sintesi dell'antiteticità fra persone concrete e sistema di
astrazione, fra ricchezza concreta e ricchezza astratta. E' sulla sorte del
principio della qualità della vita che si gioca la partita fra società-collettività e
società-struttura. E non è un caso che attorno al principio della qualità della
vita si avviluppano i nodi del rapporto fra capitale e lavoro: dall'uso della
forza-lavoro ai livelli di retribuzione.
L'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale investe direttamente la vita
quotidiana. Alla indeterminazione dell'uso della forza-lavoro non può non
corrispondere l'indeterminazione della vita sociale. Ecco perché il capitale ha
bisogno della società astratta. In una società che fa astrazione dalla
condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa I'uso della
forza-lavoro manuale-intellettuale non è condizionato dalle determinazioni
della vita sociale. Nella società astratta l'essere umano nasce già come
forza-lavoro ad uso del capitale. In tali condizioni - del tutto teoriche - il
rapporto capitale-lavoro si definisce come il rapporto sociale per eccellenza,
come la sintesi dei rapporti sociali. In questa utopia del capitale, la
società-collettività coincide con la società-struttura.
269
Fuori dell'utopia, invece, la vita quotiiana minaccia continuamente I'uso
della forza-lavoro manuale- intellettuale da parte del capitale. La "voglia di
vivere" è una mina vagante per il sistema di vita sociale adeguato al capitale.
Vivere per se stessi vuol dire morire per il capitale. Così come vivere per il
capitale vuol dire morire per se stessi.
Alcune incognite sono insediate al centro della equazione sociale su cui è
fondata la società astratta. In che misura e in quali termini le donne e gli
uomini si lasceranno, in futuro, usare dal capitale come forza-lavoro? In che
misura il sistema tecnico automatizzato lascerà spazio al lavoro umano?
Quale incidenza avrà sull'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale
l'evoluzione del sistema dei valori?
Questi interrogativi danno la misura di quanto gli interessi materiali siano
intrecciati alle esigenze immateriali. Al punto che riesce difficile dire dove
finiscono gli uni e dove cominciano le altre. Chi, per esempio, preferisce
arrangiarsi con mille espedienti, piuttosto che lasciarsi incastrare in un lavoro
dipendente, fa certo riferimento ad un quadro di esigenze immateriali, magari
non ben definito, ma comunque centrato sulla qualità della vita. La sua
scelta, se non è un caso isolato, va però ad incidere sul sistema generale
degli interessi materiali, nel senso che finisce per orientare in una direzione
piuttosto che in un'altra l'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale. E, a
loro volta, gli orientamenti dell'uso della forza-lavoro finiscono per produrre
modi di essere degli uomini e delle donne, che con quegli orientamenti sono
costretti a misurarsi. Basta pensare alle figure sociali che vengono prodotte
dall'estendersi del lavoro cosiddetto “atipico”.
Quando emerge una nuova realtà sociale, il capitale è costretto, prima o
poi, a ridisegnare il suo progetto di società astratta. Il vecchio sistema di
astrazione sociale non riesce a mettere fra parentesi le nuove istanze che
irrompono sulla scena sociale.
La società astratta è costretta a ridefinire continuamente il suo rapporto
con la concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Da qui uno stato di incertezza, che si traduce in ambivalenza, in permanente
oscillazione tra forza e debolezza, tra assenza e presenza.
270
27.2 Forza e debolezza della società astratta
La forza della società astratta è nella sua sistematica indifferenza alle
realtà che emergono nella vita degli uomini e delle donne. Ma qui è anche il
germe della sua debolezza. Chiusa in se stessa, la società astratta non è in
grado di captare i segnali che vengono dalla realtà sociale. Accade così che
essa sia colta quasi sempre di sorpresa dai sommovimenti sociali e non
faccia in tempo a preparare adeguate contromisure.
Da qui uno stato di precarietà, legato al modo di essere della società
astratta. In teoria, il fine più generale verso cui dovrebbe tendere una
organizzazione sociale, il fine che comprende in sé tutti gli altri fini, è la piena
realizzazione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Orbene, la realizzazione esistenziale delle persone concrete non solo non è il
fine della società astratta, ma è per essa un pericolo mortale. Il rischio più
grosso che continuamente corre la società sussunta al capitale è nella
possibilità che emergano nel sociale tendenze alla affermazione di soggetti
individuali e collettivi. La società astratta deve stare sempre attenta a non
dare spazio ad espressioni della soggettività e soprattutto della soggettività
autorealizzantesi.
Ciò comporta da una parte un enorme dispendio di energie per bloccare le
espressioni di soggettività, dall'altra lo spreco di tutte quelle potenzialità che
sono presenti nella società-collettività e vengono fermate al di sotto della
soglia della espressione sociale. I risultati sono paradossali. E' come se una
persona in buona salute disperdesse di proposito le proprie energie per
indebolirsi e non essere in grado di camminare verso mete proibite.
E', questo, un punto di estrema debolezza della società sussunta al
capitale. Il non potere dare corso a tutte le possibilità di cui le persone
dispongono, per non correre il rischio di fare saltare il sistema di astrazione,
conferisce un carattere di estrema fragilità alle istituzioni della società
astratta.
Questa fragilità espone il sistema di astrazione a crisi ricorrenti, che non
sono però il presupposto di un suo deperimento o di un suo crollo. La società
astratta dà talvolta l'impressione di essere lì lì per crollare. E i movimenti di
opposizione si illudono spesso di averle assestato il colpo mortale. C'è
all'origine di queste impressioni e di queste illusioni una concezione distorta
della società sussunta al capitale, come di un muro che può essere abbattuto
a colpi di piccone. E invece la società astratta è come fatta di materia
271
elastica ed è in grado di assorbire i colpi che subisce e di riassestarsi, magari
assumendo altre forme. D'altra parte chi, disilluso dalle esperienze politiche,
tenta la via della liberazione indiviuale, sperimenta di persona che
l'astrazione sociale non è una cappa da cui ci si libera chiudendosi nella
sfera del privato, ma una materia molle e vischiosa che ti si appiccica
addosso e viene via insieme alla pelle.
E' una caratteristica della società astratta trarre forza dalla sua fragilità e,
viceversa, rivelare debolezza proprio nei suoi punti di forza. E ciò perché la
sua forza è non in una affermazione, ma in una negazione di realtà. Come
dire, paradossalmente, che la sua forza è in un dato di debolezza. E' nel suo
"stare altrove" rispetto alla vita reale delle persone, nella sua scarsa
esposizione ai riscontri della politica concreta. In questo dato di fragilità è la
radice di quella sorta di "imprendibilità" della società astratta. E, per altro
verso, pur "stando altrove", essa è presente nelle pieghe della realtà sociale,
impregnando di sé gli angoli più riposti della vita sociale. Il fatto è che la sua
presenza sta proprio nella indifferenza sociale, nella indifferenza alla
condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. Come
dire che la presenza della società-struttura sta nell'assenza della società-
collettività.
Dove la struttura sociale sfugge ai problemi delle persone concrete, là è
presente la società astratta. La sua presenza tende infatti a fare il vuoto
sociale intorno alla concretezza delle persone. Anzi, I'astrazione è, di per sé,
vuoto sociale. E, via via che essa si espande nella società complessiva,
vengono meno i riferimenti alla concretezza degli uomini e delle donne. E la
società-struttura gira a vuoto su se stessa. Più gira a vuoto, più è astratta.
Ora, girare a vuoto significa muoversi senza impedimenti. Ma significa anche
non avere presa sulla realtà.
Astratta è dunque una società-struttura che, quanto più sente franare i
valori su cui fonda la propria legittimazione, tanto più fa pesare la sua
presenza sulle persone. Una struttura sociale che, quanto più si allontana
dalla realtà delle donne e degli uomini, tanto più si arroga il diritto di decidere
il loro destino. E' come se il suo essere indifferente nei confronti della
condizione esistenziale delle persone concrete l'autorizzasse ad essere
determinante rispetto alla organizzazione della collettività.
Questa ambivalenza è il modo in cui la società astratta vive il suo
persistente stato di precarietà. La sua pretesa di ignorare la concretezza
esistenziale delle persone la espone continuamente ai rischi della
272
contestazione sociale. Il destino della società astratta è appeso ad un filo. E
quel filo è, pur sempre, nelle mani degli uomini e delle donne in carne e ossa.
273
Postilla metodologica I
SULLA ESPLORAZIONE TEORICA
DELLA REALTA' SOCIALE
Il quadro della società astratta, che abbiamo tentato di tracciare per linee
essenziali, può aprire una prospettiva di ricerca empirica. Ciò non deve
significare pretendere di poterlo assumere direttamente come disegno di
inchiesta. Teoria e ricerca non si toccano. C'è sempre, inevitabilmente, fra
l'una e l'altra, una sorta di "terra di nessuno", che bisogna volta a volta
conquistarsi, da una parte piegando il modello teorico alle ristrettezze della
ricerca empirica, dall'altra evitando di ridurre la teoria a puro e semplice atto
preparatorio dell'uscita sul campo.
La "distanza" fra teoria e ricerca non è soltanto una dura necessità, con cui
bisogna fare i conti. E' anche, a nostro avviso, una condizione da perseguire
soggettivamente. Chi si impegna a disegnare un modello teorico è bene
lavori ad una giusta distanza (né troppo vicino, né troppo lontano) dal
laboratorio della indagine empirica. Una teoria che nasce già come disegno
di inchiesta è destinata a vivere una vita grama. Non avrà nemmeno la forza
di alimentare la ricerca.
La teoria ha tempi, ritmi, cadenze che non sono i tempi, i ritmi e le cadenze
della ricerca empirica. E deve potere spaziare - in prima istanza - anche in
ipotesi non direttamente verificabili. In sociologia sarebbe suicida una
qualsiasi impresa teorica che, per principio, si ponesse come limite
invalicabile la soglia della verificabilità empirica diretta.
D'altra parte, I'apertura teorica spinta oltre la soglia del verificabile non
deve significare una sorta di pretesa di "autonomia del teorico". C'è sempre
un momento, una sede in cui la teoria sociologica è chiamata alla resa dei
conti. Sono infinite le vie per le quali una teoria del sociale può essere messa
alla prova dai processi reali. L'inchiesta sociologica - è bene rendersene
conto - è solo una delle possibilità di verifica. Anche se è - e rimane - il
nostro più efficace strumento di lavoro per aggredire in presa diretta, a livello
conoscitivo, la realtà sociale.
* * *
274
Il rapporto fra teoria e ricerca non riguarda direttamente il nostro abbozzo
della società astratta, che non è - né aspira ad essere - teoria. La nostra è
una semplice ipotesi di lettura della società sussunta al capitale. E tuttavia
anche nel nostro caso si porrà il problema della traduzione del quadro
problematico in concetti operativi. Sarà necessaria un'opera di raccordo che
trasformi l'ipotesi di lettura in ipotesi di lavoro. In tale direzione lavoriamo da
qualche tempo. L'importante è non pretendere che la prima possa rientrare
tutta nella seconda. Il più attrezzato apparato di ricerca non potrà evitare la
sedimentazione di "residui teorici", che sfuggono a qualsiasi riscontro
empirico.
Una ipotesi di lettura ha molti limiti. Ma ha anche molte possibilità di
manovra, essendo relativamente libera di muoversi in tutte le direzioni. Il suo
rigore andrà ricercato non in una sorta di filologia dell'esistente, ma nella sua
capacità di dare fondo a tutte le possibilità di prefigurazione del reale. Non si
tratta di riprodurre la realtà che esiste, ma di anticipare conoscitivamente la
realtà che ci attende.
Non riusciamo a trovare una qualche utilità sociologica in un lavoro
conoscitivo che si limiti a stare a rimorchio degli accadimenti storici.
Registrare la realtà sociale quando è già precipitata e si è cristallizzata
significa mettersi nele peggiori condizioni per capire quel che ci accade
intorno. Perché quel che ci accade intorno non è ciò che è già incarnato nel
reale. Quello è il passato. quel che ci accade intorno è ciò che deve ancora
traformarsi in realtà sociale codificata. Ecco perché l’unico modo per
orientarsi nel presente è tentare di lavorare su ciò che ancora non è, ma sta
per essere.
In queste condizioni, tra le forme di lavoro conoscitivo sulla realtà sociale
dobbiamo tenere in conto anche la possibilità di una "teoria di sfondo": una
sorta di pre-teoria, con il compito di esplorare il terreno che prima o poi verrà
investito dalla teorizzazione vera e propria.
* * *
Una esplorazione teorica della realtà sociale deve dunque farsi carico
della necessità di fare emergere il sociale prima che diventi realtà
consolidata e inamovibile. In questo senso, deve avere la capacità - pena il
suo fallimento - di andare a cogliere i nessi cruciali della dinamica sociale. E'
275
da lì che passa il reale che "sta per essere". Tenersi alla periferia del quadro
sociale, per paura di andare a toccare fili carichi di tensione, è una scelta
contraddittoria. Sarebbe come volere esplorare il polo nord tenendosi sulla
linea dell'equatore.
L'esplorazione teorica, come ogni esplorazione, comporta rischi. E ci sono
prezzi da pagare. Dovrà cadere ogni remora nei confronti della realtà che
incombe. Non serve a niente stendere un discorso ideologicamente pulito e
politicamente tranquillizzante sugli aspetti più scottanti della dinarnica
sociale.
D'altra parte, una esplorazione teorica va giudicata per quel che riesce a
dare in sede di conoscenza di realtà possibili, non per quel che sa offrire in
sede di esorcizzazione di realtà non auspicabili. Una analisi, anche una
analisi esplorativa, può essere ritenuta corretta o non corretta. Mai le si puo
addebitare il segno della realtà che esplora. Nel bene e nel male, una
esplorazione teorica della realtà sociale non è - e non puo essere - un
programma politico.
276
277
Postilla Metodologica II
PER UNA ANALISI SISTEMATICA DEI PROCESSI IMMATERIALI
II.1 Lo stato dell’analisi dei processi immateriali
L’analisi dei processi immateriali non fa parte della tradizione culturale di
ispirazione marxista. Questa sorta di latitanza dalla sfera immateriale ha il
suo precedente classico non nel modello, ma nell’opera di Marx. Nel modello
è ben delineata la prospettiva teorica, basata - come è noto - sulla relazione
fra struttura e sovrastruttura. Ma nell’opera il fuoco dell’analisi è puntato
quasi esclusivamente sulla struttura. Per capirci, manca nel settore marxiano
della nostra biblioteca un testo che ci dia, per la sovrastruttura, il corrispettivo
analitico di quella sorta di “anatomia” della struttura capitalistica che troviamo
ne Il capitale. E, poiché la teoria si alimenta dell’analisi dei processi, oltre che
della prassi, il vuoto di analisi dà luogo ad un vuoto di teoria.
Certo, nella letteratura di area marxista non manca, anche in opere di
notevole rilevanza, l’approfondimento della problematica della sovrastruttura.
Manca la traduzione della prospettiva teorica in analisi dei processi reali.
Traduzione che, per i processi materiali, segna il passaggio dal Marx giovane
al Marx maturo.
Di un tale vuoto - che costituisce un pesante handicap non solo teorico,
ma anche politico - ci ha lasciato una plastica rappresentazione Althusser.
«[...] bisogna pur dire - scrive il filosofo francese - che la teoria dell’efficacia
specifica delle sovrastrutture e delle altre «circostanze» resta in gran parte
da elaborare, e, prima della teoria della loro efficacia, [...], la teoria
dell’essenza propria degli elementi specifici della sovrastruttura. Questa
teoria resta, come la carta dell’Africa prima delle grandi esplorazioni, una
terra conosciuta nei suoi contorni, nei grandi rilievi e corsi d’acqua, ma il più
delle volte, salvo qualche regione ben disegnata, sconosciuta nei particolari» 46.
46 L. Althusser, Per Marx, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 94.
278
II.2 Una prospettiva di lavoro teorico ed empirico
Dal quadro tracciato emerge con evidenza la necessità di mettere mano ad
una analisi sistematica dei processi immateriali, con la stessa procedura con
cui Marx analizza, ne Il capitale, i processi materiali. Nessuna pretesa di
“integrare” Marx e tanto meno di misurarsi con un modello irraggiungibile.
L’intenzione, molto più modesta, è di mettere a frutto la lezione marxiana, per
esplorare un versante di analisi poco frequentato. In tale direzione va - pure
con tanti limiti - il lavoro, teorico ed empirico, che cerco di portare avanti nel
mio Corso Avanzato di Sociologia all’Università di Roma «La Sapienza». Non
si tratta di abbandonare l’analisi dei processi materiali per sostituirla con
l’analisi dei processi immateriali. Si tratta di cogliere i processi reali in tutta la
loro complessità, che è un intreccio di materialità e immaterialità.
II.3 L’intreccio fra materialità e immaterialità
L’intreccio fra materialità e immaterialità è un connotato costitutivo della
soggettività sociale, considerata in sé. Ma nella società sussunta al capitale
c’è un uso specifico della poliedricità della soggettività collettiva. Per limitarci
ad un solo aspetto, pensiamo a quel che accade quando viene prospettato
un provvedimento governativo volto a colpire la condizione materiale di
larghe masse popolari. Subito viene attivata una sofisticata operazione volta
a fare sedimentare nella coscienza collettiva - anche se, per fortuna, non
sempre ci riesce - la necessità o addirittura la positività del provvedimento.
Se proviamo a trarre da questo aspetto specifico una qualche
conseguenza teorica, ci troviamo di fronte ad una azione doppia e
concentrica sulla condizione di classe. Da una parte si agisce sulla struttura
materiale per colpire la condizione di classe, dall’altra si opera sul processo
immateriale per attutire l’impatto della misura governativa sulla soggettività
sociale. Sul piano generale, si può dire che quanto più distruttivo è un
processo materiale, tanto più efficace ed incisivo deve essere il processo
immateriale chiamato a sostenerlo. Esemplare è, a questo riguardo, il caso
del previsto intervento sulle pensioni. Per rendere accettabile una misura
così antipopolare, si mette in scena una fantomatica contrapposizione di
interessi tra padri e figli. Per questa via, si vuole fare sedimentare nella
coscienza collettiva un modello ideologico che faccia da sostegno
immateriale alla misura materiale. In base a tale modello, un padre e una
madre devono sentirsi in colpa nei confronti dei loro figli se non accolgono
279
con gioia un provvedimento governativo che taglia le loro misere pensioni.
Per cogliere la complessità dei processi reali in corso, bisogna dunque
misurarsi con questo impasto di materialità e immaterialità.
Le componenti immateriali dei processi reali hanno una evoluzione più
lenta rispetto alle componenti materiali. Ma sono esposte al “rischio” di
improvvise accelerazioni e possono, in certi casi (per esempio nel caso
dell’esplodere di movimenti di massa), precipitare. Di conseguenza, anche in
presenza di una soggettività sociale disastrata, la prospettiva di
cambiamento rimane sempre aperta. Il filo del futuro rimane pur sempre nelle
mani degli uomini e delle donne.
280
281
Appendici
SOCIETA’ E CAPITALE
282
283
Appendice A
UNA FIGURA STORICA: L'OPERAIO-MASSA FRA INDETERMINAZIONE SOCIALE
E SOGGETTIVITA’ POLITICA
A.1 La condensazione dell'essere sociale: l’operaio-massa
Per operaio-massa si intende l'operaio comune, non qualificato, addetto
alla catena di montaggio della grande azienda. Si tratta di forza-lavoro
estremamente flessibile, mobile, intercambiabile.
L'operaio-massa è la forza-lavoro ideale per un sistema meccanizzato di
produzione in serie. Non è un caso che in Italia compare solo negli anni '50,
quando, in notevole ritardo rispetto ad altri paesi, si afferma anche nel nostro
paese la produzione di massa, specialmente nel settore delle auto ed in
quello degli elettrodomestici.
Nei termini della nostra analisi, I'operaio-massa si definisce come I'esito di
un processo di condensazione dell'essere sociale, che il capitale, al fine di
allargare la base produttiva, in fase di sviluppo estensivo, innesca con
l'immissione di contadini, artigiani e giovani disoccupati meridionali alla
catena di montaggio delle grandi fabbriche del nord. Questa massificazione
dell'essere sociale nello standard della figura operaia da un lato afferma
d'autorità il lavoro indeterminato di massa, la indifferenza di massa ai
contenuti del lavoro, dall'altro fa esplodere il richiamo ai contenuti della
classe.
La data politica che discrimina queste due facce dell'operaio-massa è il
'68. Da qui la necessità di operare - in sede di analisi - una distinzione tra
operaio-massa pre-sessantotto ed operaio-rnassa post-sessantotto. Anche
se, ovviamente, in un fenomeno così complesso nessuna distinzione può
essere ridotta a schema.
A.2 L'operaio-massa pre-sessantotto: forza lavoro indeterminata
284
Volendo tratteggiare un identi-kit dell'operaio -massa nella situazione
italiana degli anni cinquanta e sessanta, prima del '68, si può dire che in
genere si tratta di un ex contadino o ex artigiano meridionale, che è emigrato
al nord, lasciando al paese di origine la famiglia, alla quale spedisce il vaglia
mensile. In fabbrica è uno che - per usare il linguaggio padronale - "lavora
sodo" e "non ha grilli per la testa". E' disponibile nei confronti di qualsiasi
richiesta, estremamente mobile, flessibile, intercambiabile. All'esterno della
fabbrica è uno sradicato, tagliato completamente fuori da qualsiasi rapporto
con una comunità nella quale non si riconosce e dalla quale si sente
respinto, mentre rimane in rapporto nostalgico con la comunità di origine, alla
quale spera di potersi reintegrare.
L'operaio-massa pre-sessantotto si definisce dunque come forza-lavoro
tecnicamente e socialmente indeterminata, indifferente nell'immediato -
proprio per la sua condizione di sradicato - sia al contenuto del suo lavoro
che alla qualità della sua vita. Si tratta di una indifferenza prodotta dalla
situazione particolare in cui egli vive la sua attività lavorativa e la sua
esperienza esistenziale. Non è certo un connotato della sua personalità e
della sua cultura, che sono anzi fortemente orientate verso modi e contenuti
determinati di lavoro e di vita.
L'ex contadino o ex artigiano meridionale mantiene come quadro di
riferimento l'assoluta determinazione sociale del suo precedente lavoro e
della sua vita anteriore. Senonché, questa sua speranza in un futuro ritorno
alla passata determinazione si traduce - quando manca una visione politica
della realtà - in accettazione della indeterminazione presente. In questo
atteggiamento non c'è però solo lo spirito di sacrificio tipico dell'immigrato.
C'è anche il rifiuto esistenziale di assumere una determinazione di lavoro e di
vita che non sia quella che egli sogna di potere ancora tornare a realizzare
nella comunità di origine. In altri termini, la stessa rigida determinazione del
quadro esistenziale, al quale egli fa riferimento, concorre a produrre la sua
disponibilità a definirsi praticamente come forza-lavoro tecnicamente e
socialmente indeterminata. E ciò per due ordini di motivi: da un lato è pronto
a sopportare qualunque disagio in fabbrica e fuori della fabbrica, perché è
convinto che ciò potrà servire ad avvicinare il giorno del ritorno al paese;
dall'altro lato si rifiuta di assumere, in una comunità nella quale non si
riconosce, una qualsiasi determinazione di lavoro e di vita. In pratica, si
rifiuta di dare un qualsiasi carattere definitivo alla sua sistemazione.
285
Da quanto si è detto dovrebbe risultare chiaro che l'operaio-massa
pre-sessantotto è funzionale al processo allargato di produzione e di
valorizzazione capitalistica, basato sulla massificazione della giornata
lavorativa complessiva, perché offre un uso tecnicamente e socialmente
indeterminato della forza-lavoro. E questo uso indeterminato è possibile
perché I'operaio-massa in fabbrica svolge un lavoro tecnicamente
indeterminato e fuori della fabbrica vive una vita qualsiasi, una vita sociale
indeterminata.
L'indeterminazione tecnica e sociale che sta alla base della figura
dell'operaio-massa pre-sessantotto discende da una sorta di duplice
azzeramento delle sue qualità professionali e sociali. In quanto contadino o
artigiano, entrando in fabbrica viene azzerato sul piano professionale. In
quanto immigrato meridionale, entrando in un agglomerato urbano del nord
viene azzerato sul piano culturale e sociale. La sensazione che egli prova di
"non sentirsi nessuno" non deriva soltanto dall'anonimato prodotto dalla
grande città, ma anche dalla perdita della sua identità professionale,
culturale e sociale.
Una variante della figura che abbiamo cercato di abbozzare nei suoi tratti
essenziali è l'operaio-massa giovane. Emigrato in cerca di prima
occupazione o coinvolto nella emigrazione del padre, cresciuto nella nuova
realtà o, comunque, disposto a sperimentarla, soffre molto
I'indeterminazione della sua condizione. Non si rassegna a fare un lavoro
qualsiasi ed a vivere una vita qualsiasi. Cova perciò entro di sé una rabbia
profonda, che è costretto a comprimere, non disponendo di canali di
comunicazione sociale per organizzarsi, né di strumenti politici per
intervenire sulla realtà.
Questa figura specifica - I'operaio-massa giovane - fa, a nostro avviso, da
tramite per il passaggio dall'operaio-massa pre-sessantotto all'operaio-massa
post-sessantotto.
A.3 L'operaio-massa post-sessantotto: da forza-lavoro indeterrninata a soggetto politico
Il movimento del sessantotto - si sente spesso ripetere - fallì il col-
legamento con la classe operaia. E' vero e non è vero. E' vero se ci si
riferisce ad un collegamento diretto, a livello di struttura organizzativa. Ad un
tale livello, per fare un esempio, la «Commissione per il collegamento con la
286
classe operaia», sorta nell'ambito del movimento di Roma, deve registrare
I'esito negativo di qualsiasi iniziativa organizzativa comune fra studenti ed
operai. «Studenti, operai, uniti nella lotta» rimane uno slogan, gridato nelle
piazze per esprimere non una realtà, ma un desiderio. Studenti, operai: due
realtà ancora troppo distanti perché possano - a questo punto del processo
politico in Italia - entrare direttamente in contatto.
Di fallimento non si può invece parlare se si intende con ciò escludere che
il messaggio del '68 sia comunque arrivato in fabbrica e che ci sia una
qualsiasi forma di relazione fra il '68 degli studenti e il '69 degli operai. In
realtà, il modello ideologico e pratico degli studenti penetra - per vie indirette,
sotterranee, attraverso una sorta di comunicazione simpatetica -
nell'universo operaio.
Fa da antenna a questa ricezione I'operaio-massa giovane, il quale, con
istinto di classe, raccoglie il messaggio, lo decodifica, lo traduce nei termini
della realtà di fabbrica e lo mette in circolazione fra i suoi compagni e le sue
compagne di lavoro. Ne risulta una radicale ridefinizione della figura
dell'operaio-massa: da forza-lavoro tecnicamente indeterminata a soggetto
politico socialmente determinato.
L'operazione padronale risulta così stravolta. La concentrazione in fabbrica
di una massa di braccia incorporate nelle macchine si trasforma in una
aggregazione di teste politiche. Sempre più spesso le braccia si allontanano
dalla catena di montaggio. Ma non si limitano a incrociarsi, secondo la
tradizione operaia. Si alzano a pugno chiuso, mentre slogan durissimi
echeggiano nei grandi saloni, frastagliandosi tra i sentieri delle macchine
ferme.
Per questa via, I'operaio senza qualità tecnica si fa conduttore di qualità
politica. L'operaio sradicato dalla comunità di origine scopre la sua comunità
nella classe. L'operaio strappato alla cultura di origine scopre la cultura
politica.
Il segno politico attribuito dal grande padronato all'operaio-massa si
rovescia e gli si rivolta contro. L'operaio-massa è stato ottenuto attraverso la
condensazione in fabbrica di un essere sociale indeterminato. Il processo di
politicizzazione, con i suoi contenuti di classe, conferisce determinazione
esistenziale e politica ai portatori di forza-lavoro, li rende consapevoli della
loro condizione di sfruttati, li attiva come protagonisti della classe ed
antagonisti del capitale.
287
E allora la condensazione dell'essere sociale si traduce in compattazione
della classe. La stessa organizzazione del lavoro viene usata dalla base
operaia come struttura materiale della organizzazione politica. Saltano tutte
le strutture della mediazione organizzata fra capitale e forza-lavoro. Al centro
dello scontro c'è adesso l'operaio-massa politicamente attivo, il protagonista
dell'autunno caldo del '69.
A.4 La risposta del capitale all'operaio-massa: la rarefazione dell'essere sociale
Il soggetto politico collettivo prodotto dall'operaio -massa è troppo forte
perché al padronato possa venire in mente di prenderlo di petto. In casi come
questo, il capitale, invece di misurarsi direttamente con la forza operaia,
preferisce agire su di essa, per cercare, quanto meno, di riportarla a livelli
controllabili.
Questo tentativo di intervento sulla figura dell'operaio-massa richiede una
ristrutturazione tecnica ed organizzativa dell'intero processo produttivo. A sua
volta, la ristrutturazione richiede una estrema mobilità e disponibilità dei
soggetti sociali che vi sono coinvolti. In pratica, si chiede all'operaio-massa
post-sessantotto ciò che ha caratterizzato l'operaio-massa pre-sessantotto:
la piena disponibilità a fare un lavoro qualsiasi in un posto qualsiasi. Si
chiede cioè al nuovo soggetto politico di tornare a funzionare come
forza-lavoro tecnicamente e socialmente indeterminata. Si chiede
all'operaio-massa ciò che non è più disposto a dare.
Ma c'è di più. La ristrutturazione si definisce subito non soltanto come
riorganizzazione delle forze di lavoro occupate, ma anche come sostituzione
di lavoro umano con lavoro tecnico. E in questo contesto la mobilità della
forza-lavoro assume il significato di pendolarità occupazionale. Ma su questa
faccia della mobilità la ristrutturazione si scontra con il bisogno operaio di
sicurezza di vita. Alla richiesta di indeterminazione di vita - nel senso forte di
incertezza di mezzi di sussistenza - I'operaio-massa risponde con
l'affermazione del suo diritto alla qualità della vita.
Attraverso la semplice riaffermazione di questo diritto primordiale,
I'operaio-massa oppone alla ristrutturazione il muro della rigidità tecnica e
sociale della forza-lavoro. In questa rigidità si esprime tutta l'autodetermi-
nazione conquistata dalla classe operaia a partire dal '69. In essa è però
anche l'ultima espressione politica dell'operaio-massa. La forza destabiliz-
288
zante che la rigidità operaia è in grado di esprimere fa di essa un fattore
strutturale di crisi del sistema economico. E la crisi diviene ben presto, nelle
mani del padronato, I'arma per assediare e costringere alla resa la rigidità
operaia.
Il capitale, utilizzando la crisi, opera una disarticolazione del soggetto
politico attraverso un processo di scomposizione tecnica. Tenta cioè di
sconnettere il soggetto politico scomponendo la struttura tecnica del
processo produttivo, nel quale il soggetto è inserito in quanto forza-lavoro.
Poiché la condensazione dell'essere sociale si è tradotta in compattazione
della classe, il capitale cerca di disarticolare la classe attraverso un processo
opposto. Prima aveva condensato l'essere sociale, adesso cerca di rarefarlo.
Dal processo di condensazione si passa a un processo di rarefazione
dell'essere sociale.
Poiché nella vita sociale si realizza l'essere sociale, in tutte le sue
concrete determinazioni, dense di contenuti particolarissimi, l'indetermi-
nazione della vita sociale comporta una diradazione dell'essere sociale. Via
via che la vita sociale diventa indifferente ai suoi contenuti, l'essere sociale
perde di densità ed allarga le maglie della sua resistenza a lasciarsi
sottomettere al processo di valorizzazione del capitale.
La rarefazione dell'essere sociale - in quanto funzione della valorizzazione
capitalistica - è già in via di sperimentazione. Viene perseguita da un lato
attraverso la disarticolazione del corpo sociale della classe, dall'altro
attraverso l'estensione del tempo di lavoro a tutto il tempo di vita. I due
processi sono strettamente interconnessi. La disarticolazione del corpo
sociale rende praticabile un progetto di sottomissione del tempo di vita al
tempo i lavoro.
Un tale progetto trova difficoltà a realizzarsi in pieno, per l'insorgere della
rigidità sociale, cioè della resistenza che i nuovi soggetti oppongono al
tentativo di sottomettere la vita sociale al processo complessivo di
valorizzazione capitalistica. A.5 La duplice valenza dell'operaio-massa
L'operaio-massa rappresenta, in Italia, la sintesi della affermazione della
società astratta e della sua crisi. La migrazione al nord industrializzato dei
contadini e degli artigiani meridionali è una sorta di rappresentazione filmica
dell'ascesa della società astratta, della sua forza di attrazione, della sua
capacità di egemonia. L'essere sociale - cioè il coesistere delle persone
289
concrete, con tutti i problemi che ciò comporta - viene calamitato ad un polo
del paese (il cosiddetto triangolo industriale) addensato in uno spazio
(geografico, ma anche sociale e politico) relativamente ristretto. L'esistenza
di migliaia di persone - così varia nelle sue specificità culturali e sociali -
viene schiacciata ed appiattita, almeno esteriormente, nello standard
dell'immigrato meridionale addetto alla catena di montaggio della grande
azienda. Questa condensazione e massificazione dell'essere sociale è una
sorta di sfida del grande padronato industriale alla composizione socio-
culturale del nostro paese. E' come se si sia voluto dimostrare che il capitale
ha la forza di mutare - quando ha interesse a farlo - i connotati geografici,
culturali e sociali di un paese. La geografia e la storia ridotte a variabili
dipendenti dagli interessi del capitale.
In questa prova di forza, in questo test italiano dell'arroganza storica del
grande capitale industriale, I'operaio-massa svolge un ruolo centrale. E'
prima oggetto di massificazione sociale e poi soggetto di compattazione
politica. E' prima una comparsa passiva della società astratta e poi un
protagonista attivo della società concreta.
Bisognerà scavare a fondo nella figura storica dell'immigrato meridionale,
per cercare le radici di una tale duplice valenza dell'operaio-massa. Noi
crediamo che nella ricostruzione di una figura così complessa non vada
trascurata una sorta di ambivalenza di fondo, che è propria - per quel che
possono valere generalizzazioni di questo tipo - del meridionale che emigra
per lavoro. Da una parte la pazienza atavica di chi è abituato alle più dure
esperienze di vita, dall'altra la rabbia e la voglia di ribellarsi, che secoli di
soprusi e di sopraffazioni gli hanno accumulate entro.
L'errore che il padronato ha commesso è stato quello di non tenere conto
del fatto che nel convogliare nel triangolo industriale la pazienza del sud
finiva per compattare la sua rabbia. Il motore dell'autunno caldo del '69 è
stata la rabbia meridionale trapiantata al nord. La società concreta del sud -
concreta pur nella sua storica miseria - portata di peso al nord, per fare da
supporto alla massificazione della giornata lavorativa, finisce per funzionare
come polo antagonista nei confronti della società astratta del grande capitale
industriale. Le determinazioni della vita sociale meridionale pendono come
spade di Damocle sulla esigenza di indeterminazione sociale che
caratterizza il processo di valorizzazione capitalistica. I bisogni storici del
sud, una volta rotto l'argine della subalternità politica, si insediano nei luoghi
di produzione e mettono in difficoltà il sistema di astrazione, cioè l'insieme di
290
regole che presiedono al lavoro in fabbrica e tendono ad evitare che esso
funzioni anche come attività vitale e non soltanto come resa produttiva.
Il rifiuto della indeterminazione tecnica e sociale del lavoro è il punto da cui
parte l'operaio-massa post-sessantotto, per andare all'attacco della società
astratta. L'uso rigido della forza-lavoro per un verso mina alla base il
processo di produzione di valore astratto, per l'altro crea le premesse per la
difesa dei valori reali della vita sociale.
Significativa è, a tale riguardo, una parola d'ordine che caratterizza
I'autunno caldo del '69: «Aumenti uguali per tutti». Si tratta di una parola
d'ordine estremamente significativa, una sorta di sintesi dell'attacco operaio
al sistema di astrazione che presiede alla struttura sociale della fabbrica.
Chiedere aumenti uguali per tutti significa rapportare il salario non più alla
gerarchia aziendale, ma al quadro esistenziale, comune a tutti i lavoratori e a
tutte le lavoratrici. Significa, in altri termini, rapportare la retribuzione non più
alla società astratta, ma all'universo delle persone concrete. Lì si fa
astrazione dalla vita reale e gli individui vengono parametrati sulla base di
astratte valenze economiche. Qui si parte dal principio che - a prescindere
dalle astratte valenze economiche di ogni individuo nel processo di
valorizzazione - tutte le persone fanno riferimento allo stesso quadro di
bisogni.
Tutti i valori espressi dall'operaio-massa post- sessantotto sono
espressione della estraneità operaia alla società astratta - estraneità
oggettiva, che può essere mistificata, ma non eliminata - e si definiscono
come poli antagonisti alla indeterminazione sociale. La risposta del capitale a
questo attacco al sistema di astrazione sociale non è - e non può essere - la
semplice riaffermazione della società astratta. La strategia del capitale deve
tenere conto della forza ormai acquisita dalla concretezza sociale.
La riaffermazione capitalistica della società astratta parte quindi dalla
disarticolazione della società concreta. L'essere sociale, che prima è stato
addensato e massificato, adesso viene rarefatto attraverso la sua
dispersione nel territorio. Nel contempo, attraverso l'uso ideologico della crisi
economica, il capitale da una parte restringe la base produttiva regolare,
dall'altra estende il suo rapporto irregolare con la forza-lavoro. Per questa
via, da un lato assedia la cittadella della rigidità operaia, dall'altro recupera,
attraverso le mille forme del lavoro non garantito, I'indeterminazione dell'uso
della forza-lavoro.
291
Il risultato di tutto ciò è l'emergere di nuove figure sociali, le quali
ridefiniscono ad un nuovo livello il rapporto antagonistico tra società concreta
e società astratta. Nei meandri della cosiddetta economia sommersa la
vecchia rigidità operaia viene letteralmente vanificata. Non solo. Si aprono
per il capitale infinite possibilità di uso incontrollato della forza-lavoro.
Ma proprio quando è acquisita l'indeterminazione tecnica della forza-lavoro
in posizione irregolare, ecco insorgere nuove forme di rigidità. E non si tratta
più di rigidità tecnica, ma di rigidità sociale. L'indeterminazione tecnica si
rovescia in determinazione sociale. E ciò perché la disponibilità tecnica della
forza-lavoro non è più - come nell'operaio-massa pre-sessantotto -
espressione della subalternità operaia al processo di valorizzazione
capitalistica, ma della estraneità soggettiva delle nuove figure sociali alla
società astratta.
292
293
Appendice B
LA CITTA' COME FABBRICA SOCIALE
B.1 La città, sede del capitale sociale
L'esigenza di estendere l'organizzazione aziendale al di là delle mura
dell'azienda, nel territorio 47, diventa urgente quando il capitalismo, sotto la
pressione delle lotte operaie, comincia a sentire precaria la propria
condizione di frammentarietà - che è il portato del libero gioco delle iniziative
imprenditoriali - e si pone il problema di darsi una struttura organica a livello
generale. La necessità di fare della città una fabbrica, una fabbrica sociale 48,
si impone dunque allorché il capitalismo comincia a pensare sempre meno
con la testa del capitalista individuale e sempre più con la testa del
capitalista collettivo. La città-fabbrica, in breve, è un bisogno del capitale
come capitale sociale, nell'accezione marxiana: «[...] Ogni singolo capitale -
dice Marx - costituisce soltanto una frazione autonomizzata [ein verselb-
ständigtes], dotata, per così dire, di vita individuale, del capitale complessivo
sociale [des gesellschaftlichen Gesamtkapitals], così come ogni singolo
capitalista costituisce soltanto un elemento individuale della classe dei
capitalisti. Il movimento del capitale sociale [des gesellschaftlichen Kapitals]
consta della totalità dei movimenti delle sue frazioni autonomizzate, delle
rotazioni dei capitali individuali» 49. Teatro esterno, sede materiale del movi-
mento del capitale sociale, è il territorio, che così viene ad essere, rispetto
47 E' bene precisare subito l'uso che intendo fare - in linea di massima - dei termini «città» e «territorio».
«Città» sta ad indicare il punto di vista dell'insediamento umano, mentre «territorio» fa riferimento al punto di vista dell'insediamento produttivo. Nonostante questa distinzione, i due termini potranno talvolta apparire usati in maniera intercambiabile. Non a caso. E' chiaro infatti, sin da ora, che l'insediamento umano interessa al capitale esclusivamente dal punto di vista della produzione, cioè la città gli interessa in quanto territorio.
48 «Sociale» è, oramai, attributo estremamente corrotto. A meno che non si voglia approdare, per suo tramite, al fertile terreno dell'indefinito e piantarci le tende dell'analisi - com'è nello stile di certa sociologia di consumo - occorre volta a volta delimitarne il senso. Nel mio discorso il significato di «sociale» - quando non venga data altra indicazione - è tratto da «capitale sociale», nell'accezione precisata poco più avanti. «Fabbrica sociale» deve dunque intendersi - né più né meno - come sede in cui il capitale sociale realizza la produzione del plusvalore sociale.
49 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, II, p. 368 (corsivi miei). Ho tenuto presente l'edizione tedesca Das Kapital, Berlin Dietz Verlag, [1947-49] (il passo citato è alle pp. 352-3 del Libro II). Per una analisi della nozione marxiana di capitale sociale si veda M. Tronti, Il piano del capitale, apparso in «Quaderni Rossi», n. 3, 1963 pp. 43-73 e poi incluso nel volume M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 60-85.
294
all'azienda, ciò che il capitale complessivo è rispetto al capitale singolo e il
capitalista collettivo rispetto al capitalista individuale.
Analogamente, quel che rappresenta per il capitale singolo il livello
aziendale in fatto di razionalizzazione della produzione, per il capitale sociale
complessivo è rappresentato dal livello metropolitano. E ciò perché il livello di
"metropolizzazione" di un'area solo in parte dipende dalla densità di popola-
zione insediata, mentre è legato strettamente alla qualità della
organizzazione del lavoro. Il livello metropolitano segna il «passaggio
graduale della città intesa come concentrazione di fabbriche, alla
città-fabbrica, come organica distribuzione delle attività lavorative entro la
logica dei grandi cicli di produzione, distribuiti a livello nazionale e
internazionale» 50.
Il livello metropolitano si qualifica dunque soprattutto come visione unitaria
- dal punto di vista del capitale sociale complessivo - dei bisogni della
produzione sul piano dell'assetto territoriale 51. Bisogni legati non soltanto
all'insediamento dei meccanismi direttamente produttivi, ma anche alla
creazione di una rete di infrastrutture, tale da rendere agevole da una parte
la circolazione delle merci (viabilità e trasporti) 52 e dall'altra la distribuzione e
riproduzione della forza-lavoro (residenza e consumi).
50 AA.VV., La città fabbrica, Milano, Clup (Cooperativa libraria universitaria del Politecnico), 1970, pp.
52-53. Si tratta di una ricerca su Milano, condotta a cura dell'Istituto di Urbanistica della Facoltà di Archi-tettura del capoluogo lombardo.
51 Un tentativo di analisi materialistica della città - intesa però come entità architettonica - è in M. Folin, Ipotesi materialistiche sull'architettura oggi, il più interessante di una serie di articoli apparsi in un inserto de «Il Contemporaneo» dedicato a «La città nella lotta di classe» (in «Rinascita», n. 51, 25 dicembre 1970, pp. 13-28. L'articolo citato è a p. 14 sgg.). Folin, utilizzando strumenti dell'analisi marxiana, giunge a configurare la città per un verso come merce e per l'altro come capitale fisso: «[...] La prima cosa che dobbiamo porre in rilievo è quale sia il modo specifico attraverso cui la città si realizza, cioè viene costruita ed usata. Esso è quello per cui essa è merce, al pari di tutti i beni materiali prodotti e consumati all'interno del modo di produzione capitalistico [...] (p. 15, corsivo nel testo). E più oltre: «In quanto la città è mezzo di produzione essa è capitale fisso: macchina, all'interno del processo di produzione. [...] Tenendo presente che macchina è «oggettivazione della forza-lavoro», è «aumento di produttività» (è sfruttamento più accentuato) la macchina-parte di città è presente ovunque esistano rapporti capitalistici che si tratti di organizzare spazialmente in modo che producano di più [...]» (Ibidem. Corsivi nel testo).
52 Sono costretto a toccare di sfuggita punti che meriterebbero una trattazione approfondita. Non è il caso di sottolineare qui l'importanza che riveste per il capitale la circolazione delle merci. «Quanto più la pro-duzione si basa sul valore di scambio, e quindi sullo scambio, - dice Marx nei Grundrisse - tanto più importanti diventano per essa le condizioni fisiche dello scambio - i mezzi di trasporto e di comunicazione [...]. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio [...] diventa dunque per esso una necessità [...]». (K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie; trad. it.: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, a cura di Enzo Grillo, Firenze, La Nuova Italia, 1968-70. Il passo citato è a p. 161 del vol. II). E in Il capitale: «La funzione di M' [capitale-merce] è ora quella di ogni prodotto-merce: trasformarsi in denaro, essere venduto, compiere la fase della circolazione M-D [merce-denaro]. Fino a che il capitale ora valorizzato perdura nella forma di capitale-merce, giace fermo sul mercato, il processo di produzione si arre-sta. Il capitale non opera come creatore di prodotto né come creatore di valore. Secondo il diverso grado di
295
Le esigenze di carattere specificamente urbanistico non rientrano nella vita
biologica del capitale: «[...] La tecnica urbanistica segue il destino che il
capitale le prepara, quando la utilizza e quando no, quando ne fa un pilastro
dell'interesse generale e quando opera tranquillalnente le proprie scelte
scavalcando i piani e scandalizzando gli urbanisti» 53. Il cosìddetto "disordine
urbanistico" è dunque il portato di scelte capitalistiche, che nel caso specifico
si avvalgono di quel noto meccanismo di accumulazione che è la rendita
urbana 54. Niente di nuovo sotto il sole. Il caos della città come ordine
territoriale del capitale.
B.2 L'utopia capitalistica
A questo punto bisogna chiedersi a che livello opera il capitale nell'area
urbana, per tentare di prevederne la linea di tendenza. Le ipotesi possono
essere tante e andrebbero tutte verificate. Ma c'è, in primo luogo, da vagliare
una alternativa di fondo. A parte le componenti peculiari - che possono, per
comodità, essere ricondotte in quello che si usa definire come ruolo storico di
una città data - c'è da domandarsi se l'attuale economic behaviour del
capitale nell'area urbana possa già essere collocato a livello di town-planning
o si debba invece declassarlo ad un tipo di agire brigantesco, notevolmente
vistoso, di un blocco li forze che riesce ad imporre il proprio "particulare".
Occorre cioè sapere se ci si trova già di fronte ad un comportamento di
classe codificato oppure si è ancora in fase di scorribande avventuristiche
informali, non proprio esterne, ma certo oggettivamente "spurie" rispetto alla
linea di classe.
Non è, questo, un interrogativo che è possibile sciogliere qui, in astratto. Ci
sono, del resto, indicazioni in un senso e nell'altro. Probabilmente non si
tratta di un aut aut. Il capitale vive il suo travaglio di assestamento al di là
delle mura della fabbrica. La rendita urbana non è certo un episodio, ma è
ben lontana dal porsi, a mio avviso, come il modo di produrre plusvalore a
livello territoriale. Anzi. Va fatta una distinzione netta tra plusvalore sociale,
velocità con cui il capitale respinge la sua forma di merce e assume la sua forma di denaro, ossia secondo la rapidità della vendita, lo stesso valore-capitale, in grado assai differente, servirà come creatore di prodotto e di valore, e la scala della riproduzione si estenderà o si restringerà» (Il capitale, ed. cit., II, pp. 44-45).
53 C. Gruppi, A. Pedrolli, Produzione e programmazione territoriale, in «Quaderni Rossi», n. 3, 1963, pp. 94-101. Il passo citato è a p. 95.
54 Sulla nozione di rendita urbana vedi M. Allione, Metamorfosi della rendita, in «Il Manifesto», n. 3-4, marzo-aprile 1970, pp. 41-45. L'articolo fa parte di una «ricerca collettiva» su «Il movimento per la casa».
296
che è il profitto del capitale sociale, e le diverse forme di rapina adottate dal
capitalismo 55. La rendita urbana è una esperienza. Il capitalismo italiano ha
già alle sue spalle diverse experiences, radicate in situazioni storiche spesso
nettamente differenziate. Ma tutto ciò lascia pensare che non sia ancora
riuscito a possedere teoricamente il suo stesso passato. L'avvenire, anche
immediato, della città capitalistica si gioca su questo terreno: sulle capacità
del capitale - e, più ancora, sulle possibilità che il movimento operaio gli
lascia aperte - di assorbire le spinte settarie e disarticolate che insorgono al
suo interno, per convogliarle - nell'interesse "generale" di classe - verso una
organica programmazione dell'assetto del territorio, coinvolgendo nell'opera
di ristrutturazione sia gli organi istituzionali dello Stato sia le forze storiche
della classe operaia. In altri termini, la prospettiva a lungo termine di
insediamento organico del capitale sociale complessivo a livello territoriale è
legata alla tempestività con cui il pensiero borghese riesce ad appropriarsi,
teoricamente e praticamente, della situazione urbana ed a tradurre le
necessità di classe in problemi di interesse "generale".
In fondo a questa strada c'è la città-fabbrica come concetto-limite: una città
completamente integrata e perfettamente funzionale rispetto al processo
complessivo di produzione e riproduzione del capitale; una città in cui finisce
con il perdere senso la nozione stessa di «giornata lavorativa», in quanto
concetto arcaico legato alla necessità ideologica di tenere formalmente se-
parato il momento lavorativo dal cosiddetto "tempo libero", il produttore dal
cittadino, per dare all'operaio la compensazione liberatoria di sentirsi, allo
scoccare di una certa ora, fuori dell'orbita del capitale e svuotarlo così di ogni
volontà di lotta a livello urbano. Caduta - nella città-fabbrica come utopia
capitalistica - la necessità di coprire di velo ideologico il carattere di totalità
del sistema, diventa possibile per il capitale, una volta acquisito il pieno
controllo della città, riunificare, dentro il processo complessivo di produzione,
momento lavorativo e tempo libero, produttore e cittadino, residenza e
fabbrica.
Ora, se immaginare una possibile trama dei sogni del capitalista sulla città
può servire a qualcosa, deve aiutarci in primo luogo a non cadere nell'errore
di scambiare eventuali fattori, che possono condizionare dall'esterno -
deviandone e, al limite, invertendone la tendenza - il comportamento del
capitale nei confronti dell'assetto urbano, per elementi necessitanti dello svi-
55 Si veda, a questo proposito, Operai e capitale, cit., pp. 63-64.
297
luppo capitalistico. L'errore si fa ancora più grave quando poi, in
conseguenza di questo primo equivoco, si è convinti di marciare in direzione
opposta a quello sviluppo inseguendo obiettivi che possono apparire antitetici
all'agire capitalistico, in quanto agire condizionato, ma si traducono in
sostanza proprio in quelle scelte che il capitale, per sua costituzione interna,
avrebbe dovuto fare e non ha fatte, perché non si è sentito ancora in grado di
controllarne per intero la portata.
B.3 Il comportamento capitalistico nella città come risposta alle lotte operaie
Primo fra tutti i condizionamenti dell'agire capitalistico - nella città come
nella società - è, si sa, la presenza del movimento operaio. Non avrebbe,
ovviamente, alcun senso ricordarlo, se non si dovesse qui dare ragione di un
modo di procedere del discorso, che tende a isolare - entro i confini della
deterninazione storica - alcune variabili, nel tentativo di coglierne appieno le
possibilità di sviluppo, a prescindere da ogni condizionamento esterno 56.
Così è accaduto, non a caso, che il comportamento capitalistico nell'area
urbana sia stato considerato, fin qui, facendo astrazione da quella che è una
sua necessità storica: l'esigenza di configurarsi come risposta complessiva ai
movimenti di lotta della classe operaia. Ed è a partire da questa esigenza
che bisogna adesso ripercorrere il cammino, per inseguire non più le
necessità di sviluppo del capitale nell'area urbana, ma i suoi bisogni politici.
56 Qualcuno potrebbe richiamare a questo punto, per una sorta di associazione di idee, i procedimenti
euristici di Max Weber, in particolare la «possibilità oggettiva» [objektive Möglichkeit] che, come è noto, si riferisce all'atto di astrarre da uno o più elementi del processo storico nell'intento di pervenire all' imputazione causale. Per parte mia, credo di potermi rifare ad un tipico procedere di Marx, il quale usa spesso sem-plificare per astrazione il processo reale, al fine di penetrare meglio nel suo funzionamento interno. Egli dimostra di sapere assai bene - ll capitale può offrire, in tal senso, testimonianze a piene mani - che la complessità propria del reale storico oscura spesso i nessi cruciali del processo; nessi che possono essere colti soltanto se si riesce ad isolarli, facendo astrazione da tutti gli altri elementi concomitanti. Mi sia consentita una sola citazione, fra le tante possibili: «Per comprendere esattamente queste forme [«di cui si riveste il capitale nei suoi diversi stadi»], occorre innanzitutto fare astrazione [abstrahieren] da tutti quei momenti che nulla hanno a che fare con il mutamento di forma e la costituzione della forma come tali. Per questo si presuppone [wird angenommen] qui non solo che le merci vengano vendute al loro valore, ma anche che
ciò awenga in condizioni immutate. Si prescinderà [Es wird abgesehen], dunque, anche dalle variazioni di valore che
possono intervenire nel corso del processo ciclico» (Il capitale, ed. cit., II, p. 30. Das Kapital, ed. cit., II, pp 23-24.
Corsivi miei). Weber parla della «possibilità oggettiva» nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, parte II «Objektive Möglichkeit und adäquate Verursachung in der historischen
Kausalbetrachtung» [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, parte II «Possibilità oggettiva e
causazione adeguata nella considerazione causale della storia»]. In trad. it. il saggio citato è in M. Weber, Il metodo
delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi, Torino, Einaudi, 1958, pp. 143-237, parte II, pp. 207-237).
298
Di conseguenza, l'ipotesi della città come fabbrica sociale deve spostare il
suo centro di gravitazione. L' "utopia capitalistica" ha adesso davanti a sé la
realtà della presenza operaia nella città ed è costretta a piegarsi alle
necessità della lotta di classe. Necessità complesse, che impongono al
capitale un comportamento politico polivalente, in rapporto problematico con
quelle che sono le "dure leggi" della massimizzazione del profitto. La
presenza operaia costringe il capitalista a guardare al processo produttivo
non soltanto come a un fatto soggetto a provvedimenti tecnici, ma anche - e
soprattutto - come ad un rapporto che richiede soluzioni politiche sempre più
organiche ed istituzionalizzate. Viene così a profilarsi l'esigenza di una nuova
figura dello Stato, che si liberi del velo ideologico della tradizionale "funzione
di mediazione" tra capitale e lavoro e si faccia esso stesso protagonista dello
sviluppo capitalistico, trasmettendogli tutta la carica dell' "interesse
generale", di cui è portatore riconosciuto, e richiamando alle loro
"responsabilità" le forze storiche del movimento operaio. Prende così corpo
la tesi riformista dell'assetto urbano, che ha il merito di rendere credibile, nel
lungo periodo, la visione capitalistica della città-fabbrica. Il grande riformismo
ha sempre avuto in sommo grado la virtù di fare apparire come realizzabili i
sogni segreti del capitalismo. E' un vero peccato che sopravvenga prima o
poi, a dare la sveglia, un ciclo di lotte operaie. E si tratta, quasi sempre, di un
brusco risveglio. Perché, quando la lotta si impenna, diventa più acuta la
contraddizione tra esigenze tecniche e necessità politiche dentro il piano di
assetto territoriale: «Da una parte la necessità di concentrare spazialmente
enormi masse di forza-lavoro [...], dall'altra quella di scorporare e frantumare
il processo lavorativo, anche con lo strumento della separazione fisica delle
fasi di lavorazione e della forza-lavoro allorché, oltre un certo livello, la
concentrazione spaziale della produzione diventa più vantaggiosa per la
classe operaia e per i suoi movimenti di lotta che per il capitale» 57.
L'occhio tecnico del capitalista è quindi costretto a guardare alla
"concentrazione" del territorio nella fabbrica, I'occhio politico alla
"dispersione" della fabbrica nel territorio. Ne viene fuori un comportamento
"strabico", che fa perdere colpi al capitalismo sia sul piano politico che su
quello economico. E, mentre per un verso concede largo spazio di manovra
alle velleità repressive, per l'altro moltiplica i punti di attacco alla portata della
lotta operaia. La situazione è quindi, a livello territoriale, aperta a tutte le
57 La città fabbrica, cit., p. 70 (corsivo nel testo).
299
possibilità. Si vive alla giornata. Lo Stato-imprenditore, per "sorreggere
l'economia del paese", scarica sulle spalle delle classi sfruttate i costi dei
servizi. In canone d'affitto, spese per trasporti e via dicendo, il capitale si
riprende a livello urbano quello che è stato costretto a cedere in fabbrica 58.
Come dire che la città prende a funzionare quale terreno di risposta alle lotte
operaie in fabbrica. D'altro lato, se il costo dei servizi essenziali superasse un
certo livello, finirebbe con il ripercuotersi, a lungo andare, sul costo della
forza-lavoro. Per tentare di uscire in qualche modo da questo vicolo cieco, il
capitalismo ricorre a mille espedienti, tenendo il più possibile basso il "tenore
di vita" del proletariato 59 e cercando nel contempo di rastrellare profitti in
tutte le direzioni. In altri terrnini, man mano che si restringe il margine che
consente di forzare ulteriormente la "macchina economica", tende ad
accentuarsi il comportamento predatorio del capitale sociale complessivo.
B.4 Il "consumo" sociale di forza-lavoro
Un esempio: i servizi. Le classi sfruttate vengono chiamate a bruciare, al di
fuori delle mura della fabbrica, energia psico-fisica per consentire al capitale
sociale complessivo di realizzare servizi a basso costo. Prendiamo i trasporti.
Quanto più bassa è l'efficienza di una linea di autobus e, quindi, quanto più
basso è il suo costo 60, tanto più alto è il dispendio di energia psico-fisica dei
viaggiatori. Ora, se i viaggiatori sono proletari, per i quali l'energia psico-fisica
è forza-lavoro potenziale 61, il "consumo" eccedente rispetto a quello
socialmente necessario - che proporrei di chiamare «"consumo" sociale di
58 «Non appena l'operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti,
ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e così via» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1960, p. 67).
59 «Qualunque cosa possa spettare al capitalista» (dal punto di vista del capitalista) «egli può sempre appropriarsi soltanto il pluslavoro (surplus labour) del lavoratore, perché il lavoratore deve vivere» [...]. Ma come il lavoratore viva e quanto grande sia perciò il pluslavoro che il capitalista si appropria, è molto relativo. «[..] il capitalista può [...] dire al lavoratore: tu non devi mangiare pane perché si può vivere di barbabietole e patate; [...] ». (Dalla prefazione di Engels al Libro II di ll capitale, ed. cit., pp. 18-19, corsivi nel testo. Engels cita da uno scritto dal titolo The source and remedy of the national difficulties. A letter to Lord John Russel, Londra, 1821).
60 Viene qui data per scontata la relazione costo-efficienza, a parità di altre condizioni. 61 Cioè, come viene chiarito poco più avanti, energia psico-fisica non immessa nel processo di
produzione. Il termine è qui preso, per analogia, da Marx, il quale chiama «potenziale» [potentielles] (oltre che «latente» [latent] e «virtuale [virtuelles]) il capitale monetario che, per un arresto del processo di circolazione, non si converte in merce. (Cfr. Il capitale, ed cit., II, p. 79, nota di F. E., Das Kapital, ed. cit., II, p. 74).
300
forza-lavoro» - si traduce in una forma particolare di pluslavoro, che va ad
aggiungersi al pluslavoro di fabbrica. Per «"consumo" sociale di forzalavoro»
intendo dunque dispendio di energia psico-fisica dell'operaio, cioè di
forza-lavoro potenziale, operato dal capitale sociale complessivo al di fuori
del processo di produzione, al fine di realizzare bassi costi delle infrastrutture
territoriali. Si tratta quindi di forza-lavoro che viene sottratta all'operaio, ma
non viene consumata dal capitale o, meglio, viene "consumata" in quanto
energia psico-fisica che si brucia prima di diventare forza-lavoro. La forma
fenomenica di tale "consumo" - che si attaglia perfettamente al punto di vista
del capitale - è la sua configurazione come pluslavoro improduttivo, mentre
l'operaio (mettiamo il pendolare che, andata e ritorno, si estenua in quattro
ore di viaggio) lo sente come pluslavoro improduttivo.
Questo dispendio di energia non deve necessariamente determinarsi
durante il collegamento casa-posto di lavoro-casa perché lo si possa vedere
come un prolungamento artificioso della giornata lavorativa. Indubbiamente, il
tempo trascorso sul mezzo di collegamento è per l'operaio tempo di lavoro,
per il quale andrebbe compensato (altro che pagare il biglietto!). In tal senso,
la città si rivela per quel che è: una longa manus della fabbrica. Il tempo
trascorso sul mezzo di trasporto va quindi configurato come tempo di lavoro
in fabbrica. Finché l'operaio non mette piede a casa è come se non avesse
ancora superato i cancelli dell'azienda. Tutto ciò è vero. Ma rischia di imporre
un limite arbitrario alla nozione di fabbrica, come entità spazio-temporale en-
tro cui viene consumata la forza-lavoro 62.
Certo, una nozione stretta di consumo di forza-lavoro torna utile, anzi è
indispensabile, all'analisi diretta del processo di produzione aziendale 63. In
tal caso, una nozione lata allargherebbe troppo le maglie dell'anaIisi, con iI
rischio di vanificarIa. Ma, a livello territoriale, nell'ambito più vasto
dell'accumulazione capitalistica complessiva, ogni limite pregiudiziale a tale
nozione rischia di lasciare fuori della portata della ricerca la tendenza del
capitale a generalizzare lo sfruttamento. Del resto, nella coscienza
62 Sul concetto scientifico di fabbrica in Marx si veda Operai e capitale, cit., p. 50.
63 Tale è - e non può non essere - la nozione marxiana di uso della forza-lavoro: «L'uso della forza-lavoro [Der Gebrauch der Arbeitskraft], il lavoro, può essere realizzato - dice Marx- solo nel proresso lavorativo. Il capitalista non può rivendere il lavoratore come merce, perché questi non è il suo schiavo, ed egli inoltre non ha comperato se non la utilizzazione della sua forza-lavoro [die Vernutzung seiner Arbeitskraft] per un tempo determinato [auf bestimmte Zeit]. D'altra parte, egli può utilizzare la forza-lavoro soltanto facendo utilizzare da essa i mezzi di produzione come creatori di merce» (Il capitale, ed. cit., II, p. 39. Das Kapital, ed. cit., II, p. 33).
301
dell'operaio il limite aziendale al consumo della forza-lavoro non esiste.
Preso com'è dal problema della sopravvivenza fisica, l'operaio sta attento a
conservare la sua forza-lavoro nelle migliori condizioni possibili, per potere
meglio e più a lungo barattarla con i mezzi di sussistenza. Egli sa, meglio di
chiunque altro, che anche al di là delle mura della fabbrica deve risparmiare
più che può energia psico-fisica, per poterla vendere in fabbrica. Dentro
l'orizzonte della coscienza operaia c'è dunque, in nuce, la nozione di
"consumo" sociale di forza-lavoro, pur se si tratta di una nozione ancora - per
così dire - passiva, di difesa. L'operaio sa di essere sfruttato anche fuori della
fabbrica ma, mancando ancora di una organizzazione a livello territoriale, si
difende come può sul piano individuale.
B.5 La società come fabbrica
Dovrebbe, a questo punto, risultare chiaro: tutto questo discorso non vuole
essere che l'abbozzo di una ipotesi di lavoro, appena un tentativo di fissare
alcuni punti per mettersi a lavorare con qualcosa in testa. Si tratta, in ogni
caso, di un primo schema teorico, che bisognerà "riempire" (si fa per dire) di
contenuto sociale. Ed entriamo così in una diversa dimensione del «sociale»,
che si estende dall'insieme dei rapporti interpersonali alla coscienza di
classe. Su questo terreno il primo passo è senz'altro una questione di
metodo 64. Non si può continuare ad andare avanti sull'onda delle intuizioni,
avulse dalle particolari situazioni di classe. Le intuizioni servono nella misura
in cui si mettono, dialetticamente, alla direzione ed al servizio della ricerca.
Una ricerca intesa come costruzione teorica, che si articola nella ricognizione
capillare della condizione di classe. Una ricerca, quindi, che deve intanto
scrollarsi di dosso una certa pigrizia mentale, tendente ad accampare
pretesti di ogni sorta per sottrarsi alla fatica del riscontro oggettivo, sul
"campo". E ciò è ancora più vero riguardo alla città, dove il capitale tende ad
64 Non è questa la sede per addentrarsi in una discussione specifica su un argomento così complesso.
Ciò non vuol dire però che questioni del genere vadano ignorate, come purtroppo si tende a fare da sinistra, con il pretesto che si tratta di mistificazioni del pensiero borghese. Sarà anche vero. Ma mette conto ricordare che Engels, sollecitato - si badi - anche dallo stesso Marx (oltre che da Liebknecht) scrisse ben trentaquattro articoli (poi raccolti, come è noto, in volume) sul Vorwärts di Lipsia, organo centrale della socialdemocrazia tedesca, per smontare le mistificazioni di Dühring. E Lenin non disdegnò di prendere a confutare (non importa qui, nell'uno e nell'altro caso, con quali risultati) la teoria della conoscenza di Mach e Avenarius, come teoria, appunto, mistificatrice. Il che, oltre tutto, sta a testimoniare che le mistificazioni vanno affrontate e smascherate, non ignorate. (Cfr. F. Engels, Antidühring, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1968, 2^ ed.; V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970 ).
302
imbrogliare sempre più la matassa, per impedire a chiunque di venirne a
capo.
Andare alla ricerca - sul "campo" - del filo su cui corre il punto di vista
operaio, partendo da precise ipotesi di lavoro, per evitare di brancolare nel
buio, ma senza chiudervisi dentro, per sottrarsi al rischio di una prigionia
teorica preventiva: è questo, a mio avviso, il compito che attende chiunque
voglia lavorare in concreto sul territorio. Il caso dei trasporti è solo un
esempio. Per il resto, basta un po' di sociological imagination, per dirla con
Wright Mills 65. Pensiarno ai quartieri popolari delle grandi città. Pensiamo ai
paesi sperduti nei deserti del nostro Sud. Quali dovrebbero essere - se non
altro a livello dei servizi essenziali - e quali sono. Riportiamo la differenza sul
piano dei costi: da un lato costi economici, dall'altro costi umani. In termini di
analisi di classe, i minori costi economici realizzati nei quartieri popolari
urbani e nei paesi meridionali, per limitarci agli esempi riportati, si traducono
per un verso in maggiori costi umani delle classi sfruttate e per l'altro in un
incremento del capitale sociale complessivo, in mano alla classe al potere.
In una tale prospettiva non basta più nemmeno la configurazione aziendale
dell'area urbana. Il capitalismo avanzato tende a fare funzionare la società
come fabbrica 66. Ed è proprio dentro una nozione totale di fabbrica che noi
qui possiamo tentare di cominciare a capire il senso e la portata di due entità
come l'azienda e la città. E capirle dal punto di vista del capitale, per
costruire - uguale e opposto - il punto di vista operaio. A tale livello, entità
come la fabbrica e la città rientrano nell'ambito di sottocategorie: settori
sempre più specializzati che lo Stato, condizionato dalla presenza operaia,
tende nel breve periodo a fare funzionare in sensi contrapposti, al fine di
spezzare la spirale di generalizzazione della lotta.
L'organicità a livelto globale di un tale disegno sta proprio nella sua
disorganicità a livello settoriale. E ciò nella convinzione che la razionalizza-
zione sia più difficile da cogliere - e quindi da colpire - a monte che a valle.
La città frantumata nei suoi elementi costitutivi: casa, scuola, trasporti e così
via. La città come frammento di società vuoto di sociale. Ecco, a livello
65 C. Wright Mills, The Sociological Imagination, Oxford University Press, N. Y., 1959; trad. it:
L'immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962. 66 Una analisi delle connessioni tra fabbrica e società è stata fatta da Tronti: «Al livello più alto dello
sviluppo capitalistico, il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un'articolazione della produzione, cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio su tutta la società» (Operai e capitale, cit., p. 51, corsivi nel testo). E tutto ciò non in senso iperbolico, ma semplicemente letterale.
303
statuale, la misura capitalistica contro il pericolo che si creino nell'area
urbana canali di comunicazione della lotta operaia.
Città come fabbrica sociale. Città come tregua sociale. Il capitalismo
avanzato è stretto tra due contrapposte necessità del suo stesso sviluppo.
Funzionalizzare la città alla produzione è una esigenza fisiologica della
organizzazione capitalistica industriale. Ma è una esigenza che si porta in
corpo il pericolo di estendere all'area urbana il processo di sociatizzazione
operaia connesso oggettivamente a quella organizzazione.
A questo punto, il bel sogno della città-fabbrica rischia di tramutarsi in
incubo. Sulla strada della sua utopia, il capitalismo va incontro al pericolo di
imbattersi in una città-fabbrica di segno operaio. Una città in cui, partendo da
situazioni disarticolate e frammentarie, diventa possibile la costruzione
proletaria di un processo urbano globale, tale da ricomporre dentro di sé,
soggettivamente, le membra sparse dell'accumulazione capitalistica. Una
città dove gli stessi sfruttati ricostruiscono, praticamente, il processo di
accumulazione frammentato nel territorio, per porsi di fronte ad esso come
classe. Una città insomma che - al pari della fabbrica - rende finalmente
visibile la macchina capitalistica come corpo unitario e, per ciò stesso, crea
le premesse oggettive alla costruzione di un movimento organizzato e di
massa. Un movimento a livello di fabbrica sociale, in grado di "produrre" lotta
proletaria tra le pareti di casa, lungo le strade, nelle piazze, sugli autobus:
ovunque la classe al potere riesce a piazzare meccanismi di sfruttamento per
incrementare il capitale sociale e sottrarlo alla società.
(«La Critica Sociologica», n. 17, Primavera 1971, pp. 8 - 20)
304
305
Appendice C
SISTEMA DI MACCHINE E MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE
NELLA TEORIA DI MARX
Il modo capitalistico di produzione, per quanto appronti una propria
struttura tecnica specifica, non può prescindere da quelli che sono i caratteri
di fondo e gli elementi basilari del processo lavorativo, considerato in
generale. Il capitale, anche quando con la sussunzione reale trasforma
radicalmente il processo lavorativo, non può non avvalersi della struttura
portante di ogni attività, presa in sé. In altri termini, il sistema di produzione
non inventa ex nihilo, all’atto della sua sussunzione al capitale, una qualche
funzione lavorativa, ma è costretto ad avvalersi della capacità lavorativa che
esiste nell’essere umano a prescindere della esistenza del capitale. Il che,
d’altra parte, significa che lo stesso modo capitalistico di produzione non si
esaurisce nel capitale, né storicamente né strutturalmente. Il capitale ha
bisogno di attingere ad una fonte – la forza-lavoro – che è altro da sé.
A questo altro da sé il capitale ha bisogno di opporre – all’interno del
processo lavorativo – qualcosa che figuri come parte di sé, come
incarnazione di sé. La funzione di rappresentare materialmente il capitale in
seno al processo lavorativo viene assegnata alle macchine. In un sistema
produttivo che, pur essendo capitalistico, potrebbe apparire – per il ruolo che
vi svolge il lavoro vivo – “alienato” dal capitale, le macchine assolvono la
funzione di spostare dalla parte del capitale il baricentro tecnico della
produzione. Non è un caso che le macchine non solo compaiono come
capitale, ma costituiscono la forma più appropriata del capitale, il suo modo
di esistere più pieno. Esse non si limitano ad incarnare il capitale, ma
operano come capitale. Non sono soltanto capitale in potenza. Sono anche
capitale in atto. Sono capitale che produce capitale.
Viene così a configurarsi la collocazione delle macchine nel processo
lavorativo sussulto al capitale. Le macchine da un lato fanno parte della
condizione oggettiva del lavoro, dall’altro incidono in maniera rilevante sul
processo lavorativo, determinando una inversione di ruolo tra fattori oggettivi
e fattori soggettivi della produzione. L’introduzione delle macchine modifica la
condizione oggettiva del lavoro. Ma si tratta di una modificazione che ha
306
qualcosa di particolare. Lo specifico di questa modificazione non è nel fatto
che c’è un progresso tecnico nella situazione di lavoro, ma che questo
progresso si definisce come processo di oggettivazione sociale, in quanto
assegna alla condizione oggettiva un ruolo nel processo lavorativo che prima
era della forza-lavoro.
E in questo tratto di analisi che va ricercata l’angolazione sociologica del
“modello” teorico marxiano relativo a quello che qui emblematicamente
chiamiamo «sistema di macchine», estendendo al sistema meccanizzato in
sé una espressione che Marx riferisce ad una particolare fase tecnica.
Una tale angolazione non può, d’altra parte, lasciare fuori campo il quadro
teorico complessivo. L’analisi marxiana della realtà delle macchine non si
esaurisce nelle macchine. Il sistema di macchine sconfina programma-
ticamente nel sistema di fabbrica. E il “modello” sulle macchine altro non è
che una specificazione della teoria marxiana del sistema di produzione
sussulto al capitale.
Chiarito – ad apertura del discorso sulle macchine 67 - che nel modo
capitalistico di produzione il macchinario non serve ad alleviare la fatica
dell’operaio, ma a produrre plusvalore, l’analisi marxiana cambia subito
direzione e punta diritto alla struttura tecnica della macchina. Sembrerebbe
una virata da tecnologo. E invece, a partire da qui, Marx prende a smontare
e a rimontare il «sistema di macchine» con un approccio che, a ben
guardare, ci fornisce la chiave di lettura del suo “modello” teorico.
C’è nell’analisi marxiana della struttura della macchina, un passaggio per
noi rivelatore. Ed è là dove Marx individua nella macchine utensile la sede
della rivoluzione del modo di produzione. Che cosa ha di particolare la
macchina utensile rispetto all’apparato motore ed a quello di trasmissione?
Sembra, a prima vista, un dettaglio tecnico. E invece nella risposta che Marx
dà a questo interrogativo è, secondo noi, la chiave di lettura dell’intero
“modello”. La macchina utensile, osserva Marx, agisce direttamente sulla
materia prima e quindi sostituisce l’operaio nella elaborazione del prodotto.
La meccanizzazione si risolve dunque, nel “modello” di Marx, nel
trasferimento a strutture meccaniche di funzioni lavorative sottratte
all’operaio. In tal senso, il progresso tecnico si definisce come processo di
oggettivazione delle funzioni lavorative. La struttura del processo lavorativo
ne risulta sconvolta. Il dato più significativo di un tale sconvolgimento è
67 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 413 e sgg. .
307
l’inversione di ruolo tra operaio e condizione di lavoro. Non è più l’operaio
che usa la condizione di lavoro, ma la condizione di lavoro che usa l’operaio.
E’ qui il passaggio centrale dell’analisi marxiana. Ed è a partire da qui che
il processo di oggettivazione prende a definirsi come la via aperta davanti al
capitale per il dominio non solo sulle funzioni lavorative, ma su tutto il
sistema di produzione.
308
309
Sezione Terza Studi
Teoria di riferimento
LAVORO ASTRATTO E LAVORO OGGETTIVATO
NELLA TEORIA DI MARX
310
311
Studi S1
DAL LAVORO ASTRATTO ALLA INDETERMINAZIONE SOCIALE
S1.1 La centralità della nozione di lavoro astratto
La maturità della sussunzione reale del lavoro al capitale si definisce, di
per sé, non come razionalizzazione tecnica dei contenuti del lavoro, ma come
liberazione del sistema di valorizzazione da qualsiasi determinazione
specifica dell'attività lavorativa. In tal senso, il lavoro è adeguato al capitale
non in quanto porta contenuti rispondenti alle esigenze della produzione
capitalistica, ma in quanto riesce a dimenticare il peccato originale del suo
attaccamento a contenuti particolari.
A questo livello vengono dunque a saldarsi due fenomeni che nell'analisi,
se non nella teoria, di Marx vivono in relativa separatezza: da una parte
l'astrattizzazione del lavoro, dall'altra la sua sussunzione al capitale.
L'astrazione non è più un aspetto della morfologia dell'attività lavorativa, ma
un requisito strutturale del lavoro sussunto al capitale.
Da qui la centralità della nozione di lavoro astratto per l'analisi del modo
avanzato di produzione capitalistica. Ma da qui anche i suoi limiti in quanto
attributo specifico. Entreremo a parte nel merito della definizione e del
significato di tale nozione. Qui ci interessa evidenziarne la grande fertilità,
quando si sia disposti a svilupparla in tutte le direzioni, per farne una chiave
di interpretazione delle dinamiche sociali che si scatenano là dove il modo
capitalistico di produzione, per realizzarsi nella sua pienezza, è costretto a
dare fondo ai suoi presupposti, aprendo il varco alla esplosione di
contraddizioni latenti.
S1.2 L’astrazione come indifferenza ai contenuti
Occorre subito raccogliere, in tutta la sua pregnanza, il frutto dell'analisi
marxiana del lavoro astratto. Ne ricaviamo un concetto che è alla base della
nostra indagine. Ed è il concetto di astrazione come indifferenza ai contenuti.
312
Occorre individuare la discendenza di questo concetto. E non la
discendenza, per così dire, ideale, cioè la sua derivazione da altri concetti,
ma la discendenza reale, cioè la sua specificazione nella realtà del
capitalismo. Dobbiamo cercare cioè di vedere quale realtà del capitalismo
esso esprime. Intanto, ci interessa estrapolare dal contesto dell'analisi
marxiana del lavoro astratto il concetto di indifferenza ai contenuti, come
concetto per sé, e rifarne, per nostro conto, la storia dentro la realtà sociale
del capitale.
La questione può essere posta preliminarmente in termini di domanda: c'è
nella società sussunta al capitale una realtà che corrisponde al concetto di
indifferenza ai contenuti? E, se c'è, quali processi sono alla sua base?
S1.3 Il processo capitalistico di espropriazione
Il modo capitalistico di produzione si definisce, per quel che qui interessa,
come processo di espropriazione. Tutti i contenuti, materiali e immateriali,
che la società capitalistica produce, nascono, già in partenza, come
contenuti espropriati. E tutta la soggettività che la società sussunta al
capitale riesce ad esprimere è una soggettività espropriata dei propri
contenuti. Da un lato contenuti estraneati rispetto ai soggetti che li hanno
prodotti, dall'altro soggetti estraneati rispetto ai loro propri contenuti.
E' da una taIe duplice estraneazione che discende da una parte
I'indifferenza soggettiva ai contenuti della realtà sociale, dall'altra l'in-
differenza oggettiva che è nella stessa realtà sociale.
S1.4 Il processo di indeterminazione sociale
Si tratta di esiti non casuali del processo sociale imposto dal capitale.
Processo che si pone, più o meno esplicitamente, in termini di indetermi-
nazione sociale, cioè in termini di emancipazione della società da ogni
vincolo relativo a determinazioni particolari dell'essere sociale.
Il processo di indeterminazione sociale ha la funzione di produrre uno stato
di indifferenza sociale, che ha a sua volta la funzione di riprodurre astrazione
là dove l'essere sociale preme per affermare i suoi contenuti. Nello stato di
indifferenza sociale il capitale ricerca le condizioni per radicare nella società
complessiva il processo di valorizzazione.
313
E si capisce perché. La valorizzazione del capitale è un processo astratto
e può operare soltanto in condizioni di astrazione sociale. In tanto è in opera
in quanto impone la sua astrazione all'essere sociale. Non è un caso che se
e quando il processo di indeterminazione sociale non risulta del tutto efficace
e si incrina lo stato sociale di indifferenza, il sistema di valorizzazione è
minacciato. Dalla crosta incrinata dell'indifferenza sociale si levano
minacciosi i contenuti dell'essere sociale. E' allora che realtà determinate
dell'essere sociale vanno a scontrarsi con l'astratta indeterminazione del
sistema di valorizzazione.
La nozione di indeterminazione sociale può dunque risultare utile per
spiegare la dinamica del processo materiale di produzione in rapporto alla
valorizzazione del capitale. Noi crediamo che lo stesso processo di
socializzazione della produzione, di cui parla Marx, sia da ascrivere non
direttamente al progresso tecnico, ma al processo di ulteriore indetermi-
nazione sociale che le innovazioni tecnologiche promuovono. E' infatti sullo
svincolo degli operatori da particolari contenuti del loro intervento nel
processo produttivo che si basa il carattere sociale della produzione.
S1.5 Il processo sociale di valorizzazione capitalistica
Questa particolare socialità della produzione appartiene comunque ancora
alla sfera della produzione diretta. E nell'ambito di questo universo la nozione
di indeterminazione sociale, mentre da un lato richiede specificazioni
adeguate alla nuova realtà, dall'altro può essere feconda di indicazioni per la
elaborazione di una nuova prospettiva di analisi.
Ad una prospettiva di questo tipo sono però di ostacolo residue timidezze
legate alla nozione di valorizzazione chiusa entro le sedi classiche della
produzione capitalistica. Anche se molti schematismi sono caduti con
I'incalzare delle trasformazioni tecnologiche, si continua a distinguere tra
sfera produttiva, come sede della produzione di plusvalore, e sfera
extraproduttiva, come sede della riproduzione della forza-lavoro e delle
condizioni della produzione; tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra
tempo di lavoro e tempo libero.
Ora, la nuova realtà del processo sociale di valorizzazione capitalistica non
sopporta più steccati. Tutta la vita sociale è coinvolta nel processo di
valorizzazione. Tutti i luoghi della società sono abilitati a fare da teatro alla
314
produzione di plusvalore. E tutto il tempo di vita è terreno di conquista per il
capitale.
A spiegare la dinamica di questo universo sconfinato, la nozione marxiana
di lavoro astratto non basta più. Finché regge la distinzione fra tempo di
lavoro e tempo di non-lavoro, I'indifferenza ai contenuti del Iavoro può stare
insieme - se pure in termini conflittuali - alla non-indifferenza alle
determinazioni materiali della vita extralavorativa. Ma quando tutto il tempo di
vita diventa tempo di lavoro (doppio lavoro, lavoro nero, lavoro precario, ecc.)
o tempo di non-lavoro (disoccupazione), la contraddizione fra
indeterminazione del lavoro e determinazione della vita sociale esplode.
S1.6 Ridefinizione della sussunzione reale del lavoro al capitale
Se tutto ciò è vero, allora va ridefinita la nozione marxiana di sussunzione
reale del lavoro al capitale. Dopo avere definito la sussunzione formale come
«diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal
punto di vista tecnologico, al capitale», Marx, passando alla sussunzione
reale, scrive: «[...] su questa base si erge un modo di produzione
tecnologicamente (e non solo tecnologica-mente) specifico, che modifica la
natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il modo di
produzione capitalistico. Solo quando esso appare in scena, ha luogo la
sussunzione reale del lavoro al capitale» 68.
Mentre nella sussunzione formale il capitale si limita a subordinare il
processo, senza intervenire sulla sua struttura tecnica, la sussunzione reale
si definisce per il sorgere di uno specifico modo tecnico di produrre. Tra la
sussunzione formale e la sussunzione reale c'e di mezzo il progresso
tecnico. Non a caso Marx conclude la sezione sulla produzione del
plusvalore relativo con il capitolo «Macchine e grande industria» 69.
Ora, noi crediamo che la nozione marxiana sia, quanto meno, riduttiva, dal
momento che fa derivare la sussunzione reale del lavoro dai connotati tecnici
del processo di produzione. Ciò poteva anche essere vero ai tempi di Marx,
quando i parametri della valorizzazione capitalistica erano nei caratteri tecnici
della produzione. Oggi la sussunzione reale del lavoro al capitale si
68 K. Marx, Il capitale: Libro I, capitolo Vl inedito, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 68, corsivi nel
testo).
69 K. Marx, Il capitale, trad. it., Rorna, Editori Riuniti, 1970, I, pp. 413 e segg..
315
definisce, in sé, non come specifico tecnico, come particolare organizzazione
dei contenuti del lavoro, ma come liberazione del processo da qualsiasi
vincolo tecnico. In tal senso, il lavoro è realmente sussunto al capitale non
quando passa per specifiche tecniche di produzione, ma quando, liberato da
ogni vincolo tecnico, si connette al capitale come pura potenzialità, come
mera disponibilità nei confronti di qualsiasi tecnica e di qualsiasi contenuto.
Alla base della sussunzione reale è dunque, a nostro avviso, non la
nozione di progresso tecnico, ma la nozione di lavoro indeterminato.
Sussunto realmente al capitale è, a prescindere dalla base tecnica, il lavoro
sociale, in quanto indeterminato e quindi estremamente disponibile ad
assumere, volta a volta, la determinazione più funzionale alla valorizzazione
del capitale. Ma poiché, come abbiamo visto, il lavoro sociale, non
disponendo di un tempo determinato di lavoro, fa riferimento al tempo di vita,
la sussunzione reale del lavoro richiede una regolazione della vita sociale. La
sussunzione reale del lavoro è dunque, sempre più, regolazione sociale
dell'attività lavorativa. E questa, a sua volta, si traduce continuarnente in
sussunzione della vita sociale al capitale.
In questo quadro, si può affermare che il processo di indeterminazione
sociale fa da supporto al sistema di valorizzazione capitalistica, in quanto
predispone le condizioni in cui si realizza la produzione di plusvalore. La
condizione fondamentale che il processo di indeterminazione sociale
appronta in funzione della valorizzazione del capitale è la subordinazione del
valore d'uso al valore di scambio. Non può darsi valorizzazione capitalistica
là dove si afferma l'egemonia del valore d'uso. Il valore d'uso è infatti
espressione di un rapporto di fruizione che, se non è regolato dal valore di
scambio, fa saltare il sistema di valorizzazione del capitale.
S1.7 Indetertminazione e rarefazione dell’essere sociale
Ora, è difficile subordinare e regolare il valore d'uso quando l'essere
sociale si addensa e preme per affermare i suoi contenuti. Il valore d'uso è
infatti espressione della concretezza sociale, così come il valore di scambio è
espressione dell'astrazione capitalistica. Da qui un'altra condizione cui è
chiamato a provvedere il processo di indeterrninazione: la rarefazione
dell'essere sociale. Si tratta di un meccanismo sociale estremamente sottile
e raffinato, che va visto da vicino, per poterne cogliere il funzionamento
interno.
316
Il processo di espropriazione, tutto interno al modo capitalistico di
produzione, crea nella società stati diffusi di insoddisfazione che, come è
noto, si esprimono nei modi più disparati. Tali modi di espressione della
insoddisfazione sociale possono essere sopportati finché si mantengono
nell'ambito individuale. L'espressione di insoddisfazione diventa invece un
rischio per il sistema sociale quando alla sua base c'è una condensazione
dell'essere sociale. Finché l'insoddisfazione sociale è espressione di milioni
di individui insoddisfatti ognuno per proprio conto, la struttura sociale
complessiva può essere messa in difficoltà, ma non corre nessun pericolo
reale. Se invece l'insoddisfazione diffusa comincia a condensare I'essere
sociale, comincia cioè a compattare la condizione sociale di milioni di donne
e di uomini, allora si profila la possibilità di un salto politico che trasformi
l'espressione di insoddisfazione individuale in pratica antagonista di un
corpo sociale.
A questo punto, la funzione del processo di indeterminazione sociale
dovrebbe risultare chiara: sciogliere all'origine ogni coagulo di vita sociale
antagonista, per evitare che si trasformi in pratica di antagonismo politico.
317
Studi S2
L'OGGETTIVAZIONE DEL LAVORO
S2.1 Oggettivazione del lavoro e valorizzazione capitalistica
Un atto fondamentale della valorizzazione capitalistica è l'oggettivazione
del lavoro. «[...] il lavoro - osserva Marx - viene non solo consumato, ma
nello stesso tempo fissato, materializzato dalla forma di attività a quella di
stasi, di oggetto; mutandosi in oggetto, esso muta la sua forma caratteristica
e da attività diventa essere» 70.
Dal momento che il valore si definisce come lavoro incorporato, se il lavoro
rimanesse nella forma di attività, se non assumesse la forma di oggetto, non
potrebbe darsi valorizzazione del capitale. Certo, la trasformazione di lavoro
vivo in lavoro oggettivato non è, di per sé, valorizzazione. Bisogna che una
tale trasformazione si qualifichi all'interno del modo capitalistico di
produzione. In tal senso, la valorizzazione capitalistica si definisce come
oggettivazione finalizzata allo scambio.
Ora, è proprio la finalizzazione allo scambio che qualifica l'oggettivazione
come fase della valorizzazione capitalistica. Non basta cioè che il lavoro
cambi stato. Di per sé, lavoro oggettivato e lavoro vivo sono, come osserva
Marx, «due diverse determinazioni, due valori d'uso di forma diversa, I'una
oggettiva, I'altra soggettiva» 71. Perché il passaggio dall'una all'altra
determinazione sia un atto fondante della valorizzazione del capitale,
bisogna che il lavoro vivo sia valore d'uso del capitale, «valore d'uso non per
un uso o consumo determinato e particolare, ma valore d'uso per il valore» 72.
Da un lato dunque la valorizzazione qualifica I'oggettivazione, è la sua
specificazione capitalistica, dall'altro l'oggettivazione rende possibile la
valorizzazione, è la sua base materiale. Senza oggettivazione non si dà
valorizzazione, ma senza valorizzazione non si dà oggettivazione capita-
70 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse der Kritik der
politischen Okonomie), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1968-70, I, p. 285. D'ora in poi, in forma abbreviata, Lineamenti....
71 Ibidem, II, p. 92. 72 Ibidem, (sottolineatura nel testo).
318
listica. Dal punto di vista del capitale, I'oggettivazione del lavoro è la
valorizzazione in potenza, la valorizzazione è l'oggettivazione del lavoro in
atto.
S2.2 Oggettivazione e sussunzione del lavoro al capitale
Come valorizzazione in potenza, I'oggettivazione apre la strada al dominio
del capitale sul lavoro. Se il lavoro non si oggettivasse, esso rimarrebbe una
prerogativa della persona e non potrebbe essere sussunto al capitale.
L'oggettivazione è, da questo punto di vista, un presupposto fondamentale
della sussunzione del lavoro al capitale.
Poiché la sussunzione riguarda il lavoro vivo, sembra strano che si possa
parlare di una qualsiasi relazione tra oggettivazione e sussunzione del lavoro
al capitale. In realtà, il lavoro vivo viene sussunto al capitale non in quanto
lavoro soggettivo, in quanto espressione creativa della persona, ma in
quanto lavoro vivo da oggettivare, lavoro oggettivato in potenza. E la
sussunzione ha proprio la funzione di sottrarre il lavoro al controllo del
soggetto che lo esprime, ha cioè la funzione di desoggettivare il lavoro. Non
si può pensare ad un lavoro sussunto al capitale che non sia disponibile alla
sua oggettivazione. Da tale punto di vista, la sussunzione del lavoro al
capitale si definisce come trasformazione del lavoro da attività soggettiva ad
energia da fissare in un oggetto.
E' per questa via che il capitale si appropria del lavoro. Non a caso Marx
parla di «lavoro oggettivato come dominio, come comando sul Iavoro vivo» 73. Il capitale si appropria del lavoro, trasformandosi esso stesso in oggetto,
trasfigurandosi nella merce. Nel corpo mistico della merce il capitale si
presenta come lavoro oggettivato.
S2.3 Oggettivazione del lavoro e antagonismo di classe
La figura del capitale come lavoro oggettivato tende a rappresentare un
continuum tra capitale e lavoro, elidendo il potenziale di antagonismo che il
processo di oggettivazione comporta. Il lavoro, oggettivandosi, si trasforma in
capitale. Produce cioè, come dice Marx, il suo contrario 74. L'oggettivazione
73 lbidem, II, p. 73 74 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it., Torino, Einaudi, 1968, p. 71.
319
del lavoro è dunque per un verso annientamento della soggettività umana,
per l'altro base materiale dell'antagonismo di classe.
I termini dell'antagonismo sono già tutti presenti nel lavoro. Il lavoro come
attività e il lavoro come essere - per servirci di una distinzione marxiana 75 -
non sono stadi di uno stesso processo, ma poli di una contrapposizione
irriducibile. Il lavoro vivo preme per affermarsi come non-capitale, come
soggettività umana. Il capitale, di contro, vede nel lavoro vivo soltanto lavoro
da oggettivare. «L'unica cosa differente dal lavoro oggettivato - scrive Marx -
è il lavoro non oggettivato ma ancora da oggettivare, il lavoro come
soggettività» 76. Marx intende sottolineare la presenza della soggettività nel
lavoro. Ma, dal nostro angolo visuale, la soggettività è qui già condannata al
suo annullamento nel lavoro oggettivato. E' una soggettività già perduta in
partenza, dal momento che è sì lavoro non oggettivato, ma nel senso che è
«ancora da oggettivare».
S2.4 La forza-lavoro come soggettività oggettivata
In tutto ciò si esprime niente altro che il punto di vista del capitale. La
soggettività umana è da ricercare al di fuori di una tale prospettiva. Non può
più darsi soggettività umana autonoma una volta che il soggetto è definito in
termini di forza-lavoro. La forza-lavoro è l'oggettivazione capitalistica della
soggettività umana. Dal punto di vista dello scambio, la forza-lavoro è lavoro
oggettivato. Il suo valore equivale, come per qualsiasi merce, al lavoro
necessario per la sua riproduzione. «La forza-lavoro - fa notare Marx - non è
= al lavoro vivo che essa può fare, = cioè alla quantità di lavoro che essa può
eseguire - giacché questo è il suo valore d'uso. Essa è uguale alla quantità di
lavoro mediante la quale deve essere prodotta e può essere riprodotta» 77.
La forza-lavoro vale dunque sul mercato non in quanto agente del lavoro
vivo, ma in quanto depositaria di lavoro oggettivato.
Fin qui la degradazione a merce della stessa soggettività umana,
attraverso la sua fissazione nella forza-lavoro. Ora, poiché la forza-lavoro si
rivela come merce particolare, come merce che crea plusvalore, il capitale ha
interesse a limitarne I'oggettivazione alla sfera dello scambio. Una volta
75 Cfr. il riferimento indicato alla nota 1. 76 K. Marx, Lineamenti..., cit. I, p. 251 (sottolineature nel testo). 77 Ibidem, Il, p. 229 (sottolineature nel testo).
320
scambiata, la forza-lavoro viene usata dal capitale non più come depositaria
di lavoro oggettivato, ma come agente di lavoro vivo 78.
E' in questo scarto fra acquisto di lavoro oggettivato ed uso di lavoro vivo
che sta, come sappiamo, la sorgente del plusvalore. «In questo scambio [...]
- osserva Marx - l'operaio dà, in cambio dell'equivalente del tempo di lavoro
in lui oggettivato, il suo tempo di lavoro vivo che crea e moltiplica il valore». E
conclude, con estrema efficacia: «Egli [I'operaio] si vende come effetto.
Come causa, come attività, egli viene assorbito dal capitale e incarnato in
esso» 79.
S2.5 Il lavoro vivo come lavoro non oggettivato
Ma c 'è di più. Lo stesso lavoro non oggettivato si definisce, in rapporto al
capitale, come non-capitale. Marx distingue due connotazioni, una positiva
ed una negativa, del lavoro non oggettivato in quanto non-capitale. Nella sua
connotazione negativa, il lavoro non oggettivato è lavoro separato dalla
oggettività degli strumenti di lavoro e della materia prima. In tal senso, è «il
lavoro come miseria assoluta». Nella sua connotazione positiva, il lavoro non
oggettivato è «il lavoro non come oggetto, ma come attività; non come valore
esso stesso, ma come sorgente viva del valore». Lì è miseria assoluta, qui è
possibilità generale di ricchezza 80.
L'intreccio antitetico di queste due valenze del lavoro non oggettivato
assume, dal nostro punto di vista, un significato particolare. Significa che nel
modo capitalistico di produzione la soggettività presente nel lavoro vivo può
porsi soltanto come possibilità di ricchezza, come ricchezza in potenza. Per
diventare ricchezza in atto, per non trasformarsi in miseria assoluta, deve
coniugarsi con l'oggettività dei mezzi di produzione, deve cioè oggettivarsi
nel capitale.
L'oggettivazione del lavoro è dunque il ricatto storico che il capitale
esercita sulla soggettività umana. Ed è su questo ricatto che si fonda il modo
capitalistico di produzione. «Da una parte l'oggettività in cui il capitale esiste
deve essere elaborata, ossia consumata dal lavoro, dall'altra la mera
78 «[...] essa [la forza-lavoro] viene comperata come lavoro oggettivato, mentre il suo valore d'uso
consiste in lavoro vivo, ossia nel creare valori di scambio» (K. Marx, Lineamenti.. ., II, p. 364). 79 Ibidem. 80 Ibidem, I, pp. 279-280 (sottolineature nel testo).
321
soggettività del lavoro in quanto pura forma deve essere negata e oggettivata
nella materia del capitale» 81.
S2.6 Oggettivazione ed estraneazione
Dalla oggettivazione all'estraneazione il passo è breve. Anzi.
L'oggettivazione capitalistica del lavoro, in quanto sottrazione del lavoro alla
soggettività umana, è già estraneazione. «Il prodotto del lavoro - osserva
Marx - è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è
I'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio
dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, I'oggettivazione
appare come perdita e asservimento dell'oggetto, I'appropriazione come
estraniazione, come alienazione» 82.
L'oggettivazione del lavoro per un verso dunque è la premessa della
estraneazione del prodotto, per l'altro è il presupposto della utilizzazione
economica del prodotto estraneato. Se il lavoro non si fissasse in un
prodotto, esso rimarrebbe una prerogativa del soggetto e non diventerebbe
lavoro estraneato, ma nello stesso tempo non si realizzerebbe. «[...]
un'attività priva di oggetto non è nulla o è al massimo attività ideale, della
quale qui non si tratta» 83.
Nel quadro del modo capitalistico di produzione, dunque, I'oggettivazione è
insieme la realizzazione del lavoro e la sua estraneazione.
S2.7 Oggettivazione del lavoro e misurazione del valore
L'oggettivazione del lavoro, oltre ad essere presupposto fondamentale
della produzione di valore, è anche base materiale della sua misurazione.
Nell'ambito dell'analisi marxiana della merce, I'oggettivazione del lavoro
viene guardata dall'angolo visuale della legge del lavoro-valore. Il lavoro, per
essere metro di misura, deve fissarsi in un oggetto, deve oggettivarsi nella
merce. Non può essere lavoro-valore il lavoro vivo, il lavoro assunto nella sua
dimensione dinamica, il lavoro come attività. Lavoro-valore può essere solo il
81 Ibidem, p. 283. 82 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 71 (corsivi nel testo). 83 K. Marx, Lineamenti..., cit., I, p. 245.
322
lavoro come stasi, come oggetto, il lavoro oggettivato 84. Non si tratta,
semplicemente, di finzione economica. Economica è soltanto la sua faccia
rivolta al valore. Anche qui, dietro la faccia economica c'è la pesante realtà
dell'oggettivazione, come espropriazione del soggetto da parte del capitale.
Ma il processo di oggettivazione non è, di per sé, sufficiente a fornire la
base materiale della misurazione del valore. A questo scopo, bisogna che
l'oggettivazione funzioni come filtro nei confronti di ogni determinazione
concreta del lavoro vivo. Il lavoro vivo, nell'oggettivarsi, deve perdere ogni
suo connotato particolare, deve cioè spogliarsi di ogni specificazione tecnica.
In quanto metro di misura del valore, cioè di una entità astratta, il lavoro non
può presentarsi nei suoi panni di lavoro tecnicamente dotato. Deve cessare
di essere questo o quel lavoro. Deve essere lavoro e basta. Lavoro-valore è
dunque il lavoro in quanto lavoro, il lavoro astratto. _~
Dopo l'oggettivazione e l'estraneazione, una ulteriore definizione del lavoro
nel modo capitalistico di praduzione è la sua astrattizzazione.
84 Per le implicazioni di questa precisazione in sede di definizione del Iavoro astratto, si veda «Materiali
di studio Q3, Il lavoro astratto in quanto lavoro oggettivato».
323
Studi S3
IL LAVORO ASTRATTO IN QUANTO LAVORO OGGETTIVATO
S3.1 Lavoro astratto e lavoro oggettivato in Marx
La nozione marxiana di lavoro astratto emerge e si definisce nell'ambito
dell'analisi della merce. Non si tratta di un semplice quadro di riferimento. Si
può dire che è l'analisi della merce che "produce" la nozione di lavoro
astratto.
Il lavoro astratto è dunque, rispetto alla merce, una nozione derivata, una
sorta di scoria del processo che produce valore. Questo carattere residuale
del lavoro astratto attraversa tutta l'analisi marxiana della merce. Tale analisi
è finalizzata, più o meno direttamente, alla formulazione della legge del
lavoro-valore, cui la nozione di lavoro astratto è chiamata a fare da supporto.
Marx prende l'avvio dalla definizione dello scambio delle merci. Nel
rapporto di scambio, egli osserva, si fa astrazione dal valore d'uso delle
merci. Da questa constatazione fa discendere una conseguenza che segna
un passaggio fondamentale ai fini della nostra analisi: «[...] se si prescinde
dal valore d'uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella
di essere prodotti del lavoro» 85.
Ora, considerare la merce soltanto in quanto prodotto del lavoro significa
per Marx aprire una prospettiva di analisi che porta alla formulazione della
legge del lavoro-valore. Infatti, il valore della merce non potrà essere basato
che sull'unica qualità che le è rimasta, una volta che si prescinda dal suo
valore d'uso. Ma una volta che si sia ridotto un bene a semplice prodotto del
lavoro - elidendo tutte le caratterizzazioni concrete che lo fanno diverso da
tutti gli altri beni - una volta cioè che si sia ridotto il bene concreto ad entità
astratta, non ci si può aspettare che questa entità astratta sia il prodotto di un
lavoro concreto, diversificato, tecnicamente e socialmente determinato.
Così, da una parte un bene diventa una entità astratta in quanto ridotto a
semplice prodotto del lavoro, dall'altra il lavoro, in quanto produttore di una
entità astratta, non può essere lavoro concreto. Il lavoro insomma subisce
85 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 70.
324
una sorta di feed-back dell'azione di astrattizzazione che esso stesso
esercita sul bene che produce.
A questo punto, si possono individuare nell'analisi di Marx due percorsi
opposti e paralleli. Un percorso porta dal bene alla merce, dal valore d'uso al
valore di scambio. E', come si vede, un percorso che va dal concreto
all'astratto e viene aperto dalla riduzione del bene a semplice prodotto del
lavoro. Un secondo percorso porta dal valore astratto al lavoro che lo
produce.
Vediamoli questi due percorsi nel discorso di Marx. Il primo si ritrova in
tutta l'analisi della merce: «[...] il prodotto del lavoro ci si trasforma non
appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore
d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che
lo rendono valore d'uso" 86.
Il prodotto concreto del lavoro ci si è così trasformato in entità astratta, in
valore. Tutte le qualità concrete della merce scompaiono. Ne rimane solo
una, che è una qualità per modo di dire, una qualità tra virgolette, uno stato
d'essere piuttosto: l'essere un prodotto del lavoro.
C'è una necessità alla base di questo percorso. E' la necessità di ridurre la
qualità del bene in quantità della merce, la qualità fruibile in quantità da
scambiare: «Come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente,
come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè
non contengono nemmeno un atomo di valore d'uso" 87.
L'astrattizzazione del bene è dunque una necessità dello scambio, un
imperativo della circolazione. E', questo, un aspetto che va tenuto nel
massimo conto. Perché da qui parte, si può dire, lo specifico sociale del
capitalismo. Produrre per scambiare, al posto di produrre per consumare.
Ma per scambiare bisogna potere stabilire equivalenze fra prodotti diversi.
E le equivalenze si possono stabilire non sulla base dei caratteri per i quali
un prodotto si differenzia dall'altro, ma sulla base di caratteri comuni, cioè
non sulla base della loro concretezza, ma anzi proprio facendo astrazione dal
loro essere beni concreti.
Ora, il carattere comune a tutti i beni è quello di essere prodotti, cioè di
essere esiti di processi lavorativi, di essere stati creati dal lavoro. Il lavoro
viene così individuato, in prima istanza, come denominatore comune a tutti i
86 Ibidem. 87 Ibidem, I, pp. 69-70.
325
beni. Il lavoro che qui interessa non è quello che semplicemente produce, ma
quello che si incorpora nel prodotto.
E' da qui che discende quella categoria del lavoro, estremamente
preziosa per lo scambio, che è il lavoro oggettivato. E' un tratto importante di
questo percorso, che porta alla formulazione della legge del lavoro-valore.
Un tratto che si definisce come passaggio dal lavoro-forza al
lavoro-contenuto. Muta radicalmente, come si vede, lo stato d'essere del
lavoro: da lavoro che fa l'oggetto a lavoro che è nell'oggetto. Lavoro, direbbe
Marx, «non in forma di processo, ma di risultato» 88.
S3.2 Dal lavoro astratto alla legge del lavoro-valore
Questo primo cambiamento di pelle del lavoro - da forza attiva a stato
d'essere passivo - è indispensabile alla legge del lavoro-valore. Ma non è
sufficiente. Non basta che il lavoro sia contenuto nella merce perché possa
essere riconosciuto come base di misurazione del valore. Né basta che sia
comune a tutte le merci perché sia assunto come termine di riferimento per lo
scambio. Il lavoro contenuto nella merce può essere riferito al valore d'uso o
al valore di scambio. Nel primo caso conta la qualità del lavoro, che si
concretizza in prodotti diversi l'uno dall'altro. Nel secondo caso conta invece
la quantità. «Là si tratta del come e del cosa del lavoro, qui del quanto di
esso, della sua durata temporale» 89. Poiché devono essere stabilite delle
equivalenze, dei confronti quantitativi, bisogna che il lavoro contenuto nella
merce sia misurabile 90.
Da qui un altro passo importante in direzione della legge del lavoro-
valore: la quantificazione del lavoro oggettivato attraverso la sua riduzione a
tempo di lavoro. «Allo stesso modo che il tempo è l'esistenza quantitativa del
movimento, il tempo di lavoro è l'esistenza quantitativa del lavoro» 91.
Il lavoro oggettivato vive così, attraverso il tempo di lavoro, una sua
esistenza quantitativa. Ma non è una esistenza fine a se stessa. Ricordia-
88 K. Marx, Linearnenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse der Kritik der
politischen Okonomie), trad. it., Firenze, La Nuova ltalia, 1968-1970,I, p. 79. 89 K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 77 (corsivi nel testo). 90 «[...] un valore d'uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato,
lavoro astrattamente umano. E come misurare ora Ia grandezza del suo valore? Mediante la quantità della 'sostanza valorificante', cioè del lavoro, in esso contenuta» (K. Marx, II capitale, cit., I, pp. 70-71, corsivi nel testo).
91 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 12 (corsivo nel testo).
326
moci che il fine ultimo di questa analisi è l'individuazione del criterio di
misurazione del valore. E la riduzione del lavoro a tempo di lavoro si rivela
come la via maestra per raggiungere tale scopo: «Il tempo di lavoro [...] ne è
[del lavoro] l'esistenza vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la
misura immanente di questa esistenza» 92. Per questa via, il lavoro
oggettivato funziona come lavoro-misura.
Tutto dunque sembra pronto per la formulazione della legge del lavoro-
valore. Senonché, la riduzione del lavoro a tempo di lavoro si porta dietro una
conseguenza che è cruciale ai fini del nostro discorso: «Il tempo di lavoro è
l'esistenza vivente del lavoro, indipendentemente dalla sua forma, dal suo
contenuto, dalla sua individualità; [...]" 93.
La riduzione a tempo di lavoro ha dunque sul lavoro una sorta di effetto
secondario, che fa di esso un lavoro indifferenziato, astratto. Nell'analisi di
Marx il lavoro astratto è quindi, come si è detto in apertura, una nozione
derivata, un effetto secondario della formulazione della legge del lavoro-
valore. Non è un caso che Marx vede in esso niente altro che uno dei
caratteri della legge: «Per comprendere la determinazione del valore di
scambio in base al tempo di lavoro occorrerà tener fermi i seguenti punti di
partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per così dire
privo di qualità; [...]» 94. E più oltre precisa meglio questo punto: «Per
misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse
contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro
semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è
sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente» 95.
Qui si vede chiaramente che la categoria di lavoro astratto è, nell'analisi di
Marx, subordinata alla misurazione del valore di scambio. E' per un verso
una condizione perché tale misurazione sia realizzata e per l'altro una sua
conseguenza. La misurazione del valore da una parte presuppone e dall'altra
produce la riduzione del bene a merce e la riduzione del lavoro concreto a
lavoro astratto. Le due riduzioni sono parallele e seguono processi analoghi.
Come la merce è il bene spogliato delle sue concrete determinazioni, così il
lavoro astratto è il lavoro privato delle sue concrete specificazioni qualitative.
92 Ibidem. 93 Ibidem (corsivo nostro). 94 Ibidem. 95 Ibidem.
327
Si può dire che, mentre il lavoro concreto è la forma di lavoro vivo
adeguata alla produzione di beni, il lavoro astratto è la forma di lavoro
oggettivato adeguata allo scambio delle merci. Nel primo caso si tratta di
lavoro creativo, individualmente e socialmente differenziato, specificato nelle
sue espressioni inventive ed operative. E' quella attività creativa attraverso la
quale la persona realizza se stessa ed i beni di cui ha bisogno. Nel secondo
caso si tratta di lavoro astratto, indifferenziato, fluido. E' quello che Marx
chiama «lavoro generalmente umano» 96, lavoro ridotto a puro dispendio di
energia.
Chiariti i presupposti, vale la pena, a questo punto, vedere direttamente
come la nozione di lavoro astratto emerge dall'analisi marxiana ed in che
termini viene via via definendosi.
«Il lavoro che in essi [prodotti] uniformemente si oggettiva - osserva Marx -
dev'essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il quale
sia indifferente apparire nell'oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso
modo che è indifferente per l'ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro,
nell'atmosfera, nel succo dell'uva o nel sangue dell'uomo» 97.
S3.3 Oggettivazione e astrattizzazione del lavoro
C'è una prima considerazione da fare. Qui astratto è il lavoro in quanto si
oggettiva nei prodotti, non in quanto li realizza. Dunque, l'astrattizzazione del
lavoro è connessa alla sua oggettivazione. Vogliamo dire che, in quanto
attività di produzione, il lavoro può pure essere estremamente vario e
creativo. Questo stesso lavoro però, per oggettivarsi nei prodotti, deve
spogliarsi delle sue determinazioni concrete e ridursi a indifferenziato
dispendio di energia.
Questa precisazione si rende opportuna per evitare che - come spesso
succede - quando si parla di lavoro astratto si pensi subito al lavoro ripetitivo,
uniforme, monotono. Per sgombrare il campo da un tale persistente e diffuso
equivoco, basterà dire, a mo' di esempio, che lo stesso lavoro artigianale,
portato spesso a modello di creatività, deve ridursi a lavoro astratto per
oggettivarsi in prodotti destinati non al consumo personale, bensì allo
scambio. E' questo, infatti, il punto. Il lavoro che produce beni per il consumo
96 Ibidem, p.13.
97 Ibidem, p.11.
328
personale non ha bisogno di oggettivarsi nei suoi prodotti, perché gli oggetti
prodotti, non essendo destinati allo scambio, non hanno bisogno di essere
valutati, cioè di essere tradotti in valore di scambio. E ciò a prescindere dalla
qualità del lavoro che li produce. Nel senso che un lavoro può pure essere
tutt'altro che creativo e soddisfacente, ma, se crea prodotti destinati al
consumo personale, non sarà mai astratto, perché non ha bisogno di
oggettivarsi nei prodotti. Viceversa, un lavoro può essere estremamente
creativo e soddisfacente, ma, se crea prodotti destinati allo scambio, si deve
oggettivare in essi e quindi ridursi a lavoro indifferenziato, generalmente
umano, astratto.
S3.4 Distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato
Alla base di questa analisi c'è, come si vede, una distinzione di fondo tra
lavoro vivo e lavoro oggettivato. Tutto il lavoro oggettivato deve essere stato
lavoro vivo. Ma non tutto il lavoro vivo diventa lavoro oggettivato. Solo nella
produzione di merci, cioè di prodotti destinati allo scambio, il lavoro vivo si
traduce in lavoro oggettivato.
Per la verità, la distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato - che
secondo noi, chiarisce sino in fondo i termini di lavoro astratto - è in Marx
tutt'altro che netta. Ad un certo punto, dopo avere descritto il lavoro
oggettivato come lavoro indifferenziato, egli tenta di dargli un corrispettivo in
sede di lavoro vivo. Ciò deriva dal fatto che Marx, dovendo arrivare alla
formulazione della legge del lavoro-valore, è costretto a trattare il lavoro
oggettivato in termini quantitativi, a ridurlo cioè a tempo di lavoro. Ora, il
tempo di lavoro è una categoria del lavoro concreto. Da qui la necessità di
specificare la nozione di lavoro astratto attraverso riferimenti alla struttura del
lavoro concreto. Dovendo fare da supporto alla legge del lavoro-valore, la
nozione marxiana di lavoro astratto è costretta a sopportare vincoli empirici
che ne offuscano i connotati teorici.
«[...] il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere
espresso come lavoro generalmente umano» 98. E fin qui siamo nella
definizione teorica del lavoro astratto come misura di valore. Ma subito
I'analisi è costretta a ingolfarsi in riferimenti empirici al lavoro vivo,
difficilmente riconducibili alla nozione teorica di lavoro astratto. «Questa
98 Ibidem, p. 13 (corsivo nel testo).
329
astrazione del lavoro generalmente umano - prosegue Marx - esiste nel
lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è
un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E'
lavoro semplice [e in nota precisa: 'Unskilled labour' (lavoro non qualificato)
lo chiamano gli economisti inglesi] al quale ogni individuo medio può essere
addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell'altra» 99.
E' chiaro che Marx va qui alla ricerca di connotati propri del lavoro
oggettivato nell'ambito del lavoro vivo. La difficoltà di tale ricerca sta nel fatto
che il lavoro oggettivato è una categoria economica, mentre il lavoro vivo è
una categoria tecnica. Ed è una forzatura attribuire connotati tecnici ad una
categoria economica. Di questa forzatura risente l'analisi, che è costretta a
identificare lavoro astratto con lavoro semplice o addirittura con unskilled
labour, che è una nozione attinente alla professionalità.
Non è un caso che, dopo avere operato l'ibrida identificazione fra lavoro
astratto e lavoro semplice, Marx è costretto a identificare il lavoro semplice
con il lavoro medio della società. Il lavoro astratto, da categoria puramente
economica del lavoro oggettivato, si trova così ad essere stravolto in
categoria non solo tecnica, ma addirittura statistica (la media attiene alla
statistica) del lavoro vivo sociale. L'intreccio di differenti livelli di realtà è
evidente. La difficoltà che ne deriva emerge di fronte al problema di fare
quadrare la complessità tecnica del lavoro vivo dentro la linearità economica
del lavoro astratto: «Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga
maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere
da tutte le statistiche. [...]. Ma come si fa per il lavoro complesso che si eleva
al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più alta intensità, di maggiore
peso specifico?» 100.
La soluzione adottata da Marx - ridurre il lavoro complesso a lavoro
semplice a più elevata potenza - lascia nell'ombra, sul piano pratico, tutta
una serie di aspetti. La complessità è una categoria teorica che attiene ad un
insieme. Ed è contraddittorio sul piano teorico e impossibile sul piano pratico
pretendere di scomporla in parti semplici. Ma, a parte ciò, quel che interessa
mettere in evidenza è che in queste operazioni pratiche sul lavoro è andata
completamente perduta la grande portata teorica della nozione originaria di
lavoro astratto. E' questa nozione originaria che occorrerà riprendere e
99 Ibidem (corsivi nel testo).
100 Ibidem.
330
sviluppare sino alle estreme conseguenze teoriche, dopo averla liberata da
tutti i vincoli empirici.
Quanto poi alla causa dei guasti subiti dalla originaria nozione marxiana,
noi pensiamo che essa sia da individuare soprattutto in una mancata
precisazione da parte di Marx.
Incoerenze a parte, la nozione marxiana di lavoro astratto è centrata sulla
distinzione tra lavoro che crea valore d'uso e lavoro che crea valore di
scambio: «Mentre il lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente
generale e uguale, il lavoro che crea valore d'uso è lavoro concreto e
particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della
forma e della materia» 101.
Ciò che Marx non precisa - aprendo così il varco all'ambiguità di fondo
prima rilevata - è che il lavoro è «astrattamente generale» non in quanto
produttore di valore di scambio, ma in quanto sua potenziale misura, in
qualità di lavoro da oggettivare, di lavoro potenzialmente oggettivato 102.
S3.5 Rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto
Nel capitolo sulla merce, ad apertura de II capitale, Marx insiste molto sul
rapporto fra lavoro concreto e lavoro astratto. Il lavoro concreto è lavoro utile
ed è connaturato alla condizione umana: «[...] il lavoro, come formatore di
valori d'uso, come lavoro utile, è una condizione d'esistenza dell'uomo,
indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della
natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura,
cioè la vita degli uomini» 103.
Questo lavoro concreto e utile si presenta nella società sotto diverse
forme, che cambiano continuamente. Ora, tutte le forme di lavoro, dice Marx,
rappresentano solo forme diverse di dispendio di forza lavorativa umana 104.
Marx ha, fin qui, ragione. Il presupposto reale dell'oggettivazione del lavoro
nella merce in forma di lavoro astratto è nel fatto che il lavoro concreto, pur
nelle sue diverse forme, è comunque dispendio di energia umana. Questa
101 Ibidem, p. 18 (corsivi nel testo). 102 Che il lavoro possa essere misura del valore solo nella qualità di lavoro oggettivato è in Marx un
punto fermo: «Per esprimere il valore della tela come coagulo di lavoro umano, esso deve essere soppresso come una 'oggettività' la quale, come cosa, sia differente dalla tela e, simultaneamente, le sia comune con altra merce» (K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 83).
103 K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 75. 104 Ibidem, I, p. 76.
331
osservazione è importante, perché ci dice che il lavoro astratto, mentre da un
lato è una nozione economica e non tecnica, dall'altro discende da uno
status reale del lavoro. Il lavoro astratto non è cioè una pura invenzione
economica. E' una nozione di teoria economica, che attiene strettamente al
lavoro oggettivato, ma ha un prius nella realtà tecnica del lavoro vivo.
Oltre un tale riconoscimento però non si può andare, senza snaturare,
come abbiamo visto, la stessa nozione marxiana di lavoro astratto, almeno
quella che noi riteniamo la più coerente all'interno dell'analisi marxiana. Marx,
invece, si spinge oltre. Egli tenta di individuare un fattore comune al lavoro
vivo ed al lavoro oggettivato nel lavoro medio, che consiste nel «dispendio di
quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel
suo organismo fisico, senza particolare sviluppo» 105. Al di là delle intenzioni
di Marx - che, fra l'altro, non si pone questo tipo di problema - il lavoro medio
semplice viene in sostanza a configurarsi come lavoro concreto che, per
avere caratteristiche tecniche largamente diffuse, realizza, nella sostanza, il
modello del lavoro umano in generale, del lavoro astratto. Non sappiamo
vedere altrimenti questo «lavoro medio semplice» che come versione tecnica
della nozione di lavoro astratto.
S3.6 Distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro
Da quanto si è detto dovrebbe risultare chiaro che noi giudichiamo
teoricamente illegittima e praticamente ibrida una siffatta operazione. E
perseguiamo il fine di recuperare - in sede teorica e in sede pratica - la
distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro. La prima si
riferisce al lavoro concreto, determinato e differenziato, che si avvale di
particolari tecniche ed ha particolari esiti produttivi. La seconda si riferisce al
lavoro astratto, indeterminato e indifferenziato, al lavoro umano in generale.
Lavoro concreto è quello che, in sede tecnica, produce il bene. Lavoro
astratto è quello che, in sede economica, si oggettiva nella merce.
Ora, il «lavoro medio semplice» è lavoro concreto. E tale rimane anche se
medio e semplice. La medietà e la semplicità - essendo la prima una
caratteristica statistica e la seconda una caratteristica tecnica - non possono
105 Ibidem (corsivo nel testo).
332
essere riferite al lavoro astratto, che Marx stesso definisce come «lavoro
umano senza ulteriore qualificazione» 106.
S3.7 L’astrattizzazione del lavoro come categoria dello scambio
Che il processo di astrattizzazione riguardi solo il lavoro in quanto lavoro
oggettivato nella merce risulta chiaro dall'analisi che Marx fa di tale processo,
là dove lo fa discendere dal rapporto di valore tra le merci: «Solo
l'espressione di equivalenza fra merci di genere differente mette in luce il
carattere specifico del lavoro creatore di valore, in quanto riduce
effettivamente i lavori di genere differente, inerenti alle merci di genere
differente, a ciò che è loro comune, a lavoro umano in genere» 107.
In altri termini, il processo di astrattizzazione del lavoro oggettivato nella
merce ha origine sociale, in quanto riguarda non la merce in sé, ma il suo
scambio e quindi il suo rapporto con le altre merci, il suo rapporto con il
mondo delle merci.
L'astrattizzazione del lavoro è dunque una categoria dello scambio, non
della produzione. Quando la merce entra nel rapporto di scambio, il processo
produttivo è già compiuto ed è già compiuto quindi il processo lavorativo. Il
processo lavorativo opera sempre nella concretezza delle sue specificazioni
tecniche. E solo dopo che si è incorporato nella merce come referente di
valore perde la sua qualità, per tradursi in quantità. Solo dopo che si è
oggettivato, da lavoro concreto, qual era in fase di produzione, diventa lavoro
astratto, lavoro senza altra qualificazione.
Bisogna stare attenti. Quando Marx segue il processo di astrattizzazione
del lavoro, fa in effetti un cammino a ritroso. Parte dallo scambio delle merci,
per risalire alla loro produzione. Parte dal lavoro astratto, per risalire al lavoro
concreto e vedere per quale via il lavoro concreto si è astrattizzato: «E' vero
che l'arte della sartoria che fa l'abito è un lavoro concreto di genere differente
da quella della tessitura che fa la tela. Ma l'equiparazione alla tessitura
riduce effettivamente la sartoria a quello che realmente è eguale nei due
lavori: al loro carattere comune di lavoro umano» 108. Mi sembra chiaro. Il
lavoro, in quanto produce, è lavoro concreto, differenziato. In quanto
incorporato nelle merci, diventa oggetto di equiparazione, non può non 106 Ibidem, I, p.77. 107 Ibidem, I, p. 83. 108 Ibidem.
333
essere lavoro indifferenziato, astratto. E' passando attraverso
l'oggettivazione che il lavoro concreto perde le sue determinazioni tecniche e
qualitative acquisite nel processo di produzione. Schematizzando, I'itinerario
è dunque il seguente: dal lavoro concreto della sfera della produzione al
lavoro astratto della sfera dello scambio, attraverso l'oggettivazione nella
merce come referente di vaIore.
Il percorso reale del processo di astrattizzazione - che qui abbiamo
cercato di portare alla luce - si presenta nello scambio come invertito. Il
lavoro astratto è lavoro concreto filtrato dal processo di oggettivazione. E
invece, in sede di equivalenza, «lavoro concreto diventa forma fenomenica
del suo opposto, di lavoro astrattamente umano» 109.
Marx chiarisce i termini di questa inversione. In sostanza, il lavoro astratto
da strumento, in quanto referente di valore finalizzato allo scambio di
prodotti, diventa fine. E il lavoro concreto, che ha prodotto il bene di
consumo, diventa strumento per l'oggettivazione del lavoro astratto e la
realizzazione del valore. Come dire: il lavoro concreto viene messo in atto
per essere oggettivato nelle merci.
E' da qui che discende la socialità del lavoro. Dal momento, dice Marx,
che il lavoro concreto conta in quanto espressione di lavoro astratto, esso
può essere messo in rapporto - attraverso il comune referente - con gli altri
lavori concreti «ed è quindi, benché lavoro privato, lavoro in forma
immediatamente sociale come ogni lavoro che produce merci» 110.
Lo stesso vale per le merci. Ogni merce, attraverso la sua forma di valore,
entra in rapporto sociale con tutte le altre merci. Nel valore di una merce si
rispecchia, in forma di equivalente, il valore di ogni altra merce. Unico
referente è il lavoro astratto. I lavori concreti, da produttori del corpo fisico
delle merci, si presentano come forme particolari in cui si realizza o si
manifesta il lavoro astratto. E la forma corporea di una merce data si
presenta non come esito di un particolare lavoro concreto, ma come
«I'incarnazione visibile, la crisalide sociale generale di ogni lavoro umano» 111.
109 Ibidem, I, p. 91 (corsivo nel testo). 110 Ibidem. 111 Ibidem, I, p. 99.
334
Così ogni lavoro viene ad avere una duplice forma: una particolare e
concreta, che lo rende diverso dagli altri lavori, ed una sociale e generale, in
cui tutti i lavori appaiono uguali.
Attraverso l'analisi di questi passaggi, Marx cerca, anche qui, di tessere
un rapporto reale fra lavoro concreto e lavoro astratto. Cerca cioè il substrato
reale del lavoro astratto. E ciò nel tentativo di evitare che la nozione di lavoro
astratto sia relegata nella sfera economica. Il suo intento è chiaro: vedere
nella riduzione dei particolari lavori a lavoro senza altra qualificazione non
soltanto una operazione economica, attinente al lavoro oggettivato nella
merce, ma anche una operazione sociale, con un fondamento reale nel
lavoro produttore di merci.
La forma generale in cui si presenta ogni lavoro particolare diventa così, in
un certo senso, il corrispettivo reale - in sede di lavoro vivo - del lavoro
astratto. Nella forma generale del lavoro concreto «il lavoro oggettivato nel
valore delle merci non è rappresentato solo negativamente, come lavoro nel
quale si astrae da tutte le forme concrete e da tutte le qualità utili dei lavori
effettivi. La natura positiva del lavoro oggettivato qui spicca espressamente:
è la riduzione di tutti i lavori effettivi al carattere a tutti comune di lavoro
umano, a dispendio di forza-lavoro umana» 112.
Pur apprezzando l'intento che sta dietro a questa opera di concretizzazione
del lavoro oggettivato, dobbiamo dire che essa risulta infruttuosa e finisce
per portare l'analisi su un terreno ambiguo, in cui la ricerca di referenti
empirici fa ombra alla chiarezza della definizione teorica della nozione di
lavoro astratto 113.
112 Ibidem. 113 Nei Grundrisse ci si imbatte in un passo in cui la nozione di lavoro astratto ha una angolatura del
tutto diversa rispetto a quella da noi analizzata. Il contesto è l'analisi della contrapposizione del lavoro al capitale. «[...] il lavoro - osserva Marx - come quel valore d'uso che si contrappone al denaro posto come capitale, non è questo o quel lavoro, ma lavoro puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente indifferente ad una particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza» (K. Marx, Lineamenti..., cit., 1, p. 280, corsivi nel testo).
L'astrazione del lavoro è qui un portato della sua necessità di contrapporsi al capitale. Questa contrapposizione richiede che il lavoro si porti, in un certo modo, allo stesso livello di generalizzazione del capitale.
In tal senso, il processo di astrattizzazione del lavoro è parallelo al processo di astrattizzazione del capitale. Ad un capitale determinato, osserva Marx, corrisponde un lavoro particolare, «ma poiché il capitale in quanto tale è indifferente ad ogni particolarità della sua sostanza, ed è tanto la totalità di ogni particolarità della sua sostanza quanto l'astrazione da tutte le sue particolarità, il lavoro che gli si contrappone ha in sé soggettivamente la medesima totalità e la medesima astrazione» (K. Marx, Lineamenti..., cit., 1, p. 280, corsivo nel testo).
Si potrebbe dire che qui il lavoro mutua l'astrazione dal suo antagonista, dal capitale.
335
S3.8 Critica di alcune interpretazioni della nozione marxiana di lavoro astratto
Indispensabile ad una definizione puntuale della nozione di lavoro astratto
è, per noi, la distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato. Non si tratta
ovviamente di due entità distinte, ma di due modi di essere della stessa
entità. Vivo è il lavoro in quanto azione esercitata sulla materia, per
trasformarla in un prodotto. Nella definizione di lavoro vivo si prescinde - per
opportunità di analisi - dalla destinazione del prodotto, ben sapendo però
che in realtà tale destinazione determina le condizioni in cui si svolge la
produzione. E tuttavia isolare teoricamente lo specifico produttivo del lavoro
ci serve per arrivare a circoscrivere l'ambito in cui si definisce la nozione di
lavoro astratto. Tale nozione, se ben compresa, esclude da sé qualsiasi
attinenza agli aspetti produttivi - e quindi tecnici ed organizzativi - del
processo lavorativo. Non può mai essere astratto il lavoro in quanto si
incarna in specifiche tecniche di produzione.
La nostra intenzione di tagliare nettamente qualsiasi attinenza del lavoro
astratto alla sfera del processo produttivo in senso stretto - là dove
nell'analisi di Marx si va spesso a ricercare nel lavoro produttore di merci un
corrispettivo reale dell'astrazione propria del lavoro oggettivato nelle merci -
non deriva da una preoccupazione di tipo filologico. Essa intende evitare che
si dia corso, magari inconsapevolmente, all'equivoco - che certi tratti del
discorso di Marx non aiutano certo a contrastare - per cui, quando si parla di
lavoro astratto, il pensiero corre subito agli aspetti di ripetitività e di
monotonia del lavoro.
Non si tratta di un equivoco diffuso soltanto a livello di senso comune. Per
fare un esempio significativo, tutto il discorso di Lucio Colletti sul lavoro
astratto 114 - corretto per molti aspetti - tende a dare fondamento di realtà alla
nozione marxiana. D'altra parte, il versante teorico con cui polemizza Colletti
è ben lontano dalla nostra prospettiva di analisi.
La nozione che Colletti giustamente non accetta è quella che fa del lavoro
astratto «una astrazione nel senso che è una generalizzazione mentale dei
molteplici lavori utili o concreti; è l'elemento generale e comune a tutti questi
114 L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969, pp. 103-124.
336
lavori'' 115. Il pericolo che Colletti vede in questa interpretazione della nozione
marxiana sta nel fatto che se il lavoro astratto è una generalizzazione
mentale, tale sarà anche ciò che esso produce, il valore, che così viene ad
essere ridotto ad una idea.
Le osservazioni di Colletti colgono, a nostro avviso, nel segno. Infatti, il
lavoro astratto non è, per Marx, una entità irreale, una generalizzazione del
lavoro concreto. La questione che noi poniamo è però di tipo diverso. Noi
diciamo che il lavoro astratto è una realtà, ma non una realtà tecnica. Non
riguarda cioè le procedure interne al processo lavorativo e, di conseguenza,
non riguarda l'azione di trasformazione della materia in prodotto.
Questa discriminante non la si trova in Marx. Anzi, come abbiamo visto, c'è
nell'analisi marxiana lo sforzo continuo di cogliere tracce di astrazione nel
lavoro produttore di merci. Il lavoro astratto è una realtà non della fattura
della merce, ma del suo scambio. Del resto, per lo stesso Colletti «la tesi
essenziale di Marx [da cui discende la nozione di lavoro astratto] è che, per
scambiare i loro prodotti, gli uomini debbono eguagliarli, cioè astrarre
dall'aspetto fisico-naturale o di valore d'uso per cui un prodotto differisce
dall'altro (il grano dal ferro, il ferro dal vetro, ecc.); e che, però, astraendo
dagli oggetti o materie concrete del loro lavoro, essi astraggono ipso facto
anche da ciò in funzione di cui si diversificano i loro lavori» 116. Colletti ne
deduce che il lavoro astratto è «un'astrazione che si compie ogni giorno nella
realtà stessa dello scambio» 117.
Questa interpretazione va esattamente in direzione della nostra prospettiva
di analisi. Colletti però non trae dalla sua affermazione tutte le conseguenze.
Non si preoccupa, per esempio, di chiarire che, se il lavoro astratto è una
realtà dello scambio - di una fase cioè successiva alla produzione diretta -,
tale nozione non può riguardare il lavoro vivo. Anzi, nel prosieguo del suo
discorso, dà I'impressione di volere dare rilievo agli aspetti di astrazione del
processo di produzione. Aspetti senz'altro reali e desumibili dalla analisi di
Marx, ma che nulla hanno, secondo noi, a che vedere con la nozione
originaria di lavoro astratto.
«[Il 'lavoro astratto'] - osserva Colletti - [è] un'attività che, a differenza delle
altre, non rappresenta un'appropriazione del mondo naturale oggettivo,
115 Ibidem, p. 107 (corsivi nel testo). 116 Ibidem, p. 112 (corsivi nel testo). 117 Ibidem, p. 113 (corsivi nel testo).
337
quanto, al contrario, una espropriazione della soggettività umana, cioè una
separazione della 'capacità' o 'forza' di lavoro, intesa come I'insieme delle
attitudini fisiche e intellettuali umane, dall'uomo stesso» 118. Non mi pare
dubbio che qui si parli del lavoro astratto non come realtà dello scambio, ma
come realtà del processo produttivo.
All'interno dell'approccio adottato, il discorso di Colletti è indubbiamente
interessante. Ma è proprio questo approccio che noi intendiamo
abbandonare, perché inevitabilmente porta ad un inquinamento "tecnico"
della nozione originaria di lavoro astratto.
Altro intervento significativo, dal nostro punto di vista, è quello di Mario
Tronti 119. Tronti interpreta esattamente il discorso di Marx e ne mutua, a
nostro avviso, la contraddizione di fondo. Da una parte sottolinea la
distinzione marxiana tra lavoro vivo e lavoro oggettivato, dall'altra fa propria
la commistione fra concretezza del lavoro vivo e astrazione del lavoro
oggettivato. «Che la merce fosse qualcosa di duplice - osserva Tronti -,
insieme valore d'uso e valore di scambio, era cosa ovvia ai tempi di Marx. Ma
che il lavoro espresso nel valore avesse caratteristiche diverse dal lavoro
produttore di valori d'uso, era ignoto al pensiero del tempo. [...]. In Per la
critica dell'economia politica (1859) [Marx] aveva tentato [...] un'analisi della
merce 'come lavoro in duplice forma': analisi del valore d'uso come lavoro
reale o attività produttiva conforme allo scopo e analisi del valore di scambio
come tempo di lavoro o lavoro sociale uguale; [...] 120.
Ecco, l'originalità di Marx sta nell'avere rilevato che il lavoro oggettivato ha
«caratteristiche diverse» rispetto al lavoro vivo. E', come si vede, il punto da
cui parte il nostro discorso, che vuole rimanere coerente a questa
fondamentale scoperta di Marx. Invece Tronti, dopo avere messo
giustamente in evidenza la distinzione marxiana, non ne tiene conto nel
prosieguo del discorso. E, seguendo le orme di Marx, illustra come
caratteristiche del lavoro oggettivato connotazioni che sono proprie del lavoro
vivo.
Crediamo che l'equivoco di fondo - che è in Marx e viene assunto in
proprio da Tronti - sta nel pensare che i connotati del lavoro oggettivato
possano essere desunti, per riduzione, dalle caratteristiche del lavoro vivo.
118 Ibidem, p. 117 (corsivi nel testo). 119 Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 123 e segg..
120 Ibidem, p. 123.
338
Scrive Tronti: «[...] il lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico, è
sempre riducibile, cioè deve sempre essere ridotto a unskilled labour, a
lavoro non qualificato, lavoro privo di qualità» 121. Fin qui ci muoviamo nella
sfera del lavoro vivo. Il lavoro senza qualità è un lavoro vivo con particolari
caratteristiche tecniche (ripetitività, semplicità, ecc.). Senonché Tronti a
questo punto opera, sulla scia di Marx, un salto, che annulla la distinzione tra
lavoro vivo e lavoro oggettivato: «Ma - aggiunge - lavoro senza qualità e
lavoro 'generalmente umano' è la stessa cosa: [...] 122. In sostanza, ridotto
all'osso, il discorso di Marx - fatto proprio da Tronti - è questo: il lavoro vivo,
se ha caratteristiche tecniche di semplicità, di ripetitività, ecc., è lavoro
generalmente umano, è lavoro astratto, cioè è la stessa cosa del lavoro
oggettivato.
Ora, se è così, cade la fondamentale scoperta di Marx, in quanto il lavoro
oggettivato finisce di avere «caratteristiche diverse» rispetto al lavoro vivo.
Non è un caso che Tronti citi, a sostegno del suo discorso, il passo di Marx -
da noi già citato - in cui, a nostro avviso, è più evidente la commistione tra
lavoro vivo e lavoro oggettivato: «Questa astrazione del lavoro generalmente
umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una
data società, è un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi,
cervello, ecc. umani» 123. Tronti, insomma, esalta la versione che Marx, ad
un certo punto, tradendo la sua scoperta originaria, ci dà della nozione di
lavoro astratto, come esito di una operazione di semplificazione del lavoro
vivo. Il commento di Tronti al passo citato di Marx è, sotto questo aspetto,
esemplare: «La forma specifica in cui il lavoro acquista carattere semplice è
quella dunque del lavoro umano in generale. La riduzione a lavoro semplice
è riduzione a lavoro astrattamente umano» 124. Tronti, senza volerlo, rende
ancora più evidente la forma empirica a cui Marx stesso finisce per ridurre la
sua originaria nozione di lavoro astratto 125.
121 Ibidem, p. 123-124 (corsivo nel testo). 122 Ibidem, p. 124.
123 Ibidem (corsivo nel testo). 124 Ibidem (corsivi nel testo). 125 I guasti teorici prodotti dalla commistione tra lavoro vivo e lavoro astratto sono enormi. Al punto che in
un intervento di Lapo Berti sulla «astrattizzazione del lavoro» può essere illustrata - senza che ciò comporti
implicazioni teoriche rispetto alla nozione originaria di lavoro astratto - la tendenza del capitale «verso
l'astrattizzazione del lavoro applicato al processo produttivo» (L. Berti, L'astrattizzazione del lavoro, in AA.
VV., La tribù delle talpe, a cura di S. Bologna, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 125 e segg., citazione a p. 129,
corsivo nel testo).
339
S3.9 Ridefinizione della nozione di lavoro astratto
A questo punto, occorre ripartire dagli elementi che ci fornisce la nozione
marxiana, prescindendo dal tentativo di Marx di ricercare nel lavoro vivo
riscontri relativi al lavoro oggettivato. E' tempo di affrontare direttamente il
lavoro astratto in quanto lavoro oggettivato.
Attraverso l'oggettivazione, il lavoro si definisce come lavoro semplice,
uniforme, indifferenziato 126. L'attribuzione usata da Marx può indurre in
errore. Si può pensare ad un lavoro che abbia come caratteristiche tecniche
la semplicità, I'uniformità, I'indifferenziazione. Evidentemente, la terminologia
non è ancora adeguata alla qualità della nozione cui si riferisce. E' ancora
troppo legata ai modi di esprimere i connotati del lavoro vivo. Poco più in là
però Marx compie, secondo noi, un passo importante nella resa della
nozione di lavoro astratto: «Il lavoro che crea valore di scambio - osserva - è
[...] lavoro astrattamente generale» 127. C'è qui un salto qualitativo nella
connotazione del lavoro astratto. Salto che Marx, per la verità, non sempre
tiene presente. Il lavoro produttore di valore di scambio - che, badiamo bene,
differisce dal lavoro produttore di valore d'uso, in quanto manca di qualsiasi
connotato tecnico - ha due caratteristiche: I'astrazione e la generalità.
Occorre chiarire bene questi due caratteri, perché hanno grande peso
nella definizione della nozione di lavoro astratto. L'astrazione è qui un dato di
realtà. Di una realtà però non tecnica, ma economica. Si riferisce al lavoro
non in quanto complesso di procedure tecniche - che possono essere
semplici ed uniformi, mai astratte - ma in quanto sostanza economica della
merce. In questo senso, il lavoro astratto è - e non può non essere - lavoro
oggettivato.
Nell'intervento di Berti (che, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il titolo, soltanto in minima
parte si occupa del problema che qui specificamente interessa) ha rilievo la contraddizione di fondo del
lavoro. «Per rendere la forza-lavoro sempre più astrattamente disponibile, il capitale è costretto sempre più a
porla come autonoma» (p. 129). La forza-lavoro viene espropriata della possibilità di incidere - attraverso il
lavoro concreto - sul processo produttivo. Ora, questa espropriazione si traduce per l'operaio da una parte in
perdita di potere di contrattazione, dall'altra in estraneità nei confronti del processo produttivo. E questa
estraneità è il pesupposto di un processo di autonomizzazione politica soggettiva. L'astrattizzazione del lavoro vivo come fattore di autonomizzazione della soggettività operaia più che
come canale di espropriazione è una tesi che, per un certo tempo, ha trovato credito in alcuni settori della sinistra.
126 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, cit., p. 11. 127 Ibidem (corsivo nel testo).
340
La generalità si riferisce al fatto che il lavoro oggettivato non ha niente
della particolarità propria della merce in cui è oggettivato. Tronti,
commentando Marx, vede in ognuna delle caratteristiche del lavoro che crea
valore di scambio un processo. E si capisce perché. Dal momento che il
lavoro produttore di valore di scambio discende dal lavoro produttore di
valore d'uso, è necessaria una evoluzione che trasformi il secondo nel primo.
Questa trasformazione viene poi assunta «come passaggio dalle forme
precapitalistiche alle forme capitalistiche del lavoro» 128. L'esito del processo
è dunque, per Tronti, la forma capitalistica del lavoro, che si caratterizza per
essere una forma tecnica estremamente semplice, priva di qualità. Questa
particolare forma tecnica fa del lavoro vivo un lavoro astratto. Unskilled
labour e lavoro generalmente umano sono la stessa cosa.
Occorre partire dalla conclusione di questo discorso, rovesciarla e farne un
presupposto. Lavoro senza qualità e lavoro astratto sono due cose
completamente diverse. Si deve parlare di lavoro senza qualità quando le
procedure vengono standardizzate al punto di non richiedere da parte del
soggetto operatore alcuna particolare capacità professionale. Per quanto
semplice, uniforme e ripetitivo, il lavoro senza qualità rimane una procedura
finalizzata, direttamente o indirettamente, alla creazione di beni. Si deve
invece parlare di lavoro astratto là dove il lavoro perde qualsiasi
connotazione tecnica di produzione e diventa misura di valore.
In tal senso, non si può parlare di lavoro astratto in termini di semplicità
tecnica, così come non si può parlare di lavoro senza qualità tecnica in
termini di astrazione. Semplicità tecnica e astrazione sono attributi che
attengono a due distinti universi. Il primo all'universo della tecnica di
produzione, il secondo all'universo della misurazione di valore.
Bisogna dunque abituarsi a parlare del lavoro astratto abbandonando l'idea
che ci siamo fatti del lavoro come tecnica di produzione. Il lavoro astratto non
è una particolare tecnica produttiva. Il connotato di astrazione fa del lavoro
oggettivato qualcosa di qualitativamente diverso dal lavoro vivo. Il fatto è che
il lavoro vivo, nell'oggettivarsi, astrae da tutto ciò che fa di esso un lavoro
particolare. E, poiché un lavoro è sempre un lavoro particolare, astraendo
dalla sua particolarità, il lavoro diventa altro da sé.
Il lavoro astratto è dunque altro dal "lavoro", nell'accezione comune del
termine. L'attributo è qui I'elemento centrale e caratterizzante rispetto al
128 M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 123.
341
sostantivo. E ciò può avvenire perché il lavoro oggettivato è una sostanza,
una «concrezione», come dice Marx 129. Il lavoro oggettivato può essere
astratto perché non è tecnica operante, ma esito di una tecnica. Nel lavoro
oggettivato la tecnica è il passato, nel lavoro vivo è il presente. E questo
spiega perché il lavoro oggettivato può essere astratto e il lavoro vivo no. Si
può astrarre dalla particolarità tecnica del lavoro quando essa abbia già
compiuto la sua opera, non mentre la sta compiendo.
Questo punto va tenuto ben fermo. Il lavoro vivo non può mai essere una
sostanza, una concrezione. Ciò ci aiuta a capire i termini della sussunzione
del lavoro operata dal capitale. E' interesse del capitale vanificare il lavoro in
quanto tecnica produttiva e assumere il lavoro in quanto sostanza di valore.
L'interesse del capitale tende a fare del lavoro vivo un semplice tramite del
lavoro oggettivato.
Una tale prospettiva impone al lavoro vivo sussunto al capitale tutta una
serie di trasfigurazioni, che sono state ampiamente analizzate, ma che non
possono essere viste - come quasi sempre accade - in termini di astrazione.
Il problema è dunque oggi di definire la struttura del lavoro vivo
mantenendo la sua distinzione dal lavoro oggettivato. Il lavoro vivo tende
certo a configurarsi come f!usso lavorativo, come puro dispendio di energia.
E ciò induce a parlare, anche in tale sede, di "astrazione". "Astrazione" che
però è, pur sempre, ben altra cosa da quella derivante dalla oggettivazione
del lavoro nella merce. Conviene dunque evidenziarne la diversità adottando
una diversa terminologia.
Perciò si può parlare di lavoro astratto solo quando si tratta di lavoro
oggettivato. Mentre, per riferirsi al lavoro vivo senza qualità - qual è il
moderno lavoro meccanizzato ed automatizzato - proponiamo di parlare di
lavoro tecnicamente e socialmente indeterminato.
Non si tratta di una pignoleria terminologica. L'indeterminazione tecnica e
sociale è una connotazione moderna del lavoro vivo sussunto al capitale. Ed
è connotazione ben diversa da un lato dall'astrazione economica, che è
propria del lavoro oggettivato, e dall'altro dalla indifferenza soggettiva della
persona nei confronti del contenuto del suo lavoro.
Sulla base di questi chiarimenti, cerchiamo adesso di ridefinire la nozione
di lavoro astratto. Si tratta di una ridefinizione che intende assumere quella
che noi pensiamo sia l'originaria nozione marxiana, liberata dalle
129 K. Marx, Il capitale, cit., p. 70.
342
contaminazioni che vi ha apportate lo stesso Marx. Per lavoro astratto
intendiamo il lavoro che è oggettivato nella merce ed è la base di
misurazione del suo valore.
Il lavoro, incorporandosi nella merce, perde ogni connotato tecnico e si
definisce come puro dispendio di energia: lavoro senza altra qualificazione,
dice Marx. Astratto dunque è il lavoro oggettivato, nel senso che è privo di
qualsiasi determinazione concreta. Ciò non significa che si tratti dell'esito di
una operazione mentale. Bisogna sottrarsi a questa sorta di ricatto teorico,
per cui il lavoro astratto o non ha realtà o ha la realtà tecnica del lavoro vivo.
Il lavoro astratto ha una realtà propria, non tecnica, che va individuata e
definita. Va combattuta la pretesa di parlare del lavoro astratto come di un
concetto o, viceversa, come di una particolare procedura produttiva.
Si badi bene. Quanto detto fin qui non significa affatto che, per noi, il
processo di astrattizzazione non interessa il lavoro vivo. Anzi. Ci siamo
assunti il compito di ricostruire il processo complessivo di astrattizzazione, ai
suoi diversi livelli. Del resto, che un processo di astrattizzazione investa il
lavoro vivo è pacifico. L'importante è tenere teoricamente distinta la nozione
tecnica e sociale di lavoro astratto, che attiene al lavoro vivo, dalla nozione
economica, che attiene al lavoro oggettivato.
Una tale distinzione teorica non solo non esclude, ma anzi rende più
evidente la connessione reale che esiste tra il processo economico ed il
processo tecnico e sociale di astrattizzazione. Sulla base di tale
distinzione-connessione, la direzione della nostra ricerca va dal lavoro
oggettivato verso il lavoro vivo. Il lavoro vivo è infatti la sede in cui opera il
soggetto umano. Ed è in quella sede che si ritrova, ad altro livello, il processo
di astrattizzazione, in quanto espropriazione della realtà socialmente
determinata, in quanto processo di indeterminazione sociale.
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Dalla Prima Edizione (1980)
LA SOCIETA’ ASTRATTA
NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
In questa sezione riportiamo capitoli della Prima
Edizione, in cui l’analisi viene condotta nel quadro della
teoria di Marx, mentre nelle successive edizioni l’analisi
viene condotta “in presa diretta”.
344
345
Dalla Prima Edizione (1980)
ATRAZIONE E INDETERMINAZIONE NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX
La maturità della sussunzione reale del lavoro al capitale, che oggi ci
accingiamo a vivere, si definisce, di per sé, non come razionalizzazione
tecnica dei contenuti del lavoro, ma come liberazione del sistema di
valorizzazione da qualsiasi determinazione specifica dell’attività lavorativa. In
tal senso, il lavoro è adeguato al capitale non in quanto porta contenuti
rispondenti alle esigenze della produzione capitalistica, ma in quanto riesce a
dimenticare il peccato originale del suo attaccamento a contenuti particolari.
Nell’approssimarsi del salto di qualità del processo di produzione,
assistiamo dunque alla saldatura di due fenomeni che nell’analisi, se non
nella teoria, di Marx vivono in relativa separatezza: da una parte
l’astrattizzazione del lavoro, dall’altra la sua sussunzione al capitale.
L’astrazione non è più un aspetto della morfologia dell’attività lavorativa, ma
un requisito strutturale del lavoro sussulto al capitale.
Da qui la centralità della nozione di lavoro astratto per l’analisi del modo
avanzato di produzione capitalistica. Ma da qui anche i suoi limiti in quanto
attributo specifico. Entreremo a parte nel merito della definizione e del
significato di tale nozione. Qui ci interessa evidenziarne la grande fertilità.
quando si sia disposti a svilupparla in tutte le direzioni, per farne una chiave
di interpretazione delle dinamiche sociali che si scatenano là dove il modo
capitalistico di produzione, per realizzarsi nella sua pienezza, è costretto a
dar fondo ai suoi presupposti, aprendo il varco all’esplosione di
contraddizioni latenti.
Occorre subito raccogliere, in tutta la sua pregnanza, il frutto dell’analisi
marxiana del lavoro astratto. Ne ricaviamo un concetto che è alla base di
questa nostra indagine. Ed è il concetto di astrazione come indifferenza ai
contenuti.
Ora, per cominciare, dobbiamo individuare la discendenza di questo
concetto. E non discendenza, per così dire, ideale, cioè la sua derivazione
da altri concetti, ma la sua discendenza reale, cioè la sua specificazione
nella realtà del capitalismo. Dobbiamo cercare cioè di vedere quale realtà del
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capitalismo esso esprime. Più avanti ci faremo carico di una ricostruzione
della nozione marxiana. Qui, subito, ci interessa estrapolare dal contesto
dell’analisi marxiana del lavoro astratto il concetto di indifferenza ai contenuti,
come concetto per sé, e rifarne, per nostro conto, la storia dentro la realtà
sociale del capitale.
La questione può essere posta preliminarmente in termini di domanda: c’è
nella società del capitale una realtà che corrisponde al concetto di
indifferenza ai contenuti? E se c’è, quali processi sono alla sua base?
Il modo capitalistico di produzione si definisce, per quel che qui interessa,
come processo di espropriazione. Tutti i contenuti, materiali e immateriali,
che la società capitalistica produce, nascono, già in partenza, come
contenuti espropriati. E tutta la soggettività che la società del capitale riesce
ad esprimere è una soggettività espropriata dei propri contenuti. Da una lato
contenuti estraniati rispetto ai soggetti che li hanno prodotti, dall’altro soggetti
estraneati rispetto ai loro propri contenuti.
E’ da una tale duplice estraniazione che discende da una parte
l’indifferenza soggettiva ai contenuti della realtà sociale, dall’altra
l’indifferenza oggettiva che è nella stessa realtà sociale.
Si tratta di esiti non causali del processo sociale imposto dal capitale.
Processo che si pone, più o meno esplicitamente, in termini di
indeterminazione sociale, cioè in termini di emancipazione della società da
ogni vincolo relativo a determinazioni particolari dell’essere sociale.
Il processo di indeterminazione sociale ha la funzione di produrre uno stato
di indifferenza sociale, che ha a sua volta la funzione di riprodurre astrazione
là dove l’essere sociale preme per affermare i suoi contenuti. Nello stato di
indifferenza sociale il capitale ricerca le condizioni per radicare nella società
il processo di valorizzazione.
E si capisce perché. La valorizzazione è un processo astratto e può
operare soltanto in condizioni di astrazione sociale. In tanto è in opera in
quanto impone la sua astrazione all’essere sociale. Non è un caso che se e
quando il processo di indeterminazione sociale non risulta del tutto efficace e
si incrina lo stato sociale di indifferenza, il sistema di valorizzazione è
minacciato. Dalla crosta incrinata dell’indifferenza sociale si levano
minacciosi i contenuti dell’essere sociale. E’ allora che realtà determinate
dell’essere sociale vanno a scontrarsi con l’astratta indeterminazione del
sistema di valorizzazione.
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Da tutto ciò risulta che il processo di indeterminazione sociale fa da
supporto al sistema di valorizzazione, in quanto predispone le condizioni in
cui può essere realizzata la produzione di valore. La condizione
fondamentale che il processo di indeterminazione sociale produce in
funzione della valorizzazione è la subordinazione del valore d’uso al valore di
scambio. Non può darsi valorizzazione là dove si afferma l’egemonia del
valore d’uso. Il valore d’uso è infatti espressione di un rapporto di fruizione
che, se non è regolato dal valore di scambio, fa saltare il sistema di
valorizzazione.
Ora, è difficile subordinare e regolare il valore d’uso quando l’essere
sociale si addensa e preme per affermare i suoi contenuti. Il valore d’uso è
infatti espressione dell’individuo sociale, così come il valore di scambio è
espressione del capitale. Da qui un’altra condizione cui è chiamato a
provvedere il processo di indeterminazione: la rarefazione dell’essere
sociale. Si tratta di un meccanismo sociale estremamente sottile e raffinato,
che va visto da vicino, per poterne cogliere il funzionamento interno.
Il processo di espropriazione, che è alla base del modo capitalistico di
produzione, crea nella società stati diffusi di insoddisfazione che, come è
noto, si esprimono nei modi più disparati. Tali modi di espressione
dell’insoddisfazione sociale possono essere sopportati finché si mantengono
nell’ambito individuale. L’espressione di insoddisfazione diventa invece un
rischio per il sistema sociale quando alla sua base c’è una condensazione
dell’essere sociale. Finché l’insoddisfazione sociale è espressione di migliaia
di individui insoddisfatti ognuno per proprio conto, la struttura sociale
complessiva può essere messa in difficoltà, ma non corre nessun pericolo
reale. Se invece l’insoddisfazione diffusa comincia a condensare l’essere
sociale, comincia cioè a compattare la condizione sociale di migliaia di
individui, allora si profila la possibilità di un salto politico che trasformi
l’espressione di insoddisfazione individuale in pratica antagonistica di un
corpo sociale.
In questo quadro, la funzione del processo di indeterminazione sociale
dovrebbe risultare chiara: sciogliere all’origine ogni coagulo di vita sociale
antagonista, per evitare che si trasformi in pratica di antagonismo politico.
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Dalla Prima Edizione (1980)
L’INDIVIDUO ASTRATTO NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX *
In un passo de L’ideologia tedesca viene esaminato il processo di
autonomizzazione delle forze produttive. Ad un certo punto del loro sviluppo,
le forze produttive, da forze degli individui quali erano, si rendono
indipendenti rispetto agli individui . Questo processo produce per un verso
l’oggettivazione delle forze produttive, per l’altro l’astrattizzazione degli
individui. «Da una parte [...] una totalità di forze produttive che hanno
assunto, per così dire,una forma obiettiva [...]. Dall’altra parte a queste forze
produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste
forze si sono staccate e quindi sono stati spogliati da ogni contenuto di vita,
sono diventati individui astratti, [...] 130.
Anche se Marx-Engels parlano di «due fatti», è chiaro che si tratta di due
facce dello stesso fatto, di due versanti dello stesso processo. Meglio: si
tratta di un fatto che produce un altro fatto,di un processo che produce un
altro processo. E’ l’oggettivazione delle forze produttive che produce
l’astrattizzazione degli individui. Del resto, è questo il modo di funzionare
dell’intero processo. Qualità dell’individuo, oggettivandosi, si rendono
autonome rispetto all’individuo e gli si contrappongono. Cos’è il lavoro
astratto se non l’attività creativa dell’individuo, resa estranea all’individuo e
pietrificata nella merce? E cosa sono i rapporti sociali astratti se non le
relazioni degli individui cristallizzate in forme estraniate? Il processo di
astrattizzazione è un continuo intrecciarsi di atti di espropriazione, di
estraneazione e di oggettivazione. E la società astratta altro non è che
l’espressione sintetica della socialità complessiva espropriata, estraneata ed
oggettivata. La società astratta è la condizione generale dell’individuo sociale
separato dalle sue qualità umane. E’ il modo di essere dell’individuo astratto.
Le qualità umane, una volta separate dall’individuo ed oggettivate, perdono
* Di questo capitolo della Prima Edizione riportiamo solo la prima parte, che non è stata ripresa nelle successive edizioni, dove l’analisi è stata condotta “in presa diretta”. 130 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 63 (corsivo nostro).
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ogni specificità. Diventano qualità astratte e, in quanto tali, indifferenti ai loro
contenuti.
Il processo parte dunque da una azione di espropriazione e tende verso
uno stato di indifferenza. Parte da una violenza sui soggetti e tende verso la
quiete degli oggetti. Parte dall’astrattizzazione e tende verso l’oggettivazione.
L’oggettivazione è il punto di arrivo della graduale e sistematica
eliminazione della specificità umana dell’individuo dall’orizzonte sociale. E’
l’approdo della società astratta, della società spogliata di ognireale contenuto
di vita, all’indifferenza sociale, all’indifferenza nei confronti delle forme della
vita associata. L’estraneazione dell’individuo dalla società reale produce
indifferenza nei confronti della società formale. L’individuo espropria è
l’individuo astratto e, in quanto tale, indifferente alle forme della società. E’
come se l’indivduo si sentisse strappare la pelle di dosso e si ritrovasse,
spogliato della sua specificità umana, a nuotare nell’indistinto sociale.
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Dalla Prima Edizione (1980)
LA RICCHEZZA ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX *
Ne Il capitale la produzione capitalistica è definita, in partenza, produzione
di merci. E l’analisi del modo capitalistico di produzione si apre, come è noto,
con il discorso sulla merce. E’ una scelta di grande significato. Il processo
complessivo viene attaccato nel suo punto nodale. La merce conclude la
produzione diretta ed apre la circolazione. E’ dunque nel bel mezzo del
processo complessivo. Ma non si tratta solo di una centralità, per così dire, di
posizione. La merce è il cuore della produzione capitalistica.
Ora, cos’è che fa della merce una sorta di passaggio obbligato della
formazione sociale basata sul modo capitalistico di produzione? Partiamo dal
breve tratta dell’anali
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Libro Primo
NOTA EDITORIALE
Rispetto alle edizioni precedenti in volume unico,
vengono aggiunti il Libro Secondo e il Libro Terzo. Il Libro Primo copre l’area tematica del volume unico
delle precedenti edizioni. In esso sono state però rielaborate alcune parti e vengono aggiunti nuovi capitoli.
Nuovi capitoli aggiunti al Libro Primo
Capitolo Quinto
I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI
Capitolo Settimo
L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA
(I paragrafia 1,2,3 sono tratti da Identità sociale e ideologia istituzionale, in «Proteo», n. 2, 2001).
Capitolo Ottavo
L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA
(Tratto e adattato da Identità sociale e ideologia istituzionale, in «Proteo», n. 2 – 2001).
Capitolo Nono LA REGOLAMENTAZIONE MORALE DELLA CONDOTTA SOCIALE Capitolo Decimo
LA COMUNICAZIONE ASTRATTA
Capitolo Undicesimo
SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE
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(Tratto e adattato da Soggettività sociale e televisione: un processo immateriale, in «Proteo», n. 3 – 2000)
Capitolo Dodicesimo INFORMATICA E ASTRAZIONE Capitolo Tredicesimo LA CITTA’ ASTRATTA
Capitolo Quattordicesimo DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE
Capitolo Ventiduesimo FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE
(Tratto e adattato da L’identità asociale tra flessibilità del lavoro e ideologia istituzionale in AA:VV. No/Made Italy, Napoli, Edizioni Media Print, 2001, pp. 187 – 198).
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FILIPPO VIOLA, nato in Sicilia, a Pietraperzia (Enna), è
docente di Sociologia (ora in pensione) all'Università di Roma
«La Sapienza».
Da anni porta avanti esperienze di lavoro sociale nei
quartieri popolari di Roma, in collaborazione con
associazioni, centri sociali ed altre strutture di base.
Come studioso, ha pubblicato lavori di ricerca teorica ed
empirica, nel quadro di un progetto di sociologia esistenziale,
cioè di analisi del sistema sociale dal punto di vista della
condizione esistenziale degli uomini e delle donne, con
particolare attenzione ai processi immateriali della vita
sociale.