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18701890: LA TRANSIZIONE

Se non fosse per la presenza di Verdi, gli anni Cinquanta e Sessanta dell'Ottocento sarebbero i pi oscuri dell'Ottocento operistico italiano. La decadenza si avverte a tutti i livelli: rispetto all'epoca di Rossini peggiorato il livello delle orchestre, sono scomparsi i grandi interpreti vocali come Maria Malibran, Giovanni Battista Rubini o Giuditta Pasta, le opere dei compositori minori non hanno pi la dignitosa qualit artigianale di quelle dei maestri del primo Ottocento. Si sta esaurendo un ciclo. L'Italia musicale d'altronde vive da troppo tempo in un regime pressoch autarchico: il pubblico ascolta quasi soltanto musica italiana e (se si eccettua il persistere di una debole tradizione sacra) teatrale.

Queste condizioni culturali avevano consentito all'opera italiana di conservare la propria originalit per un lungo tratto, sviluppando il proprio linguaggio senza eccessivi condizionamenti; ma alla lunga la mancanza di stimoli esterni ne aveva disseccato la vena. Pur rivendicando sempre la propria fedelt al modello italiano di ascendenza rossiniana, lo stesso Verdi, come abbiamo visto, fu costretto a cercare altrove: nella musica antica e nel GrandOpra francese. D'altra parte la storia anche il frutto di eventi accidentali e ci si pu chiedere quali sviluppi avrebbero avuto l'opera e, in generale, la musica italiana se l'unico compositore che le avrebbe potuto dare un respiro internazionale (l'unico che in quel crocevia di culture che era Parigi si era trovato perfettamente a suo agio, assorbendo non tanto dal mondo dell'opera quanto da quello, ben pi stimolante, della musica strumentale), cio Vincenzo Bellini, non fosse morto prematuramente a meno di trentaquattro anni mentre stava preparando il debutto all'Opra di Parigi.

In questo contesto di crisi generalizzata, aprire le frontiere e importare la musica europea divent a un certo punto una scelta obbligata. Gli anni SettantaOttanta dell'Ottocento noti come transizione sono appunto quelli durante i quali la cultura musicale e teatrale italiana si apre ad apporti internazionali: tutte le grandi citt hanno le loro societ del quartetto, attraverso le quali trova diffusione la musica da camera europea del primo Ottocento, mentre i teatri rappresentano con crescente frequenza le opere dei maestri francesi (Meyerbeer soprattutto, ma pi tardi anche Gounod, Massenet e Bizet) e di Wagner. Il 1 novembre 1871 il melodramma wagneriano fa il suo debutto sui palcoscenici italiani: al teatro Comunale di Bologna ha luogo la prima italiana di Lohengrin; seguono, nell'arco di meno di vent'anni, quasi tutti gli altri titoli, accolti immancabilmente da accese polemiche e interminabili discussioni tra wagneriani ed antiwagneriani. Di seguito riporto date e luoghi delle prime rappresentazioni delle opere di Wagner in Italia:

Bologna, 1 novembre 1871, Lohengrin

Bologna, 7 novembre 1872, Tannhauser

Venezia, 15 marzo 1874, Rienzi

Bologna, 14 novembre 1877, L'olandese volante

Venezia, 14 aprile 1883, L'oro del Reno

Venezia, 15 aprile 1883, La Walkiria

Venezia, 17 aprile 1883, Sigfrido

Venezia, 18 aprile 1883, Il crepuscolo degli dei

Bologna, 2 giugno 1888, Tristano e Isotta

Milano, 26 dicembre 1889, I maestri cantori di Norimberga

Bologna, 1 gennaio 1914, Parsifal (l'opera pot essere rappresentarla solo a questa data a causa del divieto di allestirla fuori dal tempio wagneriano di Bayreuth)

Tutte queste opere si eseguivano in traduzione italiana e ampiamente ridimesionate dai tagli. In un trafiletto della Gazzetta Musicale di Milano del 18 aprile 1880 si fa cenno alle parecchie migliaia di battute che furono e sono amputate dal Lohengrin, per renderlo meno malsano. Il compito di sfrondare la partitura dei Maestri cantori di Norimberga fu affidata da Ricordi niente meno che al giovane Puccini, che per l'occasione si rec a Bayreuth per ascoltare l'opera.

Alle societ del quartetto si affiancano frattanto le prime societ orchestrali, la cui attivit si incrementa sensibilmente a partire dagli anni Ottanta. Compito principale di queste istituzioni quello di divulgare in Italia la musica sinfonica dell'Ottocento, fino ad allora pressoch sconosciuta. Indicativi di tale intento educativo e divulgativo sono sia il nome di Concerti popolari assegnato a queste manifestazioni, sia la struttura antologica dei programmi, nei quali si alternano i brani pi disparati, per epoca, stile e genere: singoli movimenti di sinfonia, poemi sinfonici, sinfonie d'opera, arie, tempi di suite, brani di musica sacra, pagine di compositori italiani contemporanei dell'ultima generazione. Due esempi:

Milano, 15 aprile 1888

Parte prima

1. Ludwig van Beethoven, Quinta Sinfonia

Parte seconda

2. Arturo BuzziPeccia (18541943), Il Re Harfagar (poema sinfonico)

3. Giovanni Battista Martini (17061784), Gavotta

4. Arturo Vanbianchi (18621942), Rigodon

5. Georges Bizet, dall'Arlsienne: Minuetto e Farandola

Genova, 17 maggio 1888

Parte prima

1. Wolfgang Amadeus Mozart, Primo tempo della Sinfonia in Sol minore

2. Johannes Sebastian Bach, Incarnatus e Crocifixus dalla Messa in Si minore

3. Giacomo Meyerbeer, Canto di Maggio, melodia per soprano, con accompagnamento di istrumenti ad arco

4. Felix Mendelsshon, Canzonetta per istrumenti ad arco raddoppiati dal Quartetto op. 12

5. C. Del Signore, Salmo CXXXVI (Super flumina Babylonis), per coro e orchestra

Parte seconda

6. Ludwig van Beethoven, Secondo tempo (Marcia funebre) della Terza Sinfonia

7. Gioacchino Rossini, Sanctus dalla Petite Messe Solemnelle

8. Camille SaintSans, Danza Macabra (poema sinfonico, op. 40)

9. Christoph Willibald Gluck, Aria dall'opera Elena e Paride: O del mio dolce ardor

10. Salomon Jadassohn (18311902), Vergebung, pezzo di concerto per coro e orchestra con a solo di soprano

Sempre in questo periodo si affacciano alla ribalta le prime figure di grandi direttori d'orchestra: Angelo Mariani, Giuseppe Martucci, Franco Faccio e Luigi Mancinelli; a loro volta tutti impegnati anche sul fronte compositivo.

Un tale rigoglio di attivit concertistiche fu alimentato da un'azione di governo volta a favorire la sfera degli studi musicali, ossia i Conservatori, a scapito della vita teatrale. Molto meno rosea appare infatti la situazione della musica italiana sul versante operistico. Poich il pubblico esige spettacoli sempre pi sfarzosi e i cantanti chiedono compensi sempre pi vertiginosi, gli impresari non sono pi in grado di far quadrare i conti. Per effetto della guerra tra editori, inoltre, sono spesso le claques a decretare fiaschi solenni e successi effimeri. passato alla storia il clamoroso trionfo dei Goti di Stefano Gobatti, nel 1873: opera antiquata e goffa, ma abbastanza involuta e roboante da sembrare moderna. Dopo I Goti, Gobatti spar completamente dalla vita teatrale, imprecando contro congiure inesistenti, mentre proprio ad una congiuradoveva il suo unico successo.

L'apertura delle frontiere si traduce dunque in un'autentica crisi d'identit del melodramma italiano: i tentativi di appropriarsi dei modelli europei appaiono quasi sempre velleitari e, sul piano estetico, i risultati sono per lo pi insoddisfacenti. In questo contesto risulta comprensibile l'opinione che Verdi espresse in una lettera sui rischi del sentir troppo (lettura 2).

A combattere contro la crisi del teatro musicale sono innazitutto le grandi case dell'editoria musicale italiana: la Lucca, proprietaria fino al 1888 dei diritti sulle opere di Gounod, Meyerbeer e Wagner; la Sonzogno, che a partire dagli anni Ottanta si distinguer per la sua politica in favore dei giovani operisti italiani; e soprattutto la Ricordi, che da parecchi decenni pubblica i lavori dei grandi maestri italiani dell'Ottocento e il cui organo di stampa settimanale La Gazzetta Musicale di Milano svolger un ruolo fondamentale nella formazione di un nuovo gusto e una nuova cultura musicale, affrontando ogni possibile argomento: dalla cronaca teatrale alle biografie di artisti e uomini di teatro, dalla musica russa a quella asiatica (fino a toccare questioni di etnomusicologia), dalla musica antica alle ultime teorie armoniche.

La Scapigliatura e Arrigo Boito

In questa fase della vita culturale italiana il principale movimento artisticoletterario la Scapigliatura milanese, figlia a sua volta della Bohme parigina (che la precedette di un trentennio, a riprova del ritardo in cui venne a trovarsi la cultura italiana, una volta entrata a contatto con quella europea). Anche il rinnovamento dell'opera italiana pass interamente attraverso artisti appartenenti al mondo della Scapigliatura o ad esso vicini (come nel caso di Amilcare Ponchielli).

La Scapigliatura il primo movimento con ambizioni d'avanguardia della storia letteraria e culturale dell'Italia unita. Gli scapigliati proclamano il diritto alla libera espressione, ossia all'infrazione delle regole accademiche, anteponendo le ragioni dell'originalit a quelle dello stile, in una sorta di attardato empito protoromantico. Il loro linguaggio per lo pi eccentrico, il lessico presenta bizzarre commistioni di aulico e triviale, nuovo e antico, la scelta degli argomenti, per lo pi fiabeschi e moraleggianti, tradisce suggestioni germaniche, quasi sempre filtrate attraverso la cultura francese.

Come la Bohme, la Scapigliatura un movimento maledetto: molti suoi esponenti muoiono giovani, di malattia o suicidi. Non cos Arrigo Boito (Padova 1842 Milano 1918), che del gruppo la mente pi lucida e la figura pi colta: un uomo che sotto i panni del dandy nasconde un'erudizione sconfinata e una conoscenza storica della lingua italiana che non ha eguale in tutto l'Ottocento.

Nella duplice veste di letterato e compositore, Boito fu l'artista che in questi anni si prefisse con la massima chiarezza l'ambizioso obiettivo di condurre il teatro musicale italiano fuori dall'alveo della tradizione protoottocentesca. Il suo nome figura in quasi tutti i lavori pi importanti di questo periodo, a partire dal suo capolavoro di musicistapoeta, Mefistofele (1868), tratto dal Faust di Goethe, fino alle opere per le quali scrisse i libretti, tra cui La Gioconda di Ponchielli (1876) il pi grande successo operistico degli anni Settanta e i due ultimi lavori di Verdi: Otello (1887) e Falstaff (1893).

Se dunque l'inizio della nuova stagione operistica si colloca convenzionalmente nel 1870, l'opera che segna la pi violenta rottura col passato Mefistofele debutta alla Scala nel 1868. L'accoglienza disastrosa che pubblico e critica le riservano attesta tuttavia che, alla fine di quel decennio, la distanza tra l'aspirazione rivoluzionaria dell'autore e il gusto corrente ancora incolmabile. Solo nel 1875, dopo una drastica revisione che sfrond la partitura degli episodi pi ostici, ampliando per contro la parte di Margherita (quanto a dire dando maggior risalto alla storia d'amore), Mefistofele ottiene il successo che merita ed entra nei repertori dei maggiori teatri italiani.

Diviso in un prologo, quattro atti e un epilogo, Mefistofele un'opera pi bizzarra che nuova. Aprendo lo spartito scopriamo che il prologo in cielo (durante il quale Mefistofele scommette con Dio sulla sorte di Faust) a sua volta suddiviso in quattro tempi e un intermezzo drammatico, posto a met, cio tra il secondo e il terzo tempo. Il primo tempo si intitola preludio e coro, il secondo scherzo strumentale, il terzo scherzo vocale, il quarto salmodia finale. evidente l'intento programmatico di sostituire alle forme convenzionali dell'opera italiana (o formule, come le aveva definite in senso spregiativo gi in un articolo del 1863: aria, rond, cabaletta, stretta, ritornello, pezzo concertato) una pi ambiziosa struttura sinfonica. All'ascolto per ci si imbatte in tutt'altra cosa: un'articolazione per brevi episodi (non corrispondenti alla suddivisione riportata nello spartito), privi di qualsiasi legame tematico se si eccettua la ripresa, quasi identica, del coro iniziale alla fine del quadro. Paradossalmente Boito (che fu essenzialmente un letterato), non possedendo gli strumenti per concepire un'idea compositiva di ampia gittata, finisce per tradurre la sua sincera aspirazione al nuovo in una serie di trovatine, per lo pi armoniche o timbriche, spesso divertenti, ma che potrebbero essere definite formule molto pi a buon diritto delle sezioni in cui si articolava l'opera rossiniana. La scelta di intitolare l'opera a Mefistofele e non a Faust risulta perci azzeccata, visto che decisamente il risultato tende pi al grottesco che al filosofico.

Dopo Mefistofele, Boito lavor fino alla morte (1918) ad un'altra opera: Nerone; senza riuscire tuttavia a completarla, o meglio trasformandola in una sorta di tela di Penelope. Terminata l'avventura scapigliata, d'altronde, Boito non si riconosce pi nel mondo culturale e artistico italiano di fine secolo, e sceglie di appartarsi. Nerone diventa cos il suo passatempo, anacronistico ed erudito.

Amilcare Ponchielli (Paderno Fasolaro, Cremona 1834 Milano 1886) e la Grande Opera

Il compositore pi rappresentativo e pi dotato degli anni della transizione un ex maestro della banda musicale di Cremona, giunto al successo a quasi quarant'anni con un rifacimento dei Promessi Sposi, la sua seconda opera, composta sedici anni prima per Cremona. difficile capire la vicenda artistica di Ponchielli senza considerarne l'aspetto umano: uomo ombroso e timido, la lunghissima e frustrante gavetta gli lasci una cronica insicurezza, che gli imped di destreggiarsi adeguatamente nell'ambiente difficile e competitivo della vita teatrale milanese.

Per alcuni anni fu considerato l'erede di Verdi, ma dopo la morte pubblico e critica gli voltarono le spalle. Lo stesso aggettivo ponchielliano come mostrano le recensioni assunse quasi subito un significato spregiativo: sinonimo di antiquato e fuorimoda. il momento, d'altronde, in cui la Grande Opera genere al quale appartengono tre dei lavori pi importanti di Ponchielli (La Gioconda, I Lituani e Il figliuol prodigo) cade in disgrazia. Grande Opera traduce alla lettera l'espressione francese GrandOpra, che abbiamo gi incontrato nei moduli precedenti; si tratta dunque di un genere importato dalla Francia, con tanto di azione coreografica (l'esempio pi celebre appunto la Danza delle Ore della Gioconda). I carteggi dimostrano tuttavia che il povero Ponchielli si adatt controvoglia a comporre questo genere di lavori monumentali, la cui struttura drammaturgica gli valse la fama immeritata di compositore enfatico e tronfio. Dalle sue lettere traspare invece una viva nostalgia per il tempo di Rossini e Donizetti, quando si poteva comporre coll'orecchio rivolto al fatto estetico anzich alle moderne teorie sul teatro musicale, o per i grandi cantanti del passato, come Rubini e Donzelli: i veri cantanti d'un tempo [] che ti facevano piangere soltanto collo stare alla ribalta.

Questo atteggiamento critico verso l'Italia musicale contemporanea accomuna, come abbiamo visto, Ponchielli e Verdi. Sotto un altro aspetto i due artisti si trovano per agli antipodi: per quanto ricca, la vena musicale di Ponchielli s'incontra infatti poco col suo teatro. Non per nulla egli termin solo nove opere, sottoponendole a continui rifacimenti, a testimonianza di una cronica insoddisfazione; mentre compose molta musica da camera, sacra e sinfonica (oltre ad un numero spropositato di trascrizioni per banda).

A lungo, dopo la sua morte, la fama di Ponchielli fu mantenuta viva da una sola opera: La Gioconda, ma anche in questo caso soprattutto in virt dell'ingegnoso libretto di Boito, sul quale egli al contrario trov sempre da ridire. L'intellettualismo di Boito era d'altronde agli antipodi sia della sua sensibilit artistica, di gran lunga pi genuina, che del suo retroterra culturale, molto pi provinciale.

La Grande Opera introduce molte novit, sia musicali che drammaturgiche:

1) Il principio della spettacolarit, proprio del GrandOpra, si traduce non solo sul piano puramente visivo (scene di massa, battaglie, uragani, sfarzo nei costumi e nei fondali: una sorta di Colossal teatrale) ma anche, e soprattutto, nella sistematica ricerca del colpo di scena; come nel finale dell'atto terzo della Gioconda, quando Alvise Badoero, alzando una cortina, mostra alla folla esterrefatta degli invitati il cadavere della moglie adultera, esclamando: Miratela! Son io che spenta l'ho!.

L'apoteosi dell'effettistica per rappresentata dai libretti di Ferdinando Fontana, modestissimo poeta scapigliato della seconda generazione, autore tra l'altro dei primi due libretti per Puccini. Per eccitare la fantasia del pubblico Fontana arriv a raccogliere nel libretto di Asrael, messo in musica con successo da Alberto Franchetti (1888), i demoni dell'inferno (da dove sale il protagonista), gli angeli del paradiso (da dove scende la protagonista), una maga che odia gli uomini, una zingarella che li ama, un plotone di suore erranti, una battaglia conclusa da un intervento soprannaturale, un incantesimo notturno, fino al crollo di un convento e all'apoteosi del protagonista/demonio, ora redento, coronata dal raggio di luce che pervade miracolosamente la statua della Vergine. Siamo al punto di non ritorno.

2) Sull'esempio dell'opera francese e wagneriana, l'orchestra acquista in complessit e soprattutto in spessore. I raddoppi, spesso in Ottava, si traducono in quelle che la stampa d'epoca definiva, in senso spregiativo, violinate. Pi limitato invece l'impiego della scrittura cameristica, poco adatta alla drammaticit estroversa dei soggetti. Fanno eccezione molte pagine dell'ultima opera di Ponchielli Marion Delorme nella quale, non a caso, riaffiora la dialettica tragicomica del Ballo in maschera di Verdi.

3) La vocalit appesantita dalla crescente competizione con l'orchestra. Le linee di canto si basano sull'alternanza tra energico declamato drammatico e grandi aperture melodiche, spesso nella zona impervia del passaggio, dove la tensione espressiva tocca il culmine, fin quasi alla rottura del suono. Caratteristici di questo periodo sono i bruschi salti di registro. (Vedi l'immagine con l'esempio tratto da Marion Delorme di Ponchielli).

4) La melodia acquista nuovo impulso. Verdi aveva fatto dell'aderenza della musica all'azione un caposaldo del suo teatro musicale. Per contrasto e anche per trovare un proprio spazio i musicisti che si affacciano in questi due decenni tentano un recupero del canto spiegato, anche come espansione lirica fine a se stessa. La novit rispetto alla tradizione italiana di Rossini e Bellini che, sul modello di Wagner, le grandi melodie di Ponchielli (o del giovane Puccini) sono sempre pi spesso affidate all'orchestra, eventualmente raddoppiata dalla voce. Lo strumento vocale infatti si rivela insufficiente a sostenere questo tipo di cantabilit: sul piano del fraseggio, delle tessiture e delle sonorit. Ascolteremo a lezione qualche esempio.

5) La Solita forma del numero impiegata sempre pi raramente e quasi soltanto nei duetti. L'aria lascia il posto alla breve, rapsodica romanza (un semplice cantabile, senza cabaletta) caratterizzata da un effusione sentimentale che la avvicina in qualche misura alla contemporanea romanza da salotto, che proprio in questi anni registra una crescente fortuna (l'autore pi noto Francesco Paolo Tosti, di cui ancora oggi qualsiasi studente di canto ha in repertorio qualche romanza). Nei Finali concertati la scomparsa della Stretta compensata dalle cosiddette perorazioni, cio dalla ripresa orchestrale, a tutta forza, della frase principale del Largo concertato, che assolve alla medesima funzione di chiudere l'atto in modo musicalmente eclatante.

Il ritorno di Verdi

Voi mi parlate di risultati ottenuti!!!. Quali? Ve li dir io. Dopo 25 anni che io era assente dalla Scala ho ottenuto un fischio dopo il primo atto nella Forza del Destino. Dopo l'Aida ciarle infinite; che non era pi il Verdi del Ballo (di quel Ballo che f fischiato la prima volta alla Scala); che non aveva saputo scrivere per Cantanti; che non vi era che qualche cosa di tollerabile nel 2do e quarto Atto (il terzo nulla) e che infine era un imitatore di Vagner!!! Bel risultato dopo 35 anni di carriera finire Imitatore!!! [] (Lettera di Verdi a Giulio Ricordi, 4 aprile 1875)

Dopo le riserve avanzate su Aida (1871) da buona parte della critica, Verdi si ritira dunque dalle scene. Le accuse di essersi rifatto a Wagner l'hanno irritato, ma al tempo stesso egli sembra profittare della situazione per concedersi quella lunga pausa di meditazione che lo porter a ripensare radicalmente la propria concezione di teatro musicale alla luce del nuovo contesto storico.

A offrirgli l'occasione del rientro l'incontro con Arrigo Boito: il poeta che, dietro l'abile regia di Giulio Ricordi (che ovviamente aveva tutto l'interesse affinch Verdi tornasse a scrivere per il teatro), diventer il suo nuovo ed ultimo librettista.

La prova generale di questa collaborazione coincise con la revisione di Simon Boccanegra, completata nel 1881; ma gi da pi di un anno, in segreto, Boito e Verdi stanno lavorando ad Otello, che finalmente andr in scena il 5 febbraio 1887 alla Scala di Milano, dopo una lunga gestazione. Esiste una singolare corrispondenza, che al pubblico della prima non sar sfuggita, tra la rentre artistica di Verdi, dopo sedici anni di assenza dai teatri (rifacimenti a parte), e il ritorno in patria del condottiero Otello, passato indenne attraverso la terribile esperienza della bufera che durante la scena iniziale sembra doverne sconquassare la nave. Due eventi all'insegna della spettacolarit: quella dell'attesissimo debutto dell'opera alla Scala e quello del grandioso uragano, nel quale Verdi sfoggia tutta la sfolgorante bellezza del suo nuovo linguaggio musicale, come a chiarire subito che, nonostante la lunga assenza, in grado di riprendersi il proprio posto di primo compositore d'Italia, sbaragliando la concorrenza proprio sul terreno della Grande Opera. Di qui in avanti tuttavia Otello solo dramma psicologico e i momenti di digressione, di cui sono infarcite tutte le opere di questo periodo, sono pressoch assenti.

Ho gi accennato a quest'opera due moduli fa, a proposito della variante che il soggetto introduce rispetto al tema del divieto d'amare. Mi basta aggiungere che, sul piano formale, la partitura in bilico tra nuovo e vecchio (simile in questo allo stesso protagonista, il quale dopo aver infranto il tab, sposando il proprio Soprano, lo ripristina con la collaborazione del suo alter ego Jago): Verdi alterna larghe sezioni in declamato drammatico con pezzi chiusi pi tradizionali, o meglio, in molti casi, con le loro macerie; a partire dal second'atto assistiamo infatti ad una sorta di sgretolamento del tessuto formale, all'interno del quale si riconoscono a tratti gli spettri delle vecchie strutture, le quali non appaiono pi rimodernate, come nell'atto primo, bens piuttosto deformate. Un procedimento che tocca i suoi vertici nell'aria Dio, mi potevi scagliar e nel concertato finale del terz'atto, in cui le modalit di canto, recitativa e lirica, coesistono nelle rispettive espressioni estreme: l'una ridotta a declamato ossessivamente piatto, l'altra a volo melodico ormai sganciato dalle buone regole della condotta e dello sviluppo.

Dopo Otello tocca a Falstaff (9 febbraio 1893), tratto questa volta da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare: unica opera comica del teatro di Verdi, se si eccettua il tentativo giovanile di Un giorno di Regno.

Con Falstaff siamo gi entrati nell'ultimo decennio del secolo, caratterizzato in Italia dal melodramma verista, del quale il quasi ottantenne Verdi non abbraccia per la poetica. Quest'opera costituisce quindi un tipico esempio di capolavoro isolato, destinato a godere dell'ammirazione incondizionata dei musicisti, ma senza mai raggiungere un'autentica popolarit.

Per sua stessa ammissione, d'altronde, Verdi compose Falstaff per passare il tempo, quanto a dire per s, senza tener conto delle aspettative del pubblico e rendendo conto solo alla propria coscienza di artista. Ci che alla sua et poteva finalmente permettersi di fare:

[] Ed ora veniamo a Falstaff. Mi pare proprio che tutti i progetti sieno pazzie vere pazzie! Mi spiego. Io mi sono messo a scrivere Falstaff semplicemente per passare il tempo, senza idee preconcette, senza progetti, ripeto, per passare il tempo! Nient'altro! [] (Verdi a Giulio Ricordi, 4 gennaio 1891)

[] Il pancione [cos Verdi chiamava il protagonista] sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed di cattivo umore; altre volte grida, corre salta, f il diavolo a quattro Io lo lascio un po' sbizzarrire, ma se continuer gli metter la museruola e la camicia di forza. [] (Verdi a Boito, 12 giugno 1891)

Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romper tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa, Lei ne comprer degli altri, sfraceller il pianoforte, poco importa, Lei ne comprer un altro, vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sar fatta! [] (Boito a Verdi, 14 giugno 1891)

Con Falstaff Verdi si libera completamente come nessuno dei giovani musicisti stava facendo delle convenzioni operistiche italiane: niente pi Solita forma, niente pi cori d'inizio atto, niente pi arie tradizionali (ma solo monologhi o canzoni, oltre al sonetto di Fenton che potrete presto scaricarvi come immagine). In Falstaff il canto completamente modellato sulla parola, mentre la tenuta formale garantita dalla continuit di una trama orchestrale che deve molto alla scuola classica viennese. Julian Budden accenna in proposito alla miracolosa abilit del compositore nel trasformare un'idea in un'altra in modo quasi inavvertibile. Insomma Verdi trova una sintesi geniale tra Haydn o Mozart e i madrigalisti italiani. Anche i rimandi a Wagner che in Aida e Otello esistono a dispetto della determinazione con cui Verdi li neg ora si limitano ad uno spiritoso rimando al tema della magia di Parsifal all'inizio del terzo atto, mentre Falstaff, ancora grondante d'acqua per essere finito nel Tamigi, rumina il proprio malumore. Ma soprattutto l'opera zeppa di citazioni dei momenti pi patetici o solenni delle precedenti opere di Verdi, ripresentate in chiave umoristica. L'ultimo Verdi si permette dunque finalmente di sorridere. Eppure al centro del suo teatro troviamo ancora una volta una figura completamente umana, nel bene e nel male, ovviamente affidata alla voce di Baritono: il famoso pancione che improvvisandosi seduttore di due comari, belle, giovani e ricche, va incontro ad una serie di beffe, dalle quali, non si sa come, riesce sempre ad uscire a testa alta. Nulla a che fare col vecchio seduttore, sciocco e deriso da tutto, protagonista del Don Pasquale di Donizetti. Alla fine dell'opera, dopo essere caduto nell'ennesimo tranello edessersi preso una buona dose di botte e insulti, Falstaff che avr riconquistata la sua calma tira le sue conclusioni:

Ogni sorta di gente dozzinale

Mi beffa e se ne gloria;

Pur, senza me, costor con tanta boria

Non avrebbero un bricciolo di sale.

Son io che vi fo scaltri.

L'arguzia mia crea l'arguzia degli altri.

Una morale che ovviamente farina del sacco di William Shakespeare, ma che una volta ancora si adatta perfettamente al modo in cui Verdi intendeva la vita.

Le Villi di Puccini e le opere dell'ultima generazione

Nel corso degli anni Ottanta cominciano ad uscire dai Conservatori i giovani compositori destinati a toccare il vertice del successo nel decennio successivo: Giacomo Puccini, Pietro Mascagni (che in realt non complet gli studi), Umberto Giordano, Francesco Cilea, Ruggero Leoncavallo. Questa nuova generazione, formatasi a transizione avvenuta e destinata ad essere raccolta nella definizione di Giovane Scuola, mostra di avere una familiarit nuova con la musica strumentale. con loro che si afferma la forma dell'Intermezzo Sinfonico (probabilmente sull'esempio della Carmen di Bizet, che ne contiene tre: uno per ogni intervallo), collocato quasi sempre prima dello scioglimento tragico della vicenda.

Lo straordinario successo della prima opera di Puccini, Le Villi (1884), culmina proprio nel doppio Intermezzo sinfonico (L'abbandono / La tregenda), che viene addirittura trissato. Antonio Gramola, il critico del Corriere della Sera scrive che a quando a quando non pare di aver davanti a noi un giovane allievo, ma un Bizet, un Massenet. Verdi, dal canto suo, senza aver ascoltato l'opera, mette subito le mani avanti:

[] Ho sentito dir molto bene del musicista Puccini. Ho visto una lettera che ne dice tutto il bene. Segue le tendenze moderne, ed naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia che non moderna n antica. Pare per che predomini il lui l'elemento sinfonico! niente di male. Soltanto bisogna andar cauti in questo. L'opera l'opera: la sinfonia la sinfonia, e non credo che in un'opera sia bello fare uno squarcio sinfonico, pel sol piacere di far ballare l'orchestra. Dico per dire, senza nessuna importanza, senza la certezza d'aver detto una cosa giusta, anzi colla certezza d'aver detto cosa contraria alle tendenze moderne. [] (lettera ad Opprandino Arrivabene, 10 giugno 1884)

Nella versione definitiva, Le Villi intitolata operaballo, e sotto questo profilo sembra attenersi fedelmente al modello dominante della Grande Opera, sempre corredata di azione coreografica. Ben diversa per la sua durata. Non si tratta infatti di un lavoro mastodontico, come ad esempio Il figliuol prodigo di Ponchielli (1880), bens di un'opera breve, della durata di circa un'ora, con la quale Puccini prese parte al primo concorso per atti unici di operisti esordienti bandito dall'editore Sonzogno. Si tratta di un cambiamento fondamentale, anche se sostanzialmente fortuito, la cui portata si riveler qualche anno pi tardi, con i primi lavori del cosidetto melodramma verista: Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (1890) e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892).

Prima di affrontare questa nuova stagione operistica, merita un cenno un compositore di qualche anno pi anziano dei maestri della Giovane Scuola e morto precocemente: Alfredo Catalani (18541893). Catalani forse il pi romantico degli operisti italiani dell'Ottocento. I soggetti delle sue opere pi note Loreley (1890) e La Wally (1892) rivelano una predilezione per le atmosfere fantastiche e liriche tipiche delle leggende germaniche. lo stesso ambito culturale da cui Fontana aveva tratto il soggetto delle Villi, ma mentre Puccini sembra quasi impermeabile a questo tipo di spiritualismo (per altro, fuori d'Italia, gi molto datato) e aderisce ai contenuti drammatici in modo del tutto esteriore, Catalani sembra crederci davvero e ai suggestivi paesaggi naturali (le rive del Reno in Loreley, i monti del Tirolo in Wally) coniuga una musica intimistica e un po' esangue, ritmicamente invertebrata e melodicamente divagante, del tutto estranea alla tradizione italiana.

VERISMO E GIOVANE SCUOLA

Oggi che non sono rimasti in repertorio pi di quattro titoli (Cavalleria rusticana, Pagliacci, Andrea Chenier e Adriana Lecouvreur), eseguiti sempre pi raramente, non possiamo immaginare quale sia stata la fortuna dell'opera verista italiana nell'ultimo decennio dell'Ottocento. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. In particolare la cosiddetta Opera dei bassifondi o plebea riscosse un successo tale che il suo prototipo Cavalleria rusticana di Mascagni (1890), tratta dalla novella di Giovanni Verga fu rapidamente clonato. In quegli anni quasi tutti i giovani maestri si cimentano in questo genere all'ultima moda, sfornando opere brevi, ambientate quasi sempre tra le plebi del mezzogiorno d'Italia: Giordano con Mala vita (1890, ambientata a Napoli), Cilea con Tilda (1892, Ciociaria), Tasca con A Santa Lucia (1892, Napoli), Coronaro con Festa a Marina (1893, Calabria), Frontini con Malia (1893, Sicilia), Spinelli con A basso porto (1894, Napoli), Bimboni con Santuzza (1895, Sicilia), Cellini con Vendetta Sarda (1895, Sardegna), tanto per citare qualche titolo. Giacomo Puccini l'unico a non pagare questo tributo e nel 1894 abbandona la composizione di un'opera sul soggetto della Lupa di Verga, commissionatagli dall'editore Ricordi.

Per capire fino in fondo questo fenomeno storico occorre partire da una domanda: pu esistere un'opera verista? In che senso cio pu essere adattata la poetica di Giovanni Verga ossia l'aspirazione a rappresentare la realt per quello che , senza commenti, in modo pressoch fotografico ad un genere teatrale nel quale i personaggi, anzich dialogare, cantano? Difficile immaginarlo.

Proprio le caratteristiche dell'opera pi popolare di questo periodo, Cavalleria rusticana, possono per aiutarci a scoprire cosa si nasconde in effetti sotto questa denominazione, molto utile per capire quale fosse l'orizzonte culturale del tempo, ma alla quale in prospettiva storica senz'altro preferibile quella pi restrittiva di Opera dei bassifondi, con specifico riferimento all'ambiente sociale umile nel quale l'azione si svolge (mentre per indicare nel loro complesso gli operisti italiani di questo decennio preferibile la denominazione, gi ricordata, di Giovane Scuola).

Mascagni compose Cavalleria per partecipare al secondo concorso per atti unici indetto dall'editore Sonzogno. L'opera vinse e fu rappresentata con formidabile successo il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma. Cavalleria un'opera tradizionalmente suddivisa in Numeri, ma tutti di estrema brevit (in un'ora ne troviamo otto) e piena zeppa di pezzi caratteristici (preghiere, stornelli, brindisi ecc) volti alla rappresentazione dell'ambiente socioculturale. Il modello non dichiarato Carmen, il capolavoro di Georges Bizet che proprio in quegli anni si sta imponendo all'attenzione del pubblico italiano: sia in relazione alla brutalit di alcune situazioni portate sulla scena, e alle soluzioni musicali ad esse associate; sia soprattutto per quanto concerne l'impiego di forme chiuse, semplici e spesso popolareggianti (canzoni, danze, romanze), per altro caratteristico in generale dell'OpraComique francese, genere al quale Carmen appartiene nonostante il finale tragico.

Tutto ci si trova gi nelle Villi di Puccini, a sua volta grande estimatore di Carmen, ma la chiave del successo di Cavalleria fu l'aver sostituito all'ambientazione romantica del libretto della prima opera di Puccini, che si svolge nella Foresta Nera popolata da creature magiche, l'ambientazione verista della novella rusticana. Poco importava la mancanza di rigore con cui la poetica di Verga veniva trasferita in ambito operistico o il modo sbrigativo con cui Mascagni aveva liquidato il problema del colore locale siciliano limitandosi a inserire nel preludio una Siciliana in dialetto, da intonarsi da fuori scena: il pubblico dell'epoca, il cui bacino socioeconomico si stava allargando, non andava troppo per il sottile e una vicenda d'impatto forte e immediato, tutta lacrime e sangue, corredata di melodie larghe e orecchiabili, era ci che quasi tutti si attendevano da un pezzo, in modo da gettare alle spalle una volta per tutte le strutture mastodontiche e spesso complicate e intellettualistiche della Grande Opera.

Nella storia dell'opera italiana Cavalleria rusticana rappresenta dunque un evento liberatorio e al tempo stesso una sorta di collasso, artistico e culturale.

Anche il linguaggio musicale si semplifica, pur nell'assoluta continuit rispetto al periodo precedente. L'opera verista ripresenta infatti tutti gli ingredienti musicali della Grande Opera, solo in una veste pi povera e, in genere, pi rozza: l'orchestra pesante, la vocalit estroversa, tutta impennate, precipizi ed urli (fino al ricorso al parlato), la melodia spianata e sfogata, le violinate, le perorazioni. Per non parlare dell'armamentario, ancora pi antiquato, di effetti orchestrali associati ai momenti di massima tensione drammatica: tremoli, sforzati, accordi ribattuti e Settime diminuite a non finire. Il tutto con un'approssimazione formale che all'epoca sembr sinonimo di verit.

Lo stesso autore d'altronde non si riconobbe mai nella poetica di Cavalleria, che aveva imbastito in fretta per partecipare al Concorso Sonzogno e che sar insieme la sua fortuna e la sua disgrazia; per tutta la vita infatti Mascagni affider le sue ambizioni artistiche a lavori di tutt'altro genere, per sentirsi puntualmente ribattere che quell'operina scritta alla buona era ben altra cosa.

Un po' diverso il caso dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892), l'opera destinata a far coppia con Cavalleria per completare la durata di uno spettacolo teatrale. Leoncavallo letterato e autore dei libretti delle sue opere, oltre che compositore prese molto sul serio la poetica del vero, tanto da esporla a chiare lettere durante il prologo:

Tonio (in costume di Taddeo come nella commedia, passando attraverso il telone).

Si pu? (poi salutando) Signore! Signori! Scusatemi

Se da sol mi presento Io sono il Prologo.

Poich in iscena ancor le antiche maschere

Mette l'autore, in parte ei vuol riprendere

Le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami.

Ma non per dirvi come pria: Le lagrime

Che noi versiam son false! Degli spasimi

E dei nostri martir non allarmatevi!

No. L'autore ha cercato invece di pingervi

Uno squarcio di vita. Egli ha per massima

Sol che l'artista un uomo e che per gli uomini

Scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.

Un nido di memorie in fondo a l'anima

Cantava un giorno ed ei con vere lacrime

Scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano!

Dunque, vedrete amar s come s'amano

Gli esseri umani; vedrete de l'odio

I tristi frutti. Del dolor gli spasimi,

Urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!

E voi, piuttosto che le nostre povere

Gabbane d'istrioni, le nostr'anime

Considerate, poich noi siam uomini

Di carne ed ossa, e che di quest'orfano

Mondo al par di voi spiriamo l'aere!

Il concetto vi dissi. Ora ascoltate

Com'egli svolto.

(gridando verso la scena)

Andiamo. Incominciate!

In questi anni musicisti e librettisti sentono sempre pi forte l'esigenza di sostenere le loro opere mediante le stampelle di enfatici proclami teorici e ingenue dichiarazioni di poetica, tipo quella contenuta nel prologo dei Pagliacci, che, se interessano poco il grande pubblico, valgono per a catturare l'attenzione degli intellettuali italiani, in una realt culturale che si sta facendo sempre pi provinciale.

Nel caso dei Pagliacci l'elemento pi interessante per costituito dall'impiego del teatro nel teatro (in linguaggio tecnico: metateatro). Gi nel prologo, Tonio appare vestito in costume da comico, e lo stesso delitto di gelosia, alla fine dell'opera, passa dal palcoscenico alla vita: prima preparato durante il battibecco tra Pagliaccio (interpretato da Canio) e Colombina (interpretato da Nedda); poi messo in atto nelle coltellate con cui Canio ammazza prima Nedda e poi il suo amante Silvio. Tutto questo, al di l dei significati che Leoncavallo gli attribuisce, se non altro teatrale e il procedimento avr fortuna, ripreso in particolare da Francesco Cilea in Adriana Lecouvreur (1902). Gi in Marion Delorme d'altronde l'ultima opera di Ponchielli troviamo una compagnia itinerante di comici che prova il suo spettacolo e nella quale si nascondono due amanti ricercati dalla polizia. Nulla di nuovo, insomma, tanto pi che il metateatro figlio naturale della musica di scena

Se ci spostiamo di qualche anno e prendiamo in considerazione le opere veriste a cavallo tra Ottocento e Novecento il gioco si fa ancora pi scoperto: conclusa la breve stagione dell'opera dei bassifondi, tornano infatti i soggetti storici, le opere lunghe, spesso in quattro atti, e persino le azioni coreografiche. Insomma torna in modo esplicito il modello della Grande Opera, sia pure con tempi teatrali pi rapidi e soprattutto con un linguaggio librettistico non pi aulico bens preso dalla quotidianit, magari con qualche approssimazione. il caso di Andrea Chenier di Umberto Giordano (1896) e della gi menzionata Adriana Lecouvreur: due opere ambientate nella Francia del Settecento e che tuttavia il pubblico continu a sentire come veriste..

In definitiva, la vera differenza tra Grande Opera e melodramma verista non va cercata tanto nella musica quanto nei libretti: nella loro forma e nel loro linguaggio (vedi capitolo seguente).

I compositori che hanno legato il loro nome all'opera verista continuano a lavorare anche nel corso del Novecento, sia pure con successo sempre minore. Leoncavallo, dopo il fallimento del tentativo ambiziosissimo di creare una trilogia storica intitolata Crepusculum, da contrapporre niente meno che alla tetralogia wagneriana, si dedica prevalentemente al teatro leggero, componendo parecchie operette (cio, dal punto di vista formale, opere con dialoghi parlati). Cilea abbandona il teatro gi nel 1907, dopo il fallimento di Gloria: sopravviver fino alle met del secolo, recriminando sulle congiure editoriali che avrebbero penalizzato le sue opere, impedendogli di continuare a scrivere per il teatro.

Giordano e Mascagni invece continuano a comporre per il teatro ancora a lungo, sostenuti dal regime fascista (per il quale il primo comporr l'Inno del decennale), sopravvivendo di fatto a se stessi. Dopo il successo autentico e spontaneo di Cavalleria rusticana, Mascagni prese (o meglio riprese) la via dell'intellettualismo, sostenuto da parte dell'intellighenzia italiana. Un solo esempio: il 17 gennaio 1901 la prima assoluta delle Maschere, con la quale egli si era posto l'ambizioso obiettivo di riportare in vita il teatro musicale comico, mobilita tutta l'Italia. La nuova opera va in scena contemporaneamente in sei teatri (Genova, Carlo Felice; Milano, Scala, diretta da Toscanini; Roma, Costanzi, diretta da Mascagni; Torino, Regio; Venezia, La Fenice; Verona, Filarmonico), mentre a Napoli l'indisposizione del tenore fa slittare di due giorni la rappresentazione. Eppure un flop: il colossale battage pubblicitario non fa effetto e l'opera scompare dalle scene. Quattro giorni dopo per muore Verdi.

L'autore, qualche anno dopo, difender a spada tratta il suo lavoro in un lungo articolo pubblicato sulla Perseveranza:

Credo fermamente nella bont del tentativo e delle ragioni che lo ispirano. Perch, cosa sono in fondo queste Maschere? Che cosa vogliono rappresentare nel teatro contemporaneo, se non un ritorno alla buona serenit della nostra grande tradizione e al sorriso della Commedia dell'Arte? Noi autori, sulla scena, non sappiamo pi ridere: si direbbe che la meravigliosa vena dell'umorismo italiano si sia disseccata con Rossini. Io sono stato preso dalla nostalgia di quel bel riso immortale e ne ho tentata una rievocazione. Illica mi comprese e mettemmo insieme Le maschere, ossia i simboli dello spirito italico, sano, autentico, col commento di una rivisitazione satirica degli stili musicali di tutti i tempi, da Mozart fino ad oggi. [] Far risorgere la Commedia dell'Arte mi pareva e mi pare compito degno di un artista di coscienza. Rossini, il grande ottimista del nostro teatro, non aveva forse col Babiere di Siviglia attinto alle sorgenti pi pure della Commedia dell'Arte? E perch dopo di lui nessuno di noi deve tentar di aprire sull'ambiente fosco del teatro contemporaneo uno spiraglio a quel sorriso, a quella satira gioiosa e serena che riallacci la nostra attivit alla tradizione di gloria? Il pubblico fu sorpreso, disorientato. Nessuno lo aveva preparato ad accogliere questa rinnovata forma di commedia musicale. []

A parte il silenzio su Falstaff e le due perle storiografiche di far iniziare la storia degli stili musicali di tutti tempi da Mozart e di inserire il teatro realistico di Beaumarchais (da cui fu tratto Il barbiere di Siviglia) nel campo della Commedia dell'Arte ... il tono dell'articolo, serioso e retorico, spiega da solo perch l'umorismo di Mascagni non sia passato alla storia.

Pi in generale, sul teatro musicale di Mascagni pesano i limiti culturali e spirituali della persona. Mascagni aveva pi fantasia che gusto, anche e soprattutto nella scelta dei soggetti. Baster ricordare due giudizi autorevoli, il primo sul libretto di Iris (1898), il secondo su quello dell'Amico Fritz (1891):

Per me quest'opera che ha in s tante cose belle e uno strumentale dei pi smaglianti e coloriti, ha il difetto d'origine: l'azione che non interessa e si diluisce e langue per tre atti. Per conseguenza se anche Domineddio avesse musicato tale libretto, non avrebbe fatto di pi di quello che ha fatto Pietro. Tu che gli sei amico vero, digli che ritorni alla passione, al sentimento vivo, umano, col quale inizi tanto brillantemente la sua carriera. (lettera di giacomo Puccini ad Alberto Crecchi, 21 gennaio 1899)

Vi ringrazio della musica del Fritz che m'avete mandato. Ho letto in vita mia molti moltissimi libretti cattivi, ma non ho mai letto un libretto scemo come questo. (lettera di Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi, 6 novembre 1891)

IL LIBRETTO

Ho voluto legare la trattazione monografica di quest'argomento con una fase storica quella appunto della transizione nella quale il libretto d'opera torna ad assumere un ruolo importante e una dignit artistica.

All'inizio dell'Ottocento, come si visto, i libretti sono convenzionali e in molti casi addirittura riciclati (secondo la tradizione settecentesca). Il libretto dell'Italiana in Algeri di Rossini, scritto da Angelo Anelli, era stato ad esempio gi messo in musica da Luigi Mosca.

Si ricorder anche che con Bellini e Verdi il compositore prende in mano, se non concretamente la penna (come far presto Wagner in Germania), almeno le redini della drammaturgia: il librettista diventa cos una sorta di estensione letteraria del musicista.

Questa situazione cambia radicalmente con Arrigo Boito, che da un lato scrive personalmente i libretti delle sue opere e dall'altro restituisce dignit e ambizioni artistiche al testo poetico in quanto tale. Per cogliere le novit che egli introdusse bisogna per fare un passo indietro e vedere com'era fatto un libretto nella prima met dell'Ottocento.

Il libretto nell'opera convenzionale del primo Ottocento

Sfogliando un libretto e uno spartito d'opera dei primi decenni dell'Ottocento balza all'occhio una differenza fondamentale nella struttura: lo spartito diviso in Numeri, il libretto in Scene. Dev'essere chiaro che tra Numero e Scena non esiste alcuna relazione: un Numero una sequenza di episodi musicali che crea un'unit formale e drammatica; la Scena semplicemente un'episodio durante il quale agisce sulla scena un numero costante di personaggi: l'ingresso di un nuovo personaggio d sempre inizio ad una nuova scena, ma non a un nuovo Numero musicale.

Questi due concetti non vanno a loro volta confusi con il concetto di Quadro, cio di insieme dei Numeri o delle Scene che si svolgono in un'unico luogo.

Un poeta che all'inizio del secolo si disponeva a scrivere un libretto doveva innanzitutto tener conto delle convenzioni teatrali: doveva cio presentare adeguatamente i singoli personaggi principali, con i relativi interpreti, e fornire al compositore una successione di episodi poetici che gli consentissero di comporre assecondando le forme convenzionali e, in particolare, la Solita forma. Ci significa ad esempio che una Cabaletta tale gi nel libretto. In un libretto, ci che differenzia, e quindi consente di individuare, le varie sezioni dei Numeri musicali la forma strofica e metrica dei versi: i recitativi si svolgevano sempre in versi sciolti (Endecasillabi + Settenari) senza divisione strofica; il Cantabile e la Cabaletta corrispondevano invece a strutture strofiche (ad esempio Ottave o Sestine) di versi lirici, cio basati su un unico metro, con grande prevalenza di Settenari e Ottonari e, in seconda battuta, Decasillabi e Senari.

Uno dei grandi cambiamenti introdotti durante la transizione riguarda appunto i metri utilizzati.

La formula per calcolare il metro di un verso

Si contano le sillabe fino all'ultima accentata e si aggiunge 1.

Esempio:

Spargi d'amaro PINto

In quelle trine MRbide

Gridando liberT

sono tutti e tre versi settenari, anche se il primo composto da sette sillabe, il secondo da otto e il terzo da sei. L'ultimo accento si trova comunque sulla sesta sillaba. Nel primo caso si parla di verso piano, nel secondo di verso sdrucciolo, nel terzo di verso tronco.

Attenzione all'elisione tra le vocali:

Ecco ridente in cielo

a sua volta un settenario perch te e in si contano (e si pronunciano) come un'unica sillaba.

Il metro

Ogni metro poetico porta con s un ritmo musicale e quindi, specie col decadere del canto fiorito e melismatico, condiziona profondamente la condotta della melodia. Metri uguali significa spesso melodie simili. Verdi e Ponchielli avvertirono fortemente l'esigenza di abbandonare i metri consueti per restituire freschezza e variet alla melodia. Nel 1885 Ponchielli scrisse ad Antonio Ghislanzoni, col quale stava collaborando al rifacimento della sua ultima opera, Marion Delorme:

Caro Ghislanzoni,

assolutamente indispensabile che tu per quella benedetta Aria di Saverny mi trovi qualche cosa di diverso, perch altrimenti io non so a qual Santo appigliarmi. Ci vuole qualcosa d'impari, di strano, d'impossibile, ma ci necessario perch'io possa trovare per movimento un'idea originale.

Per trovare la melodia nuova occorrono dunque nuovi metri e, sotto questo profilo, le soluzioni pi innovative e sperimentali sono introdotte da Boito, il quale amplia il ventaglio dei metri utilizzati, fino a comprendere versi brevissimi (nel Prologo di Mefistofele i Cherubini cantano una strofa di trisillabi) e il famigerato Novenario, ovvero il verso che la letteratura italiana aveva messo al bando sin dall'epoca di Dante, a causa della musicalit cantilenante che lo contraddistingue (l'esempio tratto da Mefistofele e gli accenti naturalmente li ho aggiunti io):

Lontno lontno lontno

Sui fltti d'un mpio oceno,

Fra i rridi efflvi del mar,

Fra l'lghe, fra i fir, fra le plme,

Il prto dell'ntime clme,

L'azzrra isoltta m'appr.

[]

Sempre in Mefistofele troviamo impiegati i versi quantitativi (vedi le Attivit), mentre manca ancora quasi del tutto l'endecasillabo (tranne ovviamente che nei recitativi), da sempre considerato il verso nobile della metrica italiana, in virt della straordinaria variet di posizioni che gli accenti vi possono assumere. Proprio questo suo pregio aveva tuttavia dissuaso i compositori italiani ad impiegare l'endecasillabo nelle sezioni liriche, per non dover rinunciare a quella regolarit e simmetria di fraseggio che era un requisito essenziale dell'opera di tradizione rossiniana.

A partire dagli anni Novanta i libretti, abbandonate le bizzarrie metriche di Boito e dei poeti scapigliati, sono dominati dagli endecasillabi sciolti (cio endecasillabi mischiati ai settenari), che i compositori usano con disinvoltura, tagliando e modificando il testo a loro discrezione. Accade cos che libretto e spartito a stampa mostrino spesso differenze notevoli, in quanto il primo viene pubblicato nella forma stabilita non dal compositore ma dal poeta, la cui reputazione letteraria viene in tal modo difesa dagli stravolgimenti metrici e strofici imposti dal musicista.

Ecco ad esempio il testo del cantabile Qual'occhio al mondo pu star di paro, nel duetto TenoreSoprano nel primo atto di Tosca (1900), come appare nello spartito e nel libretto:

Qual'occhio al mondo pu star di paro all'ardente occhio tuo nero? qui che l'esser mio s'affisa intero: occhio all'amor soave, all'ira fiero. Qual'altro al mondo pu star di paro all'occhio tuo nero?

Qual'occhio al mondo mai pu star di paro

Al limpido ed ardente occhio tuo nero?

In quale mai dell'anima il mistero

Si rivel pi subito e pi chiaro?

questo il desato questo il caro

Occhio ove l'esser mio s'affisa intero.

Occhio all'amor soave, all'ira fiero.

Quale altro al mondo ti pu star di paro?

Rarissima, nonch tarda, la presenza nella tradizione operistica italiana di quella che gli studiosi tedeschi chiamano Literaturoper, cio di opere composte su testi letterari preesistenti. il caso di Guglielmo Ratcliff di Mascagni, completata nel 1895 ma iniziata gi prima di Cavalleria rusticana: basata su una traduzione italiana del dramma di Heinrich Heine; o di Francesca da Rimini (1914) di Riccardo Zandonai, sul testo della tragedia dannunziana, sia pure sfrondato dall'editore Tito Ricordi.

La lingua dei libretti italiani dell'Ottocento

Inizialmente la lingua del classicismo; poi, man mano che si affermano i soggetti storici, diventa una lingua quasi virtuale, pi diretta ma costellata di vocaboli ed espressioni auliche in disuso.

Felice Romani forse il verseggiatore pi elegante della fase classicista, abbastanza affine a Vincenzo Monti. Ecco un esempio tratto dall'Elisir d'amore:

Chiedi all'aura lusinghiera

Perch vola senza posa

Or sul giglio, or sulla rosa,

Or sul prato, or sul ruscel:

Ti dir che in lei natura

L'esser mobile e infedel.

[]

Chiedi al rio perch gemente

Dalla balza ov'ebbe vita

Corre al mar che a s l'invita,

E nel mar sen va a morir:

Ti dir che lo trascina

un poter che non sa dir.

Salvatore Cammarano l'esponente tipico del nuovo gusto che si afferma a partire dagli anni Trenta. Qui il riferimento piuttosto al Manzoni poeta: le immagini sono molto pi scolpite, ma si persa ogni grazia. Da Roberto Devereux:

Quel sangue versato / Al cielo s'innalza

Giustizia domanda, / Reclama vendetta:

Gi l'angiol di morte / Fremente v'incalza,

Supplizio inaudito / Entrambi v'aspetta.

S vil tradimento, / Delitto s reo

Clemenza non merta, / Non merta piet.

Nell'ultimo istante / Volgetevi a Dio

Che forse perdono / Conceder potr.

[]

Mirate: quel palco / Di sangue rosseggia

tutto di sangue / Quel serto bagnato.

Un orrido spettro / Percorre la reggia

Tenendo nel pugno / Il capo troncato.

Di gemiti e grida / Il cielo rimbomba,

Pallente del giorno / La luce si f.

Ov'era il mio trono / S'innalza una tomba

In quella discendo / Fu schiusa per me.

Verdi come si visto fa il possibile per rendere pi immediato il linguaggio dei suoi libretti, a costo di sacrificare la qualit dei versi.

La svolta, anche in questo caso, arriva con Boito. Nei suoi libretti la lingua dell'opera, con tutti i suoi stereotipi e la sua distanza dalla lingua parlata, diventa qualcosa di programmaticamente finto. Il lessico di Boito ora troppo colto, ora al contrario troppo gergale. Mefistofele, rivolgendosi a Dio, intona dei versi che riflettono esattamente la poetica dell'autore (ho aggiunto i due colori per indicare i poli di questa dialettica):

Ave Signor. Perdona se il mio gergo

Si lascia un po' da tergo

Le superne teode del paradiso;

Perdona se il mio viso

Non porta il raggio che inghirlanda i crini

Degli alti cherubini;

Perdona se dicendo io corro rischio

Di buscar qualche fischio:

Il Dio piccin della piccina terra

Ognor traligna ed erra,

E, al par di grillo saltellante, a caso

Spinge fra gli astri il naso,

Poi con tenace fatuit superba

Fa il suo trillo nell'erba.

Boriosa polve! Tracotato atmo!

Fantasima dell'uomo!

E tale il fa quell'ebra illusone

Ch'egli chiama Ragione.

S, Maestro divino, in bujo fondo

Crolla il padron del mondo,

E non mi d pi il cuor, tanto fiaccato,

Di tentarlo al peccato.

L'autore (in questo caso il poeta) finisce cos per diventare protagonista dell'opera, o incarnandosi in personaggi che assumono il ruolo di registi della vicenda: Mefistofele, Barnaba (La Gioconda), Jago (Otello); oppure sostituendo il proprio linguaggio a quello dei personaggi o dei gruppi corali. I mozzi che appaiono nel secondo atto della Gioconda, ad esempio, anzich partecipare all'azione e utilizzare un linguaggio adeguato alla loro et e alla loro condizione sociale, si limitano a descrivere se stessi col linguaggio caratteristico di Boito. Parlano in prima persona, ma come se parlassero in terza:

Siam qui sui culmini,

Siam sulla borda,

Siam sulle tremule

Scale di corda.

Guardate gli agili

Mozzi saltar;

Noi gli scoiattoli

Siamo del mar.

[]

In mezzo ai fulmini

Della tempesta,

Noi tra le nuvole

Tuffiam la testa.

Come sugli alberi

D'una foresta,

Osiam le pendule

Sarte scalar.

Noi gli scoiattoli

Siamo del mar.

In questo modo Boito reintroduce nella drammaturgia, per la prima volta dall'epoca di Rossini (dove tuttavia questo compito era affidato alla musica), il fattore straniamento. I suoi versi, pieni di spirito e di fantasia, inducono lo spettatore a guardare la vicenda con partecipazione distaccata. Esattamente l'opposto di quello che accadr, dall'inizio degli anni Novanta, con l'opera verista.

Perduta di nuovo ogni autentica velleit letteraria, i libretti dell'ultimo decennio del secolo puntano, piuttosto che sulla qualit del verso, sulle trovate drammaturgiche; Luigi Illica, l'esponente di spicco di questa nuova generazione di librettisti, rimasto celebre per le minuziose e lunghissime didascalie, mentre sul piano poetico ... basta dire che il collega Giuseppe Giacosa definiva scherzosamente i suoi versi illicasillabi, tanto incerta era la loro identit metrica.

In questi anni s'impone l'endecasillabo sciolto, ovvero il verso pi vicino alla prosa, impiegato nelle sezioni dialogiche ma spesso anche nelle romanze.

NB: Vi ricordo che Agostino Bortot ha messo nel Forum un brano su questo argomento tratto dal libro di Lorenzo Bianconi, Il teatro d'opera in Italia.

Un libro, tra l'altro, che consiglio a tutti: aggiornato, miracolosamente breve (86 pagine di testo), non difficile e ben scritto.

LETTURE

1) Re Orso

il lavoro letterario pi impegnativo del giovane Boito, pubblicato nel 1865. Si tratta di un bizzarro poemetto nel quale si racconta la storia del sanguinario Re Orso, che sarebbe vissuto prima dell'anno 1000 e che, nel compiere le sue nefandezze, viveva ossessionato da una quartina di versi: Re Orso / Ti schermi / Dal morso / De' vermi!. Dopo aver fatto uccidere il giullare Papiol, la schiava Oliba e il boia Trol, in punto di morte Re Orso si confessa e viene seppellito con tutti gli onori. A questo punto inizia il lungo viaggio del verme che il re, un lontano giorno, aveva calpestato. Dopo aver attraversato mari e monti il verme raggiunge il sarcofago e, approfittando di una serie di forellini, passa la lapide, il feretro, il sudario e finalmente si vendica di Re Orso.

Al di l del gusto per il macabro, tipico della Scapigliatura, illuminante la conclusione (che ho riportato insieme al preambolo): Boito ci avverte che tutto questo non vuol significare assolutamente nulla e, di conseguenza, invita il lettore a giocarsi al lotto i personaggi della storia.

Come sempre in Boito, la dissacrazione va a braccetto con lo scherzo.

Esordio

Pulzelle e pinzochere fantesche e comari

Che andate per vespero biasciando rosari,

Se avete dell'anima cristiano pensiero,

Se il prete vi predica l'eterno Avversiero,

Temete di leggere la pagina orrenda

Di questa leggenda.

Fanciulli, omiciattoli vecchiardi ed impubi

Se sotto le coltrici v'affogan gl'incbi,

Se a notte col moccolo giuzzante allo scuro,

Vedete dipingersi di scheletri il muro,

Temete di leggere la pagina orrenda

Di questa leggenda.

Voi nonne, voi balie che in lunghe parole,

Narrate pei bamboli le magiche fole,

Se in sogno v'assalgono sudate visioni

Di lamie e mandragore di spettri e demoni,

Temete di leggere la pagina orrenda

Di questa leggenda.

[]

Morale

N savio motto n aforismo dotto,

N sermo o perno di morale eterno

Niuno cerchi da me.

Sol lo strambo quaderno un ambo o un terno

Pu dar di botto per chi giuoca al lotto.

Dunque ascoltate l'ambo e il terno c':

Un boja e un frate un gobbo, un verme e un re.

2) Verdi e Ponchielli

Lettera di Giuseppe Verdi ad Opprandino Arrivabene, 5 febbraio 1876

[] Di quelli che conosco io quello che pu far meglio Ponchielli, ma ahim, non pi giovane, credo sia sulla quarantina ed ha visto e sentito troppo. Tu sai le mie opinioni sul sentir troppo te ne dissi a Firenze. Quando i giovani si saranno accorti che non bisogna cercar la luce n in Mendelson [sic], n in Chopin, n in Gounod allora forse troveranno. cosa per curiosa che prendano a modello pel Dramma gli Autori che non son drammatici. Tu sarai sorpreso che io parli in tal modo dell'autore del Faust! Che vuoi che ti dica: Gounod un grandissimo musicista, il primo Maestro di Francia, ma non ha fibra drammatica. Musica stupenda, simpatica, dettagli magnifici, ben espressa quasi sempre la parola... intendiamoci bene, la parola, non la situazione []

3) Ponchielli, Boito e il libretto della Gioconda

Amilcare Ponchielli a Formesi, 3 giugno 1875

Ora ad altro. Io sto occupandomi per questa Gioconda, ma t'assicuro che pi di cento volte al giorno sono tentato di desistere; le cause sono molte.

La prima che non ho fiducia nel libretto, troppo difficile, e forse non confacente alla mia maniera di scrivere.

Siccome poi io sono per natura incontentabile, qui lo sono doppiamente, atteso la frequente e troppo elevatezza dei concetti, del verso, e difficolt di forme, non trovando quelle idee che io vorrei. una cosa inconcepibile ma trovo in me pi scorrevolezza quando il verso comune. Vi sono dei momenti che mi pare di non essere pi capace di accozzare un'idea, e di non aver pi fantasia. un fatto per che presentemente io dovevo attenermi ad altro libretto od altro poeta, che scrivesse non per suo conto ma per il Maestro. Avrei fatto pi presto e cos potevo compromettermi per il Carnevale o Quaresima, cos non lo posso. impossibile. Aggiungi che la parte destinata per la Mariani tutt'altro che pel suo genere. Per la Mariani ci vuol canto spianato,... qui nella parte di Gioconda tutta ira, gelosia, suicidio, veleno, e l'accidente che porti tutte le esagerazioni, introdotte in questi ultimi tempi, per le quali un cantante costretto alla nota e parola, agli sforzi di gola dovendo declamare e gracchiare continuamente. Siamo fuori di strada caro mio, Verdi che dice: tornate all'antico, dovrebbe lui dar l'esempio, cos non si sa dove si va a finire.

Chiudo per paura di dire bestialit, ancora l'ultima.

Il pubblico vuole note lisce, piane, melodia, chiarezza e noi facciamo di tutto per ingolfarci nella confusione colle complicazioni. Chi mi d al presente una spinta terribile Boito. Ma spero che avr giudizio sufficiente onde scorgere l'abisso. Allora mi fermer e prender il libretto e lo metter nell'ultimo cassettone del mio cum.

4) Il mondo dell'opera italiana alla fine degli anni '70 secondo Ponchielli

Amilcare Ponchielli a Carlo D'Ormeville, 29 marzo 1877

Io per quanto faccia bene, non sono mai convinto di ci che scrivo, e se ti dovessi dire se sono contento della musica del Prologo, sarebbe cosa contro me stesso. Caro mio, sono spaventato per le esigenze attuali d'oggi giorno e per i continui fuochi ai quali siamo in mezzo sempre. Partiti d'editori, perci sempre due o tre giornali che t'ammazzano, gusti differenti nel pubblico. Una parte di questi per essere intelligente vuole un genere che s'avvicina al severo, al classico, al sinfonico per cos dire, trova spesso che questo o quello triviale, guai se t'abbandoni in qualche punto alla popolarit robaccia!

Altra porzione di queste immense teste ne capisce ben poco, ed affatto di gusto opposto. Se poi guardiamo a certe montature, a certi delirj d'entusiasmo per taluni che vogliono ad ogni costo alle stelle, un affar serio.