69726075 tutta immunologia
TRANSCRIPT
1
IMMUNITÀ INNATA Esistono due tipi di immunità:
-‐ Innata: comprende una serie di difese contro infezioni che sono pronte già prima dell’attacco del patogeno.
-‐ Acquisita: è indotta dall’esposizione agli agenti microbici e si contrappone all’infezione con una risposta altamente specifica.
L’immunità innata consta di: Barriere di tipo fisico Barriere di tipo chimico Barriere di tipo cellulare Barriere di tipo fisico
-‐ Cute -‐ Mucose (occhi, tratto respiratorio, gastrointestinale, genitourinario)
Queste strutture isolano l’organismo dall’ambiente esterno. Si tratta qualcosa di più che semplici rivestimenti passivi. Esempi:
-‐ Cute: produce la psioriasina, proteina con potente attività antibatterica contro E. Coli. -‐ Mucose: sostanze prodotte da esse (saliva, lacrime, secrezioni) lavano via potenziali invasori e
contengono sostanze antibatteriche e antivirali. Inoltre, la presenza di organismi non patogenici che colonizzano le mucose fa si che eventuali invasori debbano competere con essi per siti di adesione e per i nutrienti.
-‐ Tratto respiratorio: il muco intrappola agenti estranei; le ciglia producono, nel muco, correnti che espellono i microrganismi intrappolati.
-‐ Stomaco: ambiente acido e ricco di enzimi digestivi. Barriere di tipo chimico
-‐ Molecole solubili con attività microbicida -‐ Acidità del contenuto gastrico
Barriere di tipo cellulare Le superfici di particolari cellule sono dotate di specifici recettori in grado di rilevare prodotti microbici e di innescare il contrattacco. In ogni caso, agenti patogeni possono penetrare nell’organismo in diversi modi:
-‐ Per mezzo di lesioni cutanee -‐ Attraverso le mucose; alcuni microrganismi, infatti, si sono evoluti in modo da riuscire a oltrepassare le
barriere mucose. Quando questo accade, i recettori dell’immunità innata svolgono un ruolo cruciale nel riconoscere l’infezione e scatenare contro di essa una risposta adeguata. Il primo evento di rilevazione si verifica quando l’invasore interagisce con molecole solubili o di membrana dell’ospite, le quali sono capaci di discriminare precisamente tra self e non self. Questi recettori sono definiti PRR (pattern recognition receptor) e sono in grado di interagire con i PAMP (pathogen-‐associated molecular pattern) presenti sui patogeni. I PAMP comprendono:
-‐ Combinazioni di zuccheri -‐ Proteine -‐ Molecole contenenti lipidi -‐ Acidi nucleici
In ogni caso si tratta di strutture molto conservate nelle specie microbiche perché necessarie alla stessa sopravvivenza dell’organismo.
2 La capacità di discriminare tra self e non self dei PRR è priva di errori, poiché lo spettro riconosciuto è presente solo nei patogeni, ma non nell’ospite. Al contrario, il riconoscimento tipico dell’immunità acquisita (Ab e TCR) può occasionalmente agire contro strutture tipiche self a causa della specificità estremamente sofisticata che lo caratterizza. In questi casi si manifesta una malattia autoimmune. ✣ RECETTORI DELL’IMMUNITÀ INNATA ✣
-‐ Di membrana (presenti sulle cellule dell’immunità innata: neutrofili, DC, macrofagi, NK) -‐ Solubili
RECETTORI DI MEMBRANA CHE MEDIANO LA FAGOCITOSI
1. Recettori per il mannoso. Appartengono alla famiglia delle C-‐lectine. Riconoscono strutture zuccherine (glicoproteine o glicolipidi) attraverso un legame Ca2+ dipendente. Riconoscono anche componenti self alterati da eliminare.
2. Recettori scavanger (CD36). Riconoscono strutture lipidiche e componenti self alterate (lipoproteine ossidate o acetilate, cellule apoptotiche).
3. Recettori per opsonine. Riconoscono porzione Fc delle Ig: CD16, CD32, CD64, rispettivamente a bassa, media, alta affinità. Riconoscono frammento C3b del complemento: CR1 Riconoscono la MBL
RECETTORI DI MEMBRANA CHE ATTIVANO LA CELLULA
1. Recettori 7 TM accoppiati a proteine G. Riconoscono molecole con funzione chemotattica, come:
-‐ chemochine -‐ prodotti intermedi del complemento (anafilotossine: frammenti C3a e C5a) -‐ N-‐formil peptidi prodotti dalla degradazione di proteine batteriche durante l’infezione Il legame del recettore con il ligando attiva la fosfolipasi C; si verifica un aumento della concentrazione del Ca2+ intracellulare; si attiva la PKC; si hanno polimerizzazione della actina e modificazioni nel citoscheletro che consentono una maggiore mobilità della cellula.
2. Recettori di tipo Toll (TLR, toll like receptor). Sono espressi non solo dalle cellule dell’immunità innata, ma anche dalle cellule endoteliali e delle mucose. Presentano comuni elementi strutturali sia nella regione extracellulare, sia in quella intracellulare. La regione extracellulare è caratterizzata da ripetizioni ricche in leucina (LLR), domini di 24-‐29 amminoacidi con la sequenza xLxxLxLxx. La regione intracellulare è detta TIR (recettore Toll-‐IL1) in relazione all’omologia tra la porzione citoplasmatica dei Toll e del recettore dell’IL1; i segmenti TIR presentano siti altamente conservati (box 1, 2, 3) che rappresentano siti di legame per proteine di trasduzione. I ligandi dei TLR sono componenti essenziali dei patogeni (PAMP): un virus non può esistere senza il suo acido nucleico, un batterio GRAM-‐ non può esistere senza LPS nella parete cellulare, un fungo non può esistere senza il polisaccaride zimosan nella sua parete. I TLR umani sono 11 e ne esistono di extracellulari (inseriti nella membrana plasmatica) ed intracellulari (inserite nella membrana di compartimenti intracellulari) a seconda del ligando che riconoscono. I TLR 1, 2, 4, 6 funzionano in forma di dimeri. La dimerizzazione influisce sulla specificità, infatti: -‐ il dimero TLR 2 – TLR 1 riconosce lipoproteine batteriche e proteine di membrana di parassiti -‐ il dimero TLR 2 – TLR 6 riconosce diverse molecole microbiche, zimosan, lipoproteine batteriche.
3
TLR EXTRACELLULARE
LIGANDI MICROBI BERSAGLIO
TLR1 Triacil lipopeptidi
Micobatteri
TLR2 Peptidoglicani Proteine con ponte GPI Lipoproteine Zimosan
Batteri GRAM+ Tripanosomi Micobatteri Lieviti e altri funghi
TLR4 LPS Proteina F
Batteri GRAM-‐ Virus respiratorio sinciziale
TLR5 Flagellina
Batteri
TLR6 Diacil lipopeptidi Zimosan
Micobatteri Lieviti e altri funghi
TLR INTRACELLULARE LIGANDI
MICROBI BERSAGLIO
TLR3 RNA a doppio filamento
Virus
TLR7 RNA a singolo filamento
Virus
TLR8 RNA a singolo filamento
Virus
TLR9 Dinucleotidi CpG non metilati Dinucleotidi Infezione da herpes virus
Batteri Alcuni herpes virus
TLR 10 e 11 Non noto Non noto RECETTORI SOLUBILI
1. Peptidi con attività microbicida. Le defensine umane, ad esempio, sono peptidi cationici di 29-‐35 amminoacidi con 6 cisteine invarianti che stabilizzano la molecola mediante ponti disolfuro; uccidono una gran varietà di batteri (come Streptococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, E. Coli, Haemophilus influenzae) alterando, solitamente, la struttura delle membrane microbiche. Questi peptidi sono prodotti da svariati tipi cellulari: neutrofili, cellule di Paneth dell’intestino (rilasciano defensine nel lume intestinale), cellule epiteliali del pancreas e del rene (rilasciano defensine nel siero).
2. Fattori del complemento. Sono in grado di lisare ed opsonizzare i patogeni.
3. Collectine. Sono così chiamate perché presentano un dominio lectinico ed uno collagene. Queste proteine
non hanno un’elevata affinità per il ligando, perciò spesso si assemblano a formare strutture multimeriche con più siti di legame per compensare questo difetto. La più importante collectina è la MBL (lectina legante il mannoso), che attiva la via MB-‐lectinica del complemento; essa agisce formando esameri. Sono collectine anche le proteine surfactanti polmonari (SP-‐A e SP-‐B) presenti nel liquido alveolare; esse sono in grado di opsonizzare i patogeni facilitando la loro cattura da parte dei macrofagi alveolari che presentano specifici recettori per SP.
4. Pentraxine. Appartengono alle cosiddette “proteine di fase acuta” prodotte principalmente dall’epatocita
sempre in risposta alle citochine proinfiammatorie TNFα, IL1 e IL6, rilasciate dai fagociti nelle fasi più precoci dell’infezione e dell’infiammazione. Si distinguono pentraxine corte e pentraxine lunghe.
4 Pentraxine corte. Vi appartengono la proteina C reattiva (CRP) e la proteina sieramiloide P (SAP). Sono prodotte esclusivamente dal fegato. La CRP riconosce polisaccaridi presenti sulle superfici di pneumococchi e la fosforilcolina presente sulla superficie di numerosi agenti microbici. Agisce favorendo la captazione di questi microbi da parte dei fagociti e promuovendo il loro attacco da parte del complemento. La CRP media anche il riconoscimento di cellule apoptotiche.
Pentraxine lunghe. Individuate più recentemente, vi appartiene la PTX3, prodotta a livello dei tessuti periferici da cellule endoteliali e dell’immunità innata. Interagiscono con funghi batteri e cellule apoptotiche riconoscendo specificità diverse da quelle riconosciute dalle pentraxine corte. Agiscono legando C1q e determinando quindi l’attivazione del complemento. Entrano in gioco anche nella rigenerazione tissutale.
5. Lipopolisaccaride binding protein (LBP). Agisce contro LPS presente sulla parte esterna della parete cellulare dei batteri GRAM-‐.
SENSORI CITOPLASMATICI
1. Famiglia NOD. NOD1 riconosce prodotti tripeptidici provenienti dalla degradazione dei peptidoglicani batterici. NOD2 riconosce il muramil dipeptide proveniente dalla degradazione del peptidoglicano della parete cellulare di batteri GRAM+. Hanno una struttura simile ai TLR, con domini ricchi in leucina e dominio TIR, ma, essendo privi di porzione idrofobica, non vengono inseriti in membrana. Sono utili nel momento in cui i prodotti della degradazione lisosomiale diventino accessibili al citoplasma.
2. Famiglia CARD.
Vi appartengono RIG-‐1 e MDA5. Riconoscono RNA virale. Oltre ai PRR descritti all’inizio, si considerano anche i DAMP (danger associated molecular pattern). Esempi di DAMP sono:
-‐ Proteine HMGB1: tipiche delle cellule necrotiche: possono anche essere rilasciate da cellule tumorali, spiegando come il tumore possa portare ad infezione cronica.
-‐ Componenti della matrice extracellulare: eparansolfato e acido ialuronico. -‐ ATP ed acido urico: esempi di sostanze rilasciate in seguito a necrosi cellulare. -‐ ACAM: strutture tipiche di cellule apoptotiche.
✣ TRASDUZIONE DEL SEGNALE DA PARTE DEI TLR ✣
1. Prodotti microbici si legano alla porzione extracellulare del TLR. 2. Il legame determina l’associazione della proteina MyD88 al dominio TIR della porzione citoplasmatica
del TLR. 3. MyD88 promuove l’associazione delle chinasi IRAK1 e IRAK4 in un complesso unico. 4. IRAK4 fosforila IRAK1 creando un sito di legame per TRAF6. 5. TRAF6 si lega a IRAK1, il complesso formatosi si dissocia da IRAK4 e attiva TAK1, un’altra chinasi. 6. La forma attivata di TAK1 può attivare due distinte vie di trasduzione del segnale:
La via delle proteino chinasi attivate da mitogeni (MAP chinasi) porta all’attivazione di fattori di trascrizione che dal citoplasma raggiungono il nucleo e influenzano il ciclo o la differenziazione cellulare. La via del NF-‐kB dipendente dalla proteina IKK. TAK1 fosforila IKK che fosforila Ikb, la quale, non fosforilata trattiene NFkB nel citoplasma. La fosforilazione di Ikb permette il rilascio di NFkB che migra nel nucleo e funge da fattore di trascrizione. Vie dipendenti da NFkB generano citochine, molecole di adesione e altre molecole effettrici importanti per la risposta immunitaria innata; NFkB ha anche un ruolo chiave nella trasduzione del segnale dei linfociti T e B, essendo dunque implicato anche nell’immunità acquisita.
5 ✣ TIPI CELLULARI DELL’IMMUNITÀ INNATA ✣
NEUTROFILI Sono le prime cellule a migrare dal sangue alle sedi dell’infezione. Sono essenziali per la difesa innata contro batteri e funghi. La loro arma principale è la fagocitosi: formazione di pseudopodi che vanno ad avvolgere il patogeno, formazione del fagosoma, fusione con i lisosomi, formazione del fagolisosoma. Esprimono:
-‐ TLR2, con cui percepiscono i peptidoglicani dei batteri GRAM+ -‐ TLR4, con cui percepiscono il LPS presente nella parete cellulare dei batteri GRAM-‐ -‐ recettori per opsonine.
Presentano due tipologie di granuli
-‐ granuli azzurrofili (primari): sono i lisosomi, contengono proteasi acide che rilasciano entro il fagosoma (formazione del fagolisosoma) per degradazione dei patogeni uccisi.
-‐ granuli specifici (secondari): coinvolti nei processi tipici dell’infiammazione, contengono per lo più proteasi neutre implicate nella degradazione di componenti extracellulare (danno tissutale) e nella scissione di proteine del complemento (C3 e C5)
I neutrofili (come anche i macrofagi) hanno due strumenti antimicrobici: l’aggressione ossidativa e quella non ossidativa. L’aggressione ossidativa utilizza le specie reattive dell’ossigeno e le specie reattive dell’azoto. Le specie reattive dell’ossigeno sono formate dal complesso enzimatico NADPH ossidasi fagosomica (phox), che si innesca in seguito alla fagocitosi. Il NADPH è ossidato a NADP+ mentre l’O2 è ridotto ad anione superossido. Il superossido è a sua volta convertito in H2O2 per opera della superossido dismutasi (SOD). L’H2O2 è ridotta a radicale ossidrile, una specie molecolare fortemente reattiva. L’ossigeno consumato per produrre queste sostanze è fornito dal cosiddetto brust respiratorio, processo metabolico durante il quale il consumo di ossigeno da parte della cellula cresce notevolmente. Nei granuli azzurrofili sono contenute mieloperossidasi (MPO) che, in presenza di ioni Cl-‐, convertono l’H2O2 in ipoclorito, un altro potente sistema battericida-‐ Le specie reattive dell’azoto sono formate dalla reazione dell’ossido nitrico con l’anione superossido. L’importanza della difesa antimicrobica assicurata dalla phox e dai suoi prodotti è sottolineata dal drammatico aumento di suscettibilità alle infezioni di batteri e funghi, tipica dei pazienti affetti dalla malattia granulomatosa cronica, causata proprio da un difetto della phox. L’aggressione non ossidativa comprende proteine ad azione microbicida contenute in specifici granuli. Tra queste proteine si considerano:
-‐ proteina batterica che aumenta la permeabilità (BPI): si lega al LPS della parete dei batteri GRAM-‐ e ne danneggia la membrana interna
-‐ defensine -‐ lisozima: idrolizza i legami tra acido muramico e N-‐acetillucosammina, presenti nel peptidoglicano.
MACROFAGI Normalmente quiescenti, sono attivati da diversi stimoli. Esprimono:
-‐ TLR2, con cui percepiscono i peptidoglicani dei batteri GRAM+ -‐ TLR4, con ci percepiscono il LPS presente nella parete cellulare dei batteri GRAM-‐ -‐ TLR5 con cui percepiscono la flagellina -‐ recettori citochinici.
Una volta attivati i macrofagi dimostrano:
-‐ un’aumentata attività fagocitica -‐ un’aumentata capacità di uccidere i microbi ingeriti -‐ secrezione di mediatori dell’infiammazione, soprattutto le citochine proinfiammatorie TNFα, IL1, IL6. -‐ un’aumentata esposizione di MHC di classe II, per presentare l’antigene ai linfociti Th; questo
rappresenta un altro importante punto di collaborazione tra immunità innata ed acquisita. -‐ secrezione di proteine del complemento.
6 I patogeni inglobati dai macrofagi sono uccisi nei fagosomi. Per far questo sono sfruttate innanzitutto le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto. I macrofagi, in seguito ad attivazione, esprimono la nitrossido sintetasi inducibile (iNOS), che produce citrullina e ossido nitrico (NO), ossidando l’arginina. L’ossido nitrico ha una potente attività microbicida e può combinare col superossido per generare sostanze ancora più potenti. A parte l’eliminazione di patogeni, i macrofagi svolgono anche una importante attività di coordinamento attraverso la secrezione delle citochine proinfiammatorie:
-‐ IL1 attiva i linfociti -‐ TNFα, IL1 e IL6 agiscono sul centro termoregolatore dell’ipotalamo determinando la febbre e
promuovono la risposta di fase acuta. CELLULE DENDRITICHE Devono il loro nome alla fitta rete di processi citoplasmatici che si dipartono dalla cellula. Nell’uomo esistono due diverse sottopopolazioni, DC mieloidi e DC plasmacitoidi. CELLULE DENDRITICHE MIELOIDI Derivano da un precursore ematopoietico comune totipotente CD34+, presente soprattutto nel midollo osseo e, in minima parte, nel sangue periferico e del cordone ombelicale. In vitro è possibile far evolvere il precursore emopoietico in DC mieloide aggiungendo al terreno di cultura fattori di crescita come:
-‐ GM-‐CSF (fattore stimolante le colonie granulocitarie e macrofagiche) -‐ TNFα -‐ SCF (fattore delle cellule staminali) -‐ FLT3L (ligando del CD135, è un fattore di crescita dei progenitori emopoietici precoci)
I precursori presenti nel sangue periferico sono:
1. Monociti CD11+ e CD14+. In presenza di GM-‐CSF e IL4 si differenziano in DC tissutali (interstiziali o dermiche).
2. Altri precursori CD11+ e CD14-‐. in presenza di GM-‐CSF, IL4 e TGFβ si differenziano in DC di Langherans (epidermide o epiteli).
Sia le DC tissutali, sia le DC di Langherans sono allo stadio immaturo. Le DC mieloidi possono, infatti, esistere in due stadi funzionali differenti: immature, presenti nella periferia tissutale, e mature, presenti presso gli organi linfoidi secondari, soprattutto il linfonodo. In vitro, è possibile indurre la maturazione delle DC immature aggiungendo LPS al terreno di coltura. Le DC immature internalizzano il patogeno. Differenziano in DC mature. Migrano negli organi linfoidi secondari, specialmente nei linfonodi in cui penetrano attraverso i vasi linfatici afferenti. Nel linfonodo, colonizzano la regione paracorticale T-‐dipendente Presentano l’Ag ai linfociti T naive, iniziando il T priming. Dc immature Sono caratterizzate da un’elevata attività fagocitica (Ag corpuscolati), macro-‐ e micro-‐pinocitica (Ag solubili), e dalla possibilità di internalizzare il patogeno attraverso endocitosi mediata da recettore. Esprimono i seguenti recettori che permettono il riconoscimento del patogeno:
-‐ recettore per il mannoso -‐ recettore per Fc delle IgG (CD32, CD64) per fagocitosi di immunocomplessi e particelle opsonizzate -‐ recettore scavanger (CD36) per cellule apoptotiche -‐ recettore CD91 per proteine da shock termico (HSP) e chaperonine -‐ TLR4, con cui percepiscono il LPS presente nella parete cellulare dei batteri GRAM-‐ -‐ TLR3, con cui riconoscono RNA a doppio filamento -‐ TLR9, con cui riconoscono dinucleotidi CpG non metilati.
7 Sono poi caratterizzate da:
-‐ bassi livelli di MHC -‐ bassi livelli di CCR7, recettore per le chemochine CCL19 e CCL21, permette l’homing della DC nell’organo
linfoide secondario -‐ bassi livelli di CD 40, stimola la produzione di citochine, aumenta l’espressione di molecole di adesione -‐ bassi livelli CD54 e CD58, molecole di adesione -‐ bassi livelli di CD 83 -‐ bassi livelli CD80 (B7-‐1) e CD 86 (B7-‐2), molecole co-‐stimolatorie -‐ assenza di DC-‐LAMP -‐ alti livelli di CCR1, CCR5, CCR6, recettori per le chemochine Nip1α, Rantes, Nip3α prodotte dalle cellule
dei tessuti infiammati. DC mature Hanno perso la capacità di internalizzare il patogeno. Producono TNFα, IL1, IL12. IL12 determina la polarizzazione dei linfociti TH verso il fenotipo TH1. I Th1 producono INFγ, potente attivatore dei macrofagi. Sono poi caratterizzate da:
-‐ alti livelli di MHC di classe I e di classe II -‐ alti livelli di CCR7 -‐ alti livelli di CD40 -‐ alti livelli di CD54 e CD58 -‐ alti livelli di CD83 -‐ alti livelli di CD80 e CD86 -‐ presenza di DC-‐LAMP -‐ bassi livelli di CCR1, CCR5, CCR6
L’interazione tra DC e linfocita T si svolge nel seguente modo:
1. contatto aspecifico attraverso molecole di adesione: ICAM1 (DC) interagisce con LFA1 (linfocita), DC-‐SIGN (DC) interagisce con ICAM3 (linfocita)
2. interazione dell’MHC-‐Ag con il TCR 3. amplificazione del segnale grazie al cosiddetto “secondo segnale” trasmesso da molecole
co-‐stimolatorie: B7-‐1 e B7-‐2 (DC) interagiscono con CD28 (linfocita) Ha inizio, quindi, una serie di interazioni bidirezionali:
1. il linfocita T attivato esprime CD40L che induce un’ulteriore maturazione delle DC, le quali iniziano così ad esprimere CD40
2. le DC esprimono OX40L che interagisce con OX40 dei linfociti T CD4+; questi ultimi producono IL4 che determina la polarizzazione dei TH in TH2; i TH2 migrano nei follicoli linfoidi B dipendenti
3. le Dc esprimono LMBBL che interagisce con 4-‐1BB dei linfociti T CD8+; questi ultimi producono INFγ che attiva i macrofagi.
CELLULE DENDRITICHE PLASMACITOIDI Derivano da un precursore ematopoietico comune totipotente CD34+, presente soprattutto nel midollo osseo. In vitro è possibile far evolvere il precursore emopoietico in DC plasmacitoide aggiungendo al terreno di cultura FLT3. Sono presenti in basse percentuali nel sangue periferico e negli organi linfoidi secondari; in circolo hanno un’emivita breve, di circa due settimane. Sono CD11c-‐ e CD123+ (catena α del recettore dell’IL3). Allo stato inattivo non possiedono prolungamenti citoplasmatici: il loro nome, del resto, deriva dalla loro somiglianza a plasmacllule. Migrano al linfocita solo se attivate: l’attivazione determina l’espressione di CCR7 e di L-‐selectina che permettono l’homing. Giungono al linfonodo per mezzo del circolo sanguigno, attraversando le HEV. Colonizzano anch’esse la regione paracorticale T-‐dipendente. Esprimono abbondantemente i TLR intracellulari TLR7 e TLR9.
8 Inizialmente erano state definite cellule producenti interferoni di tipo I (IPC). Le DC plasmacitoidi secernono effettivamente grandi quantità di INFα e INFβ, citochine che hanno una potente azione antivirale e intervengono nella regolazione delle cellule dell’immunità innata e specifica. Gli interferoni di tipo I determinano:
-‐ aumento della capacità citolitica delle NK -‐ aumento della maturazione delle DC mieloidi -‐ aumento della capacità citotossica dei linfociti T CD8+ -‐ produzione di INFγ e IL6 da parte dei linfociti T CD4+
INFγ determina la polarizzazione dei TH verso TH1 IL6 determina la differenziazione dei linfociti B in plasmacellule e cellule della memoria
CELLULE NK Derivano da un precursore ematopoietico comune totipotente CD34+. In vitro è possibile far evolvere il precursore emopoietico in NK aggiungendo al terreno di coltura:
-‐ IL7, fattore di crescita per linfociti -‐ IL15, prodotta in vivo dalle cellule stromali del midollo -‐ SCF
Fenotipo: -‐ CD56+, marcatore caratteristico anche delle cellule neurali nelle quali è implicato in meccanismi di
adesione; la sua funzione nel sistema immunitario è ignota -‐ CD3-‐
Il 90-‐95% delle NK nel sangue periferico media fenomeni di citotossicità. Queste cellule hanno fenotipo CD56+ dim e sono caratterizzate da:
-‐ alta produzione di perforine e granzimi -‐ alta espressione di CD16 -‐ espressione dei recettori per la fractalchina e per IL8, prodotte dall’endotelio infiammato -‐ bassa produzione di citochine regolatorie
Il 5-‐10% delle NK nel sangue periferico ha funzione immuno-‐regolatoria. Queste cellule hanno fenotipo CD56+ bright e sono caratterizzate da:
-‐ bassa produzione di perforine e granzimi -‐ bassa espressione di CD16 -‐ espressione di CCR7 (recettore per CCL19 e CCL21) per migrazione nel linfonodo -‐ alta produzione di citochine regolatorie
Sono definiti anche linfociti grandi granulari, per le dimensioni maggiori rispetto ai linfociti B e T e per la presenza nel citoplasma di granuli contenenti i mediatori della loro citotossicità. A differenza degli altri linfociti, non riarrangiano il recettore per l’Ag. I linfociti NK rappresentano il 5-‐10% della popolazione linfocitaria splenica e il 10-‐20% della popolazione linfocitaria circolante nel sangue periferico. Nel primo trimestre di gravidanza rappresentano più del 60% dei linfociti presenti nel tessuto deciduale, a contatto con il trofoblasto; si pensa che potrebbero aiutare lo sviluppo della vascolarizzazione della placenta mediante produzione di VEGF e IL8 (fattori angiogenetici). Intervengono durante i primi stadi dell’infezione, contribuendo al suo contenimento fino a che non siano generati linfociti Tc. Sono implicati nella risposta immunitaria contro virus e batteri intracellulari e nel riconoscimento e distruzione di cellule tumorali. I linfociti NK intervengono:
-‐ nell’uccisione di cellule tumorali primitive derivanti da metastasi (in vitro, senza stimolazione) -‐ nell’uccisione di cellule infettate da virus (soggetti con immunodeficienze per i linfociti NK manifestano
frequenti infezioni, soprattutto da herpes-‐virus -‐ nel rigetto dopo trapianto allogenico di midollo osseo -‐ nel rimodellamento delle arterie uterine in gravidanza -‐ nella regolazione citotossica -‐ nella produzione di citochine per la regolazione delle cellule dell’immunità innata e acquisita
9 Principali risposte effettrici delle cellule NK Citotossicità naturale. È mediata dai recettori NKR (“recettori orfani”), per il riconoscimento di cellule infettate da virus, e dai recettori NKG2D, per il riconoscimento di cellule in trasformazione neoplastica. L’interazione di questi recettori con i corrispondenti ligandi determina il rilascio di granuli contenenti perforine e granzimi (serino proteasi). Le perforine sono proteine monomeriche di 65kDa. Quando i monomeri di perforina entrano in contatto con la membrana della cellula bersaglio, cambiano conformazione ed espongono un dominio anfipatico che permette loro di inserirsi nella membrana. In presenza di Ca2+, i monomeri polimerizzano, creando un poro del diametro di 5-‐20 nm nella membrana della cellula bersaglio. L’attività della perforina è simile a quella del componente terminale C9 del sistema del complemento e, infatti, queste due proteine hanno notevoli analogie di sequenza. Questi pori permettono l’ingresso dei granzimi. Il granzima B attiva specifiche caspasi (cisteino proteasi) che, a loro volta, attivano endonucleasi che portano alla degradazione del DNA in frammenti di 200 bp, scatenando così il processo apoptotico. Un altro meccanismo è la cosiddetta “via assistita dalla perforina”: molte cellule bersaglio esprimono alla loro superficie il recettore per il mannoso-‐6-‐fosfato che lega il granzima B. I complessi formati vengono internalizzati per mezzo di vescicole. La perforina, internalizzata anch’essa, forma pori nella membrana di tali vescicole, favorendo il rilascio dei granzimi nel citoplasma. Citotossicità cellulare anticorpo-‐dipendente (ADCC) Mediata dal recettore CD16 per la porzione Fc delle IgG che hanno opsonizzato la cellula bersaglio. La cellula bersaglio è distrutta utilizzando perforine e granzimi. Funzione regolatoria. Rappresentata dalla produzione di fattori specifici da parte delle NK attivate.
-‐ chemochine CCL4, CCL5, CCL22: richiamo di leucociti nel sito infiammatorio (CCL22 attrae soprattutto granulociti basofili)
-‐ GM-‐CSF: stimola l’emopoiesi attiva granulociti e macrofagi
-‐ INFγ: polarizazione dei linfociti Th verso il fenotipo Th1 attivazione dei macrofagi
-‐ TNFα: citochina proinfiammatoria primaria induce la maturazione delle DC mieloidi
Attivazione e inibizione delle cellule NK I linfociti NK presentano recettori che inviano stimoli attivatori e recettori che inviano stimoli inibitori. È il bilancio tra i segnali attivatori e quelli inibitori che permette alle cellule NK di distinguere tra cellule sane e cellule tumorali o infettate da virus. Segnali inibitori Sono mediati da tre tipologie di recettori.
1. Recettori killer Ig-‐like receptor, KIR. Sono proteine di I tipo: estremità C-‐terminale intracellulare, estremità N-‐terminale extracellulare. Appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline; presentano, infatti, domini Ig extracellulari. Riconoscono i tre diversi alleli (A, B, C) della molecola MHC di classe I.
2. Recettori LIR. Sono proteine di I tipo: estremità C-‐terminale intracellulare, estremità N-‐terminale extracellulare. Appartengono alla superfamiglia delle Ig; presentano, infatti, quattro domini Ig extracellulari. Riconoscono una componente altamente conservata in tutte le molecole MHC di classe I, sia classiche (A, B, C) che non classiche (G). Riconoscono anche la molecola UL18 del Citomegalovirus, che in questo modo sfugge all’attacco delle cellule NK.
3. Eterodimero CD94-‐NKG2A. Mentre la maggior parte dei recettori inibitori appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline, questo recettore rappresenta una eccezione, infatti, è strutturalmente simile alle lectine. Le due glicoproteine che lo costituiscono sono unite da un ponte disolfuro e sono proteine di II tipo
10 (estremità N-‐terminale intracellulare, estremità C-‐terminale extracellulare). Riconoscono MHC di classe I non classico (E). Dal momento che HLA-‐E viene trasportato sulla superficie cellulare solo se legato ad un peptide derivato da HLA-‐A, HLA-‐B, HLA-‐C, la quantità di HLA-‐E espresso in membrana è un indicatore dei livelli complessivi di biosintesi cellulare di tutta la classe I. Il recettore CD95-‐NKG2A non sarà in grado di inviare alla NK un segnale inibitorio se la cellula bersaglio non esprime adeguati livelli di MHC di classe I.
Tutti i recettori inibitori presentano la porzione intracellulare caratterizzata da sequenze ITIM (immunoreceptor tyrosin-‐phosphate inibitory motif). L’interazione recettore-‐lingando determina l’attivazione delle sequenze ITIM, che vengono fosforilate. La loro fosforilazione determina il richiamo e l’attivazione di fosfatasi che disattivano (defosforilano)proteine fosforilate dai recettori attivatori. Segnali attivatori Sono mediati da quattro tipologie di recettori.
1. Natural killer receptor, NKR. Sono presenti solo sulle cellule NK e mediano la citotossicità naturale. Sono detti “recettori orfani” perché non se ne conosce il ligando. Ne fanno parte le molecole NKp30, NKp44, NKp46. Hanno struttura simile alle immunoglobuline. Non sono dotati di code intracitoplasmatiche e, per mediare il segnale attivatorio, si associano a proteine (come GAP12 e CD13) che contengono sequenze ITAM (immunoreceptor tyrosin phosphate activation motif). L’interazione recettore-‐ligando determina l’attivazione delle sequenze ITAM, che vengono fosforilate. La loro fosforilazione determina il richiamo e l’attivazione di ZAP70, che fosforila LAT. LAT attiva la PLCγ.
2. Recettore NKG2D. Appartiene alla famiglia delle lectine tipo C. È espresso anche dai linfociti T CD8+ e dai linfociti T γ/δ. Riconosce: a. MIC-‐A e MIC-‐B, proteine simili alle molecole MHC, ma non sono polimorfiche e non si associno a β2-‐microglobulina; b. proteine della famiglia ULBP, ad esempio la proteina UL16 del Citomegalovirus. Questi ligandi sono over-‐espressi nella trasformazione neoplastica, in particolare nei tumori di tipo epiteliale.
3. Co-‐recettori attivatori 2B4. Riconosce CD48, espresso da vari tipi di cellule. Sono particolarmente importanti nel caso di infezione da virus di Epstein-‐Barr. Nei pazienti affetti da malattia genetica proliferativa legata all’X (XLP), il sistema 2B4-‐CD48 trasduce un segnale inibitorio anziché attivatorio, a causa dell’assenza della molecola adattatrice SAP. Si verifica, perciò, un aumento della suscettibilità a infezioni EBV, con mononucleosi e possibilità di linfomi EBV.
4. DNAM-‐1. È espresso anche dai linfociti T. Riconosce: a. polio virus receptor (PVR), espresso nella cellula tumorale b. nectina-‐2
Tutti i recettori attivatori funzionano per mezzo di sequenze intracellulari ITAM
11
COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITÀ E PRESENTAZIONE DELL’ANTIGENE
Tutte le specie di mammifero studiate possiedono il gruppo genico dell’MHC (major histocompatibility complex), i cui prodotti proteici sono coinvolti nel riconoscimento cellulare e nella discriminazione tra self e non self. Lo studio di questo gruppo di geni ha avuto inizio quando fu scoperto che il rigetto di un tessuto estraneo trapiantato è causato da una risposta del sistema immunitario contro molecole espresse sulla membrana delle cellule di tale tessuto. Queste molecole sono definite antigeni di istocompatibilità. Il gruppo genico del complesso maggiore di istocompatibilità è localizzato sul cromosoma 6 dell’uomo e, nell’uomo, è definito anche HLA (human leucocyte antigen). I geni MHC sono organizzati in regioni che codificano tre classi di molecole:
1. geni MHC di classe I, che codificano per glicoproteine espresse sulla superficie di quasi tutte le cellule dell’organismo; le molecole MHC di classe I sono implicate nella presentazione di antigeni peptidici ai linfociti Tc;
2. geni MHC di classe II, che codificano glicoproteine espresse per lo più sulla superficie delle cellule presentanti l’antigene; le molecole MHC di classe II sono implicate nella presentazione di antigeni peptidici ai linfociti Th;
3. geni MHC di classe III, che codificano diverse proteine secrete coinvolte nelle funzioni immunitarie. Le molecole MHC di classe I sono codificate dai loci A, B e C e sono definite molecole MHC di classe I classiche. Comprendono le molecole HLA-‐A, HLA-‐B e HLA-‐C. All’interno della regione MHC di classe I, sono presenti gruppi di geni addizionali che codificano molecole di classe I non classiche (HLA-‐E, HLA-‐F, HLA-‐G, HFE, HLA-‐J, HLA-‐X e molecole della famiglia MIC); l’espressione di questi geni è ristretta ad alcuni specifici tipi cellulari e, per la maggior parte delle molecole codificate, la funzione non è ancora nota. Anzi, gran parte di questi geni sono pseudogeni e non codificano nessun prodotto proteico. Riguardo HLA-‐G, la sua espressione sul citotrofoblasto all’interfaccia materno-‐fetale evita che il feto sia riconosciuto come estraneo e sia eliminato dai linfociti Tc materni. Le molecole MHC di classe II sono codificate dai loci DP, DQ, DR e sono definite molecole MHC di classe II classiche. Comprendono le molecole HLA-‐DP, HLA-‐DQ e HLA-‐DR. Anche all’interno della regione MHC di classe II, sono presenti gruppi di geni addizionali che codificano molecole MHC di classe II non classiche (HLA-‐DM, HLA-‐DO). La molecola HLA-‐DM è importante per l’assemblaggio dei peptidi antigenici sugli MHC II (scambio clip-‐peptide). La molecola HLA-‐DO, la cui espressione è limitata ai linfociti B maturi e al timo, svolge una funzione regolatrice nella processazione degli antigeni di classe II. I geni MHC di classe III codificano molecole che non hanno nulla a che fare con la presentazione dell’antigene:
-‐ tre componenti del complemento (C2, C4 e fattore B) -‐ due enzimi 21-‐idrossilasi, implicati nel metabolismo steroideo -‐ due proteine da shock termico -‐ due citochine (TNFα e TNFβ)
La regione MHC di classe I si estende per circa 2000 kb all’estremità centromerica del complesso HLA. La regione MHC di classe II si estende all’estremità telomerica del complesso HLA. La regione MHC di classe III è compresa tra le due regioni sopracitate.
12 ✣ STRUTTURA DELLE MOLECOLE MHC DI CLASSE I ✣ Sono formate da una catena pesante α di 45 kDa associata in modo non covalente alla β2-‐microglobulina, di 12 kDa. Catena α È codificata dai geni polimorfici delle regioni A, B, C del complesso HLA. È organizzata in:
-‐ tre domini extracellulari (α1, α2, α3) ognuno di 90 amminoacidi -‐ un dominio transmembrana di 25 amminoacidi idrofobici -‐ un dominio citoplasmatico di ancoraggio di 30 amminoacidi.
I domini a1 e a2 interagiscono per formare la tasca di legame per il peptide. Il pavimento di quest’ultima è formato da 8 foglietti β antiparalleli, le pareti da due lunghe α-‐eliche. Questa tasca è collocata nella regione più esterna della molecola MHC di classe I e si presenta come una cavità chiusa tutt’attorno. β2-‐microglobulina È codificata da un gene localizzato su un cromosoma diverso dal 6. È simile al dominio α3 della catena α per dimensioni ed organizzazione. Non possiede una regione transmembrana ed è legata in modo non covalente alla catena α. Il dominio α3 e la β2-‐microglobulina presentano un’elevata omologia con il tipico dominio immunoglobulinico; per questo motivo le molecole MHC di classe I sono ascritte alla superfamiglia delle immunoglobuline. ✣ STRUTTURA DELLE MOLECOLE MHC DI CLASSE II ✣ Sono formate da una catena α di 33 kDa associata in modo non covalente ad una catena β di 28 kDa. Ogni catena presenta due domini extracellulari (α1, α2 e β1, β2). I domini α2 e β2 sono prossimali alla membrana. I domini α1 e β1 sono distali e formano la tasca di legame per il peptide. Il pavimento di quest’ultima è formato da 8 foglietti β antiparalleli, le pareti da due lunghe α-‐eliche. La tasca si presenta come un solco aperto alle estremità. I domini α2 e β2 presentano un’elevata omologia con il tipico dominio immunoglobulinico; per questo, anche le molecole MHC di classe II sono ascritte alla super famiglia delle immunoglobuline. ✣ ORGANIZZAZIONE IN ESONI ED INTRONI DEI GENI MHC ✣ Esoni diversi codificano diverse regioni delle molecole MHC di classe I e II. I geni di classe I sono, nell’ordine, così organizzati:
-‐ all’estremità 5’, un esone leader codificante un peptide segnale necessario per l’ingresso della catena α nel RE; tale peptide verrà rimosso a traduzione ultimata;
-‐ tre esoni che codificano i domini α1, α2, α3 della catena α; -‐ un esone che codifica il dominio transmembrana; -‐ all’estremità 3’, uno o due esoni che codificano il dominio citoplasmatico.
I geni di classe II, nell’ordine, sono così organizzati:
-‐ all’estremità 5’, un esone leader; -‐ un esone che codifica il dominio α1 o β1; -‐ un esone che codifica il dominio α2 o β2; -‐ un esone che codifica il dominio transmembrana; -‐ all’estremità 3’, uno o due esoni che codificano il dominio citoplasmatico.
13 ✣ CARATTERISTICHE DEL LEGAME MHC-‐PEPTIDE ✣ Nell’uomo esistono diverse centinaia di varianti alleliche dei geni MHC I e II. Ogni individuo, però, ne esprime un numero ristretto: fino a 6 molecole diverse di classe I, fino a 21 molecole diverse di classe II. Nonostante questo numero limitato di molecole MHC, l’individuo deve essere in grado di presentare una varietà enorme di peptidi antigenici differenti ai linfociti T, permettendo così adeguate risposte del sistema immunitario. Di conseguenza, il legame MHC-‐peptide non è caratterizzato dalla fine specificità del legame Ag-‐Ab o Ag-‐TCR. In effetti, una determinata molecole MHC può legare molti peptidi differenti, e alcuni peptidi possono legarsi a diverse molecole MHC. La specificità MHC è più ampia e il legame MHC-‐peptide è definito “promiscuo”. Sono altrettanto importanti le seguenti caratteristiche:
-‐ in condizioni fisiologiche, il legame MHC-‐peptide è molto stabile; nel caso in cui sia espresso un peptide non self, questa grande stabilità aumenta la probabilità che esso sia effettivamente riconosciuto dal TCR corrispondente;
-‐ l’MHC è stabile in membrana solo se lega un peptide; -‐ i peptidi self non stimolano i linfociti T; ciò avviene, invece, nelle malattie autoimmuni;
Legame MHC I-‐peptide Ciascun tipo di molecola MHC di classe I (A, B, C) lega peptidi con caratteristiche comuni:
-‐ lunghezza di 8-‐10 amminoacidi (di solito 9) -‐ presenza di peptidi di ancoraggio localizzati all’estremità C-‐terminale e alla posizione 2 o 3 a partire
dall’estremità N-‐terminale; solitamente, l’amminoacido all’estremità C-‐terminale è un amminoacido idrofobico; le catene laterali di questi amminoacidi sono complementari alle caratteristiche della tasca che lega il peptide e stabiliscono con essa legami idrogeno.
Gli amminoacidi centrali del peptide non sono implicati nell’interazione con la tasca che lega il peptide e si mantengono distanti da essa formando un’ansa; in questo modo, anche peptidi leggermente più lunghi o più brevi possono essere alloggiati nella tasca. Sono proprio gli amminoacidi dell’ansa, che sporgono maggiormente dall’ MHC, a sviluppare la più stretta interazione con il TCR. Legame MHC II-‐peptide I peptidi legati dalle molecole MHC di classe II sono formati da 13-‐18 amminoacidi, risultando più lunghi rispetto a quelli esposti sull’MHC I. La tasca di legame è aperta alle estremità e ciò permette al peptide, anche se più lungo, di disporsi in essa come un wurstel dentro un panino. I peptidi, in questo caso, si mantengono leggermente sollevati dal pavimento della tasca. I peptidi non presentano residui di ancoraggio alle due estremità, bensì distribuiti lungo tutta la molecola. ✣ POLIMORFISMO E APLOTIPI ✣ Le molecole MHC mostrano una grande diversità nell’ambito delle diverse specie e anche tra diversi individui di una stessa specie. I meccanismi alla base di questa diversità sono diversi rispetto a quelli coinvolti nella generazione della diversità degli Ab e dei TCR. La variabilità tipica di Ab e TCR è determinata da particolari processi, come il riarrangiamento genico e la mutazione somatica dei geni riarrangiati. Questi processi fanno sì che gli Ab e i TCR espressi da uno stesso individuo possano potenzialmente cambiare nel tempo. Al contrario, le molecole MHC espresse da un individuo non si modificano nel tempo. Infatti, la diversità MHC è dovuta al polimorfismo, ossia alla presenza di alleli multipli per un determinato locus genico nell’ambito della stessa specie. L’MHC è anche poligenetico, poiché comprende geni con struttura e funzioni simili ma non identiche (ad esempio, i loci HLA-‐A, HLA-‐B, HLA-‐C). Inoltre, i geni MHC sono strettamente associati e ciò fa sì che la frequenza di ricombinazione legata al crossover all’interno di tali geni sia estremamente bassa; il crossover, infatti, si verifica più facilmente tra geni distanti. Per questo motivo, la maggior parte degli individui eredita gli alleli di questi loci come due gruppi distinti, uno da
14 ciascun genitore. Ogni gruppo di alleli è definito aplotipo. Ogni individuo eredita un aplotipo dal padre e uno dalla madre. Generalmente, ogni individuo è eterozigote per molti loci ed esprime, in codominanza, sia gli MHC paterni che quelli materni. Di conseguenza, se padre e madre hanno aplotipi diversi, esiste un 25% di possibilità che due fratelli ereditino lo stesso aplotipo paterno e lo stesso aplotipo materno e siano quindi istocompatibili; nessuno dei figli sarà istocompatibile con i genitori. Sebbene il tasso di ricombinazione mediante crossover sia basso all’interno del complesso MHC, esso ha contribuito e contribuisce alla diversità dei loci MHC in maniera considerevole. Il gran numero di generazioni che si sono susseguite dalla comparsa della specie umana ha permesso una ricombinazione estensiva, cosicché è molto raro che due individui senza legami di parentela presentino aplotipi MHC identici. La variabilità di sequenza tra le molecole MHC non è distribuita casualmente lungo la catena polipeptidica, ma è limitata a regioni comprese nella tasca di legame per il peptide. Le differenze alleliche contribuiscono alla diversa capacità, da parte di molecole MHC, di legare determinati peptidi antigenici. ✣ DISTRIBUZIONE CELLULARE DELLE MOLECOLE MHC E LORO RUOLO ✣ MHC di classe I Sono espresse sulla maggior parte delle cellule, ma a livelli diversi secondo il tipo cellulare; fra tutte le tipologie cellulari, i linfociti presentano il maggior grado di espressione (le molecole MHC I corrispondono all’1% di tutte le proteine di membrana). In condizioni fisiologiche, le molecole MHC di classe I espongono peptidi self provenienti dal normale ricambio delle proteine intracellulari. In condizioni patologiche (infezione da virus) le molecole di classe I esporranno sia peptidi self, sia peptidi non self (virali). Il complesso MHC I-‐peptide non self sarà riconosciuto dal linfocita Tc CD8+ che espone un TCR complementare; in seguito all’interazione, tale linfocita Tc medierà l’uccisione della cellula infettata. MHC di classe II Sono espresse costitutivamente solo dalle APC (cellule presentanti l’antigene) professioniste, cioè DC, macrofagi e linfociti B. Le APC professioniste hanno la capacità di internalizzare il patogeno, di processarlo e di esporre in membrana peptidi non self provenienti da esso legati a MHC II. Le DC e i macrofagi internalizzano il patogeno mediante fagocitosi, pinocitosi e endocitosi mediata da recettore. I macrofagi sfruttano solo l’endocitosi mediata da recettore (Ab): possiedono una grande efficienza di internalizzazione, ma limitata all’Ag per cui presentano specificità. Un’altra caratteristica delle APC professioniste è quella di poter inviare un segnale co-‐stimolatorio, senza il quale non è possibile l’attivazione dei linfociti T vergini. Si definiscono APC non professioniste cellule che esprimono MHC II per brevi periodi, durante un’intensa risposta infiammatoria, in seguito ad opportuna stimolazione. ✣ REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE DEI GENI MHC ✣ La regolazione principale è effettuata a livello della trascrizione genica. Sia i geni MHC di classe I, sia quelli di classe II sono fiancheggiati, in posizione 5’, da promotori cui si legano specifici fattori di trascrizione. Ad esempio, CIITA (class II trascriptional activator) e RFX (regulator factor X) sono attivatori della trascrizione dei geni MHC II. Difetti in questi fattori di trascrizione possono determinare una forma della sindrome del linfocita nudo, BLS (bare lymphocyte sindrome). Soggetti affetti da questa malattia non espongono MHC di classe II sulle proprie cellule e sono perciò caratterizzati da una grave immunodeficienza. L’espressione dei geni MHC è anche regolata da citochine: INFα, INFβ, INFγ, TNF, IL4. INFγ:
-‐ induce la produzione di un fattore di trascrizione che lega il promotore fiancheggiante i geni MHC I -‐ induce la produzione di CIITA, determinando così un aumento di espressione dei geni MHC II.
15 IL4 induce un aumento di espressione di molecole MHC II nei linfociti B. L’espressione di MHC è diminuita in seguito durante infezione da particolari virus:
-‐ Il cytomegalovirus determina la produzione di una proteina virale che si lega alla β2-‐microglobulina, bloccando l’assemblaggio dell’MHC I e impedendo la sua esposizione in membrana.
-‐ L’adenovirus 12 determina una riduzione nella trascrizione dei geni codificanti le proteine di trasporto TAP1 e TAP2. Anche in questo caso viene impedito il corretto assemblaggio dell’MHC I e la sua esposizione in membrana.
La mancata espressione delle molecole di classe I aiuta i virus ad eludere la sorveglianza immunitaria, riducendo la possibilità che le cellule infettate possano esporre complessi MHC I-‐peptidi virali e possano divenire bersaglio dei linfociti Tc. ✣ VIE DI PROCESSAZIONE DELL’ANTIGENE ✣ Regola generale:
-‐ Gli antigeni endogeni (generati all’interno della cellula) sono processati nella via citosolica e presentati in membrana legati a molecole MHC di classe I.
-‐ Gli antigeni esogeni (captati dall’esterno) sono processati nella via endocitica e presentati in membrana legati a molecole MHC di classe II.
Via citosolica Ogni proteina è soggetta a un continuo rinnovamento. La conseguenza di un ricambio stabile di proteine, sia normali, sia difettive, è la presenza di grandi quantità di prodotti di degradazione all’interno della cellula. Tali prodotti di degradazione comprendono amminoacidi semplici e peptidi. Alcuni di questi ultimi potranno essere presentati dal sistema immunitario sulla superfici cellulare, uniti a molecole MHC di classe I. Le proteine intracellulari sono degradate all’interno del proteasoma, una struttura cilindrica cava formata da diverse subunità con funzione proteolitica. Oltre a questo sistema di degradazione non specifico, il sistema immunitario utilizza un altro mezzo, inducibile, per produrre peptidi da esporre su MHC I: l’immunoproteasoma. L’immunoproteasoma, che può essere indotto da INFγ e TNFα, si trova all’interno di cellule infettate da virus. L’INFγ, prodotto durante a risposta immunitaria, induce la sintesi di LMP2, LMP7 e LMP10 che, associandosi al proteasoma normale, lo convertono in immunoproteasoma. L’INFγ, inoltre, induce la sintesi di PA28 α e β, attivatori del proteasoma. I peptidi prodotti all’interno dell’immunoproteasoma sono rilasciati nel citosol e si dirigono verso il RE in cui entrano attraverso un canale definito TAP (trasportatore associato alla processazione dell’antigene). Questo canale è un eterodimero formato dalle proteine TAP1 e TAP2 ed è in grado di trasportare peptidi nel lume del RE in seguito all’idrolisi di ATP: i trasportatori TAP sono ABC (ATP binding cassette).
-‐ esistono diverse forme alleliche dei geni codificanti TAP -‐ in alcune infezioni virali si verifica una diminuzione dell’espressione dei geni TAP -‐ in alcuni tumori si verifica una down-‐regulation dei geni TAP -‐ i difetti di TAP possono portare a manifestazioni tipiche sia dell’immunodeficienza sia
dell’autoimmunità (in alcuni casi di BLS si è riscontrato un difetto nei geni TAP). La catena α e la β2-‐microglobulina sono sintetizzate nei ribosomi del RER. L’assemblaggio di queste due molecole a dare una molecola MHC I stabile che possa abbandonare il RE e raggiungere la membrana plasmatica, richiede la presenza di un peptide nella tasca apposita. L’assemblaggio è un processo a più fasi che richiede l’intervento di chaperonine e che si articola in questo modo:
1. La catena α si lega alla chaperonina calnessina, che ne promuove il corretto ripiegamento. 2. La β2-‐microglobulina si lega alla catena α, determinando il distacco della calnessina. 3. La molecola di classe I si lega ad un’altra chaperonina, la calreticolina, e alla tapasina; la tapasina
avvicina la molecola di classe I al trasportatore TAP, permettendo l’interazione MHC I-‐peptide.
16 4. ERp57 si lega con ponte disolfuro alla tapasina e con interazione non covalente alla calreticolina,
stabilizzando la loro interazione e permettendo il rilascio del complesso MHC I-‐peptide. 5. L’amminopeptidasi ERAP1 rimuove residui aminoacidici di troppo dall’estremità N-‐terminale dei
peptidi, che acquistano le dimensioni ideali per il legame all’MHC I. A questo proposito, è importante tenere presente che TAP ha un’affinità ottimale con peptidi di 8-‐16 amminoacidi; ciò significa che tendenzialmente sono condotti nel RE peptidi più grandi rispetto a quelli che possono interagire con le molecole MHC I: le dimensioni ottimali sono ottenute grazie ad ERAP1.
6. L’amminopeptidasi ERAP2 degrada tutti i peptidi troppo piccoli per interagire con l’MHC I. In seguito ad un legame produttivo tra un peptide e l’MHC I, il complesso viene trasportato alla membrana attraverso l’apparato di Golgi. Via endocitica L’antigene, una volta internalizzato, è degradato in peptidi nei vari compartimenti della via endocitica. Tali compartimenti comprendono:
-‐ endosomi precoci (pH 6.5-‐6.0) -‐ endolisosomi (pH 6.0-‐5.0) -‐ lisosomi (pH 5.0-‐4.5).
L’antigene si sposta attraverso i vari compartimenti incontrando un pH via via più basso e diversi enzimi idrolitici. Il meccanismo mediante il quale gli antigeni si spostano da un compartimento al successivo non è noto. Al termine della via endocitica risultano peptidi di 13-‐18 amminoacidi, che vengono legati ad una molecola MHC di classe II per proteggerli da un’ulteriore proteolisi e per poterli esporre in membrana. Le APC esprimono sia MHC I sia MHC II. Devono quindi adottare un metodo affinché le due tipologie di molecole non leghino lo stesso spettro di antigeni. Le molecole di classe II sono sintetizzate nel RE e qui si associano ad una proteina detta catena invariante (CD74): tre molecole di classe II si associano ad un trimero preassemblato di catene invarianti. Questo trimero occupa le tasche di legame per il peptide, impedendo che peptidi di origine endogena possano legarsi agli MHC II. La catena invariante inoltre indirizza la molecola di classe II al compartimento lisosomiale e la rende resistente alle idrolasi qui presenti. All’interno del lisosoma la catena invariante è progressivamente degradata. Permane solo un piccolo frammento, definito CLIP, entro la tasca di legame per il peptide. Una molecola di classe II non classica, HLA-‐DM, catalizza lo scambio CLIP-‐peptide. Il complesso MHC II-‐peptide è trasportato in membrana. ✣ CROSSPRESENTAZIONE DI ANTIGENI ESOGENI ✣ In alcuni casi, le DC sono in grado di presentare antigeni esogeni su molecole MHC di classe I. Questo fenomeno è definito crosspresentazione e avviene in seguito ad una sorta di intersezione tra la via endocitica e quella citosolica, con fusione di compartimento endocitico e RE e formazione di un compartimento misto. È stato dimostrato l’intervento della proteina SEC61: trasporta proteine virali nel citoplasma e di qui al proteasoma, introducendole nella via citosolica. In ogni caso, le dinamiche precise della crosspresentazione non sono ancora chiare. La risposta innescata da DC in cui sia avvenuta la crosspresentazione è più rapida ed efficiente di quanto non sarebbe quella innescata da una cellula infettata. ✣ PRESENTAZIONE DI ANTIGENI NON PROTEICI ✣ I linfociti T γ/δ riconoscono antigeni lipidici o glicolipidici (ad esempio, cere sul micobatterio della TBC). Questi antigeni sono presentati utilizzando un complesso differente da quello MHC. In questo complesso la β2-‐microglobulina si associa al CD1.
17
ANTICORPI ✣ STRUTTURA ✣ Gli anticorpi sono eterodimeri formati da 4 catene peptidiche:
-‐ 2 catene leggere (L, light) identiche di circa 22 kDa -‐ 2 catene pesanti (H, heavy) identiche di circa 55 kDa
L’eterodimero è tenuto assieme da legami disolfuro e interazioni non covalenti che si instaurano sia tra una catena leggera e una pesante (formando un dimero HL), sia tra i due dimeri HL (formando un eterodimero HL2). I primi 110 amminoacidi a partire dall’estremità N-‐terminale delle catene leggera e pesante sono molto variabili e diversi in anticorpi con diversa specificità antigenica. Queste regioni sono definite variabili: VL nelle catene leggere, VH nelle catene pesanti. La maggior parte delle differenze nella sequenza amminoacidica si riscontra nelle regioni determinanti la complementarietà, CDR: sono proprio queste regioni CDR che formano, sia nella catena H sia nella catena L, il sito con cui l’anticorpo lega l’antigene. Le restanti porzioni delle catene H ed L presentano una sequenza amminoacidica costante, perlomeno all’interno della stessa classe anticorpale. Queste regioni sono definite costanti: CL nella catena leggera, CH nella catena pesante. Gli anticorpi sono glicoproteine: i siti di legame per i carboidrati si trovano nelle regioni costanti. Non è ancora chiaro il ruolo della glicosilazione, ma probabilmente aumenta la solubilità degli anticorpi. La struttura complessiva degli anticorpi è dovuta alla loro organizzazione primaria, secondaria, terziaria e quaternaria.
1. Struttura primaria: è data dalla sequenza amminoacidica, comprende le regioni variabili e costanti.
2. Struttura secondaria: è data dal riavvolgimento della catena polipeptidica che forma sequenze di nastri β antiparalleli.
3. Struttura terziaria: i nastri β si organizzano in foglietti planari β che si dispongono a formare domini globulari (domini immunoglobulinici). Tratti della catena polipeptidica che escono dai domini li uniscono tra loro.
4. Struttura quaternaria: è data dall’interazione reciproca dei domini immunoglobulinici di una catena pesante con i domini immunoglobulinici della catena leggera adiacente.
DOMINI IMMUNOGLOBULINICI Ciascun dominio immunoglobulinico è formato da circa 110 amminoacidi e da un ponte disolfuro intracatena che determina la formazione di un’ansa di 60 amminoacidi. Più precisamente, ciascun dominio immunoglobulinico è formato da un sandwich di due foglietti β, ciascuno dei quali è formato da una serie di nastri β antiparalleli. Le catene leggere contengono un dominio variabile (VL) e uno costante (CL). Le catene pesanti contengono un dominio variabile (VL) e:
-‐ 3 domini costanti (CH1/CH2/CH3) in IgD, IgG e IgA -‐ 4 domini costanti (CH1/CH2/CH3/CH4) in IgM e IgE
I domini N-‐terminali, corrispondenti alle regioni V, legano l’antigene. Sebbene i domini costanti e variabili abbiano una struttura molto simile, essi presentano alcune sottili differenze; infatti, la sequenza del dominio V è leggermente più lunga e il suo foglietto β contiene almeno due nastri β in più con le relative anse di connessione. Le catene pesanti δ, γ e α contengono una sequenza peptidica distesa tra i domini CH1 e CH2. Questa regione è detta regione cerniera ed è ricca di residui di prolina che la rendono flessibile. Essa conferisca a IgD, IgG e IgA una flessibilità segmentale, grazie alla quale le due braccia Fab di questi anticorpi possono assumere diverse angolazioni reciproche quando legano l’antigene.
18 COMPRENSIONE DELLA STRUTTURA BASE DEGLI ANTICORPI La struttura base degli anticorpi è stata definita grazie a metodiche chimiche ed enzimatiche. Il trattamento di IgG con l’enzima proteolitico papaina produce tre frammenti:
-‐ due frammenti identici che mantengono la capacità di legare l’antigene e sono detti Fab (fragment antigen binding)
-‐ un frammento diverso incapace di legare l’antigene e definito Fc (fragment crystallizable) perché cristallizza durante la conservazione a freddo.
Il trattamento di IgG con l’enzima proteolitico pepsina conferma quanto detto in precedenza. Anche la pepsina scinde la porzione in grado di legare l’antigene dal resto dell’anticorpo. In questo caso la reazione produce un singolo frammento che lega l’antigene: F(ab)2, formato dall’unione dei due segmenti Fab; il segmento Fc è digerito in numerosi piccoli frammenti e viene perduto. Il trattamento di IgG con mercaptoetanolo e agenti alchilanti scinde i ponti disolfuro ma non agisce sui legami peptidici. Se il campione così trattato viene cromatografato in modo da separare i frammenti ottenuti secondo il loro peso molecolare, si evidenzia che la molecola IgG intatta (150 kDa) è formata da due catene peptidiche più grandi (55 kDa), le catene H, e da due catene peptidiche più piccole (22 kDa), le catene L. Per determinare la relazione tra i frammenti di digestione enzimatica (Fab, F(ab)2 e Fc) e i prodotti del trattamento con mercaptoetanolo (catene H e catene L) si utilizzano proprio degli anticorpi. Utilizzando antisieri di capre immunizzate con frammenti Fab o con frammenti Fc di coniglio, si osserva che:
-‐ gli Ab contro i Fab riconoscono sia le catene H, sia le catene L -‐ gli Ab contro gli Fc riconoscono solo le catene H.
Queste osservazioni portano alle segenti conclusioni: -‐ i Fab sono formati da una parte di catena H e da una catena L intera -‐ gli Fc sono formati solo da porzioni di catene H.
Grazie a questi esperimenti è stato possibile elaborare il modello di struttura degli anticorpi. ESISTONO DUE TIPI PRINCIPALI DI CATENE LEGGERE Mentre la metà N-‐terminale della catena leggera presenta una sequenza amminoacidica diversa in anticorpi diversi, la metà C-‐terminale presenta due possibili sequenze di base. Esistono, infatti, due tipi di catene leggere:
-‐ le catene κ, che costituiscono il 60% delle catene leggere nell’uomo -‐ le catene λ, che costituiscono il 40% delle catene leggere nell’uomo
Un singolo anticorpo contiene o solo catene κ o solo catene λ, mai entrambe. ESISTONO DUE TIPI PRINCIPALI DI CATENE PESANTI Anche in questo caso, mentre la metà N-‐terminale presenta una sequenza amminoacidica diversa in anticorpi diversi, la metà C-‐terminale presenta un ridottissimo numero di possibili sequenze di base, in questo caso cinque. Esistono, quindi, cinque tipi di catene pesanti, ciascuna delle quali è tipica di una specifica classe anticorpale:
-‐ le catene µ à IgM -‐ le catene δ à IgD -‐ le catene γ à IgG -‐ le catene ε à IgE -‐ le catene α à IgA
Ciascuna di queste diverse catene pesanti è definita isotipo. Le catene δ, γ e α sono lunghe 330 amminoacidi. Le catene µ ed ε sono lunghe 440 amminoacidi.
19 SITO DI LEGAME PER L’ANTIGENE Analizzando i domini VL e VH di anticorpi umani, è stato osservato che la massima variabilità è localizzata nelle porzioni della sequenza amminoacidica che corrispondono alle anse di unione dei nastri β. Queste regioni sono definite regioni determinanti la complementarietà, CDR; sono infatti esse a costituire il sito “complementare” all’antigene. In ciascun dominio V sono presenti tre anse CDR. Le rimanenti parti dei domini VL e VH hanno una variabilità molto inferiore e formano le cosiddette regioni cornice. Le regioni cornice costituiscono l’impalcatura che sostiene le tre anse CDR. L’ampio spettro di specificità dei vari anticorpi dipende dalla diversa sequenza amminoacidica e lunghezza delle sei anse CDR presenti in ciascun frammento Fab. Studi cristallografici hanno dimostrato che, in genere, il contatto con l’antigene coinvolge un numero maggiore di residui amminoacidici nelle CDR delle catene pesanti, rispetto a quelle delle catene leggere. In altre parole, spesso il dominio VH contribuisce maggiormente al legame con l’antigene rispetto al dominio VL. Si è osservato, inoltre, che talvolta il legame Ag-‐Ab determina modificazioni conformazionali nell’antigene, nell’anticorpo o in entrambi. ✣ FUNZIONI EFFETTRICI MEDIATE DAGLI ANTICORPI ✣ Per essere efficaci gli anticorpi non devono solamente riconoscere l’antigene, ma devono anche mediare delle risposte effettrici che portino alla rimozione dell’antigene e alla morte del patogeno. Le regioni variabili dell’anticorpo (VL e VC) mediano il riconoscimento dell’antigene. La regione costante della catena pesante (CH) media una serie di interazioni collaborative con proteine, cellule e tessuti da cui dipendono le risposte effettrici. Poiché queste risposte dipendono dall’interazione tra la regione costante della catena pesante e altre strutture, le diverse classi immunoglobuliniche avranno proprietà funzionali diverse.
1. Opsonizzazione. Consiste nell’induzione della fagocitosi dell’antigene da parte di macrofagi e neutrofili. Sulla superficie dei fagociti sono espressi recettori per l’Fc (FcR) in grado di legare la porzione costante di alcune Ig. Una cellula batterica, ad esempio, riconosciuta da numerosi anticorpi diversi, potrà fissarsi alla membrana di un fagocita grazie all’interazione Fc-‐Fcr. In seguito a questo evento si verifica l’internalizzazione.
2. Attivazione del complemento. È specifica delle IgM e delle IgG.
3. Citotossicità cellulare anticorpo-‐dipendente, ADCC. Mediata innanzitutto da linfociti Tc e linfociti NK.
4. Attivazione di mastociti, basofili ed eosinofili. È specifica delle IgE. ✣ ATTIVITÀ BIOLOGICHE DELLE CLASSI DI IMMUNOGLOBULINE ✣ IgG Rappresentano l’80% delle immunoglobuline sieriche totali. Sono formate da due catene pesanti γ e da due catene leggere, λ o k. Nell’uomo, ci sono 4 sottoclassi di IgG (IgG1/IgG2/IgG3/IgG4), distinte da differenze nella sequenza amminoacidica della regione costante della catena γ e numerate in base alla concentrazione media decrescente nel siero. Le differenze di sequenza comportano differenze nelle dimensioni della regione cerniera e nella collocazione dei ponti disolfuro intercatena tra catene pesanti. Queste sottili differenze condizionano l’attività biologica delle sottoclassi:
-‐ IgG1, IgG3 e IgG4 attraversano con facilità la barriera placentale e proteggono il feto in via di sviluppo -‐ IgG3 e, in misura minore IgG1, sono i più efficaci attivatori del complemento -‐ IgG1 e IgG3 manifestano la più elevata affinità per i recettori FcR dei fagociti, mdiando l’opsonizzazione.
20 IgM Rappresentano il 5-‐10% delle immunoglobuline sieriche totali. Sono formate da due catene pesanti µ e da due catene leggere, λ o κ. Sono la prima classe di anticorpi prodotta dal neonato e la prima classe prodotta durante la risposta primaria. Sono espresse in membrana come monomeri. Sono secrete come pentameri, in cui 5 unità monomeriche sono tenute assieme da ponti disolfuro intercorrenti tra i vari domini CH3 e tra i vari domini CH4. Le cinque unità monomeriche sono montate in modo che le regioni Fc siano situate al centro del pentamero, mentre all’esterno sino esposti i dieci siti Fab di legame per l’antigene. Ciascun pentamero contiene un polipeptide addizionale detto catena J e legato, mediante ponti disolfuro, alle regioni Fc di due dei cinque monomeri. Le catene J sono necessarie alla polimerizzazione della struttura pentamerica. Grazie alla loro struttura pentamerica, le IgM secrete sono più efficienti delle IgG nell’attivazione del complemento; quest’ultima infatti richiede almeno due regioni Fc in stretta vicinanza, situazione che è naturalmente soddisfatta nella struttura pentamerica delle IgM. Le IgM hanno un ruolo accessorio, affianco alle IgA, come anticorpi secretori; la catena J, infatti, ne permette il trasporto transepiteliale. IgA Rappresentano solo il 10-‐15% delle immunoglobuline sieriche totali. Sono formate da due catene pesanti α e da due catene leggere, λ o κ. Sono la classe immunoglobulinica predominante nelle secrezioni esterne (latte, saliva, lacrime muco dei tratti tracheobronchiale/genitourinario/digestivo). Nel siero sono presenti soprattutto come monomeri, occasionalmente come polimeri. Nelle secrezioni sono presenti come dimeri o tetrameri formati da:
-‐ IgA -‐ catena J, necessaria alla polimerizzazione -‐ componente secretoria, frammento del recettore necessario al trasporto transcellulare; consiste di 5
domini di tipo immunoglobulinico che si legano alle regioni Fc del dimero di IgA; l’interazione è stabilizzata dalla presenza di un ponte disolfuro tra il 5° dominio immunoglobulinico e la regione Fc di una delle due IgA.
I linfociti che producono IgA migrano preferenzialmente nel tessuto sottoepiteliale; qui differenziano in plasmacellule secernenti. Le IgA prodotte si legano saldamente ad un recettore specifico per immunoglobuline polimeriche, detto recettore poli-‐Ig. Questo recettore è espresso sulla superficie basolaterale delle cellule degli epiteli mucosi (superfici tratto digestivo, respiratorio, genitourinario) e degli epiteli ghiandolari (ghiandole mammarie, salivari, lacrimali). Si verifica una endoctosi mediata da recettore con formazione di vescicole ricoperte (coated pits) che vengono trasportate attraverso il citoplasma fino alla superficie endoluminle della cellula ove si fondono con la membrana. Il recettore poli-‐Ig viene scisso enzimaticamente dalla membrana e permane come componente secretoria polimeri di IgA. La componente secretoria maschera siti della regione cerniera delle IgA secretorie, impedendo che gli enzimi proteolitici normalmente presenti sulle mucose possano danneggiarla. In questo è aumentata l’emivita delle IgA in ambiente mucoso. Il ruolo svolto dalle IgA presso le mucose è molto importante; le mucose, infatti, rappresentano la principale via di ingresso di patogeni nel nostro organismo. L’interazione delle IgA con antigeni presenti sulla superficie di batteri, ad esempio, impedisce che questi ultimi possano aderire alla superficie cellulare, inibendo così la colonizzazione batterica; i complessi IgA-‐antigene sono facilmente intrappolati nel muco ed eliminati. Le IgA, molto abbondanti nel latte materno, svolgono un ruolo cruciale nella difesa del neonato. IgE Sono presenti nel siero a concentrazioni molto basse (0.3 µg/ml). Sono formate da due catene pesanti ε e da due catene leggere, λ o κ. Mediano le risposte di ipersensibilità di tipo I e sono importanti nella risposta contro i parassiti; svolgono queste funzioni legandosi a recettori ad alta affinità espressi su mastociti e basofili e inducendone, quindi, la degranulazione.
21 IgD Sono presenti nel siero a concentrazioni molto basse (0.2 µg/ml). Sono formate da due catene pesanti δ e da due catene leggere, λ o κ. Sono, assieme alle IgM, le principali immunoglobuline espresse sulla superficie dei linfociti B maturi. Non è ancora stata individuata una funzione effettrice specifica di questo tipo anticorpale.
22
ORGANIZZAZIONE ED ESPRESSIONE DEI GENI DELLE IMMUNOGLOBULINE ✣ ORGANIZZAZIONE MULTIGENICA DEI GENI DELLE IMMUNOGLOBULINE ✣ Le catene leggere λ e κ e le catene pesanti sono codificate da famiglie multigeniche distinte, localizzate su cromosomi differenti.
GENE CROMOSOMA Catena leggera λ 22 Catena leggera κ 2 Catena pesante 14
Nel DNA in configurazione germinale, ciascuna di queste famiglie multigeniche contiene diversi segmenti genici codificanti, separati da regioni non codificanti. Durante la maturazione dei linfociti B, questi segmenti genici vengono riarrangiati e congiunti per formare i geni funzionali delle Ig. Le famiglie geniche delle catene leggere κ e λ contengono i segmenti genici V, J e C. I segmenti riarrangiati VJ codificano la regione variabile delle catene leggere. Il segmento C codifica la regione costante. Le famiglie geniche delle catene pesanti contengono i segmenti genici V, D, J e C. I segmenti riarrangiati VDJ codificano la regione variabile delle catene pesanti. Il segmento C codifica la regione costante. Ogni segmento genico V è preceduto, all’estremità 5’, da un piccolo esone che codifica un peptide segnale, che dirige la catena pesante o leggera in via di traduzione attraverso il RE. Il peptide segnale viene eliminato prima dell’assemblaggio definitivo della molecola immunoglobulinica. I segmenti genici V, J, e C, per la catena leggera e V, D, J e C per quella pesante si susseguono in direzione 5’-‐3’. FAMIGLIA MULTIGENICA λ Segmenti genici V 30 Segmenti genici J 4 Segmenti genici C 7 (di cui solo 4 funzionali) FAMIGLIA MULTIGENICA κ
Segmenti genici V 40 (circa) Segmenti genici J 5 Segmenti genici C 1 FAMIGLI MULTIGENICA DELLA CATENA PESANTE
Segmenti genici V 39 Segmenti genici D 23 Segmenti genici J 6 Segmenti genici C In numero corrispondente ai
possibili isotipi di Ig
23 ✣ RIARRANGIAMENTI DELLA REGIONE VARIABILE ✣ I riarrangiamenti dei geni della regione variabile avvengono secondo una sequenza ordinata durante la maturazione dei linfociti B nel midollo osseo. Prima riarrangiano i geni della catena pesante, poi quelli della catena leggera. Alla fine di questo processo, ciascun linfocita B possiede una sola sequenza funzionale per la porzione variabile della catena pesante ed una sola sequenza funzionale per la porzione variabile della catena leggera. Nonostante il preciso ordine di svolgimento, i riarrangiamenti della regione variabile sono eventi casuali e casuale sarà la specificità acquisita da ciascun linfocita B. RIARRANGIAMENTO DELLA CATENA PESANTE Si svolge in due passaggi:
1. avviene la ricombinazione di un segmento V con un segmento D a formare un segmento VD 2. avviene la ricombinazione del segmento VD con un segmento J a formare il segmento VDJ, che codifica la
regione variabile della catena pesante. Al termine del riarrangiamento il gene della catena pesante è così organizzato:
5’ – promotore – esone leader – introne – segmento riarrangiato VDJ – introne – serie di segmenti C – 3’
Al termine del riarrangiamento la RNA polimerasi lega il promotore e inizia la trascrizione. Viene prodotto un trascritto primario caratterizzato da due soli segmenti C: Cµ e Cδ. La seguente processazione del trascritto primario porta alla produzione di un RNA contenente o il segmento Cµ o il segmento Cδ. Entrambi i messaggeri vengono tradotti e, dopo il distacco del peptide segnale, si ottengono catene pesanti mature di tipo µ o δ. Grazie a questa produzione di un doppio RNA per le catene pesanti, i linfociti B maturi ed immunocompetenti esprimeranno in superficie anticorpi IgM e IgD, dotati della stessa specificità antigenica. RIARRANGIAMENTO DELLA CATENA LEGGERA Si svolge in un unico passaggio: avviene la ricombinazione di un segmento V con un segmento J a formare il segmento VJ che codifica la regione variabile della catena leggera. Al termine del riarrangiamento il gene della catena leggera è così organizzato:
5’ – promotore – esone leader – introne – segmento riarrangiato VJ – introne – segmento C – 3’ Al termine del riarrangiamento, la RNA polimerasi lega il promotore e inizia la trascrizione. Si ottiene un trascritto primario che subirà una particolare processazione, durante la quale innanzi tutto saranno eliminate le sequenze introniche. MECCANISMI DEL RIARRANGIAMENTO Nel DNA in configurazione germinale sono presenti sequenze segnale di ricombinazione (RSS), che sono collocate:
-‐ in posizione 3’ rispetto a ciascun segmento V -‐ in posizione 5’ rispetto a ciascun segmento J -‐ a entrambi i lati di ciascun segmento D
Ciascuna RSS contiene un eptamero palindromico e un nonamero conservato ricco in A-‐T, separati da una sequenza spaziatrice di 12 o 23 paia di basi. Le sequenze interposte di 12 e 23 paia di basi corrispondono, rispettivamente, a uno o due giri dell’elica di DNA; per questo motivo queste sequenze sono definite RSS a un giro e RSS a due giri. Nei geni della catena leggera κ:
-‐ segmenti V à RSS a un giro -‐ segmenti J à RSS a due giri
Nei geni della catena leggera λ: -‐ segmenti V à RSS a due giri -‐ segmenti J à RSS a un giro
24 Nei geni della catena pesante:
-‐ segmenti V e J à RSS a un giro -‐ segmento D à RSS a due giri
Le RSS a un giro possono appaiarsi solo con le RSS a due giri (“regola di giunzione un giro/due giri”). Questa regola garantisce, ad esempio, che un segmento VL si possa appaiare solo con un segmento JL e non con un altro VL. Permette, inoltre, il riarrangiamento dei segmenti V, D, J nell’ordine corretto, evitando unioni fra segmenti dello stesso tipo. La riarrangiamento fra i vari segmenti genici è catalizzato dalle ricombinasi RAG1 e RAG2, presenti solo nei linfociti che stanno maturando. Il riarrangiamento si svolge nel modo seguente:
1. Le ricombinasi riconoscono due sequenze RSS e le avvicinano, trascinando in questo movimento anche i segmenti genici adiacenti alle RSS.
2. Le ricombinasi tagliano un filamento di DNA presso le giunzioni RSS-‐segmento genico.
3. Il gruppo -‐OH libero al 3’ del filamento tagliato attacca il legame fosfodiesterico corrispondente sul filamento opposto, generando: -‐ una struttura a “forcina” a livello dell’estremità tagliata della sequenza codificante -‐ il taglio dell’altro filamento di DNA della giunzione RSS-‐segmento genico.
4. La forcina viene rotta in punti casuali da endonucleasi, permettendo l’inserimento di nucleotidi P.
5. L’enzima transferasi dessosiribonucleotidica terminale(TdT) catalizza l’inserimento di nucleotidi N (al massimo 15) alle estremità libere dei segmenti genici V, D, J.
6. Enzimi di riparazione del DNA catalizzano: -‐ l’unione dei due o tre segmenti genici codificanti a formare un segmento VJ o VDJ -‐ l’unione delle due RSS. Se i due segmenti genici hanno lo stesso orientamento trascrizionale, la giunzione avviene “per delezione” e si ha l’eliminazione di un prodotto circolare comprendente le RSS e il DNA che si trovava interposto tra i due segmenti genici; Se i due segmenti genici hanno orientamento trascrizionale opposto, la giunzione avviene “per inversione” e si ha il mantenimento dei segmenti genici, delle RSS e del DNA interposto tra i segmenti genici.
Sebbene i tagli nel DNA a doppia elica avvengano sempre alla giunzione RSS-‐segmento genico codificante, la successiva giunzione dei segmenti codificanti è imprecisa. Questa imprecisione può determinare:
-‐ un riarrangiamento produttivo e, in questo caso, favorire la generazione della diversità anticorpale -‐ un riarrangiamento non produttivo, in quanto i segmenti VJ o VDJ possono essere stati congiunti fuori
fase e possono essersi creati codoni stop.
25 ✣ ESCLUSIONE ALLELICA ✣ I Linfociti B come tutte le cellule somatiche sono diploidi e contengono sia cromosomi materni che paterni. Nonostante il linfocita B sia diploide, esso esprime i geni riarrangiati della catena pesante e della catena leggera di un solo cromosoma. Questo meccanismo, detto “esclusione allelica”, assicura che i linfociti B funzionali non contengano mai più di una unità riarrangiata VHDHJH (per la catena pesante) e una VLJL (per la catena leggera). Questo è essenziale per mantenere la specificità del linfocita B, poiché l’espressione di entrambi gli alleli lo renderebbe multispecifico. Il modello che spiega l’esclusione allelica è il seguente: 1. Nella cellula B progenitrice i geni della catena pesante sono riarrangiati per primi.
1.1. Riarrangiamento VHDHJH del 1° allele produttivo à è prodotta una catena pesante µ
à il riarrangiamento del 2° allele è inibito à è attivato il riarrangiamento di κ.
1.2. Riarrangiamento VHDHJH del 1° allele non produttivo à è avviato il riarrangiamento del 2° allele à riarrangiamento del 2° allele produttivo à è prodotta una catena pesante µ à è attivato il riarrangiamento di κ.
1.3. Riarrangiamento non produttivo sia per il 1° sia per il 2° allele à non può essere prodotta alcuna catena pesante µ à morte cellulare.
2. I geni della catena leggera sono riarrangiati per secondi. 2.1. Riarrangiamento VLJL del 1° allele κ produttivo à sintesi di un anticorpo completo (µ + κ)
à il riarrangiamento del 2° allele κ è inibito.
2.2. Riarrangiamento VLJL del 1° allele κ non produttivo à è avviato il riarrangiamento del 2° allele κ à riarrangiamento del 2° allele κ produttivo à sintesi di un anticorpo completo (µ + κ).
2.3. Riarrangiamento non produttivo sia per il 1° sia per il 2° allele k à è avviato il riarrangiamento dei geni della catena leggera λ.
2.3.1. Riarrangiamento VLJL del 1° allele λ produttivo à sintesi di un anticorpo completo (µ + λ)
à il riarrangiamento del 2° allele λ è inibito.
2.3.2. Riarrangiamento VLJL del 1° allele λ non produttivo à è avviato il riarrangiamento del 2° allele λ à Riarrangiamento del 2° allele λ produttivo à sintesi di un anticorpo completo (µ + λ).
2.3.3. Riarrangiamento non produttivo sia per il 1° sia per il 2° allele λ à non può essere prodotta né una catena leggera κ, né una catena leggera λ à morte cellulare.
26 ✣ GENERAZIONE DELLA DIVERSITÀ ANTICORPALE ✣ I metodi che permettono di generare diversità anticorpale sono i seguenti:
1. Segmenti genici multipli in configurazione germinale.
2. Giunzioni combinatorie VJ e VDJ
3. Flessibilità giunzionale, che dipende dalla giunzione imprecisa dei segmenti genici codificanti. Questo fenomeno causa numerosi riarrangiamenti non produttivi (dovuti alla generazione di codoni stop), ma anche numerose combinazioni produttive codificanti amminoacidi diversi in corrispondenza delle giunzioni. Le variazioni amminoacidiche generate dalla flessibilità giunzionale cadono entro la regione CDR3 delle catene pesanti e leggere. Poiché la regione CDR3 rappresenta una porzione significativa del sito di legame per l’antigene, la flessibilità giunzionale contribuisce notevolmente alla diversità anticorpale.
4. Aggiunta di nucleotidi P, che avviene in seguito alla rottura della forcina. Questa rottura può lasciare un breve tratto a singola elica alla fine della sequenza codificante che è ripristinata con l’aggiunta di nucleotidi P.
5. Aggiunta di nucleotidi N, che sono inseriti dall’enzima TdT tra i segmenti genici codificanti che si stanno appaiando. Avviene solo nei geni delle catene pesanti.
6. Ipermutazione somatica, che consiste nella sostituzione di singoli nucleotidi nelle unità VJ e VDJ già riarrangiate. Normalmente, avviene solo nei centri germinativi degli organi linfatici secondari in seguito all’interazione con l’antigene. I linfociti B che in seguito all’ipermutazione somatica producono anticorpi con una specificità aumentata saranno selezionati positivamente e sopravvivranno, quelli che producono anticorpi con una specificità diminuita moriranno.
7. Associazione combinatoria di catene pesanti e leggere.
✣ SWITCH ISOTIPICO TRA I GENI DELLA CATENA PESANTE ✣ Nel linfocita B maturo il gene della catena pesante è costituito dal segmento riarrangiato VHDHJH (codificante la regione variabile) e da una serie di segmenti genici CH (codificanti la regione costante) in numero corrispondente agli isotipi possibili. Finché il linfocita B non incontra l’antigene, il segmento genico riarrangiato VHDHJH potrà combinarsi solo con i segmenti Cµ o Cδ, producendo IgM e IgD. In seguito all’interazione con l’antigene, il segmento genico riarrangiato VHDHJH potrà combinarsi anche con i segmenti Cγ, Cε e Cα, producendo IgG, IgE e IgA. Questo fenomeno è detto switch isotipico. MECCANISMI DELLO SWITCH A 2-‐3 kb di distanza in direzione 5’ rispetto ad ogni segmento CH (escluso Cδ) sono presenti regioni di switch. Queste regioni sono piuttosto estese e contengono brevi sequenze ripetute (GAGCT e TGGGG). Specifiche ricombinasi riconoscono queste sequenze e, legandosi ad esse, determinano lo switch di classe. L’enzima citidina-‐desaminasi indotta dall’attivazione (AID) ha un ruolo cruciale sia nello switch isotipico, sia nell’ipermutazione somatica. Alcune citochine agiscono da fattori di switch e determinano la particolare classe immunoglobulinica che sarà espressa. Ad esempio, IL4: Cµ à Cγ1 à Cε secondo un processo sequenziale.
27
IL RECETTORE DEI LINFOCITI T (TCR)
✣ STRUTTURA ✣ Il TCR è un eterodimero formato da due catene:
-‐ α e β à espresso dalla maggior parte dei linfociti T -‐ γ e δ à espresso da una popolazione minore di linfociti T
Ciascuna catena è formata da una porzione extracellulare, da una porzione transmembrana e da una porzione citoplasmatica. La porzione extracellulare è formata da:
1. due domini di tipo immunoglobulinico: -‐ uno più esterno, N-‐terminale, caratterizzato da una notevole variabilità di sequenza e definito V (variabile) -‐ uno più interno, caratterizzato da una sequenza amminoacidica conservata e definito C (costante)
2. una sequenza di connessione contenente un residuo di cisteina che partecipa alla formazione del ponte
disolfuro che unisce le due catene. La porzione transmembrana è formata da 21 o 22 amminoacidi alcuni dei quali hanno carica positiva. Questi amminoacidi carichi permettono l’interazione tra il TCR e il complesso CD3 di trasduzione del segnale. La porzione citoplasmatica è breve (5-‐12 amminoacidi) e costituisce l’estremità C-‐terminale. Data la presenza dei domini di tipo immunoglobulinico, anche il TCR è ascritto alla superfamiglia delle immunoglobuline. Nel complesso il TCR può essere paragonato a un frammento Fab inserito direttamente sulla membrana plasmatica. DIFFERENZE TRA LINFOCITI T αβ Ε γδ Linfociti T αβ Rappresentano la maggior parte dei linfociti T circolanti. Interagiscono con antigeni peptidici esposti nel contesto di molecole MHC. Linfociti T γδ Rappresentano una parte minoritaria dei linfociti T circolanti. Non richiedono né la processazione, né la presentazione su MHC per il riconoscimento dell’antigene. La maggior parte di essi non esprime né CD4, né CD8. La maggior parte di essi esprime la stessa coppia di catene γδ, che riconosce 3-‐formil-‐1-‐butil-‐pirofosfato presente, ad esempio, sul Mycobacterium tubercolosis. Il fatto che essi siano in grado di legare molecole MHC non classiche e di riconoscere preferibilmente antigeni con cui entrano frequentemente in contatto suggerisce che queste cellule possano avere un ruolo nella risposta rapida propria dell’immunità innata. Il loro numero aumenta notevolmente in infezioni di vari tipi batterici, come Mycobacterium tubercolosis, Hemophilus influenzae, o di parassiti della malaria e della leishmaniosi. Sono in grado di secernere citochine e chemochine per il reclutamento dei linfociti T αβ nel sito d’infezione.
28 ✣ ORGANIZZAZIONE E RIARRANGIAMENTO DEI GENI DEL TCR ✣ I geni che codificano il TCR sono presenti solo nei linfociti T. I quattro loci del TCR (α, β, γ e δ) presentano un’organizzazione multigenica della linea germinativa simile a quella dei geni delle immunoglobuline. I geni funzionali del TCR sono prodotti in seguito a:
-‐ riarrangiamento dei segmenti delle famiglie V e J per le catene α e γ -‐ riarrangiamento dei segmenti delle famiglie V, D e J per le catene β e δ.
NUMERO DI SEGMENTI GENICI STIMATI GENE CROMOSOMA V D J C α 14 54 – 61 1 β 14 3 3 3 1 γ 7 67 2 14 2 δ 7 14 – 5 2
I segmenti genici della catena δ si trovano sul cromosoma 14 tra i segmenti Vα e Jα. Questa localizzazione ha un importante significato: un riarrangiamento produttivo dei segmenti genici della catena α porta alla delezione di Cδ e per questo motivo una cellula non può coesprimere il TCR αβ assieme a quello γδ. In tutti i casi elencati nella tabella, le famiglie possono comprendere pseudogeni (membri non funzionali a causa di mutazioni). Per questo motivo, per ciascuna famiglia, il numero di segmenti genici effettivamente funzionali è di certo inferiore a quelli riportati in tabella. Il riarrangiamento avviene in maniera analoga a quello delle Ig: sono presenti ricombinasi (RAG1 e RAG2) che riconoscono RSS “a un giro” e RSS “a due giri” ed eseguono giunzioni seguendo la regola “un giro/due giri”. Sebbene i linfociti T e B utilizzino meccanismi molto simili per i riarrangiamenti genici delle regioni variabili, i geni delle Ig non vengono riarrangiati nei linfociti T e quelli del TCR non vengono riarrangiati nei linfociti B. Questo avviene perché:
-‐ il sistema enzimatico delle ricombinasi è regolato diversamente -‐ la cromatina è configurata diversamente e permette alle ricombinasi di accedere solo ai geni che
codificano il recettore appropriato per quel tipo cellulare. Per le catene α e γ, i geni riarrangiati sono così organizzati:
estremità 5’ – esone leader – introne – segmento VJ – introne – segmento C – estremità 3’ Per le catene β e δ, i geni riarrangiati sono così organizzati:
estremità 5’ – esone leader – introne – segmento VDJ – introne – segmento C – estremità 3’
È bene sottolineare che i vari segmenti genici, in particolar modo il segmento C, sono a loro volta costituiti da una serie di esoni ed introni. Questi ultimi, verranno definitivamente eliminati in seguito alla processazione del trascritto di RNA. ✣ GENERAZIONE DELLA DIVERSITÀ DEL TCR ✣ I metodi che permettono di generare la diversità del TCR sono i seguenti:
1. Segmenti genici multipli in configurazione germinale.
2. Giunzioni combinatorie VJ e VDJ.
3. Giunzione alternativa di segmenti genici D. È dovuta alla differente disposizione delle RSS a un giro e a due gire nel DNA delle catene β e δ del TCR rispetto al DNA delle Ig. Nel riarrangiamento dei geni β può accadere che: -‐ un segmento Vβ si unisca direttamente con un segmento Jβ à formazione della sequenza VJ -‐ un segmento Vβ si unisca prima con un segmento Dβ e poi con uno Jβ à formazione della sequenza VDJ
29 Nel riarrangiamento dei geni δ possono accadere eventi simili, con la particolarità che un segmento Dδ può unirsi ad un altro segmento Dδ generando unità VDDJ o anche VDDDJ.
4. Flessibilità giunzionale. Come nel caso delle Ig questa flessibilità può portare anche a moli riarrangiamenti non produttivi, ma, allo stesso tempo, aumenta notevolmente la variabilità.
5. Aggiunta di nucleotidi P, che avviene nel punto di rottura della forcina che si forma all’estremità del segmento codificante in seguito alla rimozione della RSS. Cambiando il punto di rottura, cambia il punto di inserzione di nucleotidi P.
6. Aggiunta di nucleotidi N, catalizzata dalla transferasi desossiribonucleotidica terminale (TdT). Mentre per quanto riguarda le Ig questo inserimento può avvenire solo nei geni codificanti le catene pesanti, per quanto riguarda il TCR si verifica nei geni di tutte le catene. In questo caso possono essere inseriti in ciascuna giunzione fino a 6 nucleotidi.
A differenza dei geni delle Ig, i geni del TCR non vanno incontro a mutazione somatica. Questo assicura che la specificità dei linfociti T non possa cambiare dopo la selezione timica e diminuisce la probabilità che una mutazione casuale possa generare un linfocita T autoreattivo. ESCLUSIONE ALLELICA DEI GENI TCR I Linfociti T come tutte le cellule somatiche sono diploidi e contengono sia cromosomi materni che paterni. Come avviene nel linfocita B per le catene leggere e pesanti, anche il linfocita T esprime i geni riarrangiati delle catene α, β, γ, δ di un solo cromosoma. Poiché i geni δ sono localizzati all’interno del complesso genico α, sono eliminati in seguito al riarrangiamento della catena α. Questo avvenimento determina in modo irreversibile l’esclusione dei geni δ quando riarrangiano i geni α. Per quanto riguarda la produzione dei TCR αβ, dopo che si è verificato un riarrangiamento produttivo di uno dei due alleli della catena β, il riarrangiamento dell’altro allele β è inibito. La stessa cosa non è vera per gli alleli della catena α. Raramente, infatti, si può verificare un riarrangiamento produttivo per entrambi gli alleli α con produzione di due diversi dimeri αβ. Non è chiaro come i rari linfociti che esprimono due diversi TCR αβ possano mantenere un’unica specificità per l’antigene. È possibile che, quando un linfocita T esprime due diversi TCR αβ, solo uno sia ristretto per l’MHC self e quindi funzionale. ✣ COMPLESSO TCR-‐CD3 ✣ Siccome la porzione citoplasmatica del TCR è molto breve, affinché avvenga la trasduzione del segnale è necessaria la molecola CD3. CD3 è un complesso costituito da 5 catene polipeptidiche monomorfiche (γ, δ, ε, ζ, η), che si associano a formare:
-‐ un eterodimero γε -‐ un eterodimero δε -‐ un omodimero ζζ -‐ un eterodimero ζη
Le catene z e h sono codificate dallo stesso gene, ma differiscono tra loro per l’estremità C-‐terminale a causa di un diverso splicing del trascritto primario. Circa il 90% dei complessi TCR contiene l’omodimero ζζ, il restante 10% contiene l’eterodimero ζη. Le catene γ, δ ed ε appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline; esse comprendono infatti:
-‐ un dominio extracellulare di tipo immunoglobulinico -‐ un dominio transmembrana -‐ un dominio intracellulare di 40 amminoacidi.
La catena ζ ha un struttura diversa; essa comprende:
-‐ una regione extracellulare di soli 9 amminoacidi -‐ una regione transmembrana -‐ una lunga coda citoplasmatica di 113 amminoacidi.
30 La porzione transmembrana di tutte le catene contiene un amminoacido con carica negativa (aspartato o glutammato) che interagisce con uno o due amminoacidi carichi positivamente presenti nella regione transmembrana del TCR. Le code citoplasmatiche di tutte le catene contengono la sequenza ITAM (immunoreceptor tyrosine-‐based activation motif), in grado di interagire con diverse tirosino-‐chinasi e dunque giocare un ruolo centrale nella trasduzione del segnale. Le catene γ, δ ed ε contengono una singola copia di ITAM. Le catene ζ ed η contengono tre copie di ITAM. ✣ CO-‐RECETTORI CD4 E CD8 ✣ I linfociti T possono essere suddivisi in due popolazioni sulla base dell’espressione delle molecole di membrana CD4 e CD8.
-‐ Linfociti T CD4+ à riconoscono l’Ag associato a MHC II e funzionano da cellule helper. -‐ Linfociti T CD8+ à riconoscono l’Ag associato a MHC I e funzionano da cellule citotossiche.
MOLECOLA CD4 È una glicoproteina monomerica di 55 kDa, formata da:
-‐ 4 domini extracellulari di tipo immunoglobulinico -‐ una regione transmembrana -‐ una coda citoplasmatica contenente 3 serine che possono essere fosforilate
Interagisce con i residui α2 e β2 dell’MHC II. MOLECOLA CD8 Può essere o un eterodimero αβ o un omodimero αα. Le catene α e β sono glicoproteine di 30-‐38 kDa che comprendono:
-‐ un dominio extracellulare di tipo immunoglobulinico -‐ una regione idrofobica transmembrana -‐ una coda citoplasmatica di 25-‐27 amminoacidi, molti dei quali fosforilabili.
Riconosce e lega i domini α2 e α3 e la β2-‐microglobulina dell’MHC I. ✣ MOLECOLE DI ADESIONE CELLULARE ✣ L’affinità del TCR per il complesso MHC-‐peptide è piuttosto scarsa, se confrontata con l’affinità dell’Ab per l’Ag. Tuttavia, le interazioni dei linfociti T non dipendono solo dal legame mediato dal TCR: diverse molecole di adesione cellulare rafforzano il legame tra il linfocita T e la APC o la cellula bersaglio. Molecole come CD2, CD28, CD45R, LFA1 si uniscono indipendentemente a specifici ligandi espressi selle APC o sulle cellule bersaglio, stabilendo un contatto cellule-‐cellula. Dopo che si è stabilito questo contatto, il TCR esamina i complessi MHC-‐peptide espressi in membrana. Se il linfocita T è attivato da un complesso MHC-‐peptide, si verifica un transitorio aumento delle molecole di adesione di membrana, che portano ad un più stretto contatto cellula-‐cellula e ad un rilascio più efficiente di citochine o di sostanze citotossiche. Dopo l’attivazione, il livello di adesione diminuisce e il linfocita T si allontana dall’APC o dalla cellula bersaglio.
31 ✣ ALLOREATTIVITÀ DEI LINFOCITI T ✣ A causa dell’elevato polimorfismo delle molecole MHC, ciascun individuo di una stessa specie presenta un insieme unico di molecole MHC ed è considerato allogenico (geneticamente diverso dagli altri individui della specie). Le reazioni di rigetto dei trapianti sono causate da una risposta diretta dei linfociti T nei confronti di molecole MHC, che funzionano da antigeni di istocompatibilità (alloantigeni). I linfociti T rispondono in modo potente a trapianti allogenici. I linfociti T CD4+ sono alloreattivi nei confronti degli alloantigeni di classe I. I linfociti T CD8+ sono alloreattivi nei confronti degli alloantigeni di classe II. L’alloreattività comporta due aspetti difficili da spiegare:
1. La capacità dei linfociti T di reagire contro alloantigeni direttamente (senza bisogno dell’esposizione da parte di un MHC) sembra contraddire l’evidenza che i linfociti T rispondano solo ad antigeni estranei associati a molecole self.
2. I linfociti T alloreattivi sono molto numerosi: circa il 5% dei linfociti T è alloreattivo verso un determinato alloantigene: una percentuale molto più alta rispetto a quella dei linfociti T reattivi verso un antigene estraneo associato ad una molecole MHC self. Questo secondo dato sembra contraddire la teoria della selezione clonale.
Una possibile spiegazione dell’elevata frequenza di linfociti T alloreattivi è che un determinato TCR non sia specifico solo per un peptide antigenico estraneo presentato da una molecola MHC self, ma possa anche crossreagire con alcune molecole MHC allogeniche. In altre parole, gli alloantigeni riconosciuti da un particolare TCR hanno struttura analoga a quella del complesso MHC-‐peptide per cui quel TCR è specifico. Il riconoscimento dell’MHC estraneo può essere:
-‐ diretto à i linfociti T riconoscono gli alloantigeni preseti sulle cellule estranee come se fossero MHC self -‐ idiretto à i linfociti T riconoscono un alloantigene presentato da una APC, che ha inglobato e distrutto la
cellula estranea.
32
MATURAZIONE, ATTIVAZIONE E DIFFERENZIAMENTO DEI LINFOCITI T
✣ MATURAZIONE DEI LINFOCITI T NEL TIMO ✣ Nell’uomo, i progenitori dei linfociti T iniziano la loro migrazione nel timo dai siti iniziali dell’emopoiesi intorno alla 8a o 9a settimana di gestazione. Quando arrivano nel timo, i precursori dei linfociti T non esprimono nessuna delle molecole di superficie tipiche del linfocita T maturo (TCR, CD4 e CD8). Queste cellule non hanno ancora riarrangiato i geni del TCR e non esprimono proteine necessarie a tale processo (RAG1 e RAG2). Nel timo, queste cellule si trovano nella corticale esterna e qui proliferano lentamente. Poiché inizialmente i timociti sono privi sia di CD4 sia di CD8, sono detti doppi negativi (DN). Questi timociti DN possono essere suddivisi in quattro sottogruppi in base alla presenza o assenza di molecole di superficie diverse da CD4 e CD8, come c-‐Kit (recettore dell’SCF), CD44 e CD25 (catena α del recettore dell’IL2).
1. Le cellule che entrano nel timo, dette DN1, possono dare origine a tutte le sottopopolazioni di linfociti T e hanno fenotipo c-‐Kit+, CD44hight, CD25-‐.
2. Nel timo, queste cellule cominciano a proliferare, esprimono CD25 e divengono DN2, avendo fenotipo c-‐Kit+, CD44low, CD25+. È in questa fase che iniziano i riarrangiamenti dei geni delle catene β, γ e δ; invece, il locus della catena α non riarrangia ancora, probabilmente perché il DNA in tale zona è densamente impaccato e non accessibile al macchinario di ricombinazione. Le cellule destinate a diventare linfociti T γδ divergono dal processo maturativo al momento della transizione dallo stadio DN2 a DN3 e divengono linfociti T maturi con minime variazioni del loro fenotipo di superficie.
3. Le cellule smettono di esprimere c-‐Kit, progredendo allo stadio DN3 e assumendo fenotipo c-‐Kit-‐, CD44low, CD25+. Le cellule che progrediscono a questo stadio sono quasi tutte destinate a divenire linfociti T αβ. Queste cellule bloccano la proliferazione e nel loro citoplasma compiono le catene β neosintetizzate. Queste ultime si combinano con pre-‐Tα, si associano al gruppo CD3 e formano un complesso detto pre-‐TCR. La formazione del pre-‐TCR attiva una via di trasduzione del segnale che: -‐ indica che è avvenuto un riarrangiamento produttivo della catena b -‐ sopprime l’ulteriore riarrangiamento dei geni della catena b con conseguente esclusione allelica -‐ stimola il riarrangiamento dei geni della catena a del TCR -‐ induce la progressione verso lo stadio CD4+ CD8+ doppio positivo.
4. Le cellule progrediscono allo stadio DN4 che ha fenotipo c-‐Kit-‐, CD44low, CD25-‐.
Subito dopo, sono espressi si CD4 sia CD8, cosicché, a questo stadio, i linfociti T sono detti doppi positivi (DP) e proliferano rapidamente. Il riarrangiamento della catena α non è ancora iniziato e non inizia finché i timociti non arrestano la proliferazione. La proliferazione prima del riarrangiamento della catena a aumenta la diversità del repertorio T. Infatti viene prodotto un clone di linfociti T aventi tutti la stessa catena β, ma che potranno riarrangiare geni diversi della catena α; si genera così una popolazione con una diversità molto maggiore rispetto a quella che si sarebbe ottenuta se la proliferazione fosse iniziata dopo aver riarrangiato sia la catena β sia la catena α. Questa aumentata diversità rende anche più probabile che alcuni membri del clone esprimano un TCR con caratteristiche adatte al superamento della selezione positiva.
33 SELEZIONE TIMICA DEL REPERTORIO T La presenza di un TCR completo permette ai timociti di andare incontro a due particolari processi che avvengono nel timo:
1. la selezione positiva, che fa si che i linfociti T siano ristretti per l’MHC; essa infatti permette la sopravvivenza dei linfociti T i cui TCR riconoscono molecole MHC self;
2. la selezione negativa, che fa si che i linfociti T siano tolleranti al self; essa elimina i linfociti T che riconoscono troppo bene molecole MHC self, o che riconoscono molecole MHC self che espongono peptidi self.
I timociti che intraprendono la selezione timica sono ancora doppi positivi. Se sopravvivono alla selezione essi differenziano in timociti singoli positivi CD4+ o singoli positivi CD8+. Queste cellule singole positive vanno incontro a un nuovo processo di selezione negativa e migrano dalla corticale alla midollare del timo, da cui passano nel sistema circolatorio. Selezione positiva assicura la restrizione per MHC Avviene nella zona corticale del timo e richiede l’interazione tra timociti e cellule epiteliali corticali. Questa interazione trasmette ai timociti un segnale protettivo che impedisce loro di morire; le cellule, il cui recettore non è capace di legare le molecole MHC, non interagiscono con le cellule epiteliali timiche e, non ricevendo alcuno stimolo protettivo, muoiono per apoptosi. Selezione negativa assicura la tolleranza al self I timociti che superano la selezione positiva hanno un’affinità per peptidi esposti su MHC self che può variare da bassa ad alta. I timociti con alta affinità sono eliminati durante la selezione negativa, tramite l’interazione con cellule stromali timiche. Durante la selezione, macrofagi o DC che esprimono MHC di classe I e II interagiscono con:
-‐ timociti che riconoscono MHC self esponente peptidi self -‐ timociti che riconoscono MHC self da solo
Le cellule che incappano nella selezione muoiono per apoptosi. La selezione negativa è coinvolta nel processo della tolleranza centrale, ossia nell’eliminazione o inattivazione dei linfociti T autoreattivi. Nelle cellule epiteliali della midollare timica, il gene AIRE promuove l’espressione di Ag tessuto-‐specifici, consentendo l’eliminazione dei linfociti T con TCR reattivo contro proteine di quel tessuto. La non funzionalità o l’assenza della proteina codificata dal gene AIRE causa una malattia autoimmune ereditaria nota come poliendocrinopatia autoimmune-‐candidiasi-‐distrofia ectodermica, APECED. È interessante notare che circa il 98% dei timociti non completa la maturazione e muore nel timo a causa di un riarrangiamento non produttivo dei geni TCR, oppure perché non supera la selezione timica. Alcune questioni riguardanti la selezione timica restano irrisolte Uno dei problemi ancora irrisolti e il paradosso che, se la selezione positiva permette la sopravvivenza solo dei timociti che riconoscono molecole MHC self e la selezione negativa elimina tutti i timociti che reagiscono contro molecole MHC self, allora nessun timocita dovrebbe poter maturare. Per risolvere questo paradosso sono state formulate due ipotesi:
1. Ipotesi dell’avidità: propone che l’esito della selezione dipenda dalla potenza del segnale ricevuto dal timocita che sta maturando; la potenza del segnale dipenderebbe dall’avidità dell’interazione tra TCR e MHC-‐peptide.
2. Ipotesi del diverso segnale: propone che l’esito della selezione dipenda da segnali differenti, piuttosto che dalla diversa potenza di uno stesso segnale.
Un’altra questione aperta sulla selezione timica è come i timociti DP siano indirizzati a diventare linfociti T CD4+ CD8-‐ o linfociti T CD4-‐ CD8+.
34 Anche in questo caso sono stati formulati due modelli:
1. Modello istruttivo: propone che siano inviati segnali diversi al timocita, a seconda che il suo TCR riconosca MHC I o II. Se il TCR riconosce peptidi esposti su MHC II à è generato un segnale che sopprime l’espressione di CD4. Se il TCR riconosce peptidi esposti su MHC I à è generato un segnale che sopprime l’espressione di CD8.
2. Modello stocastico: propone che l’espressione di CD4 o CD8 sia del tutto casuale, senza nessuna relazione con la specificità del TCR. In questo caso riuscirebbero a maturare del tutto solo i timociti “fortunati”, il cui TCR riconosce la stessa classe MHC del co-‐recettore sopravvissuto.
✣ ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI T ✣ I linfociti T CD4+ e CD8+ lasciano il timo ed entrano in circolo sotto forma di linfociti T quiescenti in fase G0 del ciclo cellulare. Questi linfociti sono detti “vergini” perché non hanno ancora incontrato l’antigene e sono caratterizzati da cromatina addensata, scarso citoplasma e bassa attività trascrizionale. I linfociti T vergini ricircolano continuamente tra sangue e sistema linfatico e durante il ricircolo risiedono nei tessuti linfatici secondari come i linfonodi, ove è probabile che incontrino l’antigene per cui sono specifici. L’attivazione è innescata dall’interazione del complesso TCR-‐CD3 con un peptide antigenico, processato e legato a una molecola MHC di classe I (per i linfociti CD8+) o di classe II (per i linfociti CD4+). Questa interazione richiede anche l’intervento di varie molecole accessorie sulla superficie dei linfociti T e delle cellule che presentano l’antigene. L’interazione induce l’entrata nel ciclo cellulare del linfocita T quiescente che prolifera e differenzia in cellule memoria o cellule effettrici. Molti dei prodotti genici che compaiono in seguito all’interazione possono essere raggruppati in tre categorie, sulla base dei tempi di comparsa nella cellula dopo il riconoscimento dell’antigene:
-‐ geni immediati: sono espressi entro 30 minuti dal riconoscimento dell’antigene e codificano vari fattori di trascrizione tra cui c-‐Fos, C-‐Myc, NF-‐AT. NF-‐kB;
-‐ geni precoci: sono espressi entro 1-‐2 ore dal riconoscimento dell’antigene e codificano IL2, IL2R, IL3, IL6, INFγ;
-‐ geni tardivi: sono espressi oltre 2 giorni dopo il riconoscimento dell’antigene e codificano molecole di adesione.
La stimolazione di un linfocita T dovuta all’interazione con l’antigene consta di due fasi l’innesco e la generazione del segnale. INNESCO
1. Il TCR che interagisce con un complesso MHC-‐peptide migra verso i cosiddetti raft lipidici, microdomini di membrana ricchi di sfingomielina, glicosfingolipidi e colesterolo, dove è presente la tirosino chinasi p56lck. Il TCR, in questo suo spostamento, è seguito dai co-‐recettori CD4 o CD8 i quali, nel frattempo, si legano a regioni non variabili delle molecole MHC.
2. p56lck si lega alle code citoplasmatiche dei co-‐recettori e viene portata in stretta vicinanza della coda citoplasmatica del complesso TCR-‐CD3, dove fosforila i domini ITAM delle catene del CD3.
3. La fosforilazione delle ITAM delle catene ζ fornisce un sito di attacco per un’altra tirosina chinasi, detta ZAP70.
4. ZAP70 attivata catalizza l’attivazione di molecole associate alla membrana, come LAT e SLP-‐76, che funzionano da supporto per il reclutamento di molecole implicate in varie vie di trasduzione del segnale.
5. L’innesco è caratterizzato talvolta dalla presenza di una sinapsi immunologica (SI), che si forma dove il linfociti T prende contatto con la cellula che presenta l’antigene. La sinapsi ha una forma a ciambella: il centro è occupato dai complessi TCR-‐CD3, l’esterno da molecole di adesione come LFA1.
35 GENERAZIONE DEL SEGNALE Il segnale segue diverse vie di trasduzione, ad esempio:
-‐ Via della fosfolipasi Cγ, attivata in seguito all’interazione con LAT. PLCγ taglia il fosfatidil-‐inositolo bifosfato in inositolo 1-‐4-‐5 trifosfato (IP3) e diacilglicerolo (DAG). IP3 à rilascio di Ca2+ dal RE DAG à attivazione della proteina chinasi C (PKC), che fosforila numerosi bersagli.
-‐ Via di GEF, attivata in seguito all’interazione con LAT. GEF attiva vie mediate da piccole proteine G: la via di Ras e la via di Rac.
Queste vie portano all’attivazione di fattori di trascrizione (come NF-‐kB, AP1, NF-‐AT) che determinano:
-‐ modificazioni dell’espressione genica (ad esempio, NF-‐kb induce la trascrizione del gene di IL2) -‐ modificazioni funzionali -‐ differenziazione -‐ attivazione (ad esempio, AP1 ha un ruolo cruciale nell’attivazione dei linfociti T).
SEGNALI COSTIMOLATORI Affinché il linfocita T si attivi, sono necessari due segnali:
-‐ segnale 1: innescato dall’interazione tra il TCR e il complesso MHC-‐peptide -‐ segnale 2: innescato dall’interazione tra molecole della famiglia B7 (sulla cellula che presenta
l’antigene) e CD28 o CTLA4 (sul linfocita T). Esistono due forme di B7: B7-‐1 e B7-‐2. Entrambe appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline. Entrambe sono costitutivamente espresse nelle cellule dendritiche, mentre sono indotte nei linfociti B e nei macrofagi. CD28 e CTLA4 hanno funzioni antagoniste.
-‐ CD28 È espresso sia sui linfociti T attivati sia su quelli quiescenti. Invia un segnale positivo che sostiene l’attivazione e stimola la proliferazione del linfocita; questo segnale stabilizza gli mRNA codificanti IL2, i quali altrimenti verrebbero rapidamente degradati. Si verifica, così, un aumento nella produzione di IL2.
-‐ CTLA4 È espresso solo dopo l’interazione del TCR con il complesso MHC-‐peptide. La massima espressione di CTLA4 si raggiunge dopo 2-‐3 giorni dall’attivazione Invia un segnale negativo che inibisce l’attivazione del linfocita T e spinge verso lo spegnimento della risposta immune quando questa non è più necessaria.
Se, dopo l’interazione del TCR con il complesso MHC-‐peptide, non è presente un segnale co-‐stimolatorio, il linfocita T entra in uno stato di non responsività definito anergia clonale. L’anergia clonale è caratterizzata dall’incapacità del linfocita T di proliferare. Infine, i linfociti T possono ricevere anche segnali di pericolo dall’interazione CD40/CD40L o dai TLR.
36 ✣ DIFFERENZIAMENTO DEI LINFOCITI T ✣ I segnali 1 e 2 visti in precedenza attivano il linfocita T vergine causando:
-‐ l’entrata nella fase G1 del ciclo cellulare -‐ la trascrizione dei geni dell’IL2 e della catena α dell’IL2R.
La secrezione dell’IL2 e il suo legame all’IL2R inducono il linfocita a proliferare e a differenziare. I linfociti T attivati in questo modo si dividono due o tre volte al giorno per un periodo di 4-‐5 giorni, producendo un clone di cellule figlie che differenziano poi in linfociti T effettori e linfociti T memoria. LINFOCITI T EFFETTORI Possono derivare dall’attivazione di cellule sia vergini sia memoria. Sono:
-‐ Linfociti T helper (TH), ossia i linfociti T CD4+ attivati. -‐ Linfociti T citotossici (CTL), ossia i linfociti T CD8+ attivati.
LINFOCITI T MEMORIA Possono derivare sia da linfociti T vergini dopo l’incontro con l’antigene, sia sa linfociti T effettori dopo la loro attivazione e differenziazione. Sono cellule quiescenti longeve che rispondono con aumentata reattività a un successivo incontro con lo stesso antigene. Come i linfociti T vergini, anche i linfociti T memoria si trovano nella fase G0 del ciclo cellulare; tuttavia, la loro attivazione ha richieste meno stringenti rispetto a quella dei linfociti T vergini. Per esempio, i linfociti T vergini possono essere attivati quasi esclusivamente dalle cellule dendritiche, mentre i linfociti T memoria possono essere attivati da cellule dendritiche, macrofagi e linfociti B. ✣ LINFOCITI T HELPER ✣ I linfociti T CD4+, una volta attivati nel linfonodo, possono differenziare in effettori con funzioni differenti, a seconda dell’ambiente citochinico in cui si trovano. LINFOCITI TH1 Sono implicati in:
-‐ infezioni batteriche intracellulari (ad esempio, da micobatteri) -‐ infezioni da parassiti intracellulari (ad esempio, da protozoi) -‐ infezioni virali -‐ ipersensibilità ritardata -‐ attivazione dei CTL -‐ attivazione dei linfociti B, che indirizzano verso la produzione di sottoclassi IgG opsonizzanti.
Ambiente citochinico: INFγ à aumenta secrezione di IL12 da parte di DC e macrofagi à aumenta espressione delle catene β dell’IL12R sui linfociti T attivati All’inizio di una risposta immune, INFγ può derivare da linfociti T e cellule NK. IL12 Deriva da DC e macrofagi IL18 à induce la proliferazione di linfociti TH1 à stimola la produzione di INFγ dai TH1 IL23 e IL27
37 Producono: INFγ Nei linfociti B, determina uno switch isotipico verso sottoclassi di IgG opsonizzanti; Nei macrofagi, aumenta l’attività microbicida attraverso à aumento produzione citochine pro-‐infiammatorie (IL1, IL6, TNFα) à aumento brust respiratorio à aumento espressione MHC e molecole co-‐stimolatorie. TNFβ Attiva neutrofili; Induce la maturazione delle DC mieloidi Sia INFγ sia TNFβ sono citochine infiammatorie e la loro produzione da parte dei linfociti TH1 spiega il ruolo svolto da queste cellule in corso di fenomeni flogistici quali l’ipersensibilità ritardata. IL2 Induce l’attivazione dei CTL; Induce aumento della citotossicità delle cellule NK; Induce proliferazione dei linfociti B e aumento della produzione di anticorpi. I linfociti TH1 migrano dal linfonodo al tessuto infiammato, grazie all’espressione di recettori per chemochine: CXCR3 à chemochine MIG e IB10 CCR5 à chemochina RANTES Giunti nel tessuto infiammato, inducono l’espressione da parte di quest’ultimo di E-‐selectine e P-‐selectine. LINFOCITI TH2 Sono implicati in:
-‐ infezioni da elminti -‐ attivazione e differenziazione eosinofila -‐ attivazione dei linfociti B, che indirizzano verso la produzione di IgM, IgE e sottoclassi di IgG non
opsonizzanti -‐ risposte allergiche (ipersensibilità di tipo 1)
Ambiente citochinico: IL4 Forse è prodotta dai mastociti attivati. Come altre citochine, sfrutta la via di JAK e STAT per la trasduzione del segnale. Producono: IL4 Attiva gli eosinofili in risposte contro elminti; Nei linfociti B, induce uno switch isotipico verso IgE (anch’essa implicata nell’attivazione degli eosinofili) e verso sottoclassi IgG non opsonizzanti. IL5 Negli eosinofili aumenta la risposta contro elminti; Nei mastociti, aumenta l’attività infiammatoria attraverso: à aumento espressione recettore per Fc delle IgE à rilascio di istamina, prostaglandine, leucotrieni a livello del sito infiammato; queste sostanze richiamano gli eosinofili che rilasciano le loro sostanze microbicide (proteina basica maggiore e proteina cationica). IL6 Stimola il differenziamento dei linfociti B in plasmacellule e linfociti B memoria. IL10 e IL13
38 CROSSREGOLAZIONE DEL PROFILO CITOCHINICO Le citochine critiche prodotte de ciascuna popolazione T helper (INFγ da TH1 e IL4 e IL10 da TH2) hanno due effetti principali:
1. promuovono la crescita della sottopopolazione che le produce 2. inibiscono lo sviluppo e l’attività della sottopopolazione opposta.
Questo fenomeno è definito crossregolazione. Le basi molecolari della crossregolazione si fondano su due fattori di trascrizione, T-‐Bet e GATA-‐3.
INFγ à via di Stat1 à attivazione T-‐Bet (soppressione di GATA-‐3) à produzione INFγ (loop autocrino)
IL4 à via di Stat 6 à attivazione di GATA-‐3 (soppressione di T-‐Bet) à produzione di IL4 e IL5 (loop autocrino)
N.B.: T-‐Bet sopprime l’espressione di GATA-‐3 e viceversa. RUOLO DEL BILANCIO TH1/TH2 NEL DETERMINARE L’ESITO DI UNA MALATTIA La progressione di alcune malattie può dipendere dal bilancio TH1/TH2. Un esempio ampiamente studiato nell’uomo è quello della lebbra, patologia causata dal Mycobacterium leprae, patogeno intracellulare in grado di sopravvivere nei fagosomi dei macrofagi. Si distinguono due tipologie di lebbra:
-‐ lebbra tubercoloide, in cui la risposta cellulo-‐mediata è responsabile della formazione di granulomi che derivano dalla distruzione della maggior parte dei micobatteri, di cui solo una minima parte permane a livello tissutale; nonostante il danno cutaneo, la progressione della malattia è lenta e la maggior parte dei pazienti sopravvive.
-‐ lebbra lepromatosa, in cui la risposta cellulo-‐mediata e depressa e si verifica un’intensa risposta umorale con comparsa, in alcuni casi, di ipergammaglobulinemia; i micobatteri sono diffusi nei macrofagi e l’infezione si propaga in modo disseminato all’osso, alla cartilagine e ai nervi.
Lo sviluppo della forma tubercoloide o lepromatosa dipende dal bilancio TH1/TH2:
-‐ nella lebbra tubercoloide, la risposta immune è di tipo TH1, con presenza di INFγ, TNFβ e IL2 e induzione di ipersensibilità ritardata;
-‐ nella lebbra tubercoloide, la risposta immune è di tipo TH2, con presenza di IL4, IL5 e IL10 che sopprimono la risposta cellulo-‐mediata e aumentano la produzione anticorpale.
Anche in corso di AIDS sembrano esserci modificazioni delle sottopopolazioni TH, con una predominante attività TH1 nella fase precoce della malattia. N.B.: Sia TH1 sia TH2 producono IL3 e GM-‐CSF LINFOCITI TH17 Sono implicati in:
-‐ infezioni batteriche extracellulari -‐ infezioni fungine
Ambiente citochinico: TGFβ IL1 Queste citochine inducono l’attivazione del fattore di trascrizione RORγt che stimola la trascrizione di geni per IL17 e IL21.
39 Producono: IL17 à Recluta e attiva i neutrofili. à Ha un ruolo patologico nell’indurre patologie autoimmuni organo-‐specifiche. IL21 à È implicata nella proliferazione di linfociti B e nella loro differenziazione in plasmacellule. ✣ LINFOCITI T CITOTOSSICI (CTL) ✣ I linfociti T CD8+, una volta attivati, differenziano in una popolazione di cellule effettrici dotate di capacità litica: i linfociti T citotossici (CTL). Queste cellule hanno un ruolo importante nel riconoscimento e nell’eliminazione di cellule self modificate, quali cellule infettate da virus e cellule neoplastiche. ATTIVAZIONE DEI CTL I linfociti T CD8+ non attivati non sono in grado di uccidere cellule bersaglio e sono definiti precursori dei CTL, CTL-‐P. Affinché il CTL-‐P differenzi in CTL sono necessari specifici segnali:
-‐ un segnale principale fornito dall’interazione tra il TCR del CTL-‐P e il complesso MHC I-‐antigene di una APC che deve essere stata precedentemente “autorizzata”;
-‐ un segnale co-‐stimolatorio fornito dall’interazione tra CD28 (sul CTL-‐P) e B7 (sulla APC); -‐ un segnale fornito dal legame dell’IL2 al suo recettore.
Il processo di autorizzazione della APC richiede l’intervento di un linfocita TH1 CD4+. La APC potrà contattare il linfocita TH1 grazie all’interazione tra il TCR di quest’ultimo e l’antigene esposto sull’MHC di classe II presente sulla stessa APC. In seguito al contatto, l’interazione tra CD40L (espresso sul linfocita TH1) e CD40 (espresso sulla APC) sancisce l’autorizzazione della APC. Non è chiaro se la stessa cellula dendritica debba presentare l’antigene contemporaneamente ai due tipi linfocitari, o se un cellula dendritica, autorizzata dall’interazione con un TH1, possa staccarsi da questo e mantenere comunque la capacità di attivare un CTL-‐P almeno per un certo tempo. Se fosse vera quest’ultima ipotesi, uno stesso linfocita TH1 potrebbe autorizzare numerose cellule dendritiche, le quali, a loro volta, attiverebbero numerosi CTL, con una notevole amplificazione del processo attivatorio. Il processo di autorizzazione può avvenire anche attraverso l’interazione tra un TLR espresso sulla APC e un prodotto microbico. Il fatto che, per generare un CTL funzionante, sia necessaria un’attivazione antigene-‐specifica sia di un linfocita TH1 sia di un linfocita TC protegge l’organismo da possibili fenomeni di autoreattività da parte dei linfociti citotossici. L’interazione con la APC autorizzata, spinge il CTL-‐P a esporre IL2R e a produrre, anche se in quantità modesta, IL2. In alcuni casi, IL2 prodotta dallo stesso CTL-‐P è sufficiente a determinarne la trasformazione in CTL; questo è vero soprattutto per i CTL-‐P memoria, che richiedono una minore attivazione rispetto alle cellule vergini. Generalmente, invece, i CTL-‐P per differenziare richiedono anche l’IL2 prodotta dai linfociti TH1. N.B.: IL2R è espresso solo in seguito all’interazione del TCR con il complesso antigene-‐MHC I, assicurando così che solo i CTL-‐P antigene-‐specifici si espandano clonalmente e acquisiscano la citotossicità. MECCANISMI DI AZIONE DEI CTL Gli eventi della citotossicità CTL-‐mediata sono:
-‐ la formazione di un coniugato CTL-‐cellula bersaglio -‐ l’attacco alla membrana della cellula bersaglio -‐ la dissociazione e l’allontanamento del CTL -‐ la morte della cellula bersaglio.
40 Più precisamente: Il complesso TCR-‐CD3 sul CTL riconosce l’antigene esposto sulle molecole MHC di classe I della cellula bersaglio. LFA-‐1, presente sul CTL, interagisce con molecole di adesione cellulare (ICAM) presenti sulla cellula bersaglio. In seguito all’attivazione antigenica del CTL, LFA-‐1 si converte in uno stato ad alta affinità per ICAM; in questo modo i CTL formano un coniugato solo con le cellule bersaglio appropriate. LFA-‐1 persiste nello stato ad alta affinità solo per 5-‐10 minuti: ritornando allo stato a bassa affinità favorisce la dissociazione del coniugato CTL-‐cellula bersaglio. † I granuli del CTL, contenenti monomeri di perforina e granzimi (serino proteasi), si orientano verso la porzione di membrana prospicente la cellula bersaglio e sono svuotati nello spazio di giunzione tra le due cellule. Quando i monomeri di perforina entrano in contatto con la membrana della cellula bersaglio, cambiano conformazione ed espongono un dominio anfipatico che permette loro di inserirsi in essa. In presenza di Ca2+ i monomeri polimerizzano e danno vita ad un poro cilindrico del diametro di 5-‐10 nm. I pori prodotti dalla perforina permettono l’ingresso dei granzimi nella cellula bersaglio. † Un’altra possibilità e che i granzimi si leghino al recettore del mannoso-‐6-‐fosfato sulla cellula bersaglio e vengano internalizzati in vescicole. Anche la perforina è intrappolata in queste vescicole ed endocitata. Una volta entro la cellula, la perforina polimerizza e crea pori nelle vescicole da cui, quindi, fuoriescono i granzimi. I granzimi attivano le caspasi portano indirettamente alla degradazione del DNA della cellula bersaglio, che entra in apoptosi. È interessante notare che durante questo processo, se la cellula bersaglio è infettata da un virus, anche il DNA virale è frammentato: in questo modo si impedisce che la replicazione e l’assemblaggio del virus possano avvenire prima che la cellula sia effettivamente morta. † I CTL possono mediare l’uccisione della cellula bersaglio anche grazie all’interazione di FasL, presente sul CTL, con Fas, presente sulla cellula bersaglio.
Interazione Fas-‐FasL à reclutamento di FADD su coda citoplasmatica di Fas à procaspasi 8 si lega a FADD à viene attivata a caspasi 8 à attiva caspasi 3 à induzione morte cellulare.
In sintesi, i CTL utilizzano granzimi e FasL per innescare la cascata delle caspasi nella cellula bersaglio. Essi, quindi, non uccidono la cellula bersaglio, ma la persuadono a suicidarsi. Infatti il meccanismo delle caspasi è presente in ogni cellula, ma, normalmente, non è attivo.
41
MATURAZIONE, ATTIVAZIONE E DIFFERENZIAMENTO DEI LINFOCITI B ✣ MATURAZIONE DEI LINFOCITI B ✣ La maturazione dei linfociti B può essere distinta in due fasi:
1. Maturazione antigene-‐indipendente: avviene nel midollo e porta alla produzione di linfociti T “vergini” esprimenti IgM di membrana; queste cellule entrano in circolo e iniziano a esprimere sia IgM sia IgD. Se non avviene l’interazione con l’Ag, il linfocita B vergine muore in periferia.
2. Maturazione antigene-‐dipendente: avviene in seguito all’attivazione mediata da un Ag e da un linfocita TH; una volta attivato, il linfocita B prolifera negli organi linfatici secondari.
Lo sviluppo del linfocita B inizia quando il precursore linfoide differenzia in cellula pro-‐B. Quest’ultima, grazie all’intervento delle cellule stromali del midollo osseo, differenzia in cellula pre-‐B. Negli stadi di sviluppo più precoci, la cellula pro-‐B richiede un contatto diretto con la cellula stromale. Il processo è il seguente:
-‐ Interazione tra VLA4 (cellula pro-‐B) e VCAM1 (cellula stromale) -‐ Interazione tra c-‐Kit (cellula pro-‐B) e il fattore della cellula staminale, SCF (cellula stromale) à la cellula
pro-‐B a differenzia in cellula pre-‐B. -‐ Legame di IL7 (cellula stromale) a IL7R (cellula pre-‐B) à riduzione di espressione di molecole di
adesione da parte della cellula pre-‐B che si stacca dalla cellula stromale. IL RIARRANGIAMENTO DEI GENI DELLE Ig PRODUCE LINFOCITI B IMMATURI Il passo fondamentale della maturazione del linfocita B nel midollo è il riarrangiamento del DNA delle immunoglobuline. Durante la fase pro-‐B à riarrangiamento VDJ della catena pesante; quando questo è stato completato, la cellula passa allo stadio pre-‐B. Durante la fase pre-‐B à riarrangiamento VJ della catena leggera; quando questo è stato completato la cellula passa allo stadio di linfocita B immaturo, il quale è ora in grado di produrre IgM e di esprimerle in membrana assieme al dimero Igα/Igβ formando un B-‐cell receptor, BCR. Gli enzimi RAG1 e RAG2, necessari per il riarrangiamento sia della catena pesante sia della catena leggera, sono espressi negli stadi pro-‐B e pre-‐B. L’enzima TdT, che inserisce nucleotidi N alle giunzioni DH-‐JH e VH-‐DH-‐JH, è attivo solo nella fase pro-‐B. Per questo motivo, i nucleotidi N sono in genere assenti nelle giunzioni VL-‐JL.1 Il raggiungimento della piena maturità è segnalato dalla coespressione in membrana di IgM e IgD, permessa da uno splicing alternativo del trascritto primario della catena pesante; lo splicing alternativo produce due diversi mRNA, uno contenente il segmento µ, l’altro contenente il segmento δ. RECETTORE pre-‐B Nell cellula pre-‐B (in cui non è ancora avvenuto il riarrangiamento della catena leggera) la catena pesante si associa a un surrogato di catena leggera, formato da due proteine:
-‐ Vpre-‐B, con sequenza simile ai domini V della catena leggera -‐ λ5, con sequenza simile ai domini C della catena leggera.
Il complesso formato dalle due catene pesanti e dai due surrogati di catena leggera è esposto in membrana in associazione al dimero Igα/Igβ, formando il recettore pre-‐B.
1 Durante il riarrangiamento dei geni codificanti il TCR, invece, l’inserimento di nucleotidi N avviene alle giunzioni di tutti i segmenti genici di tutte le catene (α, β, γ, δ).
42 Il recettore pre-‐B invia alla cellula un segnale essenziale per:
-‐ impedire il riarrangiamento VDJ sul secondo allele della catena pesante (esclusione allelica) -‐ stimolare la proliferazione della cellula pre-‐B
Dunque, ogni cellula pre-‐B si divide svariate volte. Ciascuna cellula figlia può riarrangiare una diversa catena leggera, aumentando così la diversità complessiva del repertorio anticorpale. MARCATORI DI SUPERFICIE A DIVERSI STADI DI SVILUPPO Cellula pro-‐B
-‐ ✗ Ig -‐ ✓ CD45R -‐ ✓ CD19 -‐ ✓ CD24 -‐ ✓ CD43 -‐ ✓ complesso Igα/Igβ -‐ ✓ c-‐Kit
Cellula pre-‐B
-‐ ✗ CD43 -‐ ✗ c-‐Kit -‐ ✓ CD25 -‐ ✓ recettore pre-‐B
Linfocita B immaturo
-‐ ✗ recettore pre-‐B -‐ ✗ CD25 -‐ ✓ Ig di membrana
SELEZIONE MIDOLLARE DEI LINFOCITI B AUTOREATTIVI Circa il 90% dei linfociti B prodotti ogni giorno muore senza aver mai lasciato il midollo osseo in seguito ad un processo di selezione negativa: le cellule che producono autoanticorpi contro antigeni self del midollo osseo muoiono per apoptosi. In realtà, la selezione negativa dei linfociti B immaturi non porta sempre alla loro immediata delezione. Può accadere, infatti, che il linfocita B immaturo arresti la maturazione e tenti di modificare il suo recettore mediante un nuovo riarrangiamento del DNA delle catene leggere. Questo processo è detto “editing”. Se il linfocita B riesce a produrre una catena leggera diversa tale che il BCR non sia più autoreattivo, allora può sottrarsi alla selezione negativa e lasciare il midollo osseo.
43 ✣ ATTIVAZIONE E PROLIFERAZIONE DEI LINFOCITI B ✣ Il linfocita B maturo che lascia il midollo è definito “vergine”, si trova nello stadio G0 del ciclo cellulare ed esprime IgM e IgD di membrana con la stessa specificità antigenica. Se questo linfocita in periferia incontra l’Ag, va incontro ad attivazione, proliferazione e differenziamento. In assenza dell’attivazione indotta dall’antigene, il linfocita sopravvive poco in periferia e muore dopo poche settimane per apoptosi. L’attivazione dei linfociti B vergini induce il passaggio dallo stadio G0 allo stadio G1 e mostra caratteristiche diverse a seconda della tipologia di antigene attivante. Si distinguono, infatti:
-‐ antigeni timo-‐dipendenti, TD -‐ antigeni timo-‐indipendenti, TI.
La risposta ad antigeni TD richiede un contatto diretto con i linfociti TH. La risposta ad antigeni TI non richiede una partecipazione diretta dei linfociti TH. Gli antigeni TD sono antigeni proteici solubili. Gli antigeni TI si distinguono a loro volta in:
1. TI-‐1 à corrispondono ad alcune componenti della parete batterica (ad esempio, LPS). 2. TI-‐2 à corrispondono ad antigeni con struttura ripetitiva (ad esempio, flagellina batterica).
Gli antigeni TI-‐1 sono attivatori policlonali dei linfociti B, cioè sono in grado di spingerli alla proliferazione indipendentemente dalla specificità anticorpale che essi esprimono. Questo è dovuto al fatto che la maggior parte dei TI-‐1 è riconosciuta anche da recettori dell’immunità innata (ad esempio, TLR4 per LPS) espressi su tutti i linfociti B. Gli antigeni TI-‐2 non sono attivatori policlonali dei linfociti B. Inoltre, sebbene anche in questo caso non sia richiesta un’interazione diretta con un linfocita TH, affinché avvenga la proliferazione del linfocita B è necessaria la presenza di citochine prodotte dal linfocita TH. COMPLESSO RECETTORIALE DEL LINFOCITA B (BCR) Il complesso recettoriale del linfocita B (BCR), formato da:
-‐ IgM di membrana, che lega l’antigene -‐ Eterodimero Igα/Igβ, che trasduce il segnale grazie alla presenza, nella coda citoplasmatica di entrambe
le catene, di sequenze ITAM, in grado di reclutare chinasi a valle. Crosslegame di più BCR mediato dall’antigene à attivazione di chinasi associate alla membrana (Lyn, Blk, Fyn) à
fosforilazione delle ITAM di Igα/Igβ à legame di Syk alle ITAM fosforilate e sua attivazione.
Syk ha un ruolo critico nell’attivazione dei linfociti B, proprio come ZAP70 nell’attivazione dei linfociti T. Syk media infatti una serie di fosforilazioni che attivano vie di trasduzione secondarie, come quella della fosfolipasi Cγ, quella delle piccole proteine G (Rac e Ras), quella che porta alla produzione del versatile fattore di trascrizione NF-‐kB. Ciascuna di queste vie porta all’attivazione di fattori di trascrizione che, penetrati nel nucleo, agiscono sull’espressione genica causando attivazione, differenziazione e modificazioni funzionali nella cellula.
44 CORECETTORI DEL LINFOCITA B Sono in grado in grado di modificare il segnale indotto dalla stimolazione del BCR. Il co-‐recettore dei linfociti B fornisce segnali co-‐stimolatori. Il CD22 fornisce segnali inibitori. Il co-‐recettore dei linfociti B è formato da:
-‐ TAPA-‐1 -‐ CD19 à dispone di una lunga coda citoplasmatica con 6 residui di tirosina fosforilabili -‐ CR2 à recettore per C3d, prodotto di delezione del complemento (interazione tra immunità innata ed
acquisita). L’antigene, opsonizzato dal complemento, è legato da IgM. Contemporaneamente, grazie alla presenza di C3d, è legato da CR2. A questo punto, quindi, l’antigene è crosslegato a BCR e al co-‐recettore e CD19 può interagire con Igα/Igβ. La lunga coda citoplasmatica di CD19 è fosforilata dall’attività del BCR e lega altre tirosino chinasi, come Lyn. In questo modo il complesso co-‐recettoriale amplifica il segnale di attivazione trasmesso da BCR. In vitro, si è osservato che:
-‐ in assenza del co-‐recettore dei linfociti B à per attivare il linfocita B è necessario che 104 IgM di membrana interagiscano con l’Ag.
-‐ in presenza del co-‐recettore dei linfociti B à per attivare il linfocita B è necessario che solo 102 IgM di membrana interagiscano con l’antigene.
Il CD22 è costitutivamente associato al BCR nei linfociti B quiescenti e presenta una lunga coda citoplasmatica caratterizzata dalla sequenza inibitoria ITIM. La fosforilazione di ITIM permette il legame e l’attivazione di una tirosino fosfatsi che defosforila le sequenze ITAM di Igα/Igβ arrestando la trasduzione del segnale. CD22 riesce a deattivare il linfocita B e svolge un ruolo cruciale nella regolazione negativa di queste cellule. Topi in cui il gene codificante CD22 sia stato silenziato manifestano, col tempo, gravi autoimmunità. RUOLO DEI LINFOCITI TH L’attivazione dei linfociti B da parte di antigeni TD richiede l’intervento dei linfociti TH. Infatti, il legame dell’antigene al BCR non è di per sé sufficiente a indurre proliferazione e differenziazione a cellule effettrici se non avviene un’ulteriore interazione con molecole espresse sulla membrana dei linfociti TH, in presenza di appropriate citochine. L’attivazione del linfocita B richiede dunque due segnali:
-‐ Segnale 1 à generato dal crosslegame di più antigeni con i BCR. -‐ Segnale 2 à generato da citochine e molecole co-‐stimolatorie, porta effettivamente alla espansione
clonale e alla differenziazione in plasmacellule e cellule memoria. L’antigene, riconosciuto dal BCR, è internalizzato e processato nella via endocitica. I peptidi prodotti dalla via endocitica sono legati a molecole MHC II ed esposti in membrana. Il BCR trasmette specifici segnali al linfocita B che aumenta l’espressione di MHC II e B7. Il linfocita TH con tale specificità antigenica interagisce grazie al suo TCR con il complesso MHC II-‐antigene espresso dal linfocita B. Tale interazione è aumentata dal legame B7-‐CD28, che rappresenta un importante segnale co-‐stimolatorio per il linfocita TH. Si forma in questo modo il cosiddetto coniugato B-‐T. La formazione del coniugato induce il linfocita TH a esprimere CD40L. La conseguente interazione CD40-‐CD40L rappresenta il segnale 2 per il linfocita B che può finalmente entrare nella fase G1 del ciclo cellulare. L’interazione CD40-‐CD40L induce à proliferazione del linfocita B, ma non la sua differenziazione. à attivazione di AID, enzima coinvolto nei meccanismi dello switch isotipico.
45 La differenziazione è stimolata dalle citochine prodotte dal linfocita TH (IL2, IL4, IL5, IL21). Il segnale 2 induce nel linfocita B l’espressione dei recettori per queste citochine che inducono:
-‐ differenziazione in plasmacellule e cellule memoria -‐ switch isotipico -‐ maturazione per affinità.
✣ RISPOSTA UMORALE ✣ RISPOSTA PRIMARIA Si scatena in seguito al primo contatto di un individuo con un antigene esogeno. È caratterizzata da una fase di latenza lunga (7-‐10 giorni) à selezione clonale, espansione clonale e differenziamento dei linfociti B in plasmacellule e cellule memoria. Segue un incremento logaritmico della concentrazione sierica degli anticorpi, che raggiunge un picco, rimane in equilibrio per un tempo variabile e quindi declina. RISPOSTA SECONDARIA Si scatena in seguito ad un secondo contatto con l’antigene. È caratterizzata da una fase di latenza breve (3-‐5 giorni), la concentrazione sierica degli anticorpi è 100-‐1000 volte maggiore rispetto a quella della risposta primaria, dura più a lungo. È caratterizzata inoltre dalla produzione di anticorpi con aumentata affinità per l’antigene. Predominano isotipi diversi dalle IgM. Tutte queste caratteristiche sono spiegabili tenendo presente che durante la risposta secondaria entrano in gioco le cellule memoria prodotte dalla risposta primaria e quiescenti in fase G0. Queste cellule hanno una durata di vita variabile e alcune di esse possono mantenersi anche per tutta la vita dell’individuo. SEDI DI INDUZIONE DELLA RISPOSTA UMORALE IN VIVO In vivo, l’attivazione e la differenziazione dei linfociti B avviene in sedi anatomiche definite in cui gli antigeni che penetrano nell’organismo si vanno a concentrare. Queste sedi sono gli organi linfatici secondari. Gli antigeni circolanti nel sangue sono filtrati nella milza e in essa si concentrano. Gli antigeni localizzati nei tessuti sono filtrati dai linfonodi regionali. Il linfonodo è un filtro molto efficiente, in grado di intrappolare più del 90% degli antigeni che a esso sono trasportati dai vasi linfatici afferenti. Nel linfonodo si distinguono:
-‐ una zona esterna, la corticale, popolata prevalentemente da linfociti B; -‐ una zona intermedia, la paracorticale, popolata prevalentemente da linfociti T; -‐ una zona interna, la midollare, in cui sono equamente distribuiti sia linfociti B sia linfociti T.
Mentre filtra attraverso la struttura del linfonodo, l’antigene incontra 3 tipi di APC:
-‐ cellule dendritiche, localizzate nella paracorticale; -‐ macrofagi, dispersi in tutto il linfonodo; -‐ cellule dendritiche follicolari2, situate nei follicoli e nei centri germinativi.
La stimolazione antigenica che porta alla risposta umorale si articola in una serie di eventi che avvengono in microambienti diversi del linfonodo. L’antigene è riconosciuto da uno specifico linfocita B “vergine” collocato entro un follicolo linfoide primario. Tale linfocita si attiva e va incontro a espansione clonale, determinando la trasformazione del follicolo linfoide primario in follicolo linfoide secondario, caratterizzato da mantello follicolare e centro germinativo. 2 Non hanno nulla a che vedere con le DC: non derivano dal midollo osseo, non esprimono MHC II e non presentano l’antigene a linfociti T CD4+. Possiedono lunghi prolungamenti citoplasmatici su cui si trovano recettori per l’Fc e recettori per il complemento. Queste strutture permettono alle cellule dendritiche follicolari di trattenere sulla propria superficie i complessi antigene anticorpo anche per lunghi periodi.
46 Una sequenza di eventi simile caratterizza la milza, dove l’attivazione iniziale di linfociti B avviene nei PALS, manicotti periarteriolari ricchi di linfociti T. ✣ CENTRI GERMINATIVI E DIFFERENZIAZIONE DEI LINFOCITI B INDOTTA DALL’ANTIGENE ✣ I centri germinativi si sviluppano entro 7-‐10 giorni dall’esposizione a un antigene timo-‐dipendente. Vi avvengono 3 processi:
-‐ ipermutazione somatica -‐ switch isotipico -‐ differenziazione in plasmacellule e cellule memoria.
Durante la prima fase di formazione del centro germinativo, i linfociti B attivati proliferano intensamente. Questi linfociti, detti centroblasti, formano la cosiddetta “zona scura”. I centroblasti danno origine ai centrociti, che sono piccoli, non si dividono ed esprimono Ig di membrana. Questi centrociti si spostano verso la periferia del centro germinativo, la “zona chiara”, ove entrano in contatto con cellule dendritiche follicolari che espongono lo stesso antigene (come complesso antigene-‐anticorpo) che li ha attivati. IPERMUTAZIONE SOMATICA Porta alla produzione di anticorpi con un’affinità aumentata di 100-‐1000 volte rispetto a quelli prodotti in origine dal linfocita. Si basa sull’introduzione di mutazioni puntiformi, delezioni e inserzioni nei geni riarrangiati delle Ig. Si tratta di un processo molto focalizzato: la maggior parte delle mutazioni cade nelle tre regioni CDR. L’enzima AID è un elemento fondamentale per questo processo. Poiché l’ipermutazione somatica avviene casualmente, essa può sì generare cellule con un affinità per l’antigene aumentata, ma può generare anche cellule con una affinità invariata o diminuita. È necessaria quindi una selezione. SELEZIONE Avviene nella zona chiara del centro germinativo sui centrociti. Si basa sulla capacità delle Ig di membrana del centrocita di riconoscere e legare l’antigene esposto sulle cellule dendritiche follicolari, FDC. Può avvenire che:
-‐ le Ig del centrocita riconoscono l’antigene trattenuto sulle FDC à segnale di sopravvivenza -‐ le Ig del centrocita non riconoscono l’antigene trattenuto sulle FDC à assenza del segnale di
sopravvivenza à apoptosi. È importante notare che gli antigeni esposti sulle FDC non sono numerosi, perciò i centrociti devono anche competere tra loro per interagire con essi. I centrociti ad alta affinità hanno maggiori probabilità di legare l’antigene con successo e di superare questa selezione. Il segnale trasmesso dalle FDC è necessario, ma non sufficiente per la sopravvivenza dei centrociti. Il centrocita deve anche interagire con un linfocita TH. I centrociti che non ricevono il segnale dell’antigene o quello dei linfociti TH muoiono nel centro germinativo. Una caratteristica peculiare dei centri germinativi è dunque l’abbondante morte cellulare per apoptosi e la presenza di macrofagi atti a smaltire i resti delle cellule morte. SWITCH ISOTIPICO Consta nella variazione della porzione costante della catena pesante, detta appunto isotipo. Permette di lasciare invariata la specificità dell’anticorpo, mentre varia l’attività biologica effettrice della molecola. Varie citochine influenzano la decisione di quale Ig scegliere per sostituire le IgM.
47
-‐ IFNγ à IgG -‐ IL4 à IgE -‐ TGFβ à IgA
L’interazione CD40-‐CD40L è essenziale per l’induzione dello switch isotipico: attiva l’enzima AID coinvolto anche in questo processo. L’importanza di questa interazione ai fini dello switch è testimoniata dalla sindrome Iper-‐IgM legata al cromosoma X, un’immunodeficienza in cui i linfociti TH non esprimono CD40L. I pazienti affetti da questa patologia producono IgM, ma non altri isotipi anticorpali. DIFFERENZIAZIONE I linfociti ad alta affinità selezionati nei centri germinativi possono differenziare in plasmacellule o cellule memoria. Le plasmacellule non esprimono Ig di membrana, ma producono elevatissimi quantitativi di Ig solubili che secernono rapidamente. La differenziazione dei centrociti in plasmacellule richiede una modificazione del trascritto primario di RNA, di modo che venga sintetizzata la forma secreta dell’anticorpo anziché quella di membrana. Le cellule memoria sono fondamentali in caso di risposta secondaria. A differenza dei linfociti vergini esse producono fin da subito non solo IgM e IgD, ma anche IgE, IgG e IgA.
48
CITOCHINE Lo sviluppo di una risposta immune efficace coinvolge cellule linfoidi, cellule infiammatorie e cellule emopoietiche. Le complesse interazioni tra queste cellule sono mediate da un gruppo di proteine collettivamente chiamate citochine. Le citochine sono proteine o glicoproteine a basso peso molecolare e comprendono:
-‐ Linfochine à prodotte dai linfociti -‐ Monochine à prodotte da monociti e macrofagi -‐ Interleuchine à citochine secrete da leucociti e agenti su altri leucociti (fin ora, sono state identificate
29 interleuchine) -‐ Chemochine à hanno un ruolo importante nella chemotassi e, dunque, nella risposta infiammatoria -‐ Interferoni -‐ Fattori di necrosi tumorale
Le citochine si legano a specifici recettori sulla membrana della cellula bersaglio, innescando una serie di segnali volti a modificarne l’espressione genica. Una citochina può svolgere:
-‐ funzione autocrina à quando si lega ad recettori della stessa cellula secernente -‐ funzione paracrina à quando si lega a recettori espressi da una cellula vicina -‐ funzione endocrina à quando si lega a recettori espressi da una cellula distante nell’organismo,
sfruttando il circolo sanguigno come mezzo di trasporto. Le proprietà delle citochine sono:
-‐ Pleiotropismo à una citochina può agire su cellule diverse mediando effetti diversi. È una proprietà limitante se si cerca di attuare una terapia su base citochinica.
-‐ Ridondanza à citochine diverse possono mediare effetti simili sulla stessa cellula.
-‐ Sinergia à l’effetto combinato di due citochine sull’attività cellulare è maggiore della somma degli effetti di ciascuna citochina presi individualmente (ad esempio, IL1 e TNFα aumentano l’espressione di MHC).
-‐ Antagonismo à citochine diverse possono mediare effetti opposti sulla stessa cellula (ad esempio, IL4 e INFγ sui macrofagi).
-‐ Innesco di sistemi a cascata à una citochina induce la cellula bersaglio a secernere una o più citochine, in grado a loro volta di stimolare altre cellule bersaglio a produrre altre citochine.
Non bisogna confondere le citochine con i fattori di crescita o gli ormoni. I fattori di crescita sono prodotti dalla cellula in modo costitutivo, la produzione di citochine non è costitutiva ed è soggetta a fine regolazione. Gli ormoni agiscono generalmente in modo endocrino, le citochine hanno per lo più funzione autocrina e paracrina. Inoltre, gli ormoni sono prodotti da ghiandole specializzate e hanno un’azione mirata su uno o pochi tipi di cellule bersaglio; al contrario, le citochine sono prodotte da una gran varietà di cellule e si legano a recettori espressi da numerosi tipi cellulari.
49 ✣ FAMIGLIE DI CITOCHINE ✣ Le citochine hanno generalmente un peso molecolare di 30 kDa. Ciascuna citochina appartiene a una delle seguenti 4 famiglie:
-‐ emopoietine -‐ interferoni -‐ chemochine -‐ fattori di necrosi tumorale.
Tra le numerose risposte fisiologiche in cui intervengono le citochine possiamo ricordare:
-‐ sviluppo della risposta immunitaria e umorale -‐ sviluppo della risposta infiammatoria -‐ regolazione dell’emopoiesi -‐ controllo del differenziamento e della proliferazione cellulare -‐ guarigione delle ferite.
In generale, le citochine hanno un’attività piuttosto aspecifica: esse sono in grado di esercitare la loro funzione su qualunque cellula esprima l’adeguato recettore. Proprio il recettore rappresenta un sistema di sicurezza contro un’azione aspecifica e incontrollata delle citochine, ad esempio durante una risposta immunitaria. Spesso, infatti, i recettori sono espressi solo dopo l’interazione con l’antigene: in questo modo le citochine attivano solo i linfociti che hanno interagito con l’antigene. Oppure, per mantenere la specificità, può essere richiesta un’interazione diretta fra cellule, in modo da raggiungere concentrazioni efficaci di citochine solo a livello della zona di contatto intercellulare. L’emivita delle citochine è molto breve, cosicché la loro durata d’azione è limitata nel tempo e nello spazio. ✣ RECETTORI DELLE CITOCHINE ✣ I recettori delle citochine appartengono a una delle seguenti 5 famiglie:
-‐ recettori della superfamiglia delle Ig -‐ famiglia dei recettori per TNF -‐ famiglia dei recettori delle chemochine -‐ famiglia dei recettori per interferoni (detti anche recettori di classe 2) -‐ famiglia dei recettori per emopoietine (detti anche recettori di classe 1)
Recettori della superfamiglia delle Ig Vi appartengono i recettori per: IL1, M-‐CSF, c-‐Kit, IL18. Sono stati descritti due recettori per IL1: IL1R-‐1 à è espresso su numerosi tipi cellulari; IL1R-‐2 à è espresso solo dai linfociti B. Famiglia dei recettori per TNF Vi appartengono i recettori per: TNFα, TNFβ, CD40L, FAS. Famiglia dei recettori per chemochine Vi appartengono i recettori per: IL8, RANTES, MIP-‐1. Hanno una struttura del tutto diversa da quella degli altri recettori: sono recettori a 7 passaggi transmembrana (7TM) accoppiati a proteine G.
50 Famiglia dei recettori per interferoni Sono recettori dimerici. Il dominio extracellulare di ciascuna catena possiede le 4 cisteine in posizione conservata, ma manca della sequenza triptofano-‐serina-‐X-‐triptofano-‐serina, tipica dei recettori per emopoietine. Questa famiglia consta di dodici catene recettoriali che, associandosi in dimeri, riescono a riconoscere non meno di 27 citochine, tra cui: IL10, IL19, IL20, IL22, INFα, INFβ, INFγ. Famiglia dei recettori per emopoietine Vi appartengono i recettori per: IL2, IL3, IL4, IL5, IL6, IL7, IL9, IL11, IL12, IL13, IL15, IL21, IL23, IL27, GM-‐CSF. Sono recettori dimerici e trimerici. Il dominio extracellulare di ciascuna catena possiede 4 cisteine in posizione conservata e una sequenza amminoacidica conservata di triptofano-‐serina-‐X-‐triptofano-‐serina, in cui X sta per un qualsiasi amminoacido non conservato. Nel recettore per IL27 solo una delle due catene ha le caratteristiche sopra citate, mentre l’altra non è ancora stata caratterizzata. I recettori di questa famiglia sono suddivisibili in sottofamiglie i cui membri condividono fra loro la subunità per la trasduzione del segnale. ★ Consideriamo, ad esempio, la sottofamiglia del recettore di GM-‐CSF, che comprende i recettori per IL3, IL5 e GM-‐CSF. Ciascuna di queste molecole si lega a un proprio recettore citochina-‐specifico a bassa affinità, che rappresenta la catena α del recettore dimerico completo. Una volta legata la citochina, ciascuna catena α può legare la catena β. Il recettore dimerico che si forma ha un’aumentata affinità per la citochina e può trasdurre il segnale. Il fatto che queste citochine condividano la stessa subunità di trasduzione spiega la ridondanza e l’antagonismo che caratterizzano la loro azione. L’antagonismo è dovuto al fatto che le subunità β sulla membrana sono in numero limitato rispetto alle subunità α, che dunque devono competere per esse. ★ Una situazione simile caratterizza la sottofamiglia del recettore dell’IL6, che comprende IL11, LIF (fattore inibitorio delle leucemie), OSM (oncostatina M) e IL6. ★ Una situazione un poco differente caratterizza la sottofamiglia del recettore per IL2, che comprende IL2, IL4, IL7, IL9, IL15, IL21. I recettori per IL2 e IL15, nella forma ad alta affinità, sono trimeri costituiti da:
-‐ una catena α per il legame della citochina -‐ una catena β + una catena γ per la trasduzione del segnale.
Le catene β e γ presentano la sequenza a 4 citosine e la sequenza triptofano-‐serina-‐X-‐triptofano-‐serina. La catena α ha una struttura del tutto differente. La catena γ dei recettori per IL2 e IL15 funge da subunità di trasduzione anche negli altri recettori di questa sottofamiglia, che sono tutti dimeri. Il recettore dell’IL2 esiste in tre forme differenti:
-‐ IL2Rα à monomerico a bassa affinità -‐ IL2Rβγ à dimerico ad affinità intermedia -‐ IL2Rαβγ à trimerico ad alta affinità.
La subunità α è detta CD25 ed è espressa dai linfociti T attivati, ma non da quelli quiescenti. Quando i linfociti T quiescenti legano l’antigene, esprimono il recettore ad alta affinità per IL2 e proliferano ai livelli fisiologici di IL2. Le cellule NK esprimono costitutivamente il recettore ad affinità intermedia, mostrando dunque un’intermedia responsività ai livelli fisiologici di IL2.
51 Recentemente è stato dimostrato che l’immunodeficienza grave combinata legata all’X (XSCID), può derivare da un difetto del gene della catena γ che si trova appunto sul cromosoma X. Questa immunodeficienza, caratterizzata dal non funzionamento dei recettori della sottofamiglia IL2, comporta non attività dei linfociti T e delle cellule NK. ✣ TRASDUZIONE DEL SEGNALE ✣ Recettori delle emopoietine e degli interferoni Utilizzano una via di trasduzione mediata da JAK e STAT.
1. La citochina lega la subunità citochino-‐specifica del recettore che si unisce alla subunità di trasduzione (dimerizzazione).
2. JAK (unita anche in assenza di citochina alle code citoplasmatiche del recettore) si attiva; si verifica una fosforilazione reciproca delle due JAK.
3. JAK fosforila anche specifici residui di tirosina sulle code citoplasmatiche del recettore, creando un sito di legame per STAT (esistono STAT specifiche per le diverse citochine).
4. Si unisce una STAT a ciascuna coda citoplasmatica del recettore.
5. Ciascuna JAK fosforila la corrispondente STAT.
6. Le STAT si staccano dal recettore e formano un dimero.
7. Il dimero si sposta nel nucleo e attiva specifici geni.
In questo caso, la specificità delle citochine è riconducibile a tre fattori:
-‐ ciascun recettore citochinico innesca un proprio sistema JAK-‐STAT; -‐ ciascun eterodimero STAT è in grado di riconoscere solo certi motivi di sequenza e quindi di interagire
solo con i promotori di alcuni geni; -‐ STAT può attivare solo quei geni bersaglio la cui espressione è consentita nella tipo cellulare in
questione. Recettori dei TNF Utilizzano una via di trasduzione mediata da TRADD. TNFR I e FAS legano TRADD a molecole adattatrici con domini di morte, come FADD. FADD attiva la procaspasi 8 a caspasi 8, innescando così il processo di apoptosi. TNFR II e CD40L legano TRADD a un’altra molecola adattatrice: TRAFF. TRAFF attiva altre vie, come quella del fattore di trascrizione NF-‐kB. Recettori delle chemochine Utilizzano proteine G. Le proteine G sono trimeri α/β/γ associati alla membrana. La subunità α è in grado di legare nucleotidi guanilici. A riposo, la subunità α lega GDP, ma, in seguito ad attivazione da parte del recettore, essa rilascia il GDP e lega GTP. Si stacca dunque dalle altre subunità andando ad attivare altri enzimi, come la fosfolipasi C. Poi idrolizza il GTP, torna nello stato a riposo con GDP legato e si riassocia alle subunità β/γ.
52 Altri meccanismi di trasduzione Alcuni recettori, come quello per IL1, utilizzano domini TIR e la via di IRAK (come accade nella trasduzione dei TLR). ✣ FUNZIONI DI ALCUNE CITOCHINE ✣
CITOCHINE DELL’IMMUNITÀ INNATA Citochina
Fonte principale
Bersagli e attività
IL1 Monociti Macrofagi Cellule epiteliali ed endoteliali
Vasi sanguigni (infiammazione) Ipotalamo (febbre) Fegato (proteine di fase acuta)
TNFα Macrofagi Vasi sanguigni (infiammazione) Fegato (proteine di fase acuta) Induzione morte cellulare Attivazione dei neutrofili
IL12 Macrofagi Cellule dendritiche
Cellule NK Induzione dei linfociti TH1 Regolazione dell’immunità acquisita
IL6 Macrofagi Fegato (proteine di fase acuta) Regolazione dell’immunità acquisita Proliferazione linfociti B e secrezione Ab
INFα Macrofagi Induce difesa antivirale in cellule nucleate Aumenta espressione MHC I Attiva NK
INFβ Fibroblasti Induce difesa antivirale in cellule nucleate Aumenta espressione MHC I Attiva NK
CITOCHINE DELL’IMMUNITA ACQUISITA Citochina
Fonte principale
Bersagli e attività
IL2 Linfociti T Induce proliferazione T, B e NK Attiva le NK Aumenta la citotossicità NK Promuove AICD
IL4 Linfociti TH2 Mastociti
Promuove differenziamento TH2 Induce switch verso IgE
IL5 Linfociti TH2
Promuove crescita e differenziamento eosinofili
TGFβ Linfociti T Macrofagi
Inibisce proliferazione dei linfociti T Inibisce le funzioni effettrici dei linfociti T Inibisce la proliferazione dei linfociti B Induce switch verso IgA Inibisce i macrofagi
INFγ Linfociti TH2 CTL NK
Attiva i macrofagi Aumenta espressione MHC I e II
53
REAZIONI DI IPERSENSIBILITÀ In alcune circostanze, la risposta infiammatoria scatenata dall’attività immunitaria può avere effetti deleteri, anziché benefici, sui tessuti dell’ospite, potendone causare anche la morte. Questa risposta immunitaria inappropriata è definita reazione di ipersensibilità. Sebbene il termine ipersensibilità indichi un eccesso di risposta immunitaria ad un determinato antigene, in effetti quest’ultima non è necessariamente aumentata, ma piuttosto inappropriata. La reazione di ipersensibilità è definita anche anafilassi, un termine traslato dal greco antico per sottolineare il verificarsi di un risposta opposta ai tradizionali meccanismi di difesa dell’ospite (profilassi). CLASSIFICAZIONE DI COOMBS E GELL Esistono quattro tipi di reazioni di ipersensibilità. Tre di esse sono a carico dell’immunità innata e sono mediate da:
-‐ IgE (tipo I) -‐ Anticorpi (tipo II) -‐ Immunocomplessi (tipo III)
L’ultima tipologia (tipo IV) è a carico dell’immunità acquisita ed è mediata dai linfociti T; è anche definita ipersensibilità di tipo ritardato (delayed-‐type hypersensitivity, DTH). N.B. La complessità che caratterizza queste reazioni è molto maggiore: esiste, infatti, una vasta gamma di effetti secondari che rendono talvolta semplicistici i confini stabiliti tra le quattro categorie. ✣ IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I ✣ È indotta da particolari tipi di antigeni definiti allergeni e ha le caratteristiche di una risposta umorale classica. Ciò che distingue la risposta di ipersensibilità di tipo I da una qualunque risposta umorale è il fatto che, in essa, le plasmacellule attivate da linfociti TH2 specifici per un dato allergene producono esclusivamente IgE. Le IgE si legano ai recettori Fc presenti sui mastociti tissutali e sui basofili in circolo; queste cellule ricoperte da IgE sono dette “sensibilizzate”. Un’ulteriore esposizione all’antigene, induce il crosslegame delle IgE sulla superficie di mastociti e basofili, inducendo la degranulazione. I granuli di queste cellule contengono sostanze farmacologicamente attive che, a seconda della quantità rilasciata, possono avere un effetto sul tessuto circostante (effetto localizzato) oppure sull’intero organismo (effetto sistemico). COMPONENTI DELL’IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I Allergeni La maggior parte degli individui scatenano risposte IgE solo per difendersi dalle infezioni di parassiti. Alcuni individui, tuttavia, possono essere caratterizzati da atopia, una predisposizione ereditaria a sviluppare reazioni di ipersensibilità immediata in risposta ad antigeni ambientali. Il termine allergene si riferisce specificatamente ad antigeni non parassitari in grado di indurre una risposta di ipersensibilità di tipo I in individui predisposti. Tali individui sono detti allergici e si caratterizzano per gli alti livelli di IgE circolanti e per il numero di eosinofili superiore alla norma. Gli allergeni sono condotti all’interno dell’organismo per inalazione, ingestione o inoculazione. Gli allergeni più comunemente riscontrati in corso di ipersensibilità di tipo I sono:
-‐ il polline di ambrosia -‐ il polline di timo -‐ il veleno di vespe e api -‐ gli acari -‐ la penicillina
54 -‐ le noci -‐ le uova -‐ i crostacei -‐ il pelo degli animali -‐ il lattice3.
Tutti questi allergeni sono in realtà sistemi multiantigenici contenenti una mistura di allergeni diversi. Inoltre, tutti gli allergeni sono piccole proteine glicosilate solubili o comunque sostanze legate a proteine con peso molecolare compreso tra 15 e 40 kDa. Nonostante queste comuni caratteristiche generali, non è stato possibile identificare comuni proprietà chimiche che giustifichino l’attività degli allergeni. È stato in ogni caso notato che alcuni allergeni hanno attività enzimatica. Ad esempio, Der-‐P1 (frazione allergenica isolata dagli scarti degli acari) à proteasi cisteinica che scinde l’occludina delle giunzioni strette dell’epitelio e raggiunge la lamina basale ove è captata dalle cellule dendritiche. Stimola i recettori B e T. IgE Sono l’ultimo isotipo di immunoglobuline ad essere stato identificato (negli anni ’60). Le IgE hanno un peso molecolare totale di circa 190 kDa. Questo peso molecolare è maggiore rispetto a quello delle IgG (150 kDa) a causa della presenza nella regione costante della catena H di un dominio immunoglobulinico in più che sostituisce la regione cerniera delle IgG. I livelli sierici di IgE, in individui normali, variano da 0,1 a 0,4 µg/ml. I livelli sierici di IgE, in individui allergici, non aumentano in modo drastico, raggiungendo al massimo 1 µg/ml. L’emivita delle IgE nel siero è di soli 2-‐3 giorni, ma esse possono perdurare ben più a lungo (numerose settimane) una volta che si sono legate ai recettori per Fc di mastociti e basofili. Le IgE sono fisiologicamente implicate nella risposta contro i parassiti. Nel distretto sottocutaneo, in seguito all’invasione parassitaria, cellule del sistema immunitario (innanzitutto i linfociti TH2 attivati) producono specifiche citochine che attivano i linfociti B a produrre IgE à i livelli sierici di IgE aumentano e restano elevati finché il parassita non è stato eliminato.
-‐ IL4 e IL13 à inducono nei linfociti B lo switch isotipico verso IgE -‐ IL5 à attiva eosinofili e mastociti determinando un aumento dell’espressione del recettore Fc per IgE.
Recettore Fc per IgE L’attività “reaginica” delle IgE dipende dal fatto che queste molecole possono legarsi a recettori specifici per il frammento Fc delle catene ε. Sono stati identificati due tipi di FcεR, ad alta affinità e a bassa affinità. Il recettore ad alta affinità (FcεRI) è formato da 4 catene polipeptidiche:
-‐ una catena α -‐ una catena β -‐ un dimero di due catene γ.
La catena α presenta 2 domini immunoglobulinici che interagiscono con entrambi i domini CH3 della molecola IgE. La catena β passa 4 volte attraverso la membrana plasmatica ed è responsabile dell’interazione tra la catena α e il dimero γγ. Sia l’estremità N-‐terminale sia quella C-‐terminale si trovano sul versante citoplasmatico.
3 Negli ultimi anni, l’ipersensibilità di tipo I verso il lattice dei guanti è divenuta piuttosto frequente tra gli operatori sanitari e rappresenta un esempio di allergia occupazionale.
55 Le due catene γ, unite in dimero da un ponte disolfuro, si estendono all’interno del citoplasma e sono responsabili della trasduzione del segnale. In questo caso, le estremità N-‐terminali si trovano sul versante extracellulare, le estremità C-‐terminali si trovano sul versante citoplasmatico. Sia le catene γ, sia la catena β, nel contesto della porzione citoplasmatica, presentano un dominio ITAM. I domini ITAM interagiscono con specifiche tirosino chinasi e trasducono un segnale attivatorio nella cellula. I basofili umani esprimono tra 40000 e 90000 recettori FcεRI per cellula. Questi recettori sono presenti anche su eosinofili, monociti, cellule di Langherans e piastrine, sebbene in quantità inferiori. Una particolare forma recettoriale priva della catena β è espressa solamente da monociti e piastrine ed ha una funzione diversa. Il recettore a bassa affinità (FcεRII o CD23) ha un’affinità per le IgE 1000 volte inferiore rispetto al recettore ad alta affinità. È strutturalmente diverso da FcεRI, essendo composto da una sola molecola transmembranaria caratterizzata da un dominio extracellulare simile a quello delle lectine C. L’estremità C-‐terminale si trova sul versante extracellulare, l’estremità N-‐terminale si trova sul versante citoplasmatico. Si distinguono due tipologie di CD23: à sui linfociti B attivati à su vari tipi cellulari in risposta a IL4. Esiste anche una forma solubile di CD23 (sCD23) generata in seguito ad autoproteolisi del recettore di membrana à induce un aumento della secrezione di IgE da parte dei linfociti B. Individui atopici presentano maggiori quantità di CD23 sulla membrana di linfociti e macrofagi e maggiori quantità di sCD23 nel siero, rispetto a soggetti normali. Mastociti e basofili Le IgE si legano con elevata affinità ai basofili, nel sangue, e ai mastociti, nei tessuti. I basofili sono granulociti circolanti. Nell’uomo rappresentano lo 0,5-‐1% dei leucociti circolanti. Il loro citoplasma, ricco di granuli, si colora intensamente con coloranti basici, da cui il nome di basofili. I precursori dei mastociti si formano nel midollo osseo e migrano poi in tutti i tessuti vascolarizzati periferici, dove differenziano in cellule mature. Sono anch’essi ricchi di granuli. FASI DELLA REAZIONE ALLERGICA Si distinguono una fase di sensibilizzazione e una fase di reazione allergica vera e propria. Fase di sensibilizzazione Presso il sito di ingresso, l’allergene entra in contatto con le cellule dendritiche che lo catturano e lo trasportano al linfonodo regionale. Nel il linfonodo si verifica l’attivazione del linfocita TH2 specifico che indirizza lo sviluppo delle cellule B. I linfociti B attivati iniziano a produrre IgE e, attratti da specifiche chemochine, migrano verso il tessuto in cui è presente l’allergene. Le IgE rilasciate in circolo incontrano e si legano ai basofili. Le IgE rilasciate presso il tessuto incontrano e si legano ai mastociti. Basofili e mastociti con IgE legate cono definiti “sensibilizzati”, ma, di per sé, il legame delle IgE agli FcεRI non ha alcun effetto su queste cellule.
56 Reazione allergica È causata dal secondo contatto con l’antigene, che crosslega due o più IgE connesse ai recettori FcεRI presenti sulla superficie di mastociti e basofili. Il crosslegame dell’allergene alle IgE determina la degranulazione di mastociti e basofili. Gli eventi intracellulari che trasducono il segnale che porta alla degranulazione sono complessi.
-‐ La tirosino chinasi Lyn (famiglia Src) è associata alla porzione citoplasmatica della catena β del recettore indipendentemente dal legame dell’allergene.
-‐ Il crosslegame del recettore attiva Lyn che fosforila le tirosine dei domini ITAM della stessa catena β e delle catene γ.
-‐ Le sequenza ITAM fosforilate attivano PTK che media eventi a valle. PTK à attiva PLC à taglia PIP2 in IP3 e DAG. DAG attiva PKC essenziale, assieme al Ca2+, per l’assemblaggio dei microtubuli e lo spostamento e la fusione dei granuli con la membrana plasmatica. IP3 media la fuoriuscita del Ca2+ intracellulare dal RE. PTK à attiva MAPK. MAPK stimola la secrezione di citochine potenziandone la trascrizione.
-‐ Le sequenze ITAM fosforilate attivano un enzima specifico che media eventi a valle. Enzima specifico à converte fosfatidilserina in fosfatidiletanolammina à fosfatidiletanolammina è metilata a dare fosfatidilcolina ad opera di PMT I e PMT II. Fosfatidilcolina aumenta la fluidità della membrana plasmatica e facilita la formazione di canali per l’ingresso di Ca2+ extracellulare. Il Ca2+ extracellulare e MAPK (vedi sopra) à attivano PLA2 à taglia la fosfatidilcolina in lisofosfolipide e acido arachidonico. Acido arachidonico è convertito in potenti mediatori (leucotrieni e prostaglandina D2).
-‐ Le sequenze ITAM fosforilate attivano anche la adenilato ciclasi. Adenilato ciclasi à cAMP à attiva chinasi specifiche à fosforilazione proteine di membrana dei granuli. Questa fosforilazione altera la permeabilità dei granuli all’acqua e al Ca2+. Il conseguente rigonfiamento dei granuli facilita la loro fusione alla membrana plasmatica. L’aumento del cAMP è transitorio ed è seguito da un rapido calo al di sotto della concentrazione di partenza. Il calo della concentrazione di cAMP è essenziale per il progredire della degranulazione. N.B. La fusione dei granuli alla membrana avviene grazie all’attività delle proteine SNARE espresse sia sulla membrana cellulare sia sulla membrana dei granuli. AGENTI FARMACOLOGICI IMPLICATI NELL’IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I Il rilascio di queste sostanze genera una risposta infiammatoria del tutto inappropriata, i cui effetti negativi superano di molto qualsiasi effetto positivo. Possono essere distinti in:
-‐ Mediatori primari à sono prodotti prima che avvenga la degranulazione e sono immagazzinati nei granuli. Comprendono: istamina, eparina, proteasi, fattore chemotattico per eosinofili (ECF), fattore chemotattico per neutrofili (NCF).
-‐ Mediatori secondari à sono sintetizzati solo dopo l’attivazione del mastocita o del basofilo. Comprendono: fattore attivante le piastrine (PAF), leucotrieni, prostaglandine, bradichinina, citochine.
57 Istamina Deriva dalla decarbossilazione dell’istidina. Poiché è immagazzinata già preformata all’interno dei granuli la sua azione è osservabile già pochi minuti dopo l’attivazione di mastociti e basofili. Una volta rilasciata, l’istamina si lega a quattro recettori specifici (H1, H2, H3 e H4), ciascuno dotato di una differente distribuzione tissutale e cellulare e di una peculiare attività biologica. La stimolazione dei recettori H1 determina gli effetti tipici della reazione allergica:
-‐ contrazione muscolatura liscia intestinale e bronchiale -‐ aumento della permeabilità delle venule -‐ aumento delle secrezioni mucose da parte di cellule mucipare.
La stimolazione dei recettori H2 determina:
-‐ aumento della permeabilità vasale (contrazione cellule endoteliali) -‐ vasodilatazione (rilasciamento muscolatura liscia dei vasi sanguigni) -‐ stimolazione ghiandole esocrine -‐ aumento di rilascio di acidi dallo stomaco.
Inoltre, il legame dell’istamina ai recettori H2 su mastociti e basofili esercita un controllo a feedback negativo, inibendo il loro rilascio di istamina. Leucotrieni e prostaglandine Essendo mediatori secondari sono rilasciati solo in un tempo successivo alla degranulazione. I loro effetti sono osservabili solo dopo un tempo piuttosto lungo, ma sono più pronunciati e più duraturi di quelli indotti dall’istamina. Sono attivi a concentrazioni nanomolari e sono 1000 volte più potenti dell’istamina. Leucotrieni à broncocostrizione, aumento della permeabilità vasale, secrezione di muco. Prostaglandina D2 à broncocostrizione. La contrazione della muscolatura liscia a livello tracheale e bronchiale è mediata, inizialmente (nei primi 30-‐60 secondi), dall’istamina, successivamente da leucotrieni e prostaglandine. ESITI DELL’IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I Anafilassi sistemica È caratterizzata da una sintomatologia tipo shock, spesso fatale, che inizia pochi minuti dopo il contatto con l’allergene. In genere, è causata da un allergene introdotto direttamente nel sangue o assorbito attraverso la mucosa intestinale o la cute. Il soggetto colpito da “shock anafilattico” mostra agitazione, difficoltà nella respirazione. La pressione cala bruscamente. Possono verificarsi defecazione e minzione non controllate a causa della contrazione della muscolatura liscia della parete intestinale e vescicale. Infine, sopraggiunge la morte dovuta ad asfissia (contrazione della muscolatura liscia bronchiale e tracheale) e all’edema diffuso (vasodilatazione sistemica). Anafilassi localizzata È caratterizzata da una reazione limitata a un tessuto o a un organo specifico, che comprende spesso la superficie epiteliale presso la quale si è verificato l’ingresso dell’allergene. Rinite allergica. Anche chiamata “febbre da fieno”, è la più comune tra le malattie atopiche. Si verifica in seguito all’interazione tra allergeni presenti nell’aria e i mastociti sensibilizzati presenti a livello della mucosa nasale e congiuntivale. I sintomi sono rappresentati da un essudato molto fluido a livello della congiuntiva, della mucosa nasale e delle prime vie aeree, nonché da starnuti e tosse.
58 Asma. Si deve distinguere tra:
-‐ asma allergica à gli attacchi d’asma sono causati da allergeni presenti nell’aria (pollini, polveri, fumi) o nel circolo ematico (veleno di insetti);
-‐ asma intrinseca à gli attacchi d’asma sono causati dall’esercizio fisico o dal freddo, in modo apparentemente indipendente dalla stimolazione allergenica.
Anche l’asma è scatenata dalla degranulazione dei mastociti che avviene, però, non a livello della mucosa nasale, ma più in basso, presso le vie aeree di piccolo calibro. I sintomi sono rappresentati broncocostrizione, edema, aumentata secrezione mucosa, infiltrato flogistico. Allergie alimentari. Si verifica in seguito all’interazione tra allergeni presenti in particolari alimenti e i mastociti sensibilizzati presenti nel tratto gastroenterico. La degranulazione di tali cellule può indurre in situ contrazione della muscolatura liscia e vasodilatazione causando sintomi come vomito o diarrea. Le sostanze rilasciate dai mastociti possono anche aumentare la permeabilità intestinale causando il passaggio dell’allergene dal lume intestinale al circolo ematico. Le conseguenze di questo passaggio (prevalentemente asma o orticaria) dipendono dalla zona in cui l’allergene va a depositarsi. Dermatite atopica o eczema allergico. È una malattia infiammatoria della cute con esordio nella prima infanzia, specialmente in bambini con familiarità per l’atopia. È caratterizzata da: elevati livelli sierici di IgE e lesioni cutanee eritematose. L’infiltrato cellulare di queste lesioni è ricco di linfociti TH2, al contrario dell’infiltrato cellulare tipico dell’ipersensibilità ritardata, che è ricco di linfociti TH1. REAZIONI RITARDATE NELL’IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I Dopo la fase precoce dell’ipersensibilità di tipo I, mediatori rilasciati tardivamente nel corso della reazione possono generare una reazione infiammatoria localizzata detta reazione ritardata. Essa si manifesta 4-‐6 ore dopo l’inizio della reazione di tipo I e perdura per 1-‐2 giorni. È scatenata, innanzitutto, da citochine rilasciate dai mastociti (IL1 e TNFα), le quali inducono l’espressione di molecole di adesione sulle cellule endoteliali, favorendo la migrazione di specifiche tipologie cellulari. Le più importanti tipologie cellulari implicate nella risposta ritardata sono eosinofili e basofili. Gli eosinofili rappresentano il 30% delle cellule presenti nel sito dove si verifica la reazione ritardata. Esprimono recettori Fc per IgE e sono pertanto in grado di legare direttamente gli allergeni ricoperti da questi anticorpi. Una volta attivati, gli eosinofili vanno incontro a degranulazione, rilasciando:
-‐ leucotrieni -‐ PAF -‐ proteina basica maggiore -‐ proteina cationica degli eosinofili -‐ neurotossine.
Normalmente, queste sostanze giocano un ruolo importante nel contrastare le infezioni dovute a parassiti. Tuttavia, in seguito all’interazione con allergeni, sono responsabili del notevole danno tissutale tipico della reazione ritardata. I basofili hanno un ruolo altrettanto importante e rappresentano un altro 30% delle cellule presenti nel sito dove si verifica la reazione ritardata. Sono attratti in loco da un fattore chemiotattico specifico, presente nei granuli dei mastociti. Sono attivati dall’IL8 presente nel cito infiammatorio. Una volta attivati, i basofili vanno incontro a degranulazione, rilasciando:
-‐ enzimi litici -‐ PAF -‐ leucotrieni.
59 FATTORI ALLA BASE DELL’ATOPIA Fattori genetici Diversi loci su diversi cromosomi sono implicati per lo meno in una predisposizione all’atopia Cromosoma 5: locus associato a regione che codifica per molte citochine (IL3, IL4, IL5, IL9). Cromosoma 11: locus associato alla regione che codifica la catena β di FcεRI. Fattori ambientali La risposta i ipersensibilità di tipo I è regolata dal bilancio tra TH1 e TH2. I linfociti TH1 riducono la risposta, mentre i linfociti TH2 la aumentano. Tutto questo dipende dalle particolari citochine prodotte dalle due tipologie di linfociti T helper. TH2 producono:
-‐ IL4 e IL13 à stimolano switch dei linfociti B verso IgE -‐ IL4 e IL9 à inducono produzione di mastociti -‐ IL5 e IL9 à inducono produzione, maturazione e accumulo di eosinofili.
TH1 producono innanzitutto INFγ che inibisce la risposta di ipersensibilità di tipo I. Questo suggerisce che lo sviluppo o meno di atopia in un individuo sia determinata dall’effetto combinato di IL4 (più importante citochina prodotta dai TH2) e INFγ (più importante citochina prodotta dai TH1). Quindi le risposte agli allergeni in individui atopici e non atopici sarebbero qualitativamente diverse:
-‐ negli individui atopici gli allergeni scatenano una risposta TH2 con produzione di IgE -‐ negli individui non atopici gli allergeni scatenano una risposta TH1 con produzione di IgM e IgG.
Secondo l’ipotesi dell’igiene, l’esposizione a patogeni durante la primissima infanzia orienta il sistema immunitario verso una risposta TH1 anziché TH2, riducendo la possibilità di manifestare atopia in futuro. I bambini predisposti e poco esposti ad agenti patogeni (ambiente asettico) oppure vaccinati precocemente, tendono a sviluppare risposte TH2 e quindi atopia. METODI PER MISURARE LE REAZIONI DI IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I Test cutanei. Gli allergeni sono inoculati preferibilmente sulla superficie volare dell’avambraccio mediante iniezione sottocutanea o scarificazione cutanea. Se l’individuo è allergico si verifica nel corso di 30 minuti una reazione pomfo-‐eritematosa. Vantaggi à possibilità di testare numerosi allergeni simultaneamente. Svantaggi à possibilità sensibilizzare un individuo atopico ad un nuovo allergene che non aveva ancora mai incontrato. Raramente, può verificarsi shock anafilattico. Dosaggio dei livelli sierici di IgE mediante test di radioimmunoassorbimento o radioallergoassorbimento. TRATTAMENTI Il primo e più importante presidio consiste nell’identificare gli allergeni responsabili dell’ipersensibilità e nel cercare, se possibile, di evitare l’esposizione ad essi. Iposensibilizzazione à l’inoculazione di dosi crescenti di allergeni può ridurre la gravità delle reazioni di tipo I e talvolta causarne la scomparsa. Si ritiene che ciò sia dovuto ad uno switch isotipico verso IgG oppure ad una polarizzazione verso TH1 in grado di inibire la reazione di ipersensibilità. Le IgG competono con le IgE per gli allergeni riducendo così la possibilità che gli allergeni siano legati dalle IgE presenti su mastociti e basofili. Anticorpi monoclonali umanizzati anti IgE à interagiscono con la porzione Fc delle IgE impedendo dunque il loro legame con i recettori presenti su mastociti e basofili. Questi anticorpi diminuiscono la produzione di IgE da parte dei linfociti B e l’esposizione di FcεRI su mastociti e basofili. L’Omalizumab è stato il primo anticorpo anti-‐IgE approvato per il trattamento dell’asma allergica negli USA.
60 Antistaminici à sono i farmaci più utili per alleviare i sintomi della rinite allergica. Agiscono legando i recettori dell’istamina presenti sulle cellule bersaglio, impedendo il legame ad essi dell’istamina stessa e riducendo quindi gli effetti di questa sostanza. Gli antistaminici di nuova generazione bloccano i recettori H1, ma a differenza di quelli tradizionali, risparmiano i recettori colinergici e non hanno quindi effetti sedativi. I farmaci antiallergici più recenti bloccano l’attività di leucotrieni e prostaglandine, anziché quella dell’istamina. Adrenalina à somministrata a soggetti in shock anafilattico. Blocca l’attività di istamina e leucotrieni, rilassando la muscolatura liscia e diminuendo la permeabilità vasale. Potenzia la gittata cardiaca, contrastando così il brusco calo pressorio tipico dello shock. Aumenta i livelli di cAMP, impedendo così un’ulteriore degranulazione. Disodiocromoglicato à blocca il flusso di Ca2+ necessario alla degranulazione Teofillina à somministrata agli asmatici per mezzo di inalatori inibisce la degradazione del cAMP. L’aumentata concentrazione di cAMP intracellulare impedisce la degranulazione. Corticosteroidi ed altri antinfiammatori. ✣ IPERSENSIBILITÀ DI TIPO II ✣ Sono caratterizzate da una citotossicità mediata da anticorpi. Gli anticorpi legano antigeni sulla superficie di una cellula e ne causano la distruzione mediante l’attivazione del complemento o ADCC. Nel corso di alcune malattie autoimmuni sono prodotti autoanticorpi che distruggono cellule dell’ospite mediante reazioni di tipo II. Nonostante ciò, i più caratteristici esempi di reazione di ipersensibilità di tipo II sono le reazioni trasfusionali, la malattia emolitica del neonato e l’anemia emolitica indotta da farmaci. REAZIONI TRASFUSIONALI Sulla superficie dei globuli rossi sono presenti antigeni, i più importanti dei quali corrispondono ai quattro fenotipi tipici del sistema AB0. La relazione tra gli alleli AB0 e gli antigeni sui globuli rossi è la seguente: il locus AB0 codifica delle glicosiltransferasi, enzimi che aggiungono residui zuccherini ad un glicolipide preesistente presente sulla membrana degli eritrociti. Pressoché tutti gli individui producono il glicolipide preesistente detto antigene H. Individui con gruppo A à producono una transferasi che lega all’antigene H un residuo di α-‐N-‐acetilgalattosamina, generando l’antigene A. Individui con gruppo B à producono una transferasi che lega all’antigene H un residuo di galattoso, generando l’antigene B. Individui con gruppo AB à producono entrambe le transferasi e generano sia l’antigene A, sia l’antigene B. Individui con gruppo 0 à non producono nessuna delle due transferasi e sulla membrana dei loro globuli rossi è esposto semplicemente l’antigene H. Gli anticorpi specifici per gli antigeni A, B, e 0 sono definiti isoemoagglutine e sono, di solito, della classe IgM. Individui con gruppo A à producono isoemoagglutine contro gli antigeni B. Individui con gruppo B à producono isoemoagglutine contro gli antigeni A. Individui con gruppo AB à non producono isoemoagglutine, poiché possiedono entrambi gli antigeni. Individui con gruppo 0 à producono isoemoagglutine sia contro A, sia contro B, poiché mancano di entrambi gli antigeni. La trasfusione di sangue in un individuo che possiede isoemoagglutine contro gli antigeni esposti dagli eritrociti del sangue trasfuso, scatena una reazione trasfusionale.
61 Reazione trasfusionale immediata. È associata all’incompatibilità AB0. Si manifestano con una massiva emolisi dei globuli rossi con liberazione di grandi quantità di emoglobina nel plasma. L’emoglobina viene filtrata dai reni con conseguente emoglobinuria e possibile necrosi renale, poiché ad elevati livelli risulta tossica per i tubuli renali. L’emoglobina è anche trasformata in bilirubina, che a livelli elevati e tossica, soprattutto per il cervello. Sintomi: febbre, nausea, coagulazione intravascolare, emoglobinuria. Trattamento: immediata sospensione della trasfusione e somministrazione di diuretici per eliminare con l’urina l’emoglobina libera. Reazione trasfusionale ritardata. È associata ad un’incompatibilità non AB0, ma dovuta ad altri antigeni (Rh, Kidd, Kell, Duffy) presenti sull’eritrocita. La reazione inizia 2-‐6 giorni dopo la trasfusione. La classe anticorpale predominante in queste reazioni è quella IgG, meno efficace delle IgM nell’attivazione del complemento. Non avviene una massiva lisi eritrocitaria intravascolare e la maggior parte delle cellule trasfuse è distrutta in sede extravascolare (milza e fegato) da parte dei macrofagi. Sintomi: febbre, anemia, aumento della bilirubina con lieve ittero. In questo caso, a causa della distruzione extravascolare dei globuli rossi non è presente emoglobina nel sangue o nelle urine. MALATTIA EMOLITICA DEL NEONATO Si verifica quando anticorpi IgG della madre specifici per antigeni presenti sugli eritrociti fetali, passano la placenta e lisano le cellule fetali. La malattia emolitica grave del neonato, detta eritroblastosi fetale, è causata da un’incompatibilità per l’antigene Rh, si sviluppa, cioè, in madri Rh-‐, il cui figlio è Rh+. Lo sviluppo di questa reazione si articola in tre fasi:
1. Durante il parto, se la madre è Rh-‐ e il bambino Rh+, in seguito al distacco della placenta, si verifica una considerevole commistione tra sangue materno e sangue fetale.
2. Nell’immediato post-‐partum, i globuli rossi fetali Rh+ innescano la risposta immunitaria della madre. Sono attivati i linfociti B specifici che producono IgM contro gli antigeni Rh. Successivamente, i linfociti B attivati differenziano in cellule memoria e plasmacellule. Sono proprio le cellule memoria a rappresentare una minaccia in caso di una successiva gravidanza con feto Rh+.
3. Nel caso di una seconda gravidanza con feto Rh+, si verifica la riattivazione delle cellule memoria quiescenti che differenziano in plasmacellule e secernono grandi quantità di IgM anti Rh, che passano la placenta e distruggono gli eritrociti del feto. Il feto può sviluppare un’anemia di varia entità, talvolta con conseguenze fatali. L’emoglobina rilasciata dalla lisi degli eritrociti è convertita in bilirubina la quale può attraversare la barriera ematoencefalica poco sviluppata del feto, accumularsi nel cervello e causare danni neurologici.
L’eritroblastosi fetale può essere completamente prevenuta somministrando alla madre anticorpi contro gli antigeni Rh alla ventottesima settimana di gestazione e nelle 24-‐48 ore successive al primo parto. Questi anticorpi (chiamati Rhogam) si legano agli antigeni Rh degli eritrociti fetali e ne facilitano la distruzione prima che essi possano essere riconosciuti dai linfociti B e possano, quindi, essere indotte cellule memoria. Nonostante la profilassi con Rhogam, la situazione deve essere monitorata fin dal principio della gravidanza mediante test di Coombs4 per vedere se la madre ha comunque anticorpi anti-‐Rh dovuti a trasfusioni o ad aborti precedenti. In base alla gravità della situazione, sono effettuati diversi trattamenti. Reazione grave. Si interviene con extrasanguinotrasfusioni intrauterine per scambiare il sangue del feto con sangue Rh-‐. Inoltre, la madre può essere sottoposta a plasmaferesi: il sangue è separato in una frazione cellulare ed una plasmatica (contenente anche gli Ab anti-‐Rh). La frazione plasmatica è eliminata, quella cellulare è reinfusa nella madre dopo essere stata unita a plasma fresco o a una soluzione di ovalbumina. 4 Nel test di Coombs, eritrociti fetali sono incubati con Ab di capra anti-‐IgG umane. Se IgG materne hanno attraversato la placenta, si troveranno legate agli eritrociti fetali. In questo caso, gli anticorpi di capra causeranno l’agglutinazione degli eritrociti fetali.
62 Reazione meno grave. Si interviene con fototerapia (esposizione a basse dosi di luce ultravioletta) dopo la nascita. La luce UV degrada la bilirubina e previene il danno cerebrale che essa può causare. ANEMIA EMOLITICA INDOTTA DA FARMACI Alcuni farmaci (penicillina, chinino, cefalosporina, streptomicina) possono adsorbirsi in maniera aspecifica a proteine di membrana degli eritrociti, formando complessi del tipo aptene-‐carrier. In soggetti predisposti, questi complessi portano all’attivazione di linfociti B specifici, con produzione di IgM e IgG specifiche. Il legame dell’anticorpo al complesso farmaco-‐proteina causa la lisi mediata dal complemento dell’eritrocita. N.B. La penicillina, con meccanismi diversi, è in grado di attivare tutti e quattro i tipi di ipersensibilità. ✣ IPERSENSIBILITÀ DI TIPO III ✣ Sono caratterizzate dalla presenza di immunocomplessi che si formano in seguito all’interazione Ag-‐Ab. Normalmente, gli immunocomplessi favoriscono l’eliminazione degli antigeni in due modi:
-‐ grazie all’intervento del complemento, che opsonizza gli immunocomplessi facilitandone la solubilizzazione e la fagocitosi;
-‐ grazie all’intervento degli eritrociti che legano gli immunocomplessi (CR1) e li trasportano a milza e fegato ove sono fagocitati dai macrofagi residenti;
In alcuni casi, tuttavia, la formazione di grandi quantità di immunocomplessi può causare appunto reazioni di ipersensibilità di tipo III, responsabili di danno tissutale. L’intensità della reazione dipenderà dalla quantità di immunocomplessi che si formano e dalla loro distribuzione nell’organismo. Se gli immunocomplessi si depositano vicino al sito di ingresso dell’antigene, si verificherà una reazione localizzata. Se gli immunocomplessi si formano in circolo, la reazione si potrà sviluppare in qualunque sede essi vadano a depositarsi. La deposizione degli immunocomplessi innesca una reazione in grado di richiamare in loco i neutrofili. Sono proprio i neutrofili a causare danno tissutale mediante il rilascio di enzimi contenuti nei loro granuli. EVENTI DELLE REAZIONI DI TIPO III
1. Anticorpi di classe IgM e IgG legano l’antigene, formando gli immunocomplessi. 2. Gli immunocomplessi (o meglio, gli Ab che li costituiscono) attivano il complemento. 3. I frammenti C3a e C5a attivano la degranulazione dei mastociti o dei basofili locali à rilascio di istamina
à aumento della permeabilità vasale a livello locale à edema e stravaso di neutrofili. 4. I frammenti C3a, C5a e C5b67 hanno azione chemotattica per i neutrofili, che si accumulano in loco.
Questi frammenti, inoltre, attivano i neutrofili a rilasciare enzimi litici à danno tissutale. 5. I frammenti C3b opsonizzano gli immunocomplessi. 6. Gli immunocomplessi opsonizzati si legano a recettori per Fc e ai recettori CR1 presenti sui leucociti
attivati e scatenano la risposta infiammatoria. Infatti, gli immunocomplessi non possono essere fagocitati dai neutrofili poiché aderiscono alla membrana basale, pertanto queste cellule rilasciano all’esterno i propri enzimi litici con l’obbiettivo di degradare gli immunocomplessi legati.
7. L’attivazione del complemento può indurre aggregazione piastrinica con rilascio di fattori della coagulazione e formazione di microtrombi.
REAZIONI DI TIPO III LOCALIZZATE Reazione di Arthus. È dovuta alla presenza di molte IgG. È caratterizzata dalla deposizione di immunocomplessi a livello della cute o del polmone. La puntura di un insetto scatena, in un individuo sensibilizzato, innanzitutto, una reazione di ipersensibilità di tipo I. Spesso però, lo stesso individuo, in un tempo successivo (dopo 4-‐8 ore), può manifestare una reazione localizzata di Arthus, caratterizzata da edema ed eritema pronunciati. La reazione termina nel giro di 48 ore. Reazioni di Arthus possono manifestarsi anche a livello polmonare causando polmoniti e alveoliti. In questo caso, la reazione è mediata da antigeni inalati (spore batteriche, funghi, polveri di feci essiccate).
63 Gli immunocomplessi che si formano stimolano il richiamo e la degranulazione di mastociti e neutrofili, con rilascio di amine vasoattive ed enzimi litici che causano danno locale dei vasi. Inoltre, gli immunocomplessi possono depositarsi sulla membrana degli alveoli causando danno tissutale, infiammazione e fibrosi. Queste reazioni polmonari sono conosciute generalmente con nomi che riflettono l’origine dell’antigene:
-‐ il “polmone del contadino” è causato dall’inalazione dell’actomicete termofilo presente nel fieno ammuffito;
-‐ la “malattia dell’allevatore di piccioni” è causata dall’inalazione di una proteina sierica presente nelle polveri delle feci di piccione essiccate.
Vasculite. Rappresenta uno stato infiammatorio del vaso. È caratterizzata dalla deposizione di immunocomplessi sulla membrana basale delle arterie. Gli immunocomplessi attivano il complemento. I frammenti C3a e C5a attivano i basofili presenti in circolo, i quali degranulano rilasciando istamina e serotonina à aumento della permeabilità à edema. La vasodilatazione porta all’esposizione del collagene che causa aggregazione piastrinica à formazione di microtrombi che facilitano l’adesione degli immunocomplessi alla parete del vaso. Richiamati dalle anafilotossine del complemento, sopraggiungono i neutrofili che per mezzo di recettori per Fc e CR1 legano l’immunocomplesso opsonizzato e cercano di fagocitarlo. Tuttavia, la fagocitosi non riesce (fagocitosi frustrata) proprio perché l’immunocomplesso è adeso alla parete vasale. I neutrofili, quindi, rilasciano il contenuto dei loro granuli all’esterno causando grave danno all’endotelio. REAZIONI DI TIPO III SISTEMICHE Avvengono quando l’Ab è in difetto rispetto all’Ag, che si trova in circolo. In tali condizioni, si formano immunocomplessi di piccolissime dimensioni che sono difficili da eliminare e potranno andare a depositarsi e causare danno nei siti più vari. Malattia da siero. Avveniva quando, prima dell’avvento dei vaccini, contro tetano e difterite si somministrava siero animale immunizzato contro le corrispondenti tossine. In seguito a tale iniezione, si fornivano sì all’ospite gli anticorpi dell’animale contro la tossina difterica o tetanica, ma anche proteine sieriche dell’animale, le quali, riconosciute come non self dall’ospite, inducevano una risposta immunitaria. Si verificava la formazione di numerosissimi piccoli immunocomplessi, a causa della notevole sovrabbondanza di Ag rispetto agli Ab. Negli anni ’80, l’avvento dell’uso di anticorpi come “proiettili magici”, ad esempio contro il tumore, creò grande eccitazione. Tuttavia, in seguito alla somministrazione di anticorpi monoclonali murini, si verificarono manifestazioni del tutto simili alla malattia da siero. Il paziente trattato con Ab murini, produceva rapidamente anticorpi contro di essi, scatenando una reazione di tipo III, definita HAMA (human anti mouse antibody). Oggi, le reazioni HAMA sono evitate mediante umanizzazione degli anticorpi monoclonali di origine murina. Oltre alla malattia da siero, la formazione di immunocomplessi circolanti contribuisce alla patogenesi di svariate condizioni morbose:
-‐ Malattie autoimmuni: lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, sindrome di Goodpasture. -‐ Reazioni a farmaci: penicillina, sulfamidici. -‐ Malattie infettive: glomerulonefrite post-‐streptococcica, mononucleosi, epatite.
✣ IPERSENSIBILITÀ DI TIPO IV ✣ Non prevedono il coinvolgimento di anticorpi, ma sono reazioni cellulo-‐mediate. Intervengono innanzitutto i linfociti TH1, che secernono citochine che inducono una reazione infiammatoria localizzata definita ipersensibilità ritardata (delayed type hypersensitivity, DTH). Il termine ipersensibilità è, anche in questo caso, piuttosto ingannevole, poiché suggerisce che la risposta DTH sia sempre nociva. Viceversa, sebbene in alcuni casi essa produca notevoli danni tissutali e sia evidentemente patologica, per lo più il danno causato da DTH è contenuto e tale risposta è fondamentale nella difesa da patogeni intracellulari e antigeni da contatto. Le caratteristiche tipiche della reazione DTH sono:
-‐ la latenza nello sviluppo della risposta stessa -‐ il reclutamento di macrofagi, anziché di neutrofili, come avviene invece nelle reazioni di tipo III.
64 FASI DELLA RISPOSTA DTH Il primo contatto con l’antigene determina la fase di sensibilizzazione. L’antigene è captato da una APC (macrofagi, cellule di Langherans) che lo processa e lo espone nel contesto di MHC II. L’APC migra al linfonodo regionale e presenta l’Ag al linfocita T CD4+ specifico che, attivato, differenzia in TH1. Occasionalmente, l’APC, in seguito al processo di cross-‐presentazione, può attivare linfociti T CD8+. Il secondo contatto con l’antigene determina la fase effettrice. I linfociti TH1 producono citochine (INFγ, TNFβ, IL2, IL3) e chemochine (IL8/CXCL8 e MCP-‐1/CCL2) che richiamano macrofagi. L’inizio ritardato della risposta DTH riflette il tempo richiesto da queste molecole per richiamare i macrofagi nel tessuto contenente l’Ag e attivarli. Nel momento in cui la risposta DTH è completamente attivata, solo il 5% della popolazione cellulare presente nel luogo ove si trova l’Ag è rappresentata da linfociti TH1, il resto sono cellule infiammatorie, soprattutto macrofagi. I macrofagi attivati (soprattutto da INFγ e TNFβ) agiscono da APC più potenti e determinano un’ulteriore attivazione di linfociti TH1 mediante la secrezione di IL12 e IL18. IL12 à induzione risposta TH1 à producono INFγ à soppressione risposta TH2 e attivazione macrofagi. IL18 à produzione di grandi quantità di INFγ da parte dei TH1. Si genera una risposta che si autoalimenta, ma che rappresenta un’arma a doppio taglio: la linea di demarcazione tra una risposta protettiva vantaggiosa per l’ospite e una risposta nociva associata a grave danno tissutale è molto sfumata. Generalmente il patogeno è rapidamente eliminato e il danno tissutale è minimo. In alcuni casi però, l’Ag non è eliminato facilmente e il prolungarsi della risposta DTH può avere conseguenze distruttive per l’ospite. La risposta infiammatoria protratta, ad esempio, può generare una reazione granulomatosa, come quella causata dal Mycobacterium tubercolosis. ESEMPI DI REAZIONI DI TIPO IV Granuloma immunologico. Caratterizza, ad esempio, la risposta contro il Mycobacterium tubercolosis, patogeno intracellulare. I macrofagi attivati isolano il microrganismo a livello polmonare, racchiudendolo all’interno di un aggregato di macrofagi attivati che costituisce il granuloma. Il microrganismo non è eliminato facilmente e la continua attivazione dei macrofagi li porta ad aderire gli uni agli altri, assumendo una forma epitelioide e talvolta fondendosi a formare cellule giganti multinucleate. Queste si sostituiscono alle normali cellule del tessuto formando noduli palpabili e rilasciando grandi quantità di enzimi litici che distruggono il tessuto circostante. La risposta DTH, in questo caso, produce un’estesa necrosi tissutale e un grave danno ai vasi sanguigni locali. Il granuloma immunologico è caratteristico anche del morbo di Crohn, malattia cronica dell’intestino di cui non si conosce l’Ag scatenante. Dermatite da contatto. Avviene in seguito al contatto con sostanze come formaldeide, nichel, cosmetici, certe specie di edera. Queste sostanze sono formate da piccole molecole in grado di formare complessi del tipo aptene-‐carrier con proteine della cute. Questi complessi vengono internalizzati da APC, esposti su MHC II e presentati a linfociti TH1 già sensibilizzati, i quali attivano i macrofagi. Il danno tissutale è dovuto al rilascio di enzimi litici da parte di questi macrofagi. Reazione alla tubercolina. È una reazione cutanea localizzata, sfruttata per determinare se un individuo sia entrato o meno in contatto con il Mycobacterium tubercolosis. Si esegue un’iniezione intradermica di PPD, una proteina derivata dalla parete cellulare del micobatterio. Lo sviluppo di una reazione eritematosa, leggermente rigonfia, 48-‐72 ore dopo l’inoculo indica che il soggetto è stato esposto al micobatterio. La lesione cutanea è dovuta alla presenza di TH1 già sensibilizzati che richiamano macrofagi sul sito di inoculo, causando una reazione DTH.
65
TOLLERANZA E AUTOIMMUNITÀ ✣ TOLLERANZA ✣ Con il termine tolleranza si indicano quei meccanismi di protezione e controllo messi in atto dal sistema immunitario per prevenire la reazione delle sue cellule e dei suoi anticorpi contro componenti dell’ospite. Gli antigeni che inducono tolleranza sono detti tollerogeni, anziché immunogeni. I meccanismi che permettono il mantenimento di uno stato di tolleranza nei confronti delle cellule e dei tessuti dell’ospite sono principalmente due: la tolleranza centrale e la tolleranza periferica. TOLLERANZA CENTRALE Consiste nella delezione dei cloni linfocitari che possono reagire contro componenti self. Tale delezione avviene nelle prime fasi della maturazione linfocitaria e si verifica nel midollo osseo, per i linfociti B, e nel timo, per i linfociti T. Alla base di tutto si trova il processo della “selezione negativa”, che induce l’apoptosi delle cellule che esprimono TCR o Ig potenzialmente autoreattivi. In realtà la tolleranza centrale non si fonda esclusivamente sulla selezione negativa. È molto importante, infatti, anche il cosiddetto “editing del recettore” cui possono essere sottoposti i linfociti. Può avvenire, ad esempio, che un linfocita B riconosciuto come autoreattivo nel midollo non sia immediatamente eliminato, ma sia sottoposto al processo di editing. È come se gli fosse data “una seconda possibilità”: esso cercherà di riarrangiare nuovamente i segmenti genici VJ o VDJ per cambiare la porzione variabile della catena leggera o della catena pesante, così da generare una nuova specificità non autoreattiva. Il processo di editing riguarda più frequentemente le regioni variabili della catena leggera, che quelle della catena pesante. Particolarmente interessante è ciò che avviene nel timo. Le cellule epiteliali della midollare timica esprimono la proteina AIRE, che permette loro di esprimere antigeni self ai timociti in maturazione. Difetti nel gene che codifica la proteina AIRE causano una malattia autoimmune a trasmissione ereditaria recessiva nota come poliendocrinopatia autoimmune-‐candidiasi-‐distrofia ectodermica, APECED. L’APECED rappresenta l’unico difetto ereditario conosciuto dei meccanismi della tolleranza centrale. La tolleranza centrale non è un meccanismo infallibile per due motivi principali:
1. Non tutti gli antigeni self sono presentati ai linfociti entro gli organi linfoidi primari. 2. La selezione negativa è efficace solo se i cloni autoreattivi riconoscono il self con un’affinità al di sopra di
una certa soglia, mentre permette la sopravvivenza dei cloni che sono autoreattivi solo debolmente. TOLLERANZA PERIFERICA Rappresenta un mezzo di controllo su quei linfociti autoreattivi che sono riusciti a sottrarsi alla delezione timica o midollare. Avviene negli organi linfoidi secondari e porta all’apoptosi oppure all’anergia del linfocita autoreattivo. Si fonda su processi diversi:
1. Anergia. Indica l’inattivazione funzionale prolungata o irreversibile dei linfociti. Per i linfociti T, può essere causata da due eventi: -‐ assenza di un appropriato segnale co-‐stimolatorio positivo al momento dell’interazione
antigene-‐specifica tra un’APC quiescente e il linfocita T. -‐ presenza di un segnale co-‐stimolatorio negativo mediato dall’interazione CTLA4/B7. La molecola co-‐stimolatoria CTLA4, espressa dai linfociti T attivati, in seguito all’interazione con B7, espressa dalla APC, media la trasmissione di un segnale negativo al linfocita, garantendo così lo spegnimento della risposta immune. Il ruolo di CTLA4 nella tolleranza periferica è stato apprezzato appieno in seguito allo spegnimento del suo gene: topi knockout per il gene di CTLA4 presentano una massiva proliferazione dei linfociti e sviluppano malattie autoimmuni.
66 Per i linfociti B, l’anergia si verifica nel momento in cui manca la stimolazione da parte del corrispondente T helper.
2. Delezione clonale attraverso apoptosi indotta dall’attivazione. Sono stati proposti due modelli di apoptosi indotta dall’attivazione. -‐ I linfociti T autoreattivi esprimono la proteina proapoptotica BIM (famiglia BCL) senza esprimere le
corrispondenti proteine antiapoptotiche. L’espressione isolata di BIM indurrebbe l’apoptosi per via mitocondriale.
-‐ I linfociti T autoreattivi in seguito all’interazione con antigeni self co-‐esprimono Fas e FasL, il che porta ad una rapida autoeliminazione per apoptosi Fas mediata.
3. Soppressione da parte dei linfociti Treg. Linfociti T regolatori I linfociti Treg sono una sottopopolazione T con un caratteristico fenotipo CD4+/CD25high. Essi, agendo negli organi linfoidi secondari e nelle sedi di infiammazione, sopprimono i processi autoimmuni I linfociti Treg derivano da quei linfociti T che, nel timo, hanno espresso recettori ad affinità intermedia per gli antigeni self. Ciò che permette a questi linfociti ad affinità intermedia di differenziare in Treg è l’aumentata espressione del gene Foxp3, che codifica per il fattore di trascrizione TSLP, il quale aumenta l’espressione del gene del CD25. Difetti nel gene Foxp3 causano una totale assenza di Treg e determinano una malattia fatale conosciuta come disregolazione immunitaria-‐poliendocrinopatia-‐enteropatia-‐legata all’X, IPEX. I meccanismi con cui i Treg sopprimono la risposta immunitaria non sono perfettamente noti e sono oggetto di intensa ricerca. Tuttavia, sembra che siano implicati TGFβ e IL10. N.B. La soppressione mediata dai linfociti Treg è antigene specifica perché dipende dalla loro attivazione tramite TCR. Altre tipologie di linfociti T regolatori I linfociti Treg CD4+/CD25high non sono gli unici a intervenire nei processi della regolazione periferica. Linfociti TR-‐1 e TH3. Originano in periferia da linfociti T CD4+ vergini. La generazione dell’una o dell’altra tipologia dipende dall’ambiente citochinico: Presenza di IL10, TGFβ e INFγ à TR-‐1. Presenza di IL10, TGFβ e IL4 à TH3. Producono citochine che sopprimono cloni linfocitari autoreattivi in periferia: TR-‐1 à TGFβ e IL10. TH3 à TGFβ. Linfociti regolatori CD8+. Aumentano notevolmente dopo trapianto allogenico di midollo osseo o a seguito di infezione da HIV o CMV. Sono caratterizzati dall’assenza di molecole co-‐stimolatorie e dalla presenza di CD57. Secernono IL2, IL4, TGFβ e INFγ. Agiscono sulle APC determinando:
-‐ diminuzione nell’espressione delle molecole co-‐stimolatorie B7. -‐ aumento nell’espressione delle molecole ILT-‐3 e ILT-‐4 in grado di causare anergia clonale nei linfociti T
CD4+ vergini. Inoltre, se iperstimolati, questi linfociti possono attivare un processo apoptotico mediato dalla co-‐espressione in membrana di FAS e FASL. SEQUESTRO DELL’ANTIGENE Oltre alla tolleranza centrale e a quella periferica, un modo efficace per evitare l’autoreattività e il sequestro dell’antigene, di modo che, in normali circostanze, esso non possa incontrare i linfociti specifici. Un inconveniente di questo espediente è che, proprio a causa della compartimentalizzazione cui l’antigene va incontro, esso non è presentato a linfociti in via di sviluppo che dunque non manifesteranno tolleranza.
67 Di conseguenza, se le barriere tra antigene e immunità vengono superate, l’antigene è visto come estraneo perché non è mai stato incontrato prima. ✣ MALATTIE AUTOIMMUNI ✣ Colpiscono il 5-‐7% della popolazione e dipendono dal fallimento dei meccanismi di tolleranza verso il self. Si manifestano con reazioni simili a quelle dell’ipersensibilità di tipo II, III o IV. Talvolta, invece, sono mediate da linfociti T CD8+. La maggior parte delle malattie autoimmuni ha un’eziologia multifattoriale, che comprende:
-‐ Fattori genetici (l’ereditarietà è una caratteristica tipica). -‐ Fattori ambientali -‐ Fattori ormonali (le donne in età fertile sono più colpite).
Possono essere organospecifiche o sistemiche. MALATTIE AUTOIMMUNI ORGANO-‐SPECIFICHE La risposta immunitaria è indirizzata contro un antigene bersaglio prodotto selettivamente da un certo organo o da una certa ghiandola, per cui le manifestazioni della malattia sono in gran parte limitate a quel particolare organo. Risultano maggiormente suscettibili le ghiandole endocrine perché:
-‐ secernono ormoni, perciò sono presenti proteine tessuto specifiche -‐ sono molto vascolarizzate, fatto che aumenta i contatti con il tessuto immunitario
La diagnosi si basa, innanzitutto, sull’osservazione di una diminuzione o alterazione della funzione endocrina. Per altro, una particolare disfunzione endocrina può determinare alterazioni sistemiche secondarie. Alcune malattie sono mediate da un danno cellulare diretto. Ciò accade quando i linfociti o gli anticorpi riconoscono antigeni di membrana e mediano una lisi cellulare diretta e una risposta infiammatoria nell’organo interessato. Le strutture cellulari danneggiate sono gradualmente sostituite da tessuto connettivo (fibrosi) e la funzione dell’organo si deteriora. Alcune malattie sono mediate da anticorpi che, comportandosi da agonisti o antagonisti nei confronti di specifici recettori, causano un’attività inappropriata dell’organo colpito. Tiroidite di Hashimoto (ipersensibilità tipo IV) È dovuta alla produzione di autoanticorpi e linfociti TH1 specifici per alcuni antigeni tiroidei. Si verifica una reazione DTH, con una massiccia infiltrazione di linfociti, macrofagi e plasmacellule nella tiroide. La conseguente reazione infiammatoria determina una diminuita attività della ghiandola (ipotiroidismo) dovuto soprattutto all’azione degli autoanticorpi contro proteine (tiroglobulina e perossidasi tiroidea) implicate nella captazione e nella processazione dello iodio. La risposta fisiologica all’ipotiroidismo è l’ipertrofia della ghiandola, che determina un gozzo ben evidente. L’ipotiroidismo comporta una diminuita sintesi di ormoni tiroidei, che devono essere somministrati. Anemie autoimmuni Anemia perniciosa. È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro il fattore intrinseco, prodotto dalle cellule parietali delle ghiandole gastriche e necessario per l’assorbimento della vitamina B12. La mancanza di vitamina B12, necessaria all’emopoiesi, determina una diminuzione del numero di eritrociti circolanti. Il trattamento prevede iniezioni di vitamina B12. Anemia emolitica autoimmune. È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro antigeni dei globuli rossi, i quali vengono rapidamente lisati dal complemento oppure fagocitati.
68 Anemia emolitica indotta da farmaci. Corrisponde alla tipica reazione di ipersensibilità di tipo II, dovuta, ad esempio alla penicillina o all’agente anti-‐depressivo metildopa. La diagnosi delle anemie autoimmuni si basa di solito sul test di Coombs. Sindrome di Goodpasture È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro la catena α3 del collagene tipo IV, importante costituente della matrice extracellulare ed in particolar modo delle lamine basali. L’interazione Ag-‐Ab causa l’attivazione del complemento che determina danno tissutale e sostiene la reazione infiammatoria con la produzione delle anafilotossine. La distruzione delle lamine basali glomerulari e alveolari determina danno renale progressivo ed emorragie polmonari, che possono anche comportare la morte del paziente. Porpora idiopatica trombocitopenica È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro il recettore per il fibrinogeno presente sulle piastrine. Le piastrine opsonizzate sono lisate dall’attività del complemento oppure distrutte mediante ADCC. Diabete mellito insulino-‐dipendente (ipersensibilità tipo IV) Chiamato anche IDDM, colpisce lo 0,2% della popolazione. È dovuto alla produzione di autoanticorpi e cellule T (CTL e TH1) autoreattive contro antigeni espressi dalle cellule β delle isole di Langherans. Le cellule β sono responsabili della produzione di insulina à la loro distruzione causa scarsa produzione di insulina e conseguente iperglicemia. Le dinamiche della distruzione delle cellule β sono molteplici:
1. Infiltrazione di CTL e macrofagi che iniziano la lisi delle cellule β (insulite). 2. Produzione di autoanticorpi che distruggono le cellule β mediando lisi complementare oppure ADCC. 3. La presenza di TH1 e macrofagi avvia una reazione DTH.
Le cellule insulari sopravvissute rispondono con un aumento dell’espressione di MHC II, per effetto dell’INFγ secreto dai TH1. La malattia può avere lunga latenza perché le cellule β sono molto numerose e perché la loro distruzione avviene lentamente. Studi epidemiologici hanno dimostrato in maniera convincente una base genetica per l’IDDM. Sono stati identificati più di una dozzina di loci di suscettibilità per l’IDDM. Di questi, il più importante è il locus HLA, situato sul cromosoma 6. Tra gli individui di razza caucasica con IDDM, il 90-‐95% presenta un aplotipo HLA-‐DR3, HLA-‐DR4 o entrambi. Soggetti che hanno aplotipo HLA-‐DR3 o HLA-‐DR4 insieme a un aplotipo HLA-‐DQ8, manifestano il più elevato rischio ereditario per IDDM. Al contrario, l’aplotipo HLA-‐DR2 sembra essere protettivo nei confronti della malattia. Anche fattori ambientali, come infezioni virali, possono determinare l’insorgenza dell’IDDM. Si può verificare il cosiddetto “mimetismo virale” à il virus produce proteine virali molto simili a antigeni specifici delle cellule β. La risposta immunitaria conseguente agisce sì contro le proteine virali, ma anche contro le cellule β. Un’altra possibilità è il cosiddetto “danno bystander” à l’infezione virale comporta danno insulare e liberazione di antigeni normalmente sequestrati entro le cellule β. La terapia si fonda sulla somministrazione di insulina. Senza l’insulina il diabetico va incontro a complicanze metaboliche gravi come chetoacidosi acuta e coma. L’IDDM non trattato porta alla morte.
69 Miastenia grave (ipersensibilità di tipo II) È un esempio di malattia autoimmune mediata da anticorpi bloccanti. È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro i recettori per l’acetilcolina della placca neuromuscolare. Questi autoanticorpi impediscono il normale legame dell’acetilcolina al suo recettore e con il tempo determinano anche l’uccisione (mediata dal complemento) della cellula muscolare. Si verifica di conseguenza un progressivo indebolimento del muscolo scheletrico. Malattia di Graves (ipersensibilità di tipo II) È un esempio di malattia autoimmune mediata da anticorpi stimolanti. È dovuta alla produzione di autoanticorpi contro il recettore dell’ormone tireotropo, il quale, prodotto dalla ipofisi, regola l’attività della tiroide, stimolando la produzione degli ormoni tiroidei. Gli autoanticorpi stimolano l’attività tiroidea e, venendo a mancare un normale meccanismo di regolazione a feedback negativo, causano ipertiroidismo e aumento di produzione degli ormoni tiroidei. Poiché questa patologia è mediata da IgG, può avvenire che durante la gravidanza questi anticorpi passino al feto e determinino la malattia anche nel nascituro. Sottoporre la madre a plasmaferesi elimina la possibilità che il bambino sia malato. MALATTIE AUTOIMMUNI SISTEMICHE La risposta immunitaria e indirizzata contro un ampio spettro di antigeni bersaglio e coinvolge vari organi e tessuti. Lupus eritematoso sistemico (LES) È il prototipo di malattia autoimmune sistemica Come molte malattie autoimmuni, colpisce prevalentemente le donne con una frequenza di circa 1:7000 nelle donni in età fertile. È più frequente nei soggetti di razza nera o ispanica piuttosto che nei soggetti di razza bianca. È caratterizzato dalla produzione di autoanticorpi contro vari antigeni nucleari e citoplasmatici che non hanno alcuna specificità d’organo:
-‐ anticorpi antinucleo, ANA à contro DNA, istoni, nucleolo, proteine centromeriche -‐ anticorpi anti cellule ematiche à contro eritrociti, piastrine, leucociti -‐ anticorpi anti fosfolipidi à contro epitopi di proteine plasmatiche esposti in seguito al legame di esse
(protrombina, proteina C, proteina S) con fosfolipidi. Gli autoanticorpi causano la formazione di immunocomplessi e reazioni di ipersensibilità di tipo III e sono, di conseguenza, i responsabili primari delle lesioni tissutali tipiche del LES. Gli autoanticorpi, inoltre, opsonizzano eritrociti, leucociti e piastrine, promuovendone la lisi mediata dal complemento e la fagocitosi. Il LES comporta:
-‐ Astenia. -‐ Febbre. -‐ Insufficienza renale (glomerulonefrite) dovuta alla deposizione di immunocomplessi sulle membrane
basali dei capillari glomerulari, tubulari e peritubulari. -‐ Lesioni cutanee eritematose (caratteristico è il cosiddetto “eritema a farfalla”, presente nel 50% circa dei
pazienti). -‐ Pericardite, pleurite e altre sierositi, con possibile obliterazione della cavità sierosa. -‐ Danni al sistema cardiocircolatorio con pericardite, endocardite, vasculite e sclerosi. -‐ Anemia e trombocitopenia. -‐ Artrite.
Il decorso del LES è variabile e imprevedibile, con remissioni e ricadute. Può protrarsi per anni o addirittura decenni. La morte è causata per lo più dall’insufficienza renale e dalle infezioni ricorrenti. La terapia si basa sull’utilizzo di steroidi antinfiammatori e immunosoppressori.
70 Sclerosi multipla (SM) È la malattia demielinizzante più comune e si manifesta prevalentemente tra i 20 e i 40 anni. La patogenesi comprende sia fattori genetici sia fattori ambientali. La possibilità di sviluppare SM è 15 volte maggiore quando un parente di primo grado ne è affetto. La suscettibilità alla SM è correlata all’aplotipo HLA-‐DR2. La malattia è più frequente sopra il 37° parallelo. La SM è dovuta all’attività di linfociti TH1 e TH17, che reagiscono contro antigeni self della mielina e producono citochine. I TH1 producono INFγ e reclutano macrofagi. I TH17 reclutano leucociti. La demielizzazione è causata dai macrofagi e dai leucociti attivati che rilasciano agenti lesivi. Non è ancora stato compreso in che modo venga attivata la reazione immunitaria; è stata proposta una responsabilità da parte di alcune infezioni virali, ad esempio EBV. Le lesioni da SM si presentano come placche multiple di forma irregolare, ben circoscritte, di aspetto vitreo e grigiastro. La dimensione delle placche varia considerevolmente da piccole lesioni riconoscibili solo all’esame microscopico a lesioni che interessano tutta la sostanza bianca. Le placche sono caratterizzate dalla presenza di macrofagi, linfociti e monociti. Il 90% delle placche contiene plasmacellule secernenti IgG. L’encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE) è un modello animale di SM in cui la demielizzazione e l’infiammazione si verificano in seguito all’immunizzazione dell’animale con proteine mieliniche. L’EAE è caratterizzata da un processo infiammatorio del tessuto nervoso che porta a paralisi progressiva. L’autoantigene responsabile della EAE è stato individuato nella proteina basica della mielina (MBP). Gli iniziatori del processo infiammatorio sono linfociti TH1 specifici per MBP, i quali migrano nel SNC grazie a molecole di adesione VLA-‐4 che interagiscono con molecole VCAM-‐1 espresse dall’endotelio. I TH1 attivano macrofagi, responsabili del danno. Le lesioni da SM possono colpire qualunque distretto del sistema nervoso; tuttavia, il più delle volte, la SM si manifesta con sintomi e segni neurologici caratteristici:
-‐ Una frequente manifestazione iniziale è il deficit visivo monolaterale dovuto al coinvolgimento del nervo ottico.
-‐ Lesioni nel tronco encefalico causano segni a carico dei nervi cranici, atassia, nistagmo. -‐ Lesioni nel midollo spinale causano deficit motori e visivi del tronco e degli ari, spasticità, difficoltà nel
controllo volontario della funzione vescicale. Artrite reumatoide È una malattia infiammatoria sistemica cronica che aggredisce principalmente le articolazioni, portando alla distruzione della cartilagine e all’anchilosi delle articolazioni. È legata ad un’attività autoimmune sia umorale, sia cellulo-‐mediata. Circa l’1% della popolazione mondiale è affetta da artrite reumatoide. Colpisce le donne da 3 a 5 volte più frequentemente. È molto comune nell’età fra i 40 e i 70 anni. La suscettibilità alla SM è correlata all’aplotipo HLA-‐DR4 e al gene CTLA4 Molti pazienti con artrite reumatoide producono un gruppo di autoanticorpi, detti fattori reumatoidi, che reagiscono contro determinanti presenti sulle regioni Fc delle IgG. Il tipico fattore reumatoide è una IgM con questa reattività. Questi autoanticorpi si legano alle normali IgG circolanti formando immunocomplessi IgM-‐IgG. Gli immunocomplessi depositano a livello articolare, attivano la cascata complementare e iniziano una reazione di ipersensibilità di tipo III che causa l’infiammazione cronica. Sono implicati i linfociti TH1 e i TH17, che con le rispettive citochine (INFγ e IL17), stimolano sinoviciti e macrofagi a produrre molecole proinfiammatorie come IL1, IL6, TNF le quali hanno diversi effetti:
-‐ Attivano le cellule endoteliali della membrana sinoviale, favorendo il legame e la trasmigrazione dei leucociti.
-‐ Stimolano la produzione di enzimi litici come collagenasi e metalloproteinasi. -‐ Attivano gli osteoclasti, mediante aumento di espressione della proteina RANKL.
71 I linfociti TH1 e i TH17 sono anche responsabili dell’attivazione dei linfociti B secernenti le IgM autoreattive che causano la formazione degli immunocomplessi. La membrana sinoviale edematosa, iperplastica e ricca di cellule infiammatorie forma il cosiddetto “panno” che aderisce alla superficie articolare, cresce sopra di essa e ne causa l’erosione. Dopo la completa distruzione della cartilagine, il panno crea ponti tra le superfici ossee contrapposte, causando anchilosi fibrosa. Quest’ultima ossifica e da luogo ad anchilosi ossea. L’artrite reumatoide interessa anche la cute (formazione di noduli reumatoidi), i vasi sanguigni, il cuore e i polmoni. ✣ POSSIBILI MECCANISMI DI INDUZIONE DELL’AUTOIMMUNITÀ ✣ L’autoimmunità può essere dovuta a meccanismi esogeni e a meccanismi endogeni. Meccanismi esogeni
1. Mimetismo molecolare. L’infezione da parte di un determinato patogeno stimola una risposta immunitaria contro di esso con la produzione di anticorpi specifici. Questi anticorpi crossreagiscono con antigeni self, estremamente simili a quelli del patogeno. Esempi: -‐ Febbre reumatica (anticorpi contro antigeni streptococcici crossreagiscono con il muscolo cardiaco). -‐ IDDM (anticorpi contro antigeni del virus coxsachie B crossreagiscono con le cellule β). -‐ Sindrome di Goodpasture. -‐ Malattia di Graves.
2. Azione batterica adiuvante. Prodotti batterici fungono da carrier per gli antigeni responsabili.
3. Azione di superantigeni. Poiché causano un attivazione policlonale dei linfociti T, possono anche attivare
linfociti autoreattivi.
4. Presenza di proteine self carrier. L’antigene estraneo si lega a proteine self e scatena una risposta contro di esse (come avviene, ad esempio, nella nefrite interstiziale.
Meccanismi endogeni
1. Rilascio di antigeni normalmente sequestrati. Esempi: -‐ Sperma. Compare in uno stadio di sviluppo tardivo ed è sequestrato dal circolo; tuttavia, una
vasectomia può liberare in circolo antigeni spermatici e causare, in alcuni soggetti, la formazione di autoanticorpi.
-‐ MBP. Presente nella mielina, è normalmente sequestrata nel sistema nervoso; tuttavia, nell’induzione sperimentale di EAE nelle cavie, viene iniettata in circolo, causando la formazione di autoanticorpi contro di essa.
-‐ Cristallino. Lesioni oculari possono portare al rilascio di antigeni propri di questo organo e alla formazione di autoanticorpi.
-‐ Cuore. L’infarto può portare al rilascio di antigeni propri di questo organo e alla formazione di autoanticorpi.
2. Espressione inappropriata di MHC da parte di una cellula non APC (ad esempio, cellule β pancreatiche).
3. Squilibri nella produzione di citochine regolatorie (come IL10 e TNFβ), in grado di sopprimere la risposta immunitaria.
4. Difetti nell’apoptosi, che limitano la funzionalità della tolleranza centrale e periferica.
72 5. Diminuzione dell’espressione di CTLA4, implicato nella tolleranza periferica.
6. Squilibri nell’immunoregolazione.
7. Aumentata attività dei linfociti B o T.
Ruolo dei linfociti T CD4+ Ancora una volta il bilancio TH1/TH2 svolge un ruolo centrale:
-‐ I linfociti TH1 sono coinvolti nello sviluppo dell’autoimmunità. -‐ I linfociti TH2 proteggono dallo sviluppo della malattia e dalla sua progressione.
Il ruolo dei linfociti TH1 e TH2 è confermato dalla somministrazione di particolari citochine a topi prima che vengano immunizzati con MBP (che, normalmente, causa EAE):
-‐ IL4 à polarizzazione verso TH2 à inibisce sviluppo EAE. -‐ IL12 à polarizzazione verso TH1 à sviluppo EAE.
I linfociti T CD4+ possono essere sensibilizzati anche dall’espressione di MHC II su cellule che normalmente non possiedono questa molecola (cellule tiroidee, nella malattia di Graves, cellule β pancreatiche, nell’IDDM). L’espressione di MHC II è causata dagli elevati livelli di INFγ presenti sul sito di infiammazione. ✣ TERAPIA ✣ La terapia delle malattie autoimmuni dovrebbe inibire solo la risposta autoimmune senza interferire con il resto del sistema immunitario. Tuttavia, le terapie ad oggi in utilizzo non curano la malattia, ma hanno un effetto meramente palliativo, volto ad alleviarne i sintomi e a permettere al paziente una condizione di vita accettabile. Farmaci immunosoppressori. Hanno un’azione generalizzata sul sistema immunitario. Causano una diminuzione dei sintomi autoimmuni, ma anche un aumento del rischi di sviluppare infezioni o neoplasie. Ciclosporina A e FK506. Hanno un’azione più selettiva. Bloccano la trasduzione del segnale del TCR e perciò dovrebbero inibire solo i linfociti T attivati dall’antigene, risparmiando i non attivati. Rimozione del timo. Ha ottenuto risultati buoni in alcuni casi di miastenia grave. Plasmaferesi. È utile in pazienti con miastenia grave, malattia di Graves, LES e artrite reumatoide. Permette la suddivisione del sangue in una componente plasmatica (contenente anche gli autoanticorpi) e una componente cellulare. La frazione plasmatica è eliminata. La frazione cellulare è reinfusa con plasma fresco o in soluzione di ovalbumina. Anticorpi monoclonali. Fin ora, sono stati utilizzati solo in modelli animali. Il trattamento di topi con sintomatologia LES con anticorpi anti-‐CD4 induce la remissione della malattia. Tuttavia, poiché gli anticorpi anti-‐CD4 bloccano tutti i linfociti TH indipendentemente dalla loro specificità, questo trattamento porta a una soppressione generalizzata del sistema immunitario. Questi anticorpi anti-‐CD4 causano anche la distruzione dei linfociti Treg CD4+/CD25high, inibendo la tolleranza periferica e il controllo dell’autoimmunità. Sono stati sperimentati anche anticorpi anti-‐CD25, espresso in quantità elevate dai linfociti TH attivati dall’antigene e in maniera ancor più abbondante da quelli autoreattivi. Anche in questo caso, il rovescio della medagli è rappresentato dalla distruzione dei linfociti Treg. Farmaci che limitano l’infiammazione. L’infiammazione cronica è una caratteristica comune delle malattie autoimmuni. Farmaci antagonisti di citochine proinfiammatorie, principalmente il TNFα, sono usati nel trattamento dell’artrite reumatoide (esempi: Remicade, Humira). Sono stati approvati anche farmaci che sfruttano antagonisti di IL1. IL6, IL15. Somministrazione orale di antigeni. Induce tolleranza, potendo eliminare il problema sul nascere.
73
IMMUNODEFICIENZE Si verificano quando il sistema immunitario non è in grado di difendere l’ospite dagli agenti di malattia o dalle cellule tumorali. Si distinguono immunodeficienze primitive e immunodeficienze secondarie. ✣ IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE ✣ Sono dovute a un difetto genetico o di sviluppo del sistema immunitario; il difetto è presente fin dalla nascita, ma le manifestazioni cliniche possono presentarsi anche in un secondo momento. Sono classificate in base al tipo o allo stadio maturativo delle cellule coinvolte: più è precoce lo stadio maturativo colpito, più è grave l’immunodeficienza. Ad esempio:
-‐ Deficit a carico dei precursori emopoietici causano disgenesia reticolare, caratterizzata da alterazioni di tutto il sistema immunitario.
-‐ Deficit a carico dei progenitori linfoidi causano immunodeficienza grave combinata (SCID). -‐ Deficit a carico dei progenitori mieloidi causano agranulocitosi congenita.
Immunodeficienze che colpiscono stadi differenziativi più avanzati, causano danni più specifici. La maggior parte delle immunodeficienze primitive colpisce la linea linfoide. Possono interessare solo il compartimento B, solo il compartimento T oppure essere combinate e coinvolgerli entrambi. I pazienti colpiti da immunodeficienza a carico del compartimento B presentano difetti nell’immunità umorale e sono maggiormente suscettibili a infezioni da batteri capsulati (streptococchi, stafilococchi, peumococchi). I pazienti colpiti da immunodeficienza a carico del compartimento T presentano difetti nell’immunità umorale e in quella cellulo-‐mediata5 e sono maggiormente suscettibili a infezioni da batteri capsulati, virus, protozoi, funghi. Esistono più di un centinaio di diverse immunodeficienze primitive. La maggior parte di esse sono sindromi rare. Negli ultimi anni sono stati individuati almeno 25 nuovi geni responsabili di immunodeficienze. DEFICIT A CARICO DEL COMPARTIMANTO LINFOIDE Colpiscono l’immunità acquisita. Immunodeficienza grave combinata (SCID) Esistono varie forme di SCID, tutte caratterizzate da una disfunzione a carico del compartimento T, che può però coinvolgere anche il compartimento B o NK o entrambi. Nonostante la molteplicità dei difetti genetici responsabili, tutte le forme di SCID sono caratterizzate da ipoplasia timica e ridottissimo numero di linfociti T, incapaci per altro di montare una risposta immunitaria adeguata. La SCID comporta infezioni ricorrenti e gravi nei primi anni di vita. Inizialmente, queste infezioni sono dovute a patogeni normalmente controllati dal compartimento T. Infatti, perlomeno nei primi mesi di vita, il deficit a carico dei linfociti B è supplito grazie agli anticorpi acquisiti passivamente attraverso il circolo transplacentare e il latte materno. I bambini con SCID sono affetti da diarrea cronica, polmoniti, lesioni della cute, della mucosa orale e della faringe dovute ad agenti opportunisti. In assenza di trapianto di midollo osseo, la morte sopraggiunge nel primo anno di
5 La maggior serietà delle immunodeficienze a carico del compartimento T è legata al ruolo centrale che i linfociti T svolgono nel sistema immunitario. Infatti, essi entrano in gioco sia nell’immunità umorale (funzione helper) sia nell’immunità cellulo-‐mediata (funzione citotossica).
74 vita. In attesa di ciò, questi bambini possono essere preservati tenendoli in un ambiente completamente sterile, così da limitare ogni possibile contatto con agenti patogeni. Diversi difetti genici possono causare SCID.
1. La causa più frequente (50-‐60% dei casi) è una mutazione della catena comune γ, facente parte dei recettori per IL2, IL4, IL7, IL9 e IL15. Questo difetto è X-‐linked ed è quindi più frequente nei maschi che nelle femmine.
2. Deficit a carico dei geni che codificano le proteine responsabili del riarrangiamento (RAG1 e RAG2). Comportano alterazione del compartimento B e T, mentre le cellule NK sono normali. Trasmissione autosomica recessiva.
3. Deficit a carico dei geni che codificano la molecola JAK3, coinvolta nella trasduzione del segnale attraverso la catena comune γ. Trasmissione autosomica recessiva.
4. Deficit a carico dei geni che codificano l’enzima adenosina deaminasi (ADA), coinvolto nel metabolismo delle purine. Comportano alterazioni dei compartimenti B, T e NK. Trasmissione autosomica recessiva.
5. Deficit a carico dei geni che codificano la molecola ZAP-‐70, importante per la trasduzione del segnale. Comportano una totale deplezione dei linfociti T CD8+, mentre i livelli sierici di linfociti CD4+ e di immunoglobuline sono normali, anche se i linfociti CD4+ non sono funzionanti.
6. Una patologia simile alla SCID è causata da deficit a carico di fattori di trascrizione CIITA e RFX6 necessari per l’espressione dei geni MHC II. Questa malattia è detta “sindrome del linfocita nudo” o BLS (bare lymphocyte sindrome); è piuttosto grave in quanto non permette l’attivazione dei linfociti T helper, pregiudicando il loro ruolo centrale nell’immunità.
7. Un’altra patologia simile alla SCID è causata da un deficit a carico dei geni che codificano le molecole TAP1 e TAP2, fondamentali per la processazione e la presentazione dell’antigene nel contesto delle molecole MHC I. Comporta un’alterata attività dei linfociti T CD8+, con aumentata suscettibilità da infezioni virali.
Sindrome di Wiskott-‐Aldrich (WAS) È un disordine recessivo X-‐linked. È caratterizzata da un decorso ingravescente ed esita generalmente in un’infezione fatale o in una neoplasia linfoide. Inizialmente il numero di linfociti T e B di questi pazienti è normale e le prime manifestazioni cliniche consistono in una risposta deficitaria ai polisaccaridi batterici e in un basso livello di IgM circolanti. Comporta trombocitopenia, eczema, infezioni ricorrenti e morte precoce. È causata da un difetto nella sialoforina (CD43), glicoproteina di membrana coinvolta nell’assemblaggio dei filamenti di actina e indispensabile per la formazione delle microvescicole. Deficit del recettore per INFγ È un disordine autosomico recessivo, caratteristico di famiglie con una storia di reincroci tra parenti. Comporta un’aumentata suscettibilità alle infezioni da micobatteri. I difetti non interessano esclusivamente il recettore dell’INFγ, ma anche quello dell'IL2. Sintomi del tutto simili sono manifestati da pazienti con difetti nella via di trasduzione di NF-‐kb (del resto, tale via è implicata nell’attivazione della trascrizione del gene dell’INFγ).
6 Vedi pagina 15.
75 Agammaglobulinemia o immunodeficienza di Burton È stata la prima immunodeficienza descritta. È un disordine recessivo X-‐linked. Questi pazienti non presentano linfociti B circolanti, infatti queste cellule rimangono in uno stadio pre-‐B in cui è avvenuto il riarrangiamento delle catene pesanti, ma non quello delle catene leggere. Tutto questo comporta netta diminuzione dei livelli sierici di IgG e assenza delle altre classi anticorpali. Il difetto interessa la tirosino chinasi di Burton (BTK), una proteina implicata nella trasduzione del segnale attraverso il pre-‐BCR. La malattia si manifesta intorno ai 6 mesi di vita, quando le immunoglobuline materne sono ormai assenti. Il bambino inizia ad essere colpito da infezioni ricorrenti dovute a batteri (Streptococcus pneumoniae, Staphylococcus aureus, Haemophilus influenzae), enterovirus7, poliovirus. In ogni caso, la maggior parte delle infezioni virali intracellulari, fungine e protozoarie sono ben controllate dall’immunità cellulo-‐mediata che è intatta. La diagnosi istologica del linfonodo evidenzia atrofia della zona corticale B-‐dipendente (con assenza di follicoli linfoidi) e ipertrofia della zona paracorticale T-‐dipendente (con presenza di strutture nodulari) dovuta all’iperstimolazione antigenica dei linfociti T. La terapia si basa sulla somministrazione endovenosa di immunoglobuline ma, nonostante ciò, il paziente raramente supera i vent’anni di età. Sindrome da iper-‐IgM È un disordine recessivo X-‐liked. È caratterizzata dalla carenza di IgG, IgA, e IgE e dalla presenza di livelli notevolmente elevati di IgM che possono raggiungere concentrazioni sieriche di 10 mg/ml (il valore normale è 1,5 mg/ml). È dovuta all’assenza del ligando CD40L sui linfociti TH. Poiché l’interazione CD40/CD40L tra linfocita TH e linfocita B è indispensabile perché quest’ultimo venga effettivamente attivato, la sua assenza inibisce le risposte B agli antigeni timo-‐dipendenti. Viceversa, la risposta ad antigeni timo-‐indipendenti sono presenti perché fornite dalle IgM. L’assenza di IgG, IgA e IgE è correlata al fatto che l’interazione CD40/CD40L è indispensabile anche ai fini dello switch isotipico. I bambini affetti da questa sindrome sono colpiti da infezioni ricorrenti. Immunodeficienza comune variabile Solitamente ha un’insorgenza tardiva. Il preciso disordine genetico non è noto, ma interessa la differenziazione dei linfociti B attivati in plasmacellule. È caratterizzata da un numero ridotto di plasmacellule, da livelli anticorpali (soprattutto IgG) bassi e da infezioni ricorrenti. I pazienti sono colpiti da ricorrenti infezioni batteriche che possono essere controllate con la somministrazione di anticorpi. Sindrome da iper-‐IgE o sindrome di Job È un disordine autosomico dominante. Il gene responsabile mappa sul cromosoma 4. È caratterizzata da eosinofili (alti livelli di eosinofili), infezioni ricorrenti, ascessi cutanei, eczema, anomalie facciali e fragilità ossea.
7 Virus che interessano specificatamente l’apparato gastroenterico.
76 Deficit specifico di IgA Il difetto genetico responsabile non è noto. È caratterizzato da bassi livelli di IgA sieriche e secrete con conseguenti infezioni ricorrenti a livello dei distretti genitourinario, gastroenterico e respiratorio. La sintomatologia è variabile: in alcuni soggetti questa sindrome causa gravi problemi, in altri è pressoché asintomatica; è probabile che i soggetti asintomatici abbiano acquisito la capacità di secernere IgG al posto di IgA a livello delle mucose. Atassia-‐teleangectasia È caratterizzata da un deficit di IgA e talvolta di IgE, dovuto ad un difetto di una chinasi implicata nella regolazione del ciclo cellulare. I sintomi sono:
-‐ Atassia di tipo cerebellare con mancato controllo dell’equilibrio. -‐ Teleangectasia rottura di capillari a livello oculare.
Non è ancora stato compreso il legame tra il deficit anticorpale e i sintomi. Sindrome di DiGeorge o aplasia timica congenita Non è un disordine ereditario, ma è dovuta ad un’anomalia dello sviluppo embrionale intrauterino. È caratterizzata dalla completa assenza del timo, cui si associano ipoparatiroidismo, anomalie cardiovascolari e una facies tipica. È dovuta alla delezione di una regione del cromosoma 22. È anche detta “sindrome della terza e quarta tasca faringea”, per indicare la precisa origine del difetto embrionale. Comporta notevole riduzione del numero totale di linfociti T con assenza di risposte immunitarie T-‐mediate. Il trapianto di timo potrebbe risolvere il problema, ma i difetti cardiovascolari sono così gravi che la speranza di sopravvivenza a lungo termine resta comunque bassissima. Sindrome di Nezelof È un disordine ereditario a modalità di trasmissione ignota. È caratterizzata da un’ipoplasia timica in cui l’organo residuo non è in grado di permettere un corretto sviluppo dei linfociti T. Comporta diarrea cronica, infezioni virali e fungine ricorrenti. DEFICIT A CARICO DEL COMPARTIMANTO MIELOIDE Colpiscono l’immunità innata. Riguardano per lo più i fagociti e possono essere immunodeficienze di tipo numerico o funzionale. Alterazioni a carico dei neutrofili Il deficit quantitativo dei neutrofili può variare da una quasi completa assenza di cellule (agranulocitosi) a una riduzione del numero di neutrofili periferici sotto le 1500 unità per mm3 (neutropenia). Il deficit può essere congenito oppure dovuto a fattori estrinseci. Le neutropenie acquisite sono più frequenti di quelle congenite.
1. Neutropenia congenita severa (SCN). È un disordine ereditario con modalità di trasmissione recessiva o dominante. Il numero di neutrofili è inferiore a 200 unità per mm3. Nella maggior parte dei casi è dovuta a mutazioni nel gene codificante per la proteasi serinica elastasi del neutrofilo (NE), utilizzata dal neutrofilo per farsi strada attraverso la matrice extracellulare del tessuto in risposta allo stimolo infiammatorio. Il gene che codifica per NE è attivo solo nello stato di promielocita e viene silenziato nel neutrofilo maturo. La proteina viene infatti immagazzinata nel citoplasma durante la granulocitopoiesi ed è utilizzata solo dalla cellula matura. La mutazione a carico del gene della NE comporta una apoptosi inappropriata dei precursori dei granulociti nel midollo osseo.
77 Esiste anche una SCN X-‐liked caratterizzata da difetti nel gene che codifica la proteina WASP, con produzione di una forma costitutivamente attiva. L’iperattività di WASP comporta un destabilizzazione del citoscheletro con conseguente induzione dell’apoptosi. Si ipotizza che la SCN possa essere determinata anche da un deficit di G-‐CSF, che impedisce lo sviluppo della cellula staminale mieloide. In generale la SCN è trattata con somministrazione di G-‐CSF, che aumenta la sopravvivenza dei progenitori mieloidi. L’unico mezzo realmente risolutivo è il trapianto di midollo osseo.
2. Neutropenia ciclica. Il numero dei neutrofili oscilla da “quasi normale” a “molto basso” a “nullo” nell’arco
di circa 21 giorni. Anche altre componenti ematiche sono soggette fluttuazione. Nei 3-‐6 giorni in cui il numero di neutrofili è al minimo, i pazienti vanno improvvisamente incontro a gravi situazioni infettive. Anche in questo caso è coinvolta una mutazione dell’enzima NE. È evidente che, date le differenze tra le varie forme di neutropenia, devono essere implicati anche altri fattori oltre la mutazione NE. Anche in questo caso, il trattamento prevede l’utilizzo di G-‐CSF.
3. Neutropenie transitorie o secondarie. Si verificano in casi particolari:
o In soggetti neoplastici sottoposti a chemio o radio terapia, poiché tali terapie danneggiano in
modo aspecifico le cellule in attiva proliferazione e quindi anche i precursori mieloidi dei neutrofili.
o In seguito ad infezione da particolari virus (EBV e CMV). o In corso di malattie autoimmuni come la sindrome di Sjögren o il LES a causa della produzione
di autoanticorpi. Alterazioni a carico dei fagociti
1. Malattia granulomatosa cronica (CGD). È dovuta ad un difetto nella via ossidativa dei fagociti. Il difetto riguarda il complesso enzimatico NADPH ossidasi (PHOX), attraverso il quale i macrofagi producono superossido e perossido di idrogeno partendo dall’ossigeno molecolare. L’anione superossido e soprattutto il perossido di idrogeno hanno spiccata attività microbicida8. All’interno del lisosoma, la mieloperossidasi trasforma il perossido di idrogeno in ipoclorito che causa l’alogenazione della membrana batterica e la morte del patogeno. La CGD comporta aumentata suscettibilità alle infezioni fungine e batteriche, reazioni infiammatorie eccessive che causano linfoadenopatia, gengiviti e granulomi sottocutanei. Nel 60% dei casi si tratta di un disordine X-‐linked con mutazione di p91-‐phox localizzato sul braccio corto del cromosoma X. Nel 40% dei casi si tratta di un disordine autosomico recessivo che può essere causato da alcune diverse mutazioni:
o Mutazione del gene p22-‐phox localizzato sul braccio lungo del cromosoma 16. o Mutazione del gene p47-‐phox localizzato sul braccio lungo del cromosoma 7. o Mutazione del gene p67-‐phox localizzato sul braccio lungo del cromosoma 1. o Mutazione dei geni gp91 e gp22 (forma più grave).
La diagnosi di laboratorio prevede il test al nitro blu di tetrazolio, che permette di constatare il funzionamento del processo fagocitico. La cellula ingerisce particelle opsonizzate con nitro blu di tetrazolio, che è incolore. Se avviene (come dovrebbe) la produzione di superossidi, il tetrazolio è ridotto a formazano che assume una colorazione blu. Inoltre, numerosi geni codificanti le subunità della NADPH ossidasi sono stati mappati ed è perciò possibile lo screening neonatale.
8 N.B. Alcuni batteri producono l’enzima catalasi, che scinde il perossido di idrogeno in ossigeno molecolare ed acqua. In questo modo, il patogeno riesce a evitare la degradazione lisosomiale.
78 2. Difetto di adesione leucocitaria (LAD). Interferisce con la capacità delle NK e dei CTL di aderire alla
cellula bersaglio e con la formazione di coniugati T-‐B. Comporta infezioni batteriche ricorrenti e una rallentata guarigione delle ferite. È un disordine autosomico recessivo. LAD 1 à Alterazione a carico della catena β comune alle tre integrine: LFA-‐1, Mac-‐1 e gp150/95 (rispettivamente CD11a, b, c). LAD 2 à Alterazione a carico del sialil-‐lewis-‐X, ligando di E e P selectine.
3. Sindrome di Chediack-‐Higashi. È un disordine autosomico recessivo che comporta la mutazione della
proteina LYST, implicata nella regolazione del traffico cellulare. La mutazione impedisce a queste proteine di raggiungere i lisosomi, che non riescono più a lisare i batteri. Comporta albinismo oculo-‐cutaneo, infezioni batteriche ricorrenti e massiccia, anche se benigna, infiltrazione linfoide degli organi.
4. Deficit della mieloperossidasi. Comporta l’incapacità di produrre ipoclorito da parte del fagocita.
Altri deficit Deficit del complemento. Ne esistono diverse tipologie. La più frequente è dovuta ad un disordine X-‐linked che comporta un deficit di poperdina, che stabilizza la C3 convertasi nella via alternativa. TERAPIA Non esistono precise vie per curare le immunodeficienze, tuttavia numerose sono le possibilità di trattamento. Innanzitutto è opportuno isolare completamente i pazienti per proteggerli da qualsiasi esposizione agli agenti infettivi. Si può poi agire con:
-‐ Ripristino della proteina mancante. La possibilità di produrre, grazie all’ingegneria genetica, le proteine implicate nelle immunodeficienze ha aperto nuove vie di trattamento. Ad esempio, casi di SCID dovuti a deficit di ADA sono stati trattati con successo con somministrazione di ADA ricombinante.
-‐ Ripristino del tipo o della linea cellulare colpita mediante trapianto di midollo osseo istocompatibile. -‐ Ripristino del gene colpito. Nel caso in cui l’immunodeficienza sia causata da un singolo gene difettoso, è
possibile isolare specifiche cellule del paziente (in genere cellule CD34*), trasfettarle con il gene funzionante e reintrodurle nell’ospite.
✣ IMMUNODEFICIENZE SECONDARIE ✣ Derivano dall’esposizione ad alcuni agenti esterni (chimico-‐fisici, biologici, farmaci). La causa più frequente di immunodeficienza secondaria è la sindrome dell’immunodeficienza acquisita (AIDS) causata dal virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 (HIV1). AIDS Il virus HIV1 fu isolato per la prima volta nel 1981 a Los Angeles, New York e San Francisco in soggetti omosessuali. Con l’aumentare del numero dei casi di AIDS si osservò che erano ad alto rischi di infezione oltre ai maschi omosessuali, anche i soggetti eterosessuali sia maschi sia femmine con comportamento sessuale promiscuo, i soggetti che facevano uso di droghe endovena, i soggetti che avevano ricevuto trasfusioni di sangue o emoderivati prima del 1985 e i bambini nati da madri infettate da HIV. Dal momento della sua scoperta ad oggi, l’AIDS ha assunto proporzioni epidemiche in tutto il mondo: oggi, l’OMS stima che in tutto il mondo i soggetti malati siano circa 40,3 milioni. Sebbene i progressi terapeutici abbiano allungato la speranza di vita dei soggetti infetti, l’AIDS rimane una delle principali cause di morte per soggetti tra i 25 e i 44 negli Stati Uniti. Modalità di trasmissione di HIV1 La trasmissione dell’HIV richiede il contatto con sangue, latte, sperma o secrezioni vaginali di un individuo infetto. Il contagio avviene mediante passaggio di cellule infettate da HIV, soprattutto macrofagi, cellule dendritiche e linfociti.
79
-‐ Rapporti sessuali non protetti. Il rischio è maggiore nei rapporti anali che in quelli vaginali e aumenta notevolmente in presenza di altre malattie a trasmissione sessuale, poiché le lesioni associate a tali malattie possono favorire lo scambio di sangue durante il rapporto.
-‐ Emotrasfusioni e somministrazione di emoderivati non controllati. -‐ Scambio di siringhe, che spiega l’alta incidenza di AIDS tra i tossicodipendenti. -‐ Trasmissione da madre a figlio, che avviene o per scambio di sangue durante il parto o durante
l’allattamento. A meno che le madri non siano trattate prima del parto con farmaci antiretrovirali, il 30% dei bambini nasce affetto.
Uno dei fattori che contribuiscono alla diffusione dell’AIDS è il lungo periodo di tempo che intercorre tra l’infezione e il manifestarsi dei primi sintomi. In tale periodo chi ha contratto il virus è infetto senza esserne a conoscenza e può pertanto diffonderlo senza saperlo. Caratteristiche del virus HIV1 L’HIV1 è un retrovirus, cioè un virus a RNA. Quando HIV1 infetta una cellula, l’enzima trascrittasi inversa, di cui dispone, retrotrascrive i filamenti di RNA in DNA, detto provirus. Il provirus si integra nel genoma della cellula ospite e viene replicato assieme al resto del DNA cellulare. HIV1 infetta le cellule usando la molecola CD4 come recettore e vari recettori per chemochine come corecettori. Questo spiega il tropismo selettivo di HIV1per i linfociti T CD4+ e per altre cellule che presentano questo antigene, come i monociti/macrofagi e cellule dendritiche Il ciclo riproduttivo di HIV1 si articola nel modo seguente:
1. HIV1 aderisce ai linfociti T CD4+ grazie all’interazione della glicoproteina gp120 con CD4. 2. In seguito a tale interazione, gp120 espone un nuovo sito di legame per i corecettori CCR5 o CXCR49. 3. Il legame ai corecettori induce l’esposizione del peptide di fusione gp41. 4. La porzione apicale idrofobica di gp41 si inserisce nella membrana plasmatica della cellula bersaglio. 5. Il virus si fonde con la cellula ospite. 6. Il core virale contenente il genoma di HIV1 penetra nella cellula e la trascrittasi inversa catalizza la
conversione dell’RNA in doppio filamento di DNA. 7. Il provirus si integra nel genoma e può rimanere silente per mesi o anni sotto forma di infezione latente.
Oppure, il provirus può essere trascritto, causando la formazione dei virioni, la loro gemmazione dalla cellula ospite e la morte di quest’ultima.
La fase di infezione latente può essere interrotta dalla stimolazione della cellula ospite dovuta a citochine o all’interazione con l’antigene specifico. Sia la stimolazione antigenica, sia quella citochinica (soprattutto da TNF) inducono la proliferazione cellulare attraverso la via di segnalazione del NF-‐kB. La trascrizione del genoma implica anche la trascrizione del provirus che in esso si era integrato: sono prodotti virioni che gemmano dalla cellula ospite uccidendola. Fasi successive dell’infezione La tipica via d’ingresso di HIV1 sono le mucose. L’infezione primaria colpisce i linfociti T CD4+ della memoria del tessuto linfatico associato alle mucose causandone la morte. Nella stessa sede, il virus è catturato dalle cellule dendritiche che migrano al linfonodo, ove infettano altri linfociti T CD4+. Il virus si replica abbondantemente nei linfonodi regionali prossimi al sito di penetrazione e, pochi giorni dopo l’infezione, un elevato numero di virioni è presente nel siero del paziente, potendo causare la cosiddetta “sindrome retrovirale acuta”, il più delle volte simile ad una sindrome parainfluenzale. Il virus si dissemina in tutto l’organismo, infettando i linfociti T helper, i macrofagi e le cellule dendritiche degli organi linfoidi secondari.
9 Si definiscono virus T-‐tropici quelli che, interagendo con la molecola CXCR3, infettano preferibilmente i linfociti T. Si definiscono virus M-‐tropici quelli che, interagendo con la molecola CCR5, infettano preferibilmente i macrofagi.
80 Con la disseminazione dell’infezione, il paziente sviluppa le risposte immunitarie umorali e cellulo-‐mediate. Sono prodotti CTL CD8+ e anticorpi anti-‐HIV1 e dalla 12a settimana dopo l’infezione, il sistema immunitario controlla parzialmente l’infezione e la replicazione virale diminuisce (infezione latente). Il numero di virioni in circolo cala nettamente e raggiunge un valore di equilibrio che può rimanere relativamente stabile anche per anni. Inizia poi la fase cronica dell’infezione: il virus si replica attivamente e in modo massiccio nei linfonodi e nella milza, causando la distruzione di questi tessuti. Questa fase è asintomatica o paucisintomatica ed è perciò definita “fase di latenza clinica”. Il paziente può comunque sviluppare infezioni opportunistiche minori come la candidiasi orale e vaginale e l’herpes zooster. In questa fase la maggior parte dei linfociti T CD4+ circolanti non è infetta, ma la distruzione dei linfociti negli organi linfatici secondari è notevole e, di conseguenza, anche la conta dei linfociti circolanti declina progressivamente. Dopo vari anni il numero di linfociti T CD4+ sia circolanti sia residenti negli organi linfatici è notevolmente diminuito. La fase finale è lo sviluppo dell’AIDS conclamata, caratterizzata dal crollo delle difese dell’ospite, dal rialzo della viremia e da sintomi clinici gravi. Si manifestano febbre di lunga durata, astenia, diarrea cronica e calo ponderale. Sopraggiungono poi gravi infezioni opportunistiche (Candida albicans, CMV, EBV, Herpes simplex virus, Cryptococcus neoformans, Toxoplasma gondii, micobatteri), neoplasie secondarie (sarcoma di Kaposi, linfomi) e sintomi neurologici, dovuti al fatto che HVI1 può infettare anchè le cellule del SNC. In assenza di trattamento, la maggior parte dei sieropositivi manifesta AIDS dopo un periodo di 7-‐10 anni. Diagnosi La diagnosi di infezione da HIV1 si basa sulla presenza di anticorpi IgG e IgA contro il virus nel siero del paziente, che viene classificato come “sieropositivo”. La diagnosi di AIDS conclamata si basa sull’osservazione di diversi fattori:
-‐ Linfociti T CD4+ notevolmente diminuiti. -‐ Assenza di reazioni di ipersensibilità ritardata. -‐ Suscettibilità alle infezioni opportunistiche, le quali, nei soggetti sani ed immunocompetenti sono
pressoché asintomatiche. Terapia Il ciclo biologico del virus HIV mostra numerosi punti suscettibili ad un possibile attacco farmacologico.
1. Trascrizione inversa dell’RNA virale in DNA provirale.
o Zidovudina (AZT). È un analogo nucleosidico che viene introdotto dalla trascrittasi inversa nella catena di cDNA, causando l’interruzione della retrotrascrizione. L’AZT somministrata è utilizzata anche dalla DNA polimerasi umana e l’inserimento di AZT nel DNA cellulare uccide la cellula. I precursori dei globuli rossi sono particolarmente suscettibili all’azione dell’AZT, che può quindi causare anemia.
o Didanosina. o Lamivudina. o Nevrapima. Agisce sulla retrotrascrizione agendo direttamente sulla trascrittasi inversa.
2. Attività delle proteasi virali che scindono le proteine virali nelle unità necessarie per la costruzione di un
virione maturo.
o Sequinavir. o Ritonavir. o Indinavir.
3. Fusione del virus con la membrana cellulare.
o Enfuvirtide.
81 L’AIDS è oggi comunemente affrontata con la cosiddetta terapia antiretrovirale ad alta attività (HAART), che nella maggior parte dei casi combina l’utilizzo di due analoghi nucleosidici con un inibitore delle proteasi. Vaccino Oggigiorno l’opzione principale per bloccare la diffusione dell’AIDS è la produzione di un vaccino efficiente e sicuro in grado di prevenire l’infezione e la sua progressione verso la malattia conclamata. La produzione di un vaccino contro il virus HIV si sta rivelando molto ardua per due motivi principali:
-‐ Instabilità del genoma di HIV che è caratterizzato da un’elevatissima variabilità antigenica (64 volte maggiore rispetto a quella del virus dell’influenza).
-‐ Difficoltà nella sperimentazione su animale, dovuta al fatto che HIV1 quando infetta altre specie non causa AIDS. L’unico animale in cui HIV1 produce effetti analoghi all’uomo è lo scimpanzé.
82
RISPOSTA CONTRO I VIRUS I virus sono formati da piccoli segmenti di acidi nucleici ricoperti da un involucro proteico o lipoproteico, e hanno bisogno dell’ospite per potersi replicare. Tipicamente il virus entra nella cellula grazie al legame con un recettore di membrana che essa esprime e, una volta all’interno, utilizza i macchinari cellulari deputati alla biosintesi per replicare ogni sua componente. Una classificazione generale permette di distinguere tra virus citopatici e virus non citopatici. I virus citopatici, una volta infettata la cellula, causano a essa gravi danni e ne determinano la morte, solitamente dovuta all’intensa gemmazione di particelle virali dalla membrana cellulare, una volta che si è concluso il ciclo di replicazione virale. I virus non citopatici, una volta infettata la cellula, non le causano gravi danni: il genoma virale si integra in quello della cellula ospite e iniziano ad essere prodotte proteine virali, di per se stesse innocue. Tuttavia, queste proteine, come tutti quelle presenti in una cellula, potranno essere degradate e i peptidi derivanti essere esposti in membrana nel contesto di molecole MHC. Ciò causa l’attivazione dei linfociti T citotossici specifici, con conseguente distruzione cellulare. Se però il sistema immunitario non riconosce il virus non citopatico, la malattia non si manifesta, anche se la carica virale nel sangue del soggetto è molto alta ed egli è in grado di infettare altri individui. In ogni caso, a lungo andare, anche i virus non citopatici non riconosciuti risultano dannosi, potendo causare vascuoliti e tumore al fegato. Il tipico esempio di virus non citopatico è quello dell’epatite B. ✣ IMMUNITÀ INNATA ✣ La prima linea di difesa contro l’infezione virale è offerta dall’immunità innata ed è rappresentata da interferoni di tipo I (INFα e INFβ) e cellule NK. INTERFERONI INFα à prodotto da DC plasmacitoidi e fagociti mononucleati. INFβ à prodotto dai fibroblasti. La presenza in queste cellule di RNA a doppia elica prodotto dal ciclo vitale del virus viene riconosciuta dai TLR citoplasmatici, i quali attivano vie che stimolano i promotori per i geni degli interferoni di tipo I (IRF-‐3 e IRF-‐7). INFα e INFβ agiscono in vari modi:
-‐ Rendono le cellule resistenti alla replicazione virale. Legame degli interferoni agli appositi recettori à trasduzione mediata da JAK e STAT à attivazione di vari geni: uno di questi codifica l’enzima 2’-‐5’-‐oligo-‐adenilato sitetasi à attivazione della RNAsi L che degrada l’RNA virale. Un altro codifica per la proteino chinasi dsRNA-‐dipendente (PKR) à inibizione generalizzata della sintesi proteica nelle cellule infettate (mediante fosforilazione e inibizione di ELF2) à la replicazione virale è bloccata.
-‐ Aumentano l’espressione di MHC I.
-‐ Aumentano l’attività citotossica delle cellule NK. L’attività delle NK è potenziata anche dall’IL12, prodotta precocemente nella risposta immunitaria dalle cellule dendritiche.
CELLULE NK Sono in grado di uccidere cellule infettate da virus solo se l’infezione comporta, come spesso accade, una diminuita espressione delle molecole MHC I. Possono anche riconoscere cellule opsonizzate da anticorpi mediante il recettore CD16. Sono fondamentali nel contenere la diffusione dell’infezione fino a che non si sia sviluppata una risposta antivirale adeguata.
83 ✣ IMMUNITÀ SPECIFICA ✣ Anche nella risposta contro i virus, l’immunità specifica entra in gioco con le sue due componenti: la risposta umorale e quella cellulo-‐mediata. Le DC residenti nel tessuto infettato fagocitano cellule infettate dal virus e cellule che sono state uccise dall’infezione, quindi migrano al linfonodo. Nel linfonodo regionale la DC matura attiva i linfociti T CD4+, i quali vanno incontro a espansione clonale. Il linfonodo aumenta di dimensione a causa di questa cospicua proliferazione. I linfociti T helper vanno abbandonano il linfonodo e grazie a citochine con funzione chemotattica, tornano nel tessuto infettato. Qui potranno attivare i linfociti T citotossici, la maggior parte dei quali, del resto, risiede proprio nei tessuti periferici. RISPOSTA UMORALE Gli anticorpi specifici per antigeni di superfice del virus sono fondamentali sia per limitarne la diffusione durante la fase acuta dell’infezione, sia per proteggere l’ospite da una successiva reinfezione. Esempi dell’azione anticorpale:
-‐ Gli anticorpi possono agire contro il recettore che permette al virus di interagire con le cellule dell’ospite.
-‐ Gli anticorpi possono agire contro particolari epitopi del virus che permettono ad esso di fondersi con la membrana plasmatica della cellula ospite.
-‐ Gli anticorpi possono opsonizzare il virus e causarne la lisi mediata da complemento. -‐ Gli anticorpi, assieme al complemento, possono causare l’agglutinazione delle particelle virali
facilitandone la fagocitosi. RISPOSTA CELLULO-‐MEDIATA Il ruolo chiave è svolto dai CTL CD8+ e dai linfociti TH1. I linfociti TH1 producono varie citochine tra cui IL2, INFγ e TNF. IL2 à favorisce l’attivazione dei CTL precursori e attiva le cellule NK. INFγ à attiva le cellule NK che, come già detto, permettono il contenimento dell’infezione fino a quando non inizia a svilupparsi la risposta antivirale specifica dei CTL. ✣ TEMPISTICHE DELLA RISPOSTA CONTRO I VIRUS ✣ Al primo incontro con il virus, l’organismo reagisce montando una risposta primaria.
1. Il contenimento dell’infezione nei primi 3-‐4 giorni è affidato all’immunità innata, in particolar modo all’azione degli interferoni.
2. Più o meno contemporaneamente entrano in gioco le cellule NK, che evitano la crescita esponenziale della replicazione del virus (il titolo virale raggiunge un plateau).
3. I primi CTL raggiungono il sangue periferico verso il 4° giorno; contemporaneamente il titolo virale inizia a diminuire.
4. Verso il 7°-‐8° giorno, compaiono i primi anticorpi, i quali non servono tanto alla diminuzione della viremia, quanto piuttosto a impedire infezioni secondarie.
Un secondo contatto con lo stesso virus comporta una risposta secondaria. In questo caso, gli anticorpi ricoprono un ruolo centrale. Mentre le cellule memoria differenziano rapidamente in plasmacellule secernenti IgM, nei centri germinativi dei linfonodi regionali, i linfociti B attivati vanno incontro a ipermutazione somatica e switch isotipico per produrre Ig più specifiche.
84 ✣ MECCANISMI DI ESCAPE VIRALE ✣
-‐ Variabilità antigenica.
-‐ Inibizione dell’attività degli interferoni INFα e INFβ. Omologhi solubili dei recettori di INFα e INFβ sequestrano gli interferoni prima che possano esplicare la loro funzione. Alcune proteine inibiscono la via di trasduzione del segnale degli interferoni mediata da JAK/STAT. Alcune proteine inibiscono l‘attività della proteino chinasi dsRNA-‐dipendente (PKR), mediatore chiave dell’attività degli interferoni.
-‐ Inibizione dell’attività del complemento. Il virus Herpes simplex produce una proteina simile a CD59 (inibisce MAC e quindi la polimerizzazione di C9) che lo rende insensibile all’azione complementare. Altri virus durante la gemmazione acquisiscono proteine regolatrorie espresse sulla membrana dell’ospite (CD59 e DAF). HSV1 e EBV producono proteine simili a CD46 e CD55, molecole che normalmente evitano un’attivazione inappropriata del complemento. HIV1 e CMV esprimono CD55 e CD59 umani.
-‐ Interferenza con l’azione delle chemochine.
Alcuni virus producono proteine analoghe ai recettori delle chemochine, che vengono dunque sequestrate prima che possano mediare la loro azione e richiamare cellule dell’immunità.
-‐ Generazione di una condizione di immunosoppressione. Può essere causata da una diretta infezione dei linfociti o dei macrofagi (HIV, morbillo). può essere causata da uno squilibrio nelle funzioni citochiniche: l’EBV produce la proteina BCRF1, omologa a IL10, che come quest’ultima inibisce la secrezione di citochine da parte dei TH1 (IL2, TNF e INFγ). Una proteina simile a IL10 è prodotta anche da CMV.
-‐ Inibizione dell’apoptosi. Alcuni virus producono proteine simili a Bcl2 che inibisce il processo apoptotico.
-‐ Interferenza con l’attività di MHC I e II. CMV e adenovirus, per esempio, sfruttano meccanismi molecolari particolari che permettono loro di ridurre l’espressione delle molecole MHC I sulle cellule che infettano, inibendo la presentazione dell’antigene ai linfociti T CD8+. HSV esprime la proteina ICP47 che inibisce le proteine di trasporto TAP. Inibendo TAP, gli antigeni virali prodotti nelle cellule infettate non riescono a legarsi alle molecole MHC I e quindi non possono essere riconosciuti dai linfociti T CD8+.
-‐ Interferenza con l’attività TLR. Alcuni virus producono proteine che impediscono alla cellula ospite di riconoscere PAMPs virali come dsRNA oppure interferiscono con la trasduzione del segnale dei TLR.
ESEMPI DI INTERFERENZA CON MHC II Adenovirus. Produce E1A che blocca la trasduzione del segnale di INFγ. CMV. Produce US2, che causa la degradazione della catena α di HLA-‐DM, implicato nello “scambio clip-‐peptide”. Virus del sarcoma di Kaposi. Produce K3 e K4. ESEMPI DI INTERFERENZA CON MHC I EBV. Produce EBNA-‐1 che è refrattaria alla degradazione nel proteasoma grazie alla presenza di sequenze Gly-‐Ala ripetute.
85 Adenovirus. Produce E19 che interagisce con le molecole MHC I nel RE, impedendo la loro espressione in membrana. Herpes simplex. Produce ICP47 che inibisce l’azione di TAP1 e TAP2, diminuendo l’espressione di MHC I in membrana. CMV. US6 blocca TAP; US2 e US11 trasportano la catena α dell’MHC I dal RE al citosol, dove viene degradata; US3 si lega alla molecola MHC I e ne impedisce il trasporto in superfice, rendendola suscettibile alla degradazione proteolitica. INTERFERENZA CON LE CELLULE NK Il CMV produce numerose proteine caratterizzate da una specifica funzione inibente nei confronti delle NK.
-‐ UL16: sequestra nel RE i ligandi del recettore attivatorio NKG2D (recettore attivatorio delle NK).
-‐ UL18: lega la β2-‐microglobulina producendo una molecola omologa all’MHC I, proteggendo così la cellula infettata dalla citotossicità NK (le NK riconoscono e uccidono cellule che esprimono livelli troppo bassi di MHC I).
-‐ UL40: favorisce l’espressione in membrana di HLA-‐E, che protegge la cellula infettata dalla citotossicità NK.
-‐ UL141: down-‐regola l’espressione in membrana di CD155, riconosciuto da DNAM-‐1.
-‐ UL142: down-‐regola l’espressione in membrana di MIC-‐A, riconosciuto da NKG2D.
-‐ pp65: interferisce con l’attività del recettore attivatorio NKp30, della famiglia NKR. ✣ SUPERANTIGENI ✣ Sono proteine di origine virale o batterica che si legano contemporaneamente al dominio variabile della catena β (Vβ) di un TCR e alla catena α di una molecola MHC di classe II. Agendo in questo modo, il super antigene causa l’attivazione e la proliferazione del linfocita T. I segmenti Vβ in totale sono 23, comprendendo anche gli pseudogeni. Si calcola che un individuo, esprima in media circa 20 diversi segmenti Vβ, ognuno con una frequenza specifica. Uno specifico superantigene che lega un particolare segmento Vβ, interagirà con tutti i linfociti T che esprimono quel Vβ, potendo giungere ad attivare anche il 5% dei linfociti T totali. In realtà, poiché alcuni superantigeni riconoscono più di un segmento Vβ, la percentuale di linfociti attivati è ancora più alta. I superantigeni possono attivare linfociti T sia CD4+ sia CD8+. Possono anche attivare linfociti T autoreattivi. La conseguenza principale è la secrezione massiccia di citochine, che attivano la risposta cellulo-‐mediata e i macrofagi. Si distinguono superantigeni esogeni e superantigeni endogeni. Superantigeni esogeni Sono proteine solubili secrete da batteri. Esempi:
-‐ Enterotossine (denominate dalla SE-‐A alla SE-‐E) prodotte dallo Staphilococcus aureus e coinvolte nelle intossicazioni alimentari e responsabili di gravi gastroenteriti. Sono termostabili: la cottura uccide i batteri, ma non inattiva le tossine che essi hanno prodotto fino a quel momento. Sono resistenti all’acidità gastrica.
86 -‐ Tossine pirogene stafilococciche. -‐ Tossina della sindrome da shock tossico (TSST-‐1), per la quale le ferite chirurgiche e l’ambiente vaginale
sono particolarmente favorevoli. È prodotta anch’essa dallo Staphilococcus aureus. -‐ Tossina della dermatite esfoliativa.
Superantigeni endogeni Sono proteine di membrana espresse da cellule infettate da certi virus. Sono stati dimostrati solo nel topo. Nel topo, infatti, un gruppo di superantigeni definiti Mls (minor lymphocyte simulating), sono espressi alla superficie cellulare in seguito a infezione da MTV (mouse mammary tumor virus). Hanno permesso lo studio della maturazione timica dei linfociti T; infatti la presenza del superantigene nel timo causa l’eliminazione di tutti i linfociti T con i quali esso reagisce. ✣ VIRUS DELL’INFLUENZA ✣ Il virus dell’influenza colpisce i bronchi e le vie aeree superiori. È il responsabile delle peggiori pandemie che caratterizzano la storia dell’umanità, come quella che tra il 1918 e il 1919 uccise tra i 20 e i 50 milioni di individui. Le pandemie sono dovute all’insorgere di nuovi ceppi di influenza o al diffondersi di ceppi che non si trovano in circolo per molto tempo e contro i quali la maggior parte degli individui non possiede difese adeguate. CARATTERISTICHE DEL VIRUS DELL’INFLUENZA Le particelle virali sono di forma sferico-‐ovoidale e sono ricoperte da un doppio strato lipidico acquisito al momento della gemmazione dalla superficie della cellula infettata. Inserite in tale involucro si trovano due glicoproteine, l’emoagglutina e la neuraminidasi, che formano proiezioni radiali visibili in microscopia elettronica.
-‐ Emoagglutina (HA): presenta una tasca di adesione che lega l’acido sialico dei glicolipidi e delle glicoproteine di membrana e permette l’interazione del virus con la cellula ospite.
-‐ Neuraminidasi (NA): stacca l’acido N-‐acetilneuraminico (sialico) dalle glicoproteine virali neosintetizzate e da quelle della membrana della cellula ospite, azione che facilita la gemmazione del virus dalla cellula infettata.
All’interno del doppio strato lipidico si trova un involucro proteico, la matrice, che protegge il nucleocapside, formato da 8 differenti filamenti di RNA a singola elica, RNA polimerasi e altre proteine. In base a differenze nelle nucleoproteine e nelle proteine costituenti la matrice, si distinguono tre principali tipi di influenza:
-‐ Tipo A: è il più diffuso e ha causato le peggiori pandemie. -‐ Tipo B: infetta l’uomo ma non gli animali. -‐ Tipo C: causa solo una lieve patologia.
Una caratteristica peculiare del virus dell’influenza è la sua variabilità antigenica, legata a modificazioni strutturali nell’emoagglutina e nella neuraminidasi. La variabilità antigenica è dovuta a due meccanismi:
-‐ Deriva antigenica (antigen drift). È dovuta a mutazioni puntiformi, che determinano cambiamenti minimi nelle caratteristiche del virus. Questi cambiamenti interessano preferibilmente la molecola HA, con sostituzione di alcuni amminoacidi dei suoi domini distali. Causa epidemie.
-‐ Commutazione antigenica (antigen shift). Causa la comparsa di un nuovo sottotipo virale, caratterizzato da un’emoagglutina e, talvolta, una neuraminidasi, completamente diverse. Causa pandemie.
Epidemie, pandemie e vaccini Durante ogni commutazione antigenica la HA e la NA subiscono profonde trasformazioni antigeniche per le quali non esiste memoria immunologica nella popolazione. Poiché la popolazione è suscettibile da un punto di vista immunologico, si verifica una pandemia. Nel tempo che intercorre tra due pandemie determinate da commutazione antigenica, il virus dell’influenza va incontro a deriva antigenica. Le mutazioni antigeniche sono minori, ma comunque sufficienti a determinare un
87 nuovo ceppo virale, che causerà un’epidemia. Questo processo è favorito anche dalla risposta immunitaria. Infatti, quando un individuo sviluppa una risposta efficiente, il ceppo infettante viene eliminato. Tuttavia, l’accumularsi di mutazioni puntiformi cambia l’assetto antigenico di alcune particelle virali che riescono a eludere le difese dell’ospite, causando un nuovo ciclo epidemico locale. I vaccini antinfluenzali cambiano di anno in anno. Sono vaccini sintetici che tentano di indurre una copertura anticorpale non sempre efficiente. Gli anticorpi sierici più efficaci nel proteggere dall’infezione influenzale sono quelli che agiscono contro i domini distali dell’HA, impegnati nell’interazione del virus con la cellula ospite. Tali anticorpi bloccano l’infettività virale. ✣ VIRUS DELL’EPATITE B (HBV) ✣ È un virus non citopatico con DNA a doppio filamento parzialmente incompleto. È stato scoperto alla fine degli anni ’50. Appartiene alla famiglia degli Hepadnaviridae. Le modalità di trasmissione variano in base all’area geografica:
-‐ Nelle aree ad alta prevalenza (Asia, Africa, Pacifico occidentale), la trasmissione perinatale durante il parto è causa del 90% delle infezioni.
-‐ Nelle aree a prevalenza intermedia (Sud ed Est europeo) la trasmissione orizzontale, soprattutto nella prima infanzia (asili) è la principale causa di infezione.
-‐ Nelle aree a bassa prevalenza (Europa occidentale, America settentrionale, Australia) la trasmissione avviene perlopiù attraverso rapporti omo-‐ ed eterosessuali non protetti e scambio di siringhe tra tossicodipendenti. La diffusione attraverso trasfusione è diminuita notevolmente negli ultimi anni grazie ai test cui è sottoposto di routine il sangue donato.
HBV presenta un lungo periodo di incubazione (4-‐26 settimane). HBV infetta gli epatociti e il danno cellulare è dovuto alla risposta immunitaria contro le cellule epatiche infettate e non agli effetti citopatici diretti del virus. L’efficacia della risposta CTL è discriminante nel decidere se una persona eliminerà il virus o diverrà un portatore cronico.
-‐ Se tutti gli epatociti infetti sono distrutti dai CTL (infezione a bassa carica virale), il virus viene eliminato e l’infezione si risolve.
-‐ Se il numero degli epatociti colpiti supera la capacità dei CTL di eliminare le cellule infette (infezione a alta carica virale), si stabilisce un’infezione cronica.
Un’infezione a bassa carica virale determina un’epatite acuta, se il soggetto ha una risposta anticorpale buona. Nel giro di 3-‐5 giorni inizia un’intensa risposta immunitaria coinvolta sia nell’eliminazione del virus, sia nel provocare il danno epatico. I CTL inducono l’apoptosi degli epatociti infettati, causando un aumento delle transaminasi (soprattutto ALT) nel sangue. In questo caso si tratta di una malattia self-‐limited, che arriva da sola a guarigione dopo la distruzione di un numero basso di epatociti. Un’infezione con alta carica virale (dovuta, ad esempio, a trasfusione di sangue infetto), comporta un’epatite cronica. Il numero di epatociti infettati è notevole e la distruzione epatica massiccia. A lungo termine, ciò può comportare cirrosi epatica e un aumentato rischio di carcinoma epatocelulare. Il più importante fattore responsabile dello sviluppo di epatite cronica in seguito ad infezione da HBV è l’età: più giovane è l’età, maggiori sono le possibilità di sviluppare la patologia cronica. La guarigione completa da epatite cronica causata HBV è possibile, ma molto rara. Gli obiettivi dell’odierno trattamento dell’HBV cronica sono, pertanto, rallentare la progressione della malattia, ridurre l’entità del danno epatico e prevenire l’insorgere di cirrosi o carcinoma. I principali problemi associati al terapia sono la resistenza virale e gli effetti collaterali. In alcuni individui, l’infezione degli epatociti non scatena una risposta dei CTL: ne consegue uno stato di “portatore”, senza danno epatico progressivo. L’assenza di una risposta all’infezione può essere dovuta a una condizione di immunodeficienza, al trattamento con immunosoppressori, o all’assenza di molecole MHC specifiche per gli antigeni del virus.
88 In questi individui, il virus è integrato stabilmente nel genoma degli epatociti e a distanza di anni può causare epatocarcinoma.10 Inoltre, questi individui trasmettono il virus molto facilmente. In alcuni casi, l’infezione da HBV può causare insufficienza epatica fulminante, caratterizzata da apoptosi massiva. Si verificano perdite massicce di sostanza: il fegato può ridursi fino a 500-‐700 g e si trasforma in un organo flaccido, rossastro coperto da una capsula troppo grande e raggrinzita. Spesso, il trapianto è l’unico trattamento efficace. In ogni caso, anche in seguito a trapianto, la mortalità è del 35%. Il vaccino anti-‐B in Italia è obbligatorio per tutti i neonati. ✣ VIRUS DELL’EPATITE C (HCV) ✣ È un virus a RNA a singolo filamento. Appartiene alla famiglia Flaviviridae. A causa della scarsa fedeltà di trascrizione della sua RNA polimerasi, l’HCV è intrinsecamente instabile e ciò dà continuamente vita a forme diverse l’una dall’altra, definite quasispecie. In un qualsiasi paziente HCV è presente come una popolazione di quasispecie divergenti, ma strettamente correlate. HCV è la principale causa di malattia epatica al mondo. Indicativamente, ne sono affette 170.000 milioni di persone. Anche in questo caso la trasmissione avviene prevalentemente in seguito a rapporti sessuali non protetti e, tra i tossicodipendenti, in seguito allo scambio di siringhe. La trasmissione perinatale è molto meno frequente rispetto all’HBV. Gli anni ’80 sono stati caratterizzati da un picco di infezioni dovuto alle trasfusioni di sangue infetto; negli ultimi anni questo particolare fattore di rischio è diminuito notevolmente grazie ai test cui è sottoposto di routine il sangue donato. Il periodo di incubazione dell’HCV varia da 2 a 26 settimane. In circa l’85% degli individui, il decorso clinico dell’infezione acuta è asintomatico e facilmente misconosciuto. Contrariamente all’HBV e nonostante la natura generalmente sintomatica della malattia acuta, la progressione alla malattia cronica avviene nella maggior parte degli individui infetti e la cirrosi si presenta alla fine della malattia nel 20-‐30% dei pazienti con infezione cronica da HCV. I meccanismi che determinano la cronicità dell’infezione da HCV non sono del tutto compresi, ma è evidente che il virus ha sviluppato diversi sistemi per eludere l’immunità antivirale dell’ospite. In particolare, l’HCV è in grado di inibire l’INFγ in diverse fasi della sua attività. L’unica terapia è quella con interferoni. A causa dell’instabilità genomica di HCV, non è possibile lo sviluppo di un vaccino anti-‐HCV. ✣ VIRUS DEL MORBILLO ✣ È un virus a RNA a singolo filamento. Appartiene, come il virus della parotite, alla famiglia Paramyxoviridae. Il virus penetra nelle cellule grazie all’interazione con CD46, una proteina regolatrice del complemento espressa su tutte le cellule nucleate, o con la molecola di segnale di attivazione dei linfociti (SLAM), espressa solo su cellule del sistema immunitario. La trasmissione avviene per via aerea, attraverso goccioline di saliva. Il periodo di incubazione è di 9-‐12 giorni. Il virus si moltiplica inizialmente nelle cellule epiteliali delle vie aeree superiori, per poi diffondersi al tessuto linfoide locale. La replicazione del virus nel tessuto linfatico è seguita da viremia e disseminazione del virus a numerosi tessuti. Il morbillo si manifesta con febbre, angina (mal di gola), stomatite, chiazze di Koplik a livello dell’apertura dei dotti di Stenone, eruzione cutanea a chiazze di colorito marrone-‐rossastro su volto, tronco e tratti prossimali degli arti.
10 In questi soggetti, il rischio di sviluppare carcinoma è 200 volte superiore alla media.
89 Il virus del morbillo può portare a complicazioni nervose e immunodeficienza transitoria a carico dei linfociti B. Può causare poliencefalite subacuta sclerosante (PESS), caratterizzata da decadimento psichico e disturbi del linguaggio. Può portare alla sindrome di Guillard Barrè, caratterizzata da dolori agli arti e al corpo, difficoltà nei movimenti, paralisi. Ancora oggi, nei Paesi in via di sviluppo, molti bambini muoiono di morbillo. Il vaccino è costituito da una forma attenuata del virus, che talvolta può causare una lieve sintomatologia. È somministrato come complesso MPR (morbillo-‐parotite-‐rosolia) all’età di 15 mesi; il richiamo è effettuato prima della scuola. ✣ VIRUS DELLA ROSOLIA ✣ È un virus a RNA, con un tempo di incubazione di 5-‐6 giorni. Si trasmette per via aerea. Comporta una malattia esantematica caratterizzata da angina, febbre non alta, interessamento dei linfonodi cervicali (soprattutto nucali). Guarisce in pochi giorni e dà immunità permanente. Può essere pericolosa per il feto se contratta dalla donna in gravidanza, perché il virus, nella sua ampia diffusione, raggiunge anche la placenta. L’attività teratogena del virus della rosolia dipende dalla diminuzione delle mitosi embrionali che esso comporta. Il periodo di rischio si estende da poco prima del concepimento, alla 16a settimana di gestazione. Il rischio è maggiore nelle prime 8 settimane che nelle seconde 8. Se l’infezione avviene nelle prime 8 settimane à aborto spontaneo o gravi malformazioni (cataratta, anomalie cardiache, sordità, ritardo mentale). Se l’infezione avviene nelle seconde 8 settimane à complicazioni meno gravi. Vaccino: MPR (vedi sopra). Bisogna evitare il concepimento nei tre mesi successivi alla vaccinazione.
90 ✣ HERPES VIRUS ✣ Sono grandi virus capsulati, dotati di DNA a doppio filamento. Causano un’infezione acuta, seguita da una latente, nella quale i virus persistono in una forma non infettiva. Periodicamente, si verificano riattivazioni con produzione delle forma attiva. Vi sono 8 tipi di herpesvirus umani, appartenenti a 3 sottogruppi:
1. Gruppo α, cui appartengono HSV-‐1, HSV-‐2 e VZV. 2. Gruppo β, cui appartiene CMV. 3. Gruppo γ, cui appartengono EBV e il virus del sarcoma di Kaposi.
VIRUS HERPES SIMPLEX (HSV-‐1 E HSV-‐2) Provocano infezioni acute e latenti. Si riproducono nella cute o nella mucosa nel sito d’ingresso del virus (solitamente orofaringe e genitali), producendo virioni infettanti e determinando lesioni vescicolari. I virus diffondono ai neuroni sensitivi, che innervano il sito di penetrazione del virus. I nucleocapsidi sono trasportati lungo l’assone fino al corpo cellulare, dove stabiliscono l’infezione latente. La riattivazione di HSV-‐1 e HSV-‐2 può verificarsi ripetutamente, con o senza sintomi, e comporta lo spostamento dei virus dai neuroni alla cute o alle mucose. HSV-‐1 si trasmette per commistione di saliva. HSV-‐2 si trasmette sessualmente. Nell’80-‐85% dei casi, l’infezione acuta è asintomatica. Nel 15% dei casi compaiono manifestazioni diverse a seconda che si tratti di HSV-‐1 o HSV-‐2.
-‐ HSV-‐1 à gengivostomatite, cheratocongiuntivite, erpete labiale, encefalite erpetica. -‐ HSV-‐2 àherpes genitale con lesioni vescicolari e ulcerative.
HSV-‐2 può essere trasmesso da madre a figlio durante il parto. La malattia da HSV-‐2 del neonato è spesso fulminante, con linfoadenopatia generalizzata, splenomegalia e foci necrotici nel fegato, nei polmoni, nei surreni, e nel SNC. VIRUS VARICELLA-‐ZOSTER (VZV) VZV è il responsabile di due diverse condizioni: la varicella e l’herpes zoster, comunemente chiamato fuoco di Sant’Antonio. L’infezione acuta da VZV causa la varicella; la sua riattivazione dopo un periodo anche molto lungo d’infezione latente, causa l’herpes zoster. VZV si diffonde per via aerea. Come l’HSV, il VZV infetta le membrane mucose, la cute e i neuroni e causa un infezione primaria autolimitantesi nei soggetti immunocompetenti. Il primo contatto con VZV causa appunto la varicella, caratterizzata da una tipica eruzione cutanea. L’eruzione si manifesta dapprima con macule, le quali evolvono in vescicole. Dopo pochi giorni la maggior parte delle vescicole si rompe, formando croste che guariscono per rigenerazione. Sono interessate anche le terminazioni nervose periferiche, con generazione di prurito. La guarigione avviene con l’intervento dei linfociti T CD8+. VZV persiste latente nei gangli e può rimanervi anche per tutta la vita. Per motivi non del tutto compresi (soprattutto per immunodeficienza transiente) il virus si riattiva, infetta i nervi sensitivi che lo trasportano ad uno o più dermatomeri. Qui il virus causa lesioni vescicolari, che a differenza della varicella sono accompagnate da prurito molto intenso e bruciore, dovuti alla concomitante radicolonervite. Uno dei gangli più colpiti è il trigemino, in particolar modo la sua branca oftalmica (zoster oftalmico).
91 CITOMEGALOVIRUS (CMV) È un virus citopatico, specie-‐specifico, con comportamento opportunista. Può indurre manifestazioni diverse, secondo l’età dell’individuo colpito e, soprattutto, delle condizioni del suo sistema immunitario. Esso, infatti, causa un’infezione asintomatica o simil-‐mononucleosica negli individui immunocompetenti, mentre provoca infezioni sistemiche gravi e talvolta mortali nei neonati nei soggetti immunodepressi. L’infezione congenita da CMV è asintomatica nel 95% dei casi. Tuttavia, essa può comportare anche complicanze gravi, come la malattia da inclusi citomegalici, che ricorda l’eritroblastosi fetale. Spesso questa malattia ha esito fatale e i bambini che sopravvivono presentano comunque gravi deficit neurologici, sordità e cecità. La forma congenita può manifestarsi anche in maniera meno grave, causando epatite o polmonite. Nella maggior parte dei casi, il primo contatto con CMV avviene in periodo perinatale o nella primissima infanzia, e si manifesta in maniera asintomatica. Ciò è dovuto anche agli anticorpi anti-‐EBV che il bambino eredita dalla madre. La malattia è quasi sempre asintomatica nei bambini e negli adulti sani, che, al limite, possono manifestare una sintomatologia simil-‐mononucleosica, con febbre, linfocitosi atipica, linfoadenopatia e epatomegalia. La maggior parte dei pazienti guarisce senza alcuna complicanza, sebbene il virus rimanga latente nei leucociti per sempre. In soggetti immunodepressi (HIV o paziente trapiantato) l’infezione da CMV può avere conseguenze gravi. Può trattarsi di un’infezione primaria oppure di una riattivazione. Le infezioni interessano preferibilmente i polmoni (polmonite) e il tratto gastroenterico (colite) e sono caratterizzate da focolai di necrosi e ulcerazioni. La diagnosi differenziale rispetto alla mononucleosi causata da EBV si compie con test di agglutinazione su globuli rossi di pecora. L’infezione da CMV non determina agglutinazione, l’infezione da EBV sì. Ciò si spiega considerando che le cellule B infettate da EBV si attivano in modo non antigene specifico e producono anticorpi eterofili tra i quali anche quelli antiemazie di pecora. VIRUS DI EPSTEIN-‐BARR (EBV) Si trasmette attraverso i contatti interumani stretti, frequentemente con scambi di saliva (“malattia del bacio”). Dopo un’infezione transitoria delle cellule epiteliali del tratto orofaringeo, EBV penetra nel tessuto linfoide sottomucoso, in particolare nelle tonsille. Qui EBV interagisce con i linfociti B grazie ad una glicoproteina che lega il CR2 (recettore della componente C3d del complemento) che essi esprimono. In alcune cellule B, l’infezione è produttiva e determina lisi e rilascio di nuovi virioni. Nella maggior parte delle cellule B, l’infezione si fa latente. Le cellule B infettate esprimono in membrana proteine virali in grado di mediare una loro attivazione non antigene-‐specifica. Le cellule B così attivate si disseminano in circolo e producono anticorpi eterofili, che possono causare un anemia emolitica transiente. I sintomi caratteristici della mononucleosi infettiva sono dovuti alla risposta immunitaria, mediata per lo più dai linfociti T CD8+. In circolo sono presenti linfociti atipici giganti (appunto T CD8+, ma anche NK CD16+) fondamentali per la guarigione. La maggior parte di queste cellule è tuttavia presente nei linfonodi e nella milza e causa linfoadenopatia e splenomegalia. I linfociti atipici sono così caratteristici dal punto di vista morfologico, da poter permettere la diagnosi di mononucleosi con la sola osservazione di uno striscio di sangue periferico. EBV colpisce soprattutto nella prima infanzia e tra i 15 e i 22 anni. Nel 50% dei casi l’infezione è asintomatica. I sintomi caratteristici sono: angina, stomatite, tonsillite, febbre, linfoadenopatia, splenomegalia. La splenomegalia è dovuta sia alla presenza nella milza di linfociti atipici giganti, sia all’attivazione non antigene-‐specifica massiccia dei linfociti B. La splenomegalia può causare rottura della milza anche in seguito a piccoli traumi, con conseguente vasta emorragia e shock ipovulemico. La condizione di immunodeficienza, dovuta all’HIV o all’utilizzo di farmaci immunosoppressori, può comportare una riattivazione di EBV, che, mancando l’azione CD8+ e quella NK, porta a patologie tumorali o ad un’infezione generalizzata.
92 La riattivazione dell’EBV causa la proliferazione policlonale dei linfociti B infetti. Si verifica poi la prevalenza di un solo clone, la cui espansione continua, causando un linfoma a cellule B. In soggetti immunodepressi l’infezione primaria esita spesso in una mononucleosi fulminante. L’EBV ha gravi conseguenze in caso di sindrome linfoproliferativa X-‐liked (XLP).11 XLP comporta un malfunzionamento nel corecettore 2B4 espresso da NK e linfociti T CD8+. Normalmente, 2B4 ha funzione attivatoria e, interagendo con CD48, espresso sulla maggior parte delle cellule e in particolar modo sui linfociti B, media un segnale positivo che stimola la NK a uccidere la cellula infettata da EBV. In caso di XLP, a causa di una mutazione nel gene che codifica la proteina SAP, implicata nella trasduzione del segnale, l’interazione 2B4/CD48 trasmette alla NK un segnale inibitorio. In questo modo le NK non possono uccidere i linfociti B infettati da EBV e ciò comporta:
-‐ continua stimolazione di linfociti T CD8+ che proliferano abbondantemente; -‐ produzione di INFγ che attiva i macrofagi.
I macrofagi secernono citochine pro-‐infiammatorie, che causano una violenta infiammazione generalizzata che esita nella morte nel 70% dei casi (mononucleosi fulminante). L’EBV è responsabile dell’insorgenza del linfoma endemico di Burkitt. Questa neoplasia, che colpisce i bambini dell’Africa, si presenta spesso come una massa che interessa la mandibola. Le cellule tumorali sono positive per EBNA-‐1. L’EBV è implicato anche in altre patologie:
-‐ Sindrome da fatica cronica. -‐ Leucoplachia a cellule capellute -‐ Carcinoma nasofaringeo.
✣ HTLV-‐1 (HUMAN T-‐CELL LEUKEMIA VIRUS TYPE 1) ✣ È un retrovirus che si trasmette con lo scambio di saliva, la trasmissione avviene nella prima infanzia. È endemico nel Giappone meridionale, nel bacino dei Caraibi e nell’Africa occidentale. L’1-‐2% dei bambini infettati tra la pubertà e i 30 anni manifestano una leucemia a cellule T rapidamente progressiva e fatale nell’arco di qualche mese o di un anno, nonostante trattamenti chemioterapici aggressivi. La leucemia è indotta da iperproduzione di IL2 e da over-‐espressione del suo recettore nelle cellule infettate, che proliferano per stimolazione autocrina. I pazienti sono caratterizzati da una tipica invasione cutanea con ulcerazioni, escrescenze e sanguinamento, linfoadenopatia, splenomegalia, ipercalcem
11 Vedi pagina 10.
93
RISPOSTA CONTRO I BATTERI La risposta immunitaria verso un’infezione batterica si svolge in maniera diversa a seconda che l’aggressione sia dovuta a batteri extracellulari o a batteri intracellulari. ✣ BATTERI EXTRACELLULARI ✣ Possono essere distinti in due gruppi grazie alla colorazione di Gram, che evidenzia caratteristiche morfologiche peculiari soprattutto a livello della parete cellulare. Batteri Gram–. Possiedono una parete cellulare sottile, la cui componente principale è il lipopolisaccaride, riconosciuto da TLR4. Batteri Gram+. Possiedono una parete cellulare spessa e uniforme, la cui componente principale è il proteoglicano, riconosciuto da TLR2. L’infezione da parte di batteri extracellulari determina la sintesi di anticorpi, in genere secreti da plasmacellule dei linfonodi regionali e dalla sottomucosa respiratoria e gastrointestinale. La risposta immunitaria, tuttavia, è leggermente diversa a seconda che l’infezione sia dovuta a batteri Gram– o a batteri Gram+. BATTERI GRAM– Sono eliminati per intervento degli anticorpi e del complemento: gli anticorpi riconoscono antigeni specifici sulla superficie batterica e si legano a essa, il complemento, per mezzo degli anticorpi, attacca la parete del batterio. Tutto questo è possibile perché la componente C1q del complemento dispone di siti di legame per le porzioni Fc di IgM e IgG. Le IgM esistendo come strutture pentameriche, sono più efficaci delle IgG nell’attivare la cascata complementare. Infatti, per attivare il complemento sono necessarie 500-‐600 molecole di IgG, mentre è sufficiente un solo pentamero di IgM. Nell’attesa dell’arrivo degli anticorpi, l’immunità innata utilizza strutture simili a essi per contenere l’infezione. Il fegato produce le cosiddette “proteine di fase acuta” (proteina C reattiva, ceruloplasmina, proteina legante il mannoso) che facilitano la fagocitosi e in alcuni casi attivano il complemento. La cascata complementare porta alla produzione di frammenti (derivanti per lo più dalla componente C3) in grado di svolgere funzioni peculiari:
-‐ C3a: azione proinfiammatoria. -‐ C3b e C3d: opsonizzano i batteri e facilitano l’attività fagocitica dei macrofagi, che dispongono dei
recettori specifici (CR1 per C3b). I fagociti non hanno recettori per le IgM, che dunque facilitano l’attività fagocitica solo in maniera indiretta: esse, infatti, attivando il complemento, portano alla produzione del frammento C3b, che ha azione opsonizzante e facilita la fagocitosi. I fagociti hanno invece recettori per anticorpi più tardivi, come le IgG. L’uccisione dei batteri comporta rilascio di LPS che ha aumenta ulteriormente l’attivazione dei fagociti. BATTERI GRAM+ Anche i batteri Gram+ sono contrastati dall’azione degli anticorpi e del complemento. Tuttavia, le componenti MAC e C9 del complemento non sono in grado di impiantarsi sulla parete dei batteri Gram+. In questo caso, dunque, il complemento entra in gioco in modo diverso, cioè solo con il frammento C3b, che ha azione opsonizzante ed è riconosciuto dai fagociti che possiedo il recettore CR1 specifico per esso. A livello delle mucose (che rappresentano una delle principali vie di penetrazione nell’organismo) entrano in gioco le IgA, prodotte dalle plasmacellule del MALT. Le IgA hanno la funzione di mascherare i siti di legame dei batteri, impedendo una loro interazione con le cellule epiteliali della mucosa.
94 ✣ BATTERI INTRACELLULARI ✣ Hanno la caratteristica peculiare di poter resistere alla degradazione lisosomiale operata dai fagociti: essi vengono fagocitati, ma sopravvivono e proliferano all’interno della cellula. La risposta immunitaria è cellulo-‐mediata. Esempi: Mycobacterium tubercolosis, Mycobacterium leprae, Listeria monocytogenes, Treponema pallidum. Anche questi batteri possono essere classificati con la colorazione di Gram. ✣ MECCANISMI DI ESCAPE DEI BATTERI ✣
-‐ I batteri provvisti di capsula, come lo pneumococco, sfuggono alla fagocitosi soprattutto perché sul fagocita mancano recettori appropriati.
-‐ Alcuni batteri producono sostanze in grado di lisare alcune componenti del complemento.
-‐ Alcuni batteri producono sostanze in grado di lisare e inattivare le immunoglobuline (Neisseria, Streptococcus).
-‐ I batteri intracellulari sopravvivono all’interno dei fagociti.
-‐ Staphilococcus aureus è ricoperto da una proteina simile ai recettori Fc, per cui gli anticorpi non sono in grado di legarsi ad esso in maniera funzionale.
-‐ Alcuni batteri (Borellia burgdorferi, causa della malatti di Lyme) sono in grado di modificare i propri antigeni di membrana.
✣ TOSSINE BATTERICHE ✣ Qualsiasi sostanza batterica che contribuisce a provocare la malattia può essere considerata una tossina. Le tossine sono classificate innanzitutto in endotossine, che sono componenti della cellula batterica, ed esotossine, che sono proteine secrete dal batterio. L’endotossina batterica è il lipopolisaccaride (LPS), componente fondamentale della parete dei batteri Gram–. La risposta all’LPS può essere benefica o dannosa. È benefica nel senso che l’LPS attiva l’immunità protettiva in diversi modi. Tuttavia, si è notato che elevati livelli di LPS hanno un ruolo importante nello shock tossico e nella coagulazione intravascolare disseminata. Le esotossine sono proteine secrete dai batteri che causano danno cellulare. Possono essere classificate in base alla sede e al meccanismo di azione. Generalmente le esotossine sono formate da due subunità, A e B. -‐ La subunità B media l’interazione con la membrana cellulare e forma in essa un canale. -‐ La subunità A esplica la funzione tossica. La difesa immunitaria agisce per mezzo di anticorpi che legano epitopi funzionali della tossina. Molti vaccini sono allestiti con tossoidi, ossia tossine batteriche alterate, ad esempio, con il calore. In questo modo, la tossina perde la propria struttura III e IV e, di conseguenza, la tossicità. Il mantenimento della struttura I permette invece il riconoscimento da parte dei linfociti e la produzione di anticorpi specifici. Esistono, per altro, tossine con funzione extracellulare. Il classico esempio sono le proteasi prodotte dallo Streptococcus aureus, che degradano le proteine che mantengono uniti i cheratinociti, facendo si che l’epidermide si distacchi dalla cute sottostante.
95 ALCUNI MECCANISMI DI FUNZIONAMENTO Tossine ADP-‐ribosilanti Catalizzano l’aggiunta di ADP-‐riboso a uno specifico substrato, che cambia da tossina a tossina; il residuo di ADP-‐riboso è fornito dal NAD, che dopo la reazione è rilasciato come nicotinammide. Esempi. Tossina difterica. È prodotta dal Corynebacterium diphtheriae, un bacillo Gram+. È una tossina pantotropa, ossia in grado di agire su qualunque tipologia cellulare. È codificata dal gene tox del fago β. Dunque solo i ceppi di C. diphtheriae portatori del fago β sono in grado di produrre l’esotossina. È formata da due catene: una si lega alla membrana cellulare, l’altra penetra all’interno e media la funzione tossica. Causa l’ADP-‐ribosilazione del fattore di elongazione 2 (EF-‐2), essenziale per la traduzione dell’mRNA in proteine. Una singola molecola di tossina difterica può uccidere in questo modo una cellula. Tossina colerica. È prodotta dal Virio cholerae, batterio a virgola Gram–. Questa tossina ha un particolare tropismo per le cellule epiteliali intestinali. È formata da una subunità A e da 5 subunità B, organizzate in un pentamero. Il pentamero B interagisce con il ganglioside GM1 espresso sulla membrana della cellula epiteliale e permette l’ingresso della subunità A nella cellula. La subunità A è trasportata al RE, mediante un processo definito “trasporto retrogrado”. Qui viene processata e un suo frammento raggiunge il citosol, si lega al fattore di ribosilazione citosolico “ARF”, che si attiva. ARF catalizza la ribosilazione di una proteina G stimolatrice specifica, che lega e attiva l’adenilato ciclasi. L’aumento di concentrazione del cAMP apre i canali CFTR del Cl-‐, che si riversa nel lume intestinale, richiamando Na+ e H2O. Ne consegue una diarrea acquosa grave. Tossina pertussica. È prodotta da Bordetella pertussis, coccobacillo Gram–. Con comportamento simile alla tossina colerica, inibisce specifiche proteine G, comportando la paralisi delle ciglia dell’epitelio bronchiale. L’espulsione del muco è ostacolata e ciò comporta colpi di tosse violenti, seguiti da un particolare “stridore inspiratorio”. Enterotossine. Sono prodotte da Staphylococcus aureus, batterio gram+. Sono cinque gruppi di proteine (SE-‐A, SE-‐B, SE-‐C, SE-‐D, SE-‐E). Sono la causa più frequente di intossicazione alimentare, anche perché sono molto resistenti e neppure il calore le altera. Tossina della sindrome da shock tossico (TSST-‐1). È prodotta anch’essa dallo S. aureus. È un superantigene e causa la sindrome da shock tossico (TSS). Neurotossine Sono formate da due catene polipeptidiche, una pesante di 100 kDa, che lega la membrana plasmatica della cellula nervosa, e una leggera di 50kDa, che svolge la funzione tossica. Queste tossine bloccano il rilascio di neurotrasmettitori, degradando proteine importanti per la fusione delle vescicole con la membrana plasmatica. Esempi. Tossina botulinica. È prodotta dal Clostridium botulinum, che cresce nelle conserve alimentari non adeguatamente sterilizzate. La tossina blocca il rilascio sinaptico di acetilcolina causando una grave paralisi dei muscoli scheletrici e respiratori (paralisi flaccida). La morte può sopraggiungere appunto per insufficienza respiratoria. Tossina tetanica. È chiamata tetanospasmina ed è prodotta dal Clostridium tetani, che prolifera nelle ferite da punta ed anche nel moncone ombelicale dei neonati. La tossina inibisce il rilascio di GABA, da parte di interneuroni inibitori del MS. Essi non inibiscono i muscoli antagonisti, cosicché si verifica una co-‐contrazione di muscoli agonisti ed antagonisti (spasmo tetanico). N.B. Dal 1968 è in uso il vaccino trivalente DPT (difterite-‐pertosse-‐tetano) prodotto con tossine attenuate. È somministrato entro le prime 6-‐8 settimane di vita. Dosi di richiamo sono somministrate ogni 10 anni.
96 ✣ INFEZIONI STREPTOCOCCICHE ✣ Gli streptococchi sono batteri sferici Gram+ che crescono in coppie o catene e causano infezioni suppurative12 di cute, orofaringe, polmoni e valvole cardiache. Esistono varie forme di streptococchi, che sono classificate in base alla streptolisina (una tossina in grado di lisare gli eritrociti) prodotta in tra gruppi (α, β, γ). Un’altra classificazione (di Lancefield) tiene invece conto degli antigeni glucidici presenti in membrana. Le più importanti forme patogene sono:
-‐ S. pyogenes, che causa faringite, scarlattina, erisipela, impetigine, febbre reumatica, TSS e glomerulonefrite.
-‐ S. agalactiae, che colonizza il tratto genitale femminile e causa sepsi e meningite nei neonati e corioamniosite durante la gravidanza.
-‐ S. pneumoniae, è il più importante streptococco del gruppo β-‐emolitico e causa polmoniti e meningiti. Queste tre forme possiedono capsule resistenti alla fagocitosi. Inoltre, S. pyogenes esprime la proteina M, una proteina di superficie che impedisce la fagocitosi del batterio, e una peptidasi che degrada la componente C5a del complemento, evitando la sua azione chemotattica. S. pyogenes produce anche un’esotossina codificata da un fago13 che causa la febbre e l’eruzione cutanea della scarlattina. S. pneumoniae produce la pneumolisina, che forma pori nelle membrane cellulari lisandole e provocando gravi danni ai tessuti. La scarlattina si manifesta frequentemente tra i 3 e i 15 anni associata a tonsillite. Si manifesta con una reazione cutanea eritematosa puntiforme. L’infiammazione della cute comporta ipercheratosi e, nella fase in cui la febbre decresce, desquamazione. Ha un meccanismo di funzionamento simil-‐allergico: il primo contatto con il batterio non determina la malattia, che si scatena all’infezione successiva. L’erisipela si manifesta più frequentemente nei soggetti di età media ed è causata da esotossine rilasciate da S. pyogenes nelle sedi superficiali di infezione. È caratterizzata da una tumefazione cutanea eritematosa che si diffonde rapidamente; sul volto assume una caratteristica distribuzione “a farfalla”. La faringite streptococcica è il più importante fattore predisponente alla glomerulonefrite poststreptococcica. Si manifesta con edema, rigonfiamento epiglottico e ascessi puntiformi nelle cripte tonsillari. Talvolta è presente linfoadenopatia a livello cervicale. COMPLICANZE POSTSTREPTOCOCCICHE Glomerulonefrite poststreptococcica Compare generalmente da 1 a 4 settimane dopo un’infezione streptococcica faringea o cutanea. Insorge per lo più in bambini con età compresa tra i 6 e i 10 anni. È una malattia immunomediata. Il gran numero di anticorpi contro antigeni streptococcici causa la formazione di immunocomplessi, che vanno a depositarsi nella zona di filtro renale. Gli immunocomplessi si accumulano sulla membrana basale del glomerulo e causano l’attivazione del complemento. Le anafilotossine C3a e C5a attirano sul luogo neutrofili e causano la degranulazione dei mastociti e dei basofili, con rilascio di istamina ed eparina. L’istamina media una notevole vasodilatazione che causa fuoriuscita di proteine e fluidi e edema del glomerulo. La membrana basale ha una struttura che non è attaccabile dal complemento, perché C7 non può impiantarsi in essa, in quanto polare. Tuttavia, C7 può causare l’attacco e la lisi di cellule “spettatrici innocenti” come cellule endoteliali e altre cellule del glomerulo, aumentando il danno tissutale. Infine, i granulociti possiedono recettori per le regioni Fc degli anticorpi (CD16 e CD32) e recettori per il C3b (CR1): il legame agli immunocomplessi comporta il rilascio di idrolasi acide che causano danno generalizzato a tutto il tessuto.
12 Infezioni caratterizzate dalla produzione di pus. 13 Il batterio di per sé non è in grado di produrre la tossina. La produce solo se infettato da un fago che trasporta l’informazione genica necessaria.
97 I sintomi caratteristici sono malessere, febbre, nausea, oliguria, ematuria. Il 95% dei bambini colpiti guarisce completamente con un trattamento conservativo volto a mantenere gli equilibri idroelettrolitici. Negli adulti la prognosi è meno benigna: solo il 60% dei casi sporadici guarisce rapidamente. L’attività renale non torna comunque ai livelli normali: l’attivazione dei macrofagi comporta il richiamo di fibroblasti che depositano tessuto cicatriziale. Alcuni pazienti possono progredire verso una glomerulonefrite cronica. Febbre reumatica Esordisce alcune settimane dopo la faringite. Deriva dalla risposta immune agli streptococchi di gruppo A. Anticorpi diretti contro la proteina M dello streptococco crossreagiscono con antigeni self cardiaci e sinoviali. Inoltre, cellule T CD4+ specifiche per i peptidi streptococcici crossreagiscono con proteine self del cuore producendo citochine che attivano macrofagi. Pertanto, la febbre reumatica non è causata direttamente dal batterio o da una sua tossina, bensì da una risposta inadeguata dell’ospite dovuta a mimetismo-‐molecolare. Si verifica in soggetti predisposti geneticamente. La cardite è tipica. Nel cuore insorgono lesioni caratteristiche denominate corpi di Aschoff, costituiti da focolai di linfociti T, plasmacellule e grossi macrofagi. L’infiammazione si diffonde ai tre strati del tessuto cardiaco con pericardite, miocardite ed endocardite. L’infiammazione dell’endocardio esita tipicamente in una degenerazione fibrinoide delle cuspidi o delle corde tendinee su cui compaiono piccole vegetazioni definite verruche. L’artrite si manifesta più comunemente negli adulti sotto forma di poliartrite migrante accompagnata da febbre, in cui una grande articolazione dopo l’altra diviene dolorante e gonfia per poi guarire dopo pochi giorni senza limitazioni funzionali. La febbre reumatica può progredire con il tempo in cardiopatia reumatica cronica, caratterizzata da anomalie valvolari come ispessimento dei lembi, fusione delle commissure, accorciamento, ispessimento e fusione delle corde tendinee. È colpita prevalentemente la valvola mitralica, da sola o assieme alla aortica. Eritema nodoso È la più frequente forma di panniculite, infiammazione del tessuto adiposo sottocutaneo. È dovuto all’accumulo di immunocomplessi a livello cutaneo e si presenta con placche eritamatose e noduli estremamente dolenti. Le lesioni regrediscono lentamente da sole, mentre contemporaneamente ne compaiono di nuove. Il quadro cutaneo si associa a febbre e malessere generale. ✣ LISTERIA MONOCYTOGENES ✣ È un batterio Gram+, intracellulare facoltativo, che causa gravi infezioni trasmesse con il cibo (soprattutto attraverso prodotti caseari). L. monocytogenes esprime una molecola che interagisce con le E-‐caderine delle cellule epiteliali e che le permette di penetrare in esse. All’interno della cellula, i batteri sfuggono all’azione fagolisosomica grazie all’azione della liseriolisina O, che perfora le membrane di tale struttura. Nel citoplasma, ACTA una proteina della membrana batterica, si lega alle proteine del citoscheletro e induce la polimerizzazione dell’actina. In questo modo L. monocytogenes raggiunge e infetta le cellule adiacenti. Può essere fagocitata dalle cellule dendritiche e dai monociti e anche in tal caso sfugge alla degradazione. Le proteine prodotte dal batterio a livello cellulare sono in parte degradate e possono essere esposte su molecole MHC di classe I. In questo modo è attivata una risposta T CD8+, che porta alla guarigione. In seguito all’infezione, si osserva un aumento della popolazione batterica fino al raggiungimento di un plateau, in seguito all’intervento dell’immunità innata (soprattutto il complemento). In seguito la popolazione batterica diminuisce per intervento dell’immunità cellulo-‐mediata di tipo CD8+, fino alla guarigione. Le principali differenze con le infezioni da micobatteri sono:
-‐ intervento dell’immunità innata nel contrastare l’infezione -‐ intervento dei linfociti T CD8+.
98 L’infezione da L. monocytogenes causano:
-‐ Nei neonati e nei pazienti immunodepressi à meningiti essudative, meningoencefaliti e setticemie. -‐ Nelle donne in gravidanza à amniosite che può provocare aborto o sepsi neonatale.
✣ MALATTIA DI LYME ✣ Prende il nome dalla cittadina del Connecticut dove, a metà degli anni ’60, si verificò un’epidemia di artrite associata a eritema cutaneo. È causata da Boriella burgdorferi, batterio Gram– del tipo spirochete che è trasmesso da una zecca tipica di cervi e caprioli. La malattia di Lyme interessa diversi apparati e si articola in tre stadi.
1. Malattia acuta. Le spirochete si moltiplicano e diffondono nel derma presso la puntura della zecca, provocando un’area di arrossamento che man mano si espande. Questa lesione è denominata eritema cronico migrante, può essere accompagnata da febbre e linfoadenopatia e scompare nell’arco di 4-‐12 settimane.
2. Fase di disseminazione primaria. Le spirochete si diffondono in tutto l’organismo per via ematica. Si verificano lesioni secondarie, linfoadenopatia generalizzata, dolori muscolari e articolari migranti, meningite.
3. Fase di disseminazione tardiva. 2 o 3 anni dopo la puntura della zecca, B. burgdorferi determina un artrite cronica con grave danno alle grandi articolazioni e encefalite che può essere gravemente debilitante.
LPS stimola i macrofagi che secernono IL1, IL6 e TNF che causa la papula e l’infiammazione a livello articolare. IL1 può attivare cellule sinoviali, che iniziano a produrre collagenasi. La cartilagine viene erosa, le superfici ossee contrapposte non combaciano più i maniera corretta e ciò comporta dolore. La meningite può essere dovuta all’LPS e alle citochine. La malattia di Lyme difficilmente risulta fatale, tuttavia compromette gravemente la qualità della vita. Essa inoltre tende a cronicizzare. La terapia si fonda su l’utilizzo precoce di antibiotici, in modo da evitare la diffusione del batterio e le lesioni artritiche. Esiste il vaccino che è preparato con batteri attenuati. ✣ MYCOBACTERIUM TUBERCOLOSIS ✣ È il responsabile della maggior parte dei casi di tubercolosi. Si stima che la tubercolosi affligga 1,7 miliardi di persone nel mondo, con 8-‐10 milioni di nuovi casi e 1,6 milioni di morti l’anno, un tributo secondo solo a quello legato all’HIV. Inoltre, la stessa HIV rende i pazienti fortemente suscettibili a tubercolosi rapidamente progressiva: oltre 10 milioni di persone al mondo sono infettate contemporaneamente da HIV e tubercolosi. Numerosi fattori, oltre all’HIV, possono aumentare la suscettibilità alla tubercolosi:
-‐ stato sociale basso -‐ presenza di altre malattie (morbo di Hodgkin, diabete mellito, silicosi, insufficienza renale/epatica) -‐ condizione di immunodepressione.
M. tubercolosis è un batterio leggermente Gram+. La struttura della sua parete è piuttosto complessa, poiché la compongono, oltre al peptidoglicano, anche altre molecole, come acidi micolici e glicolipidi fenolici, che assieme costituiscono le cere. Particolarmente importante è il lipoarabinomannano (LAM), che si estende attraverso tutta la parete cellulare, poiché implicato nell’interazione del micobatterio con i macrofagi. M. tubercolosis si propaga facilmente per via aerea, attraverso goccioline di saliva che ne contengano anche un’esigua quantità. Attraverso le vie aeree, raggiunge i polmoni e qui è fagocitato dai macrofagi alveolari, che sono le prime cellule a essere infettate.
99 -‐ I macrofagi fagocitano M. tubercolosis grazie a diversi recettori: il recettore per il mannoso lega il
lipoarabinomannano, i recettori per il complemento legano i micobatteri opsonizzati.
-‐ All’interno del macrofago M. tubercolosis si replica e impedisce la formazione del fagolisosoma14, oppure, qualora si formi, ne impedisce l’acidificazione.
-‐ In ogni caso, all’interno del fagosoma M. tubercolosis subisce alcuni danni che causano il distacco di componenti della sua parete. Queste strutture potranno essere esposte nel contesto di MCH II e presentate ai linfociti T CD4+.
-‐ Un ruolo chiave è svolto dalle cellule dendritiche. Esse grazie ai recettori TLR1, TLR2, TLR6 esposti in membrana possono riconoscere alcune componenti della parete di M. tubercolosis, attivarsi ed iniziare a secernere citochine proinfiammatorie: IL1, IL6, TNFα e soprattutto IL12.
-‐ Le interazioni sopracitate avvengono soprattutto nel linfonodo e solo in parte nel tessuto. I linfociti T CD4+ riconoscono peptidi espressi nel contesto di MHC II dalle cellule presentanti l’antigene; I linfociti T γ/δ possiedono un recettore per il riconoscimento di cere espresse su CD1.15
-‐ IL12, prodotta dalle cellule dendritiche, causa la polarizzazione dei CD4+ verso TH1, i quali iniziano a produrre IL2 e INFγ. IL12 attiva anche le cellule NK.
-‐ INFγ attiva macrofagi e cellule dendritiche. Queste cellule migliorano la fagocitosi e i geni per la produzione di enzimi litici vengono up-‐regolati. IL2 amplifica la risposta TH1, determinando un aumento delle citochine rilasciate.
Oltre a stimolare i macrofagi, la risposta TH1 gestisce anche la formazione di una lesione granulomatosa definita tubercolo16, che circoscrive l’infezione batterica. Il tubercolo è formato da un limitato numero di linfociti TH1 e da un cospicuo numero di macrofagi attivati. I macrofagi, addossandosi gli uni agli altri, si appiattiscono apparendo come cellule epitelioidi e si fondono originando cellule giganti multinucleate. L’iperattivazione dei macrofagi causa il rilascio di enzimi litici che distruggono le cellule sane circostanti e producono una necrosi tissutale caseosa. Il macrofago attivato produce anche citochine che attivano i fibroblasti e stimolano la loro deposizione di collagene. Queste citochine sono: TGFβ, FGF e PDGF. Il collagene rappresenta un importante fattore fibrotico e conferisce al tubercolo la struttura definitiva, espressione del gradiente di citochine che si è venuto a creare:
-‐ zona più interna: zona di necrosi, con presenza del micobatterio e di macrofagi attivati; -‐ zona intermedia: corona di linfociti T. -‐ zona esterna: capsula fibrosa dovuta all’attività dei fibroblasti.
Quando queste lesioni guariscono, calcificano e divengono facilmente visibili all’esame radiografico, dove sono definite corpi di Ghon. Si definisce tubercolosi primaria quella causata dal primo contatto con M. tubercolosis. Solitamente, la risposta immunitaria cellulo-‐mediata dei linfociti T CD4+ tiene a bada l’infezione e protegge l’individuo da reinfezioni successive. Si definisce tubercolosi progressiva una forma cronica di malattia sviluppata da soggetti che non sono riusciti a superare la forma primaria. Si definisce tubercolosi secondaria quella che si manifesta in un soggetto precedentemente sensibilizzato. Può comparire molti anni dopo l’infezione primaria, solitamente in un momento in cui le difese immunitarie sono indebolite. Spesso è causata dalla riattivazione di un’infezione latente. A causa dell’esistenza di una precedente ipersensibilità, il micobatterio causa una risposta tissutale rapida e marcata, che può portare rapidamente a cavitazione, ossia a rottura delle lesioni granulomatose.
14 Il LAM altera l’omeostasi del Ca2+ intracellulare, impedendo la fusione dei lisosomi con il fagosoma. 15 Vedi pagina 16 e 27. 16 Si tratta di un “granuloma immunologico”.
100 In tal caso, M. tubercolosis può essere liberato nelle vie aeree (rendendo l’ammalato fortemente infettivo), nei vasi linfatici e nei vasi sanguigni, comportando l’interessamento dell’intero polmone e di altri organi. Con il progredire della lesione polmonare può verificarsi dapprima l’eliminazione di un escreato purulento, quindi emottisi. La diffusione del micobatterio attraverso il sistema linfo-‐circolatorio può causare la cosiddetta “tubercolosi migliare”, caratterizzata da lesioni microscopiche simili a grani di miglio che interessano dapprima il polmone e poi altri organi, soprattutto fegato e milza. La diagnosi classica si esegue con test cutaneo di Mantoux (reazione alla tubercolina), che consiste nella somministrazione intradermica di derivati proteici purificati di M. tubercolosis. La comparsa dopo 48-‐72 ore di una reazione pomfo-‐eritematosa ben palpabile, testimonia che l’individuo è entrato in contatto con il micobatterio. Tuttavia, la reazione alla tubercolina non permette di comprendere se il soggetto abbia avuto la tubercolosi e ne sia guarito o se l’abbia al momento. Inoltre, la reazione alla tubercolina è positiva anche se il soggetto è stato vaccinato. La terapia oggi si fonda sull’utilizzo contemporaneo di numerosi farmaci, come isoniazide, rifampicina, streptomicina, pirazinamide. La localizzazione intracellulare di M. tubercolosis rende difficile ai farmaci raggiungere i micobatteri e per tali motivi la terapia deve essere protratta per almeno 9 mesi. Gli effetti collaterali e il fatto che un miglioramento possa verificarsi anche solo dopo 2-‐4 settimane di trattamento portano spesso i pazienti tubercolotici a terminare il trattamento prima del tempo. Poiché un trattamento breve non eradica il micobatterio e, anzi, favorisce la comparsa di ceppi multiresistenti, è opportuno controllare strettamente che il paziente porti a termine la terapia. L’unico vaccino disponibile è il BCG (Bacillo di Calmette-‐Guerin), un ceppo attenuato di Mycobacterium bovis. Tuttavia, questo vaccino conferisce protezione solo verso la tubercolosi extrapolmonare e non verso quella polmonare e inseguito alla sua somministrazione il test cutaneo non può più essere usato. Per questi motivi il vaccino non viene impiegato negli Stati Uniti. ✣ MYCOBACTERIUM LEPRAE ✣ È un batterio intracellulare obbligato acido resistente. Causa la lebbra, che interessa soprattutto la cute e i nervi periferici causando deformità invalidanti. L’infezione si trasmette per via aerea, attraverso goccioline di saliva contenenti il micobatterio che provengono da lesioni asintomatiche del tratto respiratorio superiore. Una volta inalato, M. leprae infetta i macrofagi alveolari, viene disseminato in circolo e si stabilisce in tessuti relativamente freddi come la cute e gli arti, dove prolifera. La lebbra è endemica in alcuni Paesi tropicali. M. leprae causa due stati patologici differenti, la lebbra tubercoloide e quella leprematosa17.
-‐ Lebbra tubercoloide è la forma meno grave. È caratterizzata da lesioni cutanee squamose secche prive di sensibilità e da razioni infiammatorie a livello dei nervi periferici, che, se di piccolo calibro, possono essere distrutti. La degenerazione neuronale causa anestesia cutanea e atrofia muscolocutanea. A livello microscopico, tutte le zone colpite mostrano lesioni molto simili a quelle della tubercolosi, però con assenza di necrosi caseosa. È determinata da una risposta di tipo TH1, associata a produzione di IL2 e INFγ.
-‐ Lebbra leprematosa è la forma più grave, coinvolge cute (ispessimento, comparsa di noduli), nervi periferici, occhi, vie aeree superiori. È determinata da una risposta di tipo TH2.
17 Vedi pagina 38.
101 ✣ SIFILIDE ✣ È una malattia venerea causata da Treponema pallidum, un batterio del tipo spirochete. La sifilide è suddivisa in tre fasi, con manifestazioni cliniche e patologiche diverse.
1. Sifilide primaria. Si verifica circa 3 settimane dopo il contatto con un soggetto infetto. È caratterizzata dall’insorgenza di una singola lesione solida, rilevata, rossastra e non dolorosa, detta sifiloma primario nel sito di penetrazione del batterio (pene, cervice uterina, parete vaginale o ano). Il sifiloma, caratterizzato da una cospicua popolazione di T. pallidum, si risolva nell’arco di 3-‐6 settimane. Nel frattempo, T. pallidum diffonde attraverso la circolazione sanguigna e linfatica.
2. Sifilide secondaria. Inizia da 2 a 10 settimane dopo il sifiloma primario ed è dovuta alla diffusione del batterio. Si verifica nel 75% dei pazienti non trattati ed è caratterizzata da lesioni maculopapulari, desquamanti o pustolose alla cute di mani e piedi. Tutte le lesioni cutanee contengono spirochete e sono dunque infettive. Sintomi comuni sono anche malessere, linfoadenopatia, febbre moderata.
3. Sifilide terziaria. Inizia dopo un periodo di latenza di 5 anni o più. È uno stadio raro ove siano
disponibili cure mediche adeguate. Ha tre manifestazioni principali:
-‐ Sifilide cardiovascolare: aortite con progressiva dilatazione della radice dell’aorta e dell’arco aortico e possibile aneurisma. -‐ Neurosiflide: meningite, tabe dorsale, paresi generalizzata. -‐ Sifilide benigna: formazione di gomme sifilitiche in diverse sedi corporee. Le gomme sono lesioni nodulari con necrosi centrale, macrofagi e fibroblasti nella regione intermedia e plasmacellule tutt’attorno. Sono dovute ad una reazione DTH contro i batteri. Le gomme sono ora molto rare grazie ai trattamenti antibiotici, sono tuttavia riscontrabili in soggetti con AIDS.
✣ DIFTERITE ✣ È causata da Corynebacterium diphtheriae, un sottile bacillo Gram+, che si diffonde da individuo a individuo attraverso aerosol ed essudati cutanei. C. diphtheriae colonizza la mucosa di rinofaringe, orofaringe, laringe e trachea e ivi si moltiplica. La proliferazione del batterio non produce di per sé gravi conseguenza, causando solo una reazione infiammatoria locale. La virulenza dipende quasi esclusivamente dalla potente esotossina, che causa necrosi dell’epitelio mucoso e fuoriuscita di un essudato fibrino-‐purulento. La coagulazione di tale essudato sulla superficie mucosa ulcerata e necrotica porta alla formazione di tenaci membrane fibrinoidi (pseudomembrane) di colore che va dal grigio scuro al nero. L’infiltrazione di neutrofili e l’edema nei tessuti sottostanti sono abbondanti. Il distacco della pseudomembrana rivela la sottostante mucosa infiammata e molto vascolarizzata e può causare grave emoraggia e morte per asfissia. Con il controllo dell’infezione, la membrana è espulsa con la tosse oppure rimossa per digestione enzimatica e l’infiammazione recede. La tossina difterica, entrando nel circolo sanguigno, è responsabile anche delle possibili complicanze sistemiche:
-‐ Degenerazione grassa del miocardio, con necrosi miofibrillare. -‐ Polineurite con degenerazione del rivestimento mielinico. -‐ Raramente, degenerazione grassa e necrosi di cellule parenchimali epatiche, renali e surrenali.
Il vaccino contro la difterite agisce generando anticorpi contro la tossina. Consiste nella tossina privata della sua attività tossica (tossoide) in seguito a trattamento con formaldeide. La formaldeide stacca la catena di legame alla membrana cellulare, impedendo così alla tossina di penetrare nelle cellule.
102 ✣ SHOCK SETTICO O SEPSI ✣ Può verificarsi nel corso di una risposta immunitaria sistemica a un’infezione batterica o micotica. Nella maggior parte dai casi si verifica in seguito ad un’infezione di certi batteri Gram–, come Escherichia coli, Klebisiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa, Enterobacter aerogenens e Neisseria meningitidis. Con un tasso di mortalità del 20%, lo shock settico rappresenta la prima causa di morte nei reparti terapia intensiva ed è ritenuto responsabile di circa 200.000 decessi all’anno negli Stati Uniti. I principali fattori responsabili della fisiopatologia dello shock settico sono i seguenti:
1. Mediatori dell’infiammazione. Vari costituenti della parete microbica si legano ai recettori dell’immunità innata presenti su neutrofili e monociti, causandone l’attivazione. Una volta attivate, queste cellule rilasciano citochine (TNF, INFγ, IL1, IL12, IL18) e mediatori lipidici (prostaglandine e PAF) che attivano le cellule endoteliali. Le strutture batteriche attivano anche il complemento, con produzione di anafilotossine (C3a e C5a) e opsonine (C3b), che contribuiscono all’infiammazione.
2. Attivazione e lesione delle cellule endoteliali. L’infiammazione, le citochine e gli altri mediatori rilasciati attivano le cellule endoteliali, con tre principali conseguenze: -‐ Trombosi. -‐ Maggiore permeabilità vascolare. -‐ Vasodilatazione. La trombosi, che può esitare nella temibile coagulazione intravascolare disseminata (CID), è dovuta alle citochine proinfiammatorie che hanno azione procoagulante (aumento secrezione TF, diminuita secrezione di TFPI, trombomodulina, proteina C) e antifibrinolitica (aumento secrezione di PAI-‐1). La tendenza alla coagulazione è aumentata dal ridotto flusso ematico a livello dei piccoli vasi (dovuto all’aumento di permeabilità e alla vasodilatazione), che determina stasi e mancato smaltimento dei fattori coagulanti attivati. L’insieme di questi fattori favorisce il deposito di trombi ricchi di fibrina nei piccoli vasi e favorisce l’ipoperfusione dei tessuti. Inoltre, il rapido consumo dei fattori della coagulazione durante la CID può renderli insufficienti e causare gravi emorragie. La vasodilatazione e la maggiore permeabilità causano edema generalizzato, con aumentata pressione del liquido interstiziale, fatto che ostacola ulteriormente il flusso ematico.
3. Anomalie metaboliche. Si verifica iperglicemia, dovuta ad una massiccia gluconeogenesi, stimolata
dalle citochine TNF e IL1, dagli ormoni legati allo stress (glucagone, ormoni glucocorticoidi) e dalle catecolammine. L’iperglicemia è legata anche alla diminuita sintesi di insulina, dovuta alle citochine proinfiammatorie.
4. Disfunzione d’organo. L’ipotensione sistemica, l’edema interstiziale, la trombosi dei piccoli vasi riducono l’apporto di nutrienti e di ossigeno ai tessuti. Gli alti livelli di citochine possono diminuire la contrattilità miocardica e la gittata cardiaca.
Il trattamento standard prevede:
-‐ Utilizzo di antibiotici appropriati. -‐ La terapia insulinica intensiva per contrastare l’iperglicemia. -‐ La rianimazione volemica per preservare le pressioni sistemiche. -‐ La somministrazione di corticosteroidi per correggere l’insufficienza surrenalica relativa. -‐ La somministrazione di proteina C reattiva per evitare la generazione di trombina e ridurre la
coagulazione e l’infiammazione.
103 ✣ SHOCK TOSSICO ✣ È causato da tossine che agiscono come superantigeni. 18 Mentre normalmente lo 0,01% dei linfociti T risponde ad un dato antigene convenzionale, un superantigene può attivare un numero di linfociti T superiore al 5%. L’attivazione di questo gran numero di linfociti T determina il rilascio di cospicui quantitativi di citochine (soprattutto TNF e IL1), che causano la sindrome da shock tossico (TSS), condizione simile allo shock settico. La TSS è caratterizzata da ipotensione, insufficienza renale, coagulazione intravascolare, interessamento epatico, insufficienza respiratoria ed eruzione eritematosa generalizzata. Se non prontamente trattato può essere fatale. Importanti sostanze che agiscono come superantigeni sono:
-‐ Le enterotossine, le tossine esfolianti e la TSST-‐1 prodotte da Staphylococcus aureus. -‐ Le tossine pirogeniche prodotte da Streptococcus pyogenes. -‐ Il sopranatante di Mycoplasma arthritidis.
18 Vedi pagina 85.