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Un'ipotesi su una questione controversa
IL NON DETTO DELLAPSICOANALISI
Una professione che implica un processoanalitico senza fine, un continuo fare i conti
con l'ombra del proprio disagio
Aldo Carotenuto
lcuni pazienti, all'approssimarsi di una possibile
fine degli incontri analitici, esprimono il desiderio di diven-
tare allievi di una determinata associazione analitica. Il pro-
blema resta sostanzialmente identico anche nel caso di indi-
vidui che fin dall'inizio dell'analisi mostrano il desiderio di
diventare analisti. In questa circostanza però, tanto l'analista
che il paziente sono consapevoli che il desiderio rappresenta
solo un sintomo di cui va compreso soprattutto il significato.
Vorrei chiarire che all'espressione "fine dell'analisi" è darò
un senso molto ampio: non si allude soltanto alla scadenza
temporale in cui il terapeuta e il paziente prendono realmen-
te commiato l'uno dall'altro, ma alle modalità di conclusione
del processo analitico. In alcuni casi esso coincide con il
completamento di un'esperienza profonda e importante vis-
suta dai due partner, in altri invece ha un esito più tormenta-
to, costituendo una vera e propria negazione del processo
terapeutico e culminando in un insieme di vissuti negativi da
parte del paziente che considera l'analista come traditore e
nemico.
Nel chiarire come ciò possa avvenire è necessario sapere che
coloro che intendono diventare analisti devono continuare il
loro iter maturativo con altri analisti, membri della stessa
associazione. Tutte le società analitiche nazionali, tra loro
consociate in un organismo internazionale, riconoscono e
sottoscrivono questa regola, non consentendo ai propri al-
lievi di condurre analisi al di fuori del primitivo clan di ap-
partenenza.
Prima di delineare cosa avvenga in quella delicata fase di
passaggio tra la conclusione della prima analisi e l’avvio
della successiva, passo necessario all'interno del training a-
nalitico, vorrei aprire una parentesi di carattere storico. Se
facciamo riferimento allo sviluppo del movimento psico-
analitico dall'inizio ai nostri giorni, giungiamo alla conclu-
sione che la crescita del movimento è anche il racconto di
come si diventa analisti. È ai padri della psicologia del pro-
fondo che bisogna innanzitutto guardare per capire ciò che è
avvenuto in seguito. Sulla scia dei suoi interessi personali e
spinto dal desiderio di trovare nuove vie per la cura dei
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disturbi nervosi, procedendo per tentativi ed errori, Freud
approda dal primitivo metodo ipnotico e da quello catartico
alla psicoanalisi. Egli promuove una modalità di trattamento
avente come sostanziale caratteristica l'esame e la scoperta
della dimensione oscura e ignorata della vita psichica: l'in-
conscio.
Il metodo freudiano consiste nel ricercare e trovare qualcosa
che si e allontanato dalla coscienza. Nella messa a punto di
questo sistema di esplorazione che scandaglia la parte som-
mersa della psiche, di fatto Freud si autodetermina psi-
coanalista. Tale autodeterminazione, giustificata dal fatto
che egli era lo scopritore del metodo di trattamento, non po-
teva a rigor di logica essere generalizzata. Con l'istituzione
delle società psicoanalitiche, a partire da quella viennese, le
regole vengono cambiate e gli aspiranti analisti devono a
loro volta sottoporsi a trattamento analitico.
Soltanto molto tempo dopo, Lacan, nel porsi ancora una vol-
ta in modo critico il problema di come si diventa analisti,
sostiene la tesi dell'autolegittimazione. Si tratta di un punto
fondamentale e gravido di conseguenze. Da Freud in poi
comunque, e sotto l'influsso determinante di Jung, si struttu-
ra una concezione per la quale diventare analisti implica
sperimentare su se stessi l'identico procedimento che servirà
poi a trattare e curare i pazienti. Si parte cioè dall'ipotesi che
si può imparare a diventare analisti a patto che si seguano
cene modalità di formazione, in modo particolare che ci si
sottoponga ad una o più analisi. Inizialmente si pensava in-
fatti che fosse necessario un numero molto limitato di incon-
tri terapeutici, ma in seguito viene ammessa da più parti e
inserita negli statuti delle diverse associazioni analitiche la
necessità di una moltiplicazione di questi incontri, una mol-
tiplicazione sempre più elevata fino quasi a coincidere con
l'interminabilità del processo analitico, interminabilità su cui
già Freud riflette nei suoi ultimi anni di vita.
A determinare questo sostanziale mutamento nelle regole
della formazione è l'essersi scontrati con un problema di
fondo spesso occultato anche se in buona fede, la consape-
volezza cioè che non si può insegnare a diventare analisti.
Ritornerò su questo punto esplicitando i requisiti che, a mio
avviso, sono necessari per svolgere questa professione.
L'interminabilità dell'analisi finalizzata a fini didattici può
essere compresa a vari livelli. Essa sembra implicare l'idea
che per quanto approfondirò possa essere stato il procedi-
mento analitico, il compito di venire a patti con la propria
dimensione nevrotica è di fatto interminabile. È lo stesso
Freud — come si è detto — a suggerire che il futuro analista
si impegni a pensare alla propria analisi proprio nei termini
di un'analisi senza fine, ricavando in tal modo da questo
sforzo prolungato indefinitamente nel tempo degli indiscuti-
bili vantaggi nell'affrontare le difficoltà nevrotiche dei futuri
pazienti. Questo ragionamento conduce però a un'inevitabile
contraddizione. Da una parte infatti si sostiene che
la professione analitica, come qualsiasi altra disciplina, può
essere insegnata e soprattutto appresa, mentre dall'altra si
mette in evidenza l'interminabilità di questo apprendimento,
che aderiva dall'impossibilità di venire a patti con la propria
sofferenza psichica. Per uscire da quest'impasse bisogna, a
mio avviso, chiedersi onestamente e con coraggio che cosa
renda in effetti interminabile un processo analitico il cui fine
è quello di preparare e formare il futuro analista. La mia ri-
sposta potrà apparire a questo punto paradossale e provoca-
toria, perché io ritengo che la vera ragione dell'interminabi-
lità di questo tipo di analisi sia data dal fatto che la profes-
sione analitica, così come è comunemente concepita dai
training delle diverse associazioni, non esiste.
gli inizi della psicoanalisi, il trat-
tamento analitico viene concepito e descritto come un pro-
cedimento il cui fine è quello scoprire qualcosa, un quid che
l'individuo cela sepolto nelle zone più buie della psiche, e
del quale non è cosciente. L'analista indaga ed esplora un
terreno che nelle sue linee particolari — quelle che riman-
dano alle variabili soggettive di ciascun paziente - appare
sconosciuto, ma che in realtà è noto nella generalità di com-
plessi e dinamiche psichiche che appartengono a ciascun es-
sere umano. Ad esempio il complesso edipico. Tuttavia nel
corso del secolo che ci separa dalla nascita della psicologia
del profondo, gli analisti sono giunti alla sconcertante sco-
perta che questo scavare e tornare al passato per scoprire
traumi ed eventi rimossi serve a poco, se non a nulla, alme-
no su un piano terapeutico. Al di là del puro piacere intellet-
tuale che si prova nel ricostruire o reinventare il proprio pas-
sato, gli obiettivi clinici che si raggiungono nel corso
dell’analisi sono in realtà il frutto di un altro processo, pro-
cesso molto spesso sottovalutato. Questo fattore terapeuti-
camente efficace è costituito dalla relazione fra paziente e
analista, rapporto grazie al quale è possibile inserire
dei.nuovi elementi nella vita del paziente così da ristutturar-
la. Si noti allora la differenza fondamentale. Non è lo sco-
prire ma è l’inserire, il fatto determinante di un mi-
glioramento analitico. Un disturbo nevrotico non può gua-
rire se a parte la nuova consapevolezza, tutto rimane come
prima. Una tale visione dell'analisi implica necessariamente
la modifica della concezione del ruolo dell'analista e dei re-
quisiti essenziali richiesti in questa professione. Infatti, men-
tre risulta relativamente facile scoprire gli eventi cruciali
della vita del paziente e costruire una versione coerente della
sua scoria, molto più difficile appare invece per l'analista il
momento del nuovo, l’inserimento di quel nuovo fattore che
può modificare la condizione nevrotica in cui è imprigionato
il paziente. Questo atto non richiede tanto lunghi studi, co-
noscenze teoriche e tecniche, e un altrettanto lungo adde-
stramento professionale, quanto invece delle qualità
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Raffaello, Le nozze di Amore e Psiche, Palazzo della Farnesina, Roma
umane e un'attitudine - artistica, nel senso alchemico che
Jung conferiva a questo termine. Ciò sposta il problema
della formazione dall'addestramento, e quindi da un pro-
cesso di insegnamento-apprendimento, al, possedere delle
caratteristiche, che non possono essere culturalmente tra-
smesse.
Se, come io ritengo, queste qualità costituiscono i
tratti peculiari di un buon analista, e se esse non possono
venire insegnate, si comprende come il training analitico,
e quindi l'analisi mirante a questo fine, sia un processo in-
terminabile, il cui protraisi in eterno deriva appunto dal-
l'impossibilità di affrontare tale cruciale problema. Capire
ciò significa anche valutare diversamente quei percorsi
analitici che si prolungano indefinitamente nel tempo, pri-
gionieri di una sostanziale immobilità, ed essere anche
consapevoli dei rischi in cui si incorre assumendo tale at-
teggiamento. Si tratta ovviamente di pericoli spesso invi-
sibili agli occhi tanto dell'analista che del paziente e che
possono essere paragonati ai danni subiti dai primi radio-
logi ignari della pericolosità delle radiazioni a cui si espo-
nevano. In quel caso però se le radiazioni erano invisibili
agli occhi umani, ben visibili erano 1 loro letali effetti. Ri-
spetto all'analisi invece tanto i rischi, quanto gli effetti ne-
gativi restano per il momento misconosciuti. Anzi la sta-
gnazione nella quale si è bloccato l'addestramento non so-
lo non è riconosciuta come tale, e quindi come un falli-
mento dell’addestramento stesso, ma è addirittura conside-
rata un segno che il training sta seguendo e rispettando le
modalità di un processo che richieda del tempo. Sembra
così esistere sempre una giustificazione per un trattamento
che nella sostanza è invece erroneo. Ma perché questo ac-
canirsi con metodi inefficaci? La risposta appare sem-
plice. In effetti l'abilità che si richiede dall'analista è del
tutto elementare se il suo lavoro si deve limitare a sco-
prire, mentre il compito diventa estremamente difficile e
quasi Immane se viene assimilato al creare, dal momento
che la creatività non può essere insegnata. Il problema del
termine dell'analisi va così acquisendo una fisionomia più
chiara.
e si riconosce la veridicità della mia
ipotesi si comprendono anche gli equivoci, i malintesi, le
inevitabili disillusioni e quindi anche le violente contesta-
zioni di alcuni di quei pazienti che hanno deciso di diventare
analisti. Sia che l'abbiano deciso all'inizio dell'analisi, sia
che invece siano giunti a tale scelta solo alla fine di questo
processo, di fatto questi pazienti intendono cominciare una
professione di cui vedono soltanto un aspetto, quello del ri-
cercare, aspetto che in un certo qual modo può essere inse-
gnato. Si genera in tal modo un fatale equivoco, perché la
futura professione non si basa - come ho già detto - sul ri-
cercare che può essere imparato ma sull'inserire che invece
non può essere insegnato. Se fossero lucidamente consape-
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voli di questa situazione, le associazioni dovrebbero struttu-
rare i training analitici in maniera da offrire sì all'allievo uno
spazio di studio e di confronto con gli altri membri, ma da
renderlo anche cosciente che le qualità fondamentali neces-
sarie a questa professione non possono venire apprese all'in-
terno del training. L'allievo dovrebbe pertanto poter guarda-
re profondamente dentro se stesso per riconoscere la sua
idoneità o inidoneità a svolgere l'attività di analista, accom-
pagnando con un .processo di autolegittimazione quell'abili-
tazione, quella sorta di consacrazione ufficiale fornita
dall’associazione stessa alla fine del training. Per una serie
di ragioni invece — non ultima l'insicurezza delle associa-
zioni stesse, che credono di autolegittimare la loro esistenza
investendo i loro membri di crismi che non hanno — questa
scomoda verità sul training non viene rivelata a chi si avvia
a una professione analitica di farro inesistente se così mal
concepirà. Una spiegazione è offerta dal costante confronto
delle discipline psicoterapeutiche con quelle mediche, dove
la possibilità di curare le malattie scaturisce soltanto da un
lungo apprendimento teorico e tecnico. Secondo una conce-
zione della medicina, per fortuna superata dall'approccio oli-
stico e psicosomatico, come sono inesistenti le cause psichi-
che della malattia, così non deve essere prestata dal medico
alcuna attenzione a questo aspetto. Per esercitare la sua pro-
fessione non gli è richiesta nessuna particolare qualità uma-
na, nessuna attitudine psicologica. Per inciso, il risultato di
questa sconsiderata visione è fin troppo manifesto nella di-
sumanizzazione dei nostri ospedali e di ogni altra struttura
sanitaria del paese. Tenuto conto di ciò e considerato che al-
meno la metà degli allievi e dei didatti delle associazioni a-
nalitiche è costituita da medici, apparirà comprensibile la
difficoltà di mettere in discussione la formazione analitica
come risultato non dello sviluppo di alcune qualità umane,
ma unicamente come frutto di studi e del lungo investigare il
proprio passato personale. Appare impossibile dire all'allie-
vo che la professione analitica come è tradizionalmente con-
cepita non esiste e che invece il suo futuro potere tera-
peutico si basa sulla capacità creativa. È questa però la con-
clusione a cui giunge anche Perer Breggin nel suo ultimo li-
bro, Toxic Psychiatry.
Non si tratta qui di mettere in discussione che certe per-
sone siano capaci di riprogrammare un paziente sofferente
per la presenza di mappe mentali che lo sviano e lo confon-
dono nella vita di tutti i giorni, ma di capire quale tipo di
persona sia capace di svolgere questo compito.
Non basta essersi sottoposto per rutta la vita ad un'analisi,
né conoscere alla perfezione tutti i testi di psicoterapia, né è
sufficiente possedere dei sani principi, essere saggio ed e-
quilibrato. Al di là di questi requisiti ne esistono altri che
sembrano non avere alcun diretto riferimento con la terapia,
ma che invece ne costituiscono la conditio sine qua non. Mi
riferisco appunto alla capacità creativa di colui il quale
Romanino, La fortuna. Castello del Buonconsiglio, Trento
intende essere terapeuta. E questa dote ad accomunare tutti i
terapeuti in qualsiasi ambito, tempo e cultura essi abbiano
svolto la loro attività, costituendo quel filo che lega la mo-
derna psicoterapia alle antiche forme di guarigione, filo che
H. Ellenberger ha ampiamente illustrato nei suoi scritti. I
training analitici, specie nei colloqui di ammissione e di pas-
saggio alle varie fasi, cercano di basare i loro criteri sulla
necessità per l'aspirante analista di far maturare il proprio
livello di personalità e di integrare aspetti lontani dalla co-
scienza. Questi obiettivi apparentemente legittimi nascon-
dono una notevole oscurità e nebulosità, derivata sia dalla
loro generalità, sia dalla soggettività e quindi dalla discuti-
bilità della valutazione da parte dell’esaminatore riguardo
all'effettivo raggiungimento da parte del candidato di tali
fini. Il limite intrinseco a questi presunti criteri tradisce la
reale impotenza delle associazioni discriminare chi potrà
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essere un terapeuta e chi no. Il pro-
blema, naturalmente, non si pone per
quegli allievi che vengono allontanati
o che non vengono neppure accettati,
perché una volta che questi ultimi ini-
ziano a fare gli analisti non si distin-
guono affatto da coloro che invece
hanno avuto il riconoscimento ufficia-
le dell'associazione. Il vero e grave
problema, spesso assai doloroso nei
suoi esiti, nasce per quegli allievi per i
quali il crisma dell'accettazione all'in-
terno di un'associazione suona come
una consacrazione. Questa con-
sacrazione è inesistente in quanto tale,
poiché si basa su requisiti che di fatto,
a mio avviso, non determinano la ca-
pacità di essere degli analisti. Al con-
trario, sia l'associazione che l'allievo
stesso al momento dell'ammissione
sembrano sostenere che, essendo que-
sti meritevole di entrare a far parte di
un gruppo e successivamente di so-
stare al suo interno, sarà anche capace
alla fine dell'addestramento di svol-
gere la professione analitica. Il sillogi-
smo accettazione e quindi capacità di
fare l'analista si regge però su di un
falso che l'allievo sconterà per molto
tempo.
Partendo dalla convinzione che il
poter diventare analista si basa sul
modo nel quale porterà a compimento
la sua preparazione, ciascun allievo
cercherà di riuscire al meglio in questo
compito, studiando molto e tentando
di rubare ai colleghi più anziani i se-
greti del loro lavoro, il mistero del-
l'arte clinica, un po' come i pittori del
Rinascimento tentavano nelle botteghe
in cui erano apprendisti di impadro-
nirsi delle tecniche dei loro maestri.
Ma così come non si diventa artisti se
non si possiede autentico talento, è
impossibile diventare uno psicologo
clinico, mera alquanto ambita, se non
lo si è già, se cioè non si possiedono in
fieri quei requisiti. Il rischio di perse-
verare in questo equivoco è quello di
continuare ad addestrare degli indivi-
dui che non saranno mai degli analisti,
benché la fine del training certifichi la
loro abilitazione. L'allievo, completata
la sua formazione sulla base di questi
falsi criteri e diventato analista,
nell'accingersi ad esercitare la sua pro-
fessione, si troverà immediatamente a
confronto con situazioni che richie-
dono una capacità inventiva e una cre-
atività del tutto personali e che, non
potendo essere insegnate, sono ovvia-
mente sfuggite ai lunghi anni di adde-
stramento. Va tuttavia riconosciuto
che molti sono consapevoli dei limiti
del training e non pretendono ciò che
non può loro offrire. E nonostante il
training non li prepari ad affrontare
queste situazioni, trovandosi di fronte
al paziente ed alle sue necessità, sono
ugualmente in grado di adottare un
comportamento adeguato alla situa-
zione. In tal modo questi giovani ana-
listi dimostrano di aver compreso il
vero spirito dell'insegnamento di
Freud e Jung. Il primo infatti soste-
neva che i suoi suggerimenti avevano
un valore personale e che ogni medico
avrebbe dovuto trovare il suo sistema
di cura; mentre il secondo affermava
che se qualcuno fosse entrato nel suo
studio lo avrebbe sorpreso non legato
a un metodo ma a una procedura che
egli sentiva appropriata in quel caso.
iù recentemente Milton
Erickson dichiarava di inventare una
nuova teoria per ogni paziente. La dif-
ficoltà reale di insegnare questa pro-
fessione, difficoltà alla quale ho sem-
pre creduto, induce a focalizzare l'at-
tenzione su altre qualità indispensabili
agli allievi e in particolare alla profon-
da sensibilità che dovrebbe guidare la
loro formazione. Tale sensibilità, per
coloro che effettivamente riusciranno
ad essere degli analisti, si traduce in
un attento scrutare la propria anima e
la propria personalità, non tanto e non
solo per ricostruire il passato, per inte-
grare parti scisse, per diventare consa-
pevoli di zone rimosse dalla coscienza,
quanto per individuare e realizzare ciò
che essi stessi sono realmente e per
trovare un senso profondo sia in ciò
che sono, sia in quello che fanno.
Questi individui accompagneranno
agli anni di studio e di analisi lo svi-
luppo e l'affinamento di quelle dori
umane, di quella creatività che sono
già in loro possesso, che costituiscono
la base per l'autolegittimazione alla
professione e alla quale deve necessa-
riamente essere affiancata qualsiasi
certificazione da parte di un'associa-
zione.
Mi rendo conto della obiezione che
può scaturire da questa presa di posi-
zione, che comporta il pericolo di ave-
re dei terapeuti inflazionati i quali, in
preda a un attacco megalomanico, cre-
dono di possedere il misterioso potere
terapeutico degli sciamani. Chiarito
che, a mio avviso, le doti umane a cui
accennavo devono comprendere anche
una cena umiltà, un senso dei limiti,
un riconoscimento della propria Om-
bra - garanzie contro un'autolegit-
timazione che nasce dall'inflazione
psichica, dall'identificazione con l'ar-
chetipo del Guaritore e del Salvatore -
va sottolineato poi che da questo ri-
schio non sono esenti coloro che rice-
vendo dall'associazione l'abilitazione
ad essere analisti, a partire da questo
momento, si considerano gli unici de-
rentori del potere terapeutico. Un pote-
re terapeutico che, sulla base di quanto
ho finora sostenuto, non è comprovato
poiché la sua acquisizione non passa
attraverso un insegnamento.
Se dunque sensibilità, vigile atten-
zione a se stessi, capacità di introspe-
zione e di discriminazione di quelle
doti che effettivamente li preparano
alla loro futura professione, rendono
alcuni allievi in grado di comprendere
i limiti e i paradossi del loro training,
per molti altri questo non accade.
La numerosa schiera di allievi - che
purtroppo costituisce la media presen-
te all'interno delle associazioni - i qua-
li ritengono di poter fare gli analisti
alla fine del training, senza capire che
altre qualità consentono una tale effet-
tiva possibilità, va fatalmente incontro
al fallimento professionale. Sotto la
pressione di una lacerante frustrazione,
molti di loro svilupperanno quella che
può essere definita
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la sindrome del risarcimento. Ed è in questa fase che la fine
della prima analisi, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi
progressi e con i suoi errori, acquista un particolare signifi-
cato. A differenza della maggioranza degli altri pazienti, co-
lui che vuole diventare analista non termina mai il suo pro-
cesso analitico, ma cambia il suo analista in modo che, si
suppone, da venire in contatto con altre modalità psicologi-
che e di comportamento.
L'analisi iniziale, quella nella quale si è profilato e
vagheggiato il desiderio di diventare analista, rimane tutta-
via la fase più importante e delicata del lungo iter ed anche
il bersaglio principale verso cui l'allievo deluso, scontento
del training e che non riesce ad autolegittimarsi nella profes-
sione, indirizza le sue richieste di risarcimento. È come se
egli ritenesse responsabile il primo analista di quell'inganno
che non gli consente di divenire analista, inganno che come
ho sostenuto è intrinseco invece alla strutturazione del
training. Affermare ciò non significa naturalmente costruire
un castello teorico all'interno del quale occultare i propri
sbagli, l'essere stato, in cera casi e per svariati morivi sui
quali mi soffermerò più avanti, terapeuticamente inefficace.
Va a questo punto anche ribadito che la scelta di diventare
analisti affonda in parte le sue radici su un'impossibilità di
affrontare in altro modo la propria sofferenza psicologica, su
una sorta cioè di inguaribilità del proprio disagio che costi-
tuisce il bene più prezioso dell'analista, poiché alimenta co-
stantemente la sua capacità terapeutica, la sua creatività ana-
litica, come ho ripetutamente sostenuto nei miei scritti.
Comprendere tanto i limiti del training, quanto i limiti
dell'analisi a cui ci si è sottoposti inizialmente se dovrebbe
immunizzare il paziente-allievo dalla sindrome del risarci-
mento, non può e non deve tuttavia fornire .all'analista un
comodo alibi nel quale occultare la propria Ombra,
quell'Ombra responsabile di sbagli, insuccessi ed agiti. Mi
sono a volte dovuto confrontare con situazioni di questo ge-
nere, situazioni nelle quali il paziente ora divenuto allievo, e
quindi in analisi con un altro terapeuta, ha sviluppato nei
miei confronti un atteggiamento alquanto negativo, rivendi-
cando una sorta di risarcimento per i danni che ritiene di a-
ver subito e soprattutto per la sua incapacità a svolgere la
professione analitica. A poco serve che, chiamati in causa da
questa richiesta, si tenti di dimostrare che la possibilità di
svolgere la professione analitica è imprescindibilmente lega-
ta alla presenza di certe caratteristiche personali, all'essere
profondamente dentro di sé dei terapeuti, prima ancora di
diventarlo. Al contrario, una tale argomentazione suscita
spesso nell'allievo, che la crede un comodo alibi per gli erro-
ri dell'analista, una rabbia incontenibile sulla quale si infran-
ge inutilmente qualsiasi ulteriore ragionamento. Se più a-
vanti mi soffermerò sull'incidenza che ha l'Ombra dell'anali-
sta nel determinare tali situazioni, vorrei prima cercare di
analizzare i possibili elementi intrapsichici che spingono il
paziente verso un atteggiamento ostile e rivendicativo. Un'i-
potesi è naturalmente quella della presenza di un'invidia pro-
fonda e primaria, un'invidia sulla quale Melanie Klein ha
puntato la sua attenzione. Vissuto inconsciamente come la
fonte di una bontà e di una capacità creativa che non si pos-
sono eguagliare ed avere per sé, l'analista-seno buono è fatto
oggetto di attacchi distruttivi che tentano proprio di annien-
tare questa sua bontà e creatività.
Mi sembra perfettamente calzante l'analisi di Socaridess
nel descrivere questa situazione: “Capita molto spesso che si
instauri un'identificazione con una figura potente e creativa,
[corsivo mio] sebbene questa figura venga al contempo an-
che invidiata. La persona che ha le migliori possibilità di
essere scelta per diventare particolarmente persecutoria è
una figura superegoica sulla quale è stata proiettata una forte
carica di invidia, e che viene sperimentata inconsciamente
come un oggetto che ostacola i processi di pensiero del pa-
ziente e tutte le attività produttive nelle quali egli ,si impe-
gna, ed infine anche
di vivere”. Confronta
quale proietta tutte le
che concerne il nostr
sere analista, il pazie
di ogni caratteristica
meccanismo di identi
egli immetterà nell'im
ostili e persecutorie
struttivo che gli impe
tivamente nei confro
menti questi basilari
rienza ho potuto con
essere risarcito va di
stato deprivato e co
contaminato e danne
mento nella professi
analitica si accompag
non poter più amare
zo per il sesso oppost
il suo senso di benessere e la sua gioia
to con un altro reale - l’analista - sul
parti buone di sé e soprattutto, per ciò
o discorso, la potenziale capacità di es-
nte-allievo si ritrova cosi depauperato
positiva e creativa. Attraverso lo stesso
ficazione proiettiva
ago dell'analista anche le proprie parti
, quella sorta di sbarramento autodi-
disce di essere creativo e di porsi posi-
nti dell'esistenza e degli altri, atteggia-
dell'attività terapeutica. Nella mia espe-
statare che il desiderio del paziente di
pari passo con la sensazione di essere
n il ritenere che tale deprivazione ha
ggiato la sua intera esistenza. Il falli-
one e l'abbandono di qualsiasi velleità
nano anche alla dolorosa percezione di
e talvolta anche a un profondo disprez-
o dal quale egli pensa di essere soltanto
Albero Alchemico
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strumentalizzato, cosi come sente che gli è accaduto nel
rapporto analitico. Sospendendo per il momento il giudizio
sulla reale rispondenza di tale percezione e fermandoci in-
vece alla sua realtà psichica, ancora una volta si può cogliere
una dinamica di proiezione della propria Ombra. Nell'incon-
scio di molti di questi pazienti si cela un incoercibile ed in-
confessabile desiderio di derubare il prossimo, un desiderio
talvolta inconsapevolmente agito che li spinge a depredare
psicologicamente le persone circostanti, sfruttando qualsiasi
situazione che essi pensano possa arrecare loro un vantag-
gio. Pensando soltanto a loro stessi, ai loro problemi, ai loro
bisogni e carenze, appaiono incapaci nei rapporti interperso-
nali di atteggiamenti chiarivi e di un vero interessamento e
di una cura nei confronti di chi sta loro vicino. A tale con-
statazione bisogna tuttavia accompagnare un esame altret-
tanto lucido de! rapporto terapeutico.
Possiamo supporre che all'interno del campo analitico si
sia talvolta creata, all'insaputa dei due partner, una col-
lusione tra le loro parti d'Ombra, per cui anche nell'analista,
sollecitato dalla proiezione del paziente, è stato attivato un
atteggiamento predatorio. E possibile che proprio il possede-
re all'interno della propria psiche una sorta di zona cieca co-
stituita da alcuni tratti d'Ombra renda in questi casi l'analista
incapace di vedere la problematica del paziente e di neutra-
lizzarla in tempo con un comportamento opportuno. Se una
certa avidità e bramosia ranno parte dei problemi irrisolti del
terapeuta, delle sue ferite aperte, delle parti di sé che meno
riesce a controllare, nonostante egli sia legato a un ruolo di
madre e nutrice generosa, ecco che più facilmente può scat-
tare una patologica complicità nel tentativo di divorarsi re-
ciprocamente con richieste sempre più elevate, richieste che
mettono costantemente alle prova le regole del setting. Nella
mia esperienza il presentarsi di questi episodi rivela alcuni
tratti comuni. In prima istanza il paziente si mostra molto
seduttivo, nel senso che offre all'analista una sensazione di
insostituibilità che lusinga enormemente spingendo a svi-
luppare quel tipo di dedizione e di apertura che già Jung a-
veva sperimentato agli inizi del secolo nel suo rapporto con
la Spielrein.
La dipendenza del paziente, agganciandosi a problemati-
che infantili dell'analista, può suggerire in quest'ultimo il
desiderio e l'inconscia speranza di una sorta di risarcimento
per un profondo senso di inutilità, di inadeguatezza che il
terapeuta si porta ancora dentro. Posto al centro della vita
del paziente, » egli sente lenta la profonda e primaria caren-
za d'amore e per quanti sforzi faccia per impedirne l'interfe-
renza non riesce ne a colmarla ne a controllarla del tutto.
a è proprio in virtù di
questa dedizione, di quest'offerta incondizionata di affetto,
di questo continuo riconoscimento dell'importanza e dell'in-
sostituibilità del terapeuta, che il paziente comincia a sentire
il bisogno di qualcosa che lo contraccambi adeguatamente.
Egli comincia a mettere alla prova l'analista avanzando pre-
tese anche minime ma che sostanzialmente implicano l'ini-
zio di una manipolazione, dell'orario, del setting analitico e
di tutte quelle norme poste a fondamento del trattamento a-
nalitico. Si potrebbe tradurre questa manipolazione sempli-
cemente nel fatto che il paziente sia compulsivamente co-
stretto a pensare che tutto gli sia dovuto. Tanto la disillusio-
ne rispetto a queste richieste, quanto il loro accoglimento
che innesca un tragico gioco al rialzo, culminando a volte in
trasgressioni ed agiti, si traduce in un senso di frustrazione
del paziente. Comunque tradirò nelle inconsce aspettative a
causa dell'impossibilità di soddisfare i suoi bisogni arcaici e
senza che essi siano stati analizzati ed elaborati, invece che
agiti, egli inizia a sviluppare la sua sindrome del risarcimen-
to. Richieste e rivendicazioni si iscrivono ovviamente in una
dinamica vittima-carnefice che entrambi i partner finiscono
in molti casi per mettere in atto, in special modo quando il
terapeuta non è più in grado di gestire il rapporto analitico.
Sentendosi vittima dell'insufficiente interesse del terapeuta,
come dei suoi atteggiamenti predatori, il paziente si erge a
giudice dell'analista, dei suoi comportamenti, dimenticando
la segreta simmetria con la propria dimensione psichica e
con i propri comportamenti. L'atteggiamento vendicativo,
nell'accezione di Socaridess, cela allora un inconscio bi-
sogno di sostituirsi alla legge morale del terapeuta per di-
ventare egli stesso la legge, il Super-io. In tal modo il pa-
ziente ribalta la situazione, trasformandosi da perseguitato e
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sfruttato a giudice implacabile, vero e proprio persecutore.
Ma la dimensione tragica del problema si presenta in tutta la
sua ampiezza quando il paziente scopre di non essere adde-
strato a diventare analista come porrebbe esserlo un artigia-
no orologiaio al termine del suo periodo di apprendistato. A
questo punto la fine dell'analisi coincide prima con l'impres-
sione di essere stati traditi e defraudati e poi con il crescere
di quel processo che ho definito sindrome del risarcimento.
Naturalmente non bisogna perdere di vista il problema
relativo all'inesistenza della professione analitica come è tra-
dizionalmente concepita e del doloroso impatto con questa
constatazione da parte degli allievi legati più alla lettera che
non allo spirito dell'insegna-
mento analitico, quegli allievi
che credono di dover essere
consacrati analisti esclu-
sivamente in virtù del training
da loro svolto. Sono questi colo-
ro che con più difficoltà posso-
no comprendere ed integrare
all'interno della loro storia per-
sonale e delle loro esperienze le
ombre dell'analisi e le insuffi-
cienze del training, colmandole
con la loro creatività e con un
vero processo di crescita psico-
logica. Quando, per citare un
esempio, Eri Berne, dopo un
training psicoanalitico appro-
priato, prima con Federn e poi
con Erik Erikson, non fu accet-
tato dall'Associazione Interna-
zionale di Psicoanalisi, non eb-
be la reazione tipica dell'allievo
privo di fantasia e in preda alla
sindrome del risarcimento, ma
superando la frustrazione e il
senso di tradimento certamente
provati, inventò un nuovo modo di fare terapia: l'analisi
transazionale. Se non è possibile pretendere da tutti un simi-
le comportamento, è però utile cercare di capire - come ho
cercato di fare finora - perché alcuni reagiscono alle difficol-
tà in un modo sostanzialmente positivo e creativo, mentre
altri sviluppano un atteggiamento ostile e negativo che li
spinge a terminare con astio la loro analisi. Quando ciò ac-
cade si tratta, come è facile capire, di avvenimenti alquanto
penosi sia per l'analista che per il suo ex-paziente. A rendere
ancora più difficile la situazione interviene poi la struttura-
zione stessa del training. E nel rituale di passaggio da un a-
nalista ad un altro che il tradizionale riserbo che comune-
mente circonda l'analisi viene infranto. Il particolare campo
analitico createsi tra quel paziente e quel terapeuta viene
mostrato e svelato ad occhi estranei, a un terzo che non es-
sendosi trovato all'interno di quel temenos può difficilmente
intuirne le sfumature e quindi comprendere a fondo tutte le
motivazioni alla base di ciascun comportamento. Di solito la
vendetta del paziente che scopre la sua incapacità di svol-
gere la professione prende il via proprio mentre è in terapia
con un altro analista diverso da quello con il quale ha ini-
ziato, e questa vendetta collude con le dimensioni scoprofile
del nuovo o dei nuovi analisti. Per quegli strani tiri mancini
del destino, le confessioni analitiche degli allievi diventano
il buco della serratura dal quale alcuni analisti spiano la vita
dei loro colleghi. In tal modo abitudini, caratteristiche psico-
logiche del primo analista, debolezze, limiti e la sua stessa
Ombra nella sua dolorante interezza, portare a conoscenza di
altri analisti, nel migrare
del paziente da un terapeu-
ta all'altro, vengono poste
sono i riflettori dell'as-
sociazione. Quel tanto di
vita privata dell'analista
che il paziente ha potuto
conoscere durante la sua
prima analisi cessa così di
essere un fatto soltanto
privato. Naturalmente que-
sta regola è valida per ogni
fase dell'analisi, per ogni
trattamento a cui il pazien-
te si sottopone durante il
suo training.
L'ultimo analista entrerà,
volente o nolente, nei
mondi privati dei suoi col-
leghi. È purtroppo un fatto
inevitabile che tutti coloro
che rimangono in un'asso-
ciazione analitica sono co-
stretti a sopportare. La ge-
neralità di questa situazio-
ne potrebbe apparire una
sorta di garanzia, dal momento che si sa sempre tutto di tutti.
Si dimentica però che queste conoscenze acquisite attraverso
le confessioni degli allievi spesso si mutano in un'arma che
alimenta le rivalità, le ostilità, i giochi di potere presenti
all'interno di tutte le associazioni analitiche.
orse un giorno, se qualcuno ne
avrà voglia, si porrà addirittura scrivere una storia della psi-
coanalisi facendo riferimento soltanto agli intrighi, agli in-
cesti, alle parentele sotterranee ed evidenti che vivono all'in-
terno delle comunità analitiche. Basterebbe pensare al suici-
dio di Tausk e a quello di Honegger. Ad aggravare la portata
di queste rivelazioni interviene poi il farro che molte di esse
vengono compiute sulla spinta di un atteggiamento psicolo-
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gico sostanzialmente negativo ed ostile, quando cioè l'allie-
vo è afferro dalla sindrome del risarcimento. E se la vendi-
catività del paziente, invece di essere contenuta ed analizza-
ta all'interno del nuovo setting nel tentativo di rispettare il
segreto di quel primo temenos, con le sue atmosfere e i suoi
accadimenti, insondabili a qualsiasi giudizio ad esso esterno,
collude con un'inconscia ostilità del nuovo analista nei con-
fronti del collega, si creano delle situazioni alquanto spiace-
voli e certamente poco analitiche. Al di fuori di quel vas
hermeticum con cui gli analisti junghiani, con una metafora
alchemica, indicano il setting analitico, luogo di misteriosa
trasformazione, tutto si banalizza e perde significato. Colui
il quale si presta alla rottura di questo vas mostra di non aver
compreso il senso della sua professione. Guardando sempli-
cemente alle apparenze, egli tradisce profondamente l'essere
analista, comportandosi in modo rozzo e meschino, vittima
della propria Ombra non meno di quell'analista di cui insie-
me al paziente si erge a giudice. Questo fermarsi alle evi-
denze, intessuto di luoghi comuni, di giudizi e opinioni mas-
sificati, nulla ha di psicologico. Per il volgo il sole gira in-
torno alla Terra perché il ratto è evidente, così come la mela
genera il verme perché così è. Ci si trova di fronte in questi
casi a delle presunte conoscenze che, per analogia con un
particolare genere musicale, la Pop Musica, possono essere
definire Pop Astronomy oppure Pop Biology. Nei paesi an-
glosassoni la Pop Music— contrazione di Popular Music —
indica la musica leggera, quella musica di diffusione di mas-
sa che, a differenza del Folk, non attinge le sue radici da una
cultura musicale etnica e quindi autentica espressione di un
popolo. E anche in Italia, del resto, con questo termine si è
voluto indicare una musica leggera di tipo tradizionale net-
tamente opposta alla ricerca originale dei cantautori. Adope-
rando la stessa metafora anche per coloro i quali credono di
conoscere la psiche umana guardando attraverso il buco del-
la serratura, potremmo definirli Pop Psychologists e Pop
Psychology la disciplina di cui sono maestri. Complici di
questi Pop Psychologists, che sembrano avidamente ricerca-
re un patrimonio di conoscenze costruito sulle indiscrezioni
dei loro allievi, questi ultimi nella loro ricerca di risarcimen-
to diventano delle vere e proprie mine vaganti. Mentre que-
sta mina vagante (l'allievo che cerca vendetta e risarcimen-
to) e il Pop Psychologist rompono il vaso ermetico e attin-
gono a pieni mani nei risultati della putrefactio, portando
all'esterno il conflitto e trascurando il fatto elementare che
tutto nasce da un'esperienza soggettiva degli eventi, il primo
analista, colui contro il quale si scaglia la mina vagante, ha
soltanto una possibilità di scelta, vale a dire il silenzio asso-
luto. Infatti il silenzio soltanto può proteggere quello che è
rimasto del vas hermeticum. Ogni parola, ogni ammicca-
mento significano tradire ulteriormente e inutilmente una
verità che trova il suo senso solo all'interno del campo anali-
tico in cui è stata generata. È nel silenzio che l'analista può
confrontarsi con la propria Ombra, con quell'Ombra che è
stata perennemente evocata all'interno del setting e che ora il
paziente cerca di comprendere non in un confronto con l'an-
tico partner, ma in un luogo ad essa estraneo e da cui non
può giungere adeguata comprensione.
Se tante sono le forme con cui l'Ombra si attiva all'interno
del trattamento analitico e se queste forme sono specifiche
di ogni singolo rapporto terapeutico, di certo le dinamiche
incestuose vi hanno un ruolo importante. Non si dimenti-
chino le accorate parole di Jung su questo argomento, quan-
do suggerisce che è proprio in questa dimensione incestuosa
che prendono vita i sentimenti mirati a tormentare l'anima,
sentimenti di cui bisognerebbe vergognarsi ma che si rico-
noscono poi essere anche i più santi. Essi “Configurano la
somma indescrivibile e inesplicabile dei rapporti umani e
attribuiscono loro una forza perentoria, coercitiva". Natu-
ralmente questa particolare fenomenologia della relazione
ha un senso e un contenuto solo nell'ambito di quel vas her-
meticum costituito dal rapporto analitico dal quale le sfuma-
ture dei fatti e delle parole non possono essere estrapolate.
La lettura che Jung fa dell'aspetto incestuoso del rapporto
analitico, usando le illustrazioni del Rosariùm philo-
sophorum, illustra l'archetipicità di questa situazione e anche
dell'Ombra che in essa si manifesta. Confrontato dolorosa-
mente con la sua Ombra attivata dal temenos analitico, il
terapeuta che è chiamato dalla sua interiorità e non solo da
consacrazioni esterne a svolgere la sua professione, sa rico-
noscerla ed ascoltarla, anche quando quest'ascolto sembra
giungere troppo tardi per riparare ai propri sbagli. Consape-
vole che quest'Ombra, in quanto parte ferita e dolente, è an-
che la sua alleata, colei che gli permette di capire e di par-
lare al cuore di altre persone, l'analista può usare la sua voce
e la sua consapevolezza per rivolgersi forse al cuore di quel-
le persone che, per un destino non del tutto chiaro, hanno
tradito, sotto l'urgenza delle apparenze, il rapporto Io-Tu,
quell'unico luogo deputato ad essere l'alveo naturale del con-
fronto e della spiegazione. Ed è tentando di parlare a queste
persone che mi sembra giusto cercare di capire cosa può si-
gnificare l'intrusione dell'Ombra dell'analista all'interno del
rapporto terapeutico.
L'analisi è sicuramente uno di quei campi dove gli errori
professionali incidono più profondamente sulla vita dell'al-
tro - in questo caso del paziente - scavandovi un terreno di
dolore difficile da superare e trasformare. Questi errori e-
quivalgono per la loro bruciante intensità ai tradimenti subiti
all'alba dell'esistenza, quando si è troppo piccoli per di-
fendersi, quando il totale affidamento nelle mani dell'altro e
l'inesperienza rendono privi di strumenti idonei alla reazio-
ne, spesso cristallizzandola nelle tante forme di disagio psi-
chico. Responsabile di cali errori è proprio quell'Ombra di
cui ciascuno è portatore e che diventa per l'analista - qualora
egli ne sia inconsapevole o, pur essendone cosciente, non
sappia controllarne l'interferenza - una spina dolorosa, una
ferita aperta che rischia di infettare anche il paziente. Molte
possono essere le forme nelle quali quest'Ombra si proietta
in modo inquietante nel rapporto analitico e molte sono le
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cause che ne determinano l'agire. Sicuramente una delle più
frequenti e temibili è l'irrelazione dell'analista con i propri
complessi, l'irrelazione con parti di sé che, irrompendo nella
relazione, si conquistano un'area di espressione. Se l'analisi
si svolge sul terreno degli affetti, il rapporto che ciascuno
dei due partner intrattiene con esse costituisce la sintassi del
loro linguaggio, del loro comunicare.
ccade così che la difficoltà che
l'analista prova nell'entrare in contatto e nell'esprimere la
propria realtà interna possa mutarsi non nell'incomprensione
dell'altro, ma nel suo uso, più o meno consapevole. Brillante
nell'intuire i più segreti movimenti dell'animo del paziente, e
quindi nel rispecchiarlo in una risonanza empatica, questo
analista sembra mancare per sé di tale specchio. Ed è da tale
carenza che nasce per il terapeuta canto il bisogno del pa-
ziente, quanto la sua manipolazione. Una segreta ragnatela
di seduzione avvolge i due partner, una ragnatela filata da
entrambi e non solo, come di consueto, dal paziente che nel
suo transfert ripete modelli infantili, desideroso di conqui-
stare quell'affetto che non ha avuto o ha ricevuto in modo
inadeguato durante l'infanzia. Al filo di questa seduzione
l'analista è incapace di opporre una lettura che la decodifichi
e, in un sentire empatico, riesca ad accogliere e contenere il
desiderio dell'altro, utilizzando la sua energia per la trasfor-
mazione del paziente. Al contrario egli risponde alla richie-
sta di amore e comprensione formulata dal paziente con la
propria domanda, con un chiedere per sé affetto, conteni-
mento, rispecchiamento.
Questo sottile e inquietante gioco al rialzo è marcata-
mente più visibile e destabilizzante quando paziente e ana-
lista sono di sesso diverso, in particolare quando l'analista è
un uomo e il paziente è una donna. Sedurre la paziente, otte-
nerne l'affetto - un affetto che sia rivolto non al ruolo che
egli riveste, ma all'individuo dolente che dietro tale ruolo si
cela - significa creare finalmente un ponte con emozioni
sconosciute, inesprimibili perché da sempre private di un
codice di comunicazione, significa creare un ponte con la
propria infanzia e le sue ferite, significa soprattutto chiedere
alla paziente proprio ciò per cui è venuta in terapia. La ca-
pacità di dare dell'analista, la sua attenzione, la sua com-
prensione, in tal caso non puntano soltanto a creare le condi-
zioni nelle quali la paziente possa curare le sue parti ferite,
possa crescere e crescendo emanciparsi dal quel rapporto
che le è stato necessario, ma è un dare inconsciamente mi-
rato, un dare nelle segreta speranza di ricevere, di essere cu-
rati dalla paziente.
In un illuminante passo di una lettera a Sabina Spiel-
rein, Jung scriveva: "In questo momento Lei dovrebbe ren-
dermi un po' di quell'amore, di quel debito, di quell'interesse
spassionato che ho potuto darLe al momento della Sua ma-
lattia. Ora sono io l'ammalato". Il segreto di ogni seduzione
analitica è racchiuso in questo bisogno, in quest'aspettativa,
in quest'eleggere la paziente a propria salvatrice, non meno e
non diversamente da quanto faccia la paziente nei confronti
dell'analista. Ma invece che salvare ed essere salvati, molto
spesso si finisce non solo per incrinare irrimediabilmente e
distruggere il rapporto analitico, ma anche per imprigionarsi
in una complementare dinamica di rivendicazioni, di richie-
ste, sempre più crudelmente eccessive, una dinamica cieca
nella quale nessuno dei due partner può più veramente aiu-
tare l'altro. Solo pagando di nuovo amaramente il prezzo
della solitudine, solo ritornando dolorosamente a se stessi e
alle proprie ferite, cercando in se stessi il potenziale di cura
è possibile elaborare l'accaduto e, se non riparare l'errore,
riuscire almeno ad utilizzarlo all'interno del proprio cam-
mino di crescita. È all'interno di questa prospettiva che l'ana-
lista, guardando il proprio operato, può cercare di spiegarlo
a se stesso e alla partner, tentando un contatto profondo con
le proprie ferite, contatto che riallacciando con la coscienza
il filo delle emozioni può offrire ad entrambi l'uscirà dal de-
dalo e la via per la trasformazione. Ciò che di questo rap-
porto, delle sue luci e delle sue tante ombre, viene ratto. di-
pende da entrambi i partner. Talvolta essi, assumendosi il
peso doloroso dell'esperienza, possono leggerla come un
momento importante della loro scoria personale, un mo-
mento che sia pure nell'errore e nella sofferenza è divenuto
l'humus di una difficile crescita. In altri casi invece rancori e
delusioni possono costruire un muro che impedisce di la-
sciarsi alle spalle il passato, dopo aver elaborato, per quanto
possibile, ciò che si è vissuto e appreso. Purtroppo non si
comprende che l'odio e il rancore non hanno mai guarito
nessuno.
Aldo Carotenuto
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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