aa.vv. - prospettive sul postmodernismo

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E T E R O T O P I E MIMESIS Collana fondata da Ubaldo Fadini, Paolo Ferri, Tiziana Villani La collana Eterotopie si propone di esplorare un versante importante del pensiero e della realtà contemporanei: quello in cui le trasformazioni, i processi di innovazione tecnica incontrano domande, soggetti, corpi e figure che dal passato sono transitate sino a noi. Si tratta di guardare in modo non dogmatico ma critico il corpo del nostro presente. In questo percorso sono presenti temi e autori che hanno voluto scommettere la propria ricerca nel tempo contraddit- torio del mutamento. La collana ospita testi di filosofia, estetica, antropologia, architettura, che non si limitano a fotografare i problemi ma che intendono costituire un vero e proprio laboratorio di idee, incontri grazie ai quali possa essere possibile la messa in opera di un progetto forte e indipendente dalle mode.

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EETEEROTTOOPP IEEMIMESIS

Collana fondata daUbaldo Fadini, Paolo Ferri,

Tiziana Villani

La collana Eterotopie si propone di esplorare un versanteimportante del pensiero e della realtà contemporanei: quelloin cui le trasformazioni, i processi di innovazione tecnicaincontrano domande, soggetti, corpi e figure che dal passatosono transitate sino a noi. Si tratta di guardare in modo nondogmatico ma critico il corpo del nostro presente.

In questo percorso sono presenti temi e autori che hannovoluto scommettere la propria ricerca nel tempo contraddit-torio del mutamento.

La collana ospita testi di filosofia, estetica, antropologia,architettura, che non si limitano a fotografare i problemi mache intendono costituire un vero e proprio laboratorio di idee,incontri grazie ai quali possa essere possibile la messa inopera di un progetto forte e indipendente dalle mode.

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PROSPETTIVE PROSPETTIVE SUL SUL

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© 2005 – Associazione Culturale MimesisVia Mario Pichi, 3 – 20143 Milanotelefax: +39 02 89403935Per urgenze: +39 347 4254976E-mail: [email protected] e sito Internet: www.mimesisedizioni.itProgetto grafico: Daniela Dalla VignaTutti i diritti riservati.

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IInnddiicceennddiiccee

INTRODUZIONE p. 7

ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONI INCOMPRESESULLA CRITICA DELLA MODERNITÀElizabeth Millàn-Zaibert p. 27

POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZATom Rockmore p. 61

J.F. LYOTARD: LE DIFFÉREND E IL PROBLEMADELLE METANARRAZIONINectarios G. Limnatis p. 79

IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPEROJoseph Margolis p. 109

FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”Valerio Meattini p. 131

L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER, DERRIDAE I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIOChristian Lotz p. 147

TERESA BRENNAN: ENERGETICA E PATOLOGIABettina Bergo p. 173

STRATEGIE POST-MEDIUMRobert Gero p. 197

AUTORI p. 219

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IInnttrroodduuzziioonneennttrroodduuzziioonnee

La ricerca di una definizione semplice e lineare, non soggettaa controversie di sorta, di ciò che si deve intendere con il termi-ne «postmoderno» è certamente un compito difficile se non,forse, addirittura impossibile. Il termine postmoderno indivi-dua, infatti, una categoria che opera secondo una logica inclusi-va dalla struttura a maglie larghe. Per questa ragione è forsenecessario sviluppare una comprensione di ciò che si è solitiindicare con il termine «postmoderno» più che altro alla streguadi un denominatore comune che appartiene ad un numero par-ticolarmente elevato di correnti di pensiero e di approcci meto-dologici, i quali percorrono trasversalmente l’intero spettrodelle scienze umane e sociali. In ragione della mancanza di unpunto di vista unitario capace di determinare con chiarezza ilfenomeno in questione – punto di vista unitario che non vieneindicato nemmeno da quegli stessi autori che definiscono sestessi come «postmoderni» – è più opportuno parlare del post-moderno come di una «condizione», di un vero e proprio «atteg-giamento» che si rivela essere tipico di certi aspetti della culturae della coscienza contemporanea, anziché supporre l’esistenzadi una vera e propria filosofia postmoderna, sistematicamenteorganizzata e in grado di procedere coerentemente.

Se tuttavia è possibile rinvenire alcune caratteristiche comuninel mosaico costituito dai vari atteggiamenti postmoderni, que-ste riguardano certamente una particolare forma di ribellione eresistenza nei confronti del «moderno», le cui origini vengonorintracciate solitamente, e secondo una strategia argomentativache si è per così dire standardizzata, nel periodo illuministico, inparticolare nella fede illuministica nell’idea di progresso, diragione e nello stretto connubio che questa ha intessuto con laconoscenza scientifica.

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Animati da un profondo scetticismo verso questa stretta rela-zione tra ragione, razionalità e scienza, gli autori che si richia-mano al postmoderno sono accomunati dal loro dare espressio-ne a questa specifica diffidenza – che talvolta si converte in unavera e propria opposizione – nei confronti di una ragione capa-ce di costruzioni esplicative di carattere sistematico, il che nondi rado sfocia in una rinuncia e in una negazione della capacitàdella ragione stessa di afferrare e dar luogo a percorsi esplicati-vi complessivi. Questa sfiducia, che colpisce originariamente lepratiche metafisiche, si trasla poi anche nella possibilità di indi-viduare elementi razionali e sistematici suscettibili di guidarepratiche di emancipazione. Rigettare in maniera enfatica unafilosofia capace di coltivare pretese di sistematicità, ripudiare lapossibilità di una storia interpretata con categorie logiche e con-fermare in questo modo l’abbandono del progetto illuministico:in questa direzione il postmoderno indugia sull’analisi dei limi-ti e dei presupposti della ragione che hanno portato il program-ma illuministico stesso al proprio fallimento.

Questi limiti vengono descritti con delle modalità anchemolto diverse tra loro, in termini, per esempio, di orizzonti lin-guistici, di presupposizioni psicoanalitiche ed organizzazionemetodologica. L’idea della possibilità di pensare e parlare dellaverità si eclissa progressivamente all’interno dei diversi para-digmi (giochi) linguistici che, proponendo una concezione lin-guistico-proposizionale soprattutto della mente (Davidson,Rorty, Derrida), riducono l’idea di verità e di realtà rispettiva-mente a coerenza interna del discorso e pratica testuale o adelementi completamente intra-teorici (Paul Feyerabend). Laconcezione di Nietzsche del potere come forza costitutiva dellarealtà umana (Michel Foucault), l’ontologia del desiderio (GillesDeleuze e Felix Guattari), l’importanza dell’evento come ele-mento che precede la teoria (Jean Baudrillard), il primato delladimensione narrativa come elemento fondante le cosiddettemetanarrazioni (Jean-François Lyotard), la metafisica della pre-senza (Jacques Derrida) e tante altre nozioni di questo tipohanno progressivamente soppiantato le tradizionali dicotomieistituite dalla riflessione filosofica sistematica, come per esem-pio quelle relative all’opposizione tra soggetto e oggetto, parte etutto, natura e storia.

Il postmoderno è comunque un evento piuttosto recente nellastoria intellettuale dell’occidente. Come movimento intellettua-

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le è apparso originariamente nel campo dell’architettura e inquello più generalmente artistico nel corso degli Anni ‘50, perfarsi via via sempre più largo nel campo della cultura occiden-tale e per imporsi poi definitivamente una decina di anni piùtardi all’interno delle categorie proprie delle ricerche sociali.Questo fenomeno ha tratto originariamente alimento per unverso dalle profonde trasformazioni socioeconomiche e cultura-li tipiche dei centri capitalistici come queste trovavano espres-sione nelle varie descrizioni della cosiddetta società «post-indu-striale», come pure, d’altra parte, dai problemi sociali e politicia cui le proteste dei tardi Anni ‘60 avevano dato voce e visibilità.Durante gli Anni ‘70 il postmoderno si è lasciato gradualmenteattrarre nell’orbita del post-strutturalismo, orizzonte al cuiinterno si è progressivamente collocato, ibridandosi.

La fase di sua massima espressione e visibilità la si riscontranel corso degli Anni ‘80 e ‘90, soprattutto per effetto del vuotoculturale lasciato alle proprie spalle dal collasso delle roccafortiprincipali della cultura marxista nell’Europa occidentale. E que-sto momento deve essere interpretato in tutta la propria ampiez-za di significato, dal momento che, se da una parte il crollo delmarxismo lasciava aperto un campo teorico da occupare, peraltro verso questa stessa situazione veniva anche a rappresenta-re l’ostensione pratica della potenziale correttezza e adeguatez-za delle fondamentali diffidenze postmoderne verso le teoriesistematiche, identificate nel caso specifico con quelle di stampodialettico, siano esse di impronta tipicamente marxista o hege-liana. La crisi dei paradigmi dialettici ha comportato la formu-lazione dell’ipotesi per cui ciò che si soleva far passare sotto laformula di «razionalità repressiva» (Herbert Marcuse) potesseessere nient’altro che un effetto di ritorno di una interpretazio-ne distorta della dinamica corrente, tanto da abbandonare perun momento l’idea stessa che una pratica di trasformazionefosse davvero necessaria e/o opportuna. Un’indicativa riprovain questo senso è la fama mondiale conquistata da FrancisFukuyama verso la fine degli Anni ‘80 con la sua personalissimae apologetica interpretazione dell’argomento hegeliano dellacoincidenza tra ciò che è in atto e ciò che è razionale. La sensa-zione diffusa in questo frangente storico è stata quella di unarazionalizzazione capitalistica davvero invincibile, per un versoonnipotente e per altro verso tutto sommato non repressiva; perquesta ragione l’impostazione stessa della critica si mostrava,

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nella migliore delle ipotesi, come qualcosa di oramai superfluo.È in questa piega della vicenda della cultura occidentale che siriscontra la fase di massima e frenetica espansione di ciò che siè definito come l’atteggiamento «postmoderno».

Il grande entusiasmo e interesse verso questo fenomenoscema gradualmente a partire dalla seconda metà degli Anni‘90, quando si comincia lentamente a realizzare che le contrad-dizioni del capitalismo continuano ad espandersi con la stessalogica di prima. Si fa largo l’idea per cui il capitalismo stesso,con la produzione di povertà, oppressione, la manipolazionedelle coscienze, etc., rivela il proprio vero volto soprattuttomediante quel fenomeno oggi noto come «globalizzazione». Èqui che gli elementi colti dalle teorie critiche tradizionali trova-no di nuovo un proprio riscontro descrittivo, lasciando cosìintendere che probabilmente non è ancora giunto il momento didichiarare completamente obsoleto quel potenziale critico.

Il postmoderno è stato un fenomeno che è emerso come rea-zione critica nei confronti dell’affermazione del paradigma dellacomplessità (sociale, naturale, storica) e del cosiddetto «crollodelle ideologie»; anche se bisogna anche dire che non può esse-re ridotto soltanto a questo. In esso forse viene alla luce unmovimento di presa di coscienza della filosofia contemporaneanel suo complesso che cerca di prendere le distanze dal propriopassato, dalla metafisica, in particolare quella spiritualistica,dalle tentazioni di fornire una spiegazione ultima della realtà.Per richiamare una celebre espressione di Richard Rorty, ilmondo tradizionale della filosofia è finalmente andato perso e lanostra mente dovrebbe semplicemente porre un freno al suo cer-care di comportarsi come se fosse uno «specchio della natura»come pure alla sua voglia di individuare una qualche traiettoriaspecifica che identifichi e renda leggibile il percorso della storia.

Nel rigetto della sistematicità della ragione e delle sue prete-se predittive o esplicative, il postmoderno rigetta anche l’ideadella possibilità e della plausibilità delle metanarrazioni, ossiaprende le distanze e cerca di screditare la possibilità di una spie-gazione ad ampio spettro della natura e della storia. A questo,per converso, si accompagna la propensione per quello che gliautori che si fanno alfieri dell’atteggiamento postmoderno pre-feriscono nominare elemento narrativo. Si tratta di un’opzionespesa a favore della dimensione relativistica di ciò che possiamochiamare il «raccontare storie», storie indipendenti, separate,

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particolari, che si situano in una condizione di opposizione neiconfronti di qualsiasi forma di rigore teorico. Dopo tutto, nonc’è ombra di dubbio che ogni affermazione teorica, non importaquanto rigorosa e sistematica, non è altro che una descrizionetransitoria, compiuta in un dato momento del corso della storiadell’umanità, così come nessuno dubita che l’umanità non siaaltro che un piccolo elemento interno alla storia evolutiva del-l’universo lunga circa quattordici miliardi di anni. Ad ogni buonconto, l’idea dell’universo è anche una risultante della ragione.Non è quindi facile fare a meno di indicare il confine tra un pen-siero sistematico e uno non sistematico, tra regole di un discor-so e la loro deroga, poiché raccontare una storia è un atto chesegue sempre delle regole. Se il racconto di una storia non èun’affermazione che può essere ritenuta universale, quantosono universalistiche le affermazioni di una teoria? Il solo affer-mare la possibilità del racconto di una storia non è forse già inse stesso un atto teorico e quindi anche già teoria? Affermare l’in-determinatezza non è già un’affermazione determinata? Fino ache punto può essere certa l’affermazione dell’incertezza? Ilpostmoderno quindi prende sempre di più le sembianze di unfenomeno intrinsecamente nichilistico, soprattutto nel suo stre-nuo tentativo di ridurre la mediazione all’immediatezza: noncerca semplicemente una riconciliazione tra mediazione e imme-diatezza, ma cerca la dissoluzione della prima a vantaggio asso-luto della seconda.

Questo dilemma hegeliano, ossia il complesso rapporto traimmediatezza e mediatezza, è rigettato dal postmoderno sinnella propria genesi. Ogni tentativo di dare una risposta a que-sto problema mira proprio all’esatto contrario di ciò che è nelleintenzioni teoriche del progetto postmoderno, poiché le rispostea questo problema riporterebbero necessariamente ai grandiprogetti e alle grandi pretese teoriche del passato. Il postmoder-no non si trattiene nello sforzo di un rigetto sistematico delleteorie precedenti dal momento che il rigetto sistematico sarebbea sua volta un atteggiamento sistematico. Quindi coloro cheperorano la causa del postmoderno non si dimostrano moltointeressati ad offrire una prova logica determinata delle propriepresupposizioni per un tale tentativo che per definizione li por-terebbe ad un pensiero che essi stessi prendono di mira con leloro critiche. Questo non vuol dire che le argomentazioni di que-sti autori siano illogiche o assurde, ma semplicemente che, anzi-

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ché fornire argomenti epistemologicamente stringenti, essi pre-feriscono dimostrare i problemi che vengono dalla loro applica-zione. Il postmoderno è quindi definito come critica immanenteche prende le mosse dall’enfasi per il finito e il relativo e sa, oteme, che, se questo semplice postulato è completamente svi-luppato, porta a una grande teoria o utopia.

*****

Qui di seguito l’attenzione analitica è diretta all’esplorazionedelle caratteristiche epistemiche che accomunano le varie manife-stazioni della sensibilità postmoderna. Tra queste un’importan-za centrale è da attribuirsi al rifiuto delle costruzioni razionali-stiche, della riflessione come strumento di conoscenza e dellanozione di sintesi come tentativo di organizzare le differenzereali all’interno di esposizioni unitarie. I tratti che accomunanole varie posizioni postmoderne sono pertanto rappresentati dal-l’esaltazione del valore della singolarità, della contingenza,della particolarità e dell’immediatezza; tutto ciò, insomma, cheper definizione si oppone drasticamente alla sintesi e alla rifles-sione. A questi elementi è da aggiungerne uno ulteriore, di nonminore rilevanza e strettamente connesso ai primi: l’enfasi postasul sentimento quale strumento di contatto con la realtà e qualestrumento, quindi, di conoscenza, tradizionalmente inteso comeopposto alle strategie conoscitive fondate invece su riflessione esintesi concettuale.

Gli studi qui presentati costituiscono la prima parte di unaricerca condotta da un gruppo di studiosi su scala internaziona-le. Proposito di questa ricerca è stato quello di provarsi a fare ilpunto della situazione nel vasto campo costituito dalle discus-sioni sul fenomeno della postmodernità, indagandola nelle suefondamentali caratteristiche epistemologiche, ossia interrogan-do come la questione del conoscere interseca le varie analisi deiprincipali fautori del postmoderno. Il presente volume, checostituisce la prima parte di questa ricerca, espone questi risul-tati. Il postmoderno è stato indagato anche in relazione ai suoiprincipali effetti di ritorno sulla vita quotidiana, a livello dellestrutture sociali, politiche, come pure nel campo dei fenomeniletterari, musicali e artistici in genere. Per la consultazione diquesti studi si rimanda al secondo volume.

Gli studi presentati qui di seguito sono stati redatti da autori

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di diversa formazione teorica e si impegnano in ricostruzionistoriche, così come nell’esame delle principali differenze sussi-stenti tra la declinazione europea del postmoderno, ancora lega-ta profondamente alla centralità dell’argomentazione filosofica,e la sua versione statunitense che, sull’onda della critica post-moderna all’idea di ragione e in particolare di ragione filosofica,opera una progressivo avvicinamento (fino anche a proporne lafusione) tra filosofia e letteratura. Se il postmoderno può esserericonosciuto innanzitutto come una questione di «stile», diattenzione al «dettaglio» (comunque declinato) e di uso dell’iro-nia, gli studi inclusi in questo volume si sforzano di mostrarecome alle varie forme assunte da questo stile corrispondanospecifiche opzioni teoretiche ed epistemiche.

Il contributo proposto da Elizabeth Millàn-Zaibert affronta unduplice compito: per un verso mostra come l’ironia e il uso siste-matico rappresenti un elemento centrale del pensiero dei post-moderni; per altro verso ripercorre le tracce storiche di questoatteggiamento, mettendo in evidenza come il modello postmo-derno di intellettuale ironico abbia conosciuto altri momentiillustri nella storia del pensiero occidentale, come, per esempio,il movimento dei primi romantici tedeschi. Intento teoreticodella Millàn-Zaibert è rendere visibile come l’uso dell’ironia daparte dei postmoderni costituisca non una semplice questionedi stile fine a se stessa, ma una ben precisa scelta di carattere epi-stemologico, il cui senso consiste nella volontà di procedere auna progressiva «desolidificazione» delle categorie conoscitivedella tradizione. Contrariamente a quanto ipotizzato dalla granparte della critica filosofica ostile al movimento postmoderno,come per esempio da Habermas in Europa e da Dworkin negliUSA, nella lettura datane dalla Millàn-Zaibert tale scelta rap-presenterebbe un tratto progressivo del pensiero postmoderno,piuttosto che un momento di regresso. Nel forzare attraverso l’i-ronia le strutture e gli schemi conoscitivi consolidati nella tradi-zione, l’intellettuale ironico si prova in una sorta di variazionecontinua dei limiti della capacità umana di comprendere lin-guaggi e situazioni. In questa maniera offre, tramite vie dirette eindirette, la possibilità di saggiare i limiti delle nostre strutturelinguistiche e cognitive. La struttura del discorso ironico, per viadel proprio lavorare al limite delle variazioni continue dei signi-ficati, rappresenta anche una potente istanza antisitematica, la cuiutilità e importanza viene ravvisata dall’autrice nella capacità di

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porre un freno alle costruzioni puramente metafisiche e mera-mente speculative della ragione filosofica, le quali per potersicostruire necessitano della disponibilità di contenuti e schemicognitivi stabili. Il secondo proposito che l’autrice intende per-seguire consiste nel mostrare che, se l’uso diffuso dell’ironiarappresenta una delle ragioni che collocano il pensare dei post-moderni in una condizione di presunta non-filosoficità o addi-rittura anti-filosoficità, allora questi ultimi sono storicamente inbuona compagnia. Questa condizione di «esclusi» dall’olimpodel filosofare (sistematico) che si traduce in una accusa di estra-neità alla disciplina, accomuna i postmoderni ai primi romanti-ci tedeschi. Secondo la Millàn-Zaibert anche il primo romantici-smo tedesco, con le proprie ardite sperimentazioni stilistiche econcettuali, ha subito l’ostracismo della filosofia sistematica el’accusa di essere portatore di un «irrazionalismo» di fondocapace di minare l’integrità della ricerca filosofica nel suo com-plesso, in particolare lì dove questo movimento si provava inuna rivitalizzazione delle categorie filosofiche mediante speri-mentazioni che miravano a rendere meno drastici i confini tra ilpropriamente «filosofico» e le dimensioni di elaborazione con-cettuale proprie della creazione artistica e letteraria. In questadirezione l’autrice, partendo dall’analisi di una delle forme piùestreme dell’uso postmoderno dell’ironia (rappresentato dall’o-pera di Richard Rorty), mostra in che modo i due movimentipossano essere letti come figure in un certo qual modo parallelee in che modo essi possano essere letti e interpretati come corag-giose sperimentazioni teoretiche tese ad esplorare ed a raffinareil potenziale critico della tradizione razionalista occidentale.L’ironia – ma soprattutto il suo impiego controllato e commisu-rato alle capacità cognitive umane – è quindi interpretata e pro-posta come strategia di ricerca e stimolo di natura costruttiva,finalizzato all’adozione di paradigmi di razionalità più flessibi-li, lontani dalle grandi costruzioni logico-sistematiche e pertan-to più vicini alle esigenze del particolare e del contingente, ilche, come si è visto in apertura, mostra una profonda coerenzacon quella intima tensione verso il contingente e il particolareche anima la ricerca del postmoderno.

La relazione, molto controversa eppure estremamente impor-tante, tra la conoscenza e il modo con cui le forme di organizza-zione della convivenza vengono di fatto pensate e messe in atto,anima le indagini proposte da Tom Rockmore. In questo contri-

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buto l’autore si sofferma sull’analisi del rapporto che la rifles-sione postmoderna nel suo complesso intrattiene con la nozionedi fondazione e di fondamento, cercando di mostrare in parti-colare come i tentativi postmoderni di pensare al di là e control’idea di esposizione sistematica continuino a muoversi all’in-terno di una struttura epistemica di carattere circolare che affon-da le proprie radici proprio nel modello esplicativo che costitui-sce il loro principale obiettivo critico: l’hegelismo. Indagando leradici storiche dell’opposizione postmoderna all’hegelismo,basata sul rifiuto di istanze fondazionalistiche intese in senso«forte», Rockmore cerca di mostrare come la strategia epistemi-ca di ciò che possiamo chiamare anche il «post-razionalismo»dei postmoderni operi nel campo della costruzione e legittima-zione teorica delle proprie posizioni impiegando una logica, percosì dire, ancora hegeliana nella forma, sebbene risulti indeboli-ta e resa precaria nei contenuti. L’elemento centrale di tale ope-razione è costituito, infatti, dal tentativo profondo e continuo disostituire i modelli di ragionamento deduttivo con una serie dimodelli, la cui pretesa è quella di essere puramente descrittivi enarrativi. L’individuazione di questa caratteristica di fondo delpostmoderno riprende e penetra ancora più in profondità la ten-sione verso il particolare e il contingente, nella pretesa di unasua valorizzazione al di fuori e contro la nozione di totalità.Quest’ultima, in particolare dal punto di vista delle concezionidel vivere organizzato cui dà luogo, viene intesa come pretesadi «organicità» che non riconosce il proprio diritto alla contin-genza e, pertanto, viene letta come la via maestra verso il totali-tarismo. L’identificazione tra una ragione sistematica e unaragione totalitaria è quindi alla radice di questa complessa ope-razione di destrutturazione della razionalità deduttiva con unmodello narrativo, micologico, laddove ciò paradossalmenteporta ad una concezione della totalità (che ancora una voltacomunque è lì, presente) nella forma della giustapposizione dimicrostorie. La valorizzazione dell’elemento narrativo controquello sistematico prenderebbe di mira la possibilità di impie-gare una nozione cosiddetta «forte» (dimostrativa, e quindianche, in un certo qual modo, predittiva) di ragione e raziona-lità. Rockmore mostra la sterilità di questa pretesa postmoder-na, insistendo – sulla scorta di una analisi comparativa tra laprospettiva postmoderna e quella proposta dallo Hegel dellaFenomenologia dello spirito – sulla ineliminabile dimensione stori-

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co-pratica che si trova alla base della strutturazione e della legit-timazione delle varie forme del sapere postmoderno, illustran-do come queste rimandino di continuo ad un’intuizione fonda-mentalmente hegeliana, ossia che la legittimazione delle strate-gie epistemiche è una questione che riguarda la dimensione«pratica». Se l’approccio postmoderno alle strategie conoscitivee alla loro legittimazione parte dal presupposto della necessitàdi un avvicinamento tra sapere ed esperienza, e questa istanzaagli occhi degli autori che nel postmoderno si riconoscono e siinscrivono è pensata come operazione antisistematica e antito-talitaria perché antihegeliana, allora, sulla base della lettura pro-posta da Rockmore, l’intera operazione postmoderna si presen-ta come il risultato di un tanto paradossale quanto gigantescofraintendimento, dal momento che proprio la concezione circo-lare e storico-pratica della legittimazione dell’episteme propostadalla teoria dialettica hegeliana dovrebbe costituire uno deimodelli da cui prendere le mosse e lasciarsi ispirare, anzichéessere considerata come il nemico più terribile da affrontare eabbattere.

Le osservazioni relative alla relazione di fondo, illustrata neisuoi caratteri generali dall’indagine proposta da Rockmore,riscontrabile tra istanze conoscitive e tensioni di tipo socio-poli-tico che sono alla base della necessità di una revisione dei para-digmi conoscitivi classici promossa dalla postmodernità, ritornanelle considerazioni proposte da Nectarios G. Limnatis. Il suocontributo ispeziona e discute in dettaglio le radici teoriche esocio-politiche che motivano l’esigenza lyotardiana di una ride-finizione complessiva della nozione di «sapere» e delle strategiedi legittimazione epistemica e che lo inducono ad introdurre nellessico della filosofia e delle scienze umane contemporanee i ter-mini di «postmoderno» e «postmodernità». L’analisi di Limnatismostra, infatti, come la biografia intellettuale di Lyotard possaessere considerata alla stregua di una sintesi dei principali carat-teri dell’atteggiamento della coscienza postmoderna discussifino a questo momento e, in particolare, come l’idea stessa diuna qualche forma di «ulteriorità» al moderno affondi le proprieradici nell’angoscia generata dalla frammentazione e dalla par-ticolarizzazione delle ristrutturazioni economiche e sociali dellametà del secolo sorso, cui i sistemi dialettici non riuscivano adare risposte. Il postmoderno individua così nei sistemi dialetti-ci il proprio altro e si impegna in un percorso di comprensione

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dell’attualità che, ripudiando l’idea stessa della dialettica e dellasintesi esplicativa, si appoggia non più su un modello di ragio-ne compositiva, quanto piuttosto su una serie di modelli basatisu una logica della giustapposizione. E’ in questa contrapposi-zione che, secondo Limnatis, deve essere individuato il sensoprofondo della ricerca di J.-F. Lyotard, oltre che la ragione percui Lyotard arriva ad affermare un’opposizione fondamentaleall’interno delle strategie conoscitive: l’opposizione tra un sape-re di carattere rigoroso, proprio della scienza, e uno che si strut-tura secondo categorie composte da maglie più larghe, di carat-tere narrativo. L’opposizione tra sapere scientifico e sapere nar-rativo sembra a prima vista esprimere delle sfumature stilistico-comunicative, ma a ben vedere esprime invece uno stato di tota-le alterità, dal momento che questa opposizione viene indivi-duata da Lyotard sotto l’ipotesi della dimostrazione dell’impos-sibilità assoluta di una forma tendenzialmente unitaria delsapere. Questo è il senso che, secondo Limnatis, Lyotard attri-buisce alla nozione di crisi e dissoluzione (precisamente: stato didelegittimazione) delle metanarrazioni. Non ci sono più possi-bilità di composizioni epistemiche capaci di restituire una visio-ne sintetica e complessiva dei processi in atto, il che, per con-verso, vuol anche dire che si è esaurita la capacità della ragionedi comprendere l’attualità come un tutto nella sua complessità.Diventa qui visibile ancora una volta come, de facto, l’atteggia-mento fondamentale della coscienza postmoderna si muova sulterritorio di una concezione volutamente enfatica della singola-rità, della particolarità e della frammentazione, assunte tuttequante sotto l’ottica della propria inderogabile irriducibilità aciò che è altro da sé. Ciò è espressione, fra l’altro, della fugapostmoderna nell’interiorità, un elemento che diventa adessomaggiormente visibile e che è un portato necessario di ciò che siè definito enfasi sul contingente, comunque declinato. Ciò chesalta immediatamente agli occhi nell’analisi della posizione diLyotard è la sua volontà di andare fino in fondo nella scomposi-zione dell’articolazione kantiana delle facoltà conoscitive, oppo-nendo definitivamente la dimensione estetica a quella cognitiva.Alla dimensione estetica è riconosciuta la capacità di cogliere edescrivere (narrativamente) le manifestazioni delle varie formedi «dissidio» presenti nelle modalità di generalizzazione con cui(invano) ci sforziamo di dare un senso coerente alla nostraattualità; si tratta di forme di contraddizione che si manifestano

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ma che risultano, secondo Lyotard, al contempo anche impossi-bili da comporre. Limnatis cerca di mostrare come l’acutizzaz-zione della nozione di dissidio generi in Lyotard l’impossibilitàconcreta di pensare alla costruzione di percorsi collettivi chemirino a una potenziale trasformazione dell’attualità stessa.Queste osservazioni mettono in luce anche, per converso, comeprobabilmente la coscienza postmoderna possa essere letta qualeeffetto di ritorno della frammentazione e della scomposizionereale delle forme di esistenza che si sono gradualmente impostenella contemporaneità per effetto della moltiplicazione delleforme di sapere e della capacità che queste stesse hanno mostra-to di poter provvedere alla legittimazione del proprio status,indipendentemente dalla ricerca di una qualche forma di coe-renza tra le dimensioni del sapere stesso che si possono mostra-re come potenzialmente portatrici di opposizioni reciproche.

Se Lyotard può essere considerato a giusta ragione come l’au-tore di riferimento per eccellenza per quel che riguarda le variedeclinazioni del postmodernismo di matrice europea della finedegli Anni ‘70 e l’inizio degli Anni ‘80, allo stesso modo certa-mente un autore come Richard Rorty può essere considerato ilpunto di riferimento della declinazione filosofica che le temati-che postmoderne hanno conosciuto negli Stati Uniti a partiredalla seconda metà degli Anni ‘80. Le riflessioni proposte daJoseph Margolis sono rivolte all’analisi delle posizioni espresse daquesto autore, nel tentativo di mettere in risalto da una parte laspecificità del postmoderno americano, da un’altra la manierain cui alcune delle caratteristiche sin qui descritte anche in rela-zione a Lyotard, si riproducano e si intensifichino nel pensierodi Rorty. Per Margolis la grande distanza che sussiste tra la ver-sione americana e quella europea del postmoderno può esserecompresa guardando al processo di intensificazione propria-mente americano (nella fattispecie rortyano) di congedo dallafilosofia come disciplina coerente e organizzata attorno a unaserie di criteri stilistici e argomentativi. Il processo lyotardianodi enfatizzazione del ruolo della filosofia, che la relega a disci-plina deputata a cogliere ed esprimere in maniera «originale» ed«efficace» (suggestiva e seduttiva) gli elementi di dissidio e con-traddizione, tende a dissolversi nella ricezione statunitense delpostmoderno in un percorso che porta alla costituzione di unasorta di sapere «post-filosofico», per usare un termine caro allostesso Rorty, in cui l’intera dimensione argomentativa e ostensi-

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va del discorso filosofico deve andare incontro alla propria dis-soluzione all’interno della dimensione «creativa», «letteraria» ein un certo qual modo «edificante» della scrittura e dell’esposi-zione. Margolis presenta questo percorso – e questo è il suosecondo intento – come movimento di progressiva sterilizzazio-ne post- e anti- filosofica di questioni che in origine eranoprofondamente filosofiche. Anche in questo caso il problemafondamentale è rappresentato dal nesso tra sapere filosofico,compito della filosofia e statuto della conoscenza. L’abbandonopost-moderno (post-filosofico) della conoscenza è per Margolisun vero e proprio atto di abdicazione: assumendo Rorty qualeesempio privilegiato di postmodernismo, si evidenzia come unaquestione filosofica ed epistemologica della massima importan-za, ossia la possibilità e la pensabilità della naturalizzazionedella coscienza, divenga la ragione in base alla quale si puòdichiarare esaurito il compito epistemico della filosofia, ceden-do questo compito alla ricerca delle scienze particolari. Ciò cheè propriamente «filosofico» arriva così ad assumere una posi-zione di totale «estrinsecità» rispetto ai problemi di natura cono-scitiva, considerati di stretta pertinenza della pratica e dellaricerca scientifica. Il propriamente filosofico perde così a livellodi principio la possibilità dell’immanenza rispetto alla prassiconoscitiva e quindi, per converso, anche la possibilità di unasua critica immanente. Nel sottolineare come nella posizione diRorty non si dia una esplicita deduzione di questo destino dellafilosofia e come quindi questo resti a livello di una vera e pro-pria petitio principii, Margolis mette in evidenza anche un ulte-riore carattere del postmoderno declinato all’americana: ossia ilsuo portare alle estreme conseguenze, tramite una indebitadecontestualizzazione, alcuni argomenti di natura epistemolo-gica relativi alla indeterminatezza della individuazione del rife-rimento dei termini linguistici e l’indeterminatezza delle opera-zioni di traduzione. Dalla decontestualizzazione di questo argo-mento, la cui natura è filosofica ed epistemica, Rorty arriva aconcludere la dissoluzione della possibilità della comunicazionedel sapere tra campi di ricerca distinti e quindi, ancora unavolta, e in maniera forse ancora più drastica, l’impossibilità diuna unità del sapere e di un discorso sintetico e complessivosulla natura della nostra condizione attuale. In questa piega spe-cifica assunta della riflessione postmoderna si acuisce un trattocaratteristico di questo atteggiamento della coscienza contem-

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poranea: la dissoluzione linguistica della realtà, per cui l’ideastessa che sia possibile pensare una qualche nozione (ancheregolativa) di verità viene messa seriamente in discussione, finoa giungere a un suo progressivo e tendenziale annichilimento.

L’enfasi posta sulla pregnanza delle teorie come elementicostitutivi della realtà in generale e le sue conseguenze dalpunto di vista della caratterizzazione dei rapporti tra culturediverse è al centro delle considerazioni sviluppate da ValerioMeattini che prende in esame forse l’aspetto più caratteristicodell’influenza postmoderna nel campo della filosofia dellascienza: l’anarchismo epistemologico di Paul Feyerabend.L’epistemologia anarchica di Feyerabend, con il suo drasticoridimensionamento delle pretese conoscitive ed egemonichedella scienza moderna vista come marchio delle pretese assolu-tistiche della ragione, cerca di aprire la scienza alla possibilità diun confronto teorico con discipline capaci di moderarne le pre-tese di esaustività e di rigidità rispetto alla maniera in cui biso-gna considerare la nozione di verità. Questo tentativo procedenella direzione di una progressiva integrazione dell’ermeneuti-ca all’interno della filosofia della scienza, auspicando in questomodo un riavvicinamento della scienza alla concretezza dellavita nelle sue dimensioni sensoriali ed emotive. Meattini siprova in una esplorazione della reale consistenza della distin-zione fra verità in senso ermeneutico e verità in senso episte-mologico operata da Rorty, considerandone soprattutto la suaespressione più drastica: la tesi per cui non sarebbe più possibi-le correggere una teoria sulla base dei «fatti», in quanto l’ideastessa di un fatto indipendente da una teoria sarebbe qualcosadi impraticabile. A partire da questo assunto, che molta influen-za ha avuto nel postmoderno americano, Meattini indaga lamaniera con cui Feyerabend ha pensato l’interazione tra culturediverse alla luce del progressivo spostamento teorico di questoautore che originariamente nega l’esistenza di qualcosa comeuna «natura umana», indipendente da un determinato contestoculturale (teoria), per poi muovere nei suoi ultimi scritti versouna posizione che de facto surrettiziamente reintroduce talenozione. L’analisi prende le mosse da una delle assunzioni ori-ginarie del primo Feyerabend, secondo la quale una teoria ècapace di creare i propri fatti, mentre la commensurabilità trateorie è una questione praticamente irresolubile, per mostrareprogressivamente come l’estensione di questa posizione episte-

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mica alla leggibilità delle relazioni interculturali porti a una nega-zione della commensurabilità dei contenuti dei diversi ordina-menti sociali e morali. Come sottolinea Meattini, ciò comporte-rebbe anche una negazione radicale della comunanza di principiodi alcuni momenti fondamentali dell’esperienza umana in quan-to esperienza umana comune, i quali rappresentano fra l’altro lacondizione di possibilità della nascita delle culture e il fondocomune sulla base del quale l’interpretazione interculturale è inqualche modo possibile e praticabile, nonostante tutte le diffi-coltà. L’analisi proposta da Meattini cerca di porre in risalto lanecessità di proseguire nella riflessione e nella ricerca relativa allecondizioni di possibilità della produzione del sapere e dellacomunicazione, in quanto forme della specifica esperienzaumana, in opposizione alle affermazioni più drastiche e rigidedegli autori postmoderni, dove questi ultimi sostengono la nega-zione dell’esistenza di alcuni caratteri intrinseci della naturaumana e dell’esperienza umana, i quali, per Meattini, anzichéessere toto modo creati da una teoria, ne possono invece rappre-sentare il contenuto descrittivo. Queste considerazioni cercano diportare l’attenzione sulla necessità di vagliare con cura l’esisten-za di alcuni elementi limitativi all’affermazione della assoluta irri-ducibilità dei particolari, questione avanzata in alcune (partico-larmente estreme) declinazioni del postmoderno.

L’enfasi sul linguaggio non in quanto elemento fondamenta-le della comunicazione intersoggettiva, ma come condizione dipossibilità in generale della pensabilità delle cose si colloca alcentro delle analisi proposte da Christian Lotz, il quale ravvisanel linguaggio la nuova forma che l’Assoluto assume nella post-modernità. Quella condizione che sino a questo momento èstata descritta come dissoluzione linguistica dell’idea di realtàtrova nelle considerazioni avanzate da Lotz un proprio spaziodi analisi in quanto forma di reazione tipicamente postmodernaalle strette maglie intellettualistiche che la logica dei sistemi pro-dotti dalla razionalità «calcolante» e «strumentale», che defini-scono i paradigmi della modernità, ha imposto al corpo sociale.Secondo l’autore, che si impegna in una esposizione della pro-pria tesi mediante l’analisi delle concezioni espresse da dueautori appartenenti alla cosiddetta filosofia «continentale»,Heidegger e Derrida, questa condizione è alla base del tentativodi recuperare all’interno dei paradigmi postmoderni forme inun certo qual modo «arcaiche» di rapporto al linguaggio e alle

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potenzialità espressive della mente umana, nella fattispecie rap-presentate qui dal paradigma della teologia negativa. Nella pro-pria presentazione delle posizioni di Heidegger e Derrida, Lotzcerca di rendere manifesto come l’interesse odierno per quellache egli chiama la via negativa dell’espressione affonda le pro-prie radici nella necessità di raggiungere una comprensione teo-retica ed epistemica dei limiti costitutivi propri del linguaggio e,per converso, di meglio comprenderne e padroneggiare lepotenzialità generali. Lotz pone in evidenza come le riflessionidi Heidegger, ma ancor più quelle di Derrida, ci facciano coglie-re alcune caratteristiche epistemiche fondamentali dell’espres-sione linguistica, unitamente ai loro limiti. Per quanto questeconsiderazioni mettano enfasi ancora una volta sulla strutturalefinitezza del soggetto umano, leitmotiv strutturale del postmo-derno, come si è già più volte ripetuto, esse hanno anche il meri-to di mettere l’accento su un altro lato, non ancora venuto pie-namente alla luce nel corso di queste considerazioni, del rap-porto tra postmoderno ed episteme e che trova un propriopunto di precipitazione nella grande attenzione riservata alruolo del linguaggio: si tratta della progressiva svalutazione delsoggetto cognitivo che si manifesta (quale retaggio behaviorista)nell’assegnare un ruolo assolutamente marginale al mentalismorispetto alla comprensione delle pratiche epistemiche. Questotratto, che si manifesta di volta in volta in forme più o menomarcate, rappresenta una costante della postmodernità ed èindice riflesso della assunzione a paradigma dominante dellaintrinseca limitatezza del soggetto in ogni sua propria declina-zione, la quale si converte nella esaltazione della passività, cheviene disancorata sempre più dalle disposizioni attive delmedesimo. Dall’essere «parlati dal linguaggio», proprio dellaposizione heideggeriana, sino alle soggezioni più o meno radi-cali verso le diverse forme di alterità, per esempio in chiave etica(si pensi a Levinas) o anche epistemica (dall’indeterminazionedel riferimento di Quine, quella della traduzione di Davidson,per finire in un contesto molto differente alla inesauribilità deldiscorso basata sulla chiusura tendenzialmente sempre ancoradel discorso in Derrida), l’enfasi sulla parzialità e sulla finitudi-ne è talmente forte da rischiare di convertirsi continuamente inuna forma di esaltazione della frammentazione e della sogge-zione impotente. Queste posizioni esprimono tuttavia un poten-ziale ambivalente. La condizione di precarietà del soggetto post-

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moderno, che in esse si esprime, presenta i limiti delle capacitàlinguistico-comunicative umane, che, in quanto tali, segnalandoun limite, e quindi la zona al di là della quale l’impresa episte-mica diventa insicura. Ma al contempo, in quanto limiti e confi-ni, segnalano anche i tratti al cui interno è possibile riprendere esviluppare le ricerche sul potenziale della ragione in vista di unsuo ulteriore affinamento. Ripartire da questi limiti significapoter pensare una teoria della soggettività che sia all’altezza diprendere atto dell’impossibilità di intendere – se non come meropostulato metafisico e atto puramente volontaristico – il sog-getto come assolutamente autocentrato e totalmente trasparentea se stesso, ma come soggetto intra- e intersoggettivo, caratte-rizzato da una tensione essenziale verso la socialità e pertantoassolutamente irriducibile a visioni monadiche e atomistiche,come quelle proposte dalle varie declinazioni del liberalismo edel neoliberalismo contemporanei.

Nella fase storica caratterizzata dalla condizione postmoder-na non sono mancati tentativi di riformulare le nozioni inter-pretative fondamentali della soggettività umana, come peresempio dimostra la nascita e lo sviluppo della psicoanalisi. Inrelazione alla genesi, allo sviluppo e alla strutturazione dellapersonalità soggettiva, le considerazioni proposte da BettinaBergo riportano l’attenzione a un momento della vicenda dellariscrittura dei paradigmi epistemici fondamentali della psicoa-nalisi, ossia l’interpretazione della etiologia della personalitàisterica, rispetto alla quale il contributo di una importante teori-ca della disciplina, Teresa Brennan, è stato – a parere della Bergo– ingiustamente messo da parte. Tramite la lettura della posi-zione della Brennan, Bettina Bergo cerca di illustrare le modalitàcon cui sarebbe possibile conseguire una teoria naturalisticadella personalità, ma non biologistica e non riduzionistica. Lanozione chiave che viene qui esplorata è quella di «energetica»come movimento vettoriale e direzionato di energia psichica,responsabile delle modalità attuative dell’attenzione primariadel soggetto e pertanto anche delle fasi di sviluppo e matura-zione della personalità in generale sin dai primi momenti dellavita post-uterina. Secondo la Bergo questa posizione dellaBrennan apre il campo a una duplice operazione: da una parteoffre una interpretazione più efficace dell’isteria come condizio-ne «trans-generica» rispetto a quanto abbia proposto la psicoa-nalisi freudiana; per altro verso rappresenta una teoria che, per

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il proprio taglio genealogico, si presta a una interazione piùdiretta con le ricerche di carattere neurocognitivo sulla mente,pur mantenendo una posizione non riduzionistica. Inoltre, sem-pre a parere della Bergo, l’ipotesi teorica della Brennan che pro-pende per un recupero della nozione di «energetica», rappre-senta per le sue attinenze con la nozione di attenzione da unaparte e di corporeità dall’altra, un importante tentativo di met-tere in comunicazione la declinazione merleau-pontyana dellafenomenologia husserliana e al contempo di porre da un puntodi vista metodologico la riflessione filosofica impegnata con lanozione di soggettività a più stretto contatto con la dimensionecorporea del soggetto stesso.

L’attenzione per un’altra dimensione logica nascosta, e tutta-via operativa, caratterizza il contributo presentato da RobertGero, che si propone di analizzare la struttura della «creazione»artistica secondo l’impostazione di uno dei più importanti teori-ci del postmoderno: Gilles Deleuze. Secondo questo autore l’o-pera è posta in essere dall’azione di elementi non teoretici e fon-damentalmente non concettuali che egli illustra all’interno dellapropria nozione di diagramma, come gioco anonimo di forzeche trovano il proprio baricentro nei materiali e non nella mentedell’autore. Questa descrizione si mostra coerente con alcuni deitratti del postmoderno qui esposti, ossia la dimensione più omeno antimentalistica tesa a conseguire un ridimensionementodella soggettività cognitiva e il conseguente ridimensionamentodel pensiero razionale e concettuale, per privilegiare momenticontingenti e frammentati. Gero avvia la propria analisi espo-nendo il progressivo trasformarsi delle concezioni relative allanatura del manufatto artistico che danno luogo a una modalitàdi concepire il materiale artistico in maniera altamente deconte-stualizzata. Questo elemento rappresenta ciò che l’autore indicacome convenzione post-medium – una concezione per cui vengonomesse gradualmente da parte le aspirazioni moderne tese aporre in risalto la purezza del materiale artistico, come anche ilsuo risultato, per privilegiare una logica della contaminazione edell’impiego in chiave artistico-espressiva di intere componentidella realtà sociale, compresi anche elementi di creazioni artisti-che precedenti. La struttura della creazione è illustrata ricorren-do alla nozione deleuziana di diagramma che rappresenta almassimo grado la tensione postmoderna al privilegiamento dimomenti spontaneistici, emotivi e a-soggettivi (nel senso di

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estranei alla dimensione concettuale e inferenziale del soggettocosciente, quindi anti- ed extrariflessivi) che da Deleuze sonoriconosciuti come determinanti per l’insorgere dell’opera. Nellasua analisi Gero illustra, ricorrendo alle posizioni esposte da Kante da Peirce, come tuttavia alla logica dell’opera d’arte non restinoestranei momenti teoretici, dal momento che la genesi dell’operastessa, anche se posta in essere grazie all’azione di strutture a-sog-gettive, contempla elementi teoretici che ne possono sancire il fal-limento. L’intento di Gero è quello di mostrare come la strutturaillustrata da Deleuze colga diversi elementi di verità, ma anchecome questa stessa struttura abbia un proprio elemento di debo-lezza, che è costituito dall’eccessiva svalutazione della dimensio-ne teorica che, anche se ridimensionata, continua a costituire unaparte essenziale dell’opera intesa nella sua completezza. Se lafruizione e la leggibilità dell’opera, anche la più astratta, fa partedella nozione di opera stessa, allora siamo posti innanzi allanecessità di guardare alla leggibilità come componente teorica,capace di determinare in maniera non marginale il successo dellasua comunicazione espressiva oppure il suo contrario, cioè il fal-limento dell’opera stessa nel suo complesso.

Questa riflessione ci riporta attraverso una tappa senz’altrooriginale al punto da cui, in un certo qual modo, si sono prese lemosse: la funzione ambivalente dei tentativi della coscienza post-moderna di effettuare sperimentazioni sempre più ardite con ilimiti della comprensione umana. Come si è detto a proposito del-l’analisi della funzione potenzialmente progressiva attribuita daMillàn-Zaibert all’impiego diffuso dell’ironia, questo tipo di spe-rimentazione può essere assunto in maniera valida e propositivase resta all’interno di un’esplorazione tesa a saggiare e raffinareprogressivamente le potenzialità della ragione, così come le cate-gorie interpretative e cognitive che da questa derivano. Tuttavia,incombe il pericolo di un’assolutizzazione di questo metodo, ilquale apre le porte a posizioni potenzialmente foriere di caratteriregressivi e parcellizzanti, poiché, laddove si esaurisce la possibi-lità di esercitare la comprensione, si estingue anche quella di rea-lizzare vari tipi di comunicazione e di istituire così facendo undiscorso che, in qualche modo, ci parli di un «noi».

Nectarios G. Limnatis – Luigi PastoreNew York – Bari

settembre 2005

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I curatori colgono questa occasione per ringraziare tutti quel-li che hanno reso possibile questa ricerca e la pubblicazione deisuoi risultati, in particolare un sentito ringraziamento è rivoltoalla dott.ssa Chiara Lausetti per aver collaborato alle traduzionidei lavori di Elizabeth Millàn-Zaibert, Joseph Margolis,Christian Lotz, Bettina Bergo e Robert Gero la prima, e al dott.Fabio Fino per aver collaborato alle traduzioni dei lavori di TomRockmore e Nectarios G. Limnatis il secondo. Le traduzionisono state interamente riviste e curate da Luigi Pastore, che sene assume la responsabilità. Un particolare ringraziamento è vaanche a Sara Dellantonio, senza il cui aiuto tutto sarebbe statopiù complicato.

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RRomanticismo e posomanticismo e postmodertmoderno:no:vvarariazioni incomiazioni incomprprese sullaese sullacrcritica della moderitica della modernitànità

diElizabeth Millàn-Zaibert

TTanto il primo romanticismotedesco quanto il postmo-

derno possono essere considerati come portatori di una sfidaradicale a quelle che possiamo indicare come le «concezionidominanti» all’interno della pratica filosofia; una sfida radicaleche si muove nella prospettiva di guadagnare un atteggiamentofilosofico di nuovo tipo, capace di valorizzare la relazione traletteratura e filosofia. Non deve sorprendere allora che ciascunodi questi movimenti sia stato oggetto di considerazioni sprez-zanti da parte di quei filosofi che, ognuno nel proprio tempo,hanno identificato la filosofia con le tendenze dominanti. Direcente Richard Rorty ha suggerito che:

il termine Spinoziano è stato una volta ciò che oggi è Postmoderno– il peggior insulto che un intellettuale possa rivolgere a un altro1

Per indagare il significato profondo di ciò che, a prima vista,potrebbe sembrare nulla di più del solito commento provoca-

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1 R. Rorty, Rewiew of Bernard Williams: Truth and Truthfulness: an Essay inGenealogy, in: London Review of Books, 31 Ottobre 2002, pp. 13-15. Rorty faquesta osservazione in riferimento all’opera di Jonathan Israel, RadicalEnlightenment: Philosophy and the Making of Modernity 1650-1750 ( Oxford:Oxford University Press ). Lo studio di Israel è uno dei maggiori contribu-ti della storia del pensiero, in un periodo che fu decisivo allo sviluppo diidee che continuano a dar forma alla società: offre prospettive nuove e affa-scinanti circa l’importanza e la rilevanza di Spinoza. Il mio scopo in questosaggio è molto più limitato di quello di Israel e mi concentro solo su quel-lo che era una piccola parte di ciò a cui si riferiva il termine Spinoziano.

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torio da parte di Rorty, bisogna risalire alla discussione che hadato origine in Germania all’uso del termine «spinoziano» allastregua di un vero e proprio insulto (Schimpfwort): si trattadella nota diatriba tra Moses Mendelssohn e FriedrichHeinrich Jacobi. Questa discussione ha avuto importanza cru-ciale per un gruppo di giovani pensatori che in quel tempo sta-vano sviluppando un modo proprio e indipendente di farefilosofia, ossia i primi romantici tedeschi.

I primi romantici tedeschi si erano impegnati in un lavoro didestabilizzazione delle forme consolidate con cui la filosofiatedesca si manifestava verso la fine del XVIII secolo. I lorometodi sperimentali generalmente non erano accettati comeautenticamente «filosofici», e ben presto divenne una sorta divera e propria battuta intellettuale l’apostrofare qualcosa cheera ritenuto non chiaro o addirittura incomprensibile come«qualcosa scritto da Schlegel»2. I primi romantici, con il lorostile ironico e sovversivo, erano considerati, nella miglioredelle ipotesi, alla stregua di un elemento di disturbo e, nellapeggiore, come una minaccia per l’integrità della filosofia.Oggi, circa duecento anni dopo la controversia che diede ori-gine in Germania all’uso di «spinoziano» alla stregua di uninsulto, i postmoderni si trovano nella condizione di essere inuovi emarginati. Si ripetono ancora una volta al loro indiriz-zo le derisorie accuse d’incomprensibilità: basti pensare ai«generatori postmoderni» presenti nella rete internet, usati perprendersi gioco del valore del movimento.

In queste pagine ho intenzione di occuparmi della ragioneper cui tanto i primi romantici tedeschi quanto i postmoderni,fatte salve tutte le loro differenze, si sono trovati a condivide-re il (dis)onore di essere considerati alla stregua di una minac-cia rivolta al futuro della filosofia.

Tanto i primi romantici tedeschi quanto i postmoderni auspi-

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2 «Was man nicht versteht hat ein Schlegel geschrieben», cfr. Friedrich SchlegelKritische Ausgabe (KA) vol. II, p. xcviii. D’ora in poi l’editio princeps dell’o-pera di Schlegel sarà indicata con la sigla KA. Alcuni dei frammenti diSchlegel sono stati tradotti da Peter Firchow in: P. Firchow (a cura di),Friedrich Schlegel: Philosophical Fragments, Minnesota University Press,Minneapolis 1991. Nel seguito si farà riferimento, specificandolo di volta involta, anche a questa edizione.

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cano una riforma radicale della filosofia e in entrambi i movi-menti si possono ravvisare elementi di criticismo intuitivo.Ciononostante i contributi dei romantici e dei postmoderni sonostati continuamente fraintesi, se non direttamente deprecati, nonsolo come non-filosofici, ma addirittura come anti-filosofici.

Sembra che l’ironia, lo strumento fondamentale su cuientrambi i movimenti fanno leva, sia una specie di lama a dop-pio taglio: si tratta di uno strumento impiegato per rendere cri-tico il dispositivo argomentativo proprio della filosofia. Dalmomento che, però, per mezzo dell’ironia l’autore si trova agiocare con i limiti della comprensione, le possibilità di darluogo a seri fraintendimenti si moltiplicano, mettendo così arischio la comprensibilità stessa del discorso ironico. Sia iprimi romantici tedeschi che i postmoderni intendono pro-muovere un visione critica delle modalità di impiego del lin-guaggio (pur non volendo, certamente, renderlo incomprensi-bile). L’uso dell’ironia determina un’oscillazione dei significa-ti tra il «detto» e il «non detto», obbligando in questo modo lacomprensione stessa a farsi carico di questa oscillazione delsignificato. Considerato da questa prospettiva, l’uso efficacedell’ironia non dipende soltanto dall’autore, ma necessitaanche di un certo grado di agilità mentale da parte del pubbli-co. E se i destinatari del messaggio ironico sono filosofi, sicu-ramente emergeranno problemi sull’orizzonte ermeneutico. Lacomunità filosofica è in grado di comprendere (o quantomenodi apprezzare) il filosofo che si esprime in modo chiaro e con-ciso, presentando i propri argomenti attraverso una concate-nazione diretta di premesse e conclusioni (così si presenta l’af-fidabile linguaggio della scienza). Al contrario, sono pochi ifilosofi disposti a concedere spazio alle figure retoriche propriedell’ironia (spaventosi espedienti letterari) nel campo dellafilosofia, anche se tali figure retoriche fanno parte di un’orche-strazione critica che potrebbe condurre a una riforma delcampo della filosofia, permettendo a questa disciplina diaffrontare nel modo migliore gli antichissimi problemi dellaverità, della bontà e della bellezza.

Lo stereotipo su cui si basa il modo tradizionale di intende-re la filosofia, collocandola sullo stesso piano della scienza eseparandola dalla poesia, è quello che pretende che i filosofi, alpari degli scienziati e dei matematici, si interessino alla veritàe alla realtà, laddove poeti sarebbero coloro che restano abba-

29ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

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gliati dalle apparenze, che altro non sono se non imitazionidella realtà.3 Avvicinare la filosofia alla poesia, favorirne la fio-ritura retorica (dopo tutto la retorica è nulla più che ars benedicendi e la filosofia non è certo un’arte, quanto piuttosto unascienza) significa abbandonare la cara compagnia dei filosofiper accompagnarsi con quella più malfamata di coloro che nonimpiegano il linguaggio allo scopo di rivelare la verità, quantoinvece allo scopo di persuadere, come i sofisti, o di ingannare,come i poeti.4 Il carattere della filosofia americana sicuramenteporta il marchio di quest’idea, cioè che la filosofia dovrebbeaspirare ad essere qualcosa di simile a una scienza e dovrebbesradicare quegli elementi letterari che la distraggono dai suoiobiettivi scientifici. Come ha fatto rilevare Rorty:

i positivisti logici […] studenti addestrati ad ignorare la fantasia ead individuare il nonsenso. Nello spazio di due generazioni, […]l’aridità ha trionfato […] sulla fantasia. La filosofia, nel mondoanglofono, è diventata «analitica» – antimetafisica, aromantica, alta-mente professionale e una stagnazione culturale5

Per Rorty l’unica via d’uscita da questa situazione di stallo èil prendere atto che la filosofia sarebbe descritta meglio come ungenere di scrittura. Essa è definita, come ogni genere letterario,

30ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

3 Questo tipo di argomento critico nei confronti della poesia è sviluppato inPlatone. Cfr. Platone, Repubblica, libro X, in particolare 595a-602b e 607b-d.Le opinioni di Platone sulla natura e l’importanza della poesia sono pregnedi ironia socratica e perciò non sarebbe giusto considerarlo quale un veronemico dell’arte, comunque la sua critica dell’arte è parte di una tradizioneche ha dato forma alla filosofia occidentale. L’«antica diatriba tra filosofia epoesia» alla quale Socrate fa riferimento nel Libro X (607b-c) dellaRepubblica, si risolve a favore della filosofia, modellata sui metodi dellascienze naturali. Questa tendenza si manifesta chiaramente nel periodomoderno della filosofia: nell’Europa Continentale, Descartes, Spinoza eLeibniz si rivolsero alla matematica come ad un modello in grado di garan-tire verità assolute e necessarie.

4 Cfr. M. Frank, Über Stil und Bedeutung: Wittgenstein und die Frühromantik, in:Id., Stil in der Philosophie, Reclam, Stoccarda 1992, pp. , dove si dice che lapoesia non è persuasiva, dal momento che è pura retorica. Novalis addirit-tura afferma: «Le più nobili opere d’arte sono, pure e semplici, non lusin-ghiere – sono ideali che possono e dovrebbero dare piacere soltanto nel-l’approssimarsi ad esse - sono imperativi estetici.»

5 R. Rorty, The Necessity of Inspired Reading, in: The Cronicle of Higher Education,Vol. 42, argomento 22, febbraio 1996, p. A 48.

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non dalla forma o dal soggetto, ma dalla tradizione – una fami-glia romanzesca di cui fanno parte papà Parmenide, l’onestovecchio zio Kant e il fratello cattivo Derrida – in altre termini ifilosofi devono riportare la loro attenzione sul valore di ciò che,sotto l’influenza del positivismo logico, è stato interpretatocome un fuorviante nonsenso.6 Un elemento importante versocui sarebbe opportuno ritornare a dirigere nuovamente l’atten-zione è l’ironia. Nell’esaminare la relazione tra i romantici e ipostmoderni, mi propongo un duplice intento. In primo luogoritengo che valga la pena gettar luce sugli aspetti romantici delmodernismo: con i primi romantici tedeschi compare una primacritica del modernismo, una critica che non è già postmoderna,ma che potrebbe benissimo aver dato adito a possibilità chevengono oggi sviluppate da alcuni pensatori postmoderni. Insecondo luogo con i romantici vengono alla luce alcune impor-tanti intuizioni relative al valore filosofico dell’ironia, il cuipotenziale critico, data la sua relazione con la retorica, continuaad essere sottovalutato dai filosofi.

Postmoderno: pro e contro

Uno dei problemi che riguardano il discorso sulla relazionegenerale tra romanticismo e postmoderno è l’incredibile nume-ro di autori e di punti di vista che possono essere rubricati sottoquesta generica definizione. Ronald Jacobs e Philip Smith, nelloro lavoro Romance, Irony, and Solidarity, discutono i problemiche inevitabilmente sorgono quando si vuole discutere la rela-zione tra il postmoderno e l’elemento storico di cui è parassita,il moderno

ci rendiamo conto che il dibattito tra modernismo e postmoderno èuno di quelli in cui le due parti non possono concordare né sui ter-mini, né sugli argomenti, né sui principi di valutazione7

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6 R. Rorty, La filosofia come genere di scrittura: saggio su Derrida, in: Id.,Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 107-123, in parti-colare pp. 108-109.

7 R.N. Jacobs – Ph. Smith, Romance, Irony, and Solidarity, in: Sociological Theoty,Vol. 15, n. 1/1997, pp. 60-80, citazione p. 71, nota 19.

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Secondo Jacobs e Smith, data l’ampio spettro di posizioni eargomentazioni che cadono sotto la definizione di postmoder-no, quest’ultimo non è un termine descrittivo efficace, ma essistessi aggiungono: «ciò che hanno in comune praticamente tuttele teorie postmoderne è la figura dell’ironico».8 Jacobs e Smithproseguono equiparando i tratti ironici con la figura del burlo-ne o dell’imbroglione, la cui imprevedibilità incarna il disordinee la contingenza propria della periferia e che con le sue masche-re e i suoi trucchi tende a minacciare la stabilità delle categorieesistenti. Tornando a considerare la critica romantica dell’illu-minismo, che a mio modo di vedere è una delle prime critichedel modernismo, spero di mostrare che, se è vero che la figuradell’ironico minaccia la stabilità delle categorie esistenti, questaminaccia non ha necessariamente come obiettivo specifico lafilosofia in se stessa; sarebbe più corretto dire che questa minac-cia fa parte di un movimento critico di tipo produttivo. Vale lapena porre in evidenza il potenziale produttivo del postmoder-no dal momento che negli Stati Uniti è sorto un movimento diopposizione al postmoderno, che lo interpreta come una spintaverso l’abbandono di nozioni come verità e oggettività (e se cosìfosse non potrebbe certamente trattarsi di un movimento pro-duttivo). Consideriamo, per esempio, il monito di RonaldDworkin:

esiste forse una verità oggettiva? O dobbiamo definitivamenteaccettare il fatto che, in fondo, filosoficamente parlando, non esistealcuna verità «reale» o «oggettiva» o «fondazionale» o «di fatto» o«corretta» a proposito di alcun argomento e che, anche le nostreconvinzioni più profonde riguardo ciò che è accaduto in passato ociò da cui è costituito l’universo o chi siamo o che cosa è bello o chiè malvagio, sono solo convinzioni personali, convenzioni, ideolo-gie, simboli di potere, solo regole del gioco linguistico che sceglia-mo di giocare, solo il prodotto della nostra irreprimibile disposizio-ne ad ingannare noi stessi che abbiamo scoperto, là fuori, in qual-che mondo esterno, oggettivo, senza tempo, indipendente dallamente che, in realtà, abbiamo inventato noi stessi, secondo il nostroistinto, la nostra immaginazione, la nostra cultura? Quest’ultimopunto di vista, che viene chiamato con termini come «postmoder-

32ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

8 Ivi, p. 72.

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no», «antifondazionalismo» e «neopragmatismo», domina lo stileintellettuale oggi in voga9

Se bisogna prendere sul serio le preoccupazioni di Dworkin(per usare una delle sue frasi preferite), ritengo però che eglimetta insieme in modo troppo sbrigativo tre movimenti che nonsi implicano a vicenda e che compia delle generalizzazioni trop-po affrettate relative a tutte e tre le fattispecie in questione.10

L’antifondazionalismo non ha bisogno di abbandonare la conce-zione di una verità oggettiva: i primi romantici tedeschi eranoantifondazionalisti e se il loro scetticismo nei confronti dei fon-damenti li ha portati a riflettere sui nostri limiti epistemologici,non li ha certo condotti a un rifiuto dell’oggettività o dellaverità. Riconoscere le nostre limitazioni epistemologiche nonsignifica necessariamente imboccare la via della negazione del-

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9 R. Dworkin, Objectivity and Truth: You’d Better Believe It, in: Philosophy andPubblic Affairs, n. 2/1996, pp. 87 – 139, citazione a p. 87.

10 Condivido comunque alcune delle preoccupazioni a cui Dworkin dà voce.Egli espone con cautela i problemi creati da quei pensatori che accettanotroppo facilmente una posizione di indeterminazione relativamente allenostre affermazioni di verità. Tale posizione è piuttosto differente dallaposizione secondo la quale le affermazioni di verità non possono avere maicertezza assoluta ma solamente gradi maggiori o minori di probabilità. Iprimi Romantici Tedeschi appoggiano una visione coerentista della veritàma ciò non implica, in nessun modo, una rottura con il concetto di oggetti-vità. Se certi pensatori postmoderni vogliono abbandonare l’oggettività,per una visione della verità come di un qualcosa di irrimediabilmente rela-tivo ed indeterminato, allora non posso che fare eco alle preoccupazioni diDworkin: «vogliamo vivere vite decenti e che valgano qualcosa, vite a cuipoter guardare con orgoglio e non con vergogna. Vogliamo che le nostrecomunità siano oneste e buone e che le nostre leggi siano sagge e giuste.Questi sono obiettivi enormemente difficili, in parte perché i temi in giocosono complessi e imbarazzanti. Quando ci dicono che qualsiasi convinzio-ne lottiamo per raggiungere non può, in ogni caso, essere né vera né falsa,o oggettiva o parte di ciò che sappiamo o che tali convinzioni non sono chemosse di un gioco linguistico, o soltanto vapori prodotti dal turbine dellenostre emozioni, o solo progetti sperimentali da mettere alla prova, pervedere come ci troviamo con esse, o soltanto un invito a pensieri chepotremmo trovare divertenti o di intrattenimento o semplicemente menonoiosi dei modi in cui solevamo pensare, dobbiamo rispondere che questisuggerimenti denigranti sono tutti falsi, semplicemente cattiva filosofia.Ma queste non sono che inutili, non proficui ed estenuanti fastidi e dobbia-mo sperare che gli spiriti inerti della nostra epoca, che li nutrono, prestovengano sollevati» (ivi,p.139).

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l’esistenza di una realtà indipendente dalla mente. Purtroppo,bisogna anche dire che alcune delle peggiori paure di Dworkinsono fondate e, anche coloro che vogliono sottolineare il poten-ziale critico del postmoderno, devono fare i conti con quelledebolezze del movimento che potrebbero minare tale potenzia-le; un abbandono sconsiderato della nozione di verità e di quel-la di oggettività è certamente qualcosa che bisogna evitare all’in-terno di ogni movimento filosofico. La mancanza di un’attentaconsiderazione della dimensione storica della filosofia dovrebbemetterci in guardia, specialmente se obbiettivo teorico propriodi un determinato movimento filosofico è la critica di quel chela filosofia ha saputo produrre in passato.

Jürgen Habermas, che condivide il profondo scetticismo diDworkin nei confronti del potenziale critico del postmoderno,mette in discussione la mossa di Jacques Derrida per cui biso-gnerebbe invertire la relazione che tradizionalmente la retoricaha avuto con la logica, senza prestare seriamente attenzione auna tradizione filosofica produttiva in cui un tale spostamentoaveva già avuto luogo, ossia la tradizione ermeneutica: la lineache va da Dante a Vico, passando per Hamann, Humboldt eDroysen, per giungere sino a Dilthey e Gadamer, con lo sposta-mento dell’attenzione filosofica sull’atto stesso della compren-sione.11 Habermas prosegue affermando che l’inversione dellarelazione tra logica e retorica ha privato la filosofia della propriacapacità di risolvere problemi, di essere produttiva e addirittu-ra di essere una seria disciplina scientifica.

Per quanto sia difficile produrre una definizione del postmo-derno in grado di rendere giustizia alla straordinaria varietà difigure e di idee che in essa dovrebbero essere contenute, è pos-sibile, quantomeno, affermare che modernismo e critica sono

34ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

11 J. Habermas, Excursus sul livellamento della differenza specifica tra filosofia e let-teratura, in: Id., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1988,pp. 189-214, «Derrida ha un particolare interesse a capovolgere il primatodella logica sulla retorica, già canonizzato da Aristotele. Derrida non si ècerto occupato di tale questione controversa dall’ovvio punto di vista dellastoria della filosofia. In tal caso egli avrebbe dovuto relativizzare il valoredi posizione del suo proprio progetto a quella tradizione che si è formatada dante fino a Vico, e che è stata mantenuta viva, attraverso Hamann,Humboldt e Droysen, fino a Dilthey e a Gadamer» (ivi, p. 191).

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due elementi che dovrebbero risultare determinanti in ogni ana-lisi di questo movimento. Coloro che si sentono particolarmen-te vicini al postmoderno, come per esempio Ernst Behler, lodescrivono proprio nei termini di una prosecuzione critica dellamodernità:

il postmoderno non è né un superamento della modernità né unanuova epoca, ma una continuazione critica della modernità che è, diper sé stessa, sia critica che criticismo. Il criticismo si rivolta ora con-tro sé stesso e il postmoderno diventa, di conseguenza, una versio-ne radicalizzata ed intensificata del modernismo, come sembrereb-be implicare una certa sfumatura semantica del prefisso post. Unparagone del postmoderno con la nozione di avanguardia sembraconfermare questa impressione, poiché il termine avanguardia ci dàchiaramente l’idea di un superamento, di un avanzamento, di uninnovazione orientata verso il futuro, mentre l’atteggiamento retro-spettivo del postmoderno sembra metterlo in relazione con il pas-sato, seppure attraverso l’autocritica e il dubbio12

È proprio lo sguardo critico sul passato che ha portato alcuniautori a criticare il postmoderno come l’araldo della «fine di»(della modernità, della metafisica o addirittura della stessa filo-sofia). Il segno distintivo del postmoderno è diventata la «sfidu-cia nella metanarrazione», la cui definizione più nota si trovanell’opera di Jean Francois Lyotard La condizione postmoderna:rapporto sul sapere.13 Questo libro, più di ogni altra singola opera,ha ispirato gran parte della discussione sul postmoderno sia inEuropa che negli Stati Uniti. Nel suo controverso saggio intito-lato Liberalismo borghese postmoderno Rorty radica la sua visionedel postmoderno nel pensiero di J.-F. Lyotard:

uso «postmoderno» nel senso attribuito al termine da Jean-FrancoisLyotard, per il quale l’atteggiamento postmoderno è quello della«sfiducia nelle metanarrazioni», narrazioni che descrivono o predi-cono le attività di entità come l’io noumenico, lo Spirito Assoluto oil Proletariato14

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12 E. Behler, Irony and the Discorse of Modernity, Washington University Press,Seattle 1990, p. 5.

13 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.14 R. Rorty, Liberalismo borghese postmoderno, in: Id., Scritti filosofici, vol. 1,

Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 265-272, citazione a p. .

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Malgrado questa affermazione, Rorty non è completamentefedele a questo uso del termine «postmoderno». Certamente lacritica di Habermas alla posizione di Rorty nell’articolo sopracitato ha portato Rorty a «pentirsi di aver mai usato il terminepostmoderno».15 Le etichette non sembrano essere importantiper lui e il suo progetto filosofico riguarda il problema di «chegenere di cultura potrebbe trovarsi alla fine del sentiero sulquale noi, intellettuali liberali, ci siamo mossi a partiredall’Illuminismo?»16

Rorty vuole liberare questa via da ciò che lui chiama «bastio-ni kantiani», quei pilastri che includono una definizione di«razionalità» e «moralità» come entità transculturali e astoriche(potremmo anche definire questi pilastri metanarrazioni). Rortymette a confronto la sua versione del liberalismo con il liberali-smo tradizionale filosofico, che lui indica come una raccolta diprincipi kantiani concepiti per darci la possibilità di sperare (inun futuro di tolleranza e solidarietà). Rorty trova sostegno allasua posizione nella versione hegeliana dei principi kantianicome qualcosa di utile per riassumere le speranze, ma non pergiustificarle.

Come possiamo ben vedere, anche Schlegel aveva una posi-zione critica nei confronti di Kant, non per via dei principi su cuiegli basa la conoscenza, l’etica o l’estetica, ma a causa della man-canza in Kant di uno sguardo critico sulla filosofia stessa.Schlegel e Rorty, il romantico e il postmoderno, condividono lapreoccupazione di dare alla filosofia la possibilità di reggersisulle proprie gambe.

Poiché il postmoderno, sia secondo i suoi sostenitori (Behler,Lyotard o Rorty), sia secondo i suoi critici (Dworkin oHabermas), fa riferimento, in un modo o nell’altro, al moderni-smo, ho intenzione di avviare le mie riflessioni con uno sguardo

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15 R. Rorty, Thugs and Theorists: A Reply to Bernstein, in: Political Theory, n.4/1987, pp. 564-590, citazione a p. 578: «penso che Habermas abbia ragionenel dire che ciò che viene chiamato post-moderno è vecchio tanto quanto igiovani hegeliani, ed ora mi pento di aver mai usato questo termine. Hopreso in prestito il significato che Lyotard gli ha dato – ripudio della meta-narrativa. Ma Il discorso filosofico della modernità mi ha convinto che talesignificato non può aiutare nel tracciare una linea tra Hegel e Derrida».

16 Ibidem.

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retrospettivo sulla discussione che ha inferto un primo colpomortale allo spirito modernista dell’illuminismo tedesco.

Gli spinoziani e la minaccia all’illuminismo tedesco

Per afferrare quantomeno uno degli aspetti impliciti nell’af-fermazione di Rorty che una volta «spinoziano» ha significatociò che «postmoderno» vuol dire oggi, per lo meno in certiambienti culturali, ossia il peggiore insulto che un intellettualepossa rivolgere a un altro, dobbiamo rivisitare un dibattito cheebbe luogo in Germania molto tempo dopo la morte di Spinoza;un dibattito che venne sollevato come parte di un attacco diret-to a colpire l’onore dell’illuminismo tedesco. L’illuminismotedesco, come parte del più generale movimento illuministaeuropeo, aveva dato enorme importanza agli ideali della ragio-ne, del progresso e della scienza.17 L’illuminismo è stato perce-pito come movimento che incoraggiava gli individui a pensarecon la propria testa, a liberarsi dai pregiudizi e dalle supersti-zioni che sono sempre stati intesi come minaccia per la raziona-lità; in altre parole, l’illuminismo è entrato nella filosofia moder-na sul carro della ragione.18

Chi avrebbe potuto resistere al fascino di un movimento cheprometteva così alti traguardi sulla via della verità e del pro-gresso dell’umanità? Alcuni videro nell’illuminismo la mortedella fede e della religione, cioè il principio dell’ateismo e delfatalismo. Questo è il punto sul quale viene tirato in balloSpinoza. Il suo lavoro, ingiustamente ignorato nel corso dellasua vita, si trovò a godere di rinnovato interesse durante l’illu-minismo tedesco, in ragione della nota discussione tra F.H.Jacobi e M. Mendelssohn. Questa discussione riguardava il pre-sunto spinozismo di G.E. Lessing19 ed è stato descritto molto

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17 Questo è il più noto baluardo dell’illuminismo. Per una trattazione più det-tagliata di questo movimento si può fare riferimento alla raccolta di saggi:J. Schmidt (a cura di), What is Enlightenment?, California University Press,Berkeley 1996.

18 L’appello più enfatico all’illuminismo lo si può trovare nel breve scrittokantiano del 1784, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (EditoriRiuniti, Roma).

19 Per maggiori dettagli su questa discussione si possono consultare A.

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bene come «una vera prova di fedeltà alla ragione, alla fine deldiciottesimo secolo in Germania».20 La questione dibattuta daMendelssohn e Jacobi era se Lessing, noto membro del movi-mento illuminista di Berlino, fosse o meno uno spinoziano.Essere uno spinoziano significava allora essere disposti a garan-tire alla ragione un’autorità assoluta, anche se ciò avesse signifi-cato una negazione dell’autorità delle verità di fede. Tale dilem-ma divenne una sorta di cartina al tornasole della lealtà filosofi-ca, poiché, nel prendere posizione su tale questione, una perso-na si trovava a scegliere tra la ragione o la fede quale fonda-mento della conoscenza.21

La storia della discussa confessione da parte di Lessing dellasua fede spinozista non manca di tensione drammatica: Jacobi siservì di tale «confessione» per indicare come, niente meno cheuna figura del movimento illuminista del calibro di Lessing,fosse caduta nella trappola fatalista del sistema razionalista di

38ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

Altmann, Moses Mendelssohn: a Biographical Study, Alabama UniversityPress, Alabama 1973, pp. 593-759; F. Beiser, The Fate of Reason, GermanPhilosophy from Kant to Fichte, Hervard University Press, Cambridge 1987, inparticolare il capitolo II Jacobi and the Pantheist Controversy, pp. 44 – 91; D.Bell, Spinoza in Germany from 1670 to the Age of Goethe, London UniversityPress, Londra 1984; G. Di Giovanni, The Unfinished Philosophy of F.H. Jacobi,in: F.H. Jacobi, The Main Philosophical Writings and the Novel Allwill, McGill-Queen’s University Press, Montreal 1994, pp. 1-167; D. Snow, F.H. Jacobi andthe Development of German Idealism», in: Journal of the History of Philosophy, n.3/1987, pp. 397-416, e Id., Jacobi’s Critique of Enlightenment, in: J. Schmidt (acura di), What is Enlightenment?, cit., pp.306-316.

20 F. Beiser, Early romanticism and the Aufklärung, in: J. Schmidt (a cura di),What is Enlightenment?, cit., citazione a p. 323.

21 Dobbiamo tenere presente che, in Germania, dopo la pubblicazione nel1781 della Critica della Ragion Pura di Kant, le preoccupazioni epistemolo-giche divennero il nodo centrale della maggior parte del lavoro filosofico.Di importanza fondamentale era allora la questione del punto di partenzadella filosofia; cioè il problema di che cosa costituisce il fondamento dellenostre affermazioni di conoscenza. Il ruolo di tale principio non era assolu-tamente un questione conclusa. Alcuni pensatori, tra cui il più noto èFichte, sostennero che tale principio fosse un principio di coscienza e che sipotesse accedere ad esso attraverso l’autoriflessione. La maggior parte deipensatori illuministi, incluso Mendelssohn, affermarono che il primo prin-cipio della conoscenza doveva essere accessibile mediante la ragione, edaltri ancora affermarono che il principio di tutta la conoscenza, di qualun-que cosa si trattasse, doveva essere radicato nella fede.Jacobi si inserisceperfettamente in questa seconda categoria di pensatori.

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Spinoza, e come, di conseguenza, l’intero movimento potesseessere condannato quale via al fatalismo e all’ateismo (un accu-sa non da poco a quell’epoca), e questa condanna servì a soste-nere la critica di Jacobi alla fede dell’Illuminismo nella ragione.

Il resoconto di Jacobi della «confessione» di Lessing non pote-va lasciare Mendelssohn indifferente, e per diverse ragioni:Mendelssohn era un membro importante del movimento illu-minista berlinese e, in quanto tale, un leale difensore delle veritàdi ragione. Nel 1781 stava lavorando a un tributo al suo amico ecollega Lessing (sarebbe stato quindi colpito a livello personaledal fatto che Lessing aveva confidato questa sua posizione aJacobi e non a lui), e fu proprio in questo periodo che Jacobi loinformò della presunta «confessione».22 Mendelssohn si reseconto che Jacobi intendeva utilizzare Lessing come simbolo delmodello di ragione proposto dagli illuministi berlinesi e quindi,identificandolo con lo spinozismo, dimostrare le fatali conse-guenze a cui il movimento avrebbe portato la religione e lamoralità.

Uno spinoziano, allora, era considerato come qualcuno pron-to ad accettare le verità di ragione anche alle spese della religio-ne e della morale: una figura non certo invidiabile di intellet-tuale ateo e fatalista. In un periodo in cui l’ateismo non eraammesso, questo era certo, come sostiene Rorty, il peggioreinsulto che un intellettuale potesse rivolgere ad un altro, poichéla figura dello spinoziano si scagliava contro le più onorate con-vinzioni dell’epoca, e cioè, secondo le note parole di Kant, chealle verità di ragione bisognava imporre un limite per lasciarspazio alla fede. Il «buon filosofo» dell’illuminismo non eradisposto a perseguire la conoscenza a spese della fede, eppure lacosa che Jacobi sperava di dimostrare era proprio che i filosofiilluministi erano cattivi filosofi dal momento che si dedicavanoesattamente a questo tipo di ricerca della conoscenza.23

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22 Si tratta dell’opera Morgenstunde oder Vorlesungen über das Daseyn Gottespubblicato nell’ottobre del 1785.

23 Jacobi sviluppò le sue affermazioni sul presunto spinozismo di Lessing inuna serie di lettere pubblicate nel 1785 e intitolate, Über die Lehre Spinozas inBriefen an Herrn Moses Mendelssohn. Un’edizione estesa di queste lettere fupubblicata nel 1787 e divenne conosciuta come Spinoza Büchlein. Il nocciolodell’argomento di Jacobi contro il sistema di Spinoza può essere trovato nel

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Se nel clima intellettuale del XXI secolo non è certo un insul-to riferirsi a qualcuno tacciandolo di ateismo o di fatalismo, inuna Europa ancora controllata dai despoti timorati di Dio, sitrattava invece di accuse molto pesanti. In ultima istanza, esse-re tacciati di spinozismo equivaleva a un’accusa di irrazionalità:un’accusa di fare una mossa assurda cercando di dare alla cono-scenza un fondamento assoluto spiegabile con la ragione, e que-sta accusa voleva smascherare così l’irrazionalità della suppostaavventura razionale dell’illuminismo stesso.

Se l’identità di chi o di che cosa introduce l’irrazionalità nellafilosofia è cambiata negli ultimi duecento anni, il peggiore insul-to che un intellettuale può rivolgere ad un altro è rimasto prati-camente lo stesso, soprattutto se gli intellettuali in questionesono filosofi: essere tacciati di irrazionalismo, di lavorare inopposizione alla ragione e alla verità, significa, comprensibil-mente, diventare una figura minacciosa, un elemento indeside-rabile nel panorama della filosofia. Allora come oggi, i movi-menti che vengono percepiti come irrazionali scatenano resi-stenze poiché un movimento irrazionale non può portarci piùvicini alla verità e certamente non ci aiuta a raggiungere unacomprensione più precisa del mondo che ci circonda. È inutiledire che questo tipo di accuse vanno prese seriamente, sia perproteggere l’integrità della filosofia, un campo di studio nelquale la verità e l’oggettività dovrebbero essere importanti, sia,per motivi di equità, per non trovarci a bandire validi movi-menti filosofici dal nostro campo di studio, per il solo fatto dinon riuscire a comprendere i contributi razionali che questisarebbero in grado di offrire.

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settimo supplemento dei suoi Spinoza Büchlein. E’ in questa sezione del suolavoro che egli annuncia che «tutte le dimostrazioni portano al fatalismo»La visione di Jacobi di una dimostrazione come di un qualcosa che condu-ce al fatalismo si basa sulla sua concezione della conoscenza. Jacobi inter-pretava la conoscenza in termini causali: conoscere x significa conoscere lacausa di x. La ricerca della causa di x ci porta a y, il quale, a sua volta, ciporta alla ricerca della causa di y e così via, fino a trovare la causa prima ola causa non causata. Ma questa causa non causata non possiamo cono-scerla poiché conoscerla significherebbe conoscerne la causa e quindi essacesserebbe di essere causa non causata. Qualcosa che non ha una causa èper definizione inconoscibile.

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La difesa romantica di Spinoza

È inutile dire che ci furono molti pensatori pronti a difenderel’Illuminismo dalle accuse di Jacobi: uno dei critici più severi diJacobi risultò essere Friedrich Schlegel. Tuttavia, per ragioni dif-ficili da capire,24 Schlegel e l’intero movimento dei primi roman-tici tedeschi non vengono trattati come difensori dell’illumini-smo (almeno non tradizionalmente, nell’ultimo decennio que-st’atteggiamento comincia a mutare),25 ma vengono al contrarioconsiderati, sia dai filosofi «normali» sia da quelli «atipici»,come degli «intoccabili», portatori di qualche germe di irrazio-nalità che minaccia di mettere in pericolo la filosofia intera.26

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24 Per maggiori dettagli su questo punto vorrei rimandare al mio RomanticRationality, in: Pli. The Warwick Journal of Philosophy, fascicolo monograficoCrises of the Transcendental: from Kant to Romanticism, n. 10/2000, pp. 141-155.

25 Si veda, per esempio, M. Frank, The Philosophical Foundations of early GermanRomanticism, New York State University Press, Albany 2004; K. Ameriks (acura di), The Cambridge Companion to German Idealism, CambridgeUniversity Press, Cambridge 2000); F. Beiser, German Idealism. The Struggleagainst Subjectivism, 1791-1801 Harvard University Press, Cambridge 2002;I. Berlin, The Roots of Romanticism, Princeton University Press, Princeton1999; T. Pinkard, German Philosophy, 1760-1860. The Legacy of Idealism,Cambridge University Press, Cambridge 2002; R. Richards, The RomanticConception of Life. Science and Philosophy in the Age of Goethe, ChicagoUniversity Press, Chicago 2002. Un recente volume della rivista Pli. TheWarwick Journal of Philosophy, intitolato Crises of the Transcendental: FromKant to Romanticism, cit, è stato dedicato ad una discussione delle figurechiave e dei temi del movimento. Un altro segno di rinnovato interesse perquesto periodo della storia del pensiero si trova nel lancio di un nuovogiornale Internationales Jahrbuch des Deutschen Idealismus/InternationalYearbook German Idealism curato da Karl Ameriks e Jürgen Stolzenberg.

26 L’espressione «filosofi normali e atipici» si riferisce alla trattazione data daRorty di questi due tipologie di filosofi, che lui usa per cogliere la differen-za tra quei filosofi che ritengono che la filosofia sia costituita da «problemida risolvere e da accordi su ciò che serve a risolverli» e quei filosofi cheinvece considerano la filosofia come un tipo di impresa «in cui non si risol-vono problemi ma piuttosto si sopraffanno predecessori» (R. Rorty, Derridaon Language, Being, and Abnormal Philosophy», in: The Journal of Philosophy,n.11/1977, pp. 673-681, citazione a p.679. Per un esempio di lettura delromanticismo come un movimento essenzialmente irrazionale si veda P.Edwards (a cura di), The Encyclopedia of philosophy, MacMillan, New York1967. In particolare si vedano le voci Illuminismo (ivi, vol. II, pp.519-525) eRomanticismo (ivi, vol. VII, pp. 206-209), entrambe di Crane Brinton.Dell’illuminismo Brinton afferma: «come periodo culturale è più stretta-mente legato a, certamente più dipendente da, un pensiero filosofico for-male di ogni altro periodo culturale in Occidente» (ivi, vol. II, p.519) e affer-

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Eppure niente potrebbe essere più lontano dalla verità.Schlegel fu, dopotutto, tra i primi a sfidare l’attacco di Jacobiall’Illuminismo: Schlegel sostenne che l’attacco di Jacobi era ilrisultato di un suo salto fuorviante dalla ragione ad una visionedella filosofia come fondata nella fede. Se Schlegel rifiutava sialo scavalcamento della ragione che il tentativo di dare alla filo-sofia un qualsiasi tipo di fondamento, ciò non significa cheSchlegel accettasse in modo acritico il progetto dell’Illuminismoper quello che era. I primi romantici tedeschi cercarono di dimo-strare l’inadeguatezza di alcune concezioni fondamentali delprogetto illuminista. Ma cercarono anche, e in maniera ancorpiù veemente, di mostrare l’inadeguatezza di quelli che defini-rono quali attacchi irrazionali all’Illuminismo. Quindi, i dubbiromantici riguardanti la ragione illuminata non erano un suorifiuto, quanto piuttosto un suo raffinamento.

Sebbene Schlegel fosse d’accordo con Jacobi a proposito del-l’inconoscibilità dell’Assoluto, affermando che «il solo fatto diconoscere indica una conoscenza condizionata» e che «l’incono-scibilità dell’Assoluto è una banalità analoga alla precedente»,egli non accettava le conseguenze che Jacobi volle trarre da que-ste osservazioni.27 Diversamente da Jacobi, Schlegel non sostituìla conoscenza dell’Assoluto come punto di partenza della filo-sofia con un appello alla fede, nella prospettiva di assicurareall’Assoluto il primo posto tra i principi della filosofia. La posi-zione di Schlegel era più radicale e al contempo anche più razio-nale. La reazione di Schlegel al «salto mortale» di Jacobi compa-re sia in diversi frammenti, in cui Schlegel si riferisce diretta-

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ma che l’illuminismo era caratterizzato da tre idee chiave: ragione, naturae progresso. Nel suo articolo sull’illuminismo egli afferma inoltre che «lagenerazione maturata verso il 1800 sentì verso l’illuminismo un disprezzopiù profondo di quanto si sia mai registrato» (ivi, vol. II, p. 524). Pur rico-noscendo che molte delle figure centrali dei vari movimenti romantici (inFrancia, Germania e Inghilterra) maturarono prima del 1800, egli identificaquesta generazione come la generazione romantica. Le affermazioni diBrinton implicano perciò che i romantici disprezzassero la ragione (ivi, volVII, p. 206). Più di recente troviamo la visione del romanticismo come di unmovimento anti-illuminista in I. Berlin, The Roots of Romanticism, cit, in par-ticolare pp. 21-45.

27 F. Schlegel, KA, vol. XVIII, cit., p. 511, n. 64. Il termine «Assoluto« significasemplicemente ciò che è incondizionato.

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mente a una serie problemi specifici propri della posizione filo-sofica di Jacobi, sia nella sua critica al romanzo di Jacobi,Woldemar.28 In un frammento dall’Athenäum, Schlegel mette inridicolo l’inutile tentativo di Jacobi di far progredire la cono-scenza, che è oggettiva, rivolgendosi a qualcosa di interno, ossiaalla fede, la quale è una istanza soggettiva:

il celebre salto mortale dei filosofi è spesso solo un falso allarme. Neilori pensieri essi prendono una rincorsa terribilmente lunga e poi sicongratulano con se stessi per avere affrontato il pericolo; ma se siguarda un po’ più da vicino li si ritrova seduti nello stesso punto diprima. È come il volo di Don Quixote sul cavallo di legno. AncheJacobi pare uno che, sebbene non possa mai smettere di muoversi,rimane sempre dove si trova: intrappolato tra due tipi di filosofia,la sistematica e l’assoluta, tra Spinoza e Leibniz, dove il suo spiritodelicato deve sentirsi alquanto stretto e dolorante29

Secondo Schlegel, Jacobi fa appello a uno smisurato incremen-to di soggettività, rivolto poi verso l’esterno e che viene postula-to come qualcosa di infinito, alle stregua di Dio, ma si tratta inrealtà soltanto di un salto nella propria soggettività e pertanto diun falso allarme. La fede non può essere il fondamento dellaconoscenza, poiché non ci porta verso l’esterno, verso la realtà,quanto piuttosto verso l’interiorità, ossia all’interno della nostrastessa soggettività. Schlegel semplicemente non è disposto a com-piere una mossa che lo allontani dall’oggettività.

Nella critica di Schlegel al salto di Jacobi, troviamo una ecodella critica mossa da Mendelssohn. Mendelssohn accusò Jacobidi offese contro la ragione nei Morgenstünde. Nell’OttavaLezione afferma che non ci può essere alcun dovere di credere.Lo «spirito di indagine» deve essere mantenuto vivo e tenutosempre allerta, dal momento che la «fede cieca» conduce alla

43ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

28 Fu pubblicata nel 1796 e si trova in: F. Schlegel, KA, vol. II, cit., pp. 57-77.Per ulteriori dettagli sulla ricezione da parte di Schlegel del lavoro di Jacobisi veda F. Schlegel, KA, vol. VIII, cit., pp. xxx-xxxvii; Id., KA, vol. II, cit., pp.57-77; Id., KA, vol. XVIII, cit., p. 3, n. 3; p. 6, n. 26; pp. 7-8, n. 41; p. 9, n. 60;p. 13, n. 104; p. 21, n. 34; pp. 54-56, n. 353, 356, 361, 364, 368, 371.

29 F. Schlegel, KA, vol. II, cit., p. 227 Athenäum, frammento n. 346, cfr. P.Firchow (a cura di), op. cit., p. 70.

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superstizione e al fanatismo.30 Secondo Mendelssohn, i traguar-di dell’illuminismo basati sulla ragione, e le verità semplici dellareligione universale, ancorate al buon senso e non alle stranezzedella fede mistica, dovrebbero essere protette dagli attacchi irra-zionali del tipo di quelli di Jacobi. È inutile dire che la fedeltà diMendelssohn alla razionalità non è stata mai messa in questio-ne, sebbene quella di Schlegel sia stata sistematicamente ignora-ta. Questo fenomeno è parte di ciò che Karl Ameriks definisce lasindrome della «colpa per associazione» che continua a impedi-re una comprensione adeguata del romanticismo tedesco:secondo questa prospettiva critica, se il romanticismo è essen-zialmente irrazionale, dopo l’indebita appropriazione delromanticismo compiuta da parte del Nazionalsocialismo nellaGermania di Hitler, il romanticismo stesso diventa addiritturauna oscura fonte di irrazionalità ogniqualvolta viene a trovarsiin coppia con l’aggettivo «tedesco». 31

La critica di Schlegel al salto mortale di Jacobi mostra chiara-mente che il romanticismo non è stato, contrariamente a quantonormalmente si dice, una reazione all’illuminismo in quantotale. Mendelssohn, noto autore razionalista, e Schlegel, presun-to irrazionalista, concordano sul fatto che l’appello di Jacobi allafede fosse un’offesa al compito primigenio della filosofia, cioè ladifesa della razionalità. I primi romantici tedeschi non eranodisposti ad abbandonare l’oggettività della ragione in favoredella soggettività della fede. Essi volevano diversificare il «lumedella ragione» e non estinguerlo. Essi, quindi, non lavoravano incontrotendenza rispetto alla direzione di ricerca istituita daipensatori illuministi, la loro fedeltà all’oggettività si manifestòpiuttosto in modo differente, ma ciò non dovrebbe renderci cie-chi al fatto che esisteva un sotteso comune obbiettivo.

Così, se essere uno spinoziano significava essere un pensato-re che abbracciava la ragione e che non si rivolgeva alla fede perrisolvere le questioni della giustificazione delle credenze, allorai primi romantici tedeschi furono sicuramente degli spinoziani.

44ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

30 A. Altmann, op. cit., p. 679.31 K. Ameriks, Introduction, in: Id. (a cura di), The Cambridge Companion to

German Idealism, cit., pp. .

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Certamente essi non considerarono, come fece Jacobi, lo spinozi-smo come una sorta di ateismo, quanto piuttosto come un tipo dipanteismo, e questo li ha condotti allo sviluppo di una visione ori-ginale della natura in termini di complesso di forze organiche.32

L’infinita perfettibilità e la critica romantica della modernità

La reazione di Schlegel al dibattito tra Jacobi e Mendelssohnlo colloca decisamente dalla parte della ragione e del progetto dimodernità perseguito dai membri dell’illuminismo tedesco.Eppure, il lato romantico del modernismo viene spesso rigetta-to come un movimento irrazionale tendente a dare alla poesia,invece che alla filosofia, una posizione centrale nel panoramadella cultura33, non c’è però alcuna buona ragione per accettarela falsa dicotomia secondo la quale se ci si dedica alla poesiabisogna dire addio alla filosofia: non solo poesia e filosofia pos-sono coesistere pacificamente, ma possono anche, o così almenosostengono i romantici, esaltarsi vicendevolmente.34

45ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

32 Lo sviluppo di una visione della natura in termini di forze organiche hauna grande importanza filosofica. Cfr. F. Beiser, Enlightment and Idealism, in:K. Ameriks (a cura di), The Cambridge Companion to German Idealism,Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 18-36. Qui Beiser sostie-ne che lo sviluppo romantico di una concezione vitalistica della natura con-sente ai romantici di sviluppare un criticismo privo di scetticismo ( a causadel più alto grado di realismo consentito) ed un naturalismo privo di mate-rialismo (grazie allo spostamento dal meccanicismo al vitalismo). Quindi iprimi romantici sono coloro che portano a compimento l’ideale illuministadi una spiegazione di tutta la natura senza cadere nel materialismo o nel-l’idealismo scettico. «Comprendere un evento non significa spiegarlo comeil risultato di eventi precedenti ma vederlo come parte necessaria del tutto.Il loro paradigma è perciò olistico piuttosto che meccanicistico» (ivi, p. 35).

33 Si vedano, per esempio, le considerazioni svolte da J. Habermas a propositodell’appello di Schlegel per una nuova mitologia. Cfr. J. Habermas, L’entratanel post-moderno: Nietzsche quale piattaforma girevole e L’intrico di mito e illumi-nismo: Horkheimer e Adorno, in: Id., Il discorso filosofico della modernità, cit,rispettivamente alle pp. 86-108 e 109-134. «Nelle condizioni moderne di unariflessione spinta fino all’estremo, l’arte, e non la filosofia, custodisce lafiamma di quell’assoluta identità, che si era accesa un tempo nei culti solen-ni delle comunità di fede religiose. L’arte, che riacquisterebbe il suo caratte-re pubblico nella forma di una nuova mitologia, non sarebbe più soltantol’organo, bensì anche la meta e il futuro della filosofia» (ivi, p. 92).

34 Vedi per esempio Ideen n. 108 (in: P. Firchow (a cura di), op. cit, p.104):«Qualsiasi cosa potesse essere fatta mentre poesia e filosofia erano separa-te, è stata fatta e compiuta. Perciò è venuto il momento di riunire le due».

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In un lavoro recente Andrew Bowie ha articolato una validadifesa del potenziale critico dei primi romantici tedeschi, poten-ziale che esiste non in contrasto con, ma proprio a causa del-l’impegno dei romantici nell’uso del potere poetico del linguag-gio, della letteratura e dell’arte.35 Egli difende i romantici dai«sospetti di Habermas che le idee romantiche possano fare affi-damento sul dogmatismo pre-kantiano o implicare «una rinun-cia al pensiero filosofico in quanto solutore di problemi, in favo-re del potere poetico del linguaggio, della letteratura e dell’ar-te».» 36 Secondo Habermas, una svolta verso l’estetica è comeuna svolta di allontanamento dal «linguaggio del confrontopubblico», eppure, come indica Bowie, Habermas sottovaluta il

ruolo di quelle forme di apertura al mondo che sono importanti invirtù della loro resistenza ad una conversione in discorsività o inteorie scientificamente verificabili37

Bowie mostra, contrariamente ai sospetti di Habermas, chel’interesse di Schlegel per la poesia e la mitologia non è il risul-tato di una «fuga mistica dalle pressioni della modernità».38 Sidà il caso che nei suoi esordi filosofici Schlegel esprimesse uncerto scetticismo nei riguardi di ciò che «la cultura moderna, ein particolar modo l’estetica, avevano da offrire».39 Nei primimomenti della riflessione di Schlegel la poesia moderna oromantica veniva posta in contrasto con la poesia classica; lapoesia moderna era soggettiva e artificiale laddove la poesiaclassica era oggettiva e naturale.40 Nella sua fase classica

46ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

35 A. Bowie, German philosophy Today: Between Idealism, Romanticism andPragmatism, in: German Philosophy since Kant, Cambridge University Press,Cambridge 1999, pp. 357-398.

36 A. Bowie, op. cit., pp. 389-390.37 Ibidem.38 Ivi, p. 397.39 Il pensiero di Schlegel è stato soggetto a diversi cambiamenti di posizione.

Possiamo fare una classificazione generale secondo le seguenti fasi: 1) faseclassica (1793-96); 2) il punto di svolta o fase romantica (1796-1803); 3) la con-versione e le ultime opere o fase «conservatrice» (1803-1829). La fonte miglio-re sulle varie fasi del pensiero di Schlegel è l’introduzione di E. Behler e U.Struc-Oppenberg del 1975 in: F. Schlegel, KA, vol. VIII, cit., pp. xv-ccxxxii.

40 Questo primo uso del termine potrebbe spiegare, anche se non giustificare,l’errore diffuso di considerare il primo romanticismo tedesco semplice-mente come un movimento letterario.

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Schlegel considerava l’assenza di limiti della poesia modernacome una caratteristica negativa. La fase classica di Schlegel eraguidata dalla convinzione che soltanto dei principi oggettiviavrebbero potuto condurre alla creazione delle belle arti, che soloentro certi limiti l’esperienza estetica potesse essere realizzata, eche, poiché le antiche civiltà lavorarono entro tali limiti, cioè, nel-l’ambito di una gamma limitata di temi e metodi, l’arte raggiun-se la sua perfezione in questi esempi classici, e così avremmodovuto rivolgerci al passato per avere un orientamento estetico.

Lo sguardo rivolto da Schlegel agli antichi cambiò direzioneintorno al 1795, e fu proprio intorno a questo periodo che l’usodell’aggettivo romantico venne ad occupare una posizione cen-trale nelle sue opere, diventando un ideale estetico ed il mottodi un movimento filosofico. Con lo svilupparsi dell’apprezza-mento da parte di Schlegel degli elementi soggettivi nell’arte,della presenza dell’individualità e dell’autonomia nella produ-zione artistica, egli abbandonò la visione dell’ideale artisticocome uno stato compiuto di perfezione e cominciò a percepirlocome un eterno processo in divenire. Schlegel comunicò aperta-mente la propria svolta romantica nel frammento Lyceum n. 7,un frammento che offre tracce della nuova direzione che il suopensiero stava prendendo

il mio saggio sullo studio della poesia greca è un inno, manierato,in prosa alla qualità oggettiva della poesia41

Mi sembra che la cosa peggiore a suo riguardo sia la totale man-canza dell’indispensabile ironia; e la migliore, la fiduciosa assun-zione dell’infinito valore della poesia, come se fosse un fatto noncontroverso42

Questa esplicita adesione alla filosofia e all’ironia darà forma

47ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

41 Il riferimento è a Über das Studium dei Griechischen Poesie (redatto nel 1795 epubblicato nel 1797).

42 F. Schlegel, KA, cit., vol. II: «Mein Versuch über das Studium der griechischenPoesie ist ein manierierter Hymnus in Prosa auf das Objektive in der Poesie.Das Schlechteste daran scheint mir der gänzliche Mangel der unentbehrli-chen Ironie; und das Beste, die zuversichtliche Voraussetzung, daß die Poesieunendlich viel wert sei; als ob dies eine ausgemachte Sache wäre» (ivi, pp.147-148). Si veda anche Id., Lyceum, frammenti n. 65, 66, 84, 93 e 107.

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al metodo filosofico di Schlegel durante la sua fase romantica. Il«romantico» apparteneva a un periodo cronologico precedente.Schlegel si esprime così:

tra i più vecchi moderni è dove cerco e trovo «il romantico», inShakespeare, Cervantes, la poesia italiana, in quell’epoca di cava-lieri, amore e favole dove la cosa e la parola ebbero origine43

Tuttavia, parte della ragione per cui Schlegel abbandona l’usodel termine «moderno» e adotta il termine «romantico» ha a chefare con il suo desiderio di spostare i termini del contrasto tra gliantichi e i moderni su un terreno più concettuale. «I più antichimoderni» cui Schlegel si riferisce, non sono sorpassati, essi nonsono «pensatori del passato»: essi serviranno come punti di rife-rimento che Schlegel e i suoi contemporanei (A.W. Schlegel,Schleiermacher, Novalis, etc.) spereranno di far rivivere comemezzo per comprendere la politica, l’estetica e la filosofiamoderne. Inoltre «i più antichi moderni» troverebbero il lorocompimento nei moderni contemporanei, di cui Goethe era l’e-sempio a cui più spesso Schlegel faceva riferimento: il WilhelmMeister godeva il privilegio di essere, assieme allaWissenschaftslehre di Fichte e la Rivoluzione Francese, uno dei«più grandi eventi dell’epoca».44

Nel Frammento n. 116, Schlegel afferma che «la poesiaromantica è una poesia universale e progressiva».45 La poesia

48ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

43 Ivi, p. 335: «da suche und finde ich das Romantische, bei den älternModernen, bei Shakespeare, Cervantes, in der italiänischen Poesie, injenem Zeitalter der Ritter, der Liebe und der Märchen, aus welchem dieSache und das Wort selbst herstammt».

44 F. Schlegel, KA, vol. II, cit., n. 216, Behler utilizza la reazione allaRivoluzione Francese per fare un’affermazione generale sul Romanticismoin Europa: «la trasformazione della Rivoluzione Francese in un’emancipa-zione universale e filosofica dell’umanità è un tentativo dominante da partedei romantici in tutti i paesi Europei di quel periodo e spiega il manifestar-si di caratteristiche di base della modernità letteraria nell’era romantica.Questo è il principio delle riflessioni critiche sulla Rivoluzione Francese checostituiscono forse la reazione più importante a quest’evento. Tali riflessio-ni sono inseparabili dallo spirito di modernità che sorse durante il periodoromantico e dalla nozione dell’infinita perfettibilità della razza umana». (E.Behler, op. cit., p. 50).

45 F. Schlegel, KA, vol. II, cit. p.182, n. 116.

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romantica è un ideale, una poesia che è progressiva perché èsempre in uno stato di divenire, e non raggiunge mai un com-pletamento.46 Questo concetto dell’incompletezza inerente lapoesia si applica anche alle nostre affermazioni di conoscenza:non costruiamo la conoscenza in maniera deduttiva da dei fon-damenti assoluti, ma sistemiamo le nostre affermazioni in unoschema coerente, cosicché la certezza assoluta non è un obietti-vo epistemologicamente valido, sempre crescenti gradi di cer-tezza è quanto di meglio ci possiamo aspettare.

Nella sua discussione su Schlegel e il modernismo, Behlercollega l’enfasi posta da Schlegel sul divenire infinito (che è ilrisultato della sua convinzione che non si possa basare la filoso-fia sulla conoscenza di principi primi o su un cieco salto nellafede) con il senso di modernità sviluppato dai romantici. Behlerafferma che il senso di modernità sviluppato da Schlegel è «pie-namente cosciente della sua separazione dalla perfezione classi-ca e ugualmente distante da ogni obiettivo utopico di realizza-zione».47 Come correttamente segnalato da Behler, l’uso fre-quente di espressioni come «non ancora», «fino a che» e altririferimenti al processo del divenire, che Schlegel insiste nel met-tere in evidenza, non designano una transitorietà che deve esse-re superata, ma piuttosto «l’attuale stato della nostra conoscen-za, la sua forma permanente».48 Bheler afferma che un concettocompletamente nuovo di poesia e un «senso di modernità fon-damentalmente nuovo» dovevano per forza emergere «quandoil modello classico della creazione letteraria fu superato e rim-piazzato da una nozione di poesia coinvolta in un processo diprogressione infinita».49 L’impiego del concetto di perfettibilitàinfinita, non soltanto alla poesia ma alla realtà in tutti i suoiaspetti, ha radicalizzato la nozione di progresso annunciata nelperiodo dell’illuminismo.

Non è decisivo in questa sede il fatto che l’enfasi sul divenireinfinito suggerisce chiaramente che la filosofia non sarà maicompiuta, e che, in diversi frammenti, Schlegel ripete che la filo-

49ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

46 Per un’analisi più completa di questo frammento si veda l’introduzione diEichner a F. Schlegel, KA, vol. II, cit., pp. LIX-LXIV.

47 E. Behler, op. cit. p. 61.48 Ibidem. 49 Ivi, p. 50.

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sofia non può mai giungere a una conclusione, arrivando adaffermare che l’essenza della filosofia è di essere sempre in unostato di divenire.50 Quest’enfasi sulla natura intrinsecamenteincompleta della filosofia è nettamente in contrasto con un cor-rente del discorso postmoderno che annuncia la «fine» o «il com-pletamento» della filosofia , della metafisica, etc. Secondo lavisione romantica dell’infinito divenire, tale fine o compimentonon è in vista e certamente non è appropriato fare tali dichiara-zioni. Una filosofia che non sarà mai «compiuta» e che non rag-giungerà mai la sua conclusione, una filosofia che è sempre inuno stato di divenire, non si dovrebbe sviluppare alla cieca,senza una prospettiva critica che la guidi. Schlegel non potevaaccontentarsi di lasciare che il progetto illuminista si sviluppas-se in modo acritico. Infatti, molto prima che Theodor Adorno eMax Horkheimer pubblicassero la loro Dialettica dell’illuminismo(opera pubblicata nella forma letteraria preferita da Schlegel,ossia i «frammenti filosofici»), un ambizioso progetto che miravaa rendere l’illuminismo riflessivo, ossia «realizzare il suo proget-to sulla base dei suoi prodotti, cioè, delle sue teorie»,51 Schlegelaveva già annunciato la necessità di uno sguardo criticosull’Illuminismo stesso. E per questa ragione che non è esagera-to affermare, come fa Ernst Behler, che «Schlegel è il miglior rap-presentante del modernismo autoriflessivo del romanticismotedesco».52 Mai la voce di Schlegel è risuonata più chiaramenteche nella sua critica a Kant, il filosofo critico per eccellenza.

Con Kant, Schlegel condivideva l’idea che la loro era l’epocadel criticismo, eppure egli non riteneva che la Critica della Ragion

50ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

50 Si vedano in particolare le sue lezioni sulla filosofia trascendentale in: F.Schlegel, KA, vol. XII, cit., e Athenäum, frammenti n. 54 e n. 116, in: Id., KA,vol. II, cit.

51 J. Habermas ha discusso questo lavoro in: Id., L’intrico di mito e illuminismo:Horkheimer e Adorno, cit. Habermas, come già ricordato, tratta i primiromantici tedeschi con sospetto, leggendo le loro mosse verso un comple-tamento della filosofia nella e come poesia, come una spinta della filosofiaverso il reame dell’irrazionale; tale visione fa parte della sua preoccupazio-ne più generale per il livellamento dei legami tra letteratura e filosofia. Permaggiori dettagli su questo punto cfr. J. Habermas, Excursus sul livellamen-to della differenza specifica tra filosofia e letteratura, in: Id., Il discorso filosoficodella modernità, cit.

52 E. Behler, op. cit., p. 60.

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Pura si fosse spinta sufficientemente in profondità nel compi-mento della missione critica, perché, secondo Schlegel, la filoso-fia stessa non è stata ancora sottoposta al vaglio della critica.Proprio il primo frammento dell’Athenäum esprime la preoccu-pazione di Schlegel di fare della filosofia il soggetto della filoso-fia: «niente è più raramente soggetto della filosofia che la filoso-fia stessa».53 Le accuse di Schlegel ai limiti della filosofia criticadi Kant sono radicate nel suo desiderio di sviluppare una filo-sofia critica della stessa filosofia.54

La critica di Jacobi all’Illuminismo venne messa in ridicolo daSchlegel come un salto mortale o un cieco balzo nella fede. Alcontrario, la critica che Schlegel fa dell’illuminismo è un invitorivolto all’illuminismo stesso ad applicare i propri strumenti invista di una critica dei propri prodotti. Questo è un momentotopico per lo sviluppo di ogni concezione del modernismo odella modernità, eppure non ha ancora ricevuto l’attenzione chemerita, infatti, sono i postmoderni a ricevere spesso il merito diaver dato voce alle prime critiche del modernismo. Come harecentemente segnalato Günter Zöller:

una critica radicale dell’idealismo tedesco può essere già trovata nelcuore del movimento stesso e merita di essere considerata comeuno dei suoi più significativi risultati55

51ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

53 F. Schlegel, KA, vol. II, cit., p. 165, n. 1.54 Si veda per esempio: F. Schlegel, KA, vol. II, cit., p. 165, n.1; Ivi, p.364; Ivi,

p.286; Id., KA, vol. XVIII, cit., p.21, n. 35; Ivi, p. 21, n. 36; Id., KA, vol. XIX,cit., p. 346, n. 296. In questi passaggi Schlegel afferma che una critica dellafilosofia non può avere successo senza una storia della filosofia, che un’e-poca che definisce se stessa un’epoca critica non deve lasciarsi non criticata,che, in breve, il progetto critico di Kant non si è spinto abbastanza avanti.

55 G. Zöller, German Realism: the self-limitation of idealist thinking in Fichte,Schelling, and Schopenhauer, in: The Cambridge Companion to German Idealism,cit., pp. 201-202. Zöller è stanco di ciò che egli definisce «la moda recente dicercare di identificare supposte insufficienze dell’idealismo kantiano epost-kantiano e di offrire un rimpiazzo ludico, post-moderno, all’interoprogetto del modernismo filosofico» (ibidem). Così Zöller vorrebbe mante-nere romanticismo e postmoderno a distanza l’uno dall’altro. Bisogna direqualcosa sulla somiglianza delle critiche a cui dà voce ciascun movimento,tuttavia condivido la preoccupazione di Zöller: date le incomprensioni checontinuano a ostacolare una comprensione adeguata dell’idealismo tedescoe del primo romanticismo tedesco, disturba vedere come le critiche chefurono già sollevate nell’immediato periodo post-kantiano vengano tratta-te quali fossero il risultato di innovazioni contemporanee.

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E sebbene Zöller indichi Fichte, Schelling e Schopenhauercome gli autori di tali critiche, una figura come quella diSchlegel merita certamente di occupare una posizione centraleall’interno di questo gruppo. Anche Dieter Henrich, un altrostudioso di rilievo del periodo kantiano e post-kantiano, haespresso la propria distanza circa i tentativi di individuare trat-ti comuni tra la critica del modernismo e la critica postmodernadella cultura. Secondo Henrich, qualunque cosa – sia essa«Storia» o qualche altro meta-termine – che coltivi la pretesa dipossedere un significato immanente e di svilupparsi a partire daun singolo principio, dev’essere guardata con sospetto. Allostesso tempo, egli è anche insoddisfatto dei pronunciamentipostmoderni secondo cui la «Storia» o la «modernità» sono fini-te e aspettano solamente un dignitoso funerale. Ciò che manca atutte queste prospettive, secondo Henrich, è un resoconto dellagenesi e della formazione della questione attuale che costituisceil modernismo filosofico.56 Uno sguardo più ravvicinato ai con-tributi dei primi romantici tedeschi, uno sguardo libero dai pre-giudizi che vogliono che ogni appello all’arte sia una mossa diun gioco irrazionale che priverà la filosofia del suo contatto conla verità e con l’oggettività, è necessario prima che possiamocominciare ad apprezzare pienamente il potenziale critico delmovimento.

Il primo romanticismo tedesco e il postmoderno vengonospesso accostati e identificati, nella migliore delle ipotesi, comeun elemento di disturbo per la filosofia e, nella peggiore, comeuna minaccia per l’integrità dell’intera disciplina.Probabilmente l’uso diffuso dell’ironia, una caratteristica che idue movimenti condividono, porti più all’incomprensione che auna comprensione produttiva.

Ironia e incomprensione

Schlegel era interessato alla comprensione quanto al suo falli-mento, l’incomprensione. Il suo saggio Über dieUnverständlichkeit del 180057 fu una specie di canto del cigno che

52ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

56 D. Henrich, Between Kant and Hegel: Lectures on German Idealism, HarvardUniversity Press, Cambridge 2003), p. xiv.

57 La versione di questo lavoro di Schlegel che io ho utilizzato è quella inclu-

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segnalava la morte del giornale Das Athenäum, di cui era statocoeditore (nonché coautore) assieme a suo fratello AugustWilhelm. Come già indicato in precedenza, il giornale e i duefratelli divennero oggetto di derisione poiché molti degli artico-li lì pubblicati furono ritenuti incomprensibili. Queste accuse diincomprensibilità spinsero Schlegel a chiudere la rivista con unsaggio che affrontava direttamente la questione della compren-sione. La questione dell’incomprensibilità appare anche in alcu-ni frammenti di quel periodo.58 Poiché le nostre affermazioniconoscitive non sono mai radicate in un fondamento certo eassoluto, non possiamo essere così arroganti da pensare di poteravere l’ultima parola sul significato di un qualsiasi evento, testoo idea, quel che resta è ciò che è incomprensibile.L’incomprensibilità è più legata a una nozione di incertezza chea ogni nozione di indeterminatezza relativa le nostre afferma-zioni di verità; in questo modo Schlegel non propone alcun tipodi relativismo selvaggio.

L’antifondazionalismo di Schlegel e il relativo scetticismo neiconfronti della certezza assoluta della nostra conoscenzaammettono uno spazio di gioco molto ampio nell’ambito dellenostre attitudini epistemologiche: è qui che l’ironia trova il pro-prio posto. Novalis, buon amico e collega romantico di Schlegel,descrive la comunicazione di un pensiero come una fluttuazio-ne tra «l’assoluta comprensione e l’assoluta incomprensione»(Blütenstaub 2) e Schlegel fece eco a quest’idea in molti dei suoiframmenti, specialmente nel frammento Lyceum 108, dove affer-ma che l’ironia socratica «contiene e fa insorgere un sentimentodi indissolubile antagonismo tra l’assoluto e il relativo, tra l’im-possibilità e la necessità di una comunicazione completa».

L’ironia ci rende coscienti delle tensioni tra i nostri limiti e lanatura infinita dell’Assoluto, tra ciò che possiamo conoscere eciò che c’è da conoscere. Ogni tentativo di comunicare in modocompleto l’Assoluto o l’infinito è inutile. Ciò nonostante il filo-sofo ha il dovere di rendere evidente questa impossibilità, e il

53ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

sa in: J. Schulte-Sasse (a cura di), Theory as Practice: A Critical Anthology ofEarly German Romantic Writings, Minnesota University Press, Minneapolis1997, pp. 118-128.

58 Si vedano per esempio Lyceum n. 20 e 108; Blütenstaub n. 2; Athenäum n. 78;Ideen n. 129, inclusi in: F. Schlegel, KA, vol. II, cit.

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filosofo lo fa rivelando i limiti della filosofia stessa. Nel fram-mento Lyceum n. 20 possiamo leggere che «un testo classico nondeve mai essere interamente comprensibile. Ma coloro chehanno un’educazione e che intendono coltivarla debbono sem-pre avere il desiderio di imparare da esso». Queste affermazionisono coerenti con la visione di Schlegel per cui la filosofia è uncompito infinito, un qualcosa che può essere definito in terminidi infinito divenire, piuttosto che di un compiuto e completostato dell’essere. L’ironia è uno strumento che rende possibilequel librarsi che viene descritto con una certa enfasi all’internodel frammento Athenaeum 116: si tratta di un «librarsi (sulle alidel riflesso poetico) tra il ritrattista ed il ritratto (che) può molti-plicarsi in una successione infinita di specchi». Secondo Schlegelquindi «l’ironia è la chiara coscienza di un’eterna agilità, di uncaos infinitamente brulicante».59 I limiti della filosofia fannoinsorgere la necessità della letteratura in generale, sebbeneSchlegel si riferisca specificamente alla poesia. In una lezione pri-vata del 1807 Schlegel illustra la relazione tra filosofia e poesia:

dobbiamo tenere a mente che la necessità della poesia è basata sulbisogno di rappresentare l’infinito che emerge dall’imperfezionedella filosofia60

E questo lo porta a concludere che «dove finisce la filosofiadeve cominciare la poesia».61 L’ironia appartiene alla poesiacome modo di rappresentazione. Eppure appartiene anche allafilosofia, come risultato dell’incapacità della filosofia di rappre-sentare l’Assoluto. Niente è completo, e l’ironia è lo strumentousato per rendere evidente l’intima ed essenziale incompletezzadell’esperienza umana.

L’ironia romantica ha toni ludici e irriverenti, ma non è inalcun modo il risultato di una mancanza di rispetto da parte deiprimi romantici tedeschi verso il mondo e la realtà. È piuttosto

54ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

59 F. Schlegel, KA, vol. II, cit., Ideen n. 69, cfr. anche P. Firchow (a cura di),p.100.

60 Citato in M. Frank, Unendliche Annäherung. Die Anfänge der philosophischenFrüromantik, Suhrkamp, Francoforte 1997, p. 944.

61 F. Schlegel, KA, vol. II, p. 261, Ideen n. 48, cfr. anche P. Firchow (a cura di),op. cit., p. 98.

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il risultato di un profondo rispetto e impegno nella comprensio-ne del reale. L’ironia romantica non si prende gioco del mondo;non è un’attitudine sprezzante nei confronti della realtà, mapiuttosto la più grande dimostrazione di umiltà; viene utilizza-ta per dimostrare quanto poco gli uomini, tutti gli uomini, inrealtà sanno.62 L’ironia romantica fa parte della generale visioneromantica della realtà come essenzialmente incompleta, comeun’approssimazione verso l’obiettivo distante e irraggiungibiledell’infinito. Come dice Schlegel:

il puro pensiero e la cognizione [Erkennen] di ciò che è più alto nonpossono essere rappresentati [dargestellt] adeguatamente – questo èil principio della non rappresentabilità [Undarstellbarkeit] relativa diciò che sta più in alto63

Questa difficoltà di rappresentare ciò che c’è di più alto o l’in-finito viene superata quando la filosofia rinuncia alla sua osti-nata indipendenza e chiede aiuto all’arte.64 All’infinito non sipuò che alludere indirettamente, e questo è possibile soltanto sel’arte è in grado di andare oltre ciò che rappresenta, alludendo aciò che non riesce a dire. E l’arte è in grado di fare ciò per mezzodell’ironia. Per questa ragione Schlegel afferma che:

la filosofia è la vera madrepatria dell’ironia, che potremmo volerdefinire come bellezza logica: perché, ovunque la filosofia appaia,in dialoghi orali o scritti – e non resta confinata in rigidi sistemi –proprio là l’ironia dovrebbe essere richiesta e concessa65

55ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

62 Alla fine del capitolo tre del suo libro, Leading a Human Life. Wittgenstein,Intentionality, and Romanticism, Eldridge, dopo aver dato un brillante reso-conto dell’uso dell’ironia da parte di Schlegel, arriva ad una conclusionefuorviante. Egli afferma che l’atteggiamento di Schlegel svuota la sponta-neità dell’essere umano di contenuto, «riducendola a qualcosa di più simi-le ad una funzione animale» e continua parlando del «nichilismo schlege-liano». Non posso, in questa sede, soffermarmi a sviscerare i problemi insi-ti in tali affermazioni, ma è importante rendersi conto che, proprio come l’i-ronia di Schlegel non si prende gioco del mondo, così il suo riconoscimen-to della natura aperta di tutta la ricerca filosofica e dell’incompletezza dellanostra conoscenza non ne fa una specie di nichilista. Cfr. Eldridge, Leadinga Human Life. Wittgenstein, Intentionality, and Romanticism, ChicagoUniversity Press, Chicago 1997, in particolare pp. 83-85.

63 F. Schlegel, KA, vol. XII, cit., p. 214.64 Id., KA, vol. XIII, cit., pp. 55 e segg. ma anche pp. 173 e segg.65 Id., KA, vol. II, cit., e P. Firchow (a cura di), op. cit, p. 5.

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La filosofia, che è il prodotto di un metodo deduttivo mate-matico o scientifico, si trova ad essere confinata all’interno disistemi rigidi. La forma dialogica, come il frammento, è unaforma letteraria, parte di un sistema filosofico e capace di com-binare presenza e assenza di istanze sistematiche; questa «com-binazione romantica» fa parte di una filosofia modellata sulmetodo estetico, e in essa troviamo l’ironia. L’ironia è uno stru-mento letterario in grado di andare al di là dei rigidi confini dellinguaggio. L’ironia è una specie di gioco che rivela i limiti diuna visione della realtà che presume di avere l’ultima parola.Con l’uso dell’ironia i primi romantici tedeschi hanno dimostra-to che non è possibile avere l’ultima parola. E quando ci rasse-gnamo a questo fatto il metodo estetico diventa un’alternativasensata ai metodi della matematica e delle scienze naturali. E suquesto punto Rorty e Schlegel si incontrano di nuovo.

L’invito di Rorty a considerare la filosofia come un tipo discrittura, come una specie di romanzo familiare, avvicina la filo-sofia alla letteratura; e infatti Rorty ritiene che sarebbe opportu-no «considerare la filosofia come una branca della letteratura».66

E Rorty, al pari di Schlegel, considera l’arte come un completa-mento di ciò che la filosofia non è in grado di fare da sola. Nellaprospettiva di Rorty, un volta che si sia saputo rinunciare allemetanarrazioni filosofiche, quel che resta sono le narrazioni sto-riche (di natura molto più contingente). E allora

il principale supporto della storiografia non è più la filosofia mal’arte, che serve a sviluppare e modificare un’autocoscienza delgruppo attraverso, per esempio, l’apoteosi dei suoi eroi, la demo-nizzazione dei suoi nemici, il dialogo crescente tra i suoi membri, eil ridirezionamento della sua attenzione67

In questo modo l’arte ottiene un ruolo importante – non cer-tamente irrazionale – nell’ambito della vita sociale. In La filosofiadopo la filosofia68 Rorty sviluppa il suo punto di vista sul tipo dicompito che ci aspetta nell’attesa di abbandonare definitiva-mente le metanarrazioni. L’intellettuale ironico assume un ruolo

56ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

66 R. Rorty, Thugs and Theorists: A Reply to Bernstein, cit, citazione a p. 572.67 Ivi, p. 587.68 Cfr. Id., La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989.

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dominante poiché c’è bisogno di qualcuno in grado di utilizza-re il linguaggio in modo da sollevare dubbi radicali sul vocabo-lario già in uso e di mostrare l’incapacità del linguaggio di supe-rare se stesso e di far presa sul reale. Le conseguenze di questomodo di considerare il linguaggio non possono che ricordarcialcune delle preoccupazioni espresse da Dworkin a proposito diuna completa arbitrarietà di alcuni momenti del postmoderno,correnti che rendono impossibile giudicare certi atti come mal-vagi e altri come buoni, etc. Rorty difende la sua posizione daquesto tipo di obiezione, insistendo sul fatto che è sinonimo diincoerenza fondere il suo tipo di «postmoderno» con il «relati-vismo», dal momento che un relativista dovrebbe far ricorsoproprio a quel tipo di metanarrativa che Rorty rifiuta:

l’idea che ogni tradizione sia razionale e morale quanto ogni altrapotrebbe essere sostenuta soltanto da Dio, da qualcuno che nonabbia bisogno di usare (ma soltanto di menzionare) i termini «razio-nale» o «morale» poiché non ha bisogno di investigare o deliberare.Un tale essere sarebbe sfuggito alla storia ed alla conversazionenella contemplazione e nella metanarrativa. Accusare il postmoder-no di relativismo è come cercare di mettere in bocca a un postmo-derno una metanarrazione. Si potrebbe farlo solo a condizione chesi voglia identificare il «possesso di una posizione filosofica» con ilpossesso di una metanarrazione. Se vogliamo insistere su questadefinizione di «filosofia», allora il postmoderno è post-filosofico.Sarebbe meglio in ogni caso adottare una nuova definizione69

Certamente, entrambe le concezioni dell’ironia, quella diSchlegel e quella di Rorty, implicano un livello molto sofisticatodi presenza di una molteplicità di significati all’interno del lin-guaggio, molteplicità presentata forse in modo troppo ludico,ma questa caratteristica non deve renderci ciechi nei confronti diquella che può essere la serietà dei suoi obiettivi. Come ha fattonotare Richard Bernstein, tuttavia, «la mancanza di serietà» è «ilpiù grave peccato filosofico», un peccato che porta i critici asospettare che il professionista dell’ironia sia anche portatore diun attacco al potenziale critico della filosofia stessa.70 Ma se è

57ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

69 Id., Thugs and Theorists: A Reply to Bernstein, cit, citazione a p. 589.70 R. Bernstein, Beyond Objectivism and Relativism, Blackwell, Oxford 1983, p.

255, nota 38.

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possibile mantenere una posizione filosofica senza disporre dimetanarrazioni, allora è possibile combinare l’argomentazionecon l’astuzia, utilizzare l’ironia per criticare il linguaggio e percercare di guadagnare una riforma della filosofia.

Conclusioni

Vorrei concludere queste riflessioni con un aneddoto: duran-te una discussione sul potenziale di destrutturazione propriodell’ironia e sulla possibilità che l’ironia stessa crei delle incom-prensioni piuttosto che occasioni di comprensione, magari piùleggera e produttiva, Jacobs e Smith citano una mostra al RoyalOntario Museum di Toronto, intitolata Nel cuore dell’Africa, scri-vendo che la mostra era stata

concepita come ritratto ironico delle mostre nei musei coloniali ecome critica dell’ideologia imperialista che ha portato questi ogget-ti culturali dall’Africa in Canada: ciò che ha prodotto sono stateinvece accuse di razzismo da parte della comunità Afro-Canadese euna ingiunzione legale da parte del museo a fermare il picchettag-gio della mostra. In questa circostanza il mancato riconoscimentodell’ironia ha dato esiti opposti rispetto a quello che era il suo pro-posito morale71

L’impiego dell’ironia presenta alcuni rischi e deve fare affida-mento, in misura maggiore rispetto a un testo presentato inmodo diretto, su una certa agilità mentale da parte del pubblicoche, se manca, può produrre effetti catastrofici sul significato cheil destinatario assorbe da un determinato testo. Certamente,quando il pubblico prende una mostra diretta a criticare il razzi-smo o le pratiche imperialiste, per un qualcosa che li avalla,qualcosa è andato irrimediabilmente storto, o dalla parte deltesto o da quella del pubblico. Un simile caso di incomprensioneè toccato sia al primo romanticismo tedesco che al postmoderno.

Questi due movimenti, in ragione della propria affermazioneche la filosofia non è una scienza sovrana, collocata al di sopra diogni altro ambito di discorso, e, dal momento che entrambi

58ROMANTICISMO E POSTMODERNO: VARIAZIONIINCOMPRESE SULLA CRITICA DELLA MODERNITÀ

71 R.N. Jacobs – Ph. Smith, Romance, Irony, and Solidarity, cit. p. 74.

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hanno osato portare a stretto contatto filosofia e letteratura, ven-gono erroneamente letti come fautori di una rottura con la realtàoggettiva e di una spinta irrazionalistica. In breve, i primi roman-tici tedeschi e i postmoderni finiscono per incarnare «l’insultopeggiore che un intellettuale possa rivolgere a un altro», dalmomento che il loro pensiero viene letto in chiave irrazionalista.

Certamente le mosse irrazionali vanno evitate dai filosoficome anche da ogni altro intellettuale, ma né i primi romanticitedeschi né i postmoderni possono essere tacciati di irrazionali-smo. Entrambi i movimenti, nella loro audace sfida alla tradi-zione, hanno mostrano un certo grado di coraggio filosofico chedovrebbe essere decisamente degno di apprezzamento. Unintellettuale che abbia remore nel cercare la verità, anche a prez-zo di sfidare la tradizione, ci lascerebbe in acque immobili e sta-gnanti. Né i primi romantici tedeschi (spinoziani ai loro tempi)né i postmoderni possono essere considerati portatori di taliremore: si può non concordare con tutte le loro mosse innovati-va, ma trattare i due movimenti (nel loro complesso) come nullapiù che un’oscura nube carica di irrazionalismo capace diminacciare i limpidi cieli di chi persegue la verità, vuol dire ren-dersi colpevoli di una generalizzazione affrettata (che potrebbebenissimo mascherare una sorta di viltà e debolezza teorica), ilche non è mai, dialogicamente, una mossa produttiva.

59ELIZABETH MILLÀN-ZAIBERT

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PPosostmodertmoderno, comunitno, comunitararismoismo

e conoscenzae conoscenza

diTom Rockmore

CComunitaristi come CharlesTaylor, Michael Sandel, Ala-

sdair MacIntyre e Michael Walzer e postmoderni come Jean-François Lyotard, Félix Guattari, Gilles Deleuze, MichaelFoucault e Richard Rorty si collocano su fronti opposti per diver-se ragioni, che spesso si rivelano di fondamentale importanza.Penso che si possa rendere al meglio questa forma di opposizio-ne rapportandola alle posizioni espresse da Hegel. I comunitari-sti sono, come Hegel, impegnati a confrontarsi con la nozione dicomunità e collocano il baricentro delle proprie riflessioni lungoun asse teorico che va da Aristotele a Hegel, passando perRousseau. Ognuno a modo proprio, sviluppano tutti argomenticritici nei confronti del liberalismo tradizionale e della sua ver-sione più recente, inaugurata da Rawls, che essi rigettano in favo-re di una forma di comunità intesa – per usare un’espressionepresa a prestito da Tönnies – come Gesellschaft (società) piuttostoche come mera Gemeinschaft (comunità). Per rendere questa idea inmaniera generale ma non generica, in relazione alla terminologiasviluppata da Hegel nella sua celebre analisi della dialetticaservo/padrone, possiamo dire che i comunitaristi propongono,ognuno a modo proprio, una visione del contesto sociale secondola quale la legittimazione di tale contesto viene a dipendere, inultima istanza, dalla possibilità che l’individuo ha di riconoscersiin esso; viene a dipendere cioè dalla concezione della conoscenza.

Per questi filosofi la questione all’ordine del giorno è il proble-ma che già aveva interessato Rousseau e che, sulle orme di Marx,i marxisti hanno ricondotto all’alienazione dell’uomo moderno.1

61TOM ROCKMORE

1 Cfr. F. Pappenheim, The alienation of modern man: an interpretation based on

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Paradossalmente questo problema non è stato risolto, ma pro-babilmente è stato solo acutizzato dal collasso improvvisodell’Unione Sovietica, dal momento che sempre meno osserva-tori continuano a ritenere che la scomparsa dell’UnioneSovietica abbia creato qualcosa come la condizione sufficienteper la realizzazione di un contesto sociale realmente umano.Quel che George Bush padre, allora presidente degli Stati Uniti,ignaro dell’uso del termine ordine nuovo nel fascismo italiano,aveva definito il nuovo ordine mondiale, ha sfortunatamentefallito nel dare adeguate (e auspicate) soluzioni politiche ed eco-nomiche ai problemi della fine del secolo scorso. E non è impro-babile che sortiscano lo stesso esito la serie di guerre illegali chehanno avuto inizio all’alba del nuovo secolo con George Bushfiglio, attuale presidente degli Stati Uniti, in nome della lotta alterrorismo internazionale.

Se il rapporto dei comunitaristi con il pensiero di Hegel è incerto qual modo positivo, per i postmoderni, che nel loro com-plesso rigettano l’eredità hegeliana, questo stesso rapporto siconfigura generalmente come qualcosa di negativo. A partiredalle famose lezioni dedicate alla Fenomenologia dello Spirito diKojève negli Anni ‘30 fino all’affermazione del pensiero diHeidegger in Francia dopo la fine della Seconda GuerraMondiale, Hegel, o quantomeno un certo Hegel, ha continuatodirettamente e indirettamente a dominare la scena della filoso-fia francese.2 Lo sforzo di liberarsi dall’influenza di Hegel è inparte – ma solo in parte – responsabile dell’ascesa di Heideggeral rango di pensatore più importante nella comunità filosoficafrancese dopo la Seconda Guerra Mondiale e di maestro diun’intera generazione filosofica in Francia.3 Anche se non tutti ifilosofi anti-hegeliani sono postmoderni, i filosofi postmoderni,come gli heideggeriani e molti altri, lavorano fianco a fianco concoloro che respingono l’interpretazione di Hegel data in Franciada Kojève.

L’opposizione postmoderna all’egemonia hegeliana haassunto tre principali modalità di manifestazione. Una prima è

62 POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZA

Marx and Tönnies, Monthly Review Press, New York 1959.2 Cfr. V. Descombes, Le Même et l’autre. Quarante-cinq ans de philosophie françai-

se, Editions de Minuit, Parigi 1979.3 In proposito mi permetto di rinviare al mio T. Rockmore, Heidegger and

French Philosophy, Routledge, Londra 1995.

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di carattere diretto, come quella proposta da AndréGlucksmann con la sua critica alle ipotetiche tendenze totalita-rie radicate nella fibra più profonda dell’idealismo tedesco. Insecondo luogo possiamo trovare una forma di opposizione indi-retta, caratterizzata dall’influenza dell’ultimo Heidegger che,dopo il misterioso evento della cosiddetta «svolta» intercorsonel suo pensiero, fa semplicemente a meno del Dasein – il con-cetto principale della sua posizione iniziale. Probabilmente peril fatto che Essere e tempo è stato tradotto in francese soltantodiversi anni dopo la Lettera sull’Umanismo, il cosiddetto secondoHeidegger ha esercitato in Francia un’influenza sempre mag-giore rispetto al cosiddetto primo Heidegger. Al pari diFoucault, se quest’ultimo può essere definito postmoderno, cosìcome Roland Barthes, Jean Piaget, Claude Lévi-Strauss, Jean-François Lyotard, Jacques Derrida, Gilles Deleuze e FelixGuattari, i filosofi postmoderni tendono a imitare l’ultimoHeidegger nella «decostruzione» del soggetto. Come Rortynegli Stati Uniti, tendono anche a mettere in discussione il veroconcetto di ragione al quale si appellano allorché si sforzano perquanto possono di scansare l’irrazionalismo.

Comunitaristi e postmoderni trovano inoltre un punto direciproca divisione anche rispetto all’articolarsi delle rispettiveposizioni politiche. I primi insistono sull’importanza dell’unitàpolitica, dove «politica» è intesa nel senso greco della «polis»,mentre i secondi rifiutano questa nozione, considerandola unelemento che conduce direttamente al totalitarismo. SecondoGlucksmann questo pericolo è già presente nella strutturaprofonda del concetto di sistema.4 In questo modo egli congiun-ge le proprie forze a quelle di Karl Popper, la cui comprensionedei testi hegeliani non è certamente il suo maggiore punto diforza, così come si può dire anche di Leszek Kolakowski chestranamente afferma di aver individuato le radici dello stalini-smo nell’analisi marxiana dell’alienazione.

Il risvolto politico del rapporto fra comunitaristi e postmo-derni è ovviamente di estrema rilevanza: poche questioni filo-sofiche rivestono oggi un’importanza maggiore per la vita nellecittà della reale possibilità di costituire una comunità, o, detto

63TOM ROCKMORE

4 Cfr. A. Glucksmann, Les Maîtres-penseurs, Grasset, Parigi 1977.

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altrimenti e in maniera più efficace, della possibilità di costitui-re una comunità reale. Va da sé che questo tipo di comunitàdeve andare al di là di quello stadio che Sartre ha definito comeserialità (sérialité), ossia quella tipologia di relazione che, attra-verso l’influenza del liberalismo economico, è attualmentedominante dovunque nei paesi industrialmente avanzati. Quelche oggi si suole chiamare globalismo e che non rappresentanulla più di un’associazione economica con finalità commercia-li, non deve essere confuso con una comunità intesa nel suosenso più profondo.

Potrei affrontare questo tema in maniera diretta, ma preferi-sco seguire una via di tipo indiretto, come se il problema dellacomunità fosse collocato a un secondo livello. Noi proveremo araggiungere questo livello analizzando una sottile opposizione,più difficile da individuare, tra postmoderni e comunitaristi:quella che si colloca sul piano dell’epistemologia. A partire daquesta considerazione deriva il duplice intento di questo testo:per un verso descrivere la relazione fra postmoderni e comuni-taristi in relazione alla questione della conoscenza; per altroverso porre il concetto di conoscenza all’interno di un più preci-so concetto di comunità, inteso in senso epistemologico piutto-sto che politico.

La conoscenza: modelli e strategie

Per meglio contestualizzare la questione della conoscenza,sarà utile all’inizio richiamare l’attenzione sulla distinzionetra modello epistemologico e strategia epistemica. Le diffe-renze riguardano significati e obiettivi. Un modello epistemo-logico è evidentemente un proposito o un obiettivo che unadata strategia epistemica si prefigge di raggiungere. Ora ilmodello epistemologico che si adotta dipende da ciò che siritiene essere il criterio della conoscenza. C’è più di una pos-sibilità, anche se il modello epistemologico per così dire fon-damentale, che nella cultura occidentale risale quantomenoall’antica Grecia, consiste nel determinare i concetti in modotale da da porli al sicuro da ogni possibile attacco di tipo scet-tico. Per questa ragione Platone descrive il filosofo come qual-cuno che, basandosi sulla natura e sull’educazione, è in grado,in condizioni appropriate, di andare al di là delle cose delmondo delle apparenze per vedere la realtà delle cose così

64 POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZA

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come essa è;5 o anche come qualcuno che è in grado, come hamagistralmente osservato Merleau-Ponty, di vedere l’invisibile.L’immagine che Platone ci ha lasciato è quella di una filosofia ingrado di fondare le proprie affermazioni conoscitive assieme atutte le altre, rendendo così possibile ogni tipo di conoscenza.Secondo Platone, una volta che si è andati oltre le diverse ipote-si e si è vista la realtà, nulla è più semplice del tornare sui pro-pri passi all’interno del mondo delle apparenze per poter cosìprocedere alla fondazione delle varie branche del sapere. Aglialbori della tradizione filosofica già troviamo quell’immaginefamiliare della filosofia alle prese con la fondazione di se stessae di tutte le altre scienze che, quantomeno in teoria, in ultimaistanza discendono da essa. Descartes riproduce una versione diquesto stesso modello due millenni più tardi, all’inizio dell’etàmoderna, con la sua ben nota descrizione dell’albero della cono-scenza, descrizione questa che, al sorgere del XX secolo, è statafonte di ispirazione anche per Husserl.

Platone ha messo a punto la concezione canonica della cono-scenza della filosofia greca così come una delle due principali stra-tegie per tradurla in pratica. Talvolta si ha l’impressione che esi-stano tante strategie epistemologiche quanti sono i filosofi che siinteressano alla conoscenza. Ad ogni modo, tutte queste differen-ti strategie possono essere intese in ultima istanza come variazio-ni determinate delle due principali strategie epistemiche che, sullabase degli obiettivi di questo scritto, propongo di qualificare come«intuizionismo platonico» e «fondazionalismo cartesiano».

Per comprendere quel che abbiamo nominato come intuizio-nismo platonico sarà utile a questo punto richiamare l’attenzio-ne sulla differenza tra il platonismo e Platone. Sebbene siamo inpossesso di numerosi dialoghi scritti da Platone, non siamo aconoscenza e non possiamo risalire all’autentica posizione diPlatone. Nei suoi scritti sulla conoscenza, Platone presentamodelli epistemologici differenti, tra i quali i più importantisono quello della comprensione diretta e intuitiva della realtàproposto nella Repubblica, la critica della dottrina delle ideedescritta nel Parmenide e solitamente attribuita in diversi modi a

65TOM ROCKMORE

5 Cfr. Platone, Repubblica, 509.

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Platone stesso, oltre che l’analisi delle proposizioni condotta nelTeeteto. Dal momento che questi modelli risultano incompatibili,non possono essere composti organicamente in una sorta teoriaglobale della conoscenza. Si può immaginare che quel che sulleorme di Platone è diventato il platonismo, ossia un approccio alconoscere come afferramento diretto di un oggetto indipendentedalla mente – in termini cartesiani l’oggetto indipendente-da etuttavia conoscibile-per chi possa osservare tutto quello che esiste– non è il modello su cui Platone stesso avrebbe scommesso. Inogni caso questo modello concerne solo una parte della sua inte-ra produzione filosofica. Sebbene vi siano pochi teorici manife-stamente platonisti, questo approccio generale continua oggi avivere sotto altri nomi. I platonisti sono numerosi in particolarmodo fra coloro che si inscrivono dichiaratamente nei ranghi delrealismo epistemologico, soprattutto fra coloro che guardano confavore quel che può essere chiamato platonismo metafisico, o rea-lismo platonico, ossia quel tipo di realismo che afferma sia l’esi-stenza sia la conoscenza del mondo esterno indipendente dallamente. Gli esempi comprendono la possibilità di un’intuizionediretta e incontrovertibile di ciò che è così come esso è o, nelle teo-rie di F. Bacone e di J. Locke e, più recentemente, nel realismointerno proposto da H. Putnam, del modo in cui il mondo è.

Più che una teoria internamente articolata su come affrontareil compito di determinare e difendere particolari affermazioniconoscitive nella pratica, il platonismo epistemologico è unacambiale da pagare, un’opinione relativa a ciò cui la conoscenzasomiglia. L’approccio platonico alla conoscenza è difficilmentedifendibile e, forse, persino impossibile da difendere: è difficile,forse persino impossibile, mostrare che vediamo davvero unarealtà invisibile, come anche dimostrare che una realtà di questotipo esista. Per questa ragione si è istituita nella filosofia moder-na una strategia epistemica, il «fondazionalismo cartesiano»,ben radicata nella tradizione antica, che cerca di risolvere questiproblemi senza rinunciare in alcun modo all’ideale antico dellaauto-legittimazione della conoscenza filosofica.

Il fondazionalismo epistemologico moderno

Al giorno d’oggi il platonismo ha perso d’importanza, men-tre l’attenzione si è spostata dalle pretese di un afferramentointuitivo e diretto del modo in cui il mondo è a una strategia

66 POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZA

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fondazionalista molto diversa. Per quanto ci siano ancora nume-rosi intuizionisti epistemologici – tra i quali i più rappresentati-vi sono probabilmente Roderick Chisholm, Edmund Husserl egli husserliani – l’intuizionismo è diventato meno popolare algiorno d’oggi per effetto di uno spostamento verso la richiestadi un modello di sapere che sia pubblicamente verificabile. Allastregua di un’auto-manifestazione di carattere religioso, larivendicazione di una conoscenza intuitiva è, per definizione,qualcosa di privato, ossia qualcosa che si sottrae alla dimensio-ne pubblica e di conseguenza alla verificabilità. Come risultatodel progressivo allontanarsi dall’intuizionismo si è consolidatauna strategia destinata a raggiungere lo stesso obiettivo episte-mico mediante l’impiego di risorse epistemologiche differenti.

Come approccio alla conoscenza il fondazionalismo epistemo-logico, la strategia che qui è in discussione, non è qualcosa di par-ticolarmente innovativo. A seconda dell’accezione che si attribui-sce al termine «fondazionalismo», tale strategia può essere rinve-nuta già in molti filosofi antichi. Un esempio curioso è l’idea diAristotele per cui quel che egli indica come nomi, o i suoni chevengono emessi, sono nei fatti qualcosa che assomiglia alle cosedella realtà.6 Sebbene non argomenti a favore di queste tesi, inquesto primo esempio di analisi semantica Aristotele sta chiara-mente affermando che i nomi, o quantomeno le parole, sono inuna relazione di corrispondenza biunivoca rispetto alle cose. Diquesto stesso elemento si trova una propria eco nella tradizioneposteriore, per esempio nell’atomismo logico che possiamo tro-vare nel XX secolo nei primi Wittgenstein e Russell.7

Sussiste un’analogia – forse non sorprendente, dal momentoche la filosofia in qualche modo emerge dalla tradizione religio-sa – tra il fondamentalismo religioso e il fondazionalismo epi-stemologico: la filosofia ha preso il posto della religione nell’af-frontare da una prospettiva diversa temi molto simili, permeglio dire gli stessi. Per quel che concerne l’epistemologia c’èuna somiglianza molto profonda tra la religione e la filosofia dalmomento che ambedue tendono in qualche modo all’assoluto,ad una conoscenza senza limiti, a una conoscenza collocata al di

67TOM ROCKMORE

6 Aristotele, Dell’interpretazione, I. 7 Cfr. B. Russell, The Philosophy of Logical Atomism, Chicago, Open Court 1998.

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là di ogni sorta di scetticismo. La differenza principale, anziforse l’unica, è che la filosofia sostiene di dimostrare ciò che lareligione afferma soltanto in via dogmatica.

Il fondazionalismo cartesiano domina oggi la discussionesulla teoria della conoscenza. Nel XX secolo questa strategia èstata sviluppata da Frege, Russell, Moore e dal primoWittgenstein, i fondatori di ciò che chiamiamo filosofia analiticaanglo-americana, le cui teorie, tutte, hanno fornito variazioni sultema del significato secondo cui è possibile mostrare che leparole sono in una relazione di corrispondenza biunivoca con lecose esistenti nel mondo. Questa strategia è stata sviluppataulteriormente anche da pensatori molto recenti come Chisholm,Apel e anche Habermas.

Le molte varietà di fondazionalismo consistono in una seriedi variazioni su un tema singolo, ma che dal punto di vista epi-stemologico si rivela molto importante. Nel dismettere le prete-se – care al platonismo – di un afferramento diretto e intuitivodella realtà indipendente dalla mente, il fondazionalismo invo-ca una strategia quasi geometrica per giustificare le preteseconoscitive. Ricordiamo che la geometria è basata su assiomi epostulati la cui correttezza non può essere dimostrata, dalmomento che essi non dipendono da altri, precedenti principi.Come nella geometria, il fondazionalismo epistemologico consi-ste nel determinare un principio primo (o una serie di principiiniziali) la cui verità è nota e da cui la teoria può essere rigoro-samente dedotta, poiché discende da questo principio (o da que-sti principi) in regime di dipendenza.

Per dare legittimazione alle idee chiare e distinte, Descartes,che ha formulato la versione moderna più influente del fonda-zionalismo epistemologico, si è basato su un cogito, la cui esi-stenza, afferma, è qualcosa che semplicemente non può esserenegata. Gli empiristi inglesi, che negavano qualsiasi forma diconoscenza innata, hanno fondano le pretese di conoscenza suciò che è dato immediatamente. Sotto la duplice influenza del-l’empirismo tradizionale inglese e delle tecniche logiche rinve-nute da Frege, da Russell, dal primo Wittgenstein, così come daiprimi filosofi analitici anglo-americani, la conoscenza è fondatasu una combinazione di ciò che è dato immediatamente comeanche sugli sforzi semantici tesi a interpretare le pretese delmodo in cui – per usare un’espressione entrata nel gergo – il lin-guaggio possa aderire al mondo. Questo tipo di strategia ha

68 POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZA

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raggiunto il proprio acme con il Circolo di Vienna, in modo par-ticolare con gli sforzi del primo Carnap tesi a portare l’attenzio-ne sul nesso, supposto senza mediazioni, fra l’esperienza imme-diata e le teorie scientifiche mediante il dispositivo degli enun-ciati protocollari (Protokolsätze). Ad ogni modo, dopo l’interven-to di Neurath contro Carnap, dopo la critica dell’ultimoWittgenstein alla filosofia del senso comune di Moore, la filoso-fia analitica ha rapidamente ridimensionato il proprio investi-mento sulle varie tipologie di strategie fondazionaliste. Laseconda generazione di filosofi analitici anglo-americani si èrapidamente ribellata nei confronti dell’empirismo che continuaad avversare. Penso in particolare all’ultimo Wittgenstein, aQuine, a Sellars, a Davidson e a Rorty.

Ognuna di queste tendenze presuppone una relazione frasoggetto e oggetto che riecheggia debolmente il platonismo, o,in termini kantiani, richiama una relazione tra manifestazione eciò che si manifesta. Sebbene contesti l’idea di una conoscenzaimmediata così come qualsiasi inferenza che vada da una rap-presentazione alla realtà, Kant, in questa sua fase rappresenta-zionalista, è impegnato come chiunque altro nell’obiettivo diconoscere ciò che è e come esso è, nel suo caso specifico attra-verso un’analisi della relazione della rappresentazione con l’og-getto esterno che è mente-indipendente. In questo modo, nel-l’abbandono successivo dell’approccio rappresentazionalista alproblema della conoscenza e sulla base della sua rivoluzionecopernicana nella filosofia, Kant può affermare che la relazionedel soggetto conoscente con l’oggetto conosciuto può esseregarantita solo se il soggetto «costruisce» (herstellen) il suo ogget-to; e questa è la condizione necessaria per la sua conoscenza. Inquesta maniera, per quanto poi abbia abbandonato il rappre-sentazionalismo per abbracciare il costruttivismo, Kant non for-nisce una smentita del fondazionalismo, ma perfeziona questastrategia, che raggiunge così un proprio rinnovato momento dimassima espressione all’interno della filosofia critica. Kantafferma quindi di poter dedurre le categorie, di poter cioèdedurre i principi iniziali che fondano, o dotano di certezzaindubitabile in senso cartesiano, la fondazione di una conoscen-za apodittica. A dispetto della sua tagliente critica rivolta aDescartes, si può dire che Kant continui a sviluppare la versio-ne della strategia fondazionalista individuata dal suo predeces-sore francese.

69TOM ROCKMORE

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Tipologie di post-fondazionalismo

Comunitaristi e postmoderni vengono alla luce in uno spaziokantiano, quindi dopo il contributo dato da Kant al fondaziona-lismo. Queste due posizioni generali esemplificano due approc-ci post-fondazionalisti al problema della conoscenza. Dire chesono entrambi post-fondazionalisti è dire che entrambi rappre-sentano due opposizioni al fondazionalismo, ma le rispettiveforme di opposizione al fondazionalismo si manifestano inmodalità diverse. La principale differenza concerne le conclu-sioni specifiche che possono essere tratte dal rifiuto del fonda-zionalismo, il quale porta i postmoderni verso lo scetticismo e icomunitaristi verso una nuova concezione della conoscenza.

Per dirla in maniera più generale, si può affermare che, nelcomplesso, i postmoderni sono dei neo-scettici. Detto ancorauna volta in maniera generica, storicamente lo scetticismo puòessere classificato secondo due tipologie principali: la varianteantica, rappresentata da Sesto Empirico, che ha espresso l’inca-pacità di dirimere tra due diverse possibilità; e la variantemoderna, che è anche la meglio conosciuta fra le molte variantimoderne, proposta da Hume che nega la validità di qualsiasiapproccio basato sulla nozione di causalità. I postmoderni rap-presentano una terza variante di scetticismo, consistente nellanegazione della possibilità della conoscenza non in virtù del-l’incapacità di poter scegliere tra due diverse possibilità e nem-meno perché fondata sull’assenza di un’analisi causale capacedi sortire esiti positivi, quanto piuttosto perché basata sull’ipo-tesi della mancanza di una fondazione valida. In questo modoLyotard, reagendo contro il razionalismo di stampo hegeliano,si fa promotore della negazione di qualsiasi forma di ciò che eglidefinisce come una meta-narrazione (méta-récit).8 Deleuze, cheha distinto due tipi di fondazione, una ragione (fondation) chesorge a partire da un fondamento e una ragione (fondement) chediscende dall’alto,9 rifiuta qualsiasi tipo di fondazionalismo filo-sofico progettato per fornire una giustificazione epistemologicafinale o definitiva. Assieme a Guattari, lo stesso Deleuze si fa

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8 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.9 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 75-78.

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promotore della nozione di «rizoma», qualcosa che comprendein sé connessioni eterogenee, tutte poste sullo stesso piano, incui, in assenza di una qualche relazione verticale, nessuna ha lapossibilità di fungere da fondamento nei confronti di un’altra.10

Tutti i postmoderni si trovano in una relazione di dipendenzarispetto al fondazionalismo epistemologico cartesiano. Al pari diRorty essi solitamente insistono sulla necessità di fondare laconoscenza attraverso qualche declinazione della strategia carte-siana, prima di osservare che la mancanza manifesta di unaforma cartesiana di ragione conduce solo allo scetticismo episte-mologico. Essi accettano, quindi, un’analisi della conoscenza chepunti ad una strategia epistemologicamente fondazionalistaprima di scoprire che questa strategia fallisce in relazione ai com-piti che si è auto-assegnata. Se i fondazionalisti fossero all’altez-za del proprio compito, allora i postmoderni non avrebbero pro-prio nulla cui rivolgere la propria critica. Tutti accettano in ulti-ma istanza una concezione della conoscenza di carattere com-pletamente tradizionale, sottesa al fondazionalismo, mentrerichiamano l’attenzione sul fatto che le nostre idee sono in realtàsempre contingenti. In questo senso la filosofia postmodernaassume la forma di un processo contingente, un processo con-dannato incessantemente a ripetersi e a reinventarsi, ma con-dannato sempre, come hanno posto in luce Deleuze e Guattari, aripetersi e reinventarsi con altri dati,11 poiché al posto della spie-gazione, la descrizione è ritenuta essere adeguata a sostituire ilragionamento deduttivo. Il risultato, come Rorty non manca maidi sottolineare, è che l’epistemologia, che è identificata qui con lafilosofia tout court, deve necessariamente aprire la strada all’er-meneutica o all’incessante lotta delle interpretazioni conflittualinella forma di una competizione che semplicemente non puògiungere a una conclusione. Così, a differenza di Gadamer, l’er-meneutica, stando a quanto afferma Rorty, non porta ad altro senon a una discussione dal finale aperto o a una discussione senzafine, una discussione che non è mai sicura di rappresentare ade-guatamente il reale né di poter evitare lo scetticismo.12

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10 Cfr. G. Deleuze – F. Guattari, Mille Piani, 2 voll., Treccani, Roma 1987.11 G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino , pag. 94.12 Mi permetto di rimandare a T. Rockmore, Gadamer, Rorty, and Epistemology

as Hermeneutics, in: Laval théologique et philosophique, n. 1/1997, pp. 119 – 130.

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Hegel contro i postmoderni

Eccezion fatta per Hegel, i comunitaristi moderni concentra-no i loro sforzi teorici principalmente su problemi sociali e poli-tici. Dopo l’edizione giovanile di volume dedicato ad Hegel,Charles Taylor ad esempio ha spostato la propria attenzione sualtre tematiche, recentemente sulla questione del multiculturali-smo.13 Tuttavia, agganciando l’idea di benessere (welfare) a unacorrelazione con la concezione della comunità, i comunitaristipresuppongono un’idea della conoscenza che è, a sua volta, fon-data sulla comunità. Per quanto ne so, si tratta di qualcosa che,tra i comunitaristi, Hegel è l’unico ad aver elaborato in manieraesplicita. Sarà utile, per questa ragione, gettare un breve sguar-do sul modo in cui Hegel ha elaborato la nozione di conoscenzaall’interno dell’ambito della sua concezione della comunità, piùprecisamente in relazione al suo modo di concepire la comunitàdal punto di vista epistemologico, dal momento che questo ele-mento risulta essere la principale alternativa epistemologicacomunitarista nei confronti dello scetticismo postmoderno.

Tanto per cominciare si può discutere se Hegel sia non sol-tanto un pensatore moderno, ma anche postmoderno. Lyotard,per esempio, richiama l’attenzione sul fatto di poter distingueretra moderni e postmoderni impiegando come criterio realmentediscriminante il fondazionalismo cartesiano. Allo stesso mododei postmoderni Hegel rifiuta il fondazionalismo. Dal suopunto di vista il fondazionalismo appartiene ai postmoderni.Ma la sua appartenenza al postmoderno si limita solo a questopunto, dal momento che, come i comunitaristi, secondo Hegel apartire da Aristotele non può esserci questione alcuna che possaportare allo scetticismo epistemologico.

La concezione hegeliana della conoscenza è poco nota ed èstata spesso fraintesa, persino da quelli che furono i suoi allie-vi.14 Da un lato c’è una frequente confusione tra Hegel e l’hege-

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13 Cfr. Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, in: Ch. Taylor– J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,Milano 1998, pp. 9-62.

14 Due esempi recenti, fra molti, includono la pretesa di individuare un argo-mento trascendentale per il realismo platonico in Hegel (cfr. K.R. Westphal,Hegel’s Epistemology: A Philosophical Introduction to the Phenomenology of

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lismo, che basta a generare una situazione in cui vengono criti-cate idee dovute ad altri e scorrettamente attribuite ad Hegel.Un rimprovero che spesso gli viene rivolto, per esempio, è quel-lo di aver elaborato concezioni assolutistiche che non sono sue eche nei fatti sono incompatibili con la sua costante insistenza sullegame intrinseco fra conoscenza e il momento storico in cuiessa sorge. È stato anche rimproverato per le sue inclinazionireligiose, sebbene egli abbia collocato la religione tra le formeimperfette di conoscenza. Viene anche rimproverato – in modoparticolare dai marxisti – di essersi identificato, presumibilmen-te oltre ogni limite, con la Prussia in cui viveva, nonostante ilsuo continuo impegno nel richiamare l’attenzione sulla distin-zione fra ciò che è reale e ciò che è semplicemente possibile.

Già nel suo primo testo filosofico, la Differenza fra il sistemafilosofico di Fichte e di Schelling,15 Hegel si trova a respingere ilfondazionalismo con la sua stringente e sottile critica rivolta allaversione che questa strategia conoscitiva aveva assunto nel pen-siero di Reinhold. Nelle sue osservazioni sistematiche, con quel-la notissima boutade relativa all’impossibilità di imparare a nuo-tare senza calarsi in acqua, Hegel identifica quel che evidente-mente risulta essere una pecca fondamentale all’interno dellafilosofia critica.16 Come Hegel mette bene in luce, è nell’ideastessa delle condizioni generali di possibilità della conoscenzache alberga la possibilità di un approccio dogmatico. La contro-proposta di Hegel, avanzata nel Differenzschrift, relativa allaintrinseca circolarità di tutte le forme di giustificazione episte-mologica, respinge ogni forma di fondazionalismo, strategia cheimplica sempre la linearità.17

Sebbene Hegel sia propriamente un filosofo moderno, è un

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Spirit, Hackett, Indianapolis 2003, in particolare pp. 65 – 71) e l’ulteriorepretesa che Hegel non sia in alcun senso un filosofo originale in una spie-gazione dell’idealismo tedesco che non tiene conto della posizione di Hegel(cfr. F.C. Beiser, German Idealism: The Struggle Against Subjectivism 1781 –1801, Harvard University Press, Cambridge 2002, in particolare p. 11).

15 Cfr. G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema di Fichte e di Schelling, in: Id., Primiscritti critici, Mursia, Milano 1971, pp. 1-120.

16 Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Bompiani, Milano1996, § 10, pp. 111-112.

17 Per una discussione di questo tema mi permetto di rinviare a T. Rockmore,Hegel’s Circular Epistemology, Indiana University Press, Bloomington 1987.

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autore che si spinge più in là dei moderni, rigettando la conce-zione tradizionale della conoscenza, che egli rende relativa a undato momento storico. Secondo Hegel tutta la conoscenza sitrova in una relazione di dipendenza dal momento storico in cuiessa stessa sorge. Non si può mai esser certi di andare al di là delproprio tempo. Quel che lui intende come sapere assoluto (dasabsolute Wissen), nella sua distinzione dalla conoscenza assoluta,non dovrebbe essere confuso con la concezione classica dellaconoscenza che tradizionalmente risale quantomeno a Platone,e cioè una conoscenza atemporale di un mondo esterno, cosìcome esso è, indipendente dalla mente. In Hegel così come inKant, il termine «assoluto» significa «senza limiti», quindi indi-pendente; in questo specifico contesto epistemologico il termineè inteso come un approccio alla conoscenza che è completamen-te, da cima a fondo, immerso nel pensiero. Paradossalmente, perHegel, il sapere assoluto è intrinsecamente relativo, è cioè rela-tivo al proprio momento storico.

Giustificazione epistemologica e comunità epistemica

Contrapponendo l’immagine del circolo all’approccio episte-mologico lineare proprio della tradizione, Hegel ribalta quel-l’antica concezione della filosofia che tradizionalmente risalealmeno a Parmenide. Ricordiamo che la via verso la verità è cir-colare per poter seguire la circolarità dell’essere stesso. SecondoHegel la filosofia si distingue dalle altre scienze per la sua assen-za di presupposti, poiché essa non deve presupporre proprionulla.18 Da questo ne viene che la filosofia deve avere necessa-riamente una chiusura, deve quindi assumere la forma di un cir-colo. Il problema sta nella giustificazione delle affermazioni epi-stemologiche e quindi nell’evitare lo scetticismo, senza peròinvocare la concezione cartesiana di una fondazione non sog-getta a instabilità e mutamenti, una fondazione che sia un fon-damentum inconcussum.

La soluzione che Hegel propone risulta essere tanto interes-sante quanto innovativa. Tutte le varianti del fondazionalismo sisono tramandate come uno sforzo, rimasto alla fin fine senza

74 POSTMODERNO, COMUNITARISMO E CONOSCENZA

18 Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 1, p. 91.

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successo, di compiere affermazioni sull’esperienza secondomodalità che non risultano dipendenti dall’esperienza stessa.Kant basa il suo approccio fondazionalistico sulla geometriaeuclidea, che è per lui l’unica tipologia possibile di geometria,con l’obiettivo di arrivare a comprendere le condizioni dell’e-sperienza e della conoscenza. Ma com’è possibile ancora nutrirefiducia verso questo approccio, in particolare dopo la scopertadelle geometrie non-euclidee? Com’è ancora possibile crederenella legittimità dell’approccio trascendentale alla conoscenza?

La scoperta delle geometrie non-euclidee semplicemente – edefinitivamente – ha minato ogni inferenza tra ciò che è pura-mente possibile e ciò che è reale. E questo ha significato anche ladissoluzione della filosofia critica. Kant, che aveva sottopostoad analisi critica tutte le forme precedenti di fondazionalismo,aveva creduto erroneamente di essersi protetto contro la possi-bilità di una confutazione successiva della propria posizione,esaminando la possibilità della conoscenza in generale. In que-sto modo, per effetto delle dinamiche posteriori della conoscen-za, come il sorgere delle geometrie non-euclidee, come il collas-so della concezione unitaria della matematica dovuto al sorgeredi diverse scuole matematiche all’alba del secolo successivo, e lascoperta della teoria generale della relatività, il programma kan-tiano è stato de facto messo da parte dalla storia. L’evoluzionesuccessiva delle matematiche moderne ha determinato una con-traddizione all’interno dello sforzo kantiano di portare a perfe-zionamento il programma fondazionalista.19

La critica kantiana al fondazionalismo epistemologico avevail proprio punto di forza nel mostrare i limiti di qualsiasi sforzodi giustificazione puramente teoretica delle pretese di cono-scenza. Hegel, che si oppone a ogni aspetto dell’approccioaprioristico di Kant alla conoscenza, affronta il problema non dauna prospettiva aprioristica, quanto piuttosto da una prospetti-va a posteriori. Egli ripensa la conoscenza in maniera processua-le, affermando che tutte le giustificazioni epistemologiche sonoin ultima istanza qualcosa di pratico. Secondo Kant tutta la

75TOM ROCKMORE

19 Si veda in proposito M. Kline, Mathematics: The End of Certainty, OxfordUniversity Press, New York 1980.

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conoscenza comincia con l’esperienza, ma tutta la filosofia criti-ca non dipende dall’esperienza quanto invece da una deduzio-ne trascendentale che legittima le sue pretese di conoscenza. PerHegel, al contrario, l’esperienza va presa più seriamente. PerHegel le asserzioni conoscitive non sono mai elementi indipen-denti dall’esperienza, ma sempre necessariamente qualcosa chesi trova in un rapporto di dipendenza dall’esperienza stessa. Alconcetto kantiano di una ragion pura, Hegel oppone una nozio-ne di ragione impura, o «spirito», che non precede in alcunmodo l’esperienza, ma, al contrario, si trova in una relazione didipendenza rispetto all’esperienza stessa.

Come conseguenza del suo allontanamento dall’apriorismo odall’approccio trascendentale per approdare a un approccioall’epistemologia caratterizzato dalla dimensione «pratica», ilproblema di Hegel viene ora a consistere nella necessità dimostrare una giustificazione pratica per le pretese della cono-scenza. Hegel articola questo suo punto di vista almeno in dueluoghi dei suoi scritti.

Nel già ricordato Differenzschrift Hegel paragona la teoriadella conoscenza a un circolo e richiama l’attenzione sul fattoche il circolo può dirsi concluso soltanto quando a chiudersi è lacirconferenza stessa; in altri termini, una teoria giustifica pro-gressivamente se stessa nel mentre essa stessa si sviluppa. Inuna fase posteriore del suo pensiero, segnatamente nellaFenomenologia dello Spirito, Hegel disgiunge il concetto di spirito(Geist) dalle sue origini religiose, naturalizzandolo. La trasfor-mazione di questo concetto gli dà la possibilità di concettualiz-zare la giustificazione epistemologica di norme e valori sorti inun dato momento storico o in un altro, ossia in un particolarecontesto sociale – e questo è un processo che può modificarsi nelcorso del tempo.20

Comunitaristi, modernisti e post-moderni

Vorrei adesso prendere in considerazione una possibile obie-zione. Naturalmente tutta questa discussione presuppone una

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20 Vorrei rimandare in proposito a T. Rockmore, Cognition: An Introduction toHegel’s Phenomenology of Spirit, California Unversity Press, Berkeley 1997.

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distinzione fra moderno e postmoderno. È ovvio che diversa-mente, cioè senza questa distinzione, o senza una qualchedistinzione fra questi due elementi, non ci sarebbe possibilità diintendere il postmoderno. Si potrebbe ora obiettare che questadistinzione sia semplicemente qualcosa di artificiale, dalmomento che non vi è una discontinuità e che non siamo difronte a una rivoluzione concettuale nei termini in cui il post-moderno viene descritto rispetto al moderno. Per quanto riguar-da le scienze moderne, Latour, Stengers e Prigogine, al pari diShapin, Bloor, Barnes e Merton, si rifiutano semplicemente diaccettare la distinzione canonica tra scienze e contesto socialenella direzione di una ricomprensione della scienza all’internodel contesto sociale.

Si deve semplicemente ammettere che questa distinzione èartificiale e poggia su una concezione idealizzata della scienzastessa. Su un piano puramente scientifico, questa distinzione èstata recentemente messa in questione, ad esempio, daPrigogine che, studiando i sistemi instabili, ha tentato di «ritem-poralizzare» la scienza per ricomprenderla come qualcosa diintrinsecamente storico.21

Anche Latour cerca di giungere a una concettualizzazionedella scienza in una maniera che è molto simile alla precedente.Seguendo Shapin e Shaffer su questo punto,22 argomentandocontro la loro distinzione tra la scienza e il mondo che la circon-da, Latour avanza l’idea per cui noi non saremmo mai statimoderni.23 Anche se quindi la distinzione tra moderno e post-moderno non trova legittimazione rispetto alla scienza, ne trovacomunque una, se i limiti sono specificati accuratamente, quan-tomeno rispetto al dominio epistemologico nel quale gli approc-ci dei moderni e dei postmoderni differiscono in relazione allapossibile giustificazione delle pretese del sapere.

77TOM ROCKMORE

21 Cfr. I. Prigogine, Les Lois du chaos, Flammarion, Parigi 1993.22 Cfr. S. Shapin – S. Schaffer, Leviathan and the Air-Pump, Princeton University

Press, Princeton 1985.23 Cfr. ivi.

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Conoscenza, postmodernismo, comunitarismo

Provo ora a tirare le somme di questa mia discussione. Sonopartito dalla nota tendenza a confrontare la tipologia di impe-gno politico proprio di comunitaristi e postmoderni, richiaman-do l’attenzione sulle differenze di carattere epistemologico pre-senti nelle rispettive concezioni della comunità.

Come possiamo giustificare la nozione di comunità all’inter-no di un contesto epistemologico? La risposta è semplice: daquando ci troviamo di fronte alla mancanza di una formamigliore, più attendibile, di giustificazione (del tipo della rive-lazione di una divinità, di una autorità, data da una intuizionedi carattere platonico, o da una strategia fondazionalista), ladecisione di accettare un’affermazione epistemica o un’altrapuò dipendere soltanto dal gruppo auto-costituentesi, o comu-nità, ossia dipende da coloro che lavorano all’interno di un par-ticolare dominio cognitivo. Quindi i fisici decidono per i fisici,gli artisti per gli artisti, i ragionieri per i ragionieri. In tutti i casile osservazioni, la scelta delle norme giudicate attendibili e l’in-terpretazione dei risultati, come anche la loro giustificazione,dipende dal punto di vista auto-costituito e sempre in fase diauto-costituzione, del gruppo specifico in questione. Comemette bene in evidenza Hegel, dopo due millenni e mezzo disforzi compiuti dalla cultura occidentale non abbiamo nes-sun’altra alternativa che possa essere migliore di questa, o quan-tomeno che risulti più accettabile.

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JJ .F.F. L. Lyyoottarard: d: le différendle différend

e il pre il problema delle meoblema delle mettanaranarrrazioniazioni

diNectarios G. Limnatis

JJean-François Lyotard è in-dubbiamente una delle figu-

re più controverse nel panorama filosofico degli ultimi decenni.Un passato da marxista e fenomenologo, membro del gruppoSocialismo o barbarie negli Anni ‘50 e ‘60, Lyotard diventa alla fineun autore disincantato nei confronti del marxismo e, alla finedegli Anni ‘60 avanza la propria interpretazione di quelmomento storico, che ha definito postmodernità. Il suo punto dipartenza, ma anche il cuore dei suoi interessi, è stato e rimanesempre la questione politica. È la delusione politica che lo haindotto prima ad allontanarsi dalla teoria marxista, poi a rinne-gare l’efficacia delle costruzioni teoretiche generali. Il fallimentodel marxismo classico, l’enorme e in apparenza incommensura-bile edificio della civiltà capitalista, assieme alle sue contraddi-zioni, le uccisioni su scala industriale proprie dell’esperienza diAuschwitz, guidano lo studioso francese a rinunciare alla possi-bilità di una comprensione razionale della storia come anchealla rinuncia del vigore di un filosofare di tipo sistematico.Bisogna notare come l’esperienza di Auschwitz sia stata indica-ta da molti intellettuali del dopoguerra, anche di orientamentidiversi (per esempio Hannah Arendt, Theodor W. Adorno,Emmanuel Levinas, per fare soltanto qualche esempio illustre)come punto di riferimento, ma anche di partenza, per dare l’as-salto all’efficacia della ragione. Bisogna anche rammentare chela rivolta di Lyotard contro la ragione è un tratto caratteristico digran parte del pensiero francese degli ultimi quaranta anni.Quasi dall’inizio del XX secolo la scena intellettuale francese eradominata dai paradigmi hegeliani, marxisti e strutturalisti. Eranaturale, quindi, che molti degli intellettuali francesi insoddi-sfatti nel secondo dopoguerra cercassero di evitare il rigore del

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filosofare sistematico, andando alla ricerca di nuovi modelli,come quelli psicoanalitici, decostruzionisti e altri ancora, inseguito divenuti noti sotto la formula di post-strutturalismo.1

Possiamo vedere come la delusione di Lyotard per la fram-mentazione sociale, da lui empiricamente percepita sotto le con-dizioni del capitalismo postbellico, venga traslata anche nellaframmentazione epistemologica, oltre che spiegata attraversotale frammentazione: una incommensurabilità universale, unamolteplicità di campi del sapere soggetti a frammentazione(«universi di discorso», «discipline», «generi» e «giochi lingui-stici» sono solo alcune delle formule che Lyotard impiega perdescrivere quest’idea). Inoltre Lyotard cerca di operare unaconiugazione del politico, orizzonte evidentemente soggetto ainstabilità e relatività, con il tentativo generale di una fondazio-ne del relativismo metodologico ed epistemologico. Lyotardcompie questa operazione in maniera radicale e senza compro-messi, cercando di «dimostrare – con quanta più sicurezza pos-sibile – l’impossibilità della certezza».2 Sul piano epistemologi-co il relativismo che così Lyotard abbraccia si svilupperà versoun completo agnosticismo, un termine che sembra essere in con-traddizione con se stesso: come si può conoscere quella cosa chenon si fa conoscere? Sul piano sociale e politico le ripercussionidella posizione di Lyotard sono in relazione con il progressivoindebolirsi della speranza di una critica del capitalismo, scredi-tando le speranze e le aspirazioni di cambiamento sociale, can-cellando le distinzioni fra destra e sinistra, conservatori e libera-li, e così via.

La polemica scatenata dalle affermazioni di Lyotard è tre-menda. Per quanto si possa comprendere il suo punto di par-tenza, la sua enfasi sulla finitezza e i limiti della ragione umana,le sue affermazioni metodologicamente provocatorie lascianomolto a desiderare e, non a caso, diventano oggetto di robustecritiche sia sul piano politico sia su quello epistemologico.

La filosofia politica di Lyotard viene infatti etichettata da

80J.F. LYOTARD: LE DIFFÉREND E IL PROBLEMA DELLEMETANARRAZIONI

1 Per una trattazione completa del panorama in questione fino ai primi Anni‘80 si veda P. Dewes, The Logics of Disintegration: Post-Structuralist Thoughtand the Claims of Critical Theory, Verso, Londra 1987.

2 J. Williams, Lyotard: Toward a Postmodern Philosophy, Polity Press,Cambridge 1988, p. 65.

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Habermas3 (seguito poi da Rorty4 e da molti altri) come «neo-conservatrice»; la sua lettura generalizzante dello sviluppo delpresente e la prospettiva per il futuro è etichettata come affettada «sconcertante superficialità»,5 le sue discussioni sulla scienzacome «deboli»,6 e via dicendo. È inoltre impressionante come latrattazione offerta da Lyotard delle figure maggiori e dei pro-blemi più rilevanti (Kant, Hegel, Marx, Wittgenstein, l’unità delsapere, la critica del capitalismo, etc.) siano rifiutati praticamen-te da tutti i suoi commentatori, sia da quelli critici che dai suoisostenitori.

Questo ultimo dato dev’essere visto non solo come l’eviden-za di una posizione provocatoria, penetrante e stimolante, maanche della delicatezza e dell’essenzialità proprie dei problemisollevati da Lyotard. La limitatezza della ragione umana, la dif-ficoltà di istituire un’epistemologia che possa ritenersi fondata,l’impraticabilità della metafisica, i problemi sociali e politicigenerati dal capitalismo moderno, tutti questi sono problemiaperti, in via di discussione, e sono anche questioni non menoimportanti e centrali oggi di quanto non lo fossero negli ultimidecenni. Non è un caso quindi che termini come «legittimazio-ne», «grande narrazione», «metanarrazione», «postmoderno», esimili, molti dei quali sono stati introdotti per la prima voltaproprio da Lyotard, siano diventati componenti emblematici dellessico filosofico contemporaneo.

In queste pagine vorrei prendere in esame in maniera fonda-mentale le linee di sviluppo di una determinata una fase storicadella riflessione di Lyotard, quella che va dagli ultimi Anni ‘60ai primi Anni ‘70, quando la pubblicazione del suo volume Lacondizione postmoderna lo ha reso celebre a livello mondiale. In

81NECTARIOS G. LIMNATIS

3 J. Habermas, Modernity versus Postmodernity, in: New German Critique,22/1981, pp. 3-14.

4 Lyotard è uno dei tanti critici francesi che diventano «pronti ad abbando-nare le politiche liberali allo scopo di evitare una filosofia universalistica».Cfr. R. Rorty, Habermas and Lyotard on Postmodernity, in: Id., Essays onHeidegger and Others, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, pp.164 – 176, in particolare p. 165.

5 G. Browing, Lyotard and the End of Grand Narratives, Wales University Press,Cardiff 2000, p. 149.

6 R. Rorty, op. cit., p. 165.

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primo luogo (§ 1) ho intenzione di analizzare la differenza frascienza e narrativa, per passare poi (§ 2) all’analisi del suo sforzoteso a dare una giustificazione epistemologica della differenzaassoluta tra i due generi, enfatizzando la nozione di «différend»,nella sua opera omonima edita nel 1983. Tuttavia l’obiettivo diLyotard resta sempre l’orizzonte politico. Compiuta la dichiara-zione (anti)epistemologica dell’impossibilità di una conoscenzasistematica, egli intende poi cercare una modalità di impiego diquesto principio come premessa a sostegno delle sue convinzionisociali e politiche. Dopo aver discusso queste questioni potrò infi-ne (§ 3) giungere a mettere in discussione la rinuncia espressa daLyotard nei confronti delle «metanarrazioni».

Conoscenza e narrazione

Il punto di partenza dell’offensiva scagliata da Lyotard versola modernità concerne la differenza tra conoscenza e narrazione.Ogni campo dell’attività umana è differente e richiede strumen-ti specifici e mezzi d’espressione appropriati. Poiché la cono-scenza è sempre espressa mediante il linguaggio, Lyotard,facendo in parte proprio il programma di Wittgenstein, affermache ogni ambito di discorso si articola secondo giochi linguisti-ci. Mediante questi giochi la conoscenza risulta strettamenteinterconnessa anche se gli ambiti di pertinenza sono differenti.Finalità, struttura e contenuto delle affermazioni in ciascunambito dipendono dalle particolarità dei corrispondenti ambitipratici, così come dalle condizioni sociali e storiche. Si può averel’impressione che oggi che uno di questi ambiti di organizzazio-ne del sapere, la scienza, sia giunto a dominare tutti gli altri. Laconoscenza scientifica, però, è solo una sfera, un «genere» deldiscorso umano, non la sua totalità. C’è bisogno di ricordare,quindi, che

il sapere scientifico non è tutto il sapere, è sempre stato accanto, incompetizione, in conflitto con un altro tipo di sapere, che noi defi-niamo per semplicità narrativo7

82J.F. LYOTARD: LE DIFFÉREND E IL PROBLEMA DELLEMETANARRAZIONI

7 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli,Milano 1981, p. 18.

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La conoscenza rigorosa va tenuta distinta dalla narrazione. Laprima è indice di affermazioni positive sulla realtà, caratterizza-te da sistematicità e rigore epistemologico, mentre la secondamette in evidenza i caratteri soggettivi e i loro limiti intrinseci. Laprima sembra essere in prima istanza l’espressione propria diambiti di applicazione della ricerca, mentre la seconda sembraessere rilevante per l’attività di riflessione e contemplazione ecostituire un genere di attività in grado di mettere in evidenza ilimiti della tipologia precedente. La narrazione sembra rappre-sentare una spiegazione piuttosto mitologica della conoscenza,una storia piuttosto che un’argomentazione, un racconto piutto-sto che un’articolazione trasparente e rigorosa, doxa piuttosto cheepisteme. In qualità di articolazione meno rigorosa rispetto a quel-l’ambito specifico rappresentato dalla conoscenza, la narrazioneincorpora una data Lebenswelt, la tradizione, le usanze e collega-menti non giustificati con le assunzioni metafisiche della cono-scenza. Poiché la conoscenza umana – sostiene icasticamenteLyotard – non è qualcosa di puramente strumentale, non è sem-plicemente l’applicazione di regole, ma comporta anche (ed èfondata su) la capacità di scegliere le regole, la capacità di com-piere buone valutazioni. Quindi la conoscenza è posta sullo stes-so piano delle narrazioni poiché fornisce un nesso tra la dimen-sione fattuale e quella normativa, determinando

i criteri di competenza e/o ne illustrano l’applicazione. In tal modoessi definiscono ciò che può essere detto e fatto nella cultura, e, dalmomento che ne sono anche parte integrante, ne vengono per ciòstesso legittimati8

Un problema che Lyotard qui attacca è la divisione fra ilregno della scienza e quelli dell’etica e della politica, fra il teore-tico e il pratico, argomentando sulle orme dei paradigmi hege-liani, marxisti e pragmatisti, e portando alla superficie un pro-blema che lo stesso Kant non era stato in grado di risolvere(dando origine al vivace dibattito dell’idealismo tedesco) e cheè riemerso con particolare forza nella divisione neokantiana frala scienza e l’ermeneutica. Su ciò, Lyotard trova sostegno nel-

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8 Ivi, p. 45.

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l’interesse dei suoi più fieri critici.9 La scienza è nel bisogno diuna fondazione metafisica delle sue regole, solitamente fornitanelle narrazioni. Questa è la percezione tradizionale che si tra-manda dal tempo di Platone. Di qui ne viene che

il sapere scientifico non può sapere e far sapere che è il vero saperesenza ricorrere all’altro sapere, il racconto, che è per lui il non-sape-re, in assenza del quale è costretto ad autopresupporsi incorrendocosì in ciò che esso condanna, la petizione di principio, il pregiudi-zio. Ma non vi incorre anche fondandosi sulla narrazione?10

Qui si manifesta un secondo, complesso problema – una que-stione-chiave per la strategia di Lyotard. Si tratta della questio-ne delle fondamenta metafisiche della conoscenza in generale edi quella scientifica in particolare. Dal canto suo la scienza nonpossiede una consapevolezza di questo problema; dal momentoche non è interessato alla questione della verità, il discorsoscientifico da per scontato un certo numero di postulati metafi-sici, mentre la riflessione su questi postulati è sempre stata com-pito della filosofia, che rappresenta un’articolazione rigorosa didescrizioni narrative della realtà, una spiegazione dei fonda-menti metafisici della conoscenza e della scienza. Sebbene sipossa avere l’impressione che qui si abbia a che fare con duelivelli (reciprocamente subordinati) della conoscenza, Lyotardafferma che scienza e sapere narrativo rappresentano solo duediscorsi paralleli che sono incommensurabili, in quanto espri-mono due domini separati della manifestazione dei giochi lin-guistici. Il fallimento di tutti i sistemi metafisici mostra che nonsi può dare una giustificazione metafisica di, o una metanarra-zione riguardante i fondamenti della conoscenza scientifica, ilche vale anche per la fondazione di qualsiasi altro tipo discorso.Secondo Lyotard non c’è un criterio universale e non c’è una

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9 R. Rorty, op. cit., Rorty cerca di mantenersi in una posizione mediana traquesti due autori. Pur essendo più vicino ad Habermas su molte questioni,Rorty avalla la posizione di Lyotard sulla questione dell’unità della cono-scenza, criticando Habermas per aver lasciato la scienza fuori dal discorsofilosofico.

10 J.-F. Lyotard, op. cit., p. 55.

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disciplina universale; non c’è, e non ci può essere un linguaggiouniversale (o principi) che legittimi giochi linguistici che «sonoeteromorfi e dipendono da regole pratiche eterogenee».11 Perquesta ragione Lyotard giunge a rifiutare il principio l’unità delsapere; per lui

non sarebbe dunque possibile esprimere giudizi né sull’esistenza nésul valore del narrativo a partire dal sapere scientifico, o viceversa:i criteri pertinenti non sono gli stessi nei due casi12

Il che non vuol dire negare il bisogno di una base comune tra ilsapere scientifico e sapere narrativo, quanto invece il bisogno dimettere in luce l’impossibilità, per la ragione finita, di potercostruire una base di questo genere. Questa fondazione è pratica-mente necessaria, ma teoreticamente impossibile da provare.Questa è l’impasse epistemologica, la contraddizione fondamen-tale, che diventa evidente nella modernità e nel postmoderno.

Il problema individuato da Lyotard ha una duplice risvolto.Se per un verso i grandi sistemi filosofici, le narrazioni cheintendevano fornire legittimazione metafisica e morale allaconoscenza, sono collassati, per altro verso le scienze applicateaccrescono la propria efficacia, creando l’impressione di unacerta autosufficienza. Sembra si siano emancipate dal loro lega-me con la filosofia e quindi sembra che non abbiano più neces-sità di una base filosofica che le legittimi. L’articolazione quasi-rigorosa del sapere narrativo è stata compito della filosofia, equesta disciplina era solita tirar fuori un gran numero di idee,grandi narrazioni o metanarrazioni, come le chiama Lyotard.Queste spiegazioni, oltre a rinforzare le basi epistemologichedella conoscenza (mi soffermerò sulla posizione di Lyotard inproposito nella sezione successiva), fornisce anche la giustifica-zione morale dell’avanzamento della conoscenza, ponendola inrelazione a concetti come «soggetto storico», «movimento dellastoria», o ideali come «liberazione», «eguaglianza», e via discor-rendo. Le metanarrazioni, comunque, hanno fallito una dopol’altra, e il marxismo ne è solo l’ultimo grande esempio. Per

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11 Ivi, p. 119.12 Ivi, p. 51.

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dirla nel gergo di Lyotard, le metanarrazioni sono state «dele-gittimate». Ad ogni modo, questo è solo un aspetto del proble-ma. L’altra faccia della medaglia si è manifestata solo di recente.Unitamente al fallimento delle grandi idee filosofiche, la scien-za moderna è diventata oggi incredibilemnte capace di produr-re proprie dimostrazioni strumentali: legittima se stessa attra-verso la «perfomatività», dispiega i propri «giochi linguistici», ilproprio metaprincipio di legittimazione e quel suo propriometalinguaggio che è la logica.13 Ad esempio, Russell, Gödel ealtri ancora hanno mostrato che nessun sistema può fornire dasé la propria legittimazione e che tutti i sistemi formali hannolimiti intrinseci:

il principio di un metalinguaggio universale è rimpiazzato da quel-lo della pluralità dei sistemi formali e assiomatici capaci di argo-mentare gli enunciati denotativi14

Questo sta a dire che non solo le narrazioni sono state dele-gittimate, ma anche che la legittimazione giunge dall’internodella pratica della scienza. Quest’ultima lascia completamenteindietro le metafisiche e la risposta alla domanda «come prova-re la prova?». Infatti

è riconosciuto che le condizioni del vero, in altre parole le regole delgioco scientifico, sono immanenti al gioco stesso, che esse non pos-sono definite se non in seno ad un dibattito già esso stesso scientifi-co, e che non esiste altra prova della bontà delle regole che non siail loro essere oggetto del consenso degli esperti15

Il cerchio qui si chiude e i risultati sono drammatici. Il domi-nio fino a questo momento filosofico par excellence, la ricercadella verità, è stato ora espugnato da un criterio agnostico cheprevede la pluralità dei giochi linguistici; ci si è arresi al potere,rivelatosi in tempi recenti, proprio della scienza di produrre lapropria verità. La conclusione dell’argomento di Lyotard lascasenza fiato:

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13 Ivi, p. 77. 14 Ivi, p. 72.15 Ivi, p. 56.

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è vero che la performatività, aumentando la capacità di ammini-strazione della prova, aumenta anche la capacità di avere ragione: ilcriterio tecnico introdotto massicciamente nel sapere scientifico nonresta senza influenze sul criterio di verità16

Se riportiamo adesso l’attenzione alle implicazioni politiche ecollochiamo questo discorso di Lyotard sullo sfondo di quelretroterra marxista che Lyotard stesso mostra di aver superato,dobbiamo dire che la dimensione innovativa dei suoi argomen-ti è alquanto limitata. È vero che oggi la conoscenza si è fram-mentata in minuscoli specialismi – come già Marx aveva delresto sostenuto – che nelle loro forme più avanzate sembranoessere non solo sempre più efficaci, ma anche sempre più segre-ti. È anche vero – come Lyotard argomenta diffusamente – chela funzione delle istituzioni sociali, per esempio quella delle uni-versità, oggi non è più la produzione di sapere, ma la produzio-ne funzionalmente determinata di specialisti adatti ai bisognidell’economia capitalista. Secondo Marx questo è il risultato diuna condizione più generale. L’economia capitalista poggia suun fondamentale capovolgimento, cioè, sul fatto che la sua pro-duzione non organizzata sembra operare «dal suo interno» e lalogica del suo sviluppo supera per importanza la logica dellosviluppo del soggetto umano. Dal momento che l’umanità nelsuo complesso non controlla consapevolmente ciò che producee dal momento che la produzione sociale (nella forma della pro-duzione capitalista funzionalizzata al profitto) procede seguen-do il proprio interesse e non quello che dovrebbe prevedere lasoddisfazione dei bisogni umani, questa soddisfazione vienesoltanto considerata raggiungibile in via ipotetica come sotto-prodotto dello sviluppo della produzione. Quindi, i bisogniumani non controllano e non determinano la produzione, masono determinati da essa, sono costruiti e ricostruiti in modotale da corrispondere ai bisogni della produzione. Un numeroestremamente grande di specialisti che ignorano la totalitàsociale, personalità manipolate, obbedienza politica (spessonella forma dell’indifferenza alla politica), e via discorrendo,sono soltanto alcuni dei risultati di questa situazione. Questi

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16 Ivi, p. 85.

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temi sono stati esplorati da Marx (e dal marxismo). Per Marxnon c’era questione rispetto alla quale l’origine non fosse dinatura sia sociale sia storica. Alla fine del XX secolo la contrad-dizione tra gli scopi della produzione capitalistica e i bisogniumani si è solo intensificata, mentre il marxismo rivela la neces-sità impellente di un serio ripensamento.

Torniamo a Lyotard e proviamo a tirare le file delle osserva-zioni compiute fino a questo punto. Partito da un’osservazioneconcreta, da una perplessità storica e sociale relativa al sistemacapitalista, Lyotard non può più restare aggrappato al paradig-ma marxista classico. Di fronte a questo dilemma cerca di trova-re spiegazione separando il problema dal suo contesto storico esociale, fondandolo diversamente rispetto alle intuizioni episte-mologiche di Marx. Queste intuizioni saranno esplicitamenteindicate nella parte successiva di questo lavoro. Quello su cuivorrei portare l’attenzione a questo punto è come Lyotard, nellasua analisi, sembra dar luogo a un equivoco, precisamente laconfusione che prende corpo tra la ricerca di una legittimazioneper la scienza e l’uso della scienza allo scopo di attaccare la legit-timazione offerta dalle metanarrazioni. Questo si verifica adispetto della sua chiara e categorica dichiarazione secondo cuila conoscenza viaggia sempre di pari passo al sapere narrativo,cosa che può essere interpretata anche come un’affermazioneper cui la conoscenza è sempre una forma di conoscenza relati-va appartenente a un soggetto storico. Sebbene Lyotard partadal rifiuto della divisione tra la scienza ed ermeneutica, scienzee discipline classiche, finisce con il giungere a una nuova divi-sione della conoscenza in un infinito numero di «ragioni»incommensurabili o giochi linguistici.

La conoscenza e la le différend

Si è già detto che Lyotard condivide l’idea di Wittgenstein percui la conoscenza può essere espressa mediante giochi linguisti-ci. Lyotard suppone che la relazione fra pensiero e linguaggio, alpari della relazione tra conoscenza e linguaggio, sia qualcosa didato. Dal suo punto di vista qualsiasi conoscenza della realtàdev’essere espressa come una relazione fra il referente e ciò a cuiquesto si riferisce, cosa che viene realizzata tramite il significatolinguistico. In poche parole i quattro poli tra cui si muove la suafilosofia del linguaggio sono: mittente, destinatario, referente e

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significato (senso). Questi sono tutti contemporaneamente con-cetti della sua teoria della conoscenza, tanto che conoscenza elinguaggio per lui sono sostanzialmente qualcosa di identico.

La sostituzione della domanda relativa a ciò che c’è (realtà,oggetto, etc.) con la domanda relativa a quello che la nostra cono-scenza su ciò che c’è esprime propriamente (con proposizioni, argo-mentazioni, etc.), è un tratto caratteristico della filosofia analiticadel XX secolo. L’ultimo procedimento è certamente una parte delprecedente, ma non esprime il tutto. Lo sviluppo della filosofiaanalitica e della filosofia del linguaggio ha dimostrato che laricerca dell’esattezza del significato non può dare una rispostadefinitiva a quelli che sono i motivi più profondi della teoria dellinguaggio. Bisogna qui menzionare almeno due problemi. Ilprimo è stato già citato. Russell e Gödel con i loro ben noti argo-menti hanno mostrato che le pretese di verità non possono esse-re fondate assiomaticamente sulle regole del giudizio, le qualinon possono essere astratte da quel che si sta per giudicare.Questo problema può essere considerato anche da un altro puntodi vista, e cioè come regresso infinito che si manifesta nel pro-cesso di valutazione delle affermazioni cognitive. Per valutareuna frase o un certo numero di frasi relative a un oggetto «x», c’èbisogno di un insieme di regole, dette regole di secondo livello (ofrasi). Ma queste regole hanno a loro volta bisogno di una giusti-ficazione. Quindi, c’è bisogno di un terzo livello di regole chelegittimi le seconde, e di conseguenza di un quarto che legittimile terze, e così via. Il riconoscimento di questa strada senza usci-ta risale allo scetticismo antico, è chiaramente ammesso nellafilosofia moderna17 ed è anche riportato alla mente in diversiambiti tematici della recente filosofia analitica.18

Il secondo e più importante problema ha a che fare con l’in-dividuazione del significato. Un possibile significato può rap-presentare solo in parte ciò che viene inteso. Questo accade nonsolo perché omnis determinatio est negatio, ma anche perché il

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17 Kant, per esempio, ritiene che sia impossibile individuare categorie perqualsiasi possibile prova che avrebbe dovuto impiegare quelle categoriestesse. Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, TEA, Milano 1986, pp. 235-236.

18 Cfr. G. Strawson, The Impossibility of a Moral Responsibility, in: PhilosophicalStudies, n.75/1994, pp. 5-24.

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referente si avvicina a ciò di cui è referente (ciò a cui si riferisce)da uno specifico angolo prospettico che contempla restrizioniculturali, storiche e anche numerose altre limitazioni che risul-tano determinanti per il linguaggio e il pensiero, precludendo lapossibilità di esaminare in maniera imparziale il senso.Insomma, se è attraverso il linguaggio che la conoscenza trovaespressione, è ovvio che nessun segno particolare o frase, o per-sino una combinazione infinita di segni e frasi, (ossia una rifles-sione particolare) può elevarsi fino a raggiungere una universa-lità di qualche sorta. Per questa ragione Lyotard sostiene che

non si può provare che tutto è stato significato di un nome (che«tutto è detto di x») non soltanto perché nessun tutto può essere pro-vato ma perché, non essendo il nome di per se stesso un designato-re di realtà (perché lo sia occorre che ad esso siano associati un sensoe un referente ostensibile), l’inflazione dei sensi che possono esserglicollegati non è limitata dalle proprietà «reali» del suo referente19

Quindi qualsiasi possibile rappresentazione della realtàumana deve necessariamente essere frammentata. Per Lyotard,«ogni cosa può essere intesa come una frase, ma le frasi non pos-sono essere intese pienamente».20 D’altra parte la realtà è sem-pre articolata per mezzo del linguaggio e «i giochi linguisticisono il minimo di relazione necessario perché si dia società».21

D’altra parte non c’è un linguaggio unificato per la realtà ingenerale, non c’è una ragione generale, ma un indefinito (o piut-tosto infinito) accumulo di ragioni che a un livello successivocostituisce i generi incommensurabili del discorso: cognitivo,persuasivo, tragico, comico, la satirico, etc.22 Non è possibileandare oltre la caratteristica incommensurabilità di ogni giocolinguistico che si mostra sulla base di un certo dominio praticoe che si esprime in e con il corrispondente tipo di discorso. Nonc’è, e non può assolutamente esserci, una regola universalecapace di riunificare tutti i diversi tipi di discorso: «l’universo

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19 J.-F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985, p. 71.20 J. Williams, Lyotard: Toward a Postmodern Philosophy, cit., p. 69.21 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., p. 33.22 Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, p. 52.

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sociale è formato da una pluralità di giochi senza che nessuno diquesti sia nelle condizioni di affermare di poter spiegare tutti glialtri».23 Nessun genere può affermare di essere l’unico. Come lostesso Lyotard dichiara espressamente: «il legame sociale è lin-guistico, ma non è fatto di un’unica fibra».24

Quel che «il» reale è al di là dei singoli casi, dati con imme-diatezza, è qualcosa che rimane una questine aperta. Comeafferma Williams, secondo Lyotard

soltanto frasi composte da catene di frasi possono avere senso. Larealtà si costituisce quando un nome proprio porta i significati acontatto con un referente, con la cosa cui essi si riferiscono25

Sebbene sia necessario da un punto di vista pratico inferire ilegami tra parti o realtà separate, Lyotard contesta che ci sianolegami necessari: «concatenare è necessario, un concatenamentono».26 Quindi

la realtà non è ciò che è «dato» all’uno o all’altro «soggetto», è unostato del referente (ciò di cui si parla) risultante dall’attivazione daprocedure di stabilimento definite da un protocollo accettato all’u-nanimità nonché dalla possibilità offerta a ciascuno di noi diriprendere questa attivazione ogni volta che vuole27

L’affermazione sul reale equivale in generale a quello cheKant avrebbe indicato come una idea trascendentale della ragio-ne, una universalizzazione non confermata che ha soltanto fun-zioni normative. La verità a proposito della realtà è pertanto unafinzione, un mito.28 È soltanto l’arte ad offrirci una visione

91NECTARIOS G. LIMNATIS

23 J.-F. Lyotard – J.-L. Thébaud, Just gaming, Minnesota University Press,Minnesota 1985, p. 58.

24 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., p. 74. A questo proposito si ten-gano presenti le osservazioni critiche di Frank in: M. Frank, Die Grenzen derVerständigung. Ein Geistergespräch zwischen Lyotard und Habermas,Suhrkamp, Francoforte 1988, per cui «il linguaggio si manifesta nel discor-so e non in maniera privata e la sua finalità è il consenso, non il dissenso»(ivi, p. 65).

25 J. Williams, Lyotard: Toward a Postmodern Philosophy, cit., p. 72. 26 J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 108.27 Ivi, p. 20. 28 Cfr. Id., Au regard du réel, in: Id., Misère de la philosophie, Galilée, Parigi 2000,

pp. 225-234.

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migliore, in quanto l’arte, sviluppando la nozione del sublime, èin condizione di accorciare condizionatamente la distanza fra l’in-commensurabilità e la frammentazione della conoscenza umana(la condizione umana).

Qui si assiste all’affermazione di una scissione non concilia-bile dal punto di vista della ragione tra particolare e universale:«non si può concludere da un particolare a un universale».29

Pertanto, a questo punto, se l’universalità non può essere legit-timata, allora non ci potrà essere domanda alcuna circa la veritàdella filosofia. In ogni tipo di generalizzazione c’è un in-fra spa-zio residuale, definito da Lyotard come «dissidio» (différend).Nella pratica quotidiana questo problema epistemologico non simanifesta: de facto le generalizzazioni frettolose degli esseriumani paiono funzionare. Il problema si manifesta però con unacerta veemenza quando si arriva alle grandi generalizzazioni, aldiscorso filosofico serio, alle basi metafisiche della scienza, allefilosofie della storia, alle metafisiche in generale. Inoltre, secon-do Lyotard, qui non solo la totalizzazione è ingiustificata, ma èanche l’equivalente del dominio del tutto sulle sue parti. ScriveLyotard:

non ci sono procedure definite da un protocollo unanimementeaccettato e riattivabili a volontà per stabilire la realtà dell’oggetto diun’idea in generale. Per fare un esempio, anche a livello di fisicadell’universo non esiste un protocollo del genere per stabilire larealtà dell’universo perché l’universo è oggetto di un’idea. Comeregola generale, un oggetto che viene pensato sotto la categoria deltutto (o dell’assoluto) non è un oggetto di conoscenza la cui realtà possaessere sottoposta al protocollo, ecc. Il principio che affermasse il con-trario prenderebbe il nome di totalitarismo. L’esigenza di stabilire larealtà del referente di una frase secondo il protocollo della cono-scenza, se estesa indiscriminatamente a tutte le frasi, in particolarea quelle che si riferiscono a un tutto, è totalitaria nella sua radice. Perquesto è tanto importante distinguere dei regimi di frasi; ciò equi-vale a limitare la competenza di quel determinato tribunale a queldeterminato tipo di frasi30

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29 J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 47.30 Ivi, pag. 21, corsivi miei.

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Il ruolo del pensiero critico e della filosofia quindi in questasituazione non è quello di capitolare assieme al dato e restareall’interno di uno specifico genere narrativo, ma quello di pren-dere di mira il divario incolmabile tra i generi, il loro in-fra spa-zio, quel che Lyotard chiama différend. Dal momento cheLyotard accetta il linguaggio come strumento di conoscenza, ladifférend assume le sembianze di un’espressione evocativa deilimiti della procedura linguistica. Questa affermazione diLyotard è comunque molto forte e ha valore universale. La filo-sofia non ha di mira un sistema, ma si rivolge contro qualsiasisistema, mostrandogli la sua natura epistemologicamente nongarantita e politicamente oppressiva. Questa posizione esprimeuna sfida rivolta a qualsiasi conoscenza positiva e, in ultimaistanza, a ogni filosofare sistematico. La ragione filosofica non èchiamata a cercare unità e consenso, funzioni che le furono asse-gnate nella tradizione classica da Platone fino a Habermas, pas-sando per Kant ed Hegel, bensì al compito opposto. La ricercadi un nuovo paradigma deve incentrarsi sul dissenso, l’espres-sione «andare alla ricerca della différend» trova buone esemplifi-cazioni nella ricerca della «instabilità», della «paralogia», della«invenzione immaginativa». Questi sono gli obiettivi dellascienza postmoderna e, filosoficamente parlando, il compito delpensiero critico. La grande enfasi posta da Lyotard sul dissensoanziché sul consenso (che, come abbiamo visto, è per lui episte-mologicamente impossibile), lo porta a un confronto diretto conHabermas31 e con gran parte dell’accademia.

Le ragioni di Lyotard, il suo porre l’accento sulla finitudinedella ragione e sulla limitatezza della conoscenza sono certamen-te qualcosa di condivisibile. Inoltre egli ha certamente ragione aproposito della generalizzazione empirica, che è, in un modo o inun altro, qualcosa di frettoloso e potenzialmente fallace,32 anche

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31 Per un resoconto dettagliato su questa discussione si veda E. Steuermann,Habermas vs. Lyotard: Modernity vs Postmodernity,» in: A. Benjamin (a curadi), Judging Lyotard, Routledge, New York 1992, pp. 99-118 e, in modo par-ticolare, M. Frank, op. cit. Quest’ultimo autore presenta un’appassionatadifesa di Habermas, definendo le affemazioni di Lyotard alla stregua di unaforma di «terrorismo» di stampo «anarco-sindicalista».

32 Circa la politica, che rimane sempre il nucleo delle premure di Lyotard, ilsuo «trucco di utilizzare Kant contro Marx», riguarda molto da vicino l’e-

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se questo non impedisce a molte generalizzazioni di essere,entro certi limiti storici, corrette e anche utili dal punto di vistapratico. Inoltre ancora, e questo è il nucleo del problema episte-mologico, non solo la mente umana compie generalizzazioni,ma ha anche la capacità di creare concetti «puri» riguardo larealtà, con tutte le tensioni verso l’assoluto che questi implicano,come, per esempio, standard valutativi universali, del tipo deglischemi concettuali intersoggettivi che si sono prodotti durantemillenni di sviluppo della civilizzazione umana. Questo è quelche Kant ha chiamato categorie pure. Il problema che Kant nonè stato in grado di risolvere ha a che fare con la natura di questiconcetti e con la loro relazione all’immanenza. Kant ha sostenu-to che sia i concetti sia le intuizioni sono assolutamente necessa-ri per la conoscenza, ma ha anche ammesso che non potremomai sapere perché i concetti trascendentali corrispondono alleintuizioni e viceversa. Sensibilità e intelletto sono «i due tronchidell’umana conoscenza, provenienti forse da una comune radi-ce, a noi sconosciuta».33 Mentre Kant ammette che «le leggiempiriche, come tali, non possono minimamente provenire dal-l’intelletto puro», egli aggiunge immediatamente che «tutte leleggi empiriche sono solo determinazioni particolari delle leggipure dell’intelletto».34 Egli sostiene l’esistenza di una certaarmonia fra le due dimensioni che è sottolineata sia nella Primasia nella Terza Critica. Ad ogni modo quest’armonia rimane soloallo stadio di un postulato. Kant, sorprendentemente, ha moltopoco da dirci in proposito:

della peculiarità del nostro intelletto di porre in essere l’unità apriori dell’appercezione soltanto mediante le categorie, e propriosolo mediante questo loro modo e numero, non si può dare unaragione come non si può darla del perché abbiamo queste e nonaltre funzioni del giudicare35

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sperienza di Lyotard degli eventi del suo paese, come il maggio ‘68; per-tanto conclude che «andremo avanti sbagliando sempre – e in modi poten-zialmente catastrofici». Cfr. C. Norris, What’s Wrong with Postmodernism:Critical Theory and the Ends of Philosophy, Johns Hopkins University Press,Baltimora 1990, p. 25.

33 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 59. 34 Ivi, p. 624.35 Ivi, p. 136.

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Ad ogni modo lo scetticismo kantiano deve guardarsi dalpericolo di ricadere in un agnosticismo sterile, difendendo ognisegno di certezza che la ragione umana – la condizione umanain generale – nonostante la sua limitatezza, è in grado di forni-re. Kant è chiaro su questo punto: sebbene l’esperienza nonpossa mai fornire la totalità delle condizioni per la certezza, l’in-telletto è in grado di farlo. In questo modo la funzione legislati-va dell’intelletto funge da supporto per la certezza epistemolo-gica. Ma Kant rivela ancora una duplice ambiguità. Se una partepostula semplicemente le categorie, senza essere in grado dimostrare la loro unità concreta con l’esperienza storica, dall’al-tra, negando alla ragione ogni funzione legislativa all’internodella conoscenza, Kant non è in grado di mostrare l’unità con-creta delle facoltà cognitive e l’unità tra la sfera teoretica e quel-la pratica. Si tratta di problemi noti e ampiamente discussi.

Ponendo una certa enfasi sulle ambiguità presenti in Kant,Lyotard giunge a dare una confutazione di qualunque ruolopositivo delle facoltà cognitive, attribuendo proprio a Kant l’o-pinione che non ci possa essere una dottrina filosofica, ma sol-tanto una filosofia critica e, di conseguenza, che nessuna dottri-na storico-politica sia possibile.36 Sopravvalutando l’eteroge-neità della conoscenza e considerando ammissibile solo il con-cetto del sublime come atto a superare questa divisione, anchese in maniera condizionata, Lyotard cancella una distinzionefatta da Kant, ossia quella tra le funzioni regolative e quellecostitutive della razionalità. Se l’approccio di Lyotard va mante-nuto, allora l’idea di ciò che a livello di principio deve restareignoto, la cosa-in-sé, dev’essere trasportato nello spazio storicoe sociale. Ad ogni modo quest’ultimo è anche uno spazio feno-menico e Kant su questo sarebbe stato d’accordo. Infatti, nonpotrebbe essere diversamente perché, se così fosse, non solo lascienza sociale, ma anche qualsiasi scienza risulterebbe impossi-bile. Non bisogna dimenticare che Kant stesso ha scritto operecome Idee per una storia universale, Per la pace perpetua, per nondimenticare che l’intento della Critica della ragion pura è la rico-struzione di una metafisica rigorosa e apodittica.

95NECTARIOS G. LIMNATIS

36 Cfr. J.-F. Lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, Guerini &Associati, Milano ; Id., Il dissidio, cit., pp. 202-214.

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La mia intenzione qui non è quella di dare una dimostrazionedella certezza epistemologica o metafisica, ma di mettere inguardia contro l’estremo opposto, l’agnosticismo assoluto chel’approccio di Lyotard sembra implicare. Non penso che Lyotardcerchi semplicemente di «tracciare un confine tra relativismo euniversalismo», ricercando una «filosofia del senso comune».37

In realtà Lyotard giunge alla negazione dei due termini. Dalpunto di vista logico, Lyotard rende impossibile non solo la filo-sofia, ma anche il discorso razionale in generale. Nel vigorosoappello alla «guerra contro la totalità», al dare «testimonianzadell’impresentabile» allo scopo di «attivare i dissidi»,38 egli simuove verso un infinito riduzionismo, che rende impossibilequalsiasi conoscenza, non solo filosofica, ma anche scientifica.

L’impasse epistemologica che si para innanzi a Lyotard riguar-da una forma di agnosticismo e di anarchismo pienamentedispiegati, che può essere desunta abbastanza facilmente da alcu-ne sue affermazioni: la nozione di dissidio può essere applicata aogni livello della conoscenza e dissolve la possibilità stessa dicogliere ogni significato. Poiché il dissidio non è solo un problemadegli in-fra generi, ma è anche un problema interno a ogni singo-lo genere o a ogni singolo gioco linguistico o, addirittura, a ognisingola persona e alle sue azioni, persino la possibilità di un verodialogo interiore con se stessi diventa semplicemente impossibi-le. Il concetto di dissidio rimane, perciò, «enigmatico».39 Non èchiaro dove collocare questo in-fra spazio che la nozione di dissi-dio è chiamata a designare, poiché la disparità tra i generi è, inultima istanza, essa stessa basata sulla disparità tra la singolaritàdell’esperienza e l’universalità del pensiero concettuale. Lyotardenfatizza questo divario, ma manca di riconoscere che questoproblema si manifesta all’interno di un genere particolare comeanche proprio nel momento del primo atto cognitivo.

Il problema cui poco sopra si é fatto cenno si acutizza se lo siraffronta alle linee-guida della dialettica hegeliana. È Hegel che

96J.F. LYOTARD: LE DIFFÉREND E IL PROBLEMA DELLEMETANARRAZIONI

37 C. Moscovici, Double Dialectics: Between Universalism and Relativism inEnlightenment and Postmodern Thought, Rowman & Littlefield, New York2002, pp. 1-28.

38 J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 24.39 G. Browing, op. cit., p. 14.

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ha mostrato splendidamente all’inizio della Fenomenologia dellospirito che il «questo» e il «qui», gli atti più semplici del pensare,sono basati su una dialettica categoriale, su una combinazione diparticolare e universale. L’uno può essere separato dall’altro, eviceversa, e persino un semplice granello di sale è allo stessotempo considerato per sé secondo un incredibile numero dideterminazioni: bianco, cubico, agre e così via.40 Non è legittimo,quindi, fermarsi alla parte, al particolare, quando è ovvio chequesto porta a un circolo vizioso. Particolare e universale, uno emolti, parte e tutto, sono categorie che operano in tandem nelpensiero umano. Anche la filosofia analitica contemporanea ègiunta all’ammissione che la conoscenza «si costituisce in manie-ra olistica sin dall’inizio ed è intersoggettiva»,41 un punto di vistache può trovare facilmente momenti di contatto e supporto neipiù recenti studi psicologici, sociologici e antropologici.

La concettualizzazione non mette in rilievo soltanto la diffe-renza, ma anche l’unità. Concentrare l’attenzione su uno dei duepoli senza considerare anche l’altro significa andare diritti versoquel che Hegel chiamava «cattiva infinità». L’argomento diLyotard è pertanto un argomento destinato a una auto-confuta-zione. Nel momento in cui si determina l’incommensurabilità ol’assoluta differenza («la struttura della frase», i «generi», ecc.)si ha bisogno di un medio comune, il che sta a dire che la diffe-renza dev’essere riportata all’unità. Si deve supporre l’unitàcome conosciuta, prima che si cominci a dimostrare la differenza,e viceversa. Parimenti l’assoluto rifiuto delle narrazioni puòessere di per se stesso letto come una narrazione, il che sarebbeun’ulteriore ricetta che segue il copione di quelle respinte inquanto illegittime.

In definitiva, anche il rifiuto incondizionato della conoscenzaè già una forma di conoscenza; e in questa fattispecie rientra l’af-fermazione per cui non si dà la possibilità di conoscere alcunché.Tutte queste sono note sfumature dialettiche adoperate daHegel, e Lyotard ne è ben consapevole nel momento in cui pre-

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40 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 1995, pp. 169-185.

41 Si tenga presente a questo proposito la posizione di Donald Davidson in: D.Davidson, Problems of Rationality, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 18.

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senta la sua posizione agnostica. A questo punto, giustamente,Lyotard fa leva sull’ambivalenza della posizione di Hegel neiconfronti dello scetticismo.42 Ne Il dissidio Lyotard si rifà anchealla refutazione aristotelica del dilemma dell’agnoston: «l’ignotopuò essere conosciuto in ragione del fatto che l’ignoto come talepuò essere oggetto di conoscenza»,43 e argomenta, sulla base diAristotele e Wittgenstein (che ha posto in rilievo «il segreto delnegativo») contro la «potenza del negativo» di Hegel.

L’ambivalenza di Hegel nei confronti dello scetticismo è cosanota. Da una parte, sin dai propri esordi filosofici, Hegel carat-terizza lo scetticismo come parte integrante di ogni forma diconoscenza e di discorso filosofico. Per altro verso lo scetticismonel sistema hegeliano viene dissolto affinché il sapere assolutopossa trovare la propria legittimazione. Ma detto questo, Hegelnon avrebbe mai accettato nessun altro modo per esprimere unsapere assoluto se non attraverso una conoscenza relativa. Ilsapere assoluto è solo la controparte logica della conoscenzaassoluta e quel che Hegel sostiene è che qualsiasi tentativo diraggiungere il sapere assoluto deve necessariamente esprimersimediante quello strumento relativo che è la ragione finita. Inquesto senso Hegel sottolinea i limiti della razionalità umana,piuttosto che la sua trascendenza; e, dal momento che era benconsapevole dei limiti della ragione umana, Hegel era ancheben lungi dal lasciarsi trascinare da questa problematica versol’agnosticismo. È questa la sua risposta al tentativo kantiano. Èstato Kant, come ha giustamente sottolineato Hegel, a trasfor-mare la metafisica in logica.

Secondo Lyotard l’approccio di Hegel «non mette in questio-ne i suoi presupposti (l’io o il sé, le regole della logica speculati-va)».44 Vi è da dire, fra parentesi, che non Hegel bensì Lyotard ècolui che dà l’impressione di voler concedere, nello spirito diCarnap e Neurath, che il metodo assiomatico sia l’unico modomediante cui la conoscenza possa essere articolata. Abbiamo giàvisto come Lyotard contesta l’impossibilità di protocolli unifica-ti della conoscenza invece che mettere in discussione la proce-

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42 J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., pp. 120-123.43 Aristotele, Retorica, 1042a. 44 J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 70.

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dura protocollare in se stessa. Al pari di Hegel la sua strategia èdeliberatamente circolare.45 Hegel non afferma di possederequalche regola della logica speculativa che sia data in anticipo.La Logica è preceduta dalla Fenomenologia, dal percorso dellacoscienza che va dall’esperienza sensibile data con immediatez-za al concetto puro quale risultato. Secondo Hegel è solo postfestum che la filosofia giunge a cogliere il soggetto assoluto, cheè assoluto solo fino al punto in cui è nello stesso tempo un soggettorelativo, frammentato e disperso nella realtà storica. Questo siapplica pari pari alle categorie della Logica che non possonoessere scoperte in nessun altro modo se non attraverso l’esamedella ragione finita.

Allo stesso modo non si può dire che Lyotard compia un’o-perazione corretta nell’addebitare a Hegel l’estensione deldiscorso speculativo a «oggetti che non sono la coscienza»,46

poiché non vi sono passi in cui Hegel argomenta l’esistenza inquesto mondo di qualcosa che stia al di là del soggetto finito.Non è corretto, infine, attribuire a Hegel l’intento di voler utiliz-zare la «vita dello spirito» come principio metanarrativo garan-te della legittimità della conoscenza. Per essere precisi, lo «spiri-to» di Hegel non si posiziona in un luogo situato «al di là» delleazioni compiute dell’uomo storico, e ottiene la propria legitti-mità soltanto attraverso questo soggetto. Lo «spirito» non è unprincipio di legittimazione postulato in anticipo, ma è invece unrisultato ottenuto mediante un processo circolare.

A questo punto bisogna anche dire che è Hegel il primo filo-sofo post-moderno, nel senso che egli ha abbandonato la ricercadi formule conoscitive di carattere formale e trascendentale perandare a toccare con mano ciò che ha enfaticamente e ripetuta-mente chiamato «cosa stessa», die Sache selbst. Hegel comunquenon ritiene che questa sia anarchia. La Sache selbst deve necessa-riamente trovare una espressione teorica e l’empirico deveaccompagnarsi al trascendentale. Pertanto non si ha bisogno di«dire qualcosa su x» se si vuol capire che cosa sia x. Questo èvalido naturalmente soltanto nei limiti di un discorso storica-mente determinato.

99NECTARIOS G. LIMNATIS

45 Per una discussione più approfondita si veda T. Rockmore, Hegel’s CircularEpistemology, Indiana University Press, Bloomington 1986.

46 J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 126.

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Postmoderno e metanarrazioni

Abbiamo visto che, stando al punto di vista espresso daLyotard, l’unità della conoscenza è proprio come un grande rac-conto non legittimato, una «metanarrazione». Bisogna ricordareancora una volta che il suo principale interesse non è puramen-te epistemologico, quanto piuttosto socio-politico. Dopo la ste-sura delle proprie considerazioni metodologico-epistemologi-che, Lyotard arriva a dislocare la sua nozione di dissidio all’in-terno del discorso socio-politico. «Non ci sono lettori per lagente che scrive, non ci sono osservatori per coloro che dipin-gono, non ci sono uditori per i compositori, il che sta a dire chenon c’è un soggetto della storia».47 Potrebbe non esserci un«noi»48 giacché persino questo stesso concetto rappresenta unaforma di universalità che non può essere soggetta a legittima-zione. Non può esserci un discorso legittimo a proposito dellastoria, della liberazione dell’umanità, dell’eguaglianza, e viadicendo. Tutte queste grandi idee ricadono in quel che Lyotardchiama metanarrazioni non legittimate. Lyotard non prendesemplicemente una posizione «cauta» nei riguardi delle meta-narrazioni, ma è si schiera apertamente e indiscriminatamentecontro di esse. Le sensibilità culturali, le specificità storiche, leimperfezioni comunicative e questioni del genere eclissano l’ef-ficacia delle generalizzazioni, rendendo impossibile cogliere laspecificità degli eventi storici: «cadremmo in errore – questo èl’argomento di Lyotard – se pensiamo di comprendere queglieventi impiegando gli strumenti della comprensione teorica,portandoli, per esempio, sotto alcuni concetti ritenuti adeguati,schemi dialettici o leggi-di-copertura funzionali a rendere la sto-ria intellegibile».49 Ed è lungo questa via che giunge alla suanota definizione della postmodernità:

possiamo considerare «postmoderna» l’incredulità nei confronti dellemetanarrazioni. Si tratta indubbiamente dell’effetto del progressoscientifico; il quale tuttavia presuppone a sua volta l’incredulità. Al

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47 J.-F. Lyotard – J.-L. Thébaud, Just Gaming, cit., p. 10.48 J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., pp. 33-45.49 C. Norris, op. cit., p. 9.

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disuso del dispositivo metanarrativo di legittimazione corrispondein particolare la crisi della filosofia metafisica, e quella dell’istitu-zione universitaria che da essa dipende50

Invece di continuare invano nell’articolare quelle narrazioni,il compito della filosofia oggi è diverso; la filosofia deve farsitestimone del dissidio, mettendo a fuoco quel che Lyotard chia-ma «narrazioni dell’irreale».51 E in questa direzione il postmo-derno guadagna un’ulteriore definizione

il postmoderno sarebbe ciò che nel moderno mette avanti l’impre-sentabile nella presentazione stessa; ciò che si sottrae alla consola-zione delle buone forme, al consenso di un gusto che permettereb-be di provare in comune la nostalgia dell’impossibile; ciò che cercapresentazioni nuove, non per goderne ma per far meglio sentire chec’è dell’impresentabile52

Restando ai problemi epistemologici che abbiamo considera-to poco sopra, la rinuncia delle grandi narrazioni compiuta daLyotard va incontro alle stesse difficoltà che abbiamo già presoin esame. Non è un caso quindi che i suoi critici dicano che«lungo tutte le sue opere Lyotard tralascia di determinare conchiarezza la costituzione della metanarrazione».53 Il problemaqui si pone circa i livelli di generalità considerati «legittimi»contro quelli considerati «illegittimi», poiché Lyotard non chia-risce le ragioni per cui i discorsi del primo ordine possono esse-re considerati effettivi, per esempio all’interno di uno specificogioco linguistico, mentre gli altri no, giacché ogni tipo particola-re di gioco linguistico, ogni settore della conoscenza, ogni tipospecifico discorso è in se stesso una totalità che – a seguirefedelmente le critiche di Lyotard – non è legittimata. Non c’èquindi una chiara linea di demarcazione che identifichi quellimite per cui si può dire che qui abbiamo una forma di discor-so (in cui può esserci unità) mentre lì abbiamo un altro tipo didiscorso, incommensurabile rispetto al primo.

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50 Id., La condizione postmoderna, cit., p. 6. 51 Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 80.52 Ivi, p. 23.53 G. Browing, op. cit., p. 154.

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Come struttura concettuale questa formulazione è intima-mente dialettica, l’ombra di Hegel emerge ancora in questadiscussione. Nella sezione precedente ho affermato che le criti-che di Lyotard a Hegel sono altamente problematiche dalmomento che Lyotard vede nel grande dialettico solo un avvo-cato della conoscenza assoluta, per altro anche arrogante e capa-ce di impiegare solo mezzi metafisici, sorvolando sull’altra facciadella medaglia della riflessione hegeliana, quella in cui Hegel perprimo ha sostenuto che ogni metanarrazione è caduca e destina-ta a essere soppiantata. Come noto Hegel non è solo un teorico,ma è anche un critico della modernità e della sua positività. Lacircolarità epistemologica di Hegel e il suo relativismo storicoabbandonano ogni ricetta aprioristica e ogni ricerca spasmodicadi un soggetto assoluto; queste possono trovare una temporanealegittimazione solo all’interno di un esame retrospettivo dellastoria. Nondimeno, anche qualora accettassimo la sfida diLyotard, sarebbe ancora possibile restare aggrappati all’altroaspetto della dialettica hegeliana, accettando che ogni possibileprincipio metafisico sia il nostro principio, un principio che noi,esseri umani costruiamo e legittimiamo. Da questo punto di vista,il criterio pragmatico di Rorty sembra rappresentare un punto dipartenza più praticabile. Il «noi» trans-storico criticato daLyotard, dice Rorty, non ha bisogno di essere tale. «Il solo «noi»di cui abbiamo bisogno ha carattere locale e temporale: «noi»significa qualcosa di simile a «noi occidentali socialdemocraticidel XX secolo»».54 Prestiamo per un momento attenzione allacoscienza empirica schizzata all’inizio della Fenomenologia dellospirito, tramite la quale Hegel ritiene possibile argomentare rigo-rosamente a proposito della conoscenza assoluta. Non c’è biso-gno di seguire il percorso di Hegel fino in fondo. Quel che restada fare è definire il «noi» e la possibilità, da parte di questo «noi»,di conseguire la conoscenza, in maniera rigorosa proporzional-mente a quanto il momento storico permette, tanto dal punto di vistapolitico quanto da quello epistemologico. La domanda cui quibisogna dare una risposta è se la conoscenza narrativa può

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54 R. Rorty, Cosmopolitismo senza emancipazione: una risposta a Jean-FrançoisLyotard», in: Id., Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 285-299, cita-zione a p. 288.

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diventare apodittica in qualche senso, ossia, pluristratificata, siste-matica e capace di rivelare gli aspetti interni dell’oggetto di cui sioccupa, portandolo al pensiero.

Quindi, una metanarrazione non è solo un contenitore dog-matico applicato dall’esterno, ma la riflessione su ciò che c’è giàlì fuori, sulle sue origini, sulle sue possibilità di sviluppo e sullesue prospettive. Bisogna dire che Lyotard sembra accettare que-sta tipo di logica, ammettendo un’altra via di legittimazione,secondo cui «il sapere non trova la sua validità in se stesso, in unsoggetto pratico che si sviluppa attualizzando le proprie possi-bilità di conoscenza, bensì in un soggetto pratico che si identifi-ca con l’umanità».55 Jay Bernstein prova a raddrizzare il tiro diLyotard quando scrive che trova plausibile «considerare il riget-to di Lyotard delle metanarrazioni come un rifiuto delle meta-narrazioni come metafisiche […] ma Lyotard cade in errorequando crede che il rifiuto delle metanarrazioni equivalga alicenziare su larga scala la nozione stessa di metanarrazione».56

Bernstein guarda alla possibilità che le metanarrazioni sianoconsiderate come «discorsi di secondo livello che ordinano, cri-ticano, allineano, disperdono, rompono sia i discorsi che le pra-tiche situate a un primo livello, che è quello che compone il tes-suto della vita sociale».57

È facile vedere che ci sono diversi tipi di metanarrazioni, nonnecessariamente tutti metafisici, non necessariamente tutti malriusciti. Non è necessario fare di tutta l’erba un fascio e rigettar-le in blocco. La strategia livellante di Lyotard fa proprio così,malgrado le sue stesse ammissioni che abbiamo citato poco fa,riunendo sotto lo stesso marchio i concetti più diversi, comeliberazione, eguaglianza, libertà, illuminismo, socialismo, capi-talismo, marxismo, fascismo e via dicendo. A suo modo di vede-re questi concetti caratterizzano la modernità come un progettoche ha fallito e che è andato incontro alla propria dissoluzione.Sono tutti esempi di grandi idee, non legittimate e non attualiz-zabili, che rappresentano solo frettolose generalizzazioni con-cettuali. Tra queste

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55 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., p. 65. 56 J. Bernstein, Grand Narratives, in: D. Wood (a cura di), On Paul Ricoeur,

Routledge, New York 1991, pp. 102-123; citazione a p. 108.57 Ivi, p. 111.

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c’è materia di lite e persino di dissidio. Tutti però situano i dati pro-dotti dagli eventi nel corso di una storia il cui termine, pur restan-do fuori dalla nostra portata, prende il nome di libertà universale,di assoluzione dell’umanità tutta58

Nei suoi risvolti politici questo è un tipico atteggiamento con-servatore, la cui strategia di base consiste nel mettere insiemequestioni radicalmente differenti per amore di imparzialità. Davertici diversi, questa è la posizione dei teorici più conservatorilungo tutto il XX secolo, da K. Popper a M. Friedman, all’ultimoD. Bell e molti altri ancora. La svolta di Lyotard contro la legit-timità delle metanarrazioni legittima essa stessa (universaliz-zandola, perpetuandola) una condizione fatta di parcellizzazio-ne estrema e senza fine, di una schiavizzante divisione del lavo-ro (Marx), etc.; legittima cioè tutte quelle caratteristiche che all’i-nizio avevano dato origine alla sua posizione critica.

Basata sul rifiuto dell’efficacia della ragione, il suo completorigetto delle metanarrazioni si traduce in una rinuncia teoricaverso qualsiasi tentativo di modificare lo status quo, accettan-dolo de facto. Le implicazioni conservatrici di questo tipo diatteggiamento non sono mai state riconosciute da Lyotard (alcontrario, il suo richiamo a portare l’attenzione sul dissidio e lasua ricerca di un’arte avanguardistica lo ha reso persino popo-lare fra alcuni commentatori vicini alla sinistra), anche se sonostate oggetto di dure critiche da parte di suoi autorevoli com-mentatori, come Habermas e Rorty. Non si tratta di una reazio-ne casuale, dal momento che anche le interpretazioni più carita-tevoli hanno dovuto riconoscere che, se la posizione di Lyotardè vera, allora l’ingiustizia è inevitabile.59

Sia essa storica, politica, filosofica e finanche scientifica, lanarrazione è una parte ineludibile del processo razionaleumano, un discorso meta-chiarificatore, quantunque questotipo di meta-spiegazione non debba essere necessariamentemetafisica. Si tratta piuttosto di una fenomenologia e, tenendopresente la critica di Hegel al trascendentalismo, la spiegazionenarrativa è una critica del relativismo storico. Metanarrazione

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58 J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 34. 59 G. Bennington, Lyotard: Writing the Event, Columbia University Press, New

York 1988, pp. 175-177.

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metafisica contro metanarrazione post-metafisica, l’universalemetafisico e l’universale post-metafisico – questa è la distinzio-ne che Lyotard non riesce a fare. Il problema, allora, è come svi-luppare una descrizione rigorosa della soggettività, non unadescrizione metafisica, ma una descrizione ontologico-sociale,perché «riconoscere il relativismo non implica necessariamenteche gli attori impongano alla conoscenza le proprie improntepersonali e idiosincratiche».60

Infine l’impossibilità di evitare le metanarrazioni si mostranel percorso stesso di Lyotard. A cinque anni dalla pubblica-zione di La condizione postmoderna, ne L’inhumain Lyotard cam-bia sorprendentemente rotta, articolando una metafisica che,questione della propria legittimazione a parte, è ben lungi dal-l’attenersi al soggetto storico. Il grande nemico delle metanar-razioni presenta sua sponte una metanarrazione nella forma diuna ipotesi,61 una speculazione metafisica, un racconto cosmo-logico che combina idee incredibilmente diverse, le monadi diLeibniz, la moneta e il capitale di Marx intesi come esternaliz-zazioni di poteri cosmici, le fenomenologie di Husserl eHeidegger, e altre ancora. La conoscenza umana è espressadallo sviluppo della scienza è vista da Lyotard come un prin-cipio cosmologico, come una componente tecnica di un siste-ma complesso:

devo riconoscere che non è il desiderio umano di conoscenza o ditrasformazione della realtà a far andare avanti questa tecno-scienza,ma una circostanza cosmica [...]62

[...] si sa – la tecnologia non è stata inventata da noi umani. [...] unsistema materiale è tecnologico se filtra informazione in modo utilealla sua sopravvivenza, se memorizza e processa quelle informa-zioni, compie inferenze basate sulla regolazione degli effetti com-portamentali, ossia è tecnologico se interviene sul suo ambiente,

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60 J. Alexander, General Theory in the Postpositivist Mode: the «EpistemologicalDilemma» and the Search for Present Reason, in: S. Seidman – D.G. Wagner (acura di), Postmodernism and Social Theory: the Debate over General Theory,Blackwell, Cambridge 1992, pp. 322-368; citazione a pp. 323 e segg.

61 J. – F. Lyotard, L’inhumain. Causeries sur le temps, Galilée, Parigi 1988, inparticolare pp. 17-31 e 69-88.

62 Ivi, p. 30.

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influenzandolo, tanto da assicurarsi quantomeno la sua perpetua-zione. Un essere umano non è per natura diverso da un oggetto diquesto tipo63

Considerare gli esseri umani come semplici parti di un uni-verso che si auto-organizza è una tipica posizione naturalisticae positivistica, tendente ad abolire la specificità dell’azioneumana, la sua natura specificamente razionale (riducendo lamente a una semplice capacità computazionale) e la sua libertà.Ma Lyotard è ben lungi dallo sposare il paradigma positivistico.Tutto il contrario. Questo paradigma viene chiamato in causaqui per dare risalto in maniera plausibile alla finitudine dell’a-zione umana. La linea di argomentazione è costruita in manieraassolutamente postmoderna, sviluppando nozioni come«impresentabile», «sublime», «avanguardia» quali strumentidel pensiero critico per resistere alla moderna «potenza inuma-na della legittimazione». L’inumano si esprime mediante formepositive, sistematiche o istituzionalizzate di conoscenza, chesopprimono il dissidio e cancellano la libertà.

Non è mia intenzione qui dare una fedele riproduzione delleopinioni di Lyotard ne L’inhumain. Sottolineare la limitatezzadell’umanità è cosa comprensibile e certamente credibile. Contimore e pessimismo Lyotard richiama delle scoperte dellacosmologia contemporanea

la Erde è un composto di materia/energia. Questo composto è tran-sitorio – che dura più o meno pochi miliardi di anni. Anni lunari.Preso su una scala cosmica, non è un lungo periodo. Il sole, il nostromondo e il vostro pensiero saranno stati non più che uno stato d’e-nergia intermittente, un istante di un ordine stabilito, un’increspa-tura sulla superficie della materia in un remoto angolo del cosmo64

È vero, la filosofia ha sempre parlato dell’infinito, di un qual-che abisso nello spazio/tempo ed è questo vasto universo che lametafisica filosofica ha sempre cercato di spiegare. Sebbene gliesempi metafisici siano numerosi, mi posso azzardare a dire cheun sentire completamente diverso è maturato proprio negli ulti-

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63 Ivi, p. 21.64 Ivi, p. 19.

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mi decenni. L’uomo non è più il centro della creazione e la vastitàdell’universo non è più un risultato «remoto» della contempla-zione, mentre il vero regno dell’uomo è limitato ai suoi imme-diati dintorni. Al contrario, la vastità, l’infinità, la complessità ela relatività, sono oggi percepiti immediatamente quando sonopropinati dalla scienza moderna come dati grezzi. Grazie allafacoltà di concettualizzare gli esseri umani hanno tentato di darsenso all’infinito. L’approccio fenomenologico di Lyotard allanatura del pensiero sembra fare qualche tentativo per dare unarisposta ai suoi precedenti interessi epistemologici:

il pensiero umano può distinguere ciò che conta da ciò che nonconta senza dover fare l’inventario completo dei dati e senza doverdare prove dell’importanza dei dati in relazione all’obiettivo perse-guito con una serie di tentativi e di errori. Come ha mostratoHusserl, il pensiero diventa consapevole di un «orizzonte», mira aun «noema», un tipo di oggetto, una sorta di monogramma non-concettuale che lo rifornisce di configurazioni intuitive, aprendo«davanti ad esso» un campo fatto di strutture e aspettative.65

Non è qui intento di Lyotard porre in luce la capacità del pen-siero di organizzare e dar senso all’infinito mediante formeideali. Anzi, tutto il contrario; egli vuole mettere in risalto l’im-possibilità di una conoscenza umana rigorosa, perché la cono-scenza risulta sempre essere una parte del reale, dell’inumano. Ilproblema della complessità e della natura impenetrabile dellarealtà è ciò che per Lyotard si trova alla radice di tutto. Di fron-te a questa complessità sia la ragione scientifica sia quella filo-sofica sono destinate a restare qualcosa di relativo. Questa è laragione della svalutazione lyotardiana della fertilità della filoso-fia; perché la filosofia non ha ancora abbandonato quell’ambi-zione che la accompagna sin dai propri esordi: l’ambizione dellametafisica come spiegazione ultima della realtà. Lyotard attaccala filosofia in quanto metafisica. La metafisica non può esserealtro che un racconto infondato, un racconto visto e detto social-mente, espresso necessariamente per mezzo di una razionalitàfinita, un racconto sui principi della realtà. La filosofia è unameta-considerazione, una «considerazione meditante (denkende

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65 Ivi, p. 23-24.

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Betrachtung) delle cose» come ha bene messo in luce Hegel. Maquesto vuol dire che la filosofia dev’essere necessariamente unametafisica? Se la filosofia segue la via della metafisica – ripren-do qui un argomento di Heidegger, Foucault, Rorty e molti altriancora – allora Hegel sarà lì, in paziente attesa della fine del per-corso, non importa quale strada si scelga.

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II l posl postmodertmoderno come abdicazioneno come abdicazionee re recuperecuperoo

diJoseph Margolis

IIn primo luogo vorrei cercaredi chiarire subito in che cosa

consiste la versione americana del postmodernismo filosofico,per quanto, a tutta prima, questa spiegazione sembrerà nonavere molto senso. In realtà il postmodernismo americano hamolto poco a che fare con le lamentele di Lyotard, che utilizzaquello che a prima vista sembra essere lo stesso termine.1 Il post-modernismo congeda la filosofia come qualcosa di completa-mente esaurito, senza però dare una dimostrazione di questocome un fatto necessario e senza rimpiazzarla con una discipli-na destinata a prenderne il posto, che non viene mai esplicita-mente definita. Si tratta di una critica diretta ai fondamenti dellafiducia tipicamente filosofica, criticata perché intende soddisfa-re condizioni impossibili, le quali, per altro, risultano piena-mente soddisfatte, più e più volte, nel più noto lavoro diRichard Rorty come forse in nessun’altra opera.

Le condizioni da soddisfare possono essere enunciate con ter-mini più o meno eleganti – o in maniera più informale, chemagari può essere più accattivante e paradossale. La formulaufficiale è questa: l’epistemologia dev’essere «naturalizzata»,cosa che, nella lettura di Rorty, dovrebbe eliminarla del tutto. Lanaturalizzazione, nelle mani di Quine e Davidson, è una formadi riduzionismo filosofico. Nelle mani di Rorty, però, estenden-do la tematica riduzionista e declinandola in una forma partico-larmente estrema, la naturalizzazione diventa «post-filosofica»,2

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1 Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sullo stato del sapere,Feltrinelli, Milano 1981.

2 Cfr. W. V. Quine, Epistemologia naturalizzata, in: Id, La relatività ontologica e

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elimina del tutto la filosofia in favore di una qualche spiegazio-ne causale che normalmente sarebbe stata considerata inadattaa dare soluzione ai problemi della validità e della legittimità, iquali tuttavia sono e restano problemi sollevati proprio dall’im-piego di questa strategia esplicativa. Il postmodernismo guada-gna la propria trasformazione mediante puri obiter dicta.Altrimenti la sua essenza sembra essere colta da formule icasti-che, tra cui, per esempio:

il postmodernismo è una filosofia che elimina definitivamente lafilosofia;

il postmodernismo è una filosofia che non si può formulare in ter-mini filosofici;

le tesi postmoderne non possono essere approfondite indipenden-temente da una revisione degli argomenti filosofici standard, chenon vengono o non possono essere valutati in termini comparativi,o a cui non si può far direttamente riferimento senza sovvertire laloro stessa chiamata in causa;

il postmodernismo offre un correttivo radicale per gli eccessifilosofici di cui fa menzione (soprattutto quelli di carattere rap-presentazionalista e cognitivo), che sono stati tutti già mostratiindifendibili da filosofi più convenzionali, senza che però que-sto abbia mai ostacolato la prosecuzione della ricerca sui risul-tati già raggiunti – cosa che il postmodernista non può ricono-scere senza cadere in contraddizione

il postmodernismo svolge un’importante funzione filosoficache in realtà nessuno può chiarire.

Anche se può sembrare assurdo, il «postmodernismo»diRorty soddisfa ampiamente tutte queste condizioni e noi stessine siamo i diretti beneficiari.

110 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

altri saggi, Armando, Roma 1986, pp. 95-113; D. Davidson, Una teoria coe-rentista della verità e della conoscenza, in: Id., Soggettivo, intresoggettivo, ogget-tivo, Cortina, Milano 2003, pp. 175-197. Mi permetto di rimandare inoltreanche a J. Margolis, The Unraveling of Scientism: American Philosophy at theEnd of the Twentieth Century, Cornell University Press, Ithaca 2003.

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IIl posmodernismo è una forma di aborto. Comincia con la

riformulazione di una valida – e in effetti molto rispettabile –critica dell’intera tradizione occidentale, Descartes e Kant com-presi, che poi va a complicarsi con vari astuti espedienti retori-ci, tanto da spingerci alla conclusione che gli argomenti controle dottrine originarie finiscono per minare efficacemente anchele credenziali filosofiche della critica stessa (dopo che essa haportato a termine il suo primo compito!). Il messaggio del post-moderno è allora: la filosofia, nella sua forma canonica, è un’e-sperienza conclusa che può essere congedata – e questa affer-mazione non ha bisogno di alcun argomento a suo sostegno.Consiste semplicemente nell’insinuazione del significato delprimo argomento che non ha bisogno di essere ricordato. Il post-modernismo è proprio quest’ultima insinuazione.

La critica originale può essere ritrovata in diverse fonti.Concedendo a Rorty il diritto di allestire il palco per la propriaapparizione, direi che potrebbe essere ragionevolmente ricavatada un’attenta lettura di Wittgenstein, Dewey, o Heidegger, che èpoi quello che lo stesso Rorty dice in Filosofia e lo specchio dellanatura;3 se non che potrebbe essere ricavata da questi tre lumi-nari solo se, a seconda delle sottili connessioni che ci si trova apreferire, le loro «critiche» derivassero in maniera obliqua dalleintuizioni di Hegel che, duecento anni fa, aveva già dato l’avvioa tutte le obiezioni di Rorty contro il rappresentazionalismo, leforme di razionalità immutabili e astoriche, le categorie univer-sali a priori della comprensione e della scienza, e le fonti privile-giate della certezza cognitiva. Queste strategie fallite, se capiscola lettura che Rorty fa di Heidegger e degli altri, comunicanol’essenza del modernismo filosofico o della modernità che, forsealterata da Max Weber, Rorty ritiene sia il vuoto rimasugliodella filosofia canonica stessa.4 Il più incisivo commento diRorty, faccia a faccia con il proprio emergente postmodernismo– che deriva più direttamente da Wilfrid Sellars (sebbene sem-pre nel senso obliquo di cui ho dato esempio) e che è un passo

111JOSEPH MARGOLIS

3 Cfr. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986.4 Si veda ad esempio R. Rorty, Response to Michael Williams, in: R. Brandom (a

cura di), Rorty and His Critics, Blackwell, Oxford 2000, pp. .

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filosofico poco lontano dal postmodernismo – osserva corretta-mente (seppure in modo fuorviante) che

ai filosofi non va riconosciuto un tipo speciale di conoscenza intor-no alla conoscenza (o a qualsiasi altra cosa) dalla quale possanotrarre i relativi corollari5

Di tanto in tanto Rorty insinua il proprio impegno ad ungenuino, quasi negativamente incipiente, aggiustamento filoso-fico che, se egli avesse seguito attentamente Hegel o i suoi men-tori designati, lo avrebbe condotto ad un rafforzato pragmati-smo e non al postmodernismo che egli etichetta in modo incu-rante come una forma nuova di pragmatismo. Il termine «post-modernismo» appare piuttosto raramente nel testo di Rorty. Inrealtà, c’è un equivoco nell’uso del termine che non può essereinteramente eliminato dalla discussione di Rorty: a livello filoso-fico, postmodernismo significa il rifiuto degli eccessi ora esem-plificati, raccolti sotto il termine «modernità»; nella sua formatipicamente più estrema, postfilosofica – la preferita di Rorty –significa «la fine della filosofia» (come l’abbiamo sempre cono-sciuta ed amata). Si potrebbe dire che la filosofia dovrebbe esse-re sostituita dalla «conversazione ermeneutica» o dalla «solida-rietà etnocentrica»; ma, propriamente inteso, il postmodernismosignifica anche la fine della filosofia.6 Se le cose stanno così, allo-ra La filosofia e lo specchio della natura è già un libretto postmo-dernista – o è ad un passo dall’esserlo; sebbene, se non mi sba-glio, i termini «postmoderno», «postmodernista», «postmoder-nità», «postmodernismo» e ogni riferimento al saggio di Jean-Francois Lyotard La condizione postmoderna (tanto quanto tutte levarianti del termine modernismo) sono completamente assentidal testo a stampa.

IIPosso offrire una serie di indizi tratti dalle affermazioni scrit-

te di Rorty che possono aiutarci a capire la natura della posta ingioco. Un esempio in questo senso è rappresentato da una con-cessione relativamente tarda, ma apparentemente decisiva all’a-

112 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

5 R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit., pp. 303.6 Cfr. Ivi, pp. 239-273.

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nalisi della «verità» sostenuta da Donald Davidson – concessio-ne che, piuttosto astutamente, recupera l’originale critica diRorty della visione della verità di Davidson (che Davidsonaveva esplicitamente rifiutato, non troppo efficacemente, macon evidente fastidio) – utilizzata da Rorty per cooptareDavidson (un’altra volta) come campione del postmodernismo(corrente di pensiero che, come noto, Davidson aborriva, unita-mente al pragmatismo):

Davidson ci ha aiutato a realizzare – scrive Rorty – che la stessa asso-lutezza della verità è una buona ragione per pensare il «vero» come inde-finibile e per pensare che non sia possibile alcuna teoria della verità.Soltanto a proposito del relativo si può dire qualcosa7

Questa è una maniera molto libera di esprimersi che finisceper rivoltarsi contro il tentativo compiuto dallo stesso Rorty dimettere insieme Davidson e William James (Davidson, comenoto, aveva preso apertamente le distanze dalla teoria dellaverità di James).

È certamente vero che corrispondentismo e coerentismoincontrano difficoltà ben note; e può essere che Davidson abbiaimpiegato un tempo inconsciamente lungo per esorcizzarecome errori marchiani (l’espressione è sua) ciò che una voltadifendeva pubblicamente. Questo tuttavia non è certamente unadimostrazione che l’analisi o la «definizione» di «vero» sianoimpossibili; e Davidson non ha mai inteso rifiutare la filosofia oil ruolo della verità in una teoria sulla nostra conoscenza delmondo reale. La tesi essenziale, a cui Rorty non si rivolge maidirettamente e che non è in alcun modo seriamente minacciatanella letteratura più recente, sostiene che l’analisi della verità èinseparabile dalle fortune filosofiche delle nostre teorie dellaconoscenza.

Lo stesso Davidson è alquanto evasivo per quanto riguardaquesto nesso. Egli non desidera trattare la verità come nozione

113JOSEPH MARGOLIS

7 R. Rorty, Introduction a: Id., Philosophical Papers, vol. III, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1998, p. 3, corsivo mio. Si vedano inoltre D.Davidson, Truth Rehabilitated e la replica di Rorty in: R.B. Brandom (a curadi), Rorty and His Critics, cit, come anche mi sia consentito di rimandareancora a J. Margolis, The Unraveling of Scientism, cit., capitolo III.

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epistemologica – o anche come nozione semantica dipendentedalla nostra epistemologia – ma non desidera nemmeno negareesplicitamente questi legami.8 Il punto essenziale è il seguente:la connessione sostanziale tra verità e conoscenza è di per sestessa implicata dalla reiterata critica della «modernità», nelsenso che poco sopra si è alluso parlando di Hegel e dei «post-hegeliani»; una critica che certamente ha esercitato una forteattrazione su Rorty. Ma Rorty ripudia questo nesso, e precisa-mente per assicurare al suo postmodernismo un effetto radicale– manovra a cui Davidson non intende prender parte! Per quan-to ne so, fra gli importanti studiosi che Rorti afferma di ammi-rare non ve ne è neppure uno soltanto che vada davvero nelladirezione del postmodernismo.

Rimanere nell’ambito della critica della modernità sarebbestata una strategia filosoficamente sicura, ma avrebbe relegatoRorty ad un ruolo di semplice giornalista. Aver convertito quellastessa critica nell’insinuazione che anche l’atto di valutare lamodernità risulta contaminato da una qualche congettura«modernista» (sia essa il rappresentazionalismo o il concetto diprivilegio o qualcosa del genere) è certamente una manovra piùardita ed interessante; sebbene, alla fine, sarebbe una manovratanto indifendibile quanto un altro esempio di postmodernismo.

L’insinuazione di Rorty che la critica della modernità (omodernismo) sia un altro esempio di modernismo non vienemai espressa nella forma di un’attuale affermazione di verità:come dire, per esempio, che la denuncia del privilegio epistemi-co sia (debba essere) essa stessa una forma di privilegio episte-mico, o che la critica di secondo ordine della competenza cogni-tiva della scienza sia (debba essere) essa stessa il lavoro di unascienza di più alto livello (e quindi illecito). In primo luogoun’accusa di questo genere deve essere dimostrata; in secondoluogo, non viene mai dimostrata da Rorty stesso; in terzo luogo,viene proposta deliberatamente nella forma di fioritura retoricao raccomandazione di come «la filosofia» dovrebbe o potrebbecontinuare; e, in quarto luogo, non sembra mai possibile dimo-strarla o confutarla in modo pertinente. Si tratta, in sostanza, diun «attacco preventivo» di Rorty contro gli imminenti pericoli

114 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

8 Cfr. D. Davidson, Una teoria coerentista della verità e della conoscenza, cit.

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che corre la filosofia – si tratta di una piccola guerra priva diogni evidenza a suo supporto, tanto quanto qualsiasi argomen-to offerto a sostegno dell’invasione dell’Iraq.

IIIQuello che vale la pena ricordare – e che spesso viene ignora-

to – è questo: il postmodernismo di Rorty è, a modo suo, unamaniera di perseverare nell’evirazione della filosofia nellaforma praticata in parte da Quine e, in modo più radicale, daDavidson – proseguirla andando semplicemente «oltre» la filo-sofia stessa in una maniera che non è chiaramente distinguibiledalla pratica di Davidson. Può sembrare incredibile. Trovoalmeno tre strategie che i filosofi americani (e anglo-americani)del tardo XX secolo hanno favorito, le quali potrebbero (erro-neamente) condurre verso il (in apparenza plausibile) postmo-dernismo di Rorty: una la associo alla convinzione che la logicae la semantica siano discipline autonome, relativamente separa-bili dall’epistemologia (e dalla metafisica) – questa è già di perse stessa una tesi filosofica che necessita di un argomento a sup-porto, sebbene l’argomento solitamente usato sia insostenibile.9Una seconda strategia la associo all’abbandono di certe linee dianalisi filosofica pensate per implicare un’indesiderabile scetti-cismo o, per difetto, un ritorno a qualche forma di privilegio epi-stemico. La terza è il programma estremo conosciuto come«naturalizzazione». È possibile dimostrare che ciò che ho giànotato riguardo al postmodernismo di Rorty evoca tutte e trequeste strategie. È opportuno quindi rendere più esplicite que-ste distinzioni.

Non c’è un unico modo in cui la prima strategia debba pro-cedere: il punto essenziale è che, sin dalla «svolta linguistica»modellata da Quine negli Anni ‘50 e ‘60 e sviluppata in formepiù blande da Davidson e Rorty – il quale fa il doppio gioco,

115JOSEPH MARGOLIS

9 Un argomento che va in questa direzione si trova in M. Dummett, Le basilogiche della metafisica, Il Mulino, Bologna The Logical Basis of Metaphysics,Harvard University Press, Cambridge 1991. E’ chiaro, per ragioni interne,che la priorità assegnata da Dummett alla semantica sulla metafisica è sol-tanto una manovra tesa a trincerarsi in una metafisica preferita. Lo stessotipo di argomento può essere applicato al lavoro dei positivisti logici.

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perché, certamente, l’intera impresa è una ovvia deformazionedella lettura data da Quine del positivismo di Carnap. La filo-sofia americana è andata progressivamente allentando i propriormeggi kantiani ed hegeliani. Ecco, per esempio, una massimachiave raccomandata da Michael Devitt, il quale ama avallare inmaniera aperta e con estrema onestà l’una o l’altra delle con-vinzioni di Davidson che, dal canto suo, avrebbe invece preferi-to vedere espresse in maniera più circospetta: «risolvi la que-stione del realismo prima di ogni questione epistemologica osemantica».10

Quest’idea coglie quasi perfettamente il ben noto sforzo diDavidson di fortificare un realismo affidabile, sfuggendo sia loscetticismo sia il bisogno di fare la parte dell’ostaggio dell’epi-stemologia.11 La massima di Devitt non avrebbe potuto esserestata scritta che da un filosofo analitico più giovane, influenza-to da Quine o da Davidson e trasportato nell’Europa del dicias-settesimo o del diciottesimo secolo. Non sarebbe potuta usciredalla penna di Rorty, che si considera ben disposto verso un tipodi olismo hegeliano (sans filosofia); sebbene, nel momento in cuiRorty mette in pratica il suo tipo di postmodernismo, «la natu-ralizzazione» potrebbe essere pensata come una dottrina piùblanda, seppure ancora inaccettabile. Davidson non avrebbemai espresso un impegno così esplicito; ma ciò è dovuto per lopiù al fatto che egli evita ogni argomento epistemologico emetafisico, sebbene mai per motivi «postmoderni». Egli ignoradi proposito il fatto che «la naturalizzazione» sia di per sé stes-sa una dichiarazione estremamente forte su questioni epistemo-logiche e metafisiche: per esempio, egli sostiene che la «verità»sia una distinzione semantica piuttosto che una distinzione epi-stemologica.12

Rorty è un «naturalizzatore» più radicale rispetto a Davidson,cosa che avrebbe potuto preoccupare Davidson in relazione alladifferenza tra naturalizzazione e postmodernismo. Rorty forni-

116 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

10 M. Devitt, Realism and Truth, Princeton University Press, Princeton 1991,pp. 3-4.

11 Cfr. D. Davidson, Una teoria coerentista della verità e della conoscenza, cit.Rorty è stato costretto a questo suo doppio gioco.

12 Cfr. Id., Una toria coerentista della verità e della conoscenza, cit.

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sce quattro linee di demarcazione estreme del suo nuovo prag-matismo – che è, in effetti, il suo postmodernismo – attraversole quali sembra, senza tuttavia poterlo davvero fare, trattare lequestioni di verità e conoscenza come se fossero aperte all’ana-lisi filosofica e nelle quali argomenta lungo le linee di Davidson.Di seguito le straordinarie «tesi» di Rorty:

«La verità» non ha alcun uso esplicativo;

Capiamo tutto ciò che c’è da sapere sulla relazione delle credenzecon il mondo quando capiamo le loro relazioni causali con ilmondo; la nostra conoscenza di come applicare termini come «aproposito di» e «vero di» deriva da un resoconto «naturalistico» delcomportamento linguistico;

Non esistono relazioni di «essere reso vero» valide tra le credenzeed il mondo;

I dibattiti tra realismo ed anti-realismo non hanno senso, poiché talidibattiti presuppongono la vuota e fuorviante idea che le credenze«vengono rese vere»13

Questa è l’affermazione più esplicita che si trova a nostradisposizione della lettura postmodernista data da Rorty dellateoria, a volte filosofica, della «naturalizzazione». C’è da restaresbalorditi nel realizzare che Rorty non solo fallisce nel difende-re queste affermazioni su un piano filosofico, ma apparente-mente crede anche che questo genere di difesa non sia né richie-sta né possibile. La mia sensazione è che Rorty non avrebbepotuto convincere se stesso della verità delle proprie afferma-zioni, se non avesse supposto che l’analisi «semantica» della«verità», del «realismo» e della «conoscenza» non fosse di per sestessa un esempio esplicito di analisi filosofica. Tuttavia, inprimo luogo, non esiste alcun resoconto post-kantiano e post-hegeliano di nessuno di questi termini che non implichi, olisti-camente, il legame concettuale di linguaggio, mondo e cono-scenza; e, in seconda battuta, nessun pensatore di stampo hege-

117JOSEPH MARGOLIS

13 R. Rorty, Pragmatismo, Davidson e la verità, in: Id., Scritti filosofici, Laterza,Roma-Bari 1994, pp. 169-202.

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liano (o wittgensteiniano, deweyiano o heideggeriano) avrebbepotuto giustificare la disgiunzione che qui viene implicata.Rorty non avrebbe potuto ignorare questa gaffe e certamentenon avrebbe mai potuto avere l’intenzione difenderla. Taleatteggiamento andrebbe decisamente contro le sue tendenzehegeliane, sia come naturalizzatore sia come postmoderno.Potrebbe trattarsi semplicemente di una specie di solitario con-cettuale, in cui non ci si può aspettare che nessun altro, ad ecce-zione dello stesso Rorty, colga l’espediente privato di trasforma-re le tendenze riduttive di Davidson nel proprio tipo di post-modernismo. Una volta portato a termine, comunque, il giocopotrebbe essere facilmente messo da parte.

Qualcosa di simile potrebbe spiegare la ragione per cui Rorty,in modo piuttosto intelligente, abbandona «le proposizioni» infavore delle «metafore». L’idea è già accennata nelle osservazio-ni iniziali di Filosofia e lo specchio della natura. Qui, parlando diWittgenstein, Dewey e Heidegger, Rorty ammette esplicitamen-te che

questo [suo] libro, come gli scritti dei filosofi che ammiro, è tera-peutico piuttosto che costruttivo. La terapia offerta è tuttavia paras-sitaria rispetto agli sforzi costruttivi degli stessi filosofi analitici dicui cerco di mettere in discussione il quadro di riferimento14

e ancora

essi lasciano da parte l’epistemologia e la metafisica come discipli-ne possibili. Dico «lasciano da parte», piuttosto che «argomentanocontro», perché il loro atteggiamento verso la problematica tradi-zionale è simile all’atteggiamento dei filosofi del XVII secolo neiconfronti della problematica scolastica15

L’intera introduzione – da cui queste righe sono tratte – rap-presenta la conversione postmodernista del miglior lavoro deicampioni ammirati da Rorty tanto quanto della filosofia analiti-ca in generale – e quindi rappresenta anche il miglior lavoro di

118 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

14 Id., Introduzione a Id., La filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 11 15 Ivi, p. 10.

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naturalizzazione che Rorty considera come «una variante ulte-riore della filosofia kantiana».16

Rorty qui si dimostra piuttosto furbo. I suoi campioni nonhanno mai «accantonato l’epistemologia e la metafisica comediscipline possibili». Certamente, appaiono insoddisfatti con laforma che esse hanno attualmente assunto; essi affermano diintravedere questioni più importanti al di là delle questioni soli-te che essi finiscono col rifiutare. Ma, questi filosofi non hannomai perso il loro spirito filosofico. Persino Wittgenstein non hamai trattato «terapia» e «filosofia» separatamente: non fu maiun postmodernista del tipo di Rorty.

In questo caso Rorty non ha fatto i compiti a casa, anchesecondo i propri standard. Egli non prende mai in considerazio-ne la possibilità di una filosofia produttiva «parassita degli sfor-zi costruttivi» di filosofie che non hanno mai fallito nel modo incui egli desidera accantonare. Qui sta la lacuna decisiva del suopostmodernismo.

Non c’è dubbio che Quine fosse realmente attratto da unaforma forte di «naturalizzazione» della conoscenza, ma nondella verità. Eppure, anche su questo argomento, Quine siammorbidisce: egli classifica l’epistemologia come una forma dipsicologia, ma classifica anche la psicologia come una forma diepistemologia. La questione non è pienamente chiara, sebbenesia abbastanza chiara da permetterci di concludere che Quinenon ha mai avuto l’intenzione di abbandonare la filosofia.Davidson ha un atteggiamento più radicale, in particolare nelsupportare la seconda tesi di Rorty (data sopra). Ma anche inquesto caso, appare in Davidson un imbarazzo rivelatore a pro-posito della relazione tra semantica ed epistemologia. Davidsonnon si trova a proprio agio con il problema della legittimazioneche lo avrebbe costretto ad identificare la spiegazione causaledella conoscenza con l’aiuto di considerazioni probatorie – cosache, secondo Rorty, non era disposto ad ammettere.

In questa circostanza, Rorty rimane, come al solito, impertur-bato. Ma, la sua sicurezza è anche particolarmente immotivata.Le sue osservazioni sono notevolmente vacue e ad hoc, buttatelì in effetti, come per assicurare i suoi lettori che egli non ha

119JOSEPH MARGOLIS

16 Ibidem

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rimorsi precauzionali del tipo di quelli di Quine o di Davidson.Egli appare come una sorta di temerario della filosofia o, forse,una sorta di psicopatico filosofico: la sua «manifestazionetestuale» è un puro obiter dictum; egli interpreta i suoi autori piùo meno come gli pare. Davidson, per esempio, diventa un prag-matista secondo solo a Dewey.

Certamente, la verità di per sé stessa non ha alcun uso espli-cativo; ha un ruolo esplicativo solo in termini di evidenza elegittimazione; e, in questo caso, Rorty non azzarda alcuna dife-sa pertinente della sua estrema naturalizzazione. Quando Quineinclude l’epistemologia nella psicologia, è chiaro che egli nonsta abbandonando la questione della legittimazione: siamo incli-ni a trovare analogie tra le sue osservazioni ed il suo trattamen-to comportamentalista del significato. Nella versione di Rortydella naturalizzazione non c’è nulla di comparabile. Quandoegli sostiene la «spiegazione causale» della credenza, non sap-piamo cosa fare di quel che dice: restiamo certamente sbalorditidalle sue affermazioni, ma queste non sono né brillanti né stu-pide. Non ha letteralmente alcun chiaro punto d’appoggio radi-cato nella storia del problema stesso – e non perché siamo rilut-tanti a lasciare il terreno a un argomento non verificato. Nonabbiamo alcuna ragione di spingerlo verso una formulazionemigliore. Non c’è nulla all’orizzonte – se non il crudo rifiuto diun intero continente della filosofia apparentemente intonso eche resta incolume nei confronti della sua sfida. Sarà questo maiabbastanza? Non dal suo punto di vista, se la mia lettura diRorty è corretta!17

Rorty si è formato in seno alla filosofia analitica – la qualepotrebbe anche averlo illuso e ingannato a proposito delle suepotenzialità più radicali. Per esempio, Quine ha cercato di darforma al lavoro filosofico su prospettive quanto più possibile

120 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

17 A mio avviso tre sono i contributi essenziali per quanto riguarda la discus-sione sulle strategie di naturalizzazione, e cioè R. Rorty, Pragmatismo,Davidson e la verità, cit.; D. Davidson, Una teoria coerentista della verità e dellaconoscenza, cit.; W. V Quine, Epistemologia Naturalizzata, cit. Queste rappre-sentano le sottigliezze più estreme della filosofia analitica nella direzionedel postmodernismo. Rorty chiaramente oltrepassa il limite. Né Quine néDavidson lo fanno realmente, per quanto Quine si mantenga su posizionipiù ardite e più conservatrici rispetto a Davidson.

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estensionaliste e materialiste. Quine ha completamente fallito,ma (se è così) ha fallito per ragioni filosofiche. Davidson si è tro-vato d’accordo con l’ambizione principale del programma diQuine (che, dopo tutto, è stato ampiamente ricavato dal pro-gramma di Carnap e favorito dalla nuova potente leva cheQuine ha forgiato contro lo stesso Carnap, nel suo lavoro I Duedogmi dell’empirismo). Ma Davidson si allontana dalle strategiepiù ristrette di Quine, apparentemente su basi filosofiche. Eglicontinua a levigare, per quanto ne abbia il coraggio, l’indaginefilosofica sul significato, sulla verità, sulla conoscenza, sul reali-smo e sul problema della legittimazione – andando molto oltrel’approccio di Quine. Anche Davidson viene a trovarsi di frontea un punto morto, ma anche lui per ragioni filosofiche.18

La strategia di Davidson è una sorta di sottrazione filosofica.Egli elimina intere linee di ricerca che ritiene non necessarie. Ciòche rimane è un argomento difficilmente riconoscibile, non piùdi una traccia della memoria di ciò che avrebbe potuto essere.Tuttavia, anch’esso è pur sempre inteso come argomento filoso-fico. In questa strategia sta il principio d’economia che moltihanno ammirato. Possiamo forse cominciare a intravedere comeRorty abbia potuto persuadersi a rischiare la sua prima mossapostmodernista: potrebbe essersi trattato soltanto di uno scher-zo di B. Franklin alla fine di una lunga giornata, di un’ultimadrastica chirurgia a cui, sfortunatamente, altri lettori hanno datotroppo credito. Ma, è proprio questo che ha fatto di Rorty unpersonaggio così memorabile: tutto il resto è una sorta dipagliacciata di cronaca.

Da un punto di vista filosofico, Quine è il più esplicito dei trepensatori – e anche il più importante – sebbene non sia, laddo-ve è esplicito, sufficientemente esplicito né sufficientemente effi-cace. Per esempio: nel rendere predicativamente la funzionedenotativa dei nomi propri e delle descrizioni definite; nel suotrattamento comportamentista del significato; nell’analisi delproprio resoconto olistico (olofrastico) della percezione senso-

121JOSEPH MARGOLIS

18 Cfr. inoltre W.V. Quine, I due dogmi dell’empirismo, in: Id., Il problema delsignificato, Ubaldini, Roma 1966, pp. 20-44; e D. Davidson, Ripensamenti, in:Id., Soggettivo, intersoggettivo, soggettivo, cit., pp. 198-202. Mi si consentaanche di rimandare ancora a J. Margolis, The Unraveling of Science, cit., inparticolare il capitolo terzo.

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riale; nell’analisi delle strutture intenzionali del discorso e del-l’esperienza; nell’analizzare gli aspetti probatori della verità,della conoscenza, «dell’impegno ontico» e della legittimità disecondo ordine.

Quine forza queste questioni sotto quelle minime concessioniche lui stesso considera praticabili. Ma, il fatto che le sue inge-nuità non siano all’altezza del disperato problema che egli stes-so costruisce non lo porta mai al postmodernismo.

Davidson si oppone a Quine costruendo steccati a difesa diciò che un leale partigiano deve votarsi a proteggere se vuolerimanere fedele all’estensionalismo. Egli non va oltre l’identifi-cazione di ciò che si deve assolutamente evitare (tentazioni scet-tiche e presunzioni di privilegio cognitivo). SintomaticamenteDavidson ignora completamente le fastidiose sfide che sorgonocontro le proprie dottrine: nell’applicazione, per esempio, delresoconto strettamente estensionalista di Tarsky dei predicati diverità applicati ai linguaggi naturali; nell’equivalenza co-esten-sionale tra descrizioni fisiche ed intenzionali delle azioni; nellariduzione della razionalizzazione del comportamento intenzio-nale ad una spiegazione causale; nel giusto trattamento dellarelazione tra verità e conoscenza; nella convalida del realismo;nel difendere la superiorità del mentale sul fisico; nello specifi-care cos’è il linguaggio; nel distinguere tra il discorso in prima eterza persona; nel favorire un’interpretazione radicale della tradu-zione radicale di Quine; nel rifiutare schemi concettuali differenti.Davidson aggira questi problemi con l’intenzione di proporreun principio d’economia insieme alla rassicurante insinuazioneche gli argomenti a supporto siano veramente a portata dimano. Egli potrebbe, qui, essere ad un passo dal postmoderni-smo, ma non si azzarda mai a fare quel passo – in effetti nonintende mai farlo.

Rorty, d’altro canto, sceglie di rinunciare completamente allapretesa di occuparsi di ogni argomento a supporto: abbandonal’epistemologia e la metafisica canoniche; separa i problemisemantici e quelli epistemologici; difende le riduzioni della natu-ralizzazione in un senso filosofico di fatto inseparabile dal postmo-dernismo estremo. E’ impossibile non vedere in queste posizioniuna crescente ma non necessaria perdita di spirito filosofico.

Rorty ci appare come una figura equivoca: egli sostiene lanaturalizzazione nella sua forma più estrema, ma mai su basifilosofiche. Ritengo che questo tradisca la più profonda debo-

122 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

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lezza della sua svolta postmodernista – cioè, il suo appello allasolidarietà etnocentrica. Egli non può promuovere efficacemente ilsuo programma di naturalizzazione su basi filosofiche, perché,in primo luogo, non esiste alcun argomento cogente in sua dife-sa, poi perché Quine e Davidson si sono già dimostrati più vul-nerabili sul punto della naturalizzazione di quanto i loro segua-ci vorrebbero ammettere, e perché non esiste alcun concetto di«solidarietà» affidabile o autonomo da cui poter trarre supportoper una svolta postmodernista. Se consideriamo attentamente lacaratterizzazione che Rorty fa del concetto di «solidarietà etno-centrica», ci accorgiamo che la scelta di una «comunità» a cuigiurare lealtà è interamente arbitraria e tale deve essere.19

IVPrendiamo ora in considerazione due osservazioni fatte da

Rorty che qualificano in misura determinante il suo disaccordonei confronti della trattazione kantiana (anti-hegeliana) del pro-blema della razionalità data da Jürgan Habermas. Sono argo-menti perfettamente chiari, sebbene io li abbia separati dai loropropri contesti; si tratta di chiose di spirito chiaramente hegelia-no. Nel primo Rorty semplicemente scrive:

sono d’accordo con (Alasdair) MacIntyre e Michael Kelly sul fattoche tutti i ragionamenti in fisica ed etica sono legati alla tradizione

Il secondo è diretto esplicitamente contro la concezione diHabermas della cosiddetta «ragione comunicativa»:

penso che (Habermas) faccia un errore tattico (dice Rorty) quandocerca di preservare la nozione di assolutezza. Sebbene ritengo cheHabermas abbia assolutamente ragione a dire che abbiamo bisognodi socializzare e linguisticizzare la nozione di ragione intendendolacome comunicativa, penso anche che dovremmo andare oltre:abbiamo bisogno di naturalizzare la ragione, abbandonando la suaaffermazione che «un momento di assolutezza è costruito in un pro-cesso effettivo di reciproca comprensione»20

123JOSEPH MARGOLIS

19 Cfr. R. Rorty, Solidarità o oggettività?, in: Id., Scritti filosofici, vol. I, Laterza,Roma-Bari 1994, pp. 29-43.

20 Id., Universality and Truth, in: R. B. Brandom (a cura di ), Rorty and HisCritics, cit., pp. 2 e 20. La posizione di Habermas è espressa nel suo J.Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1988.

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Non è questo forse un argomento filosofico? È proprio quiche Rorty identifica la posizione del ruolo effettivo della suanozione di «solidarietà». Bisogna notare che, quando egli diceche Habermas ha fatto un «errore tattico», si riferisce ad un erro-re che gli altri filosofi considererebbero quale errore filosofico –che si può dimostrare essere filosofico e che si può dimostrareessere un errore; e quando raccomanda di «lasciar perdere» ledichiarazioni di assolutezza, lo fa per ragioni che altri filosoficonsidererebbero filosoficamente decisive. Questo atteggiamen-to caratterizza ciò che considero come la parte «hegeliana» delcriticismo di Rorty nei confronti di Habermas. Così che se eglifacesse ricorso in questa circostanza a un qualche tipo di «soli-darietà etnocentrica», altri filosofi potrebbero supporre cheRorty intenda richiamarsi alla forza dell’argomento stesso, enon a qualche alternativa non specifica, premessa al nostro pre-vio rifiuto della filosofia canonica. Penso che questa posizionedi Rorty sia un atto d’astuzia deliberata – un inganno voluto,uno stratagemma teso a ottenere un vantaggio filosofico senzaesserselo guadagnato con un onesto lavoro. E Rorty va oltre –apertamente:

mi trovo d’accordo con Apel e Habermas sul fatto che Pierce aves-se ragione nel raccomandarci di parlare del discorso piuttosto chedella coscienza, ma penso che l’unico presupposto ideale al discor-so sia quello di essere in grado di giustificare le nostre credenze adun pubblico competente […] Apel e Habermas pensano che la richie-sta di massimizzare le dimensioni di questa comunità sia già, percosì dire, costruita nell’azione comunicativa. Questo è il valore incontanti della loro osservazione che ogni asserzione affermi unavalidità universale21

Ma qual’è veramente il suggerimento di Rorty (e l’argomen-to a suo sostegno)? Il loro – cioè di Apel e Habermas – appelloalla solidarietà universale (la solidarietà della ragione) è, secon-do quanto sostiene Rorty, uno sbaglio, un palpabile errore filo-sofico, soprattutto se considerato alla luce dell’affermazione che«ogni ragionamento in fisica ed etica è legato alla tradizione».

124 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

21 Id., Universality and Truth, cit., p. 9; si veda anche – sempre di Rorty –Solidarità o oggettività?, cit.

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Come ha fatto, in questo caso, Rorty a rimpiazzare la filosofia?Come ha potuto? L’argomento è convenzionale ed efficace tantoquanto ogni altro argomento che si trova nelle consuete liste degliargomenti filosofici. Rorty tende qui nella direzione di un argo-mento che è disposto ad abbandonare le supposizioni kantianeper mezzo di correzioni hegeliane. Ma, in nessun luogo egli sioccupa esplicitamente della questione della legittimazione diquesto genere di cambiamento. (Altri filosofi potrebbero, in que-sto caso, facilmente aiutarlo). L’argomento di Rorty segue unastrana logica, se consideriamo che egli è un hegeliano, che l’argo-mento hegeliano è stato disponibile per ben duecento anni e chetutti i filosofi che egli considera quali punti di riferimento privile-giati hanno (in qualche modo) effettivamente rimpiazzato ilragionamento kantiano con elementi dell’alternativa hegeliana.

Quello a cui ci troviamo ad assistere è un’incipiente contro-mossa filosofica efficace che difficilmente può essere interpreta-ta come una svolta postmodernista radicale di qualche tipo.Forse Rorty naviga sotto falsa bandiera. Il problema è che gli«argomenti» di Rorty sono convenzionali tanto quanto le strate-gie che vorrebbe sostituire. Egli sembra sempre sul punto diammettere di essersi occupato di filosofia in un modo che nor-malmente non mette in questione (quando, per esempio, rifiutalo Hegel a cui Habermas si oppone, quello descritto in Il discor-so filosofico della modernità). Non si è mai verificato quel massic-cio fallimento della filosofia di cui Rorty rumoreggia: la sua stes-sa pratica spontanea ne è la prova. Egli rifiuta, effettivamente, leforme di rappresentazionalismo kantiane e cartesiane (e il restodella mentalità «dello specchio»), ma tali forme filosofiche sonostate sconfitte – o poste sotto assedio in una maniera standar-dizzata – ormai da tempo. Inoltre, gli argomenti contro i kantia-ni non possono funzionare contro gli hegeliani, come Rortydimostra nel criticare Habermas. Cosa resta? Nulla più, mi pare,dell’ordinario recupero di una filosofia autocorrettiva.

VPenso che ci sia una maniera semplice di dire nuovamente il

benvenuto a Rorty nella sfera della filosofia. Penso che egli fossesemplicemente stufo della letargia accademica e che avesseragione ad esserlo. (Anch’io lo sono. E così pure molti altri). E’possibile che, in uno slancio di estrema generosità, Rorty si siaofferto come una sorta di agnello sacrificale proponendo, in un

125JOSEPH MARGOLIS

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idioma concettuale provocatoriamente arbitrario, cambiamentiche da tempo erano necessari nella filosofia Americana e (anglo-americana), ma che, per qualche motivo, non si realizzavano. Seè così, allora la risposta suicida dei postmodernisti (un gruppomolto piccolo, ma appassionato ed opportunista) potrebbeavere allarmato ed allo stesso tempo divertito Rorty. Comeavrebbe potuto un ben addestrato praticante di filosofia esserestato abbastanza sciocco da aver supposto che fosse disponibileuna disciplina sostitutiva, quando ciò che in realtà veniva pro-posto non era nulla più che una burla della sua stessa laboriosapratica, accelerata ad un ritmo tale che tutti gli argomenti insor-genti semplicemente scomparissero! La diatriba di Rorty è diret-ta tanto alla filosofia analitica quanto contro l’intera tradizioneoccidentale. Egli lo afferma nell’introduzione a La filosofia e lospecchio della natura:

un modo – suggerisce Rorty – di rendersi conto di come la filoso-fia analitica si inserisca nello schema tradizionale cartesiano-kan-tiano è quello di considerare la filosofia tradizionale come un ten-tativo di sfuggire la storia – un tentativo di trovare condizioninon-storiche di ogni possibile sviluppo storico. In questa prospet-tiva il messaggio comune di Wittgenstein, Dewey e Heidegger èun messaggio storicista.22

Una correzione filosofica perspicace, ma perfettamente ordi-naria, direi. Una correzione che, in questo caso, cattura l’interalinea di ragionamento che «comincia», in modo estremamentepromettente, con la critica che Hegel fa a Kant e continua, diret-tamente, con la critica di Rorty della filosofia analitica america-na. L’indizio è questo: ogni appello al tribunale della ragioneuniversale (il fatale tema kantiano di Habermas) fallisce nel rico-noscere che il suo ambito privo di eccezioni è, di per sé stesso,un artefatto delle particolarità contingenti di una visone stori-cizzata che non potrebbe mai rendere l’universalismo veramen-te operativo; in alternativa, dare l’impressione di renderlo ope-rativo significa favorire una specie di frode intellettuale cherifiuta di riconoscere le fonti della propria convinzione. Pensoche questo sia il tema principale di Universalità e verità di Rorty

126 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

22 Id., La filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 13.

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e lo condivido. Questa è la ragione per cui, sempre nell’ambitodella critica ad Habermas, Rorty distingue tra il semplice allar-gamento della comunità della ragione a cui ci si rivolge e «untraboccante provincialismo»23 Habermas insiste su di «unmomento trascendente di validità universale (che) manda inpezzi ogni provincialismo»; Rorty non vede alcun modo di ren-dere una tale distinzione efficacemente operativa o discernibile.E certamente ha ragione. Ma ha ragione in quanto filosofo pra-ticante, attento ai limiti impenetrabili del pensiero storicizzato.Tutti gli esempi di pensiero pratico, da quello darwiniano, aquello pragmatista, al lebensfromlich non sono che la realizzazio-ne proprio di questo modello storicizzato. Ma se ci si rendeconto di questo fatto, allora saltano agli occhi le «nuove» possi-bilità, sviluppatesi duecento anni fa, con cui ora la filosofia (unpo’ in ritardo) deve fare i conti.

Se questo è il postmodernismo, allora si tratta del recuperodella filosofia per mezzo di un atto vendicatore. Dal punto divista di Rorty, Wittgenstein, Dewey ed Heidegger (i suoi filoso-fi esemplari) non hanno bisogno della forma virulenta del post-modernismo: essi hanno già il modello del recupero nella loropratica. E così pure fa Rorty. E così potremmo fare tutti. Dove staallora l’innovazione?

Ho ancora qualche osservazione da aggiungere. Un errore tat-tico (un errore dello stesso tipo che Rorty identifica come erroretattico nel trascendentalismo di Habermas) è presente nel post-modernismo dello stesso Rorty – o almeno in quella versionedel suo postmodernismo che la maggior parte dei suoi lettoriassumerebbero come definitiva, parte della quale (sono dispostoa concedere) Rorty potrebbe già aver ritrattato. Mi riferisco all’e-laborazione delle frasi d’apertura del suo saggio strategicoSolidarietà o oggettività?:

vi sono – comincia Rorty – due modi fondamentali in cui gli esseriumani riflessivi cercano di attribuire alle loro vite un senso, collo-candole in un contesto più ampio. Il primo modo è quello di narra-re la storia del contributo che si è dato a una comunità. Questacomunità può essere quella storica reale, remota nel tempo o nellospazio, oppure una comunità del tutto immaginaria, forse compo-

127JOSEPH MARGOLIS

23 Id., Universality and Truth, cit., p. 6.

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sta da una dozzina di eroi e di eroine scelti dalla storia, dalla lette-ratura o da entrambe. Il secondo modo è quello di descriversi inrelazione immediata con una realtà non umana. Questa relazione èimmediata nel senso che non deriva da una relazione tra tale realtàe la tribù, la nazione, o l’immaginario gruppo di consociati di que-sti esseri umani. Dirò che le storie del primo tipo esemplificano ildesiderio di solidarietà e le storie del secondo tipo esemplificano ildesiderio di oggettività24

Parte dell’errore sta nel fatto che Rorty tratta le due opzioniseparatamente (anche laddove potrebbero essere unite). L’unicamaniera in cui la seconda opzione (oggettività) potrebbe essereautonoma in senso hegeliano richiederebbe che la nostra cono-scenza del mondo indipendente fosse basata su fonti privilegia-te che non siano in alcun modo ostaggio delle condizioni cultu-rali e storiche in cui gli esseri umani in primo luogo si formano.Rorty certamente non sarebbe disposto ad appoggiare una tesidi questo genere. La prima opzione (solidarietà) non può averesenso se non accoglie all’interno delle proprie risorse una qual-che concezione praticabile di oggettività. Le due opzioni nonsono facilmente separabili, per lo meno non in modo significati-vo. Ciò dimostra come il postmodernismo non possa proporsicome una forma di solidarietà che non prenda in considerazio-ne l’oggettività, se non distorcendo fortemente o trascurandocompletamente quella concezione hegeliana che Rorty favori-sce. Ciò significa che, come postmodernista, Rorty non puòplausibilmente abbandonare la filosofia.

È quindi un errore considerare la scelta tra oggettività e soli-darietà come se fosse un «dilemma»; o affermare, come fa Rortyin maniera esplicita, che:

noi pragmatisti dovremmo afferrare il corno etnocentrico di questodilemma. Dovremmo dire che, nella pratica, dobbiamo privilegiareil nostro gruppo, anche se non vi può essere alcuna giustificazionenon circolare per tale condotta25

il che vuol dire evitare ogni «punto di appoggio storico» ofonte privilegiata di cognizione. Non è disponibile alcuna scelta

128 IL POSTMODERNO COME ABDICAZIONE E RECUPERO

24 Id., Solidarietà o oggettività?, cit., p. 29.25 Ivi, p. 39.

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di questo tipo. Rorty deve argomentare in maniera filosofica, ecertamente non come un «partigiano» della mera «solidarietà».Ma, se ammettiamo questo punto, allora Rorty non può real-mente offrire una scelta disgiuntiva tra oggettività e solidarietà.Inoltre, se controlliamo di nuovo le frasi di apertura del saggio,noteremo che Rorty è piuttosto indifferente al problema di comela «comunità» si sia formata o sia stata scelta, o addirittura se sitratti di una comunità reale o indotta o puramente immaginaria.Ma, questo non può essere l’atteggiamento giusto (non per unhegeliano). Se solidarietà significa qualcosa, o significa qualcosain senso hegeliano, deve avere una struttura morale (sittilich); mase così fosse, allora, di nuovo, oggettività e solidarietà nonpotrebbero essere separate. In altre parole, ogni forma ragione-volmente percorribile di solidarietà etnocentrica che incontri lequalificazioni apparentemente accomodanti che Rorty è dispo-sto ad ammettere, finirebbe sicuramente con l’implicare un’altraforma di privilegio cognitivo o pratico, poiché è difficile che,nell’ambito delle pratiche delle società convenzionali, noninsorga la questione della legittimità. Stabilito questo, apparechiaro perché Rorty sia stato costretto a rinunciare alla proprianozione di «liberalismo borghese postmodernista» nel saggioche porta lo stesso titolo – che in realtà introduce una disgiun-zione privilegiata tra «pubblico» e «privato», o la base privilegia-ta da cui questa disgiunzione dipende.26

Da quanto fin qui detto consegue che il postmodernismo nonpuò avere che un ruolo perfettamente familiare e subordinatonella vita «riflessiva» di una qualsiasi società. Altrimenti sareb-be una scelta del tutto irresponsabile. Nulla che sia filosofica-mente essenziale risente in qualche modo dell’intervento post-modernista di Rorty, eccezion fatta, naturalmente, per i contri-buti dello stesso Rorty nelle sue vesti di filosofo recalcitrante.

129JOSEPH MARGOLIS

26 Cfr. Id., Liberalismo borghese postmoderno, in: Id., Scritti filosofici, vol. I, cit.,pp. 265-272. Sono da tenere in considerazione in particolare i luoghi dedi-cati da Rorty alla discussione delle tesi di Michael Sandel, e cioè le pp. 109-110, così come anche, sempre dello stesso Rorty, Ironia privata e speranza libe-rale, in: Id., La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 89-115.

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FFeeyyererabend, Rabend, Rorortyty

e la “nature la “natura umana”a umana”

diValerio Meattini

PPaul Feyerabend non è statosoltanto un epistemologo

impertinente di professione e un libertario per vocazione. Lasua convinzione che la storia e non le argomentazioni muti lecredenze i comportamenti e gli atteggiamenti umani, e che, sem-mai, le argomentazioni sanciscano un cambiamento avvenuto enon lo provochino, correlata all’altra che la storia della scienzanon soltanto documenta un’innumerevole serie di proficue tra-sgressioni alle regole del momento, ma anche che i fattori socia-li e un’accorta propaganda, e non valori propriamente epistemi-ci, producono la vittoria di una teoria scientifica su di un’altra,lo ha indotto a impegnarsi a più riprese con la varietà dei mondiculturali.

ISono ben note le escursioni compiute da Paul Feyerabend

all’interno dell’universo omerico, del quale apprezza la conce-zione, per così dire «modulare» dell’essere umano, come anchela corrispettiva ricchezza terminologica che ne esprime le vicis-situdini. Sono parimenti note anche la sua interpretazione cor-rosiva del monoteismo senofaneo; la sua schietta antipatia perParmenide come pure la sua reiterata critica alla volontà tiran-nica di Platone, mascherata da ricerca della definizione, dellacaratteristica universale (“che cos’è la virtù”, ad esempio), lad-dove il mondo greco (e non solo) precedente e coevo presentavamolto più concretamente degli elenchi (di comportamenti vir-tuosi, ad esempio). E sono note anche le sue simpatie per il plu-ralismo e per le concrete tipologie di scambio culturale, e la suaarticolata discussione del relativismo.

Forse meno note sono alcune considerazioni, frequenti negli

131VALERIO MEATTINI

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ultimi interventi di Feyerabend, che non so se ascrivere a ripen-samenti o alla maturazione di tematiche a lungo battute e pole-micamente dibattute. In un articolo, inequivocabile già nel tito-lo: Contro l’ineffabilità culturale1, l’ultimo Feyerabend affermadecisamente che: «oggettivismo e relativismo sono chimere»2,che «ogni cultura è in potenza tutte le culture»3 e che pertanto«le differenze culturali non sono più ineffabili e diventano mani-festazioni specifiche e mutevoli di una natura umana comune».4Contro l’incommensurabilità culturale è anche un breve, e alsolito caustico, intervento nei confronti dell’astrattismo descrit-tivo e teorico delle scienze sociali dell’Occidente, apparso in ita-liano col titolo Gli intellettuali e i fatti della vita5 nel volume postu-mo Conquista dell’abbondanza. Un brevissimo richiamo al passa-to del bastian contrario dell’epistemologia ci permetterà di valu-tare meglio il profilo delle sue ultime posizioni.

Come propugnatore della dipendenza dei fatti dalle teorie,Feyerabend ha sostenuto, a suo tempo, che ogni teoria crea ipropri fatti o “generi di esperienza” e che dunque diventa estre-mamente difficile confrontare due teorie scientifiche in ragionestrettamente argomentativa. Quel che storicamente è avvenutoè invece la vittoria, per motivi extrarazionali, di una teoria cheha poi reso incomprensibili le ragioni di quella che è stata scon-fitta. Ciò che accade durante il mutamento scientifico

è una completa sostituzione dell’ontologia T’ con l’ontologia T e uncorrispondente cambiamento dei significati dei termini descrittivi6

Siamo così pericolosamente vicini al bordo dell’incommensu-rabilità,7 come meaning-variance (varianza di significato) dei ter-

132 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

1 P. Feyerabend, Tutto è relativo o no?, in: Volontà, n. 2-3/1994, pp. 97-106.2 Ivi, p.103.3 Ivi, p.104.4 Ivi, p.106.5 P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza: storie dello scontro fra astrazione e

ricchezza dell’essere, Cortina, Milano 2002. L’articolo cui ci si riferisce èapparso per la prima volta in Common Knowledge, n. 3/1993, pp. 6-9.

6 P. Feyerabend, Explanation, Reduction and Empiricism, in: Minnesota Studiesin the Philosophy of Science, vol. III, Minnesota University Press, Minneapolis1962, p. 59.

7 Sulla questione dell’incommensurabilità in Feyerabend si veda il capitoloXVII di Contro il Metodo, Feltrinelli, Milano 1984. Sull’incommensurabilità

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mini descrittivi. Non sarebbe perciò sempre possibile stabilireun confronto fra teorie rivali molto ampie o fra sistemi cosmo-logici presi nella loro intierezza.8

In Dialogo sul metodo,9 quattordici anni dopo Contro il metodo,però il fattore tempo viene ad essere un elemento di conciliazio-ne fra sostenitori di teorie antagoniste grazie al fatto che essiavranno infine la possibilità di spiegarsi reciprocamente. In Gliintellettuali e la vita (1993) la critica ai principi filosofici dell’in-commensurabilità e dell’indeterminatezza della traduzione aproposito delle differenze culturali (che secondo i sostenitoridell’antimperialismo occidentale verrebbero così tutelate) è con-dotta da Feyerabend invocando l’effettualità storica che ci ponesempre in contatto con l’altro ed è da questo contatto accettato evissuto nei suoi dinamismi e nelle sua capacità di cambiare leparti in causa che scaturisce la comprensione.

la comprensione non può esistere senza contatto. Quest’ultimocambia le parti in causa. Chi non vuol cambiare (gli ‘studiosi’ nonce la fanno a liberarsi dal ‘discorso descrittivo e teorico delle scien-ze sociali dell’Occidente’) e chi, inoltre, teme di cambiare gli altri(‘proteggere culture non occidentali’, ecc.) si troverà in un modoartificiale che è perfettamente descritto dai ‘principi filosofici del-l’incommensurabilità e dell’indeterminatezza della traduzione10

In Addio alla ragione,11 (1987) Feyerabend aveva condottoun’articolata discussione sul relativismo che presentava in undi-ci sfaccettature e che interpretava come un tentativo di daresenso alla diversità culturale da lui propugnata come vantag-giosa mentre l’uniformità riduce le nostre gioie e le nostre risor-se intellettuali, emozionali e materiali. Quelle undici sfaccetta-

133VALERIO MEATTINI

più in generale si possono consultare P. Barrotta, Irrazionalismo inEpistemologia?, in: Prospettive settanta, 1/1986, pp. 127-146; Id., La dialetticascientifica. Per un nuovo razionalismo critico, Utet, Torino, 1998.

8 Si può consultare per problemi connessi a questa questione P. Barrotta, Ladialettica scientifica, cit., pp. 63-92.

9 P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Bari-Roma, 1989.10 Id., Conquista dell’abbondanza, cit., pp. 329.11 Id., Addio alla ragione, Armando, Roma 1990. L’originale Farewell to Reason è

del 1987. Una versione di una parte (col titolo appunto di Addio alla ragione)di questo volume era già apparsa in italiano in: Scienza come arte, Laterza,Roma-Bari 1984, pp. 23-92.

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ture del relativismo venivano a loro volta discusse sia in rappor-to alle conseguenze epistemiche politiche e sociali che implicanoe sia alla verità e alla realtà. In sintesi, Feyerabend sosteneva chele società votate alla democrazia dovrebbero essere strutturate inmodo da dare a tutte le tradizioni uguali opportunità e ugualidiritti; che leggi governi e usanze governano sì come re, ma indomini ristretti e, poiché la realtà è diversificata, non è arbitrarioche ciò che vale qua non valga là, inoltre si può essere essere rela-tivisti e tuttavia difendere e imporre localmente leggi e istituzio-ni; che la misura di verità è la comunità o le persone coinvolteesistenzialmente in una questione e non gruppi speciali devonoavere l’ultima parola nel decidere ciò che è vero o falso, utile o noper loro e per la società; che anche l’idea di una verità oggettivaindipendente e sempre valida ha, invece, una validità limitata eautorità in alcuni domini ma non in altri, poiché fa parte di unatradizione particolare; che per ogni asserzione teoria concezioneche viene creduta (vera) con buone ragioni esistono argomenta-zioni in grado di mostrare che un’alternativa rivale è almenoaltrettanto buona, se non addirittura migliore. Il vero relativista,diceva Feyerabend in quel contesto, si astiene dal fare asserzionisulla natura della realtà, della verità e della conoscenza, mante-nendosi invece aderente a ciò che è specifico.

Lascio da parte la discussione dettagliata su queste tesi.Faccio però notare che se Feyerabend voleva evitare (come poivorrà) di essere considerato un sostenitore della posizione percui una teoria è buona quanto un’altra, non mi sembra che ci siariuscito.Se prendiamo, ad esempio, l’ultima tesi secondo cui esi-ste un’argomentazione che può mostrare altrettanto valida o piùvalida un’alternativa a ciò che crediamo (vero), allora bisognacapire dov’è lo spazio logico dell’argomentazione che dovrebbeavere quell’esito. Interno a ciascuna teoria o esterno? Se esterno,ci si appellerà ad argomenti o criteri comuni alle teorie rivali, maciò dovrebbe essere escluso da quanto Feyerabend sostiene. Seinterno, come potranno quelle argomentazioni mostrare cheun’altra teoria è almeno altrettanto buona o migliore di quellache crediamo (vera)? Lascio da parte, dico, un confronto di que-sto genere perché le ultime posizioni di Feyerabend non lo ren-dono più necessario. Passo invece a far notare che in quel con-testo il discorso sul relativismo era aperto e chiuso da un richia-mo all’opportunismo (relativismo pratico). L’opportunismosuppone quel contatto di cui si diceva sopra ed è una forma di

134 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

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vita in cui la simbiosi e lo scambio avvengono gradualmente e,potremmo dire, senza problematizzare in modo astratto: siprende dall’altro quello che può essere usato e si lascia inaltera-to il resto, si lasciano agire le diversificate e mutevoli condizio-ni al contorno della vita e dell’azione umana in modo parteci-pativo. È così che si scoprono le assunzioni, le possibilità, i desi-deri (spesso inconsci) di coloro che fanno parte di una tradizio-ne e di un contesto e che possono essere scoperti soltantoimmergendosi in essi. È vivendo che si cambia e si viene cambiati.12

Questo è il nucleo che proiettivamente agirà e porteràFeyerabend a non riconoscersi esplicitamente in quella forma direlativismo per cui qualsiasi cosa uno dica è valida soltanto«all’interno di un certo sistema».13 Anche in questo caso l’impu-tato primo e principale è l’astrattismo tipico della nostra cultu-ra. Si presuppone infatti che gli elementi di un certo ‘sistema’siano privi di ambiguità, mentre non lo sono poiché cambianovolto all’interno dello stesso ‘sistema’, e si suppone anche che iconcetti siano scolpiti e definiti in modo da non subire cambia-menti. Invece è vero il contrario perché si possono apprenderenuovi modi di vita. E di fronte alla concretezza della storia edella vita non abbiamo nessuna ragione di presumere che lenostre modalità di trasmissione di significati abbiano qualchelimite. Noi non restiamo inesorabilmente nel ‘sistema’ da cuipartiamo, o perlomeno se sappiamo vincere «l’inerzia, il dog-matismo, la disattenzione, la stupidità» noi possiamo collegareil dentro di un linguaggio al suo fuori. Le nostre vite non hannoa che fare con essenze culturali non ambigue e immobili e ogniapprendimento è modificazione del presunto ‘sistema’ e porteràlontano da esso.14

Secondo il Feyerabend in esame, insistere sull’incommensu-rabilità, che è solo una parola per indicare i malintesi e le diffi-coltà culturali, è un comportamento “autenticamente criminale”15

perché, invece di cercare una via d’uscita per eventuali difficoltà

135VALERIO MEATTINI

12 Spero di aver reso sostanziale giustizia, pur nella concitazione sintetica, allaposizione di Feyerabend. Ad ogni buon conto il lettore può confrontare P.Feyerabend, Addio alla ragione, cit., pp. 24-93 e pp. 300-301.

13 P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, cit., p. 137.14 Ivi, pp. 137-138; Id., Contro l’ineffabilità culturale, cit., p. 104.15 Id., Dialogo sul metodo, cit., p. 140.

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di comprensione, elabora teorie in merito. Diversità ugualeincommensurabilità diventa allora un altro dei parti mostruosidel razionalismo e dell’astrattismo più dottrinario. Poiché, però,ci sono nei costrutti culturali (se ne ripercorriamo la storia e nontentiamo di catturare essenze) analogie e non strutture perma-nenti, il penultimo Feyerabend sostiene che il relativismo ha sìuna funzione antisclerotizzante, ma in fondo non è che «un’ap-prossimazione assai utile e, soprattutto, umana ad un punto divista migliore»,16 mentre l’ultimo Feyerabend, accomunandoloall’oggettivismo, lo dichiara una chimera: un atteggiamento cul-turale che assume limiti che non si ritrovano nella pratica e cheporta all’assurdo la complessità e le difficoltà in cui sono immer-se persone impegnate in forme di collaborazione interessanti. Inconclusione, se le vite concrete degli uomini sono migrazioniemotive intellettuali e spirituali allora ogni cultura è tutte le cul-ture e le differenze culturali non sono date da limiti immodifi-cabili e permanenti, ma sono frutto di situazioni geografiche estoriche che inducono a manifestazioni specifiche e mutevoli la“natura umana comune”.17

IIIl riconoscimento di “una natura umana comune” è in queste

pagine di Feyerabend, schietto e senza ambiguità, come si puòcapire dalle seguenti parole, non troppo gradite a molti odiernicorifei culturali che avrebbero senz’altro sperato di averlo intie-ramente dalla loro parte.

l’omicidio, la tortura, l’uccisione diventano normali (nella prospet-tiva della ‘natura umana comune’) e vanno trattati come tali(...). Glisforzi a favore della pace non devono rispettare qualche sedicenteintegrità culturale che spesso è solo la regola dell’uno o l’altro tiran-no. E ci sono molte buone ragioni per guardare con sospetto anchel’ideologia del politicamente corretto18

Ambigua e contestata è però la nozione di ‘natura umana’,proprio in ambiti che prima facie si direbbero vicini a Feyerabend

136 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

16 Ivi, p. 143.17 Id., Contro l’ineffabilità culturale, cit. p. 106.18 Ibidem.

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e soprattutto da chi in un libro fortunato di qualche anno faaveva posto l’antimetodologo anarchico fra i suoi eroi.19

In un volume20 impegnato sui fronti della ‘verità’, dell’eman-cipazione e del progresso, Rorty ha riproposto la teoria neo-pragmatista della verità (legata alla capacità di giustificazione eal consenso), ha suggerito di interpretare il progresso e l’eman-cipazione in ragione della metafora dello sviluppo evolutivo enon della correzione di percezione e del raddrizzamento disituazioni umane distorte o aberranti, cui finalmente si sostitui-sce il riconoscimento e la liberazione dall’oppressione. Le tretematiche sono collegate, ma qui svilupperò soprattutto quantoattiene in modo più pertinente al taglio di questo intervento.

Nelle pagine del libro di Rorty c’è, come ho già mostrato inprecedenza21, l’invito continuo a lasciare da parte qualsiasi rife-rimento alla ‘natura umana’, la proposta di orientarsi in modopragmatistico nel sostegno alle lotte per la creazione di nuoveidentità, godendo così dei vantaggi che offre il postmoderno edevitandone la tematica autocontradditoria dello smascheramen-to.22 C’è anche, e la cosa qui c’interessa, un esplicito richiamoalla (possibile) incommensurabilità culturale. Ecco, a chiare let-tere, il succo di quelle (quasi) quattrocento pagine.

Noi mettiamo da parte l’idea che le credenze siano rese vere dallarealtà, e con essa la distinzione fra proprietà intrinseche e proprietàaccidentali delle cose. Non ci chiediamo più (per esprimerci comeNelson Goodman) come è il mondo, il che significa che lasciamo per-dere anche le idee di natura dell’Umanità e di Legge Morale, inquanto oggetti che l’indagine cerca di rappresentarsi con precisioneo in quanto oggetti che rendono veri i nostri giudizi morali. Di con-seguenza, dobbiamo rinunciare alla confortante convinzione cheschieramenti rivali potranno sempre ragionare insieme sulla base dipremesse plausibili e neutrali23

Per Rorty è dunque possibile il collasso della comunicazionee della comprensione che l’ultimo Feyerabend vede, invece,

137VALERIO MEATTINI

19 R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 218.20 Id., Verità e progresso, Feltrinelli, Milano 1998.21 Vorrei qui rimandare a V. Meattini, Sull’origine e il valore dei diritti. Un con-

fronto con Richard Rorty, in: Il Giornale della Filosofia, n. 10/2004, pp. 6-7.22 R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 196.23 Ivi, pp. 193-194.

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come un’ipotesi vicina alle astrazioni teoriche degli intellettuali,ma remota dalla concreta vita degli uomini che cooperano fatti-vamente. Dietro a questo distanziamento di posizioni non c’èsoltanto l’irrequietezza mercuriale di Feyerabend e la sua (più omeno sincera) antipatia per la troppa sottigliezza degli intellet-tuali che lo porta ad un esplicito richiamo alle pratiche umanedi convivenza, c’è anche una questione importante che ha il suopeso nella nostra autocomprensione. Il punto è: che cosa si dicese si parla di “natura umana comune”? Rorty, saldamente anco-rato all’etnocentrismo, sostiene che non diciamo granché quan-do usiamo quella locuzione, a meno di non voler intendere conessa che noi tutti, uomini e donne, siamo esposti al dolore eall’umiliazione.24 Per il Feyerabend, ormai al di là del relativi-smo e dell’oggettivismo, quel riferimento sembra invece direqualcosa di più se, sulla scia di Renato Rosaldo, è disposto a iro-nizzare sul concetto di “cultura autentica”, intesa come univer-so autonomo e interamente coerente, e se guarda con sospettoall’ideologia del “politicamente corretto”.

In Feyerabend non c’è ovviamente nessuna oggettivizzazionedel concetto di “natura umana”, ma una riflessione da lui piùvolte rielaborata e adatta a vari contesti sul sorprendente, per leorecchie di Ulisse, Fenice e Aiace Telamonio, discorso di Achilleriguardo alla differenza fra l’onore e i riconoscimenti di esso.Achille dice, nel nono libro dell’Iliade, agli ambasciatori, venutiad offrire completa riparazione dell’offesa da lui subita, che ilmerito è stato misconosciuto e poi, generalizzando, che l’onoreè orfano; e tutto questo proprio mentre gli venivano proposte leprocedure sociali per essere completamente reintegrato nel suoonore. Un discorso simile poteva disorientare gli altri eroi com-ponenti la saga omerica e apparire vuoto. A meno che, com-menta Feyerabend, gli sviluppi reali non ne abbiano dato con-ferma (come di fatto è successo); allora sorge un mondo nuovo“con delle menti in un luogo dove prima non esistevano”.25 Èesclusa, in questo caso, una diagnosi di progresso epistemico,secondo cui le nostre idee si sono avvicinate a una realtà stabile(d’accordo in ciò con Rorty), è però anche esclusa una diagnosi

138 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

24 Ivi, p. 192 e p. 295.25 P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit, p. 150.

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relativistica à la Adam Parry perché «le scene che a detta deirelativisti proiettano verità e realtà di eguale valore contengonoambiguità che, quando si manifestano, dissolvono tutti i giudi-zi relativistici».26 Ma, della posizione etnocentrica à la Rorty chesi può dire?

Dalla sua posizione (che prevede sullo sfondo anche unasituazione di ‘incommensurabilità’), Rorty c’invita ad abbando-nare ogni tentativo di esibire un riferimento comune che ricordiin qualsiasi forma i progetti fondazionalisti, piuttosto

il compito che assegniamo a noi stessi è quello di rendere più con-sapevole di sé e più forte la nostra cultura dei diritti umani, e nonquello di dimostrare la sua superiorità sulle altre facendo appello aqualcosa di transculturale27

quel che possiamo fare è al più proporre a chi non vive comenoi di provare ad usare il nostro vocabolario per ridescriversi evalutare se non sia per caso migliore del loro.

In un certo senso la posizione di Rorty è vicina a ciò cheFeyerabend ha chiamato opportunismo, che è l’atteggiamento cul-turale in cui si è attenti a valutare e sfruttare favorevolmentevedute, usanze, tradizioni differenti dalle proprie. Feyerabendsostiene, a questo riguardo, che l’opportunismo è stato fonda-mentale per lo sviluppo della cultura occidentale e può semprepresentarsi come una soluzione ai problemi dell’interculturalità.Ma, egli sostiene, da ultimo, anche qualcosa di più: sostiene (oalmeno scrive come se lo sostenesse) che ha senso parlare di unanatura umana comune poiché ogni cultura (o tradizione) è inpotenza tutte le altre. A questo punto, pur a rischio di eresia -ma lo spirito di Feyerabend dovrebbe già per questo motivoguardarmi con una certa simpatia - occorre avere il coraggio diessere più espliciti. Se, dal punto di vista storiografico,Feyerabend può mostrare che in nessun punto dei processi stori-ci concreti di largo respiro noi troviamo «le incrinature, le lacu-ne, le voragini incolmabili proposte dalla tesi dei campi chiusi»,28

139VALERIO MEATTINI

26 Ibidem.27 R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 161.28 P. Feyerabend, Contro l’ineffabilità culturale, cit., p. 103.

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allora da una prospettiva teorica si potrà parlare di una comunecondizione umana pur soggetta a trasformazioni e mutazioniculturali. Se parlare una lingua significa sia seguire le regole esia cambiarle,29 e chi viola le regole può entrare in un nuovo ter-ritorio e non cadere senz’altro nell’insignificanza, che cosa ci dàdiritto di continuare a parlare di quella lingua e di territori diver-si? C’è uno sfondo comune, una cornice (per usare un terminefra i più pregiudicati in questo dibattito) che permetta il ricono-scimento delle variazioni? Ci sono, in altre parole, ragioni per pen-sarci (ancora) in una prospettiva universalistica in quantoumani?

Ho già detto (in parte) in precedenza30 perché Rorty non miconvinca quando sostiene che “natura umana” indica soltantouna comune capacità di provare dolore e subire umiliazione eho collegato questa riduzione alla riduzione della ragioneumana in funzione evolutiva. Ho la possibilità ora di rafforzareil mio discorso grazie all’aiuto di un Feyerabend che, conti-nuando a rifiutare il razionalismo scientifico («la scienza non ècertamente l’unica fonte di informazione ontologicamenteattendibile»,31 l’oggettivismo e l’universalismo astratto, simostra però pensoso di fronte alla potenziale universalità del-l’umano. Sembrerebbe, infatti, che Feyerabend finisca per accet-tare una specie di ‘ricorso’ sia in questioni conoscitive, sia inquestioni in largo senso etiche quando dice, da un lato, che, seb-bene la natura sia più malleabile di quanto comunemente siassume, non qualsiasi combinata azione semantico-causale con-duce ad un mondo ben articolato e vivibile,32 poiché c’è unaresistenza nella natura, e quando, d’altro lato, ricorda una natu-ra umana comune.33 Per quanto riguarda la resistenza o attritodelle cose causalmente indipendenti da noi anche Rorty sarebbed’accordo (con la clausola che non c’è però niente che sia indi-pendente da noi rappresentazionalmente parlando),34 ma per

140 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

29 Id., Conquista dell’abbondanza, cit., p. 147.30 In proposito mi permetto di rinviare a V. Meattini, Sull’origine e il valore dei

diritti, cit. 31 P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., p. 173.32 Ivi, p. 172.33 Ivi, pp. 155-174; e Contro l’ineffabilità culturale, cit., p. 104.34 R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 80.

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quanto riguarda il ricorso ad una “natura umana comune” eglio lo ritiene inutile, poiché afferma che la formazione di una cul-tura dei diritti umani non sembra dovere alcunché ad unaumento della conoscenza morale, o falso nei fatti, poiché l’i-dentità di buona parte delle persone che vorremmo convincerea unirsi alla nostra cultura eurocentrica dei diritti umani è stret-tamente collegata alla percezione di quello che non sono.35 Sipotrebbe anche aggiungere che lo ritiene perfino dannoso per-ché lo sforzo di avvicinarsi sempre più e meglio a ciò che noiveramente siamo toglie energie ed entusiasmo all’opera di ri-creazione di noi stessi, all’intento di divenire ciò che vorremmoessere e di avvicinarci semmai all’immagine di noi che ritenia-mo migliore. Rorty, in un modo o nell’altro, ribadisce semprel’etnocentrismo.

L’impostazione dell’ultimo Feyerabend sembra invece piùvicina al riconoscimento che ogni sviluppo umano, per quantoidiosincratico, avviene sullo sfondo di condizioni e dotazioniche hanno molto in comune. Una breve escursione nel suo voca-bolario aiuta a capire meglio la differenza. Feyerabend non hamai nascosto che ‘creatività’ (termine chiave del gergo rortyano)sia una parola vuota. Se non ho capito male, la sua idea è che noi(tutti umani) siamo immersi in una realtà talmente ricca e com-plessa che i processi di cui la nostra cultura è fatta sono per lopiù indominabili e noi ne siamo il frutto più che gli attori. Lescoperte sono certo anche il risultato di una mente ordinata cheriesce a percepire una struttura completamente nuova, ma èsoprattutto «la natura così come si manifesta in una particolarepersona a indicare la strada, non una misteriosa ‘creatività’».36 Èl’ambiguità fondamentale dei nostri linguaggi che, infine, risul-ta una risorsa e permette alla trasmissione dei significati di nonavere limiti. Per dirla con un’immagine: è come se le nostreparole e l’insieme del nostro sistema di comunicazione fosseroad un tempo profilati per dire qualcosa di idisioncratico maanche modulati per agganciare altri significati e trasformarsiincessantemente. Ecco perché ogni cultura è in potenza tutte le cul-ture: sono le trasformazioni concrete e gli impegni di vita che

141VALERIO MEATTINI

35 Ivi, pp. 161-168.36 P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., p. 278.

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premono verso l’intelligibilità reciproca che producono l’inten-dimento. Ma, la cosa importante, nel Feyerabend che stiamoesaminando, è che egli faccia sostenere l’intendimento semprepossibile tra le culture umane, anzi la loro potenziale identità(poiché le differenze sono “accidenti geografici e storici”), daquel riferimento alla natura umana comune.

Sinteticamente. Feyerabend nega che le culture siano essenzenon ambigue e immobili (fallace presupposto che sarebbe all’o-rigine dell’incommensurabilità)37 e le vede invece come situa-zioni aperte alla trasformazione, sotto la pressione di ciò cheglobalmente si determina nella vita di gruppi umani che vengo-no nei più vari modi in contatto fra loro. Ed è questo il primoaspetto del suo discorso. Il secondo e più interessante aspetto èche a partire da se stessa ogni cultura umana ha le potenzialitàper trasformarsi in ogni altra, perché la natura umana è comu-ne. Di là dalla geografia e dalla storia che diversificano, l’impe-gno a superare “l’inerzia, il dogmatismo, la disattenzione, lastupidità” riunisce in una comprensione sempre possibile. Ciòdetto, non c’è da parte di Feyerabend nessuna simpatia per l’u-niversalismo astratto. Si deve sempre partire dalle specificheforme storiche di vita in cui siamo o che preferiamo per giunge-re a quanto consideriamo reale. E l’Essere è un Essere dinamicoe sfaccettato che riflette e influenza le attività di chi lo esplora eche non è dunque indifferente alle nostre scelte.

IIIIl lettore attento sarà a questo punto perplesso. Si doman-

derà come si possa precisare il concetto di “natura umanacomune” (finora continuamente ricordato) e che altra differen-za c’è infine fra Rorty e Feyerabend (oltre alla divergenza sul-l’incommensurabilità) se entrambi concordano sulle scelte e laprogettualità umane ed escludono un riferimento diretto edarbitrante alla realtà (sia che ciò riguardi la conoscenza o lequestioni dei diritti umani)?

142 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

37 «Al contrario, le vere culture cambiano quando tentano di risolvere grandiproblemi e tra esse non tutte sopravvivono ai tentativi di stabilizzazione. I‘principi’ delle culture reali sono quindi ambigui ed è sensato dire che ognicultura può in linea di principio essere qualsiasi cultura» (ivi, p. 292).

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Comincerò a prendere la via un po’ lunga per la risposta e poiverrò a quella diretta secondo quando comportano gli elementispecifici del ragionamento che sto facendo. La via lunga inter-seca Dell’incertezza, e precisamente quel passaggio delle medita-zioni di Veca in cui egli argomenta sulla questione che non pos-siamo riconoscerci, identificarci, descriverci e trattarci solo comepartner di comunità date, ma sempre anche come esseri umanipotenzialmente disposti ad incontri reali o virtuali in cui ci sia ilreciproco riconoscimento di pari dignità. A questo punto, Vecadice, glossando, che filosofi come Richard Rorty sono convintiche parlare così implichi il riferimento ad una misteriosa naturaumana che offrirebbe, una volta scoperta, le basi dell’egualerispetto e dignità. E nota en passant che non c’è nessun bisognodi demolire i fondamenti della «natura umana» per il semplicemotivo che essa non ha fondamenti, ma è il sintomo di un modopiù ampio di guardare le cose, ciò che vi è e che, per noi, vale.38

Fin qui Veca sembrerebbe sulla stessa linea di Rorty e gli rim-provererebbe soltanto un inutile furore demolitorio nei confron-ti di ciò che non c’è. Veca però vuol mantenere un equilibrio framotivazioni e ragioni (in Rorty invece c’è squilibrio a favoredelle motivazioni) e vuole imprimere al suo dire una più consi-stente apertura universalistica di quanto non possa esseredisposto (teoreticamente) a fare Rorty. E queste differenze sivedono bene alla fine del libro quando Veca riconosce che unateoria dei diritti umani ha bisogno di una teoria dei sentimentiumani (d’accordo con Rorty), ma poi precisa che «i diritti umanisono approssimativamente il punto focale di convergenza dei com-menti su che cosa si prova a vivere vite umane qua e là per ilmondo, un mondo di incessante deformazione».39

La differenza rispetto a Rorty è data in Veca da una sostan-ziale accentuazione kantiana del ragionare umano che avrebbeun’autonomia e una capacità di guardare alle nostre vite comealla vita di chiunque. Credo di essere d’accordo con Veca poichéanch’io parlo di un ragionare che ha un interesse per se stesso enon fa soltanto l’interesse di questo specifico ragionante40 e credo

143VALERIO MEATTINI

38 Cfr. S. Veca, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 1997,pp. 238-239.

39 Ivi, p. 347.40 Cfr. V. Meattini, Etica e conoscenza. “Filosoficamente abita l’uomo”, G. Laterza,

Bari 2003.

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anche che qui siamo di fronte ad uno dei punti centrali cheandrebbero discussi in un dialogo con Rorty,41 ma al momentocerco di portare a conclusione la linea del nostro discorso.

L’interesse che presenta la posizione dell’ultimo Feyerabendè che egli non pone né dimostra l’esistenza in essenza di unacomune natura umana (che, oltre ad essere contro tante altrecose che egli sostiene, non avrebbe nessuna possibilità di passa-re, come si vede anche in Veca), ma, per così dire, vi risale e laincontra nell’analisi dei concreti vissuti umani, incontrandoanche un’istanza di valore che non vuole essere ridotta alla cir-costanza che la esprime. Nei concreti vissuti umani non c’èun’assunzione di fondo che non possa col tempo modificarsi.Questo aspetto della posizione di Feyerabend troverebbe oggiperò quel suo richiamo a certi valori che non permettono dirispettare “qualche sedicente integrità culturale”. In quelleparole riappare il vecchio problema del non poter non valere delvalore. «Il valore si presenta, infatti, come qualcosa che richiededi essere riconosciuto in virtù dei suoi caratteri intrinseci».42

Proprio a partire dalla posizione di Feyerabend in esame si ria-pre una questione di cui la maggior parte del filosofare chetende ad una storicizzazione integrale, ad un naturalismo com-pleto, ad una ermeneutica che ponga l’interpretazione comeautoproducentesi, non vogliono più sentir parlare: qual è lo sta-tuto del ragionare, del capire e del dar valore?43

Se l’incommensurabilità delle culture e la difesa ad oltranzadelle differenze è stato ed è uno dei paradigmi del postmoder-no, allora è interessante vedere che, proprio quel Feyerabendche ha declinato in ogni modo un altro paradigma della post-modernità: l’apertura teorica in cui i fatti appaiono come tali, offreelementi di ripensamento profondo, almeno riguardo al primoparadigma. Quel che appartiene alla «natura umana» (oltre la

144 FEYERABEND, RORTY E LA “NATURA UMANA”

41 Ho provato a farlo nel mio Il luogo del capire, Angeli, Milano, 1996.42 V. Mathieu, Certezza dei principi, incertezza dell’azione, in: M. Pera (a cura di),

Il mondo incerto, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 124. Sul tema si può anchevedere V. Meattini, Ragione teoretica e ragione pratica. Martinetti interprete diKant, Cursi, Pisa 1988.

43 Ho affrontato il problema in V. Meattini, Il luogo del capire, cit., e in V.Meattini, Hilary Putnam. Ragione, verità e storia, in: Nuova civiltà delle macchi-ne, n. 1/1986, pp. 69-76.

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morfologia e la biologia) è la capacità, senz’altro collegata al lin-guaggio, di concettualizzare. Se ciò dà luogo ad ideologie in con-correnza ed in opposizione fra loro, dà però anche luogo a dia-logo e a possibilità di traduzione che può portare sia ad integra-zioni reciproche e sia alla messa in evidenza di conflitti insana-bili ed opposizioni irriducibili. Integrazioni e ostilità sulle que-stioni di valore sono entrambi risultati dell’aver capito (quandol’ostilità non è risultato di fraintendimento) e della comunecapacità degli umani di concettualizzare. È proprio in ragione diciò – con gli orizzonti che dischiude e i problemi che comporta,che ci sono le diversità culturali e anche le pratiche ben consoli-date degli scambi culturali. Il risultato sono i processi reali concui gli esseri umani fanno storicamente i conti. È qui che, secon-do l’ultimo Feyerabend, il relativismo mostra la comune radicecon l’oggettivismo e l’astrattismo. Ecco come, in modo diretto,illustra il punto debole del relativista, cui fa dire: «definisci uncontesto (una forma di vita) accettabile, con criteri e altro suoipropri, e puoi far sì che qualsiasi cosa che succeda in questo con-testo finisca per confermarlo»; e a cui risponde che, al contrario,«le vere culture cambiano quando tentano di risolvere grandiproblemi e tra esse non tutte sopravvivono ai tentativi di stabi-lizzazione».44 Le culture reali non sono quelle che l’oggettivismoe il relativismo, per ragioni opposte e origini in comune, incor-niciano. Incontrare e risolvere problemi vuol dire trasformarsi, etali trafsormazioni sono in linea di principio proiettabili in ognicultura.45

Nei fatti il trasformarsi delle culture, i loro ibridismi, gliimprestiti, gli scambi, indicano che l’orizzonte di fondo (nonquello delle nostre specifiche storie che tanto ci premono in cuisi dà il nostro essere umani è forse proprio quell’orizzonte fisi-co che è visibile da ogni essere umano. Varia, certamente, secon-do i luoghi e l’altitudine a cui siamo, ma ci racchiude tutti.Feyerabend non lo dice, ma credo che a questo punto si possadire: ragionare, come anche il dar valore, è un atto che ha sem-pre in sé la potenzialità di trascendere ciò che ne è il contenuto.46

145VALERIO MEATTINI

44 P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., p. 292.45 Ivi, pp. 41, 170, 261, 292.46 V. Meattini, Hilary Putnam. Ragione, verità e storia, cit., pp. 73-75.

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La nostra capacità di ragionare sarà anche risultato degli adat-tamenti evolutivi, e per questo non dobbiamo chiederle troppo,come capita in certe filosofie, ma non dobbiamo neppure chie-derle troppo poco, come a me sembra faccia Rorty, perché se èvero che riesce a fondare poco o nulla di ciò che realmente c’im-porta, ha però le potenzialità per giustificare (nel senso di riu-scire a capire) molte cose, o almeno tante per noi umani.L’ultimo Feyerabend si è avvicinato ad una posizione che nonmi dispiace, soprattutto quando lascia intendere che prendereatto delle differenze e la difesa delle integrità culturali non devecoprire la regola di questo o quel tiranno, di questo o quel com-portamento sopraffattorio. Insomma, non va bene qualsiasicosa, che detto da lui vale doppio! Non si può considerare allastessa stregua chi si pone il problema delle diversità culturali echi neppure ne è sfiorato e non si può proteggere chi non è sfio-rato da alcun dubbio sulla bontà dei propri pensieri e compor-tamenti a scapito di chi lo è. Alle vittime si può dare di nuovovoce, ma non vita se nel frattempo è stata loro tolta. Parrebbe,dunque, che oltre “l’inerzia, il dogmatismo, la disattenzione e lastupidità” ci sia un luogo mentale ed esistenziale in cui conser-vi senso e diventi operativo il concetto tanto discutibile ediscusso, ma non del tutto inutile, di “natura umana comune”.

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LL ’assolut’assoluto poso postmodertmoderno.no.HeideggHeideggerer, Der, Derrrida e i limitiida e i limitiintintererni del linguaggioni del linguaggio

diChristian Lotz

UUno dei motivi che ci spingo-no a continuare il lavoro di

riflessione sulla natura della ragione e della razionalità affondale proprie radici nello sviluppo sociale, economico e politicodella storia occidentale degli ultimi duecento anni. Se prendia-mo in considerazione le osservazioni sulla modernità svolte inpassato, da Weber a Taylor, dobbiamo concludere che il segnometafisico della nostra cultura porta il marchio del razionale edello strumentale; dobbiamo cioè renderci conto che ogni feno-meno del mondo moderno, come affermava l’ultimo Heidegger,si manifesta all’interno di un sistema di calcolo (Gestell), che è diper se stesso possibile soltanto se concepito come un intero siste-ma complessivo di relazioni di significato. Ciò che Heideggerintendeva è semplicemente questo: prima ancora di essere ingrado di stabilire delle relazioni con le cose, e prima ancora dipoterci riferire a qualsiasi cosa all’interno del nostro mondo, lacomprensione di questo mondo come un tutto è in noi già inatto. Secondo Heidegger questa comprensione paradigmatica,che egli identifica con il sistema tecnologico, ci viene consegna-ta da un evento epocale del destino (Schickung). L’Essere apparein determinate costellazioni, le quali determinano a loro volta apriori e in maniera esaustiva il nostro modo di riferirci alleentità del nostro mondo. Secondo Heidegger il sistema del pen-siero calcolante è una di queste costellazioni. Questa diagnosidella modernità, non solo in Heidegger ma anche in Adorno,culmina in concezioni oscurantiste a proposito dell’epoca stori-ca in cui viviamo. Inoltre, se seguiamo Il discorso filosofico sullamodernità di Habermas, questo tipo di approccio alla modernitàpuò essere inteso come un movimento anti-moderno che, inultima istanza, rinuncia alla forza emancipatrice della ragione

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(Vernunft), la quale, secondo Habermas, è essa stessa parte delprocesso della modernità. Dal punto di vista di Habermas, ildiscorso sulla modernità – da Nietzsche fino ad Heidegger –diventa sostanzialmente un riflesso e un duplicato di ciò da cuiesso stesso tenta di sottrarsi, il che non è qualcosa di moltodiverso dall’irrazionalità.1

A prescindere dalla nostra posizione nei confronti delle opi-nioni di Habermas, riguardo una modernità che viene esperita econcepita come l’insediamento e la definitiva realizzazionedella metafisica del pensiero calcolante, che trasforma ogniparte della nostra vita e dei nostri pensieri in uno strumentofunzionale a qualcosa d’altro – dobbiamo chiederci se sia pro-prio vero che oramai si sia dissolto ogni tentativo di riferirsi aqualcosa che sfugga questa struttura relazionale e se esistanoancora delle possibilità di pensare al di là dell’orizzonte stru-mentale della nostra cultura, il cui esito è una reificazione uni-versale. Heidegger ha diagnosticato due componenti di questoorizzonte: siamo intrappolati in un sistema rappresentazionaleonnicomprensivo, al cui interno sembra impossibile sviluppareuna relazione di non-identificazione con ciò che sfugge ogni ten-tativo di rappresentazione. Secondo l’analisi di Heidegger, a cuici dedicheremo in dettaglio fra poco, la filosofia deve rinuncia-re alla sua eredità metafisica se non vuole ripetere e affermaredevastanti atteggiamenti riduzionistici nei confronti del mondo,atteggiamenti che regolano in modo impercettibile tutte lenostre relazioni come anche la nostra comprensione del mondo.La domanda è allora: c’è qualcosa che sfugge in maniera fonda-mentale al sistema di rappresentazione? Come vedremo piùavanti possiamo interpretare alcuni tentativi della filosofia post-moderna, come le riflessioni sul linguaggio di Heidegger eDerrida, come tentativi di riscoprire dei modi di pensare che sipongono al di fuori del sistema rappresentazionale. Tale tentati-vo riporta questi pensatori postmoderni a teorie che hanno cer-cato di perseguire gli stessi obiettivi nell’ambito di linee più tra-dizionali del pensiero occidentale, come, per esempio, la teolo-gia negativa. In poche parole, la teologia negativa si trova oggi

148L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

1 Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1988.

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al centro di un rinnovato interesse, dal momento che sembraarticolare un’esperienza in grado di fornire un’alternativa alpensiero identificante.

La teologia negativa si confronta principalmente con un para-dosso filosofico, cioè la questione di come sia possibile fare rife-rimento a qualcosa (Dio), a cui non è possibile riferirsi, (in quan-to la stessa natura di Dio non consente di riferirsi ad essa).Potremmo riformulare la domanda chiedendoci come possiamoparlare di qualcosa di cui non è possibile parlare?

La teologia negativa, di cui gli scritti di Dionigi Areopagitasono una perfetta esemplificazione, ha sviluppato una strategianegativa per concepire la causa prima. Proclo, Dionigi Areopagitae Angelo Silesio hanno sostenuto che tutti i predicati e tutto ciòche si può dire dell’Essere dell’Uno non esprimono nulla di esso,per quanto essi stessi si siano opposti al controargomento per cuiil loro discorso in questa maniera si trova a perdere di significato,trasformandosi in qualcosa di ozioso e vuoto.2 Come afferma

149CHRISTIAN LOTZ

2 La formulazione che Plotino dà a questo problema è la seguente: «in chemodo, allora, noi possiamo parlare tra noi di esso? Indubbiamente parlia-mo di qualcosa, ma certamente non lo diciamo e non possiamo né cono-scerlo né pensarlo. Ma se non ne abbiamo conoscenza, non lo possediamoaffatto? La possediamo a sufficienza per poterne parlare, ma non per poter-lo dire. Perché possiamo dire ciò che non è ma non ciò che è: cosicché neparliamo in base a ciò che da lui deriva» (Plotino, Enneadi, III.3.14. Per ulte-riori indicazioni si veda J.D. Jones, A Non-Entative Understanding of Be-ingand Unity: Heidegger and Neoplatonism, in: Dionysius, Vol. VI, 1982, pp. 94-110, in particolare pp. 98, 99 e 105). Questa citazione mette in evidenza dueaspetti della questione: (1) Plotino collega il problema dello status dell’es-sere supremo al linguaggio, che è un problema importante per Heideggere Derrida. (2) Inoltre il pensiero di Plotino si adatta in modo perfetto allacaratterizzazione operata da Heidegger della «onto-teologia», poiché egliconcepisce l’Uno come la «causa prima» e l’Essere supremo; per la sopraindicata caratterizzazione heideggeriana si veda M. Heidegger, Identità edifferenza, in: aut aut, n. 187-188/1982, pp. 2-37, in particolare p. 27. Nontutti gli studiosi sono d’accordo con la diagnosi di Heidegger. John Jones hacercato, per quanto riguarda Dionisio, di mostrare che egli non rientra nelloschema di Heidegger perché, pur essendo discepolo di Plotino, non conce-pisce l’Uno come l’Essere supremo, ma piuttosto come qualcosa di diversodagli esseri (gli enti). Jones afferma che «l’unità o l’essere vanno oltre il pen-siero e l’essere, e non sono esseri» (J.D. Jones, Jones, A Non-EntativeUnderstanding of Be-ing and Unity: Heidegger and Neoplatonism, cit., p. 97).Non trovo l’argomento di Jones convincente, in particolare perché sin dalprincipio della teologia negativa sembra ovvio che il tentativo di negare gliattributi di Dio – anche nella forma più radicale di essere oltre l’essere –

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Dionigi Areopagita: Dio, la causa prima, «non è né parola népensiero; non si può esprimere né pensare».3 Dio, come affer-mano questi teologi, si colloca al di là dell’Essere e, malgradonoi siamo costretti ad usare la parola «è» quando parliamo diDio, possiamo sviluppare un modo di pensare adatto a ciò che«supera ogni essere e conoscenza».4 Come scrive ancora DionigiAreopagita, la natura di Dio non può essere espressa né permezzo di frasi affermative né per mezzo di frasi negative e «tra-scende ogni privazione e ogni attribuzione».5 L’esperienza del

150L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

dipendono tutti, in prima istanza, da una teologia affermativa che cerca didelineare, in un senso positivo, ciò che è l’essenza di Dio. Qui troviamochiaramente tutto ciò che Heidegger ha definito come onto-teologia, cioè laconnessione di causa/ragione, con l’essere supremo (Seiendes). Per esem-pio, Dionisio nega che qualcosa di significativo possa essere detto sullacausa prima. Ciò richiede già un riferimento a «qualcosa». Dal punto di vistadi Derrida si potrebbe sostenere la tesi che la teologia negativa, incluso ilpensiero di Dionigi Areopagita, esprime un desiderio di parlare di Dio, un«desiderio di dire e replicare ciò che è proprio di Dio» (cfr. J. Derrida, Saufle nom, Galilée, Parigi 1992, p. 69 – di questo scritto esiste una versione ita-liana tradotta all’interno di J. Derrida, Il segreto del nome, Jaca Book, Milano1997; nel corpo di questo saggio le indicazioni di pagine seguiranno l’edi-zione anglosassone dell’opera, in: J. Derrida, On the Name, StanfordUniversity Press, Stanford 1995, pp. 35-88 [NdT]). In altre parole, anchenegando, anche negando e non dicendo nulla a proposito di Dio, la teolo-gia negativa cerca di dire qualcosa di vero o appropriato su Dio. Tale deside-rio è presupposto ad ogni forma negativa di discorso. Persino la forma nega-tiva del discorso, perfino il silenzio, dicono qualcosa a proposito di Dio. Inaltre parole, non arrivano al punto di negare l’esistenza di Dio. Ad una con-clusione di questo tipo giunge John Caputo in: J. Caputo, The Prayers andTears of Jacques Derrida, Indiana University Press, Bloomington 1997, pp. 10-11. Per una critica di queste tesi si veda L. Ferretter, How to avoid speaking ofthe other. Derrida, Dionysius and the problematic of Negative Theology, in:Paragraph, n.1/2001, pp. 50-64, in particolare pp. 54-55. Ferretter affermache la teologia negativa consiste nella negazione dell’intero aspetto positi-vo della teologia. Anche ammettendo che abbia ragione, ciò non toglie chela negazione sia sempre una negazione di qualcosa, e cioè, di qualcosa chepuò essere detto riguardo a Dio.

3 Dionigi Areopagita, Teologia mistica, trad. it. parziale in: Id., Tutte le opere,Rusconi, Milano 1983, pp. 405-414, citazione a p. 414. Secondo J.N. Jones, ildiscorso di Diongi Areopagita deve essere concepito come «teologia critica»,che intende correggere il modo in cui la gente parla di Dio. L’idea, in termi-ni moderni, è quella di fare filosofia nella forma della Sprachkritik. Cfr. J.N.Jones, Sculpting God: The Logic of Dionysian Negative Theology, in: HarvardTheology Review, n. 4/1996, pp. 355-371.

4 Ivi, p. 406.5 Ivi, p. 407, ma si veda anche quanto scritto a p. 414. Per la differenza tra apo-

fantico (affermativo [attributivo, NdT]) e catabatico (negativo [privativo,

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misticismo, quindi, per lo meno in alcuni dei suoi aspetti, pos-siede una certa rilevanza per i filosofi contemporanei, poichénon cerca soltanto di andare al di là del linguaggio restando nel-l’ambito del linguaggio stesso, ma cerca anche di andare al di làdella rappresentazione restando nel campo della rappresenta-zione. Quest’argomento non è centrale solo in Heidegger eDerrida, ma anche in Wittgenstein.6 E solleva inoltre – sebbenein sistemi che storicamente sono estranei l’un l’altro – problemiepistemologici piuttosto che ontologici.7

La ricerca di un Assoluto come qualcosa che si sottrae a ognitentativo di legarlo a termini relazionali e rappresentazionali,caratterizza i tentativi compiuti tanto da Derrida quanto daHeidegger di riappropriarsi del discorso della teologia negativa.L’Assoluto postmoderno, in ultima istanza, risulta tuttavia esse-re ridotto a un segno vuoto e a una mera traccia di un Dio per-duto e morto, che può essere soltanto ricordato come un punto diriferimento assoluto, ma che non può più essere rappresentatoper mezzo della ragione e della razionalità. In ogni caso, comeHeidegger e Derrida cercano di mostrare, l’Assoluto, nellaforma della differenza ontologica, nella forma dell’altro o delladifferenza, non solo determina i nostri pensieri e i nostri concet-ti, ma li rende in primo luogo possibili.

Nelle pagine che seguono ho intenzione di analizzare alcuni

151CHRISTIAN LOTZ

NdT]), si veda I. Bulhoff – K. Laurens ten, Echoes of Embarrasment:Philosophical Perspectives on Negative Theology, in: I.K. Bulhoff – K. Laurensten (a cura di), Flight of the Gods: Philosophical Perspectives on NegativeTheology, Fordham University Press, New York 2000, pp. 1-57, in particola-re pp. 15-17.

6 Il concetto di «mostrare» che Wittgenstein sviluppa nel su Tractatus è ilrisultato dell’impossibilità di concepire una relazione rappresentazionaletra logica e linguaggio (cfr. Th. Wabel, Die Hineinnahme der Sprachgrenzen indas Nachdenken ueber die Grenzen der Sprache in Theologie undSprachphilosophie, in: Ch. Asmuth (a cura di), Die Grenzen der Sprache.Sprachimmanenz – Sprachtranszendenz, Gruener, Amsterdam-Philadelphia2001, pp. 85-106, in particolare p. 94). Questo ci riporta al pensiero diHeidegger espresso nel suo In cammino verso il linguaggio, in cui anch’egliafferma che il linguaggio deve mostrarsi nel linguaggio, e che noi siamoincapaci di rappresentare dall’esterno ciò che il linguaggio effettivamente è(cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, in: Id., In cammino verso illinguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 189-213, in particolare p. 206).

7 J. Fisher, The Theology of Dis/similiarity: Negation in Pseudo-Dionysius, in: TheJournal of Religion, 2001, pp. 529-548, in particolare p. 532.

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aspetti di questa via negativa contemporanea, in particolare inragione della sua importanza, che emerge dalla descrizionedella modernità così come è stata presentata fino a questomomento, anche se non ho intenzione di addentrarmi nei parti-colari concreti della teologia negativa in quanto tale.8 Nellaprima parte delle mie considerazioni mi occuperò di alcuniaspetti del pensiero dell’ultimo Heidegger, nella seconda parteapprofondirò il rapporto di Derrida con la teologia negativa, perconcludere poi con alcune osservazioni sugli aspetti generalidelle posizioni che sono state prese in esame.9 L’aspetto più rile-vante dell’approccio di Heidegger e di Derrida ai fini del miodiscorso consiste nella rinuncia all’idea del recupero della teolo-gia negativa in quanto teologia; in alternativa loro trasformanola questione in un problema linguistico.10 Il linguaggio, comevedremo, diventa l’Assoluto, che viene prima di tutto il resto.Noi siamo costretti a parlare di ciò di cui non possiamo parlare.

Heidegger, ovvero: rappresentare senza rappresentare

L’invenzione di Heidegger del termine «onto-teologia» nonha ricevuto tutta l’attenzione che meritava, fatte salve alcune

152L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

8 Per un approfondimento della dottrina di Dionigi si veda l’introduzione diP. Rorem a: Pseudo-Dionysius, Mystical Theology, in: Id., Complete Works,Paulist Press, New York 1997, e, per una più vasta trattazione della teologianegativa, si veda I. Bulhoff – K. Laurens ten (a cura di), Flight of the Gods:Philosophical Perspectives on Negative Theology, Fordham University Press,New York 2000.

9 I contributi di Derrida sono il risultato di diverse discussioni sulla possibi-lità di un «teologia» postmoderna. Nonostante alcuni apporti piuttostoincomprensibili, come gli scritti di Mark C. Taylor (si vedi, per esempio,M.C. Taylor, Non-Negative Negative Theology, in: Diacritics, n. 4/1990, pp. 2-161), sono state offerte alcune riflessioni sostanziali sull’argomento, in par-ticolar modo in tutti i saggi di Caputo su questo argomento e in H. de Vries,The Theology of the Sign and the Sign of Theology: The Apophantics ofDeconstruction,» in: I. Bulhoff – K. Laurens ten (a cura di), Flight of the Gods:Philosophical Perspectives on Negative Theology, Fordham University Press,New York 2000, pp. 165-193. De Vries considera, come del resto mi sforzodi fare io stesso in queste pagine, l’interpretazione di Derrida della teologianegativa come una interpretazione che appartiene al discorso più ampiodella teoria dei segni.

10 La teologia negativa, come ha affermato un commentatore, diventa, nellemani di Derrida, «radicale in un senso semiotico piuttosto particolare» cfr. J.Fisher, The Theology of Dis/similiarity: Negation in Pseudo-Dionysius, cit., p. 530.

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considerazioni storiche sulla metafisica. Sorprendentemente, ègrazie alla ricezione delle tarde riflessioni di Heidegger neiprimi scritti di Derrida, e grazie alla teologia negativa postmo-derna di Marion, che le ultime osservazioni di Heidegger sullanatura della rappresentazione, del linguaggio e della ragionehanno ricevuto un rinnovato interesse nelle discussioni contem-poranee. Questi pensatori, inoltre, sono in grado di gettarenuova luce sulle riflessioni filosofiche di Heidegger, che a voltesono piuttosto criptiche. Ora vorrei indicare alcuni aspetti deldiscorso più maturo di Heidegger, perché sono rilevanti ai finidel mio discorso.

Com’è noto, mentre Heidegger in Essere e tempo ha sostenutoche la questione del senso dell’Essere può essere discussa inmaniera appropriata solo in relazione all’Essere del Dasein, piùtardi, negli scritti posteriori a L’essenza della verità,11 cerca diaffrontare la questione del senso dell’Essere senza fare più rife-rimento alla dimensione trascendentale esplorata in Essere etempo. Mentre la differenza ontologica tra ente ed Essere erastata già chiaramente introdotta in Essere e tempo12 – anche senon era stata posta in questi termini – più tardi l’attenzione diHeidegger si concentra, come egli stesso afferma in Identità eDifferenza, sulla «differenza in quanto differenza». In altre paro-le, ciò che in Essere e tempo veniva presentato come il primatodella comprensione degli enti al di là degli enti stessi, questioneche porta al problema della trascendenza, viene ora direttamenteindicato da Heidegger (senza riferimento al sé) come il proble-ma centrale della metafisica.

La concezione di Heidegger dello status della differenzaontologica merita di essere chiarita.

(1) In primo luogo, lo status della differenza ontologica èassolutamente prioritario e costituisce la condizione assolutadel logos e del discorso, anche se non siamo capaci di pensaretale differenza nell’ambito del sistema metafisico dei fondamen-ti, ossia l’ambito di ciò che dà fondamento, l’ambito delle gerar-chie, della ragione e delle cause prime. In altre parole, la diffe-renza ontologica non è la causa della nostra capacità di parlare

153CHRISTIAN LOTZ

11 Cfr. M. Heidegger, , in: Id., Segnavia, Adelphi, Milano , pp. .12 Cfr. Id., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1978, p. 26xx.

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o di pensare; è piuttosto la dimensione nella quale ci troviamo giàprima di avviare un processo di riflessione su questo tema.

(2) La differenza ontologica, inoltre, non può essere concepi-ta come qualcosa che possiamo rappresentare, né a livello delpensiero né a livello del linguaggio. Secondo Heidegger, pensa-re la differenza ontologica ci spinge verso una forma di pensie-ro che non rappresenta ciò che è pensato nel pensiero, ma che,piuttosto, deve mostrare quello che è in gioco (detto e pensato)nel linguaggio e nel pensiero. Adesso bisogna sviluppare più indettaglio questi due punti.

La priorità della differenza ontologica

Secondo la ricostruzione della metafisica occidentale propo-sta da Heidegger, da Eraclito fino a Nietzsche i filosofi nonhanno concepito la differenza ontologica in quanto differenza.Invece di adattare il loro pensiero a ciò che è si addice al pen-siero stesso, i metafisici hanno pensato la differenza tra enti edEssere in maniera inadeguata. Nella sua interpretazione dellastoria della metafisica Heidegger giunge a concludere che ognipensatore, compreso se stesso, ha pensato sempre la stessacosa,13 ossia l’Essere. Nei suoi commenti ad Hegel, Heideggersottolinea che tanto per Hegel quanto per lui «la questione delpensiero è la stessa»,14 ma qui Heidegger mostra anche che ladifferenza tra le sue riflessioni e quelle di Hegel sta nel modo incui essi mostrano e concepiscono l’Essere. Hegel, a giudizio diHeidegger, ha concepito l’Essere in modo inadeguato, ossia pen-sandolo come qualcosa che esso non è, come un’idea assoluta.Hegel non ha concepito l’Essere nella sua differenza dall’ente,ma ha invece pensato l’Essere come termine metafisico. Al con-trario Heidegger sostiene di cercare di pensare l’Essere in quan-to Essere, e cioè in quanto differenza. In poche parole, l’Essereper Heidegger è in primo luogo ciò che dev’essere radicalmen-te tenuto distinto dagli enti. Quello che Heidegger sembravolerci dire con la sua affermazione che ogni pensatore ha pen-sato la medesima cosa è semplicemente questo: se la storia della

154L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

13 Cfr. Id., Identità e differenza, in: aut aut, n. /1982, pp. 2-37, in particolare p. 19.14 Ivi, p. 20.

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metafisica occidentale si è occupata principalmente delladomanda sul significato dell’Essere e se l’Essere è ciò che ognipensatore cerca di pensare perché è la «sorgente» primaria di ciòche chiama il pensare a se stesso e di «ciò che bisogna pensa-re»,15 allora ogni pensatore ha dato implicitamente una risposta aquesto problema, per il semplice fatto che l’Essere deve esserepensato se è un elemento del pensiero in quanto tale. In altreparole, in tutti i vari sistemi di pensiero e di sistemi metafisicideve comparire in ultima istanza un «risultato», anche se nonsempre si mostra da se stesso in quanto se stesso – e questa è ladifferenza ontologica. La questione del pensiero in quanto «ciòche è il da-pensare»16 e in quanto ciò che effettivamente vienepensato dal pensiero, per Hedegger è «ciò [...] a partire da cui ilpensato riceve il suo spazio essenziale».17 La metafisica e il pen-siero stesso vengono chiamati in causa, vengono chiamati adesistere, in virtù della differenza ontologica. La differenza onto-logica è il presupposto di ogni tentativo di pensare l’Essere.Invece di essere trattata in maniera fenomenologica18 (lasciandoche l’oggetto del pensiero sia visto per quello che è), la differen-za ontologica, secondo Heidegger, è stata pensata dai filosofiprecedenti mediante concetti che hanno finito con il velare lanatura della differenza, trasformandola in un «impensato»,19

così che la domanda sul modo in cui poter concepire l’Essere inquanto Essere resta qualcosa a cui «non sono state poste doman-de».20 Invece di pensare la differenza in quanto differenza, lametafisica ha determinato la differenza in termini onto-teologi-ci, come fondamento, Dio, causa, identità, idea assoluta e gerar-chia (l’essere supremo), cosa che ha portato i pensatori del pas-sato semplicemente a fraintendere di ciò che chiama in causa ilpensiero, ossia la differenza tra Essere ed ente. Il pensiero diHeidegger assume una posizione di rilievo per la nostra discus-sione per due ragioni fondamentali: Heidegger introduce l’ideadi Assoluto nella filosofia senza alcun tentativo di riferirsi a un

155CHRISTIAN LOTZ

15 Cfr. Id., Che significa pensare?, SugarCo, Milano 1979.16 Id., Identità e differenza, cit., p. 22.17 Ivi, p. 21.18 Cfr. Id., Essere e tempo, cit., § 7.19 Id., Identità e differenza, cit., p. 22.20 Ibidem.

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assoluto che possa essere pensato nei termini di qualcosa che èun’entità «somma» o una base fondazionale per il mondo deglienti. Questo approccio di Heidegger ci spinge immediatamentea rimettere in questione due punti: da un lato, siamo costretti arimettere in discussione lo status del linguaggio e la possibilitàdi parlare di un Assoluto a cui, secondo la tesi principale, non cisi può più riferire in termini di rappresentazione; per altro versosiamo costretti a introdurre una forma di pensiero che mostra lecose prima di collegarle alle loro cause, alle ragioni e ai fonda-menti. In altre parole, si deve accettare (Gelassenheit) e renderevisibili quegli stessi fenomeni che vengono di solito compressiin uno schema metafisico che ricollega ogni cosa alle cause e aifondamenti. Il primo modo di rimettere in discussione l’approc-cio metafisico ci porta a un modo di parlare negativo, o a ciò cheHeidegger indica come un «dicente non-dire».21 È importantesottolineare che Heidegger non concepisce questa strategiacome un particolare sistema di articolazione; piuttosto il silenziocapace di parlare fa di per se stesso parte del linguaggio. Su que-sto punto ho intenzione di ritornare in seguito.

La base non-rappresentazionale della differenza ontologica

Diamo pure per scontata l’affermazione di Heidegger che ladifferenza ontologica sia già presupposta in qualche forma alpensiero, e alla filosofia in generale. Il punto cruciale diventaallora che la metafisica sarebbe stata incapace di determinarel’Essere e di determinare la differenza in termini onto-teologici,se la differenza (in un modo o nell’altro) non si fosse già palesa-ta alla metafisica già prima che questa «desse inizio» al propriocammino speculativo.22 Detto altrimenti, l’Assoluto dev’esserepensato sia come ciò che si svela, ciò che si mostra (in caso con-trario la metafisica non avrebbe potuto fraintenderlo) sia comeciò che non si mostra, un fenomeno che, come noto, Heideggerindica come «velamento» e «disvelamento», o anche come«velante-svelante deferimento».23 Quest’idea ci porta a un altro

156L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

21 Ivi, p. 36.22 Ivi, p. 30.23 Ivi, p. 31.

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problema con cui Heidegger ha dovuto continuamente fare iconti, e cioè il modo in cui noi possiamo pensare adeguatamen-te la relazione tra ciò che viene identificato come il nuovoAssoluto (la differenza ontologica) e i nostri tentativi di rappre-sentare questo nuovo Assoluto (sempre la differenza ontologica)nel discorso o nel pensiero. Di solito, come sottolinea Heidegger,«ci siamo rappresentati l’essere in un modo in cui Esso, l’essere,non si dà mai».24 Ciò di cui si ha bisogno, in altre parole, è unaforma non rappresentazionale di pensiero e di discorso relativoa ciò che chiama il pensiero o, in altri termini, su ciò che chiamail pensare al pensare. Ad ogni modo Heidegger non crede che sipossano sviluppare forme non rappresentazionali di pensiero edi discorso con l’istituzione di nuovi linguaggi, stili, teorie e con-cetti; piuttosto, ciò che Heidegger cerca di mostrare è che il lin-guaggio stesso possiede in sé un proprio nucleo di carattere non-rappresentazionale che nel corso del tempo noi abbiamo dimen-ticato e ignorato. Un’alternativa alla rappresentazione, in altreparole, non la si può rinvenire al di fuori del linguaggio. La sideve trovare, al contrario, all’interno del linguaggio, cioè, biso-gna dimostrare che il linguaggio stesso è non rappresentativo eche è stato distorto nelle sue possibilità dalla metafisica, e spe-cialmente dalla preferenza moderna per il soggetto capace diparlare e rappresentare. Negli ultimi scritti di Heidegger questatesi viene esplorata in molti modi, fatto che richiama la storia delpensiero ermeneutico, come si presentò originariamente negliscritti di Humboldt.25 Sulla base di questa osservazione apparequindi evidente come non sia convincente la tesi di alcuni stu-diosi secondo cui il pensiero di Heidegger possa essere storica-mente legato alla teologia negativa; sembra piuttosto cheHeidegger assuma ciò che è stato concepito come la via negativasemplicemente come un principio interno del proprio pensiero.26

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24 Ivi, p. 32.25 Id., In cammino verso il linguaggio, pp. 193-196.26 Non ritengo convincente l’idea che Heidegger realmente integri elementi

teologici nel proprio pensiero. Un’attenta analisi di come tratta, per esem-pio, Angelo Silesio nel suo Il Principio di Ragione ci porterebbe alla conclu-sione che egli semplicemente si serve di Silesio per fornire evidenza dellapossibilità di un pensiero che – precedente ad ogni rappresentazione –mostra qualcosa come ciò che è di per se stessa; per la discussione delle tesidi Heidegger sull’apparenza di una rosa, si veda J. Derrida, Points:

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La conclusione cui giunge Heidegger a questo punto dellasua riflessione non deve sorprendere. Il modo di dire qualcosasenza che si affermi qualcosa a proposito di qualcosa d’altro nonimplica (principalmente) che vi sia un referente «esterno», col-locato «al di là» del linguaggio. Il linguaggio e il discorso indi-cano (mettono in evidenza) piuttosto qualcosa che è già presen-te e che è già all’opera nel momento stesso in cui cominciamo aparlare – ossia il linguaggio stesso. La relazione, secondo la tesiprincipale di Heidegger, tra il linguaggio e il suo oggetto, deveessere ricostruita come una relazione interna che non può essereconcepita come una relazione rappresentazionale. Mentre il lin-guaggio parla di qualcosa, in primo luogo non dice qualcosa suqualcosa che sia altro rispetto al linguaggio; piuttosto indica emostra se stesso per mezzo di se stesso. Il linguaggio è il feno-meno essenziale perché è la condizione trascendentale di ognicosa che può comparire all’interno del nostro mondo.27 Di con-seguenza nei suoi scritti sul linguaggio Heidegger nomina l’es-senza del linguaggio in quanto mostrare o indicare (das Zeigen).

Parlare l’un l’altro significa: dire insieme di qualcosa, mostrarereciprocamente ciò che la cosa chiamata in discorso, viene nel discor-so dicendo di sé, ciò che essa di per se stessa porta all’evidenza.28

L’idea che Heidegger cerca di esprimere in questo passo siriallaccia a una riflessione che egli stesso aveva sviluppato già inEssere e tempo,29 cioè la tesi per cui quando parliamo gli uni congli altri allo scopo di parlare di qualcosa di questo mondo, ciò dicui stiamo parlando deve manifestarsi prima che noi si possasviluppare ulteriormente la conversazione. Per esempio, se par-liamo con qualcuno del tempo, il tempo, in quanto argomento

158L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

Interviews 1974-1994, Stanford University Press 1995, in particolare pp. 163-166. Derrida si occupa della medesima questione (in riferimento sia aLeibniz che ad Heidegger) in: Id., Sauf le nom, cit., p. 36.

27 Questa tesi viene sviluppata in dettaglio da C. Lafont, Heidegger, Language,and World-Disclosure, Cambridge University Press, Cambridge 2002. Lafontmostra come né il primo né il tardo Heidegger rinunciano al sistema tra-scendentale, che può essere tradotto in un sistema analitico. La tesi diHeidegger è, secondo la Lafont, che il significato determina il riferimento.

28 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 198.29 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 32.

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della nostra conversazione, deve già essersi rivelato, essersimostrato, deve essere già «tra noi», se volgiamo che il nostroparlarne ulteriormente abbia successo. Ora, ciò che devemostrarsi prima che cominciamo a parlare attivamente e che tra-sforma il dialogo in una forma di comunicazione umana informa di atto linguistico, non è soltanto un tema di conversa-zione, ma piuttosto il linguaggio stesso. Il linguaggio, in quantopossibilità di parlare e di dire qualcosa sulla natura del logosdeve mostrarsi, deve essere dato in quanto linguaggio, anche aprescindere dal nostro esplicito riconoscimento di questo stranofenomeno. Qualche cosa dev’essere già stata aperta per il nostrotentativo di riferirci a qualcosa. Il linguaggio, in altre parole,deve indicare se stesso, deve mostrarsi in quanto linguaggiodopo, durante e prima che noi parliamo. «Noi non soltanto par-liamo il linguaggio» per usare le parole di Heidegger, ma piut-tosto «siamo parlati dal linguaggio».30 Questa relazione, in cui illinguaggio stesso si mostra come qualche cosa che non può esse-re rappresentato e oggettivato, si sottrae al nostro tentativo dipensarla in termini di fondamento o causa. Il linguaggio perHeidegger è proprio quella dimensione del significato e delsenso a cui dobbiamo corrispondere e che dobbiamo ascoltareprima di poterne dire qualcosa. Non potrei dire qualcosa sullanatura del linguaggio se non avessi «accesso» (attraverso l’a-scolto) – in un forma diversa, non-rappresentazionale – al lin-guaggio. Ogni parlare di qualcosa è un dire e un indicare.Questo «indicare» non significa «indicare verso», ciò cheHeidegger intende esprimere è che prima dobbiamo pensare unatto di indicazione senza effettivamente indicare qualcosa. Il lin-guaggio permette alle cose di essere viste, è il mezzo nel cuiambito qualcosa può apparire e mostrarsi. «Il silenzio cheparla», quindi, per Heidegger vuol dire che ogni discorso con-tiene una dimensione «nascosta» e segreta in cui il linguaggio inquanto linguaggio si mostra e rende possibile ogni riferimento aqualcosa che è nel nostro mondo. Possiamo «rispondere» a essosoltanto restando in silenzio. Dobbiamo «ascoltare» ciò che è già«in atto». Quindi il silenzio è un momento del linguaggio ed èinterno al linguaggio. In questo modo, la teologia negativa

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30 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 200.

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(come modalità di discorso non affermativo) è presente nel pen-siero di Heidegger nella forma di relazione intima. Per Heideggerla via negativa non ha a che fare con il discorso storico sulla natu-ra di Dio e con i suoi legami con la metafisica, ma il momentonegativo per Heidegger è già sempre all’opera quando parlia-mo, perché il linguaggio è una modalità del mostrare (se stesso)senza necessariamente dire qualcosa a proposito qualcosa. Ciòche «si mostra» è il linguaggio stesso, in ogni articolazione e inogni schema significativo. Secondo Heidegger c’è un sola cosache si mostra di per se stessa, il linguaggio come condizionedella possibilità di parlare di qualcosa. Il linguaggio, per usarele parole di Heidegger, si appropria (ereignen) per mezzo di sestesso. L’Assoluto, quindi, non può essere trovato al di là deilimiti del linguaggio e della rappresentazione; dev’essere invecescoperto al di dentro, per così dire. Cercherò adesso di seguirequesto percorso, offrendo un esame dettagliato delle riflessionidi Derrida su questa questione.

Derrida, ovvero: parlare senza parlare

Diversamente dal suo contemporaneo francese Jean-LucMarion, Derrida segue Heidegger e rinuncia allo status dellateologia negativa in quanto teologia, trasformandola in un pro-blema che riguarda il linguaggio, il discorso e la rappresenta-zione. Date le condizioni del discorso filosofico dopo la svoltalinguistica, la strategia di Derrida sembra essere molto più pro-mettente di quella seguita da Marion. Derrida, come possiamoben vedere nei suoi due saggi How to avoid Speaking: Denials31 eSauf le nom,32 non sembra essere interessato affatto alla teologia,eccezion fatta per la trasformazione ironica e lo «slittamento»dei problemi teologici nelle procedure discorsive e nelle moda-lità del discorso, che possono essere analizzati linguisticamentee collocati all’interno del discorso decostruttivo.33 Derrida pro-pone le seguenti tesi:

160L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

31 J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, in: H. Coward – T. Foshay (a curadi), Derrida and Negative Theology, New York State University Press, NewYork 1991, pp. 73-142.

32 J. Derrida, Sauf le nom, cit.33 Visto dal di fuori, sembra piuttosto ironico che i teologi (cristiani) prendano

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1. La teologia negativa appartiene ancora alla metafisica;2. La teologia negativa è governata dall’assunzione di una

presenza assoluta;3. Il nucleo della teologia negativa riguarda non soltanto i

momenti di ogni atto linguistico; piuttosto, la teologia negativadescrive alcune delle condizioni del discorso e del logos stessi.

Le prime due affermazioni, considerate alla luce dell’analisiheideggeriana della storia della metafisica, sono alquanto bana-li e possono essere considerate semplicemente come tesi di natu-ra storica. Mi sembra comunque che il punto più interessante sialo spostamento realizzato nella terza tesi di Derrida, cioè la tesiche il discorso della teologia negativa non riguardi solo un pro-blema teologico, ma che si tratti piuttosto di un problema piùgenerale che concerne l’ordine del discorso e della razionalità.Se vogliamo raggiungere una comprensione adeguata del lavo-ro di Derrida bisogna notare che per poter istituire la terza tesi,Derrida utilizza una strategia che non concepisce il discorsodella teologia negativa come fenomeno storico. Proprio all’ini-zio di una sua conferenza tenuta a Gerusalemme, Derrida sotto-linea come la teologia negativa dovrebbe essere concepita comeuna «pratica testuale».34 Dobbiamo quindi mettere in conto chesin dall’inizio dell’analisi di Derrida, la teologia negativa vieneanalizzata in quanto forma linguistica, come scelta di un deter-minato atto linguistico, come modo del discorso, come una ese-cuzione e come una modalità di ecriture, il cui costituente pri-mario è la struttura e non il contenuto storico. Sembra ovvio chenella sua analisi Derrida non si preoccupa dei contesti teologicie filologici della teologia negativa; i testi vengono piuttostointerpretati e analizzati da un punto di vista linguistico e strut-

161CHRISTIAN LOTZ

in seria considerazione il decostruzionismo di Derrida. Sebbene Derrida trat-ti questioni di fede, della ragione, di argomenti messianici, tanto quanto dellareligione in generale, egli mantiene sempre una distanza ironica dal realedibattito teologico e «sposta» questo tipo di discorso verso categorie lingui-stiche. Per esempio, l’elemento messianico viene trasformato in un problemadi promessa, mentre la fede viene trasformata in una categoria che ha a chefare con le decisioni di ogni giorno e con un elemento di discorso in genera-le. Derrida, in un certo senso, razionalizza queste categorie e le pone nel-l’ambito di categorie umane generali o categorie linguistiche. In entrambi icasi il concetto di fede perde qualsiasi seria connessione con la cristianità.

34 Id., How to avoid Speaking: Denials, cit., p. 73.

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turale.35 Derrida afferma quindi che il discorso della teologianegativa è governato e determinato dall’interesse per un proble-ma filosofico e, dunque, che non presenta solo problemi teologi-ci e metafisici. Inoltre, la struttura della teologia negativa puòessere impiegata al fine di mostrare alcune condizioni universalidel discorso. Da questo punto di vista è ragionevole affermareche la teologia negativa (concepita come una forma di discorsouniversale) esprime il «divenire teologico di ogni discorso».36

Quindi il problema principale analizzato da Derrida è che la teo-logia negativa, se concepita in maniera adeguata, è caratterizza-ta da una «somiglianza di famiglia» con ogni forma negativa didiscorso.37 La strategia di Derrida è mostrare come il nucleorazionale della teologia negativa consiste in una struttura chedescrive e trattiene in sé le condizioni del linguaggio in generale, inparticolare quelle della forma di discorso tesa a esprimere lanegazione o il rifiuto. Ironicamente, negando e rifiutando che lateologia negativa tratti di questioni concernenti la teologia e ildiscorso medioevale, quanto piuttosto della razionalità in gene-rale, Derrida ripropone il problema principale della teologianegativa stessa. La tesi «la teologia negativa non è teologia» ripe-te la struttura di frasi come «la natura di Dio non è Dio». In altreparole, il modo in cui Derrida parla della natura della teologianegativa ripete il modo in cui la teologia negativa parla del pro-blema dello status di Dio.38 Il rifiuto della teologia negativa inquanto teologia conferma alcune delle sue caratteristiche gene-rali, ma non lo fa per mezzo di proposizioni, quanto piuttostomediante un atto di conferma.39 Qui, la dimensione performati-

162L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

35 Marion fa la stessa osservazione nel suo rifiuto dell’analisi di Derrida dellateologia negativa. Egli scrive: «in breve, per il decostruzionismo il proble-ma della teologia negativa non è in primo luogo la «teologia negativa», mail decostruzionismo stesso» (J.-L. Marion, In the Name: How to AvoidSpeaking of ‘Negative Theology’ with a Response of Jacques Derrida, in: J.D.Caputo – M.J. Scanlon (a cura di), God, the Gift, and Postmodernism, IndianaUniversity Press, Bloomington 1999, pp. 20-53, in particolare p. 22).

36 J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, cit., p. 76.37 Ivi, p. 74.38 De Vries caratterizza questa forma di lettura come «un’interpretazione

performativa» (H. de Vries, The Theology of the Sign and the Sign of Theology:The Apophantics of Deconstruction, cit., p. 191).

39 Per questa tesi si veda J. Derrida, Sauf le nom, cit., p. 39. Derrida si riferisce inquesto contesto al veritatem facere di S. Agostino e afferma che questa formadi discorso non appartiene «all’ordine della ragione conoscitiva» (ibidem).

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va, come Derrida sostiene continuamente nei suoi scritti, mina ladimensione constativa propria del discorso stesso.40 È questo ilpunto che adesso vorrei sviluppare più in dettaglio.

Una delle tesi di Derrida nell’ambito della filosofia del lin-guaggio può essere collocata all’interno di ciò che le considera-zioni di Nietzsche sulla natura del linguaggio, la teoria lingui-stica di Saussure, la pragmatica formale di Habermas, l’erme-neutica di Gadamer e la teoria dell’atto linguistico di Austinhanno scoperto negli ultimi secoli, cioè il recupero della dimen-sione performativa e retorica propria del linguaggio e deldiscorso. Secondo Derrida, come sostenuto nella sua discussio-ne con Searle sulla teoria degli atti linguistici di Austin e nellasua critica a Husserl, bisogna riconoscere questi due punti: (1) lafunzione performativa del linguaggio è assolutamente priorita-ria alla sua funzione preposizionale e dimostrativa; (2) l’autoco-scienza del soggetto non può essere concepita come una pienapresenza a se stesso. Le due osservazioni portano a una posi-zione «anti-mentalistica» per cui il significato si sottrae alla tra-sparenza del soggetto parlante o nella forma dell’intenzionalitào nella forma di una totale autocoscienza. L’appropriazione der-ridiana del discorso sulla teologia negativa fa parte della «svol-ta linguistica» francese.

La priorità del performativo

Ciò che la tradizione anglo-americana ha definito come«performativo» e «dimostrativo» ha trovato espressione nei ter-mini della tradizione francese cui Derrida appartiene mediantela distinzione di Saussure tra parole e langue. Parole, in quantodiscorso, ha in un certo una priorità rispetto alla langue in quan-to sistema di segni.41 Per farla breve, l’atto del parlare ha unapriorità rispetto al sistema del linguaggio dal momento che unsistema di segni può mantenere la sua identità di significato soloattraverso la ripetizione e la messa in atto del sistema stesso, come

163CHRISTIAN LOTZ

40 J. Derrida, Acts of Religion, Routledge, New York 2002, p. 256.41 Cfr. J. Derrida, Points: Interviews 1974-1994, cit., p. 28; H. de Vries, The

Theology of the Sign and the Sign of Theology: The Apophantics ofDeconstruction, cit., p. 178).

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sostiene Derrida nella sua discussione con Searle (questo puntonon è stato pienamente compreso da Searle).42 In questo contestoè importante notare che la ripetizione è possibile solo mediante lamessa in atto, poiché il sistema di segni e di termini da solo nonpuò conservare la propria identità unicamente in virtù di se stes-so. In buona sostanza noi abbiamo bisogno di parlanti che man-tengano vivo il linguaggio. Il discorso di Derrida sulla ripetizionedi una parola – ripetizione di cui abbiamo bisogno per produrre l’i-dentità del significato – sta a indicare che noi dobbiamo conti-nuamente pronunciare e attualizzare il sistema di regole gram-maticali del linguaggio.43 Detto altrimenti, il significato non è solouna funzione di un sistema di segni e della logica che va a istitui-re, ma affinché il significato sia possibile, parole e frasi debbonoessere realizzate e attualizzate per mezzo dell’uso. Il significatodelle parole e delle frasi può essere tale solo in forza del loro esse-re ripetute nel discorso, in reali atti linguistici. Anche l’argomentodel linguaggio privato di Wittgenstein porta a questa conclusio-ne. Se è vero che il significato non è una funzione di un sistemalinguistico (morto) di segni, ma della parte viva di un linguaggio,allora ne viene che il significato non può essere determinato pie-namente né dal soggetto parlante né dalla sua mente né dalla suaintenzionalità e nemmeno da una semplice analisi logica.44 C’è

164L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

42 Searle interpreta l’affermazione di Derrida come un tentativo di stabilireuna differenza tra discorso orale e scritto (cfr. J. Searle, Reiterating theDifferences: A Reply to Derrida, in: Glyph, n. 2/1977, pp. 198-208, in partico-lare p. 199). Comunque l’argomento di Derrida che i segni debbono essereripetuti significa che esiste una priorità del performativo rispetto al sistemalogico del linguaggio (cfr. J. Derrida, Points: Interviews 1974-1994, cit., p. 28).Entrambi i momenti del linguaggio, il performativo e il constativo, sonocostituiti dalla differenza, perché, certamente, ogni atto di discorso è giàdipendente dalla differenza tra questo atto di discorso e l’intero sistema dellinguaggio scritto e parlato. Ogni atto linguistico, ogni ricorrenza e ogniparola che leggiamo, modifica (in ogni momento) l’intero sistema del lin-guaggio. Per una discussione sulla performatività nella forma di dialogovedi l’intervista in: J. Derrida, Points: Interviews 1974-1994, cit., pp. 171-180.

43 Questo argomento è trattato principalmente nella teoria del significato diHusserl, nella quale, secondo Derrida, il significato è assolutamente pre-sente al pensiero. Ciò significa che richiede una teoria dell’assoluta auto-presenza della mente pensante a se stessa. Com’è noto Derrida attacca que-sta posizione particolarmente nel suo La voce e il fenomeno, Jaca Book,Milano 1984.

44 J. Derrida, Limited Inc., Cortina, Milano 1997, pp. 12-13.

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bisogno invece di una riflessione sulla parte performativa del lin-guaggio, cioè sulla sua espressione, sulla sua articolazione, suldialogo e sulla comunicazione. Questa intuizione relativa alladimensione sociale e pragmatica del linguaggio ci porta dirittialla prossima questione.

La tesi anti-mentalista

Come Derrida ha mostrato nei suoi primi scritti, per confuta-re le tesi di Husserl bisogna sostenere che il significato è, quan-tomeno in parte, il risultato del discorso (o di ciò che Derridachiama «scrittura») e che non bisogna concepirlo come risultatodi un soggetto che ha il pieno controllo sul significato mediantese stesso e i suoi atti intenzionali. In altre parole, la presenza a sestesso del soggetto, come viene analizzata principalmente daHusserl, diventa un problema per la filosofia del linguaggio,così come questa viene trattata dal decostruzionismo derridia-no.45 Il parlante non ha il pieno controllo del significato prodot-to per mezzo del discorso, sono invece il discorso e l’altro a col-locarsi qui al centro dell’attenzione. Per Derrida, come anche eraper Wittgenstein, non esiste in questo mondo un linguaggio pri-vato, dal momento che – nel sistema di Derrida – il significato èun risultato che si origina da qualcosa di altro rispetto alla inten-zionalità e al mondo mentale interno. Malgrado ciò, l’allontana-mento dal paradigma mentalista e dal soggetto come centro dellinguaggio non dovrebbe portarci all’erronea conclusione chegli altri a cui e con cui parlo abbiano il pieno controllo del signi-ficato prodotto dal mio discorso. In quanto essi stessi sono sog-getti alle medesime condizioni che, in ultima istanza, non soloportano a un infinito spostamento del significato prodotto nel-l’atto del parlare e a «catene di marche differenziali»,46 ma – inmaniera ancora più radicale – portano all’assenza di un signifi-cato ultimo o di un referente ultimo,47 dal momento che tutti ipartecipanti al discorso e alla produzione di significato sonoanch’essi soggetti all’altro. Questo altro, pertanto, non può esse-

165CHRISTIAN LOTZ

45 Id., Points: Interviews 1974-1994, cit., in particolare pp. 22; 25; 28.46 Id., Limited Inc., cit., p. 16.47 Id., Points: Interviews 1974-1994, cit., p. 19.

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re affatto rappresentato. Ogni tentativo di rappresentare l’altro ciconduce nuovamente alla costituzione di qualcosa che si sottraeal tentativo di rappresentarla nella mente intenzionale o permezzo del discorso. Come possiamo facilmente constatare, que-sto pensiero ricorda molto l’analisi di Heidegger. Come noto,nei primi scritti di Derrida questo «processo di significazione»48

viene indicato come «differance», termine che esprime l’idea percui non vi è qualcosa come un significato «puro». «Ogni segnolinguistico – come dice De Vries – è fondamentalmente arbitra-rio».49 Certamente il pensiero di qualcosa che si sottrae al tenta-tivo di parlarne porta a paradossi come la contraddizioneperformativa secondo cui colui che afferma la non esistenza diun qualche significato ultimo, fa in ogni caso un’affermazionedotata di significato. Vorrei chiarire meglio quest’ultimo punto.Per Derrida ogni parlare e ogni scrivere restano in uno stato diindefinita apertura e non possono mai giungere a conclusione,perché, se così non fosse, dovremmo supporre l’esistenza di unelemento in grado di concludere il discorso e di farci smettere diparlare di qualsiasi cosa per sempre. Ad ogni buon conto, laforma conclusa e tuttavia sempre ancora aperta a livello di prin-cipio di ogni discorso non è affatto qualcosa di negativo. Direche non esiste un significato ultimo non vuol dire che tutte leoccorrenze linguistiche perdano il loro significato, quel che siverifica è piuttosto il contrario. Dire «non esiste un referenteultimo» è per Derrida la condizione di un discorso significativoe razionale.50 Certamente si tratta di una situazione paradossa-le: da una parte noi presupponiamo che in ogni dialogo e in ognicomunicazione ci sia un significato ultimo; dall’altra questo èpossibile solo perché noi presupponiamo che non ci sia un signi-ficato ultimo. Affermazione l’esistenza di un significato ultimodipende dalla condizione per cui questo significato non ci sia, in

166L’ASSOLUTO POSTMODERNO. HEIDEGGER,DERRIDA E I LIMITI INTERNI DEL LINGUAGGIO

48 Ivi, p. 31.49 H. de Vries, The Theology of the Sign and the Sign of Theology: The Apophantics

of Deconstruction, cit., p.168.50 Per il problema della traduzione che emerge da quest’insieme di questioni

si veda J. Derrida, Points: Interviews 1974-1994, cit., p. 20. La posizione diGadamer implica, sebbene non in modo così radicale come quella diDerrida, simili conseguenze, cioè un’infinita proroga del significato ultimo;cfr. Dionigi Areopagita, Teologia mistica, cit.

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quanto, qualora ce ne fosse uno, noi non parleremmo. Non cisarebbe alcun desiderio di parlare, non ci sarebbe alcuna neces-sità di dire qualcosa, di chiarire qualcosa o di entrare in quellainfinità che caratterizza ogni discorso. Questo ci riporta alla teo-logia negativa: ogni atto di discorso, sebbene affermi che esisteun significato, deve affermare anche che questo non ci sia, altri-menti l’atto linguistico non potrebbe esistere. Se tutto fosse giàchiaro noi non avremmo nulla da dire. Derrida ripropone dicontinuo questa incursione nella via negativa nell’ambito dellafilosofia del linguaggio, a partire dai suoi primi scritti filosoficifino alla sua più recente produzione, compresa la conferenza inmemoria di Gadamer del 2003. Come egli ha sostenuto controGadamer in questa conferenza, discorso, interpretazione e com-prensione dell’altro sono condizionate da qualcosa che è radi-calmente assente dal discorso e che è anche radicalmente altrodal discorso, ma che dev’essere tuttavia presupposto al discorsoaffinché esso funzioni correttamente. Come scrive Derrida, laprassi della scrittura decostruttiva prende in considerazionequesto altro e

si dirige verso un ricordo o un’accusa di irriducibile eccesso.L’eccesso di questo ricordo sfugge a ogni tentativo di afferramentoermeneutico. Questa ermeneutica è resa necessaria e possibile, dal-l’eccesso […] senza questo ricordo non ci sarebbe nemmenoAnspruch, ingiunzione, chiamata, provocazione.51

Come tale «l’eccesso» è ciò che resta estraneo in ogni tentati-vo di comprensione e determinazione piena del significato, nonpuò essere né rappresentato né oggetto di riferimento. Restaestraneo a ogni discorso e non può essere oggetto di mediazio-ne. Se assumiamo che la parte performativa del linguaggioabbia la preminenza rispetto alla sua parte proposizionale, com-prendiamo allora che il punto di vista generale di Derrida è,parimenti a quello dell’ultimo Wittgenstein, di Heidegger e delpragmatismo, radicalmente anti-mentalista.52 Proprio nel

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51 J. Derrida – H.G. Gadamer, Der ununterbrochene Dialog, Suhrkamp,Francoforte 2002, p. 29.

52 Cfr. R. Sonderegger, A Critique of Pure Meaning: Wittgenstein and Derrida, in:European Journal of Philosophy, n. 2/1997, pp. 183-209.

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momento in cui ci rendiamo conto che il discorso è importantetanto quanto il sistema logico del linguaggio, dobbiamo rico-struire l’intero problema del significato come un problema diintersoggettività e, più in generale, dell’alterità. Perché parlia-mo? La risposta di Derrida è: l’atto del parlare dipende da qual-cosa d’altro rispetto a se stesso, qualcosa che comunque non sicolloca al di fuori di esso. Quindi, per Derrida, non può esisterealcun discorso puramente negativo, e nemmeno può esistere undiscorso puramente affermativo. Il discorso stesso è possibilesoltanto perché ciò che cerca di fare è impossibile. Ogni atto lin-guistico cerca in buona sostanza di dire qualcosa di definitivoriguardo a qualcosa, ma non può farlo perché se ci fosse in que-sto mondo qualcosa di cui potessimo dire qualcosa di definitivo,non ne parleremmo. Non ci sarebbe alcuna necessità né motivodi parlarne. Non appena parliamo ci troviamo coinvolti in que-sto paradosso. Anche la frase che dovremmo tacere, la frase suciò di cui non possiamo parlare, è coinvolta in questo parados-so. L’ultima celebre affermazione del Tractatus di Wittgensteinesprime sia il suo tentativo di indicare ciò che va al di là delmondo dei fatti, sia la ricezione dell’esperienza mistica.53

Paradossalmente Wittgenstein stesso cade vittima di un para-dosso, dal momento che con questa affermazione egli parla diciò di cui non si può parlare, nello stesso atto con cui affermache non si può parlare di ciò di cui non si può parlare. La stessacosa deve dirsi a proposito dell’origine storica del pensiero diWittgenstein, che si trova in Dionigi Areopagita, il quale affermadella causa suprema che «non è né parola né pensiero; non si puòesprimere né pensare».54 Paradossalmente la frase di Dionigi

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53 Il Tractatus di Wittgenstein è spesso citato come il più famoso testo chemostra la ricomparsa del misticismo in filosofia. Come hanno mostratomolti commentatori di Wittgenstein negli ultimi decenni, i commenti diWittgenstein sul misticismo e il Tractatus sono profondamente influenzatidalla sua religiosa visione del mondo e dall’impatto «esistenziale» sui suoiscritti. Mentre lavorava al Tractatus Wittgenstein leggeva il breve lavoro diRussell Logica e Misticismo, il Il viandante cherubico di Silesio e Varietà delleesperienze religiose di James, tutti questi scritti si rispecchiano nella costru-zione dell’intero Tractatus come una scala che bisogna salire per vedere ilmondo in maniera differente. Sul misticismo di Wittgenstein vedi B.McGuiness, Approaches to Wittgenstein: Collected Papers, Routledge, Londra-New York 2002, in particolare pp. 140-177.

54 Dionigi Areopagita, Teologia mistica, cit., p. 414.

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Areopagita è uno dei migliori esempi del tentativo di compren-dere la natura di Dio, della causa suprema, come pure del fattoche egli sta già parlando in qualche modo di Dio, della causasuprema. Questa affermazione, per usare le parole di Derrida,decostruisce se stessa. Questo problema viene trattato efficace-mente in una sua lezione sulla teologia negativa:

nel momento in cui la questione di «come evitare di parlare?» vienesollevata e si articola in tutte le sue modalità – in forma retorica ologica o nel semplice atto del parlare – è già, per così dire, troppotardi […] Ciò che l’ha chiamata in causa o l’ha resa possibile è giàavvenuto55

Ciò che la teologia negativa in generale cerca di esprimere,quindi, è soltanto la situazione paradossale del nostro parlare ingenerale. In poche parole, il parlare necessita del parlare. C’èsempre la possibilità di dire qualcosa su ciò di cui non è possi-bile dire qualcosa.

Inoltre, per quanto riguarda il nostro impegno nel parlare,Derrida segue la stessa strategia di «spostamento». Ogni attoperformativo per lui è già dipendente da qualcosa che precedeogni atto linguistico e che – nella forma di una condizione – lochiama in essere. Inoltre, a causa di questo impegno, l’atto lin-guistico e il discorso, il parlare in generale, sono una risposta aciò che è altro dal parlare.56 Comunque, ciò che è altro dal par-lare non è al di fuori del parlare. Di conseguenza, nel parlarerispondiamo al parlare. Dobbiamo parlare per mostrare ciò chesi sottrae al tentativo di rappresentarlo e di mostrarlo. La diffe-renza tra iniziare un discorso (ho il desiderio di parlare) erispondere (il mio attuale parlare) può anche essere compresacome una promessa. Ogni impegno che mi impegna a parlare diqualcosa è, allo stesso tempo, una promessa di parlare, in qual-che momento del futuro. Ad ogni modo, ogni volta che abbiamoil desiderio di parlare di qualcosa, qualunque cosa, è troppotardi perché stiamo già parlando.57 Questa struttura per Derrida

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55 J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, cit., p. 97.56 Id., Acts of Religion, cit., p. 232.57 Ciò somiglia al riferimento di Heidegger alla favola dei Grimm Il porcospi-

no e il leprotto (cfr. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 29). Il tentativo

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«somiglia»58 alla «promessa» della teologia negativa di parlaredi Dio nonostante essa affermi l’impossibilità di parlare di Dio.59

Ciò di cui effettivamente tratta la teologia negativa per Derridanon è quindi nulla di straordinario; assomiglia piuttosto sem-plicemente alla struttura generale del discorso. Per chiarire que-sto punto dobbiamo considerare che per Derrida ogni atto lin-guistico è una promessa, cioè, anche l’atto linguistico esplicito«prometto di fare «p»» è già dipendente da qualche cosa che iovoglio dire quando inizio a parlare. Ogni inizio è allo stessotempo una promessa, perché ogni inizio di discorso è una pro-messa di dire qualcosa. Ogni frase, analizzata come atto lingui-stico e come parola, mi ha rimandato al futuro ancora prima cheio cominci a parlare.60 Di conseguenza, quando comincio a par-lare – anche se decido di non parlare – ho già parlato e ho per-tanto promesso di dire qualcosa. Il silenzio, in altre parole, è unmodo di parlare. Ogni riferimento al silenzio deve essere unanegazione poiché sta già parlando.61 Di conseguenza Derridaafferma:

anche se uno parla e non dice niente, anche se un discorso apofanti-co priva se stesso di un significato o di un oggetto, questo discorsoavviene. Quel che l’ha richiesto, o lo ha reso possibile, è avvenuto62

A quali conseguenze ci porta l’analisi di Derrida dei parados-si insiti nell’atto del parlare e nella teologia negativa? Pare cheDerrida voglia portare il lettore al punto di sperimentare l’im-

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di parlare dell’Essere si realizza troppo tardi, per così dire, perché l’Essereè già presupposto a quest’atto linguistico.

58 J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, cit., p. 85.59 Cfr. Ivi, p. 83: «in effetti, nel momento in cui prometto di parlare un giorno

della teologia negativa, ho già iniziato a farlo».60 Questo ci porta, ovviamente, alla considerazione del messianico di Derrida,

sebbene non sia in grado di trattarla in questo saggio, il massimo che possofare è offrire la seguente citazione: «ciò che conta soprattutto per Derrida –dice Caputo – è ciò che non è né presente né dato, ciò che strutturalmentenon è mai né presente né dato, la cui presenza o «datità» è sempre di là davenire», cfr. J.D. Caputo, Apostles of the Impossible. On God and the Gift inDerrida and Marion, in: J.D. Caputo – M.J. Scanlon (a cura di), God, the Gift,and Postmodernism, Indiana University Press, Bloomington 2002, pp. 185-222, in particolare p. 199.

61 J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, cit., p. 95.62 Ivi, p. 97.

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possibilità di non parlare. Non si può evitare di parlare, perchémentre lo si fa si sta già parlando, rispondendo al desiderio dinon parlare. Così, semplicemente si parla.

Da tutto ciò possiamo comprendere perché Derrida nella suadiscussione con Marion a proposito della teologia negativarifiuta in maniera esplicita la via affermativa con cui Marioncerca di ricostruire la teologia negativa,63 e inoltre possiamoanche comprendere perché egli rimanga scettico a propositodella lotta di Heidegger con ciò che resta irrappresentabile nel-l’ordine del discorso.64 Derrida, per quanto si possa non condi-videre il suo progetto filosofico generale (ammesso che ne abbiauno), è coerente rispetto a quanto segue: egli sostiene la tesi chel’Assoluto è un’esperienza di qualcosa di impossibile, ossia ilnon parlare. Nel nostro (impossibile) tentativo di non parlare,l’assoluto, che è parlare, si mostra.65

Conseguenze: l’assoluto postmoderno, il linguaggio e il nonrappresentabile

Facciamo un passo indietro e torniamo lì da dove eravamopartiti. Che cosa possiamo imparare dai tentativi heideggerianie derridiani di cogliere i limiti della rappresentazione dall’inter-no del linguaggio stesso? La lezione storica dovrebbe essereritrovata nel loro rivolgersi a questioni di carattere linguistico esemantico, che acquistano una posizione centrale nelle loro teo-rie. Di conseguenza, tanto Heidegger che Derrida rinunciano in

171CHRISTIAN LOTZ

63 J.L. Marion – J. Derrida, On the Gift: A Discussion between Jacques Derrida andJean-Luc Marion,» in: God, the Gift, and Postmodernism, Bloomington: IndianaUniversity Press, Bloomington 1999, pp. 54-78, in particolare p. 64..

64 Cfr. J. Derrida, How to avoid Speaking: Denials, cit., pp. 124-128.65 Secondo il contemporaneo di Derrida, J.-L. Marion, Dionigi e tutti gli altri

teologi negativi cercano di fare qualcosa di possibile. Comunque, se seguia-mo Derrida, allora dobbiamo rifiutare il tentativo di Marion di riscoprire ildiscorso della teologia negativa nella sua purezza e significatività. Inoltre,Marion afferma che c’è un modo di arrivare dalla fenomenologia alla teolo-gia che, come egli afferma, può essere trovato nel principio della fenomeno-logia di Husserl. Il tentativo fenomenologico di ritornare alla pura «datità»,secondo Marion, ci può portare alla questione di una «donazione», all’inter-no della quale la questione di Dio riappare nella sua forma negativa; vedi J-L. Marion, Metaphysics and Phenomenology: A Relief for Theology, in: CriticalInquiry, n. 20/2004, pp. 572-589, in particolare pp. 580-582.

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ultima analisi a ogni riflessione sostanziale che riporterebbe alregno dell’onto-teologia, cosa che li separa dal tentativo diMarion di reintrodurre la questione di Dio nel discorso filosofi-co.66 La ricerca di un Assoluto che si sottrae al moderno sistemadi calcolo e rappresentazione in Heidegger e in Derrida rimaneambiguo, poiché tutti e due sostengono che l’unica maniera dioltrepassare la metafisica si colloca all’interno della metafisicastessa. In altre parole, mostrano come la rappresentazione abbiabisogno di un elemento interno che non è rappresentazione.Paradossalmente, come si è visto, il problema di un qualcosa chenon è rappresentabile ci riporta al discorso della teologia. Inparticolare, dobbiamo concludere che la teologia negativa è pos-sibile solo come filosofia del linguaggio. Il linguaggio, potrem-mo dire, diventa il segreto assoluto nei tentativi di Heidegger eDerrida di pensare al di là dei tradizionali sistemi metafisici. Aloro modo, l’ontologia heideggeriana e il decostruzionismo trat-tano di ciò che Wittgenstein aveva inteso quando faceva presen-te la necessità di scagliarsi senza sosta contro i limiti del nostrolinguaggio. Il progetto della teologia negativa di parlaredell’Assoluto in forma di negazione è privo di significato, dalmomento che non è possibile affermare che l’Assoluto è, comein effetti afferma Dionigi Areopagita: esso «è sciolto in manieraassoluta e da tutto e sta al di sopra dell’universo».67 In effettibisogna parlarne, farvi riferimento e, quindi, farlo rimaneresempre nell’ambito di ciò che è limitato, che poi è il linguaggiostesso. «Non c’è pensiero – sostiene Derrida – al di fuori di unqualche linguaggio».68

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66 J.-L. Marion, Introduction: What do we mean by ‘Mystic’?, in: M. Kessler – Ch.Sheppard (a cura di), Mystics. Presence and Aporia, Chicago University Press,Chicago 2003, pp. 1-8, in particolare p. 4.

67 Dionigi Areopagita, Teologia Mistica, cit., p. 414.68 J. Derrida, Points: Interviews 1974-1994, cit., p. 225.

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TTereresa Bresa Brennan:ennan:

enerenerggeetica e pattica e patologiaologia

diBettina Bergo

ÈÈ sorprendente come TheInterpretation of Flesh [L’in-

terpretazione della carne]1 di Teresa Brennan – opera apparsaormai da più di dieci anni, il cui contenuto è stato dall’autricestessa più volte ripreso e ritoccato in lavori successivi, svilup-pandone le implicazioni politiche e sociali – non abbia avutoun’influenza determinante nel percorso di riscrittura dei canonidella psicoanalisi alla luce della dibattuta e spesso controversaquestione della cosiddetta «energetica». The Interpretation ofFlesh si basa su tre ipotesi, che la Brennan cerca di legittimarecon il ricorso all’evidenza empirica.

La prima ipotesi è che «l’enigma della femminilità» di Freud,un termine che Freud stesso impiega in una discussione sullafemminilità nel periodo immediatamente successivo alla PrimaGuerra Mondiale, possa trovare una soluzione proprio grazie auna posizione teorica che lo stesso Freud si trovò ad avanzare,ossia l’energetica, per poi lasciarla cadere a partire dalla stesuradel Progetto di una Psicologia Scientifica (1895).

La seconda ipotesi, che i teorici del genere definiscono «ses-sualizzazione», viene elaborata certamente su base sociologica,anche se non è interamente riducibile a quest’ultima. La nozio-ne di sessualizzazone si origina da due momenti inerenti lo svi-luppo. Il primo momento è di tipo kleiniano e consiste nellarepressione di un’iniziale allucinazione infantile del seno (iden-tificazione Io=seno) che si sviluppa nella primissima sincroniz-

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1 T. Brennan, The Interpretation of Flesh: Freud and Femininity, Routledge,Londra 1992.

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zazione con lo sguardo materno, una sintonizzazione intersog-gettiva e precede la formazione dell’ego. Il secondo momento,collocabile intorno alla «fase edipica» di Freud, consta di unsecondo intreccio di sguardi, l’intreccio con lo sguardo delpadre (o terza parte), che provoca un conseguente ridireziona-mento dell’attenzione del neonato. In poche parole, la sessualiz-zazione si costituisce a livello fisico, anche se, per effetto del suosviluppo disfasico, sembri essere innata.

La terza ipotesi prevede che questa costituzione (o elabora-zione duale) possa verificarsi, plausibilmente, soltanto se siaccettano altre due posizioni, che vengono legittimate da TeresaBrennan come segue: in primo luogo a livello dello sviluppo – ecertamente a livello esistenziale – nessuno è sin dal principio unindividuo autocontenuto e monadico. La nozione di individuo,come in-dividuum, è una nozione la cui storia – anche politica edeconomica – risale al XVII secolo ed è tipica della cultura occi-dentale.2 Per quanto concerne la seconda posizione, se conside-riamo i soggetti come provvisti di legami mobili, che si costitui-scono in modo dinamico e intersoggettivo, allora ci troviamo adaver a che fare con qualcosa di simile ai campi di attenzione inazione descritti da Merleau-Ponty, invece che con i soggetti del-l’azione concepiti unitariamente nel corpo della storia del pen-siero occidentale, fatta di persone in quanto individui. Questicampi dinamici di attenzione agiscono «endogeneticamente» trasoggetti. L’attenzione può essere, e di fatto è, diretta verso l’e-sterno o verso l’interno; inoltre, la direzione dell’attenzioneviene stabilita in larga misura a livello inconscio e viene influen-zata da una molteplicità di fattori come gli altri esseri umani ole idee. Le idee – insiste giustamente la Brennan – sono fattori«fisici»: producono effetti sui corpi, impiegano un certo tempoper radicarsi, sono in grado lasciare un segno su atteggiamentie posture. Sono qualcosa di simile al concetto di «abitudine» diclasse sviluppato da Pierre Bourdieu.

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2 Vincent Descombes ha recentemente analizzato questa storia alla luce del-l’azione e dell’iniziativa umana. Il suo lavoro V. Descombes, Le complèmentdu sujet: Enquete sur le fait d’agir de soi-meme, Gallimard, Parigi 2004, contie-ne un’eccellente discussione del «matrimonio» artificiale del soggetto dellafilosofia moderna con il soggetto dei diritti fondamentali. Cfr. V.Descombes, L’humanisme Juridique,in: Id., op. cit., pp. 401-408.

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I campi dinamici di attenzione sono vettoriali, modulati e pos-siedono un’estensione, ma è chiaro che possono anche galleggia-re sospesi tra due persone, agendo su entrambe in modi impre-vedibili. Questa tipologia di campi sta chiaramente in relazionecon i movimenti degli sguardi – in proposito si sono pronuncia-ti ampiamente anche Lacan e Sartre, che hanno scritto circa ilguardare e l’esser-guardati, anche a livello della fantasia, daoggetti di ogni genere (cfr. l’occhio «lattina» di Lacan). Quel chepiù importa sottolineare qui è che i campi di attenzione sono por-tatori di correlazioni energetiche: bisogna impiegare un’energiafisica per dirigere la propria attenzione verso l’interno e mante-nere questa direzione. Il neonato deve utilizzare un’energia fisi-ca per reprimere l’iniziale allucinazione che precede e rende pos-sibile la percezione umana. In breve, il lavoro della Brennanesplora «l’attenzione vivente» alla luce della sua priorità sui varipostulati soggetto-oggetto o soggetto-soggetto. La Brennan riela-bora la nozione di attenzione alla luce del concetto di energia fisi-ca – la medesima energia neuro-psicologica che la neurologia egli studiosi dei modelli del cervello, da Mark Solms a RobertShulman e altri, sono attualmente impegnati in ricerche condot-te sulla base di dati osservativi come i livelli di glucosio metabo-lico e di consumo d’ossigeno a livello cerebrale.3 Questo approc-

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3 Vedi, tra gli altri, il rifiuto da parte di Robert Shulman e Douglas Rothmandella creazione di mappe cerebrali basate sulla supposizione dellaPsicologia Cognitiva che l’attività cerebrale sia legata a certi compiti chepossono essere isolati dall’attività cerebrale nel suo insieme, ed estratti dal-l’attività in un mero «stato di riposo». Shulman e Rothman propongonouna concezione olistica degli stati di coscienza, misurabili nel cervello permezzo di esami PET e dell’utilizzo dei livelli metabolici di glucosio cere-brale, piuttosto che la ricerca di aree localizzate nel cervello che corrispon-derebbero ad attività specifiche altamente localizzate – approccio esploratodai cognitivisti. Essi sotengono che il cervello, come la mente, è una dina-mica olistica, e che la coscienza presuppone attività inconsce all’interno diuna più vasta cornice di attività cerebrali. In questo loro approccio si avvi-cinano maggiormente alla psicoanalisi che alla Psicologia Cognitiva emostrano la rilevanza, per l’attenzione, dell’attuale attività cerebrale, con-siderata localmente e globalmente. In questo modo il loro lavoro si apre allanotevole ricerca di Jean-Pierre Changeux, che sostenne «che i processi men-tali, indotti internamente da un soggetto (pensieri ed immagini mentali)sono i medesimi di quelli indotti da stimoli esterni.» Le teorie modularidella mente, basate su supposizioni non dimostrate nella PsicologiaCognitiva, si inseriscono nella struttura di localizzazione che si trova, neldiciannovesimo secolo, in lavori come quello di Hughlings Jackson. Il lavo-

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cio di nuovo tipo alla vecchia energetica ha evidentemente ilpotere di sedurre o generare repulsione. Lo psichiatra DavidForrest, ad esempio, segue sia la psicoanalisi che lo studio deimodelli neurobiologici sulla base dell’ipotesi che «la nostra evo-luzione ha messo in sintonia le nostre menti le une con le altre»– una concezione decisamente brennaniana.4

La nozione di attenzione di Teresa Brennan ha seguito uncorso stranamente parallelo a quello di alcune ricerche fenome-nologiche sviluppate da Maurice Merleau-Ponty. Certamente, sela Brennan fosse vissuta tanto da completare e ampliare la suaultima opera, The Transmission of Affect, Merleau-Ponty vi avreb-be occupato un posto di rilievo, poiché lei era ben consapevoledel suo contributo e avrebbe potuto accedere, nel 2003, ai suoiseminari sulla passività.5 Già nei Prolegomeni alla Percezione,Merleau-Ponty ha anticipato, in chiave epistemologica, il con-cetto di attenzione proprio della Brennan. Non dobbiamo faraltro che prendere in considerazione quegli atti che Merleau-Ponty indica come il «far apparire, grazie all’attenzione, feno-meni che, nel momento stesso in cui rompono l’unità dell’og-getto, la ristabiliscono in una dimensione nuova», o anche comela «costruzione attiva di un oggetto nuovo che esplicita e tema-tizza ciò che prima era offerto solo a titolo di orizzonte indeter-minato».6 Nel caso dell’attenzione del neonato, l’oggetto unifi-cato è un io incipiente, ciò che la Brennan definisce come

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ro di Shulman si basa sul calcolo dell’uso metabolico da parte del cervellodi sostanze come il glucosio, ma si preoccupa anche di misurare (cosa che icognitivisti non fanno) i cambiamenti nel livello di attività neuronale – oattività di neurotrasmissione. Rende quindi possibile il calcolo del dispendioenergetico ed una concezione olistica dell’attività mentale, comprendente glistati mentali interni e le reazioni a stimoli esterni. Cfr. R. Shulman – D.Rothman, Freud’s Theory of the Mind and Modern Functional ImaginingExperiments, in: P. Brooks – A. Woloch (a cura di), Whose Freud? The Place ofPsychoanalysis in Contemporary Culture, Yale University Press, New Haven2000), pp. 267-274.

4 Cfr. D.V. Forrest, Freud’s Neuro-mental Model: Analytic Structures and LocalHabitations, in: Brooks e Woloch, op. cit., pp. 255-266, in particolare p. 264.

5 M. Merleau-Ponty, L’Institution dans l’histoire personelle et publique ; LeProbleme de la Passivitè – Le Sommeil, l’iconscient, la mèmoire: Notes de cours auCollège de France (1954-1955), Belin, Parigi 2003.

6 M. Merleau-Ponty, L’attenzione e il «giudizio», in: Id., Fenomenologia della per-cezione, Bompiani, Milano 2003, pp. 63-94, citazione p. 68.

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«momento di fissità». Discuterò questo elemento tra poco.Adesso vorrei sottolineare come il concetto di attenzione possie-de una propria storia filosofica e una propria legittimità, cheviene sempre più riconosciuta. La Brennan non ha sviluppatouna fenomenologia completa dell’attenzione perché l’oggettodella sua prima grande opera, The Interpretation of Flesh, è il gio-vane Freud. Ma lei è anche vicina al lavoro di Henri Bergson, chenegli anni della sua maturità (1919), si è soffermato sulla «ener-gia spirituale» – più o meno nel periodo in cui Freud stava ricon-siderando il problema della femminilità. L’attenzione, secondoBergson, si accompagna alla percezione e al giudizio, ma è piùricca e variegata dell’attività neurocerebrale che la sostiene. Gliargomenti vitalisti di Bergson in proposito sono sufficienti amostrare come, a suo avviso, «il cervello è l’organo dell’attenzio-ne nei confronti della vita».7 Questa definizione è importante per laBernnan, che vede nell’abbandono freudiano dell’energetica enel suo mancato sviluppo di un’energetica non meccanicisticaeffetti disastrosi per le sue riflessioni sulla femminilità e lamascolinità, sia per il significato dell’intersoggettività.

Considerata la sua minuziosa rilettura di Freud, che coprel’intero corpus delle sue opere, e la sua fondazione della suasoluzione di quel che possiamo considerare come l’enigma della

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7 E. Bergson, L’energie spirituelle, Parigi 1919, p. 47. Questo lavoro di Bergson,piuttosto tardo e non molto apprezzato mostra un argomento che si collo-ca in rotta di collisione con la versione del parallelismo psico-fisico cheabbiamo ereditato, in forme progressivamente impoverite, come egli stessoafferma, dal pensiero di Descartes. La mente lavora, in un certo senso, comeuna sinfonia, variegata e ricca, ma che dipende dai movimenti della bac-chetta del direttore d’orchestra. Nel nostro caso, la bacchetta sarebbe l’atti-vità del cervello, o cerebrum, per esprimersi con le sue parole. Perciò «l’at-tività cerebrale è, per l’attività mentale, ciò che la bacchetta del direttore èper la sinfonia. La sinfonia supera, sotto tutti i punti di vista, quei movi-menti che la dirigono; allo stesso modo la vita della mente eccede quella delcervello». Comunque, aggiunge sempre Bergson, «il cervello proprio per-ché sa estrarre dalla vita della mente tutto ciò che può essere suonato (comein una sinfonia), per mezzo del movimento e della materializzazione, pro-prio perché costituisce, in questo senso, il punto di intersezione tra la mentee i fatti, assicura, in ogni istante, l’adattamento della mente alle circostanzee mantiene la mente costantemente in contatto con la realtà. Il cervello nonè quindi l’organo del pensiero, del sentimento o della coscienza; ma è necessarioaffinché coscienza, sentimento e pensiero restino rivolti all’esterno, verso lavita reale e, di conseguenza, siano capaci di un’azione efficace».

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femminilità sul primo modello neurologico del pensatore tede-sco, non è possibile incolparla di aver ignorato il contributo diMerleau-Ponty o di altre critiche dell’empirismo e del razionali-smo, in favore di una concezione fenomenologica o vitalisticadell’attenzione. Aveva promesso di ritornare sul concetto mer-leau-pontyano di «chair» (carne), e questo è una ulteriore ragio-ne per sentire ancor più la sua scomparsa come una perdita. Adogni modo, in un momento in cui le discipline ibride e le discus-sioni interdisciplinari diventano sempre più di moda, l’energe-tica sembra essere nulla più di una lettera morta. Il problemacon cui si è misurata la Brennan è comprendere come poter inse-rire l’energetica nel quadro di una logica non-meccanicistica etotalizzante.

L’argomento della Brennan

The Interpretation of Fleshè un’opera che si pone in dialogo conl’intero corpus delle opere freudiane e nel corso di questo dialo-go, effettivamente, risolve l’enigma della femminilità. L’enigma –sostiene la Brennan – affonda le proprie radici nella secondatopica di Freud, in cui il complesso di Edipo, che cementa ilbisogno di Freud di ancorare la sessualizzazione alle differenzeanatomiche, come la percezione del pene o quella della suamancanza, va a fondare l’esperienza della castrazione e questa,a sua volta, apre due percorsi di sviluppo, quello dell’ego equello del super-ego, quello maschile e quello femminile.Scrivela Brennan:

dovrei sottolineare nuovamente che il mio principale interesse nonsono le condizioni reali della sessualità femminile, quanto piuttostose l’indagine della metapsicologia di Freud e della teoria dell’egopossono rendere conto dei segni patologici della femminilità sianelle donne che negli uomini8

Diversamente dalle assunzioni semplicistiche che si possonotrarre, l’enigma della femminilità non riguarda solo le donne. Sitratta di un enigma che riguarda una condizione particolare: la

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8 T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 17.

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femminilità come narcisismo patologico o «involuzione», lafemminilità come sviluppo precario delle capacità di giudizio edi giustizia. Ne va della femminilità come della generica inca-pacità di dirigere le energie verso la trasformazione del mondoe del sé. In proposito la Brennan scrive:

la femminilità, per Freud, è [...] un termine specifico [...] piuttostoche un termine generico che designa uno dei due sessi9

L’autrice ci ricorda in questo modo che questo enigma sorgedal ripetuto incontro di Freud con alcuni aspetti della patologiadella femminilità tanto negli uomini quanto nelle donne, cosa chelo portò a diagnosticare anche negli uomini casi di isteria, comepure di rigidità caratteriale, di permeabilità alle illusioni, ecces-siva disposizione alle fantasie e masochismo. Nell’affrontare l’e-nigma della femminilità come uno stato di evoluzione psico-dinamica, nel restituire forza agli argomenti di Freud e Breuersulla condizione dell’isteria (condizione definita essa stessa«femminilità»), che è una condizione di fissazione sul passato edi mancanza di energia sufficiente a liberarsi dalla stretta dellefantasie inconsce, nell’affrontare tutto questo la Brennan conce-pisce una soluzione di questo enigma basata sul ripristino delleinfluenze fisiche, ma non biologiche, sull’organismo e su unintreccio tra il primo e il secondo argomento di Freud.10 A que-sto proposito è interessante prendere in considerazione ancorauna volta cosa scrive la Brennan:

l’attenzione di Freud per la fisica puntava nella giusta direzione, e [...]le sue assunzioni hanno portato ad una fisica completamente diver-

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9 Ivi, p. 7.10 Esiste una tendenza ad assimilare automaticamente i concetti di donna e di

femminilità, e raramente si suppone che qualcuno, prima dei costruzionistisociali, possa aver fatto diversamente. Ciò accade in parte perché, come sot-tolinea la Brennan, dati i significativi cambiamenti nella metapsicologia diFreud, la sua concezione di femminilità divenne «sempre meno il resocontodi uno stato fisico in entrambi i sessi e sempre più una teoria specifica dellasessualità femminile». Abbandonare la questione della femminilità comecondizione, implica l’insorgere di una nuova difficoltà nell’interpretazionedegli atteggiamenti femminili nella sessualità maschile: quella di determina-re «se veramente esista un oggetto «uomo», un’identità «uomo»» (ivi, p. 7).

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sa [...] che ci consente di pensare i processi fisici in termini diversi daquelli riduzionisti [...] di fatto, si assume spesso che la credenza diFreud negli aspetti fisici ed economici dei processi psichici che eglidescrive, implichi [...] un riduzionismo biologico: sarebbero fattorimateriali a determinare i processi psichici. Il fatto che la fisica e la bio-logia abbiano implicazioni deterministiche molto differenti, nonviene preso in considerazione da questo tipo di critica11

Se questa massiccia riabilitazione delle implicazioni della fisicaper l’economia della psiche ha portato la Brennan a tralasciare lapsicologia fenomenologica e la neuropsicologia contemporanee,la sua ricerca h aperto una via verso l’esplorazione di altre eco-nomie «energetiche», inclusa quella del capitalismo contempo-raneo. Quest’argomento compare nel suo Exhausting Modernity,un lavoro costruito sulla base di The Interpretation of Flesh, mache manifesta le suggestioni di alcune critiche marxiane e psi-coanalitiche della Scuola di Francoforte all’economia politica.The Interpretation of Flesh è stata un’opera produttiva per laBrennan ma anche per noi. Questo lavoro è più accurato e teo-reticamente più incisivo rispetto al suo ultimo libro TheTransmission of Affect, di cui riuscì a terminare una bozza primadella sua morte. Se considerato attentamente, anche quest’ulti-mo lavoro consente un approccio decisamente originale a que-stioni delicate, come il significato, a livello energetico, di un’ag-gressione sessuale. Ma passiamo ora a un esame più dettagliatodegli argomenti della Brennan.

In primo luogo, l’emergere di un ego incipiente dalla diademadre-figlio si realizza nel momento in cui lo sguardo e le capa-cità della madre – che fino ad allora si sono identificati con quel-li del bambino, poiché il bambino non è in grado di distinguere,inizialmente, tra se stesso e la madre, o tra se stesso e la madre-oggetto o seno – creano un legame retroattivo, un momento con-gelato o un momento di fissità, che rende possibile una distin-zione identificativa tra neonato e madre. Questa distinzione ini-ziale, compiuta dal neonato nell’incipienza della sua percezionee sicuramente in modo pre-linguistico, è possibile soltantoquando la modalità iniziale di percezione visiva del neonato,

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11 Ivi, p. 3.

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cioè l’allucinazione, viene abbandonato e rimosso. La rimozionedell’allucinazione si realizza nel momento in cui quell’allucina-zione (del seno o madre-oggetto) manca l’adempimento delcompito che le spetta: la soddisfazione dell’appetito del neona-to o il suo bisogno della madre-oggetto. Con l’abbandono del-l’allucinazione, come momento decisamente spiacevole, losguardo che unisce la madre e il neonato assume un valore per-cettivo differente da quell’allucinazione. Se l’allucinazione hacreato e riempito il lasso di tempo tra il bisogno e la sua soddi-sfazione, essa ha fallito nel soddisfare il bisogno in maniera suf-ficientemente adeguata tanto da essere conservata. Malgradociò l’intervallo di tempo che ha creato è significativo.Soprattutto per lo sviluppo delle percezioni successive ed èsignificativo anche il modo in cui lo sguardo madre-neonatooccuperà tale intervallo, permettendo la creazione di un puntotemporale immobile, uno spazio temporale in cui ha inizio l’e-mergere dell’io infantile. Questo luogo metaforico rappresentaper il neonato una nuova struttura temporale e rende possibilela fissazione di una sorta di centro stabile, da cui è possibile dareuna direzione alle pulsioni che prima attraversavano la vita psi-chica del neonato in maniera confusa. Utilizzo qui il termine«pulsioni» sulle tracce della Brennan. Utilizzo il suo significatodi «pulsione» come «energia psicofisica direzionata».12

La Brennan definisce questo momento generativo o creazionedi luogo, come una prima impressione (imprint) o come un’im-magine percettiva incipiente, portatrice di una carica affettiva.Tutti i neonati ricevono – o contribuiscono a creare – questaprima impressione. Su di essa dipende la capacità di ricevere«impressioni» successive, come vederemo nel seguito.

Seguendo la teoria delle relazioni oggettuali, la Brennansostiene che il neonato, il cui campo visivo è interamente occu-pato dallo sguardo della madre, e poi da quello della madre edel padre, percepisce forti espressioni di ambivalenza comequalcosa che provoca rabbia oppure ostilità da parte sua. Nelpercepire in questo modo, il neonato proietta i suoi sentimentiall’indietro, nello spazio intermedio dello sguardo o sul viso delgenitore. Il neonato, così, percepisce e «interpreta» in maniera

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12 T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 226.

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originaria quel sentimento, temendo l’ostilità che proietta e lasua possibile trasformazione in violenza. Ora, una percezione diquesto tipo ha un peso energetico notevole. È questo peso a giu-stificare ciò che diventa l’azione riflessa del liberarsi di un sen-timento spiacevole per mezzo di una proiezione successiva.Ovviamente, il modo in cui la proiezione e il timore di una rap-presaglia si estinguono in conseguenza della «prima impressio-ne» – il principio di una strutturazione dell’ego – dipende dallaprontezza con cui al neonato, e poi al bambino, viene consenti-to di proiettare le sue energie ed emozioni verso l’esterno.

Con la prima impressione, le energie si trasformano in pul-sioni poiché, avendo ora un’origine da cui svilupparsi, possie-dono una direzione. È fondamentale qui notare che queste ener-gie – all’inizio, e anche dopo il complesso di Edipo, seppure inmisura minore – possono essere rivolte verso l’interno o versol’esterno. Un investimento energetico diretto verso l’interno ènecessario a mantenere la coerenza dell’ego o l’identità del sog-getto, mentre un direzionamento dell’energia verso l’esterno èimportante per liberarsi di emozioni confuse oppure ostili e peresternare l’espressione di se stessi nella forma di discorso o diun’azione diretta verso gli oggetti esterni. Una pulsione è tale invirtù della sua natura direzionata. E, mentre vari pensatori, daMerleau-Ponty a J.B. Pontalis, fanno notare che l’energia direttaverso l’interno crea un’apparenza di passività, mentre l’energiadiretta verso l’esterno sembra ovviamente «attiva», la Brennanci ricorda che queste direzioni vengono spesso confuse, daFreud e da altri, con femminilità e mascolinità. La duplice dire-zione delle pulsioni rende conto anche dei due aspetti della pul-sione secondaria o parziale di Freud: il masochismo, con il suoopposto nel sadismo; la scopofilia, con il suo opposto nell’esibi-zionismo; la spinta a conoscere, collegata alla spinta verso ildominio, con il suo opposto nella passività patologica e nellarinuncia a conoscere. La Brennan ci ricorda che, necessariamen-te, le pulsioni sono soggette a fissione (sono scindibili), propriocome l’attenzione può essere diretta verso l’interno o verso l’e-sterno. In entrambi i casi c’è un costo energetico o un beneficioenergetico per il sistema fisico che si trova a dirigere l’attenzio-ne e le pulsioni.

Sempre partendo dall’assunto per cui la concezione economi-ca della coscienza di Freud e la sua teoria dei quanti di energianella coscienza e nell’inconscio possa essere spiegata al meglio

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come un’energia intersoggettiva con «traduzioni» particolari daparte di ogni soggetto coinvolto (così che una proiezione daparte di uno potrebbe essere interpretata come un sentimentoda un altro e anche un sentimento piuttosto differente), laBrennan affronta le ultime discussioni freudiane sulla differen-ziazione sessuale sulla base di due drammi e strutture edipichedivergenti e incommensurabili. Se accettiamo, come in fondo fuportato a fare Freud, che sia per gli uomini che per le donne ilprimo oggetto d’amore è la madre, o il seno, e non per le donneil padre, allora dobbiamo chiederci qual’è quell’elemento legatoalla figura paterna, o terzo elemento significativo, in grado didistogliere la bambina dal suo amore per la madre. La rispostadi Freud fu la castrazione e la rabbia della bambina per il tradi-mento della madre: la madre risulta castrata, come la bambina,perciò l’unica speranza di arrivare a possedere un’identità crea-tiva risiede nella possibilità di riceverla passivamente da entitànon-castrate. Questa teoria è stata oggetto di molte critiche. LaBrennan al pari di Lacan interpreta la castrazione come unadicotomia interna e un’esclusione di jouissance, con una conco-mitante diminuzione di energia disponibile. La questione reale– sostiene la Brennan – non è tanto la castrazione, quanto piut-tosto la formazione in fase edipica di un’identità sessuata, per-ché è nell’ambito del dramma edipico che si formeranno lamascolinità e la femminilità, con più o meno successo.13

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13 L’argomento si sviluppa come segue: (1) la mascolinità si forma nel corso deldramma edipico attraverso l’acquisizione e il consolidamento di capacità,che in origine non avevano alcun proprietario, ma appartenevano, di fatto,alla madre quando il bambino era in uno stato di passività. Questo stato dipassività si converte in attività. (2) La conversione di passività in attivitàimplica due sincronizzazioni: a) la sincronizzazione tra la immediata eatemporale allucinazione e l’impressione dell’altro; b) le sincronizzazioni trale tendenze edipiche del bambino, le fantasie e le impressioni provenienti daaltre figure parentali. Queste ultime sincronizzazioni segnano la differenzatra attività e mascolinità, e passività e femminilità, quando si fondono nel-l’identificazione con il padre. Esse proteggono l’identità femminile, limitan-dola, e rassicurano l’identità maschile , liberandola. Esiste, inoltre un paral-lelo tra le impressioni e il ruolo distanziatore del linguaggio, anche se leimpressioni non sono riducibili a quel ruolo. (3) La seconda fase viene ripe-tuta nello stadio adulto della mascolinità e della femminilità, ma a questolivello la femminilità è così simile alla primigenia seconda sincronizzazione– nella sua struttura e direzione – «che risulta difficile da distinguere dal-l’infantilismo» (cfr. T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 222).

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Ora, se è vero che l’ego è costituito sulla base di processi diidentificazione e se è anche vero che l’ego svolge una funzionefondamentale nel percepire, ma anche che emerge dal percepire(Freud ha mantenuto entrambe le posizioni), allora c’è necessa-riamente bisogno che qualcosa supervenga sul momento inizia-le congelato che si è dato nel processo di rimozione dell’alluci-nazione primigenia, sulla risultante nuova struttura temporale,e sulla sincronizzazione dello sguardo madre-neonato, chehanno dato alle pulsioni il loro fragile centro. E in questo stadiodello sviluppo l’unico fattore che può intervenire è lo sguardodella terza parte, che generalmente è uno sguardo maschile.Ora, lo sguardo maschile del padre funziona, secondo laBrennan, in maniera composita. Nei casi fortunati, questo sguar-do è portatore di affetto e tenerezza, ma ha, in aggiunta, unaqualità di «fissaggio» o blocco, dovuta al fatto che una mascoli-nità sviluppata con successo proietta le proprie energie e la pro-pria attenzione verso l’esterno piuttosto che verso l’interno. Losguardo maschile comunica emozioni umane, tenerezza e unastruttura sessuata di stampo maschile che nasce da una pulsio-ne erotica esternalizzata. In esso, il neonato, maschio o femminache sia, si trova «fissato» una seconda volta.14 La sincronizza-zione dello sguardo del bambino con quello del padre nella faseedipica istituisce una nuova sincronizzazione che funzionacome una copertura della prima fissazione realizzata dallamadre. In relazione all’evoluzione della diade madre-neonato eal fatto che il bambino sia stato in grado o meno di padroneg-giare le capacità che erano della madre, di identificarle come

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14 Partendo da una prospettiva lacaniana, il classicista Pascal Quignard offreun’analisi notevole dello sguardo erotico maschile nella società romana erituale. Si veda in proposito P. Quignard, Le Sex et l’effroi, Gallimard, Parigi1994. Dopo una lunga discussione sullo sguardo nella società romana,Quingard scrive «il desiderio affascina. Fascinus è la parola romana chedesigna il fallo [...] tutte quelle facce terrorizzate della Villa dei Misteri [...]convergono sul fascinus nascosto sotto il velo [...] i romani erano ossessio-nati dal fascino, dall’invidia, dal malocchio, dall’incantesimo, dalla iettatu-ra [...] gli sguardi scorsi su tutte le cose e su tutti gli esseri, lasciano unsegno, imprimono un’invidia, contaminano tutte le cose con il loro veleno»(cfr. P. Quignard, Le sex et l’effroi, cit., pp. 74-75). In un altro luogo Quignardparla dello sguardo come interruzione, forza che blocca il movimento e ilpensiero nel suo oggetto.

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proprie (processo che può di per se stesso sfociare in megalo-mania se non temperato da una seconda fissazione), sviluppan-do in seguito le sue proprie capacità interagendo con il suomondo, il bambino sarà nella posizione di sviluppare una fon-damentale passività o attività. Queste posizioni trovano il lorofondamento in quelle che sono state le possibilità del bambinoe, in casi estremi, nell’efficacia con cui lui ha rimosso l’allucina-zione primigenia e nella quantità di energia che tale processo harichiesto.15

A seconda dello sviluppo del bambino, la sintonizzazione conlo sguardo della terza parte, lo sguardo del «padre», costituiràun’identità abilitante o disabilitante, passivizzante o attivizzan-te, che tenderà in una direzione femminile o maschile. Le dire-zioni femminile o maschile, sono qui distinte sulla base di quan-ta energia è richiesta in una direzione interna per mantenere lapropria identità o di quanta energia è richiesta in una direzioneesterna per esplorare l’esterno e per sviluppare le proprie capa-cità. Passività ed attività saranno anche condizionate dallamisura in cui il bambino percepisce gli sguardi del padre e dellamadre come ostili, e dalla prontezza con la quale al babmbinoverrà concesso di esternare le proprie energie aggressive nelprocesso di dominare le proprie capacità. Perciò, una posizionetendente alla mascolinità favorirà l’esternazione, l’utilizzo e l’e-spansione dell’energia nella concentrazione dell’attenzione enella proiezione dei sentimenti verso l’esterno. Una posizionetendente alla femminilità richiederà un maggiore investimentodell’attenzione verso l’interno per mantenere l’immagine di sé,e sarà accompagnata da un minore incoraggiamento a proietta-re gli impulsi aggressivi e i sentimenti verso l’esterno, richiederàquindi una maggiore divisione dell’attenzione tra l’interno e l’e-sterno. Maschile o femminile denotano in questo contesto una«sovrapposizione» o un’immagine od impressione secondaria,che è determinante per il tipo di posizione, maschile o femmini-

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15 Questo processo consente alla Brennan di ripensare la castrazione comesegue: «alla luce di un’analisi dell’attenzione, di un processo di impressio-ne in due fasi e di una connessione con qualche comune sostanza origina-ria, essere castrato vuol dire essere separato da quella sostanza ed esserneseparato da una proiezione energetica visiva che si colloca al di fuori del movimen-to della vita» (cfr. T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 223).

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le, che la giovane creatura può adottare. Nell’assunzione di unadi queste posizioni si determina anche la abilità del soggetto adesprimersi. Un’attenzione divisa, come quella tipica della posi-zione femminile, diminuisce la quantità di energia disponibileall’investimento esterno, poiché parte dell’energia dirigibileverso l’esterno è stata rivolta verso l’interno. L’attenzione rivol-ta all’interno richiede energia e investimento affettivo. Questadirezione dell’attenzione è accompagnata da un’ulteriore divi-sione degli impulsi tanto che i loro rispettivi aspetti passivi sifanno più evidenti. È importante notare che il movimento del-l’attenzione e dell’energia che in esso è stata investita, dipendo-no da ciò che è possibile proiettare all’esterno e da quanta ener-gia è possibile proiettare all’esterno. Le emozioni, in quantooggetti immanenti, devono essere scaricate – come ha sempresostenuto Freud attraverso la muscolatura – perché altrimenti laloro componente energetica rischierebbe di sovraccaricare ilsistema neuro-psichico che poggia sul principio dell’omeostasienergetica. Poiché energie e sentimenti devono quindi essereesternati ed espressi, il grado in cui un soggetto ha successo inquesta operazione coincide con il livello di libertà interna nelragionamento o nella capacità di comunicare chiaramente,senza l’ingombro di emozioni confuse. Questa libertà torna avantaggio del bambino a cui è concessa un’attiva espressione dise stesso. E dai tempi di Freud tale opportunità era più accessi-bile nella posizione maschile che in quella femminile. Da questoprocesso trae origine quel che chiamiamo «identità», sebbenequi non ci sia nulla di fisso o di energeticamente statico.

Questo è il nucleo della tesi della Brennan, che qui è descrit-to in termini così generali da perdere un po’ della propria effi-cacia, che poggia su un’argomentazione scrupolosa e sottile. Unargomento acuto, cui però non ho ancora fatto cenno, ci dice chele due fasi dell’identità, o formazione dell’ego, fanno affida-mento su una certa qualità dell’esperienza intrauterina del neo-nato. Contrariamente a quanto sostengono certe interpretazionidella natura della fase intrauterina, per le quali qui il corpo dellamadre non sarebbe che un ricettacolo passivo, la Brennan, sullascia di altri teorici, sostiene l’idea che i mesi trascorsi nell’uteronon rappresentano niente meno che la diade originaria madre-figlio. Esiste una comunicazione bio-chimica tra il sistema delfeto e quello della madre, tale da garantire che ogni bisogno delfeto venga immediatamente registrato dal corpo della madre e

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riceva altrettanto immediatamente, nel senso più primitivo deltermine, una risposta bio-chimica. Questo è il senso – o megliola comunicazione – in cui il «bisogno» è già di per sé soddisfa-zione, questo è lo stato il cui ripristino perseguiamo al livellofantasmatico nell’infanzia, ed è per mezzo di quella stessa allu-cinazione che finiamo col rimuovere, perché non produce unasoddisfazione comparabile a quella fetale.16 Ma anche in segui-to a quest’atto di rimozione, continuiamo a perseguire qualcosadi simile a una diminuzione del lasso temporale ed esistenzialetra bisogni e soddisfazione.

La quarta parte della mia ipotesi è che femminilità e mascoli-nità ripetono l’ipotetica connessione originaria tra entità, ma lofanno secondo una parodia della connessione originaria, in cuientropia e inerzia secondaria della femminilità vengono rinfor-zate. Questa parodia lavora più lentamente della connessioneoriginaria che abbiamo ipotizzato esistere nell’utero; le connes-sioni energetiche tra entità sono ora separate dallo spazio e daltempo. Questa parodia è anche più lenta e più complessa rispet-to ai legami sensoriali del primo stadio dell’impressione.17

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16 La nozione di comunicazione è stata sviluppata anche da altri pensatori.Nelle sue lezioni del 1954 sulla passività, Merleau-Ponty esamina vari tipidi passività, da quella della memoria a quella del sogno. Nel rivedere ladistinzione di Freud tra contenuto latente e contenuto manifesto dei sogni,Merleau-Ponty fa un’osservazione pertinente e, a pensarci bene, piuttostoovvia: se il così detto contenuto latente, fosse solo e veramente latente, nonsviluppato e nascosto, allora « il sogno non potrebbe fornire alcun sollievodel desiderio». La concezione di latenza di Freud deve essere, perlomeno,ampliata: deve sussistere un qualche tipo di comunicazione tra i contenutilatenti e manifesti del sogno. «Il contenuto latente deve essere in qualchemodo accessibile al desiderio: chi sogna e chi ha accesso alle profondità delsogno debbono essere la stessa persona. E’ necessaria non la presenza didue persone (l’inconscio ed il censore, l’id e l’ego), ma la presenza di unacomunicazione tra di loro. Il censore stesso presuppone una pre-nozione diciò che viene censurato. Ma tale pre-nozione non è una nozione» (cfr. M.Merleau-Ponty, Le Symbolisme, in: Id., L’Institution dans l’histoire personelle etpublique; Le Problème de la passivitè, cit., p.202). Ci troviamo qui di fronteall’occorrenza di una comunicazione pre-conscia o pre-riflessiva, le cuistrutture presentano alcune analogia con la comunicazione intersoggettivadi ogni giorno, ma poco più di questo: una «pre-nozione» non è una nozio-ne e le intuizioni di Freud a proposito del sonno e dei sogni, sono moltovicine agli interessi della Brennan.

17 T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 174.

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Il tempo trascorso nell’utero consiste di un’azione reciproca,come un circolo chiuso tra due sistemi che funzionano come sefossero uno solo e la Brennan definisce questa condizione uninsieme di connessioni, una «comunicazione logica».18

tanto il linguaggio quanto i sentimenti, secondo Freud, emergono odalle pulsioni, e/o da qualche «sostanza comune». Secondo la miatesi, essi emergono da entrambi. La sostanza comune è la comunica-zione logica della carne, vissuta nell’utero, che il linguaggio cercheràdi destrutturare. Ma le basi di questa mimesi vengo stabilite sola-mente dallo spazio e dal tempo, in due fasi di quell’inerzia costruitache rende il soggetto impenetrabile ad ogni conoscenza coscientedell’impressione, e lo rende incosciente dei suoi legami di identità19

Così, la comunicazione umana posteriore, inclusa quella informa linguistica che in qualche modo consideriamo la più logi-ca e la meglio sviluppata, cerca di approssimarsi all’originalecomunicazione intrauterina in cui esisteva una risposta intrinse-camente legata a ogni «chiamata» o bisogno, tanto che rispostae chiamata erano inseparabili. Ciò significa che cadiamo vittimedi un certo aposteriorismo se, scettici a proposito di questa pre-sunta comunicazione, insistiamo nel credere che la comunica-zione sia simbolica, o linearmente logica, o anche semplicemen-te indicativa o gestuale. La comunicazione si occupa, secondo laBrennan, di connessioni e, conseguentemente, di disgiunzioni.La prima comunicazione di questo tipo si verifica quando duetermini, madre e feto, sono vicini l’uno l’altro nella maniera piùforte in cui due entità possono esserlo.

La «connessione uterina getta le basi per la costruzione diun’inerzia primaria – scrive la Brennan a proposito della rimo-zione primaria – e l’imperativo a creare allucinazioni e a proiet-tarle [...] rafforza senza dubbio l’imperativo a rimuovere l’origi-ne materna».20 Questo ci porta a sollevare una gran quantità diinterrogativi. Al di là della natura indimostrabile di questaaffermazione, ci sono due questioni che ora richiedono la nostraattenzione.

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18 Ivi, p. 227. 19 Ibidem.20 Ivi, p. 224.

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In primo luogo quella che potremmo definire una domandastile Borch-Jacobson, perché Mikkel Borch-Jacobson la pose aproposito della seconda teoria dell’angoscia di Freud, che col-locava l’angoscia prima della rimozione e ipotizzava che l’an-goscia sorgesse da una minaccia generalizzata all’economiaenergetica del neonato. Freud azzardò tale ipotesi, sebbene lateoria di Otto Rank, che sosteneva che l’angoscia percettivainsorge al momento della nascita, fosse sbagliata, poiché inquel momento non si dà un ego in grado di percepire. Così, laprima domanda riguarda la genesi. Se l’ego, o una sua partesignificativa, deve svilupparsi in contatto con l’ambiente,come una pellicola protettiva o una fonte da cui dirigere leattività verso l’esterno, che cos’è in grado di registrare le proto-esperienze nell’utero? O meglio, qual’è la natura del segno«inscritto» da tale esperienza nel corpo e nella mente del bam-bino? Se non possiamo rispondere a questa domanda è quasiimpossibile immaginare come questa inscrizione possa persi-stere. D’altro canto, se non persistesse in qualche modo, non cisarebbe bisogno di rimuoverla, come la Brennan sostiene chedi fatto accade.

In secondo luogo la Brennan insiste su una sorta di rimozioneoriginaria (Ur-verdrängung), per mezzo della quale, quando ilneonato lotta per appropriarsi delle capacità della madre,rimuove la madre e la prima impressione nella quale egli eranecessariamente in una posizione passiva, faccia a faccia con losguardo della madre. Inoltre, è anche necessario rimuovere laproto-esperienza della soddisfazione immediata – che si evincedalla prima forma di percezione del neonato: l’allucinazione diunità (o identità) con la madre. E questa repressione allontanadalla coscienza la prima forma di comunicazione avvenuta nel-l’utero ( e che potrebbe essere ciò che predispone l’essere umanoalla comunicazione linguistica) – sostiene la Brennan. Ora, que-sto punto di vista non può che rimanere un punto di vista spe-culativo, dal momento che la repressione originaria – data l’as-senza in questa fase dell’ego e l’enigma di un’inscrizione intrau-terina di quella comunicazione in cui i bisogni sono immediata-mente soddisfatti – è, a livello dello sviluppo, più primordialedella prima rimozione generalmente osservata: quella dell’allu-cinazione. Bisognerebbe dire che questa teoria non appartieneinteramente alla Brennan. La teoria delle relazioni oggettuali ealtre teorie psicologiche sostengono che l’esperienza intrauteri-

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na possiede un qualche valore di proto-esperienza, ma la formain cui tale esperienza può persistere in noi resta un mistero.

Questo è quanto si può esporre brevemente della teoria dellaBrennan. Vanno tenuti presenti i movimenti dai quali emozionee attenzione sono diretti, i due tempi necessari alla costituzionedi una posizione femminile o maschile e la direzione potenzial-mente duale degli impulsi che, se affrontata come una direzionedi energia psichica – e un lavoro recente come quello di DavidForrest sembra legittimare questo passo teorico – spiega ciò cheFreud aveva inteso con il concetto di scissione degli impulsi informe attive e passive, ma spiega anche la separazione dei sen-timenti dall’espressione linguistica o logica. Vorrei ora prenderein esame il caso di isteria maschile trattata da Freud – il caso diHerr August P., scoperto nel 1886 – alla luce della teoria diTeresa Brennan. E questo dovrebbe poter mostrare il raffinatopotenziale esplicativo della sua teoria.

Una lettura del maschio isterico di Freud con l’energetica (freudia-na) di T. Brennan

Perché tornare tanto indietro nel passato per mostrare il valo-re dell’opera di Teresa Brennan? Per quanto sia alquanto datata,la presentazione fatta personalmente da Freud di un reale casodi isteria maschile durante una comunicazione alla Gesellschaftder Ärzte di Vienna nell’ottobre del 1886, fu decisamente un fattorivoluzionario per la neurologia di lingua tedesca. Di ritorno dauna Parigi radicale, dopo un semestre trascorso presso Jean-Martin Charcot, il Privatdozent Freud avanzò l’ipotesi che l’iste-ria non avesse nulla a che fare con l’utero in quanto organo ocon il ventre in quanto fonte di emanazione di «vapori» all’in-terno del corpo. In poche parole, egli arrivò a confutare questapatologia sia da un punto di vista anatomico sia da un punto divista psicologico.21 Se anche un uomo può essere affetto da iste-ria, allora l’isteria non può avere un’eziologia chiaramente basa-

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21 Per una discussione chiara dell’evoluzione dei punti di vista sull’isteria e lesue cause fisiche, concepite anatomicamente, psicologicamente e poi neu-rologicamente (teoria del riflesso) si veda D. Sadoff, Sciences of the Flesh:Representing Body and Subject in Psychoanalsys, Stanford University Press,Stanford 1998, pp. 59-71.

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ta su un organo specifico, fatto che rischia di minare l’interpre-tazione di altre patologie e, forse, dell’intera struttura delle pas-sioni deboli e/o forti basata sulla distinzione dei sessi, comeveniva affrontata sia nella filosofia che nella medicina dell’epo-ca. Eppure Herr August aveva un gran numero di sintomi tipi-ci dell’isteria. Costui presentava «il sintomo della emianestesiapiù o meno al massimo grado».22 Era soggetto a svenimenti,ansia e – aggiungeva Freud – presentava precise zone «isteroge-ne» in alcuni punti del suo corpo, che erano poi precisamentequelle «zone dolenti spontaneamente e su stimolazione nelleparti altrimenti insensibili del corpo».23 La lista dei sintomi èassai più lunga. Ciò che conta è che il giovane neurologo avevagià sviluppato una spiegazione fisiologica e psicologica dell’ori-gine dell’isteria. La relazione sul caso di August P. contieneun’elaborata storia psichica dell’uomo, che conduce già alsospetto che l‘isteria debba essere «il precipitato di una remini-scenza» – così Freud si esprimerà più tardi nel 1910. Diamoquindi uno sguardo a questa prima «psicobiografia» redatta daFreud, lì dove egli stesso appunta:

il padre del paziente morì a 48 anni, della malattia di Bright; era uncantiniere,24 bevitore accanito, dal carattere iracondo. La madremorì di tubercolosi, all’età di 46 anni; pare che in precedenza aves-se sofferto di molto di cefalee; il paziente non è in grado di nulla sueventuali accessi convulsivi o simili. Dalla coppia nacquero sei figli,il primo dei quali condusse vita irregolare e morì in seguito a un’in-fezione luetica celebrale. Il secondo figlio riveste per noi un interes-se particolare; egli è implicato nella etiologia della malattia del fra-tello, e sembra essere anch’egli un isterico. Aveva infatti raccontatoal nostro paziente di aver sofferto di accessi convulsivi; ma unacoincidenza singolare ha fatto sì che io incontrassi proprio oggi un

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22 Cfr. S. Freud, Osservazione di un caso grave di emianestesia in un paziente iste-rico, in: Id., Opere, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1967, pp. 21-32, in par-ticolare p. 26.

23 Ivi, p. 31.24 Non sono nella condizione di controllare la versione tedesca della storia,

perché il primo volume della Gesammelte Werke comincia con pubblicazionidatate 1892, questo testo apparve l’11 dicembre del 1886 nel WienerMedizinische Wochenschrift e non è stato incluso, sotto la responsabilità diAnna Freud, nel vol. XVII, che contiene selezioni dal Nachlass.

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collega di Berlino che ivi ha curato il fratello del mio pazientedurante una sua malattia, diagnosticandolo come isterico, diagnosiconfermata poi anche in un ospedale berlinese25

Tralasciamo la strana coincidenza del collega berlinese e leinformazioni da gli ha fornito, per non menzionare l’interroga-tivo se per caso questo collega non era il migliore amico diFreud a quel tempo, Wilhelm Fliess. Freud non collega l’eziologiadell’isteria – che consiste in attacchi di panico, svenimenti, con-vulsioni, e una rete complessa di zone e punti anestetizzati –direttamente alla prima infanzia del paziente. Egli non indica nep-pure l’età di August al tempo della morte dei genitori. La causaindiretta dell’isteria sarebbe stata, invece, il trauma provocatodall’essere stato investito per strada, che lo aveva precipitato in«una malattia di parecchi mesi, durante la quale subì frequentiaccessi spasmodici [... che] continuarono per circa due anni».26

Adesso, dice Freud, «la sua attuale malattia risale a circa tre annifa», a un periodo in cui Herr August «aveva avuto una lite conil fratello scapestrato, che si era rifiutato di restituirgli unasomma prestatagli; il fratello aveva poi minacciato di ucciderlo,scagliandoglisi contro con un coltello».27 Questo evento provocò«spasmi» e «terribili mal di testa» a intervalli per la durata di treanni. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’accusa di furtorivolta ad August da parte di una donna, accusa che losprofondò in una forte «depressione», tanto che «fu preso daviolente palpitazioni, e per quattordici giorni fu talmentedepresso da pensare al suicidio».28

In questo strano e molto somatizzato caso di «isteria», in cuiil paziente fu indirizzato da Freud da un giovane laringoiatraungherese,29 c’è poca evidenza in questo lavoro di ricostruzionebiografica della «talking care» sperimentata per la prima volta

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25 S. Freud, Osservazione di un caso grave di emianestesia in un paziente isterico,cit., pp. 25-26.

26 Ivi, p. 26.27 Ibidem.28 Ivi, p. 27.29 Non si dice nulla del motivo per cui il paziente sarebbe stato in cura pres-

so il Dr. Von Beregszàszy, il suddetto laringoiatra, sebbene dovremmoricordare che il caro amico di Freud, W. Fliess, era un otorino-laringoiatra.Potremmo forse supporre una mutua conoscenza tra Fliess e Beregszàszy.

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pochi anni prima, ma viene tuttavia ipotizzata l’importanzadella prima giovinezza. Il numero e la varietà di sintomi somati-ci attesta, ora come più tardi, che lo scaricamento delle tensioni edei sentimenti deve realizzarsi attraverso la muscolatura, perimpedire che vengano trattenuti e bloccati contribuendo così allapatologia. In questo caso, certamente, possiamo inferire che HerrAugust non cercò di accoltellare il fratello che lo aggredì, né dicolpire la donna che lo accusò di furto, per paura di finire in pri-gione piuttosto che in ospedale. Certamente, il paziente, sebbenedi «costituzione mediamente forte», sembra, di primo acchitopiuttosto fragile, un uomo passivizzato. Ciò che risulta notevole,tuttavia, è il modo in cui egli si ritrovò ripetutamente posto inuna condizione di passività. Il figlio più giovane,30 non avrebbemai ricevuto ciò che la Brennan sostiene essere la «viva» atten-zione della madre che facilita lo sviluppo dell’ego sintonico. Enel caso di August P., la situazione secondaria – il passaggioattraverso lo sguardo retroattivo del padre e la costituzione diun’impressione sovrapposta o di un’immagine mentale di séinvestita emotivamente – avrebbe implicato una accentuazionedella passività infantile nella fase pre-edipica, poiché il padre era«un bevitore accanito, dal carattere iracondo». In breve, lo sche-ma di sviluppo offerto dalla Brennan – basato sull’attenzione,sulla natura dello sguardo parentale e sui sentimenti provocatinel bambino dalla diade madre-figlio e dalla successiva sintoniz-zazione con il padre e promossa dal grado in cui al bambino èconsentito di proiettare ed esternare la propria aggressività – siadatta più di ogni altro alla psicobiografia fornita da Freud. Taleschema non può certamente determinare se questo paziente,come le pazienti isteriche di Freud, si sia trovato bloccato nel pas-sato per effetto di un’attenzione rivolta all’interno e di una vitafantastica elaborata in base ad attività dirette verso l’esterno. Adogni modo il caso è indicato qui a scopo illustrativo, perché, se laBrennan ripete quel luogo comune per cui l’isteria non fu cheun’invenzione del XIX secolo, la «isteria», come la descriveFreud, è, per lei come per noi, un’istanza paradigmatica della«femminilità» come «patologia».31

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30 Ivi, p. 26: «il quarto e il quinto [figlio] morirono in tenera età, e il sesto è ilpaziente di cui ci stiamo occupando».

31 T. Brennan, The Interpretation of Flesh, cit., p. 223.

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Non dico che dovremmo supporre che le isterie fortementesomatizzate siano il prodotto di una attenzione mal diretta o direstrizioni sociali, o addirittura di aggressioni. Ma la dimensio-ne somatica del caso di August P. suggerisce non solo che il trau-ma si possa «inscrivere» nel corpo, ma avalla anche l’opinionedella Brennan secondo cui le idee e le immagini sono «fisiche» ela loro esternalizzazione o internalizzazione ci cambia perchésono portatrici di componenti affettive che sono inevitabilmen-te legate ad un costo o a un beneficio energetico per l’organismo.Potrebbe anche essere questa la prima grande lezione che siinsegna quella condizione che Jean-Martin Charcot insistevafosse una singola malattia psicologica: l’isteria. Si noti che laseconda lezione che possiamo imparare da Charcot, di cui ancheFreud fece tesoro nel corso della propria carriera, è quella sullarimozione: l’isteria è una malattia psicologica, ma ha sempreuna natura sessuale, sebbene la sua natura sessuale o erotica siarimossa. La rimozione, ovviamente, costituisce l’origine energe-tica o economica dell’ego anche nel lavoro della Brennan.Secondo lei, il faccia a faccia con la madre può produrre effettisia positivi che negativi. Se qualcosa in questo processo scatenaeffetti negativi nel bambino, allora il bambino li proietteràimmediatamente sulla madre, e di conseguenza si troverà atemere una sua rappresaglia.

Ora la Brennan, seguendo le teorie del giovane Freud, prose-gue affermando che la realizzazione del successo maschiledipende dalla capacità di rivolgere l’ostilità verso l’esterno equindi di scaricarla; il successo femminile dipende da una svol-ta verso l’interno, ma anche dalla capacità di stabilire una bar-riera in grado di prevenire che l’emozione scaricata dall’altroinvada l’io, paralizzandolo. Per mantenere questa barriera, ilsoggetto in via di formazione, minacciato da emozioni non sca-ricate, deve scaricarle diversamente, attraverso fantasie o sinto-mi. In una parola, la salute mentale dipende dal rilascio, o proie-zione, o sublimazione, dei sentimenti, delle emozioni e degli«stimoli» che ad essi si accompagnano. I sintomi che troviamonell’isteria maschile appartengono manifestamente a questaeconomia: mal di testa, convulsioni e l’impossibilità di «sentire»– una situazione che suggerisce un involuzione energetica cosìestrema che persino la pelle diventa un luogo astratto esterno,non connesso all’immanenza del soggetto.

Vale la pena di notare che Freud visitò altri maschi isterici,

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uno dei quali viene indicato come «E» nella sua corrispondenzacon Fliess. Il trattamento di «E» durò cinque anni e la sua con-dizione isterica era l’agorafobia. Egli non poteva recarsi in par-ticolare nei luoghi pubblici come il teatro «per paura di arrossi-re in maniera compulsiva». Freud aggiunge che «E» arrossivaanche «ogni qual volta parlava con una donna (perché) imma-ginava di sedurla o violentarla». Questa storia è riportata daFliess, sebbene Juliet Mitchell la riferisce in una rivisitazioneprovocatoria dell’isteria che scarta il complesso edipico a favoredelle relazioni tra fratelli32 e delle «impressioni originarie».

Se il successo della formazione di una «identità maschile»attiva – che ha luogo in uomini o donne – dipendesse dalla capa-cità di scaricare liberamente sentimenti negativi, proiettandolisu altri o sublimandoli nel lavoro creativo, allora la violenza ses-suale sarebbe la proiezione concreta più probabile. Ma le fanta-sie di «possedere» una donna sarebbero più frequenti, menopericolose e riprodurrebbero in una maniera semicosciente,nella forma del sogno ad occhi aperti, lo scaricamento del senti-mento e delle idee su o in un altro. Perché, secondo questoapproccio, la fantasia non dovrebbe essere proprio la figura dellaproiezione effettiva? – anche se la Brennan descrive la proiezio-ne come un primo confuso scaricamento di sentimenti sull’altronella separazione di affettività e ragionamento che svolge unruolo necessario per la rappresentazione e l’immagine di se stes-si. Ma lasciamo perdere questo punto e concentriamoci sempli-cemente sul modo straordinario in cui il ripensamento dell’e-nergetica, elaborata attraverso la focalizzazione dell’attenzionee la divisione e il movimento degli impulsi, getta nuova luce suicapricci di quella condizione prototipale, che «non è una» e cheè inoltre il grande mandato della femminilità: l’isteria. In quan-to condizione di sentimenti ed energie e dei loro luoghi di inscri-zione e inserzione, il lavoro della Brennan libera la psicologia

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32 J. Mitchell, Mad Man and Medusas: Reclaiming Hysteria, Basic Books, NewYork 2000, p. 251. Mitchell aggiunge che Freud disse al suo amico KarlAbraham, più o meno nello stesso periodo in cui stava analizzando «E»,che «le associazioni omesse del suo famoso sogno dell’iniezione di Irma, ilsogno preso in considerazione nella Interpretazione dei Sogni, erano che lui,Freud, aveva tutte le donne del mondo».

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dal tardo ricorso di Freud all’anatomia riguardo la questionedella femminilità e dell’isteria – un punto di partenza che rendeHerr August P e il misterioso analizzato, «Herr E», posizioniimpensabili.

Conclusioni

Teresa Brennan ha riportato attenzione ed energie su unadistinzione genealogica. I fenomenologi e gli psicologi potreb-bero non amare il confrontarsi con la «innervazione» neuropsi-cologica degli eventi che descrivono a partire dal teatro dellacoscienza. Ma gli studi disincarnate della mente possono tro-varsi a corto di argomenti. Non mancano di bellezza, ma sonocarenti di un corpo vivo. E quando mettono insieme azione epensiero, il pensiero diventa atto intenzionale, entità asomatica.Questo è vero anche per il fenomenologo che cerca di riabilitarel’intersoggettività da una posizione «io» che insiste nell’esseremaschile o femminile, o del tutto al di là della sessualizzazione.Bisogna lavorare ancora molto sulla metodologia di questiapprocci filosofici. L’efficacia delle argomentazioni dellaBrennan consistono in un tentativo di dare una base solida alprogramma genealogico.

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SStrtratategie Pegie Posost-Mediumt-Medium

diRobert Gero

MMolte opere d’arte contempo-ranea – siano esse di matri-

ce scultorea, pittorica o che appartengano al genere dell’instal-lazione, del digitale o del cosiddetto post-studio – sembranoessere concepite e realizzate alla stregua di metastrutture com-plesse e ambigue che, con uno stile che talvolta può essere pre-valentemente imitativo, talvolta prevalentemente parodistico,talaltra ironico, oppure anche elogiativo o finanche eversivo,finiscono per complicare quella immagine – da sempre condivi-sa – di ciò che è arte. Diversamente dalla pratica modernista, gliartisti che lavorano con le modalità sopra descritte operano nel-l’ambito della cosiddetta Convenzione Post-Medium.

Qui vengono meno le preoccupazioni formaliste per la speci-ficità, la purezza o i limiti di un mezzo artistico in quanto tale,mentre cresce l’interesse per l’utilizzo del pittorico, dello sculto-reo, dell’architettonico e, allo stesso tempo, di oggetti di varioambito culturale, quali strumenti vari per attualizzare i conte-nuti. I produttori d’arte non si servono soltanto dellaConvenzione Post-Medium, ma lavorano contro questa conven-zione stessa, in maniera critica, tenendola presente come unpunto di riferimento che dev’essere sovvertito. Voglio definirequeste varie tecniche di impiego dialettico della teoria artistica,della pratica artistica, della storia dell’arte, di altre opere d’artee dello stesso contesto sociale, come impiego di una teoria in quan-to strategia.

Intendo mostrare che un sottoinsieme privilegiato della prati-ca artistica contemporanea opera secondo un logica contestuali-sta di distanziamento, che io preferisco chiamare logica di strategia,nel cui ambito i significati vengono istituiti di volta in voltamediante la concatenazione di elementi strappati, presi in presti-

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to, o, per così dire, «citati». Questi elementi circolano liberamente– quasi come se andassero alla deriva – all’interno di una cornicevolutamente decentrata. L’impiego parziale e il reimpiego di ele-menti intelligibili e percettivi che, presi di per sé, possiedono rela-zioni complesse di diverso genere, è una strategia generale chepuò produrre un’infinita varietà di risultati possibili.

Un’ulteriore strategia consiste nell’introduzione all’internodei contesti artistici di oggetti che sono normalmente considera-ti «non artistici», come farfalle mutilate (In and Out of Love, diDamien Hirst, 1991), strumentazione scientifica (The InventiveVelocity, di Olafur Eliasson, 1998), nonni incestuosi (Heidi, di PaulMcCarthy, 1992), 48 scatole di tonno Geisha importate dallaMecca (Meccatuna, di Jason Rhoades, 2003). Questo tipo di fortitransizioni dividono, ma contempo moltiplicano, i significati.

In questo studio mi propongo di articolare le strutture teore-tiche della strategia che fonda alcuni lavori che hanno rivestitoun’importanza particolare nell’ambito dell’arte contemporanea.Per quanto la categoria di produzione artistica contemporaneasia generalmente considerata antiformalista, ho intenzione dimettere in evidenza il nesso profondo che la lega al formalismokantiano.

Kant ha analizzato le strutture formali del giudizio estetico edella produzione artistica nei termini di un libero gioco di imma-ginazione e intelletto. Per Kant, questo tipo di interazione è pos-sibile solo se la produzione artistica può essere considerata allastregua di un meccanismo dinamico che opera secondo unacomplessa logica interna, la quale spinge all’interpretazione e, alcontempo, la elude. Kant ha sostenuto che gli artisti possonoisolare ed estrapolare questa struttura quasi-normativa dal lavo-ro di un altro artista e appropriarsene direttamente come purerielaborarla all’interno della loro stessa produzione. In tempipiù recenti Gilles Deleuze ha introdotto il concetto critico di dia-gramma al fine di identificare quella struttura casuale che gliartisti fanno diventare opera d’arte con l’intento di destabilizza-re il sistema figurativo, attivando rappresentazioni figurali inar-ticolate. Nello sviluppare il concetto teoretico di strategia andròa rielaborare la nozione deleuzeana di diagramma che, a suavolta, è una rielaborazione di quella di icona intelligente propo-sta da Charles S. Peirce. A mio avviso, il diagramma è una strut-tura sperimentale che viene individuata da un sistema di rela-zioni intelligibili, una struttura formale che l’artista deliberata-

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mente impiega e sovverte allo scopo di produrre un risultatofatalmente instabile. A differenza del diagramma di Deleuze edella regola normativa kantiana, io considero il diagramma stra-tegico come un meccanismo che si impone da sé e che delineaall’interno dell’opera percorsi che fungono da parametri nellacreazione di fratture e legami. Durante il processo di produzio-ne artistica, i parametri possono essere modificati o estesi e, avolte, essere determinati da fenomeni accidentali. Dopo avertrattato il concetto teoretico di diagramma strategico, passeròall’individuazione di una gamma abbastanza diversificata distrategie post-medium.

Kant e il libero gioco del post-medium

Nell’ambito del modernismo tanto l’estetica filosofica quantola pratica artistica sono state considerate come elementi che ope-rano all’interno dei rigidi limiti del formalismo derivante dallariflessione di Kant. La prima formulazione del formalismo esteti-co kantiano si ritrova nella Critica del Giudizio (1790): un oggettopuò essere considerato arte soltanto qualora possa essere perce-pito come portatore di una finalità formale – una finalità senzafine (Zweckmäßigkeit ohne Zweck). In altri termini, per Kant unoggetto d’arte deve apparire come un’opera della natura e, altempo stesso, essere riconosciuto come prodotto di un’intenzioneumana. Kant afferma che considerare un oggetto alla stregua diun’opera della natura vuol dire percepirlo come un elemento chesi auto-organizza e non semplicemente come qualcosa che è statoorganizzato.1 Questa caratteristica alquanto particolare, tuttavia,non può essere sussunta sotto una regola o un concetto che sianouniversali, in questo modo nessun giudizio estetico può esseredeterminante. Ciononostante, in virtù della sua intenzionalità,l’oggetto artistico spinge a tentativi di interpretazione. Kant con-clude che il giudizio estetico è puramente riflessivo: è la compa-razione di una rappresentazione con altre rappresentazioni e neiconfronti della facoltà cognitiva dello spettatore, ma non un ten-tativo di costruire una descrizione dell’oggetto d’arte.2

199ROBERT GERO

1 Cfr. I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 196.2 Cfr. Ivi, pp. 35-37 e 23-26.

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Nell’ambito del modernismo, questa natura puramente riflessi-va del giudizio estetico veniva interpretata come un qualcosache implica l’autonomia dell’oggetto artistico. Questa dottrinadell’autonomia è stata declinata in maniere diverse: solo laforma dell’oggetto e non il suo contenuto specifico ha impor-tanza ai fini del giudizio estetico; ogni opera d’arte è un’asser-zione riflessiva e teoretica sull’arte; l’opera d’arte, in quantoarte, non è contingente e in questo modo ogni dissertazione sul-l’arte rientra completamente nella sfera di significato dell’artestessa. Queste elaborazioni moderniste del concetto di autono-mia derivano da una rilettura del Laocoonte di Gotthold Lessingpiù che dalla Critica del giudizio di Kant. Lessing ha individuato,con la sua posizione formalista, la preoccupazione modernistaper il concetto di specificità del mezzo artistico: gli artisti posso-no operare in maniera adeguata solo nei confini del dominioimposto dal loro mezzo artistico, in quanto il contenuto esteticodi un’opera d’arte dipende in maniera essenziale dalle proprietàformali dell’opera stessa. Secondo Lessing i limiti di una singo-la forma d’arte coincidono con i limiti del suo mezzo, i qualipossono essere articolati in un insieme di proprietà o conven-zioni. Tali convenzioni artistiche sono necessariamente legate auna teoria dell’arte, a una pratica artistica e a ciò che viene con-siderato importante dal punto di vista dell’estetica all’interno diun particolare contesto storico-artistico.

Il periodo modernista della produzione artistica può essereconsiderato come un riesame lungo e rigoroso delle conven-zioni vigenti nell’ambito della pittura e della scultura in uncerto momento della storia dell’arte. La pittura e la sculturamoderniste, dopo Lessing, hanno lavorato con modelli e figu-re all’interno di un singolo piano per istituire, tra le diverseparti dell’opera, relazioni complesse capaci di far crollare l’il-lusione di uno spazio realistico. L’arte modernista si è occupa-ta (ma possiamo anche dire che si sia addirittura preoccupata)delle condizioni minimali che un oggetto deve soddisfare peressere considerato pittura o scultura. Dipingere diventa alloraun tentativo di cogliere l’essenza stessa del pittorico. Nel suosaggio del 1940 intitolato Towards a Newer Laocoon, ClementGreenberg, influente critico dell’arte modernista, sostenevache l’arte d’avanguardia nel corso degli ultimi cinquant’anniaveva raggiunto uno stato di purezza, scrivendo: «adesso learti riposano sicure, ciascuna all’interno dei suoi confini legit-

200 STRATEGIE POST-MEDIUM

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timi».3 Greenberg vedeva questa concentrazione delle arti suipropri mezzi specifici come un loro isolamento e al tempo stes-so come una loro definizione. A giudizio di Greenberg le qualitàpuramente plastiche o astratte di un opera d’arte visiva sono lesole che contano. Egli affermava che la traiettoria disegnatadalla pittura d’avanguardia era stata quella di «un arrendersiprogressivo alla resistenza del mezzo».4 Nel 1962 Greenbergaveva ormai annunciato la logica conseguenza di questo tipo dipratica artistica: «una tela srotolata o appesa è già un quadro –anche se non necessariamente un buon quadro».5

Dire che una tela bianca è diventata un quadro significa cheuna tela bianca, «appesa» o presentata al mondo artistico, esibiscela natura convenzionale della pittura stessa nell’esibire una dellesue convenzioni minimali in un certo periodo storico – ovvero,essere una superficie piana preparata all’uso. Per essere un qua-dro, ora, l’opera non deve più riferirsi a nient’altro che sé stessa.

Il formalismo di Kant non è formalista nel senso di un forma-lismo così stretto. Arrivare a conclusioni diverse vuol dire igno-rare il concetto kantiano di produzione artistica come giocointellettuale: «produzione mediante libertà, cioè per mezzo diuna volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azio-ni».6 Per Kant la produzione artistica implica necessariamentel’invenzione di opere che manifestano una complessità e un’a-pertura sufficienti a stimolare una ricca concatenazione di pen-sieri, un insieme di letture plausibili che devono restare sempreindefinite. Nell’estetica di Kant questo flusso di pensiero, cheegli chiama libero gioco, stimola il piacere intellettuale quandoriesce in qualche modo a soddisfare lo spettatore nonostanteresista alla cristallizzazione in un pensiero fisso o determinato.Kant, infatti, afferma che il motivo per cui l’arte riesce a stimo-lare un flusso di pensieri così piacevole è che essa non è costret-ta all’interno dei limiti di un particolare concetto determinato.

Secondo Kant, le opere d’arte sono un apparato immaginati-

201ROBERT GERO

3 C. Greenberg, Towards a Newer Laocoon, in: Id., The Collected Essays andCriticism, vol. I, Chicago University Press, Chicago 1986, p. 28.

4 Ivi, p. 34.5 Id., After Abstract Expressionism, in: Art International, n. 8/1962, p. 30.6 I. Kant, Critica delGiudizio, cit., p. 128.

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vo di rappresentazioni, «una quantità di rappresentazioni par-ziali», ciò che egli definisce anche «idee estetiche», che si sforza-no di giungere a una presentazione oggettiva di un idea razio-nale.7 Le idee razionali non sono concetti determinati, quantopiuttosto tentativi di pensare, o in qualche modo di rappresen-tare, ciò che si trova al di là dell’esperienza umana, o ciò che,nell’ambito di tale esperienza, risulta misterioso e ineluttabile.Nemmeno le idee estetiche sono concetti determinati; malgradociò, in qualità di intuizioni di un immaginazione disciplinata,hanno un contenuto cognitivo. In sostanza, dal punto di vista diKant, un’opera ha valore artistico soltanto se è in grado di crea-re e sostenere quel «libero gioco» che sta alla base di un piacereintellettuale o cognitivo. Il piacere estetico diventa un’armonicae libera interazione tra comprensione e immaginazione nelmomento in cui questi ultimi lavorano insieme all’organizzazio-ne di significati. Questo è il «libero gioco» della bellezza in cuil’immaginazione può creare forme senza fine e la comprensionepuò descriverle in infiniti modi. Il piacere intellettuale si pro-duce in questo carosello di concetti indeterminati e parziali, chenon si compone mai in un’unica e privilegiata «conclusione»concettuale.

Una lettura di questo tipo del formalismo kantiano mostrauna connessione essenziale con la pratica dell’arte postmodernae con la capacità di apprezzarla. Considerare un’opera comeartistica vuol dire saperne godere i livelli mutevoli di interazio-ne: vedere come l’artista sia riuscito a comporre immagini,suoni, simboli, oggetti, a volte l’opera di un altro artista, in unanuova rappresentazione capace di esprimere idee che sono por-tatrici di significato; notare in che modo la selezione e l’utilizzoda parte dell’artista di un mezzo espressivo si inserisca tra letestimonianze storico-artistiche del trattamento dei mezziespressivi; considerare come il lavoro dell’artista si ponga inrelazione con le sue opere precedenti e con quelle di altri artisti;percepire in che modo l’opera d’arte sia in grado di interagirecon altre discipline e con la dimensione della vita sociale.

È importante notare come Kant concepisce l’arte in quantopratica sociale radicata nel sensus communis. Kant afferma che

202 STRATEGIE POST-MEDIUM

7 Ivi, p. 141.

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l’artista deve essere disciplinato dal gusto, cioè che sia il suogiudizio che le sue competenze tecniche devono essere adde-strate. Il gusto per Kant non è una preferenza soggettiva o per-sonale, quanto piuttosto una capacità di condividere e reagire agiudizi determinati in maniera intersoggettiva, i quali sono por-tatori di una valenza normativa. Solo se il lavoro dell’artistacomporta questo tipo di giudizio il suo prodotto può essere con-siderato un esempio delle «belle arti». Kant sostiene che l’im-maginazione conferisce all’arte il diritto di essere detta ispirata(geistreiche),8 ma ricorda anche che l’immaginazione, con tutta lasua ricchezza, «nella sua libertà senza freno, non produce se nonstravaganza».9 Secondo Kant, la vita viene data all’opera dalgenio artistico, ma l’opera risulterebbe «incorporea» e anche«evanescente» se non vi fosse la presenza di una sorta di «carat-tere necessario», che egli descrive come qualcosa che opera allastregua di un meccanismo.10 Kant scrive:

il gusto, come il Giudizio in generale, è la disciplina (l’educazione)del genio; gli ritaglia le ali e lo rende costumato e polito; ma neltempo stesso gli dà una guida, mostrandogli dove e fino a chepunto possa estendersi per non smarrirsi; e, portando chiarezza eordine nella massa dei pensieri, dà consistenza alle idee, facendoleinsieme degne di un consenso durevole ed universale, d’esserseguite dagli altri, e di concorrere a una sempre progressiva coltu-ra. Sicché, se qualcosa dovesse sacrificarsi nell’opposizione tra ledue qualità in un’opera, ciò dovrebbe avvenire piuttosto dal latodel genio; e il Giudizio, che fa appello ai proprii principii in cosedelle belle arti, permetterà piuttosto di derogare alla libertà e allaricchezza dell’immaginazione, che non all’intelletto11

Giustapporre, o combinare in altri modi, parole, suoni, colori,oppure oggetti, in un unico prodotto senza alcun fondamento opreparazione nell’ambito dei sistemi del mondo artistico signi-fica, nella migliore delle ipotesi, produrre ciò che Kant chiama-

203ROBERT GERO

8 Nel presente contesto si preferisce per geistreich impiegare la dizione ispira-ta in luogo di animata, come invece riporta la versione italiana di riferimen-to [N.d.C.].

9 Ivi, p. 143.10 Ivi, p. 130.11 Ivi, pp. 143-144.

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va «originali stravaganze», ma non produrre arte.12 SecondoKant, i giudizi educati dal gusto forniscono una sorta di sintas-si all’interno della quale l’artista può lavorare.

La natura istituzionale della pratica artistica è in generaleconservativa, in quanto tende a mantenere e conservare le pra-tiche, le norme e le tecniche in cui ha tanto investito. In questosenso, la pratica artistica istituzionalizzata è simile alla scienzanormale, che si sforza di preservare i propri paradigmi e le pro-prie procedure nei confronti di paradigmi e procedure antago-niste. Jacques Rancière osserva che le opere d’arte sono state ria-dattate o storicizzate dai musei d’arte nell’atto di trasformarle inesibizione estetica. La loro funzione dominante è ora quella diun idea incorniciata o di momento interpretato «nell’ambitospazio temporale dell’arte». Scrive infatti Rancière:

i nostri musei di belle arti non espongono puri generi di belle arti.Espongono arte storicizzata: Frate Angelico tra Giotto e Masaccio,per schizzare un’idea dello splendore principesco di Firenze e delfervore religioso; Rembrandt tra Hals e Vermeer, per dare un’ideadella vita civile e domestica olandese, dell’ascesa della borghesia, ecosì via. I musei esibiscono uno spazio-tempo dell’arte come sva-riati momenti dell’incarnazione del pensiero13

Per storicità di un’opera d’arte si intende la sua capacità diagire come una rappresentazione condensata di un particolarecontesto o discorso storico-sociale. Riconoscere questo fattovuol dire anche riconoscere l’esistenza di una storia dell’arte«repressa», opere che sono ugualmente rappresentative ma chenon vengono selezionate come specchi di una cultura. C’è,comunque, un’ulteriore implicazione della storicità dell’arte:possiamo considerare l’opera d’arte come legata in modo dina-mico ad altre opere e pratiche artistiche che si sono sviluppatenel tempo – e non solo come un momento conclusivo. In ogniperiodo della produzione artistica sono stati impiegati modelliartistici per istituire nessi tra opere e artisti. Tanto l’artista nelsuo lavoro quanto il critico nel giudicarlo debbono metter l’ope-

204 STRATEGIE POST-MEDIUM

12 Ivi, p. 133.13 J. Rancière, The Aesthetic Revolution and Its Outcomes, in: New Left Review, n.

14/2002, p. 141.

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ra d’arte in relazione ad altre opere, in particolare, alle opereesemplari o modelli sui quali si esprime un consenso. Questilavori paradigmatici sono stati sottoposti alle critiche ed ai con-fronti più severi. Gli artisti si sono sempre serviti di questeopere come modelli in relazione a cui creare il proprio segno e ipropri contributi.

Kant era consapevole di questo aspetto del lavoro artistico.Egli afferma che soltanto alcuni artisti sono in grado di crearedei modelli, cioè delle opere che danno delle idee ad altri artistie in questo modo fondano «una scuola, ovvero un insegnamen-to metodico secondo le regole che si possono trarre dalle operevive del genio e dalla loro originalità».14 Ecco come Kant distin-gue tra i due modi (modus) di comporre idee estetiche in unarappresentazione: il modus aestheticus che «ha come misura sol-tanto il sentimento dell’unità nella esibizione» e il modus logicusche «segue principi determinati».15 Kant privilegia il modusaestheticus considerandolo il più adatto a produrre opere d’artein quanto richiede il coinvolgimento di quel talento che eglichiama anima: ossia l’abilità «di esprimere ciò che è inesprimi-bile», ossia «renderlo comunicabile universalmente [...] senza lacostrizione delle regole».16 In questo passo Kant mette in evi-denza l’importanza del creare una regola implicita e di seguirlanella pratica artistica. Per quanto io non consideri come qualco-sa di assoluto la distinzione di queste modalità, ritengo che ladistinzione di Kant tra il fare arte secondo il modus logicus e ilfare arte secondo il modus aestheticus possa essere fruttuosa percomprendere il distinguo, proprio della mia proposta, tra usometodologico della strategia e il suo uso produttivo. Mi propongo disviluppare ulteriormente questa distinzione nel corso del terzoparagrafo. Ora, nella prossima sezione, voglio discutere il con-cetto non teoretico di diagramma proposto da Deleuze, rielabo-randolo come concetto teoretico di diagramma strategico.

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14 I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 142.15 Ivi, p. 143.16 Ivi, p. 141.

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Deleuze e il diagramma

Gilles Deleuze ritiene che i filosofi possono inventare concet-ti per chiarire l’attività intellettiva e tuttavia non concettualepropria degli artisti.17 Deleuze descrive la pittura del periodoposteriore a quello di Cezanne come un esperimento manualecon materiale percettivo e figurativo che aveva lo scopo di libe-rare la sensazione lasciandola ancora solo in minima parte allamediazione della narrazione. È opinione di Deleuze che la pit-tura, «tra tutte le arti è probabilmente la sola che incorporinecessariamente, «istericamente», la propria catastrofe» invecedi esservi semplicemente «associata».18

Nel 1981, nel suo Francis Bacon: la logica della sensazione,Deleuze descrive il modo in cui l’artista Francis Bacon dispiegasimultaneamente, rimanendo in posizione di ricettività, unmeccanismo che genera caos e che egli stesso introduce nel suoproprio lavoro. Deleuze definisce questa dinamica una «logicadella sensazione» e determina i suoi elementi come struttura,forma-figura e diagramma.19 La struttura può essere identificata alivello formale e semantico. Dal punto di vista formale si trattadi una struttura materiale o base; dal punto di vista semantico sitratta di ciò che Deleuze chiama la «figurazione» che è un fatto«preliminare alla pittura», è «l’insieme dei dati presenti sullatela prima che il lavoro del pittore cominci».20 Per Deleuze, siaprima del processo di produzione artistica che nel suo farsi, l’ar-tista deve fare i conti con una sovrabbondanza di dati precon-cetti e clichès: «il pittore – scrive Deleuze – ha molte cose nellatesta, attorno a sé o nell’atelier. E tutto ciò che egli ha nella testa,o attorno a sé, è già nella tela, più o meno virtualmente, primache il pittore cominci il suo lavoro»,21 ragion per cui «il pittorenon deve riempire una superficie bianca»22 ma «un’intera cate-

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17 Cfr. D.W. Smith, Introduzione a G. Deleuze, Francis Bacon: The Logic ofSensation, Minnesota University Press, Minneapolis 2002, p. XXIII.

18 G. Deleuze, Francis Bacon: la logica della Sensazione, Quodlibet, Macerata1995, p. 169-170.

19 Ivi, p. 100.20 Ivi, 157.21 Ibidem.22 Ibidem.

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goria di cose, che può essere chiamata «cliché», occupa già latela»,23 pertanto, scrive Deleuze

vi è dunque un lavoro preparatorio che appartiene pienamente allapittura, e che tuttaviaprecede l’atto pittorico24

Il diagramma è un meccanismo che produce caos che l’artistaimpiega per temporalizzare l’opera d’arte. Dal punto di vistaformale, il diagramma è un insieme di tratti manuali: ciò cheDeleuze chiama «l’insieme operativo delle linee e delle zone, deitratti e delle macchie asignificanti e non rappresentative».25 Dalpunto di vista semantico, il diagramma è, da un lato, «un vio-lento caos» in relazione ai dati figurativi, e dall’altro è «ungerme di ordine e di ritmo», in relazione al nuovo ordine dellavoro artistico che apre sfere sensibili.26 Secondo Deleuzedipingere dopo Cezanne significa costruire una struttura liberache destabilizza la posizione dell’artista e lo assiste nell’evolu-zione di un lavoro originario, che è quel che Deleuze chiama«seconda figurazione»:

un insieme visivo probabile (prima figurazione) viene disor-ganizzato, deformato da tratti manuali liberi, i quali, unavolta reiniettati nell’insieme, formeranno la Figura visivaimprobabile (seconda figurazione)27

Il diagramma conclude il lavoro preparatorio e dà inizioall’atto vero e proprio della produzione artistica. Deleuze notacome sia possibile distinguere diversi tipi di diagramma e addi-rittura datare il diagramma nell’opera di un particolare artista,poiché esiste sempre un momento in cui l’artista deve fare iconti con il diagramma in maniera più diretta. Francis Bacondescrive questo momento, che egli chiama «opportunità mani-polata» come segue:

207ROBERT GERO

23 Ibidem.24 Ivi, p. 167.25 Ivi, p. 169.26 Ibidem.27 Ivi, p. 165.

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i segni sono stati tracciati e la cosa ti appare come una sorta di grafo.E tu vedi dentro questo grafo tutte le possibilità di quel che è statoimpiantato. Questa è una cosa difficile; mi sto esprimendo male. Mavedi, per esempio, mettiamo il caso si tratti di un ritratto, forse inun certo momento hai messo la bocca da qualche parte, ma subitovedi tramite questo grafo che la bocca potrebbe andare verso destralungo la faccia. E in maniera tale che vorresti poter fare un Saharadell’apparenza – farlo è così bello, che sembra proprio avere l’e-stensione del Sahara28

Deleuze identifica esplicitamente il concetto di grafo di Baconcon il concetto di diagramma: «è come se l’unità di misura fossecambiata, e misure micrometriche o addirittura cosmiche venis-sero sostituite dall’unità figurativa».29

In breve, il concetto di diagramma è un espediente casualeutilizzato dall’artista per deformare o destabilizzare il sistemacollettivo di figurazione. Deleuze non pensa che l’artista costrui-sca un diagramma in maniera intenzionale; si dà un diagrammase e solo se l’artista è in grado di usare segni grafici liberi perdeformare, distruggere o espandere i dati prepittorici. Deleuzeindividua nell’artista un’intelligenza addestrata e una mano«mobile», rispecchiando in questo la distinzione romantica cheKant delinea tra il giudizio educato dell’artista e il suo genioartistico come forza della natura. Sempre Deleuze scrive:

è come l’apparizione improvvisa di un altro mondo. Poiché questisegni, questi tratti sono irrazionali, involontari, accidentali, liberi,casuali. Sono non rappresentativi, non illustrativi, non narrativi. Manon sono né più significativi né più significanti: sono tratti asignifi-canti, tratti di sensazione, ma di sensazioni confuse (le sensazioniconfuse che ci portiamo dalla nascita, diceva Cezanne). E soprattut-to sono tratti manuali [...] Questi segni manuali, quasi ciechi, stan-no dunque a testimoniare l’intrusione di un altro mondo nel mondovisivo della figurazione. Sottraggono in parte il dipinto all’organiz-zazione ottica che già vi regnava, rendendolo in anticipo figurativo.La mano del pittore è intervenuta per liberarsi dalla dipendenza einfrangere la sovrana organizzazione ottica: come in una catastrofe,in un caos, non si vede più nulla30

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28 D. Sylvester, The Brutality of Fact: Interviews with Francis Bacon, Thames andHudson, New York 1981, p. 56.

29 Ivi, p. 82.30 G. Deleuze, Francis Bacon: la logica della sensazione, cit., p. 168.

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Per questa ragione, Deleuze ritiene fondamentale distinguerela reazione dell’artista nei confronti della rottura accidentale deisegni grafici in un’opera – ciò che egli chiama «il diagramma» –dalla selezione calcolata da parte dell’artista delle possibilitàall’interno di un apparato combinatorio definito – che poi è quelche lui chiama «codice». Deleuze impiega questa distinzione perenfatizzare il contrasto tra la pratica artistica viscerale di FrancisBacon e la pratica artistica cerebrale di Marcel Duchamp.

Logica di strategia

Diversamente da Deleuze, io penso che la creazione di opered’arte dinamiche e indeterminate non sia limitata ad alcuni qua-dri moderni. Per questa ragione credo che i concetti di Deleuzepossano essere rielaborati con una certa utilità nello sviluppo diuna più ampia logica di strategia.

Gli artisti contemporanei lavorano con una struttura-di-baseche è tanto teoretica quanto figurativa. La pratica artistica con-temporanea sfrutta e impiega a livello intenzionale le implica-zioni socio-storiche di ciò che è rappresentazionale, illustrativoe narrativo. Non si tratta più dell’isolamento modernista di unaqualche base pura nella sua tensione alla specificità, cioè, del-l’atto di isolare qualche sensazione fondamentale o essenzamateriale. Si tratta di una strutturazione complessa di tensioni.Il territorio dell’arte, parzialmente definito dalla tassonomia diposizioni indicizzate nella storia dell’arte, costituisce un terrenoricco di luoghi possibili per la produzione artistica. Selezionareuno spazio per la pratica artistica contemporanea significa sele-zionare uno spazio all’interno di un ambito culturale più ampio;ciò implica necessariamente lavorare nell’ambito di un appara-to concettuale e non puramente sensibile. Parte di ciò che vogliodire affermando che uno spazio o una collocazione possibilisono concettuali, è che un’opera d’arte che «abita» un determi-nato spazio, non solo ne assume le connessioni teoretiche, ma neaggiunge di nuove. Per esempio, The Lobster di John Currin(2001) forza la collisione tra lo stile pittorico del diciottesimosecolo e l’apparato di immagini proveniente dalla cultura popo-lare del ventesimo secolo – cartoni animati, pin-ups e copertinedi libri fantastici. Nel fare ciò, Currin fa riferimento alla criticadei pittori da galleria d’arte all’ignobile scelta di un soggettorealizzata dai pittori di nature morte – lepri morte, piatti da por-

209ROBERT GERO

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tata con pasti consumati a metà. In certi casi, le connessioni teo-retiche dello spazio prescelto sono le uniche proprietà critichedell’opera d’arte.

Selezionare uno spazio all’interno di un ambito culturale nonsignifica semplicemente realizzare uno spostamento; implical’invenzione di un uso specifico di tale spazio. L’artista lavoraper rimuovere i dati pre-figurativi e le convenzioni, allontanan-dosi da alcuni, o operando una selezione tra altri. L’utilizzo diquesti parametri è simultaneamente multiplo: invocare, accumu-lare e moltiplicare ed al tempo stesso opporre, giustapporre,strappare e rompere. Questi spostamenti coinvolgono delibera-tamente ciò che è irrazionale, involontario e accidentale. Gli arti-sti contemporanei generano spostamenti che creano un caosintelligibile o una rottura. Essi pongono in contrasto i dati pre-concetti allo scopo di far risuonare nuovi e differenti significati.Molto spesso questo processo non è manuale; i clichès possonoessere «spazzati via» semplicemente nell’atto dell’artista di crea-re nuovi collegamenti, nuove distinzioni nell’ambito dei datipreconcetti. Gli artisti spesso ricontestualizzano e ricompongonoi significanti culturali allo scopo di spostare e modificare le lorofunzioni rappresentazionali, illustrative e narrative. Spostamentie modifiche di questo tipo possono anche essere realizzate nellamisura in cui, per fare un esempio, nei giganteschi oggetti gon-fiabili del pezzo di Paul McCarthy Blockhead, rimasto per mesi difronte al Tate Modern di Londra, o nell’autoritratto infinitesima-le di Tom Friedman, realizzato su una capocchia di spillo. Questotipo di sbilanciamento può verificarsi anche quando gli artistimonumentalizzano un’esperienza o un lavoro della loro adole-scenza, come ha fatto Paul McCarthy nel 2004 alla Biennale diWhitney, costruendo una figura sulla base di una scultura cheaveva realizzato quando aveva quindici anni.

Poiché il diagramma è una strategia particolare che guida uncorso specifico di azione e produzione, il diagramma è l’insiemeoperativo di concetti e intenzioni che costituisce uno sposta-mento. Il risultato è l’esibizione o il fatto della presentazione.Sono d’accordo con Deleuze quando questi scrive che

(il diagramma) traccia delle possibilità di fatto ma non costituisceancora un fatto [...] fino a che non si reinietta nell’insieme visivo; maproprio allora, sottoposto all’azione di questi segni, l’insieme visivonon sarà più quello dell’organizzazione ottica, ma conferirà all’oc-

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chio un’altra potenza e al tempo stesso un oggetto che non sarà piùfigurativo31

Nella traduzione della strategia in opera d’arte, come nellatraduzione di un progetto in edificio, si verifica una modulazio-ne tra dare e prendere tra l’artista e l’opera d’arte, che fa transi-tare il lavoro dal suo constare di mere possibilità al suo tradursiin realtà. In questo processo l’opera d’arte si fa evento, cioè, unqualcosa che avviene in una cornice temporale.

Deleuze rielabora il concetto di diagramma di Peirce comeicona di relazioni intelligibili: un’esposizione grafica di un ragio-namento sperimentale o una descrizione di complesse relazioniastratte. Nella sua costruzione teorica Deleuze lascia perdere lafunzione iconica o rappresentativa del diagramma di Peirce persviluppare, nella sua concezione del diagramma, un ruolo pro-duttivo come labirinto di linee di forza che aiuta l’emersione diforme indeterminate. Nei Prolegomena to an Apology ofPragmaticism,32 Pierce scrive:

un diagramma, sebbene possieda di solito Elementi che si avvicina-no alla natura dei Simboli, insieme a elementi che si avvicinano allanatura degli Indici, è tuttavia principalmente un’Icona delle formedelle relazioni costitutive del suo Oggetto; perciò si vede facilmen-te quanto un diagramma sia adatto alla rappresentazione di infe-renze necessarie33

Penso che questo voglia dire che esistono due tipologie didiagramma in Peirce, ossia due modi di rappresentazione dellerelazioni intelligibili. In primo luogo, un diagramma può rap-presentare la struttura logica sottesa a una sequenza di ragiona-menti e, in secondo luogo, può descrivere come un oggetto siafondamentalmente costituito da particolari forme di relazione.

Sono d’accordo con Deleuze nel ritenere che la funzione dia-grammatica possa essere sia distruttiva che produttiva, mavoglio ritornare sulla nozione di diagramma nell’accezione di

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31 Ivi, p. 83.32 Il testo originale di Peirce è stato tradotto in italiano con il titolo Iconismo e

grafi esistenziali, cfr. C.S. Peirce, Opere, Bompiani, Milano 2003, pp. 211-250.33 Ivi, p. 214.

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Peirce come sistema di relazioni intelligibili. Se per un versocondivido l’idea che il diagramma, nella produzione artisticacontemporanea, non sia mimetico ma produttivo, per altroverso penso invece che a guidare la produzione dell’opera d’ar-te sia una posizione costruita a partire da un punto di vista teo-rico. Dirò di più, e cioè che il diagramma nella produzione arti-stica contemporanea può svolgere una funzione di tipo produt-tivo come struttura sperimentale, lì dove vi è un sistema di com-plesse linee di attivazione che costruisce un oggetto artisticoinsolito. La rigida distinzione di Deleuze tra diagramma come«la risposta ad un caos manipolato» e codice come «la selezionedi una posizione in un apparato definito e prestabilito» non puòpiù essere mantenuta; la pratica artistica dell’ultimo quindicen-nio ha abbattuto questa distinzione. In quanto ogni uso del dia-gramma come strategia implica l’uso di una posizione, dico chequalsiasi impiego del diagramma come strategia ha una valen-za produttiva. Ciò nonostante, distinguo tra impiego produttivodella strategia da quello metodologico. L’uso metodologicoconta più sulla formazione tradizionale dell’artista, sulle suedoti acquisite e sulla sua abilità di calcolare una posizione in unambito di dati preconcetti, che sulla sua abilità di inventare unanuova idea o regola estetica. Dire che l’uso produttivo della stra-tegia può autorizzare una nuova «regola» è come dire che l’o-pera d’arte può funzionare come schema mobile che contieneparadossalmente, ma non può mai esaurire, il proprio insiemedi variazioni e permutazioni possibili. Questo genere di operad’arte può a sua volta essere utilizzata da altri artisti in unnumero indefinito di modi per produrre un numero indefinitodi nuove opere d’arte. D’altra parte, è possibile che l’uso meto-dologico della strategia porti alla creazione di un’opera d’arteesemplare.

A mio avviso la strategia è una costruzione o appropriazionedeliberata di un diagramma e io distinguo due tipi principali distrategia diagrammatica: una strategia non significa stile; unartista contemporaneo non è limitato, nella sua produzione, daun unico approccio. Un artista spesso impiega un tipo di strate-gia in un’opera e uno diverso in un’altra. Nel prossimo para-grafo intendo identificare vari tipi di strategie post-medium.

212 STRATEGIE POST-MEDIUM

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Strategie Post-Medium

Una delle strategie post-medium rende meccanica quella pra-tica cui gli artisti sono avvezzi al lavorare riferendosi a modelliesemplari, isolando, assorbendo ed estendendo le idee di altriartisti. Questa pratica tradizionale si è evoluta nell’attuale stra-tegia della riproduzione, in cui ogni opera d’arte può essereridotta a forma, materiale grezzo o simbolo, piuttosto che esse-re decifrata come «regola». Il Dèjeuners di Pablo Ricasso (1959-1961) è costituito da più di duecento disegni che sono rielabora-zioni del Dèjeuner sur l’Herbe di Edouard Manet (1863) che era, asua volta, un rifacimento di una realizzazione operata daTiziano di un lavoro del Giorgione, il Concert Champetre (1510circa). In quest’opera Picasso si serve del lavoro di Manet comebase sia formale che materiale al fine di produrre nuovi conte-nuti. Il modello utilizzato in questa sequenza è particolarmentefertile, poiché rappresenta la possibilità di dipingere sull’argo-mento della relazione dell’artista con la propria arte, nell’attostesso del dipingere.

Un’altra strategia di riadattamento può essere esemplificatadall’opera di Sherrie Levine After Walker Evans (1981), in cuiLevin rifotografa i pezzi del progetto fotografico «Walker Evans’Work Project Administration», i quali ritraggono la famigliaBurroughs a Hale County in Alabama, durante la GrandeDepressione. Un’ulteriore complicazione della strategia diappropriazione all’ingrosso di Levine è che lo stesso WalkerEvans aveva precedentemente riprodotto diverse fotografie diEugene Atget degli inizi del XX secolo, che ritraevano gli stratipiù poveri della classe operaia parigina e gli interni delle loroabitazioni. In una di queste fotografie, Evans arriva a duplicarela composizione di Atget fin nei minimi particolari: forma, col-locazione del letto, del tavolo e della sedia. Il lavoro di Levine èun gioco di risveglio, rifacimento e rivisitazione.

Una strategia ulteriore di riadattamento metodologico è pre-sente nell’opera Park Position di Michael Asher (1997) che è laseconda rivisitazione di un suo stesso lavoro prodotto nel 1977.Per il Münster Skulptur Projekte del 1977, Asher comprò un pic-cola roulotte bianca e la spostò periodicamente per la città indiverse zone di parcheggio nel corso di cinque mesi.L’ubicazione delle zone di parcheggio venne affissa ogni giornonel museo. Alla fine della mostra la roulotte venne rimessata sul

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retro del museo. Quando Asher venne invitato a ritornare nel1987, egli prese la roulotte originale e la spostò nuovamenteattraverso la città di Münster, parcheggiandola nelle medesimezone, esattamente per lo stesso periodo di tempo. Nel 1997,quando Asher fece ritorno a Münster per la terza volta, nessunosapeva più dove la roulotte fosse parcheggiata. Dopo una labo-riosa ricerca la roulotte fu ritrovata in un garage locale. AlloraAsher ripropose l’opera per la terza volta.

Ciò che rende le strategie di Asher e di Levine contempora-nee è che Levine rifotografa in maniera letterale il lavoro finitodi Weston, senza cambiarne la proporzione, la dimensione o lacomposizione di superficie, mentre Asher fa rivivere la roulotte,alterata dal tempo, e i luoghi della città, ripresentandoli in unaltro tempo come un’altra opera. Un elemento aggiuntivo dellastrategia di rielaborazione di Asher è che l’oggetto che viene riu-tilizzato è stato una volta arte, ma ha necessariamente cessato diesserlo, essendo stato ritirato dall’artista stesso.

In una strategia di riciclaggio duale, Rikrit Tiravanija ricicla lapratica d’avanguardia degli «happenings» di Fluxus degli annisessanta che lavorava per offuscare la distinzione tra arte e vita.Allo stesso tempo egli riattualizzò i Poèmes en prose (1959-60) diDaniel Spoerri, in cui Spoerri aveva fissato o «intrappolato» cio-tole, bottiglie e bicchieri sporchi, lasciati in posizione casuale incima a un piccolo tavolo di legno che faceva parte dell’arreda-mento del suo studio, per poi esporli verticalmente sulla paretedi una galleria d’arte.34 Nell’opera di Tiravanija Pad Thai (1990),l’artista crea una situazione in cui egli cucina un pasto nella gal-leria d’arte per un pubblico selezionato, invitando la gente aunirsi e consumarlo sul posto. Le pile di piatti sporchi, gli uten-sili da cucina non lavati e altri avanzi del pasto vengono poiesposti in un recinto di plexiglass. Tiravanija trasporta l’espe-rienza sociale di un pasto condiviso dalla casa ad un’istituzioneartistica e poi trasforma i resti effimeri del pasto in un oggettod’arte destinato a durare. Al tempo stesso egli trasforma l’even-

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34 Daniel Spoerri commissionò a Dieter Roth un opera per la su Eat ArtGallery; Roth, volendo consegnare qualcosa di inaspettato, presentò ShitHare (1975), escrementi di coniglio pressati a formare un uovo di Pasqua aforma di coniglietto.

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to casuale di un pasto in compagnia in un evento di elite, in cuiun gruppo di privilegiati «invade» la galleria d’arte dove i loroavanzi vengono incastonati come una reliquia in un reliquiario.Altri artisti hanno lavorato con il cibo nello spazio della mostrad’arte, come Edward Ruscha in Chocolate Room (1970), egli rico-pre le pareti ed il soffitto di una stanza con fogli di carta stam-pati con cioccolato, o come Dieter Roth che crea sculture di cioc-colata, dipinge con formaggio stagionato e crea un opera come«Literatur-Wurst» fatta di romanzi stracciati, mischiati con frat-taglie ed insaccati in budello di salsiccia.

In un’altra strategia di riadattamento, Damien Hirst, neiprimi anni Novanta, esibisce una vacca sezionata trasversal-mente in sospensione in un ampio recipiente di formaldeide. Inquest’opera egli riadatta e sensazionalizza la scienza con le sueprocedure autoritarie e oggettivamente asettiche. Egli sensazio-nalizza anche la carogna di un animale come oggetto d’arte altempo stesso in cui reinterpreta la natura manipolata comenatura. Si tratta di un rifacimento delle strategie «VienneseActionist» di Hermann Nitsch che, a partire dalla metà deglianni sessanta, ha macellato sia vacche che maiali in prolungateperformance artistiche, ricoprendo poi sé stesso, il pubblico, ipavimenti e le pareti di sangue, bile ed escrementi. Nell’attopubblico del macello rituale, Nitsch mette in primo piano unapratica quotidiana nascosta mentre evoca ciò che egli definisce«un teatro di orgia e mistero». Nel corso di questo processo,Nitsch coinvolge attivamente gli spettatori nella performancericonnettendoli con l’animale vivo nell’evento della sua morte.35

Hirst, d’altro canto, nell’ingrandire l’animale come campioneinanimato o progetto scientifico, moltiplica il terrore, mediato esocializzato, dello spettatore che si riconnette improvvisamentecon la propria mortalità vedendo se stesso riflesso nelle pareti divetro del grande contenitore. Hirst utilizza l’ansia generata dallamortalità e dalla finitezza dello spettatore anche in altri lavori:per esempio in In and Out of Love (1991), dove riempie la galleriacon centinaia di farfalle tropicali, alcune delle quali si vengono

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35 Tra gli artisti che hanno lavorato nel campo del rituale, della mitologia edella morte va ricordato Chris Burden che si fece sparare nel corso della suaperformance artistica Shoot Piece (1972).

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fuori dai loro bozzoli su tele monocolore appese alle pareti. Aquesta scena egli aggiunge un taglia erba elettrico che attira a séle farfalle e le taglia a pezzi. Lo spettatore si trova in quest’operafaccia a faccia con un’accelerazione e giustapposizione dellanascita, della vita e dell’annientamento della farfalla.

Questo è un rifacimento macabro e manipolato dell’operaSenza Titolo (cavalli) di Jannis Kounellis, riproposta alla Biennaledi Venezia nel 1976. In quel lavoro Kounellis, operando nell’am-bito dell’Arte Povera, esibisce lo spazio di installazione comestalla ed inserisce, nello spazio della mostra, sei cavalli che cisono vissuti in esposizione per mesi. Così Kounellis introduceimprevedibili forme di vita nell’opera d’arte. Kounellis si arri-schia nell’inserimento temporaneo degli animali nell’oggettoarte come prodotti che vengono confezionati vivi. Certamentequi viene ripetuta la strategia di Duchamp di introdurre ciò chenon è arte nel mondo artistico. Nel caso di Duchamp si trattavadi serie di oggetti utili: il pitale, la pala da neve, la cremaglieraper bottiglie. Kounellis segue la logica del confezionamentosenza alterare l’oggetto, senza lasciare la propria traccia.36

In una complessa strategia di riadattamento, Isaac Julien,nella sua opera Baltimore (2003), costituita dall’installazionenella sua galleria di tre schermi su cui viene proiettata una pel-licola da 16 millimetri, lavora produttivamente con il soggettoiconoclastico e con la persona di Melvin Van Peebles, regista diSweet Sweetback’s Baadassss Song (1971), per riadattare le pellico-le di Blaxploitation mentre politicizza esteticamente «l’orgoglionero». In una delle scene Peebles e Sister camminano in unmuseo locale mentre viaggiano avanti e indietro dal GreatBlacks Wax Museum.37 Sister levita di fronte a un quadro diPiero della Francesca. Qui Julien, «cancellando» un’icona artisti-ca europea, utilizza in senso umoristico la figura di un afro-ame-

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36 Mentre Kant avrebbe da rilevare che questo gesto gode della libertà dal-l’artificio, che è il marchio di ciò che è naturale, egli non avrebbe mai potu-to considerare questi prodotti confezionati come arte nel 1970 perché, aquel tempo, non avrebbe potuto esistere alcun accordo intersoggettivo sulfatto che cose di questo genere avrebbero potuto essere considerate arte.

37 L’edificio che contiene le statue di cera di Martin Luther King, GorgeWashington Carter e Marvin van Peebles, tra gli altri, non è un espedientecinematografico ma un museo realmente esistente a Baltimora , Maryland.

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ricano del 1970 per rivedere le tesi sulla superiorità dei bianchie sull’imperialismo coloniale. La sua strategia produttiva è plu-risfaccettata: dispiega la tecnica formale di un trittico in movi-mento su tre schermi, una politica di identità razziale e un tri-buto ai primi artisti del video degli anni settanta che esploraro-no un nuovo mezzo espressivo lavorando con videocamere por-tatili particolarmente economiche che hanno reso possibile lacreazione di lavori indipendenti e personali. Qui il riadattamen-to di Julien si allinea con la strategia di David Reed di invadereil canone e di deporre l’autore regista, Alfred Hitchcock che, asua volta, si insinua in qualche modo in ognuno dei suoi film.Nell’opera Judy’s Bedroom (1992), Reed inserisce i propri quadrinel film Vertigo (1960) di Alfred Hitchcock tramite la ricrazionedel video e del set. In un’altra strategia di appropriazione,Douglas Gordon rielabora il film commerciale hollywoodianonel suo 24 Hour Psycho (1993) in cui Gordon «altera» il film diHitchcock rallentandolo fino a che la proiezione arrivi ad unadurata di ventiquattro ore. Questo atto estende forzatamente lecornici subliminali a lunghi intervalli di tempo, distruggendo,congelando e sospendendo il tempo esperito.38

Deleuze è convinto che ci sono due modi in cui un’opera con-temporanea può fallire: io suggerisco che ce ne sia un terzo. Leopere d’arte contemporanea possono fallire teoreticamente oltreche visivamente e manualmente. Visivamente l’opera può falli-re nel momento in cui rimane impigliata nelle convenzioni, neidati preconcetti; manualmente può fallire nell’organizzazioneottica o teoretica del lavoro. L’artista può anche strafare, cioèfare eccessivo affidamento sulla strategia e sulla struttura disostegno e dispiegare così una strategia debole o inadeguata. Inquesti modi il diagramma viene reso non operativo. Tutti questisono modi di restare convenzionali; perché l’artista, nellamigliore delle ipotesi, avrà semplicemente mutilato o maltratta-to il cliché o, nella peggiore delle ipotesi, si sarà arreso al cliché.Produrre arte capace di operare formalmente come una sorta dimetastruttura richiede una strategia sufficientemente complessao innovativa, capace di creare una ricca e mutevole moltitudine

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38 Gordon insiste sul fatto che il suo atto di revisione era inteso in senso filia-le piuttosto che sovversivo.

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di significati. Non tutti i possibili spostamenti possono essereconsiderati come diagramma strategico – non più di quantoqualsiasi mucchio o ammasso di materiali possa essere conside-rato un’opera d’arte.

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Bettina Bergo è assistent professor di filosofia pressol’Università di Montreal in Canada. Ha conseguito il titolo diPh.D. presso la Boston University e ha perfezionato i propristudi a Parigi, presso l’Istituto di Studi Sociali. I suoi interessi diricerca vertono sulla più recente filosofia morale francese e sullafilosofia idealistica e postidealistica tedesca. Tra le sue più recen-ti pubblicazioni: Husserl at the Limits of Phenomenology, (con L.Lawlor, a cura di), Northwestern University Press, 2002; Freud’sDebt to Philosophy, in: Philosophy of Psychiatry: A Companion,Oxford University Press, Oxford 2004; Witnessing beyondRecognition: Levinasian Question to Kelly Oliver, in: ContinentalPhilosophy Review, n. 36/2004; Levinasian Responsibility andFreudian Analysis, in: E. Nelson (a cura di), Adressing Levinas,Northwestern University Press, 2004.

Robert Gero è adjunct assistent professor di filosofia e storiadell’arte presso la Michigan University di Ann Arbor. Ha conse-guito il proprio titolo di Ph.D. presso la New School of SocialResearch di New York. I suoi principali interessi di ricerca sirivolgono alla storia dell’estetica contemporanea e alla teoriadell’arte. E’ autore, tra l’altro, di Strategies of the Artificial Sublime:Vacant, Obscure and Rude, California State University Press, LosAngeles 1998. Ha condotto diverse ricerche nel campo della pro-duzione artistica contemporanea, curando e organizzandodiverse presentazioni, sia a livello nazionale che internazionale,tra cui: American Academy in Rome, Roma 1999; Tom Solomon’sGarage, Los Angeles 1995; Stephanie Theodore Gallery, New York1993; Artists Space, New York 1991; Xenographia Nomadia,Venezia, Biennale 1993.

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Nectarios G. Limnatis è assistant professor presso la HofstraUniversity di New York, dove svolge la propria attività di ricer-ca e didattica. Ha conseguito un secondo titolo di Ph.D. pressola New School for Social Research di New York, e un primo tito-lo presso l’Università di Mosca. Ha svolto attività di ricerca edidattiche presso le università tedesche di Bremen, Francofortee, negli USA, presso la New School for Social Research di NewYork e l’Università del New Jersey. I suoi interessi di ricercasono rivolti verso la filosofia della politica e la filosofia europea,con particolare attenzione all’idealismo e postidealismo tedesco.Tra le sue più recenti pubblicazioni: Globalization and ModernPhilosophy, in: Radical Philosophy, n. 119/2003; La filosofia come cri-tica della globalizzazione, in: Il Giornale della Filosofia, n. 8/2003;Fichte’s Dialectical Leap. Positioning the Wissenschaftslehre in theDevelopment of German Idealism, in: D. Breazeal – T. Rockmore (acura di), Fichte and German Idealism, 2004. Ha in corso di edizio-ne una monografia dedicata all’analisi dei principali elementi dicarattere epistemologico della filosofia hegeliana.

Christian Lotz è assistent professor di filosofia presso la StateUniversity of Michigan di East Lansing. Ha conseguito il titolodi Ph.D. presso l’Università di Marburgo ed è stato già docentepresso la Emory University e la Kansas University. La sue areedi specializzazione sono costituite dalla filosofia fenomenologi-ca e dall’idealismo tedesco. È autore di diverse pubblicazioni,tra cui: Recollection, Mourning and the Absolute Past: Husserl,Freud and Derrida, in: New Yearbook for Phenomenology andPhenomenological Philosophy, n. 1/2004; Self-Awareness, Ontologyand the Phenomenon of Respect. On Heidegger’s Reading of Kant’sPractical Philosophy, in: Journal of the British Society ofPhenomenology, 2004; Subjektivität – Wahrheit – Verantwortung(con D. Carr, a cura di), Peter Lang, Francoforte 2003; Certaintyof Oneself. On Fichte’s Conception of Conscience as Non-epistemicSelf-Understanding, in: Southwest Philosophy Review, n. 1/2004.

Joseph Margolis è professore ordinario di filosofia ed è titola-re della cattedra Laura H. Carnell presso la Temple University diPhiladelphia. I suoi interessi di ricerca si sono recentemente rivol-ti alla filosofia americana. Tra le sue più recenti pubblicazioni:Moral Philosophy after 9/11, Pennsylvania University Press,2004; The Unraveling of Scientism, Cornell University Press, Ithaca

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2003); Reinventing Pragmatism, Cornell University Press, Ithaca2002. Ha in corso di completamento due monografie, di cui una èdedicata all’antropologia filosofica, dove particolare attenzioneviene dedicata all’analisi delle forme artistiche e culturali, mentrel’altra è dedicata all’epistemologia delle scienze umane.

Valerio Meattini è professore ordinario di filosofia teoreticapresso il Dipartimento di Bioetica dell’Università di Bari. La suaricerca si rivolge principalmente alla filosofia ermeneutica e allecontaminazioni che questa ha conosciuto con l’epistemologiapiù recente. Tra le sue ultime pubblicazioni: Etica e conoscenza,Laterza, Bari 2005, III ed.; Scienza - Natura - Filosofia, (a cura di),E.R.I, Roma 2003; Iperpolitica e biotecnologie. Divagazioni sulla glo-balizzazione e sui destini personali in: Il Giornale della Filosofia, n.9/2003; Il senso dei diritti. Natura e cultura in Richard Rorty, in: IlGiornale della Filosofia, n. 10/2004; Sul filo del dubbio, Copernico,Fiuggi 2005.

Luigi Pastore è ricercatore di filosofia teoretica presso ilDipartimento di Bioetica dell’Università degli Studi di Bari. Haottenuto il titolo di Ph.D. presso l’Università di Lecce e si è per-fezionato presso le università tedesche di Bremen e Köln. I suoiinteressi di ricerca insistono sul campo della fenomenologiatedesca, dell’epistemologia della mente e della filosofia politica.Tra le sue recenti pubblicazioni: Il problema della formazione deiconcetti (Begriffsbildung) nel giovane Heidegger, in: LEM, 20-21/2002; L’antropologia del politico in Leo Strauss, in: Il Giornaledella Filosofia, n. 6/2002; Bioetica e antropologia. La moralizzazionedella natura umana tra Jürgen Habermas e Peter Sloterdijk, in: IlGiornale della Filosofia, n. 9/2003; È curatore e coautore di: Mentee Natura, E.R.I., in corso di stampa, (con S. Dellantonio, V.Meattini e M. Stöckler); Pensare il non-identico (con Th. Gebur,Copernico, 2004); Ripensare Adorno (con Th. Gebur, Copernico,2005). Ha attualmente in via di completamento uno studiomonografico sul rapporto tra mente, semantica e ontologia nelgiovane Heidegger.

Tom Rockmore è professore ordinario di filosofia presso laDuquesne University di Pittsburg, dove dirige il localeDipartimento di Filosofia. Il suo principale settore di ricerca ècostituito dall’idealismo e dal post-idealismo tedesco e dalla teo-

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VOL. I: PROFILI EPISTEMICI

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ria sociale e politica contemporanea. E’ autore di numerose pub-blicazioni, molte delle quali tradotte in più lingue. Tra le sue pub-blicazioni più recenti: Before and After Hegel, Hackett, Indianapolis2003; New Essays in Fichte’s Foundation of the Entire Doctrine ofScientific Knowledge, (con D. Breazeale, a cura di), HumanityBooks, Amherst 2001; New Essays on Fichte’s LaterWissenschaftslehre, (con D. Breazeale, a cura di), NorthwesternUniversity Press, Evanston 2002; Marx after Marxism, Blackwell,Oxford 2002.

Elizabeth Millàn-Zaibert è assistent professor di filosofia pres-so la De Paul University di Chicago e recentemente è stata docen-te ospite presso l’Università di Lipsia. Le sue ricerche sono orien-tate all’analisi della linguistica tedesca e del romanticismo tede-sco. Tra le sue recenti pubblicazioni: A Method for the NewMillennium: Calvino and Irony, in: R. Gasch – J. Gracia – C.Korsmeyer (a cura di), Literary Philosophers: Borges, Calvino, andEco, Routledge, Londra 2002; Latin American Philosophy for the 21stCentury: the Human Condition, Values, and the Search forPhilosophical Identity, (con J. Gracia, a cura di), Prometheus, Buffalo2004; The Role of History in Latin American Philosophy: ContemporaryPerspectives, (con A. Salles, a cura di), New York State UniversityPress, Albany 2005. Ha curato l’edizione ango-americana di M.Frank, The Philosophical Foundations of Early German Romanticism,New York State University Press, Albany 2004.

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