ad invicem - diocesisantangelo

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1 Ad invicem. Bibbia e liturgia nella loro relazione strutturale. Una riflessione * 1. L’evidenza della problematica Che il rapporto tra Bibbia e liturgia sia alquanto stretto è ormai un dato acquisito sia per i teologi che per i pastori 1 . Ma di che natura è? La risposta a questa domanda contribuisce a determinare una svolta nella nostra azione pastorale nei tempi complessi che viviamo e mentre guardiamo al prossimo futuro, facendo fruttare le intuizioni di Papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium (cf. soprattutto 135-144 [sull’omelia]). La qualificazione “stretto” allude anche al fatto che potrebbe star strettoa qualcuno? È un legame (un continuum 2 ) o solamente una giustapposizione come una certa prassi pastorale a cinquant’anni dal Concilio sembrerebbe di fatto attuare, avallandola e anche fomentandola? E se fosse davvero una giustapposizione, chi vi avrebbe la precedenza? Siamo sicuri che una domanda del genere abbia senso? Sarebbe come quando ci si chiede, davanti al proverbiale dilemma, se viene prima l’uovo o la gallina. Davvero possono essere così ravvicinate la Bibbia e la liturgia? Addirittura pensate come intrecciate in una relazione “naturale”, inestricabile e quindi insindacabile? Oppure, al contrario, possono essere considerate tutto sommato “autonome”, mondi diversi che s’incontrano solo di tangenza e qualora convenga a certi schemi irriducibili? Tra l’altro, il campo di indagine e soprattutto il metodo stabilito con rigore scientifico sono propri per ciascuna delle due discipline: non poteva essere diversamente. Eppure i punti di contatto e di dipendenza reciproca restano numerosi e anche evidenti. Che ne facciamo? Dicono o no di un rapporto più profondo di quel che si tende a credere nella prassi? Questo non significa pretendere che tale rapporto reciproco sia l’unico, perché è fuori discussione che nella formazione della Bibbia hanno contribuito e in misura rilevante determinate situazioni storiche, sociali, culturali, politiche che non hanno un rapporto diretto con la liturgia. Guardando, per es., alla formazione del Pentateuco sappiamo che le mani in pasta non le tennero solo la “scuola sacerdotale” e affini, perché vi è il contributo significativo anche di altre visioni meno legate al recinto cultico. D’altro canto, la liturgia stessa ha uno sviluppo proprio che non dipende dall’influsso della Bibbia 3 . Però, non è che l’atavica paura nel mondo cattolico di cedere allo spirito riformato, qualora si restituisse “peso” (il greco báros 4 ) alla Bibbia, stia lanciando un tiro mancino? *Enzo Appella, docente di Sacra Scrittura nella P.F.T.I.M., sez. “San Luigi”, Napoli, e nell’Istituto Teologico di Basilicata, Potenza. 1 Resta un’opera fondamentale la monografia di J. DANIÉLOU, Bibbia e liturgia. La teologia biblica dei sacramenti e delle feste secondo i Padri della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1958. Sebbene datate, per avere un’idea basterebbe consultare le ancora molto utili rassegne bibliografiche di P.E. LANGEVIN, Bibliographie biblique, II (1930-1975), Laval Presses de l’Université, Québec 1982, 242-247 (alla voce «Liturgia»), puramente indicativa, e, in due puntate, di P. FIEDLER, «Neues Testament und Liturgie», in Archiv für Liturgie wissenschaft 25 (1983) 207-232; 27 (1985) 337- 365, ampia e ragionata. Sulla precisazione dei termini del binomio Bibbia e liturgia, cf. A.M. TRIACCA, voce «Bibbia e liturgia», in D. SARTORE A.M. TRIACCA, Nuovo Dizionario di Liturgia, Paoline, Roma 1984, 175-197, soprattutto 175-178. Quest’ultimo studio fornisce anche una vastissima bibliografia di approfondimento, 190-197. Cf., tra tanti, anche A.G. MARTIMORT (ed.), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, I, Brescia 1987, 152-161. Interessanti sono anche i numeri monografici Lire l’Écriture dans l’Église della Maison Dieu 126 (1976) e Uso e senso della Scrittura nelle celebrazioni liturgiche di Concilium 102 (1975). Molto interessante la prospettiva affrontata da G. PELLIZZARI, Vedere la Parola, celebrare l’attesa. Scritture, iconografia e culto nel Cristianesimo delle origini, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013. 2 Per questa questione, su cui torno più avanti, faccio riferimento a R. DE ZAN, Note e appunti di Bibbia e liturgia (dispensa ad uso degli studenti), Pontificio Istituto Liturgico Ateneo “Sant’Anselmo”, Roma 2014 2 , 27-31. 3 Curioso che nel libro del liturgista C. VALENZIANO, L’anello della sposa. La celebrazione dell’Eucarestia, Qiqajon, Magnano (VC) 1993, sulla celebrazione eucaristica, elogiato dai più e davvero eccezionale, si salti completamente la liturgia della Parola, passando direttamente da quella dell’introito a quella dell’offertorio. 4 Cf. L. ROCCI, Vocabolario greco-italiano, Società editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1980 29 , 342 (punto d: “potenza, credito, autorità, influenza”).

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Page 1: Ad invicem - diocesisantangelo

1

Ad invicem.

Bibbia e liturgia nella loro relazione strutturale. Una riflessione *

1. L’evidenza della problematica

Che il rapporto tra Bibbia e liturgia sia alquanto stretto è ormai un dato acquisito sia per i teologi

che per i pastori1. Ma di che natura è? La risposta a questa domanda contribuisce a determinare una

svolta nella nostra azione pastorale nei tempi complessi che viviamo e mentre guardiamo al

prossimo futuro, facendo fruttare le intuizioni di Papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium (cf.

soprattutto 135-144 [sull’omelia]). La qualificazione “stretto” allude anche al fatto che potrebbe

“star stretto” a qualcuno? È un legame (un continuum2) o solamente una giustapposizione come una

certa prassi pastorale a cinquant’anni dal Concilio sembrerebbe di fatto attuare, avallandola e anche

fomentandola? E se fosse davvero una giustapposizione, chi vi avrebbe la precedenza? Siamo sicuri

che una domanda del genere abbia senso? Sarebbe come quando ci si chiede, davanti al proverbiale

dilemma, se viene prima l’uovo o la gallina. Davvero possono essere così ravvicinate la Bibbia e la

liturgia? Addirittura pensate come intrecciate in una relazione “naturale”, inestricabile e quindi

insindacabile? Oppure, al contrario, possono essere considerate tutto sommato “autonome”, mondi

diversi che s’incontrano solo di tangenza e qualora convenga a certi schemi irriducibili? Tra l’altro,

il campo di indagine e soprattutto il metodo stabilito con rigore scientifico sono propri per ciascuna

delle due discipline: non poteva essere diversamente. Eppure i punti di contatto e di dipendenza

reciproca restano numerosi e anche evidenti. Che ne facciamo? Dicono o no di un rapporto più

profondo di quel che si tende a credere nella prassi? Questo non significa pretendere che tale

rapporto reciproco sia l’unico, perché è fuori discussione che nella formazione della Bibbia hanno

contribuito e in misura rilevante determinate situazioni storiche, sociali, culturali, politiche che non

hanno un rapporto diretto con la liturgia. Guardando, per es., alla formazione del Pentateuco

sappiamo che le mani in pasta non le tennero solo la “scuola sacerdotale” e affini, perché vi è il

contributo significativo anche di altre visioni meno legate al recinto cultico. D’altro canto, la

liturgia stessa ha uno sviluppo proprio che non dipende dall’influsso della Bibbia3. Però, non è che

l’atavica paura nel mondo cattolico di cedere allo spirito riformato, qualora si restituisse “peso” (il

greco báros4) alla Bibbia, stia lanciando un tiro mancino?

*Enzo Appella, docente di Sacra Scrittura nella P.F.T.I.M., sez. “San Luigi”, Napoli, e nell’Istituto Teologico di

Basilicata, Potenza.

1 Resta un’opera fondamentale la monografia di J. DANIÉLOU, Bibbia e liturgia. La teologia biblica dei sacramenti e

delle feste secondo i Padri della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1958. Sebbene datate, per avere un’idea basterebbe

consultare le ancora molto utili rassegne bibliografiche di P.E. LANGEVIN, Bibliographie biblique, II (1930-1975),

Laval Presses de l’Université, Québec 1982, 242-247 (alla voce «Liturgia»), puramente indicativa, e, in due puntate, di

P. FIEDLER, «Neues Testament und Liturgie», in Archiv für Liturgie wissenschaft 25 (1983) 207-232; 27 (1985) 337-

365, ampia e ragionata. Sulla precisazione dei termini del binomio Bibbia e liturgia, cf. A.M. TRIACCA, voce «Bibbia e

liturgia», in D. SARTORE – A.M. TRIACCA, Nuovo Dizionario di Liturgia, Paoline, Roma 1984, 175-197, soprattutto

175-178. Quest’ultimo studio fornisce anche una vastissima bibliografia di approfondimento, 190-197. Cf., tra tanti,

anche A.G. MARTIMORT (ed.), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, I, Brescia 1987, 152-161. Interessanti

sono anche i numeri monografici Lire l’Écriture dans l’Église della Maison Dieu 126 (1976) e Uso e senso della

Scrittura nelle celebrazioni liturgiche di Concilium 102 (1975). Molto interessante la prospettiva affrontata da G.

PELLIZZARI, Vedere la Parola, celebrare l’attesa. Scritture, iconografia e culto nel Cristianesimo delle origini, San

Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013. 2 Per questa questione, su cui torno più avanti, faccio riferimento a R. DE ZAN, Note e appunti di Bibbia e liturgia

(dispensa ad uso degli studenti), Pontificio Istituto Liturgico Ateneo “Sant’Anselmo”, Roma 20142, 27-31. 3 Curioso che nel libro del liturgista C. VALENZIANO, L’anello della sposa. La celebrazione dell’Eucarestia,

Qiqajon, Magnano (VC) 1993, sulla celebrazione eucaristica, elogiato dai più e davvero eccezionale, si salti

completamente la liturgia della Parola, passando direttamente da quella dell’introito a quella dell’offertorio. 4 Cf. L. ROCCI, Vocabolario greco-italiano, Società editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 198029, 342

(punto d: “potenza, credito, autorità, influenza”).

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La presente considerazione vuole provare, senza alcuna pretesa, ad attenzionare la questione, dal

momento che da più parti parrebbe notarsi una certa (crescente?) disaffezione, probabilmente non

del tutto voluta, nelle scelte pastorali e nel loro modo di espletarle, per la Scrittura e il suo

particolare impiego nella liturgia. Spiegherò man mano il senso di questo allarme. Sì, “costretti” dai

rituali all’abbondanza della Parola, come chiedeva il Concilio, ma poi nella prassi così poco attenti,

forse, a darle lo specifico spazio, quello che le converrebbe, per es. con l’omelia preparata a dovere,

con uno studio più sostenuto che stabilisca competenza in chi poi deve predicare, con una

venerazione più decisa da parte di tutti, con una reale diffusione più popolare, e quindi capillare,

che c’entri con la qualità della formazione impartita più che con la banale diffusione di volumi. Lo

stimolo a parlarne viene anche dalla “Domenica della Parola di Dio”, celebrata il 26 gennaio scorso,

istituita da parte di Papa Francesco con l’Aperuit illis per ogni III Domenica del Tempo Ordinario.

1.1. La bussola della Tradizione

La Dei Verbum, al numero 21, ad un certo punto ammette che

la Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come anche ha fatto per il corpo stesso di

Cristo.

Quel “come” (“come anche”5) deve interrogarci. Si tratta di un accostamento che non può

lasciarci indifferenti: ci procura la prospettiva corretta. Rincarando la dose, Sacrosanctum

Concilium 56 formula, a proposito della Messa, il principio che le due parti che concorrono a

comporla

cioè la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica, sono così strettamente connesse tra loro

da costituire un unico atto di culto.

La Chiesa, quindi, realizza pienamente la sua essenza e ha la sua epifania nella liturgia in cui

Bibbia e pane (eucaristico)

rivelano il suo mistero e, attraverso il suo metabolismo, diventano parola e corpo del Cristo

morto e risorto6.

Si afferma in questo modo un’unità intrinseca tra Parola e sacramento e, per estensione, tra

Bibbia e liturgia, tra Scrittura ed eucologia, realtà inclusive l’una all’altra, le sole capaci di

perpetuare l’evento di salvezza compiutosi nel Signore Gesù Cristo. La sottolineatura dell’intima

connessione di per sé risale ai padri della Chiesa, a partire da Ignazio di Antiochia, e s’è protratta

lungo tutto il Medioevo e ben oltre, ed è confermata anche nell’uso, almeno da Origene in poi, di

uno stesso linguaggio teologico e simbolico per parlare dell’incarnazione, della Bibbia e

dell’Eucarestia. Riporto tra tanti, a mo’ di esempio campionario, un eloquente passaggio di San

Girolamo:

Poiché la carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda (…) noi abbiamo nel

presente secolo questo solo bene, mangiare la sua carne e bere il suo sangue, non soltanto

5 Il latino sicut (sicut et) fu scelto al posto del velut delle precedenti stesure. Per le discussioni sugli schemi nella

composizione della Dei Verbum, cf. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei

Verbum” del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998 (soprattutto i Documenti sulla storia redazionale della costituzione,

467-489). 6 E. BIANCHI, «Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica», in Parola, Spirito e Vita 25/2 (1992), 308. Cf.

anche ID., «La centralità della Parola di Dio», in G. ALBERIGO – J.-P. JOSSUA (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa,

Paideia, Brescia 1985, 159-187; ID., Dall’ascolto della Parola alla predicazione. Tracce per la Lectio Divina, Qiqajon,

Magnano (BI) 1984, 3-31.

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nel mistero (dell’Eucarestia) ma anche nella lettura delle Scritture. La conoscenza della

Sacra Scrittura è il vero cibo e la vera bevanda che riceviamo dal Verbo di Dio7.

1.2. Le perplessità del presente

La preoccupazione che muove la mia riflessione è se tale connessione sia un elemento di cui si

stia veramente cercando una reale e profonda ricezione, oggi più di ieri: nei seminari, nelle

parrocchie, nelle facoltà teologiche, negli uffici preposti all’organizzazione della vita delle chiese e

via discorrendo; se attorno ad essa si stia pensando e costruendo una concreta strategia pastorale, sia

di corta che di lunga gittata, e una sicura e più pregnante spiritualità per affrontare il nostro

saeculum8. Resto colpito che nel libro del Cardinal Sarah sul celibato sacerdotale, appena uscito in

francese e immediatamente tradotto in italiano, accompagnato da tante polemiche per la co-

partecipazione di Papa Benedetto XVI, quest’ultimo scriva all’inizio del suo intervento con la

consueta lucidità teologica:

Alle radici della grave situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un difetto

metodologico nell’accoglienza della Scrittura come Parola di Dio. L’abbandono

dell’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento ha portato molti esegeti

contemporanei a una teologia senza culto. Non hanno compreso che Gesù, al posto di

abolire il culto e l’adorazione dovuti a Dio, li ha assunti e portati a compimento nell’atto

d’amore del suo sacrificio. Alcuni sono giunti persino a rifiutare la necessità di un

sacerdozio autenticamente cultuale nella Nuova Alleanza9.

A me pare che, al di qua del delicato problema affrontato dagli autori, conti questa osservazione-

denuncia sulla dissociazione tra Bibbia e liturgia, tra Parola di Dio e culto. Essa porta sempre a

delle conseguente drammatiche. Lo sbilanciamento che non di rado purtroppo si constata nella

coppia Bibbia e liturgia è a favore, in certi ambienti, per la Bibbia, la Bibbia pregata o del pregare

con la Bibbia, per es., nella pratica giustamente incoraggiata da varie parti10 della Lectio Divina e

che, però,

pur con tutti i suoi meriti e vantaggi, è ben lontana dall’offrire la pienezza di valori che si

trovano, impliciti o espliciti, nella celebrazione liturgica11.

In altri ambienti, invece, l’enfasi cade oltremodo sulla liturgia, o meglio sull’aspetto della sua

ritualità, senza preoccuparsi più di quell’iter fondamentale che dalla lettura del testo santo passa

all’eucologia e, quindi, al favorire lo spazio per la conversione della propria vita, con il risultato

allarmante di una asfittica situazione, come menomata, dove il formalismo rubricistico regna

indisturbato. Il punctum dolens della questione, allora, è l’autorevolezza o meno da riconoscere al

nesso tra Bibbia e liturgia perché, per quel che concerne la Bibbia, lato indebolito del binomio, la

sua riscoperta, la riscoperta cioè della Parola di Dio dopo che per secoli i credenti non praticavano

più il contatto diretto con essa e di essa non avevano neppure l’occasione liturgica come luogo

eminentemente di accoglienza, si può considerare l’evento più fecondo del processo di ricezione del

7Commentarius in Ecclesiasten ad Paulam et Eustochium 3,13: PL 23,1039A. Su questa insistenza, cf. anche

Sant’Agostino, Sermo 56,6,10: PL 38,381; Sermo 57,7,7: PL 39,389; Sermo 58,4,5: PL 38,395; Sermo 59,3,6: PL

38,401. 8 Molto belle le riflessioni di A. RIZZI, «La lettura “liturgica” tra il testo e l’esistenza», in AA.VV., Dall’esegesi

all’ermeneutica attraverso la celebrazione. Bibbia e liturgia I, Messaggero, Padova 1991, 223-235, soprattutto 230-235. 9 R. SARAH (con J. RATZINGER - BENEDETTO XVI ), Dal profondo del nostro cuore, Cantagalli, Siena 2020, 23. 10 Un esempio per tutti è GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis 47 (anche 26). Cf. anche Optatam Totius 8;

Verbum Domini 86-87; Evangelii Gaudium 152. 11 P. VISENTIN, «La celebrazione della Parola nella liturgia», in S.A. PANIMOLLE (ed.), Ascolto della Parola e

preghiera. La “Lectio divina”, LEV, Città del Vaticano (Roma) 1987, 228.

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Vaticano II. Con in giro tanti detrattori del Concilio, purtroppo, non possiamo proprio adesso

disperdere un simile patrimonio; anzi, è proprio da esso che si dovrebbe ripartire con più

convinzione, forse con più coraggio, per tratteggiare la pastorale del presente, la quale accusa una

grave crisi com’è sotto gli occhi di tutti, una pastorale più collimante con un mondo che cambia

repentinamente al fine di inocularvi la presenza rinnovatrice dello Spirito che passa più che mai

attraverso la Parola e questa celebrata. Tutti bisogna che si faccia i conti con la ritrovata centralità

della Parola nella vita della Chiesa: è una pietra miliare da non provare neanche a porre in forse. Ci

si aspetterebbe in conseguenza che scatti a ogni livello la comprensione e l’accoglienza come bene

irrinunciabile del nesso profondo tra la Scrittura e la sua proclamazione in contesto celebrativo.

Siamo capaci di vedere nella Bibbia celebrata e pregata, diventata Parola di Dio per la forza dello

Spirito Santo, la qualità di “evento di grazia” in cui il Signore che parla consegna sé stesso, si

rivela, si fa conoscere12 e, nella conoscenza, stringe e rinnova l’alleanza (la berît) con il suo popolo,

con la sua Chiesa? La Parola non è solamente l’anima del sacramento in vista della quale essa opera

ma è sacramento in sé stessa, sorgente di benedizione e di grazia13.

1.3. La Parola celebrata edifica la comunità

Per il loro sensus fidei, i fedeli sanno discernere la Parola di Dio dalle e nelle parole umane:

sanno ascoltare ciò che lo Spirito dice alle chiese (cf. Ap 2,7), altrimenti che partecipazione

fruttuosa (actuosa participiatio) ci sarebbe alla liturgia? Com’è bello questo passaggio di San

Gregorio Magno:

Molte cose nella Sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite

mettendomi di fronte ai miei fratelli (Omelie su Ezechiele II,2,1).

Che s’intende con il “mettersi di fronte ai fratelli” se non il farsi ascoltatori della Parola in un

contesto comunitario liturgico? In effetti, la Parola si comprende soprattutto qui. È vero o no che la

comprensione ultima e più completa dei testi sacri si ha proprio nella celebrazione14? E in vista di

cosa? Non sarebbe opportuno, allora, chiedersi se fosse possibile approcciare il legame tra Bibbia e

liturgia in modo tale da capire meglio come la celebrazione sia in fondo una ermeneutica credente

della Bibbia15? È la parola della Bibbia che convoca la famiglia di Dio, che riunisce la Chiesa (cf.

Presbiterorum Ordinis 4), cioè la fa, e lo fa in vista della celebrazione. È essa che fomenta la vita

spirituale (cf. Dei Verbum 26), la quale, nella celebrazione, raggiunge il massimo della sua efficacia

performativa. L’ascolto e la comprensione della Parola per viverla avvengono dunque, in modo

privilegiato, nell’assemblea liturgica; infatti, come dice Sacrosanctum Concilium 7, il Cristo

risuscitato e vivo

è presente in modo speciale nelle assemblee liturgiche (…), è lui che parla, quando nella

Chiesa si legge la Scrittura.

12 Si rammenti la forza della radice ebraica yd‘, cf. J. BERGMAN – G.J. BOTTERWECK, voce «jāda‘», in G.J.

BOTTERWECK – H. RINGGREN (edd.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, III, Paideia, Brescia 2003, 558-596. 13 Cf. E. BIANCHI, «Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica», 310. Lo stesso autore aggiunge che, quanto

alla presenza divina nella Parola e nell’Eucarestia, si tratta di scoprirne la pericorési per impedire, tra l’altro, che si

possa pensare alla Parola indipendentemente dall’Eucarestia e viceversa: «C’è un aspetto eucaristico della Parola e un

aspetto verbico (loghikós) dell’eucarestia che sono interiormente reciproci l’uno all’altro», 310. 14 Rimando al già citato lavoro raccolto in AA.VV., Dall’esegesi all’ermeneutica attraverso la celebrazione. 15 Da anni sta lavorando a questo R. DE ZAN con una ricca produzione bibliografica. La domanda è espletata in un

suo intervento alla Settimana conclusiva dell’Anno Centenario del Pontificio Istituto Biblico (3-8 maggio 2010), cf.

https://www.biblico.it/Centenario/conferenze/de_zan.pdf (ultima consultazione 27.01.2020). Cf. anche ID., voce

«Culto», in R. PENNA – G. PEREGO – G. RAVASI, Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)

2010, 268-279.

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Il Concilio ci ha posto in mano la chiave di interpretazione e di lettura esistenziale del rapporto

vigente tra culto o celebrazione liturgica e Parola, insomma tra Bibbia e liturgia: la Parola di Dio si

fa celebrazione e la celebrazione null’altro è che Parola di Dio attualizzata nel massimo dei modi,

senza che nessuna delle due perda la propria originalità16. Parola e liturgia, dunque; parola e “opera

del popolo”17, opera della comunità ecclesiale visitata dallo Spirito! Anche l’antico Israele ha potuto

comprendersi quale “popolo di Dio”, “la comunità del Signore” (qehal Yhwh18), quando, fuggiasco

dall’Egitto e ormai giunto alle pendici del monte Sinai, vale a dire al cuore del racconto

pentateucale (Es 19,1-Nm 10,1219), ha lì ricevuto nel maestoso quadro teofanico (Es 19,9-25) la

rivelazione della Tôrāh (Es 20,1-17: il Decalogo). Quel giorno non fu un giorno qualunque, ma “il

giorno della comunità”(yôm ha-qāhāl), un “giorno santo” (yôm qādosh), come lo qualifica Ne 8,9-

10, il giorno in cui Dio ha fatto udire lì, al Sinai, ovvero non in un luogo qualunque, la sua voce

(qôl) e l’ha riempito della sua presenza (shekînāh). Quella che fu radunata, inoltre, non fu una

comunità qualunque, ma “la comunità” (ha-qāhāl) che si riconobbe tale proprio “in quel giorno”, il

giorno cioè in cui s’è ricevuto il dono di quelle parole (debarîm), della “Legge” che ha costituito

Israele, chiamato fuori dalla casa di schiavitù, come popolo di Dio tra molti (cf. Dt 7,6s). Un circolo

virtuoso! Un magnifico feedback! Dio parlò personalmente al suo popolo in quel giorno e in esso fu

data l’occasione del primo qāhāl del popolo di Dio, il quale divenne l’emblematica immagine della

comunità cultuale di tutti i tempi, l’assemblea originaria di Israele di cui le successive assemblee

sarebbero state in certa misura copia e modulazione che l’avrebbero dilatata cogliendone lo spirito

più autentico. Al Sinai la voce di Dio (la sua Parola) chiamò a raccolta al suo cospetto (lifnê) per la

prima volta il popolo e quel che lì avvenne allora divenne costitutivo per le “comunità” di tutti i

tempi. Il Pentateuco ci testimonia che le parole pronunciate da Dio e ascoltate da Israele, la Tôrāh

(orale e scritta) che egli gli dona, permette quale effetto la costituzione del qehal Yhwh, il quale ha a

sua volta come obiettivo il rendere culto a Dio (cf. Es 3,12). Dopo tutto fu questa la risposta che,

secondo l’indicazione del Signore, Mosè diede a faraone: “Ci sia permesso di andare nel deserto a

tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio” (Es 3,18).

Sintetizzerei così: dal parlare di Dio (wayyô’mer [il primo è in Gen 1,3]) alla fondazione della

comunità passando attraverso la Legge, quella scritta direttamente da Dio sul Sinai20, la quale è

ascoltata da Israele, della quale egli fa memoria e per la quale rende grazie al suo Signore. Tale

movimento caratterizza il centro stesso del Pentateuco e, quindi, della Bibbia intera: dalla Parola di

Dio alla sua messa per iscritto alla proclamazione liturgica che ne celebra l’efficacia salvifica. È un

metodo (meta-odós)!

2. La san(t)a reciprocità

2.1. Dal punto di vista del biblista

Appare che una cosa è se il legame tra Bibbia e liturgia viene studiato dal punto di vista del

biblista: genericamente detto, egli tende a esaltarlo in una certa direzione, nel senso che si chiede

principalmente quanta liturgia si incontra nella Bibbia. Così l’attenzione è rivolta ai testi rituali,

16 Cf. A.M. TRIACCA, voce «Bibbia e liturgia», 179. 17 Liturgia è dal greco leitourgía, ossia léiton, “luogo degli affari pubblici”, a sua volta da laós, “popolo”, e érgon,

“opera”, cf. L. ROCCI, Vocabolario greco-italiano, 1133. 18 Faccio presente che la parola ebraica qāhāl deriva dalla radice qhl che, all’Hifil, significa “essere raccolti,

convocati, adunati”, cf. L. ALONSO SCHÖKEL, Dizionario di ebraico biblico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013,

727-728. Il greco della LXX la traduce con il verbo kaléo e, quindi, ekklesía. Per approfondire, cf. E. APPELLA,

«Comunità e anticomunità: immagini “ecclesiali” nel Pentateuco», in Theologia Viatorum 17 (2012) 25-50. 19 La pericope sinaitica, stabilita dall’annotazione “… arrivarono al deserto del Sinai” (Es 19,1) per l’inizio e “… si

mossero dal deserto del Sinai” per la fine (Nm 10,12), corrisponde al centro della costruzione chiastico-speculare che è

il Corpus pentateucale, cf. E. ZENGER (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 2005, 95-110. 20 È significativo che, stando ai passaggi del racconto in Es 31,18; 32,15-16 e Dt 10,1-4, l’unica “scrittura” di Dio

sia quella incisa con il suo dito sulle due tavole del Decalogo, sopra il Sinai.

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eucologici, teologico-liturgici, ecc., che non mancano affatto nel Libro sacro21; basterebbe pensare,

per l’AT, alla raccolta di tehîllîm che, seguendo il greco, chiamiamo Salterio22 (psaltérion) e, per il

NT, all’Apocalisse 23 . Può bastare questo modo di procedere? Importante sì, addirittura

indispensabile, ma insufficiente. La “lettera” da cui non dovesse sgorgare la fluenza dello “spirito”

a cosa servirebbe? (cf. 2Cor 3,6). Persino la sapienza (chokmāh), con tutta l’imponenza della sua

personificazione come l’ha immaginata l’autore ispirato e descritta nei testi (cf. Pr 8; ma anche Sap

7-8; Gb 28; Sir 24), non varrebbe nulla senza la leggiadria del suo gioco spensierato, al pari di una

bimbetta (’āmôn 24) che sulla grande tavola del mondo si diverte davanti al Creatore, donandogli di

che gioire (v.30). Possiamo eleggerla a metafora della liturgia, dell’irrinunciabile suo legame con la

Bibbia? La Bibbia si fa liturgia (danza, canto, solennità, simbolo, rito, gioia, spectaculum, ecc.) e, in

questa, si realizza, cioè si compie, compiacendo Dio che salva l’universo. Può, tale immagine,

rimandare al sacerdotale gioioso “servizio” (‘abōdāh25) santo e gradito a Dio scaturito dall’ascolto

della sua Parola creativa o nel mentre la si ode nella proclamazione cultica? È possibile considerarla

come evocazione del Verbum Domini nella sua condizione “letterale” che, per essere stato

conosciuto o, meglio, per essersi fatto conoscere quale da‘at Yhwh, sboccia sulla bocca dell’orante

in lode liturgica e rendimento di grazie? Ciò che la Bibbia ebraica classifica come ketûbîm

(letteralmente “scritti”) e che noi appelliamo “libri sapienziali”, non sono da ritenersi innanzitutto

come pagine che hanno semplicemente messo per iscritto il meglio della riflessione filosofico-

teologica del pio ebreo elaborata a partire dalla sua vita particolare, quella vissuta nel quotidiano.

C’è sempre una qualche dimensione liturgico-comunitaria che vi emerge quale tratto irrinunciabile:

scritti, sì, ma per essere ascoltati in assemblea, perché essa ne fosse istruita e poter vivere in

comunione con Dio, più che per la meditazione personale e riservata, la quale non è però esclusa26.

Si consideri il fatto che in Israele la “casa dello studio” (bêt hā-midraš), la scuola dove si

apprendeva la Tôrāh, poteva sorgere accanto al luogo del culto (bêt hā-miqdaš): non è un caso27.

Studio, apprendimento, lettura, ascolto, rendimento di grazie, gioia liturgica avevano un unico

afflato e tutti erano legati dal medesimo filo d’oro.

2.2. Dal punto di vista del liturgista

Se, invece, il legame è considerato secondo la prospettiva del liturgista, allora la faccenda è

esattamente capovolta, perché questi si interessa in buona sostanza a quanta Bibbia c’è nella

21 Cf. P.R. TRAGAN, Bibbia e liturgia (dispensa ad uso degli studenti/121), Pontificio Istituto Liturgico Ateneo

“Sant’Anselmo”, Roma 1982. 22 Cf. M.I. ANGELINI – R. VIGNOLO (edd.), Nei paesaggi dell’anima. Come i salmi diventano preghiera, Vita e

Pensiero, Milano 2012; ID., Un libro nelle viscere. I salmi, via della vita, Vita e Pensiero, Milano 2011. 23 Cf. C. MANUNZA, L’Apocalisse come “actio liturgica” cristiana. Studio esegetico-teologico di Ap 1,9-16; 3,14-

22; 13,9-10; 19,1-8, G&BPress, Roma 2012. Per una buona presentazione sintetica, cf. E. COTHENET, «L’Apocalisse»,

in P. GRELOT (ed.), La liturgia del Nuovo Testamento (Introduzione al Nuovo Testamento 9), Borla, Roma 1992, 158-

177. 24 Preferisco, con molti altri, questa traduzione del termine ebraico che è alquanto difficile da comprendere, piuttosto

che la sua resa con “architetto” o “artefice”, cf. M. GILBERT, La sapienza del cielo. Proverbi, Giobbe, Qohèlet,

Siracide, Sapienza, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, 43. 25 Dalla radice ebraica ‘bd, cf. L. ALONSO SCHÖKEL, Dizionario di ebraico biblico, 598-599. Cf. anche R. DE ZAN,

voce «Culto», in R. PENNA – G. PEREGO – G. RAVASI, Temi teologici della Bibbia, 268. 26 Qohelet (l’Ecclesiaste della LXX e poi della Vulgata) è parola ebraica che ha a che fare con qhl e si traduce alla

lettera con “radunante” (un’assemblea liturgica): il predicatore in un assemblea, il suo presidente. Un libro, dunque, che

sebbene espone una riflessione sapienziale degna dei grandi filosofi e teologi di ogni tempo, è pensato per l’annuncio

assembleare. 27 Era così non solo per il Tempio ma anche per le sinagoghe, fino ad oggi. Per l’esattezza, almeno fin dall’epoca

rabbinica, le sinagoghe vennero spesso utilizzate, oltre che come luogo privilegiato del servizio liturgico, anche come

scuola e per tutte le esigenze collettive della comunità. Cf. E. POLI, Ebraismo I, Edizioni Studio Domenicano, Bologna

1995, 74. Di bêt midraš si parla in Sir 51,23, cf. R. DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Casale

Monferrato 1964, 60. Più in generale, cf. A. LEMAIRE, Le scuole e la formazione della Bibbia nell’Israele antico,

Paideia, Brescia 1981.

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7

liturgia: nei lezionari, nel messale, nelle eucologie, nelle strutture e quant’altro, e a come la liturgia,

nelle celebrazioni, usa le pericopi dello Scritto sacro28. In fondo, è stato dimostrato come dietro agli

schemi portanti delle nostre liturgie ed eucologie viva l’impianto della preghiera biblico-

sinagogale29. Si può allora maneggiare un materiale talmente esplosivo, com’è la Parola divina

dentro la Bibbia, la quale a sua volta contiene la dýnamis dello Spirito30, senza farlo brillare in aria?

Anche il sacerdote Eli, pur immerso nel sacro del santuario di Silo e delle sue liturgie, non

comprese le situazioni31 e non seppe leggere i segni dei tempi giacché, nonostante la puntualità del

culto annuale lì svolto, persino per lui “la parola del Signore (debar-Yhwh) s’era fatta rara (yāqār) in

quei giorni e le visioni non erano frequenti” (1Sam 3,1). Il profeta avrebbe gridato senza ritegno:

“Poiché questo popolo si avvicina a me con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è

lontano da me” (Is 29,13; cf. anche Mt 15,7-9). Una liturgia che non dovesse far godere della beltà

della Parola della Scrittura e che in qualche maniera, pure senza volerlo, ostacoli la possibilità

intrinseca alla concretezza del Verbo di effettuare una performance salvifica in chi ascolta è “…un

cimbalo che strepita” (1Cor 13,1). Senza creare uno spazio di comunicazione, di comunione, un

perimetro liturgico in cui si possa esprimere la crescita (“rigenerazione”) della Parola con chi

l’ascolta mentre è proclamata, anche un’eucologia ispirata dai testi biblici resterebbe un evento

riservato ai chierici e agli addetti ai lavori o solo edito nei rituali32. San Gregorio Magno diceva che

divina eloquia cum legente crescunt (Omelie su Ezechiele I,7,8): è tutto un programma 33 !

L’impressione è che, nella pratica, permanga la concezione che la celebrazione liturgica (del

sacramento) dona la “grazia” mentre la parola biblica dona la “dottrina”. In altri termini, che il

sacramento è efficace mentre la parola è solo capace di preparare il sacramento e di insegnare34. Se,

però, la parola biblica non dovesse essere vissuta nell’economia sacramentale, e quindi dentro la

liturgia, come trasmissione di potenza e di grazia e non solamente di comunicazione di verità e di

precetto resterà sempre parola su Dio, più che parola di Dio, e sarà soltanto un preludio alla

celebrazione35.

Si riconosce o no alla Parola celebrata la qualità di luogo della presenza divina? Si è disposti o

no a seguire l’iter dalla lectio all’eucologia, come accennavo prima, attraverso una “rigenerazione”

28 Nella voce «Bibbia e liturgia» citata prima, il liturgista TRIACCA si sforza in modo ineccepibile di precisare che le

due realtà vanno all’unisono, nonostante tutte le precisazioni e le distinzioni del caso: il binomio «“liturgia e Bibbia” fa

pensare all’ambito della venerazione (e dell’uso) che la liturgia, nella celebrazione e fuori di essa, tributa (e fa) al (del)

libro sacro, al Libro per eccellenza: la Bibbia». E poi continua: quel che davvero più conta è che s’intenda il binomio

nei termini di «“celebrazione liturgica e Parola di Dio”: ci interessa cioè il vivo messaggio, trasmesso nella sacra

Scrittura, in quanto celebrato nell’azione liturgica; o se più piace, e sulla scia di quanto proviene dal Vaticano II, la

celebrazione liturgica della Parola di Dio», 178. 29 Un es. per tutti, è la tesi di C. GIRAUDO, La struttura letteraria della preghiera eucaristica. Saggio sulla genesi

letteraria di una forma. Toda veterotestamentaria, Beraka giudaica, Anafora cristiana (Analecta Biblica 92), PIB, Roma

1989. 30 È uno dei nomi della potenza di Dio, dello Spirito Santo (cf. Lc 4,14). Cf. O. BETZ, «Potere, potenza», in L.

COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD (edd.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento,

Dehoniane, Bologna 1986, 1346-1351. 31 Il testo racconta che non capì subito né che Anna stava pregando, confondendola nientemeno che con una ubriaca

(1Sam 1,9-18), né che il piccolo Samuele, andando da lui, in realtà stava ricevendo la chiamata dalla voce di Dio (1Sam

3,1-18). 32 Cf. E. BIANCHI, «Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica», 311. 33 Cf. I. GARGANO, «“Scriptura cum legente crescit”. Dal testo scritto al momento celebrativo», AA.VV.,

Dall’esegesi all’ermeneutica attraverso la celebrazione, 153-182. 34 Cf. R. DE ZAN, «Punti salienti dei Praenotanda dell’Ordo Lectionum Missae 1981», in Rivista Liturgica 5

(1983), 701-702. In effetti, nei Praenotanda al n. 10 si afferma che «la Chiesa, nutrita spiritualmente all’una e all’altra

mensa, da una parte si arricchisce nella dottrina e dall’altra si rafforza nella santità. Nella parola di Dio si annunzia la

divina alleanza, mentre nell’eucarestia si ripropone l’alleanza stessa, nuova ed eterna». Cf. anche Principi e norme per

l’uso del Messale Romano II, 8. 35 Cf. P. VISENTIN, «La celebrazione della Parola nella liturgia», 239-240.

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della Parola ascoltata e accolta, in suppliche, inni, ringraziamenti36? Bisognerebbe considerare a

questo punto anche la faccenda della responsabilità di chi tiene l’omelia e, in genere, la

predicazione37. Torno a formulare la domanda: si è convinti a sufficienza che una profonda e

credibile assimilazione della Parola di Dio avviene soprattutto nella liturgia? Che la liturgia ha

senso per questo preciso processo?

2.3. Una mutua efficace appartenenza

È fuor di dubbio che sia un gran bene, anzi è una vera e propria provvidenza il fatto che tutti i

rituali della riforma liturgica abbiano concesso un largo spazio ai testi biblici, come ha auspicato il

Concilio: un maggior uso di essi infra actiones liturgicas38 di modo che i fedeli ne ricavino,

appunto, un nutrimento abbondante, vario e adatto alle loro diverse esigenze di vita, e come ricorda

ultimamente Benedetto XVI nella sua Verbum Domini in 57 e 63, aggiungendo a mo’ di

ricapitolazione che «ogni azione liturgica è per natura sua intrisa di sacra Scrittura» (52), cioè non

poteva che essere così39. Non è possibile allora considerarli una sorta di “preambolo” se non

addirittura un riempitivo a quella che sarebbe poi l’azione liturgica vera e propria. La conseguenza

inaccettabile è che avremmo una Bibbia a servizio di altro, un modo di intenderla strumentale,

funzionale e niente di più, quasi decorativa nella magnifica e solenne architettura liturgica, forse per

qualcuno addirittura un fastidio. Si può immaginare una liturgia senza Bibbia? Certo che no! Si può

far finta che in una liturgia la Bibbia non ci sia? Mi si perdoni l’ardito e forse inappropriato

accostamento che sto per esprimere, perché la preoccupazione non è peregrina40, dal momento che

si osserva la tendenza ancora una volta ad utilizzare, almeno nella predicazione clericale in ambito

liturgico, i testi scritturistici come fu nei Libri di Sentenze, nelle Glosse o nelle Questioni disputate

medievali e moderne, dove essi erano piuttosto occasioni per fondare e dimostrare una theoria

teologica. Un impiego ad hoc della parola biblica! È un pericolo subdolo che ci tocca smascherare,

denunciare e contrastare. La Parola di Dio proclamata nella celebrazione è azione di culto in sé e

non semplicemente una preparazione ad essa, ossia raggiunge le finalità per cui è proclamata,

rivelata, celebrata. Conta molto di più nel binomio Bibbia e liturgia considerare, perciò, il

continuum tra le due realtà, di cui dicevo all’inizio, un continuum che tira dentro la vita concreta

della comunità che ascolta e celebra e sperimenta la salvezza di Dio. Scrive De Zan:

Bisogna dire che il binomio “Bibbia e Liturgia”, oltre che essere affrontato come “la

Liturgia nella Bibbia” e come “la Bibbia nella Liturgia”, può essere affrontato sic et

simpliciter come “Bibbia e Liturgia”, sottintendendo con tale espressione il continuum

formato dal binomio. Ciò significa trovarsi di fronte a una nuova materia poiché c’è un

rapporto fondamentale tra Bibbia e Liturgia che genera l’identificazione di alcuni elementi

primordiali e fondanti, condizioni senza le quali la Bibbia cessa di essere tale perché non

36 Cf. L. BOUYER, «La parole de Dieu vit dans la liturgie», in AA. VV., Parole de Dieu et liturgie (III Congrès

national du C.P.L.), Cerf, Paris 1958, 105-126. 37 Questa dell’omelia è questione sollevata nella Evangelii Gaudium da Papa Francesco, come ho già detto, in 135-

144, e anche nella Verbum Domini di Papa Benedetto XVI, in 59 (60). Cf. anche CONGREGAZIONE PER IL CULTO

DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio omiletico, LEV, Città del Vaticano (Roma) 2015. 38 Cf. Sacrosanctum Concilium 35,1; 51; 92a; ed anche 7; 9; 48; 52; 56; 106; Dei Verbum 21a; 26. Cf. anche Lumen

Gentium 42. 39 Il Papa cita la Sacrosanctum Concilium 24: «(…) nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha un’importanza

estrema. Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia e i salmi che si cantano; del suo

afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le

azioni e i simboli liturgici», e prosegue con un passaggio dell’Ordinamento delle letture della Messa 4: «(…) la

celebrazione liturgica diventa una continua, piena ed efficace proclamazione della parola di Dio. Pertanto la parola di

Dio, costantemente annunziata nella liturgia, è sempre viva ed efficace per la potenza dello Spirito Santo, e manifesta

quell’amore operante del Padre che giammai cessa di operare verso tutti gli uomini». 40 Com’è espressa in F. MAGNANI – V. D’AMATO (edd.), Liturgia ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con

la bellezza della liturgia (Atti del Congresso – Roma 25-27 febbraio 2015), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2016.

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c’è la Liturgia e, viceversa, la Liturgia cessa di avere il valore di celebrazione perché non

c’è la Scrittura41.

La Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, nel 1993 diceva

che:

La liturgia (…) realizza l’attualizzazione perfetta dei testi biblici, perché situa la

proclamazione in seno alla comunità dei credenti riuniti intorno a Cristo per avvicinarsi a

Dio (110-111),

facendo così giusta eco a Dei Verbum 21, da cui sono partito. Poi Dei Verbum 25 aggiunge:

Perciò è necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i

diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, devono essere

attaccati alle Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché

qualcuno di loro non diventi “vano predicatore della Parola di Dio all’esterno, lui che non

l’ascolta di dentro”, mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti

ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia42.

Nella lettera che i biblisti italiani, in occasione della XL Settimana Biblica Nazionale,

indirizzarono all’allora presidente della CEI, il Cardinal Bagnasco, ai Vescovi e ai partecipanti al

Sinodo sulla Parola di Dio del 2008, a un certo punto si esprimono così:

La varietà e la ricchezza dei metodi, progressivamente affinati, permette di avere

prospettive sempre nuove alla lettura dei testi biblici. Gli approfondimenti che ne derivano,

si sedimentano all’interno della teologia e della cultura. Alcuni risultati costituiscono veri e

propri “punti di non ritorno”. Tuttavia il lavoro esegetico, diversamente valutato nelle

differenti culture, avviene in un contesto in cui è presente anche un’interpretazione delle

Scritture guidata e alimentata dall’esperienza di fede. La riflessione credente si muove

all’interno della storia e trae impulso dalla pluralità delle culture. L’ermeneutica credente

interroga i testi biblici per nutrire l’esistenza e la fede. Li interpreta sulla base del

presupposto che essi hanno un contenuto dottrinale assoluto e permanente (“per la nostra

salvezza”, Dei Verbum 11-12) che deve essere tuttavia attualizzato nel processo della viva

tradizione della fede e a partire dalla vita delle comunità cristiane e di ogni credente.

Che è come dire che l’esegesi, l’interpretazione e tutto il lavoro e lo sforzo dei biblisti

raggiungono il loro culmine allorché ogni singolo cristiano si confronta personalmente con la

Bibbia quale Parola di Dio, vi si immerge, ne trae alimento e vi si appoggia per orientare la propria

vita. Senza questo, avremmo solamente passatempo intellettuale, sicuramente degno e interessante,

ma senza grandi conseguenze per la vita degli uomini, dei credenti e della comunità cristiana43. Si

41 Cf. R. DE ZAN, Note e appunti di Bibbia e liturgia, 26. Egli continua: «Il campo non e più determinato

dall’accostamento di due realtà autonome e, per certi aspetti, simili e contrapposte, ma di una realtà unica dove la realtà

Bibbia funge, in ordine alla salvezza, da complementarietà alla realtà Liturgia e viceversa. Si tratta di un continuum

sincronico perché Bibbia e Liturgia, sia in una visione storico-critica sia in una visione teologica biblico-liturgica, non

possono se non coesistere. Si tratta di un continuum diacronico perché la Bibbia è garante ispirato del fatto che Dio si è

voluto comunicare in un modo e in una storia (cfr Eb 1,1-2), il quale modo e la quale storia, nella loro peculiarità e

unicità, ieri oggi e in futuro, sono contemporaneamente “misura” e “luogo” di salvezza per tutti i credenti di tutti i tempi

e di tutti i luoghi; “misura” e “luogo” di salvezza che vincolano la Chiesa, la impegnano e la determinano», 26-27. 42 Il Concilio, a proposito di tale relazione, parte idealmente da un presupposto che noi diciamo del parallelismo

esistenziale tra mensa della Parola di Dio e mensa eucaristica (cf. Dei Verbum 21a; Sacrosanctum Concilium 48.51. Cf.

anche Presbiterorum Ordinis 18a). Da tutte e due le mense deriva al fedele nutrimento per la sua vita cristiana. Di qui

l’accentuata importanza data alla Parola di Dio nella celebrazione liturgica (cf. Sacrosanctum Concilium 7.33.35, ma

anche 24.48.51; Dei Verbum 1.21.25.26). 43 Cf. A. MARÍA ARTOLA – J.M. SÁNCHEZ CARO, Bibbia e parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 349-371.

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può, dunque, ammettere che lungo i secoli e in modo ininterrotto (continuum appunto) si è operato

nella comunità credente una ermeneutica biblica attuata proprio attraverso la liturgia. La Bibbia è

per la fede celebrante. Solo nella fede celebrante la Bibbia giunge al suo massimo grado di

espressione. Questo dato era stato immediatamente percepito dagli antichi. Ne è prova il fatto che

per accogliere nel canone biblico uno scritto, oltre alla paternità apostolica, esso doveva avere anche

il requisito di essere letto nella celebrazione liturgica44.

Sempre Benedetto XVI, in Verbum Domini 52, scrive:

La Chiesa, infatti, ha sempre mostrato la consapevolezza che nell’azione liturgica la Parola

di Dio si accompagna all’intima azione dello Spirito Santo che la rende operante nel cuore

dei fedeli (…). Pertanto, occorre comprendere e vivere il valore essenziale dell’azione

liturgica per la comprensione della Parola di Dio. In un certo senso, l’ermeneutica della

fede riguardo alla sacra Scrittura deve sempre avere come punto di riferimento la liturgia,

dove la parola di Dio è celebrata come parola attuale e vivente45.

Pur essendo parti costitutive di un unico evento di salvezza qual è l’azione liturgica, esiste tra

celebrazione e Parola, sì, una differenza, come spiega un importante teologo:

ma solo di ordine logico (e, se si vuole, di ordine cronologico), non di ordine teleologico,

essendo l’una per l’altra. La loro rispettiva importanza non è da ricercare nella rispettiva

dignità di natura, ma solo nella rispettiva diversità di funzioni: la Parola di Dio “prepara” la

celebrazione del sacramento; la celebrazione “attualizza” la Parola di Dio46.

3. La postura biblica

L’ho indicato nel discorso fin’ora condotto che è la Bibbia stessa a dire qualcosa, in verità più di

qualcosa, su questo aspetto. Non lo ignoriamo. È qui che adesso porto la mia attenzione per arrivare

a una sorta di indicazione conclusiva sull’importanza del nesso tra Bibbia e liturgia da non perdere

mai di vista, soprattutto oggi. È, infatti, la natura stessa della Bibbia a favorire la stretta intesa tra

essa e la liturgia: è come se ne perorasse la causa fino a noi oggi, visto che potrebbe sparirne

dall’orizzonte il significato. È innanzitutto dentro il rapporto tra Scrittura e storia, potrei dire tra

soffio e carne, per cui la Parola di Dio si fa evento e quindi storia47, che si scopre che Bibbia e

liturgia sono legate nella loro stessa genesi. Bibbia e liturgia nascono (a) dall’evento salvifico: (b) la

Scrittura ne è l’interpretazione, (c) la liturgia ne è la proclamazione, cioè la celebrazione necessaria.

Un evento salvifico che, pur interpretato, cioè diventato parola (scrittura), non trovasse spazio nel

dialogo tra Dio e il suo popolo dentro il contesto liturgico non avrebbe futuro, nel senso che non ne

aprirebbe alcuno. Se non fosse celebrato dal popolo, una vera e propria liturgia, diventando così un

memoriale (l’ebraico zikkaron e la radice zkr48) dell’agire di Dio nella storia, sarebbe destinato

all’oblio49.

44 Cf. V. MANNUCCI – L. MAZZINGHI, Bibbia come Parola di Dio. Introduzione generale alla sacra Scrittura,

Queriniana, Brescia 201621, 281-330. 45 La sottolineatura è del Pontefice stesso, che aggiunge un’altra citazione dell’Ordinamento delle letture della

Messa 3: «La Chiesa segue fedelmente nella liturgia quel modo di leggere e di interpretare le sacre Scritture, a cui

ricorse Cristo stesso, che a partire dall’“oggi” del suo evento esorta a scrutare tutte le Scritture». Cf. Lc 4,16-21; 24,25-

35.44-49. 46 A.M. TRIACCA, voce «Bibbia e liturgia», 179. 47 Dei Verbum 2 dice che «l’economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro».

Val la pena ricordare che la parola dābār in ebraico vuol dire sia “parola” che “fatto”, “evento”, cf. L. ALONSO

SCHÖKEL, Dizionario di ebraico biblico, 170-171. 48 Cf. Idem, 228-230. 49 È un lavoro datato quello di PH. BÉGUERIE, «La Bible née de la liturgie», in Maison Dieu 126 (1976) 108-116,

ma vale ancora la pena leggerlo.

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Siamo abituati a considerare la Bibbia come un libro o un complesso di scritti (una “biblioteca”)

da leggere. Non è sbagliato, ovviamente, ma è parziale. Di fatto, ciò potrebbe apportare qualche

difficoltà, magari di tipo gnostico. La Bibbia è naturalmente molto di più. Non tutti, certo, ma tanti

dei suoi scritti erano stati, prima di essere redatti in un corpus, testi recitati in una liturgia, durante

una festa o una celebrazione50.

3.1. Accorpamenti celebrativi

Persino quando il canone biblico era in dirittura di arrivo, i suoi scritti venivano man mano

organizzati in modo da essere rispondenti prima di tutto all’esigenza liturgica. Esempio eloquente

sono i 150 Salmi, al cuore della Scrittura: la risposta orante del popolo di Dio alla Parola viene così

riconosciuta come parte integrante di questa stessa Parola. È sorprendente: la risposta dell’uomo

che, nella preghiera parla al Dio della rivelazione, diventa essa stessa Parola divina.

Altro esempio è il rotolo di meghillôt51: fu assemblato per la celebrazione (anche) della “festa

delle luci” (chanukkāh), che commemorava la riconsacrazione del Tempio e la riedificazione

dell’altare dopo la profanazione in epoca ellenistica. La stessa Tôrāh ancora oggi, da antichissima

data, è sezionata in parti (parashôt o sedarîm) per essere proclamata nella liturgia sinagogale in

modo ciclico, diventando il cuore del suo culto52. Così Tôrāh e culto sono a tal punto inscindibili

che anche nella economia sinagogale la proclamazione della Scrittura è la liturgia. Anzi, le

sinagoghe sorsero con ogni probabilità durante l’epoca esilica, se non addirittura nella ricostruzione

del post-esilio53, perché, venuto meno il Tempio (586 a.C.) con i rituali sacrificali e, con essi, il

sacerdozio aronnitico-levitico, la comunità potesse comunque raccogliersi (essere raccolta) attorno

alla celebrazione della Parola, del dābār54. A canone chiuso, la proclamazione dei testi biblici

avviene anche nella liturgia cristiana, come si sa. Pure nella nostra liturgia si leggono in modo

ciclico i libri della Bibbia. Sono testi da proclamare e, quindi, da ascoltare nel contesto celebrativo:

è il Signore che parla alla sua Chiesa55.

3.2. Scritti per essere celebrati

Sappiamo quanto sia evocatore il costante richiamo della Bibbia ebraica all’“ascolto” (la radice

shm‘56), a cominciare da ciò che è diventato nella tradizione (liturgica) giudaica la base, diciamo

50 Non andrebbe trascurato neanche il fatto relativo alla natura stessa della diffusione biblica. Fino all’invenzione

della stampa, e addirittura molti secoli dopo, non solamente il cristiano ma anche l’ebreo conoscevano la Bibbia

soprattutto attraverso la sua recitazione orale, giacché per la grande maggioranza era impossibile possedere l’immenso

complesso di manoscritti, rotoli o codici che costituivano materialmente il Libro santo. Non è forse così ancora oggi per

molti nostri cristiani? Questi conoscono la Bibbia per la sua proclamazione nella liturgia. 51 Contempla i libri di Rut, Cantico dei Cantici, Qohelet, Lamentazioni e Ester. 52 Nel ciclo annuale babilonese la Tôrāh era divisa in 54 pericopi settimanali, mentre in quello triennale d’uso in

Palestina era divisa in 167 parti, cf. G. STEMBERGER, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma 1995,

336-337. A tutt’oggi la Tôrāh è ripartita in 54 sezioni, in modo tale che ogni comunità che di sabato si raduna in

Sinagoga ascolti nel giro di un anno la solenne proclamazione integrale. Cf. anche C. PERROT, La lecture de la Bible

dans la Synagogue. Les anciennes lectures palestiniennes du Shabbat et des fêtes, Brill, Hildesheim 1973, 59-61. 53 La questione è dibattuta e resta non risolta, cf. L.I. LEVINE, La sinagoga antica, I, Lo sviluppo storico, Paideia,

Brescia 2005, soprattutto 38-44 e 146-182. 54 Sinagoga è dal greco synágein, “radunare”, che, a sua volta, traduce l’ebraico bêt keneset da kns, appunto

“sinagoga”. Ma anche il modo predominante per indicare la “comunità del Signore”, cioè la Chiesa, dal greco ekklesìa

(ek-kaleín), ha a che vedere con la radice ebraica qhl che indica all’Hifil l’“essere raccolti, convocati”. Cf. supra, nota

17. 55 Cf. T. FEDERICI, «La Bibbia diventa lezionario. Storia e criteri attuali», in AA.VV., Dall’esegesi all’ermeneutica

attraverso la celebrazione, 192-222. 56 Cf. U. RÜTERSWÖRDEN, voce «šāma‘», in G.J. BOTTERWECK – H. RINGGREN (edd.), Grande Lessico dell’Antico

Testamento, IX, 615-645.

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così, della sua orazione quotidiana: lo shema‘ yisrā’ēl (Dt 6,4)57. Si tratterebbe a rigor di termini di

una esortazione ben contestualizzata nel Deuteronomio: il tono è parenetico, tipico dell’ultimo libro

del Pentateuco. Ma il v.4, con il suo imperativo, è lievitato ed è cresciuto a dismisura, è divenuto un

gigante: un testo da proclamare perché sulla bocca degli oranti, dell’intero Israele ovunqu’esso si

trovi, germogli l’espressione della gioia (simchāh) per avere Dio qual redentore. La proclamazione,

poi, presuppone una recitazione ad alta voce, a volte accompagnata da cantici, si pensi appunto ai

Salmi ma non solo, nel contesto di una assemblea, quasi sempre liturgica 58 . Il processo di

trasformazione è, dunque, in proclamazione, in canto, insomma in preghiera liturgica. Nella festa di

Simchat-Tôrāh (il nome dato all’ultimo giorno della “festa delle capanne”), i rabbini hanno

confezionato una preghiera in cui ogni parola è di ispirazione biblica: i termini sono facilmente

identificabili nel contesto della Scrittura59. Un clima festoso, quindi, che è attinto direttamente alle

parole della Bibbia. Una specie di messa in movimento della Parola biblica che diventa preghiera

ballata60 perché il redentore dà la felicità nel fondo dei cuori secondo la propria supplica. Fare

memoria di ciò che Dio ha operato a vantaggio di Israele diventa azione di grazie, perché la festa a

sua volta risvegli ancora la memoria. Di nuovo un feedback benedetto! La gioia di Simchat-Tôrāh

viene dalla Parola di Dio e ritorna a Dio in preghiera di lode, di fiducia, di pace. È così che sono

giunti fino a noi le grandi costruzioni narrative delle tradizioni di Israele, come l’esodo, l’alleanza,

le storie patriarcali. Con essi si commemoravano e si attualizzavano nei raduni liturgici israelitici gli

eventi del passato, integrando in essi la vita degli stessi ascoltatori61. L’esodo dall’Egitto non era

forse finalizzato a una celebrazione (cf. Es 3,12; 4,23; 7,16; ecc.)? E la celebrazione non era

finalizzata alla gioia per la salvezza ricevuta, per la liberazione dalla schiavitù? L’esodo da

Babilonia non guardava forse alla celebrazione delle lodi del Signore (cf. Is 43,21)? E poi: l’esodo

del Cristo da questo mondo al Padre non suscita forse la lode della comunità raccolta, cioè la Chiesa

(cf. Lc 24,34)? E l’esodo di questa creazione verso “i cieli nuovi e la terra nuova” non è forse

accompagnato, secondo l’Apocalisse, da una liturgia cosmica?62

Una testimonianza di rilievo del processo dallo scritto al celebrato ce la offre il “piccolo credo

storico”, come lo chiamava il Von Rad63, di Dt 26,5-9 (cf. anche Dt 6,21-23; Gs 24,2-13), che più

che dire in cosa il pio ebreo crede, racconta unicamente ciò che Dio ha fatto per i padri. È una

pagina cospicua dove si può chiaramente vedere il legame della preghiera con la storia, con l’evento

vissuto, causa della stessa preghiera64. Vengono così elencati uno ad uno tutti i passaggi principali

della storia della salvezza, i portenti che Dio ha realizzato per la vita del suo popolo e che hanno

costruito e rinsaldato la relazione del Signore con Israele. Si tratta di una professione di fede

liturgica, tesa ad identificare il popolo di Dio come tale, da recitarsi nell’ambito della celebrazione,

sebbene seguendo la dinamica narrativa: è, infatti, un racconto destinato primariamente non alla

lettura personale, diremmo devozionale, o alla lettura intesa semplicemente come operazione

intellettuale, ma piuttosto a far parte di un rituale cultico e dunque pubblico, capace di coinvolgere

57 Lo shema‘ è parte della preghiera che viene recitata nella liturgia quotidiana del mattino e della sera (se ne

raccomanda anche la recita individuale prima di addormentarsi). Questa, nel suo nucleo, è formata da tre brani: Dt 6,4-

9, appunto; Dt 11,13-21 e Nm 15,37-41. 58 Mizmôr in ebraico significa canto da accompagnare con uno strumento musicale (a corda). Alcuni di essi (42; 44;

45; 46; 47; 48; 49; 84; 85; 87; 88) portano come intestazione “dei figli di Core” (livnê-qorach), che erano discendenti di

Levi e, quindi, addetti alla liturgia templare, forse dei coreuti. Ci sono i Salmi “dell’ascensione” (120-134) per il

pellegrinaggio a Gerusalemme e al suo Tempio, dove, una volta giunti, si sarebbe espletata la divina liturgia. 59 Cf. J. DES ROCHETTES, «Simhat-Tôrāh. La Tôrāh festeggiata, studiata, pregata», in Parola, Spirito e Vita 25/2

(1992) 67-81. 60 Tradizionalmente, gli ebrei, nello studio e nella preghiera, permettono ai muscoli del corpo di muoversi secondo il

ritmo della Parola mormorata, canticchiata. 61 Cf. J.A. SOGGIN, Israele in epoca biblica. Istituzioni, feste, cerimonie, rituali, Claudiana, Torino 2000. 62 Cf. E. BIANCHI, «Editoriale. Dall’evento alla celebrazione dell’evento», in Parola, Spirito e Vita 25/2 (1992), 3. 63 Cf. G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento. Teologia delle tradizioni storiche d’Israele, I, Paideia, Brescia

1972, 149-153.208.322. 64 Cf. A. BONORA, «Dalla storia e dalla natura alla professione di fede e alla celebrazione (Dt 26,1-15)», in Parola,

Spirito e Vita 25/2 (1992) 27-39.

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nella gioia mente e cuore di un intero popolo, i cui singoli membri si avvertono in profonda

comunione tra loro e con il loro Dio. Mosè sta parlando a nome di Dio e nei vv.1-4 del capitolo

istruisce, a mo’ di gran cerimoniere, l’israelita su ciò che dovrà fare e dire mentre s’appresta ad

offrire le primizie all’altare di Dio. È evidente come in questo testo si fondano tra loro racconto

biblico e liturgia, memoria antica riproposta nel gaudio della celebrazione: un racconto da

proclamare nel contesto liturgico, un racconto che si rinnova ogni volta che lo si celebra.

È interessante anche notare come in uno dei codici giuridici del Pentateuco, quello cosiddetto

dell’Alleanza (sēfer ha-berît) impegnato a legiferare su vari fronti della vita, fu infilato all’altezza di

Es 23,14-17 un calendario di tre grandi feste liturgiche del pellegrinaggio di Israele al Tempio

gerosolimitano. Pure questo fatto ci testimonia quanto centrale fosse la vita liturgica nell’Israele

antico65: ogni cosa ruotava attorno ad essa, partendo sempre dal racconto degli eventi. Le tre feste

erano state da tempi immemorabili feste di tipo agricolo, secondo il contesto indigeno (cananeo),

ma poi “storicizzate” da Israele. Nella festa primaverile degli azzimi (matstsôt), il pane non lievitato

da consumarsi in quell’occasione probabilmente evocava l’idea della purità e dell’incorruttibilità e,

quindi, l’inizio di un qualcosa di totalmente nuovo. Per Israele, però, diventò innanzitutto

memoriale della fuga dalla schiavitù d’Egitto. Bisognava farne memoria liturgica e così gioire per

questo, nutrire cioè la speranza che Dio sarebbe stato sempre con Israele. Così la festa estiva della

mietitura (šāvu‘ôt): Israele la tramutò nel memoriale del dono della Legge al Sinai, la consegna del

Decalogo, e per questo si esprime un’immensa gioia (cf. Sal 119). Infine, la festa autunnale del

raccolto (sukkôt) fu celebrata in Israele non solo come vendemmia di grappoli copiosi da cui il vino

che allieta le mense e i cuori (cf. Sal 104,15), ma molto di più come memoriale degli accampamenti

nel mentre della traversata del deserto: la permanenza tra le dune sabbiose e roventi, per quanto

scomoda fosse stata, permise al popolo di Dio di studiare la Tôrāh (cf. Dt 31,9-13)66 e, con la Tôrāh

ormai sulla bocca e nel cuore, Israele poteva esser certo di conquistare “la terra dove scorre latte e

miele”, entrando così nella comunione con Dio, come di fatto fu. È proprio in questo modo di

procedere che si percepisce quanto sia stretto il collegamento tra Parola e liturgia. Non l’una senza

l’altra. Era normale per gli autori e i redattori della Bibbia, anzi era indispensabile. Era normale

anche per i lettori-ascoltatori di essa.

3.3. Dalla parola alla liturgia

Dalla Parola alla liturgia è, dunque, un passaggio che la Bibbia stessa documenta: (a)

dall’esperienza radicale quale evento storico pubblico, (b) all’interpretazione dell’evento (ed ecco la

Parola), (c) alla celebrazione dell’evento nella liturgia. L’esperienza rituale non si sovrappone ma fa

parte dell’esperienza nella storia e le abbisogna per leggere quella storia come “storia di salvezza”.

La celebrazione dell’azione di Dio sta, dunque, nella storia e non fuori di essa, e ci sta

determinandola. All’origine di Israele non sta perciò la Scrittura, la Bibbia, ma piuttosto l’“evento

fondatore” attraverso il quale Dio si è manifestato, s’è fatto conoscere per poter stabilire l’alleanza

con Israele. È questo il punto generatore di tutto il resto.

L’“evento degli eventi” resta il passaggio del Mare in Es 14, preparato in dettaglio sin da Es

12(13) 67 . Il testo, infatti, ne dà testimonianza nei vv.37-38. Subito dopo, in 12,51, si ha

l’interpretazione dell’evento e la sua collocazione nella storia della salvezza: “… il Signore fece

65 Cf. J.A. SOGGIN, Israele in epoca biblica, 87-121; 66 G. GALVAGNO – F. GIUNTOLI, Dai frammenti alla storia. Introduzione al Pentateuco, Elledici, Torino 2014, 310-

328. Qualcosa di analogo accade in non pochi brani del NT, nei quali è tuttora possibile udire la eco della liturgia, ad

esempio nei racconti dell’ultima cena, o della proclamazione kerigmatica del Vangelo, per esempio nei discorsi

missionari degli Atti degli Apostoli o in alcune formule delle lettere paoline. Persino i testi che non sono nati dalla

liturgia o dalla predicazione orale, si pensi agli scritti sapienziali o alle epistole di Paolo, in gran parte sono giunti a noi

perché fatti propri dalla liturgia prima sinagogale e poi cristiana, come accennavo. Cf. P. GRELOT, La liturgia del

Nuovo Testamento, 47-150. 67 Per una breve analisi, cf. J.-L. SKA, «Il passaggio del Mar Rosso», in ID., La strada e la casa. Itinerari biblici,

Dehoniane, Bologna 2001, 21-34.

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uscire…”. È in atto l’agire di liberazione di Dio in favore di Israele. L’interpretazione dell’evento

genera quindi una parola, ossia un “annuncio” che sta a fondamento della fede nel Dio salvatore

(gô’ēl). Questa parola obbliga Israele alla celebrazione dell’evento, a farne un memoriale di

generazione in generazione. Ecco perché in Es 15,1ss Mosè e gli israeliti passano a cantare per la

gioia, facendo esplodere la lode a Dio, la loro confessio fidei, un rendimento di grazie rivolto a chi li

ha liberati68. È questo il processo da riconoscere e da emulare: da… a… Infatti, al v.21 fa la stessa

cosa Maria e le donne: presi tamburelli e cimbali, intonano un canto 69 . Si ha, perciò, una

celebrazione che deriva dalla Parola generata a sua volta dall’evento, ma anche una celebrazione

che “rigenera” la Parola stessa, per cui la Parola sarà detta e ripetuta, cantata e trasmessa

continuamente (continuum) attraverso la liturgia. Il feedback!

Tra i tanti brani biblici dell’AT che testimoniano un processo del genere non va dimenticato Ne

8-10. Il testo è un esempio classico di lectio; sta all’origine della liturgia della Parola, della nascita

dell’ambone 70 . Dopo il ritorno dall’esilio babilonese, ritorno molto enfatizzato come fase di

“rigenerazione” di un popolo che ritrova la sua identità attraverso le sue genealogie autentiche, si

annota che questa ripresa è contrassegnata da quattro rigenerazioni nazionali: viene proposta la

lettura di tutta la Tôrāh all’assemblea radunata all’ingresso del Tempio diruto, che ascolta in piedi

(8,1-13); la medesima lettura viene fatta durante la rinnovata “festa delle capanne” (8,14-18), ed è la

seconda volta; durante la grande liturgia nazionale penitenziale si legge la Tôrāh per otto ore (9,1-

36); infine viene rinnovata l’alleanza sulla base della Tôrāh di Mosè (10,1-40). Il c.10, infatti, è la

conclusione delle tre precedenti letture della Legge: soltanto alla fine di questo processo arriva la

sottoscrizione della comunità circa l’impegno di osservare la Legge letta e proclamata per tre volte.

Il c.8, in particolare, contiene le prime due scene, molto simili nella struttura: iniziano con il riunirsi

dell’assemblea (vv.1-3.13), segue la lettura della Legge (vv.4-8.14-15) e l’adempimento della

lettura, ossia la celebrazione (vv.9-12.16-18), segnato da una nota di gioia (vv.12.17 [simchāh

gedôlāh]). Il momento dell’adempimento, poi, è ben strutturato; infatti vi è una serie di ripetizioni

che mostra la perfetta corrispondenza tra ciò che viene letto e ciò che viene fatto (parola e azione).

Esdra, lo scriba e sacerdote ebreo incaricato dal re di Persia, deve organizzare la conoscenza della

Legge del Signore tra coloro che erano tornati dall’esilio babilonese. Egli non legge la Tôrāh per

riformare Israele e farlo diventare il popolo di Dio. Ma è al popolo riformato che la Legge di Dio

viene letta; è solo il popolo di Dio che può leggere il libro di Dio. E lo può leggere nella condizione

dell’essere radunato, di essere cioè “in stato liturgico”, se così posso dire, sebbene si sia fuori dal

Tempio ma in una piazza di fronte a una porta della città: è un modo per sottolineare che la Tôrāh è

più grande del Tempio e dei suoi sacrifici71. Una volta letta, la Tôrāh veniva tradotta, spiegata dai

leviti, perché tutti la capissero. E capendola, il popolo reagiva in pianto. Ecco la necessità della

gioia festosa: Esdra invita il popolo a condividere un pasto speciale, che ricordava la condivisione

implicita nei sacrifici di Lv 3. Il libro della Tôrāh è al centro di un popolo unito, che ne mette in

pratica il contenuto: il testo scritto governa la vita della comunità, genera un agire, un celebrare, un

impegnarsi per la casa di Dio72.

Lo schema-paradigma: evento-interpretazione-celebrazione si ritrova in molti altri testi sia

dell’AT che del NT. È evidente nell’evento fondatore della fede cristiana, sia nell’incarnazione del

Verbo che nella sua Pasqua. In Lc 2,7 si racconta l’evento della nascita di Gesù, ma

l’interpretazione dell’evento data dall’angelo diventa Parola per i pastori (v.11); alla rivelazione

risponde, poi, la celebrazione delle schiere celesti (vv.13 [ainoúnton tòn theón].14) e dei pastori

68 Cf. J.-L. SKA, «Bellezza e schiettezza: il cantico di Mosè (Es 15,1-21) e la regalità di Yhwh, Dio d’Israele.

Riflessione sulla poetica ebraica», in Idem, 99-125. 69 Cf. A. MELLO, «Il canto del mare. Dall’evento alla sua celebrazione. Dal testo alla sua interpretazione», in

Parola, Spirito e Vita 25/2 (1992) 7-26. 70 Cf. C. GIRAUDO, «La celebrazione della Parola di Dio nella Scrittura», in Rivista Liturgica 73 (1986) 593-615.

L’opinione tradizionale vede in questi capitoli la fondazione della “grande sinagoga”. 71 Cf. C. BALZARETTI, Esdra-Neemia, Paoline, Milano 1999, 143. 72 Cf. M.A. THRONTVEIT, Esdra-Neemia (Strumenti 56), Claudiana, Torino 2011, 104-119.

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(v.20 [con la stessa espressione ainoúntes tòn theón])73 . Stessa identica dinamica, di evento e

interpretazione e quindi celebrazione, è possibile reperirla in Lc 24. Siamo alla Pasqua. Al v.2 c’è

l’evento dato dal ritrovamento della tomba vuota. A seguire, i due uomini che, dicendo “Non è qui,

è risorto” (v.6), procurano l’interpretazione dell’evento. Infine, ecco la celebrazione, sebbene

embrionale, dell’evento espressa dalla comunità radunata (v.34)74.

Se questo è il passaggio dalla Parola alla liturgia, è possibile riscontrare anche il viceversa: dalla

liturgia alla Parola, come una specie di movimento palindromo. Nella stessa Bibbia ne ricaviamo le

tracce75 .

Conclusione

Ribadire che il rapporto tra Bibbia e liturgia fosse strutturale, come facce della stessa medaglia,

un nesso intrinseco profondo, mi è parso importante in un momento come il nostro. Esse sono ad

invicem. Le questioni possono essere tante, diversamente affrontate, differentemente risolte. L’atto

della proclamazione contestuale all’assemblea fa sì che la parola biblica si manifesti come parola

dialogica, un “Tu” che si rivolge al “noi” (un “io” che si indirizza a un “tu”/“voi” e crea il “noi”), il

quale l’ascolta e l’accoglie come parola viva, interpellante e creatrice. Il cristianesimo è religione

della parola viva, proclamata qui e ora, nella quale «il Padre celeste viene amorevolmente incontro

ai suoi figli, per conversare con loro» (Dei Verbum 21)76. Appunto nella liturgia «Dio parla al suo

popolo, Cristo continua ad annunciare il vangelo e il popolo risponde a Dio con il canto e la

preghiera» (Sacrosanctum Concilium 33). Tutto questo aiuta a meglio comprendere che la liturgia è

ambito appropriato non solamente per la proclamazione ma anche per l’ermeneutica della Scrittura;

è l’ambito “naturale” della Bibbia, poiché in essa è sorta o quantomeno ha acquisito la sua identità

di Bibbia. Non s’avrebbero né la liturgia giudaica né quella cristiana senza la pressione che su di

esse ha esercitato la Bibbia; viceversa, non s’avrebbe la Bibbia che abbiamo senza quell’influsso

multiplo che su di essa ha esercitato la pratica della liturgia. Lo spazio liturgico, quindi, resta luogo

privilegiato dell’ascolto della Parola, perché la Parola non è solamente letta, ascoltata e interpretata,

ma anche celebrata come componente dell’assemblea in atto77. È qui, nell’assemblea, che la Parola

penetra l’orecchio del credente e, dunque, il suo cuore in vista della conversione. Persino Gesù, che

legge la Scrittura una sola volta nei Vangeli, lo fa in una liturgia sinagogale. Nella sinagoga di

Nazareth, in mezzo ai suoi fratelli riuniti in preghiera nel giorno di sabato, Gesù legge la profezia di

Isaia e la commenta, come ci racconta Lc 4,16-2178. Diede in tal modo inizio al suo ministero di

predicazione, così che il suo primo atto ministeriale è un atto cultuale, il suo primo gesto pubblico è

un gesto liturgico79.

Il compito per chi studia è di provare ad entrare nelle zone ancora non esplorate che potrebbero

rivelarsi portatrici di nuove ermeneutiche sulla Bibbia, già silenziosamente presenti e operanti tra le

pieghe della celebrazione.

73 Cf. R. MEYNET, Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, Dehoniane, Roma1994, 93-100. 74 Cf. Idem, 669-699. Cf. anche F.B. CRADDOCK, Luca (Strumenti 10), Claudiana, Torino2002, 361-377. 75 Per gli esempi, cf. E. BIANCHI, «Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica», 317-320. 76 Specialmente per i cristiani, l’aspetto “orale” della Bibbia possiede una particolare importanza. Il cristianesimo di

per sé non è religione del libro, come lo è per l’Islam, dove il Corano s’identifica tout court con la rivelazione divina. 77 Cf. P. VISENTIN, «La celebrazione della Parola nella liturgia», 227. 78 Sull’importanza di questo testo lucano, cf. J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa

del Vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991, 35-53- 79 Cf. G. BOSELLI, Il senso spirituale della liturgia, Qiqajon, Magnano (BI), 57-88.