affrontare insiemeil dolore più grande

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AFFRONTARE INSIEME IL DOLORE PIÙ GRANDE La comunicazione medico genitori famigliari nel momento della morte in ostetricia PRIMO CONVEGNO NAZIONALE DELL’ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO SULLE ALI DI UN ANGELO ONLUS

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La comunicazione medico genitori famigliarinel momento della morte in ostetricia

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AFFRONTARE INSIEME IL DOLORE PIÙ GRANDELa comunicazione medico genitori famigliari nel momento della morte in ostetricia

PRIMO CONVEGNO NAZIONALE DELL’ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO SULLE ALI DI UN ANGELO ONLUS

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AFFRONTARE INSIEMEIL DOLORE PIÙ GRANDELa comunicazione medico genitori famigliarinel momento della morte in ostetricia

PRIMO CONVEGNO NAZIONALE DELL’ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO

SULLE ALI DI UN ANGELO ONLUS

SABATO 9 MAGGIO 2009 _ SALONE DEGLI INCANTI _ TRIESTE ATTI DEL CONVEGNO a cura di Elisabetta Madriz

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INTRODUZIONE ALLA PUBBLICAZIONE Le attitudini dell’altro: spunti di riflessione sull’agire sociale volontario di Elisabetta Madriz

CAPITOLO 1 L’Associazione tra storia e progetto di Diana Mayer Grego

CAPITOLO 2 Uno sguardo storico sull’Associazione di Roberta Radicchi e Simona Boassa

CAPITOLO 3 Lo sguardo antropologico di Giuliana Mele

CAPITOLO 4 Lo sguardo medico-ostetrico di Annalisa Locatelli

CAPITOLO 5 Lo sguardo pedagogico di Elisabetta Madriz

ALLEGATI

INDICE

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Con la collaborazione del CSV-FVG

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INTRODUZIONE ALLA PUBBLICAZIONEINTRODUZIONE ALLA PUBBLICAZIONE

LE ATTITUDINI DELL’ALTRO: SPUNTI DI RIFLESSIONE SULL’AGIRE SOCIALE VOLONTARIODi Elisabetta Madriz

Scopo di questa breve introduzione è esplicitare un nesso: il nesso tra il lavoro svolto dall’Associazione “Sulle ali di un angelo Onlus” e la scelta di un tema tanto attuale e discusso quanto di difficile trattazione, ovvero il tema della comunicazione, scelto come oggetto del Primo Convegno realizzato nel 2009. Nello specifico questo tema viene declinato in un contesto così delicato quale quello della morte in ostetricia, con un respiro che vuole essere massimamente rispettoso del ruolo e delle competenze degli specialisti, così come del ruolo e della disponibilità dei volontari. Ecco perché chiamiamo idealmente la voce del valore del volontariato a presentare la tematica trattata nel convegno: perché non esiste un agire verso l’altro che non trovi suo fondamento in ciò che Mounier definiva “l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna. (…) Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri”1.

Nella favola de “Il piccolo principe” A. De Saint-Exupèry fa dire al suo protagonista “io sono responsabile per quel fiore”: ogni relazione autentica presuppone la responsabilità, che nel dare volontariamente e gratuitamente si configura come dono. È vero che la storia dell’uomo è stata segnata fin dagli albori dall’affermazione di un senso di disponibilità e responsabilità verso gli altri. Si pensi che già nel 200 il buddismo portava ad assumere una connotazione di apertura dell’individuo verso gli altri, quando alla ricerca egoistica della propria salvezza contrapponeva la pratica dell’amore giacché ogni uomo è destinato all’illuminazione.

Non è di certo questa la sede per fare una storia né un’analisi del volontariato: ci pare però opportuno chiarire quelle che possiamo reperire come le caratteristiche dell’agire nel confronti dell’altro, a livello di volontariato, cercando di evidenziare quali sono i tratti comuni che l’Associazione “Sulle ali di un angelo Onlus” condivide con altre realtà volontaristiche, e quali invece coltiva come sue peculiari “attitudini” nei confronti dell’altro.

Il convegno “Affrontare insieme il dolore più grande. La comunicazione medico genitori famigliari nel momento della morte in ostetricia” poneva a suo fondamento un tema tanto attuale quanto oggetto di riflessioni in tutti gli ambiti del sapere, da quelli più strettamente legati all’umano essere ed agire fino a quelli che lo attraversano in maniera trasversale o solo lo sfiorano. Di “comunicazione” si parla e si agisce: in tutti i contesti, legati alla realizzazione dell’essere umano, della convivenza civile, dello sviluppo economico, del dibattito politico. La comunicazione ben prima di essere definita come un diritto dell’uomo, è un quid che discende propriamente dalla natura umana: far parte della collettività significa possedere una modalità di scambio, la comunicazione appunto (si vedano a tal proposito gli innumerevoli significati etimologici del termine), che veicola non solo elementi legati alla materialità della convivenza, ma anche quelli legati alla solidarietà, alla condivisione di ideali, alla libera espressione di sé nel gruppo. A tale fine pertanto riprendiamo in questa sede e argomentiamo alcuni principi che ci paiono particolarmente importanti, che stanno a fondamento della CARTA dei VALORI del VOLONTARIATO.

Tale documento redatto inizialmente su una traccia proposta dalla FIVOL (la Fondazione

1 Mounier E., Il personalismo, Editrice A.V.E., Roma 1999, p. 49.

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INTRODUZIONE ALLA PUBBLICAZIONE

Italiana del Volontariato) e dal Gruppo Abele, è stato successivamente integrato, discusso e condiviso dall’apporto di diverse organizzazioni di volontariato, di singoli volontari, di studiosi. “La Carta dei valori intende fotografare, nei suoi aspetti essenziali, questo momento del volontariato ed è il risultato di un esercizio di autentica scrittura collettiva. (…) Un metodo di lavoro che ha fatto emergere il connotato chiave dell’essere e del fare volontariato: camminare insieme su un piano di impegno civico e di cittadinanza solidale”. Esso è disponibile sul sito “www.fivol.it”. Ciò che ci preme sottolineare in questa sede sono quelle caratteristiche che principalmente supportano il lavoro compiuto in questi pochi anni dall’associazione e che potremmo dire si collochino nell’ambito della comunicazione, tema che appunto è stato scelto come filo conduttore del Primo Convegno realizzato, di cui la pubblicazione costituisce testimonianza.

“Volontario è la persona che, adempiuti i doveri di ogni cittadino, mette a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per gli altri, per la comunità di appartenenza o per l’umanità intera. Egli opera in modo libero e gratuito promuovendo risposte creative ed efficaci ai bisogni dei destinatari della propria azione o contribuendo alla realizzazione dei beni comuni”.

Chi sono i volontari di “Sulle Ali di un Angelo Onlus”? Sono mamme, papà, mariti, mogli, nonne, amiche e amici. Sono persone che sono state toccate, sfiorate, colpite da una perdita. Ma sono anche persone che pur non avendo perso direttamente un bambino, hanno vissuto profondamente il sentimento di perdita attraverso le parole e i silenzi degli altri, e così hanno deciso di stargli accanto, di avere il tempo per qualche lacrima versata in un caffè, per un sorriso speciale tra famiglie “allargate” e famiglie “ristrette”, per non avere paura di chiedere “come ti senti, come state, cosa pensate?”. Mettere a disposizione il proprio tempo, anche solo al telefono, non è poca cosa: diventa un vero dono anche solo poter ascoltare il dolore di un altro. Perché il bene comune non è solo l’accettazione del bisogno dell’altro, ma anche la pazienza di fronte ad un dolore che può durare a lungo: ci sono silenzi ben più dolosi delle parole che fanno male. I volontari dell’associazione ascoltano questi silenzi e piano piano aiutano a renderli vivi di significato e utili ad una memoria che sa dischiudersi a quanto ancora un progetto di vita può avere in serbo.

 “I volontari esplicano la loro azione in forma individuale, in aggregazioni informali, in organizzazioni strutturate; pur attingendo, quanto a motivazioni, a radici culturali e/o religiose diverse, essi hanno in comune la passione per la causa degli esseri umani e per la costruzione di un mondo migliore”.

La passione per l’uomo è indubbiamente un tratto distintivo delle organizzazioni di volontariato legate all’ambito del sociale. La nascita dell’associazione è avvenuta in realtà grazie “ad un vuoto”, ovvero alla mancanza di un luogo (simbolico più che fisico) ove si potessero incontrare mamme e papà che avevano perso un bambino in epoca gestazionale. La specifica declinazione che l’Associazione ha voluto darsi è proprio questa attenzione a quel particolare dolore generato dalla mancanza di “chi non c’è più” ma che in qualche modo “non era mai stato”: uno dei progetti da realizzare (vedi cap. 1) è proprio la possibilità di costruire testimonianza di un bambino che non è mai nato nella vita, eppure ha costruito un ponte indistruttibile d’amore con i suoi genitori.

“Il volontariato è azione gratuita. La gratuità è l’elemento distintivo dell’agire volontario e lo rende originale rispetto ad altre componenti del terzo settore e ad altre forme di impegno civile. I volontari traggono dalla propria esperienza di dono motivi di arricchimento sul piano interiore e sul piano delle abilità relazionali”.

Una delle domande cruciali che si fanno tutti i volontari è: che cosa prendo e cosa do nella mia azione di volontariato? È più quello che dono o più quello che ricevo? Indubbiamente c’è un interscambio significativo: ed è proprio questa la parte che chiameremo “fortemente valoriale”, nell’azione di volontariato. Se e quando l’azione è condotta in modo sano ed equilibrato, essa si configura come una

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INTRODUZIONE ALLA PUBBLICAZIONE

relazione umana ad alto “gradiente evolutivo” nel senso che contemporaneamente arricchisce e porta a compimento una componente essenziale dell’essere umano: la solidarietà verso l’altro, quel sentimento che, con una parola un po’ antica, possiamo definire la “sollecitudine” nei confronti dell’altro. Ed è questo un sentimento che i volontari dell’Associazione coltivano in maniera particolare, se è vero che sono pronti con la valigia in mano a girare l’Italia (per ora!) portando ovunque venga richiesto, il supporto specifico, di ordine più culturale o scientifico o semplicemente conoscitivo che sia.

“Le organizzazioni di volontariato sono tenute a fare propria una cultura della comunicazione intesa come strumento di relazione, di promozione culturale e di cambiamento, attraverso cui sensibilizzano l’opinione pubblica e favoriscono la costruzione di rapporti e sinergie a tutti i livelli. Coltivano e diffondono la comunicazione con ogni strumento privilegiando - dove è possibile - la rete informatica per migliorare l’accesso alle informazioni, ai diritti dei cittadini, alle risorse disponibili. Le organizzazioni di volontariato interagiscono con il mondo dei mass media e dei suoi operatori perché informino in modo corretto ed esaustivo sui temi sociali e culturali di cui si occupano”.

Collaborare alla costruzione di una cultura della comunicazione: possiamo intendere questo come il principale obiettivo dell’associazione nella realizzazione di questo suo primo convegno. Un ideale certamente ambizioso, ma irrinunciabile. E tutte le iniziative realizzate fin qui e progettate per il prossimo futuro, vanno in questa direzione. Bisogna sottolineare poi l’aspetto che questo principio enuncia, ovvero la necessità di privilegiare “la rete informatica”: l’associazione nasce infatti non come luogo fisico, ma come luogo “simbolico”, aggettivo che preferiamo di gran lunga al termine “virtuale”, perché nel sostegno che si è attivato attraverso la rete hanno viaggiato migliaia di byte di concreto aiuto e si sono poi trasformati in una possibilità di progetti di vita diversi, pur nell’inesorabile traccia di dolore che li ha caratterizzati.

Questo convegno iniziale è quindi già un momento di sintesi utile alla visione di prospettiva, in questa dimensione “comunicativa” che caratterizza l’Associazione nel suo atto di nascita, anche prima della sua formale costituzione. Concludiamo pertanto con un monito, che è insieme un invito ed un incoraggiamento a continuare su questa via facendo proprie le parole di un grande maestro dell’incontro con l’altro, nel riconoscimento del valore della sua diversa esistenza. Scriveva Freire: “Non è nel silenzio che gli uomini si fanno, ma nella parola, nel lavoro, nell’azione-riflessione. (…) Perciò il dialogo è un’esigenza esistenziale (…) è l’incontro in cui si fanno solidali il riflettere e l’agire dei rispettivi soggetti, orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare (…). Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo per il mondo e per gli uomini”2.

2 P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1971, pp. 105-107.

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L’ASSOCIAZIONE TRA STORIA E PROGETTO

Di Diana Mayer Grego

Questo Convegno è stato realizzato grazie all’impegno e alla disponibilità di molte persone, associazioni ed istituzioni, che voglio qui ringraziare personalmente a partire dalle relatrici che hanno partecipato e creduto nel progetto: la dottoressa Annalisa Locatelli, la dottoressa Elisabetta Madriz, la dottoressa Giuliana Mele, le signore Roberta Radicchi e Simona Boassa, socie dell’Associazione “Sulle ali di un angelo Onlus”.

Ringrazio l’Associazione Tutela Onlus nella persona del dottor Pierpaolo Gregori, il Comune di Trieste - Assessorato al Coordinamento Grandi Eventi - Assessorato allo Sport - Assessorato Area Educazione, Infanzia, Giovani, Università e Ricerca e la Provincia di Trieste, per avere messo a disposizione l’auditorium del prestigioso “Salone degli Incanti” di Trieste, durante la più ampia manifestazione “Insieme a Trieste” svoltasi dal 6 al 10 maggio 2009; ringrazio il Centro Servizi Volontariato di Trieste che ci ha fornito il servizio di stampa locandine e depliant; ringrazio la signora Roberta Biasutto che ha curato tutta la parte grafica e logistica e il dottor Francesco Del Castillo per la parte organizzativa dell’evento; ringrazio il dottor Alen Volo e la dottoressa Tiziana Benedetti, per il loro impegno rivolto alla stampa, e i mass media che hanno dato grande risalto all’iniziativa: TG regionale FVG RAI 3 - Radio RAI regionale FVG - Radio Fragola – il quotidiano Il Piccolo – il settimananle Il Mercatino – il settimanale Vita Nuova – il mensile Help; un sentito ringraziamento va all’Istituto Burlo Garofalo, nella persona del dottor Salvatore Alberico, che ha sempre dimostrato grande attenzione verso la nostra associazione.

Il Convegno nasce, oltre che dall’opportunità messa a disposizione, del tutto gratuitamente, dalle persone di cui sopra, dalla necessità di condividere un percorso iniziato quattro anni fa con la nascita dell’Associazione, che come suo scopo ha quello di promuovere e favorire l’incontro, il sostegno psicologico e lo scambio di esperienze tra le persone che abbiano subito la perdita di un figlio in età prenatale e neonatale e che siano state vittime di preeclampsia, Sindrome HELLP3 e altre patologie legate a gravidanza ad alto rischio. Questo percorso è iniziato da una constatazione, avvenuta grazie alle numerose testimonianze4, di una carenza di “comunicazione”, intesa nel suo più ampio significato di “dialogo”, non certo nel momento della tragedia, dove - ahimè - il triste e duro compito della “comunicazione” spetta al personale medico competente e formato ginecologo-ostetrico, ma piuttosto nel “dopo”, al rientro in famiglia, nella ripresa della vita quotidiana: è proprio in quel momento che troviamo le maggiori “barriere d’ascolto” e una necessità assoluta, invece, di dover e poter adeguatamente comunicare il nostro vissuto.

Il non trovare nelle persone care che ci circondano un ascolto profondo, ma piuttosto una minimizzazione del dramma, nell’intento di fare bene, porta i genitori ad una chiusura nel dolore e ad un percorso più lento e difficile di elaborazione del lutto.

3 La sindrome HELLP (H=hemolysis, E=elevated, L=liver enzimes, L=low, P=platelts) è una sindrome caratterizzata, come evidenzia lo stesso acronimo da emolisi, aumento del valore sierico degli enzimi epatici, piastrinopenia.

4 Sulle ali di un angelo, Le testimonianze delle mamme di angeli, Centro Servizi Volontariato, Trieste 2009.

CAPITOLO 1

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CAPITOLO 1

Questo convegno vuol essere un piccolo passo verso la consapevolezza che c’è un bisogno di “imparare ad educar-si” in questo difficile percorso che è la perdita di un bambino: l’attenzione è sì posta sui genitori, ma il nostro compito prefissato è anche quello di offrire a tutta la famiglia e alla comunità un valido aiuto su come affrontare ed accogliere la richiesta di aiuto dei genitori. Da qui il titolo che abbiamo scelto per questo evento: “Affrontare insieme il dolore più grande”.

Da una ricerca fatta dal Ministero della Salute (fonte: www.ministerosalute.it) sui dati SDO (scheda di dimissione ospedaliera) risulta che nell’anno 2005 le gravidanze in Italia sono state 757.952, in Friuli Venezia Giulia 13.276; le gravidanze con Ipertensione complicante la gravidanza in Italia sono state 14.898, in Friuli Venezia Giulia 237; le gravidanze con aborto spontaneo in Italia sono state 24.130, in Friuli Venezia Giulia 500; quindi nel 2005 in Friuli Venezia Giulia, su un totale di gravidanze 13.276, si sono avute 737 gravidanze colpite da patologia o da perdita del bambino. Da questi dati, comprendiamo quanto sia utile il nostro lavoro di volontariato, perché, purtroppo, i numeri ci dicono che ogni anno, statisticamente, ci sono 500 (per difetto) famiglie, solo nella nostra regione, che si trovano ad affrontare questo dramma.

L’Associazione, attiva con un sito internet dal 2005, nel forum ad esso collegato ha potuto osservare la crescita delle iscrizioni che indica chiaramente l’assoluto bisogno di una struttura anche solo “simbolica”, come la nostra, alla quale appoggiarsi.

La crescita del forum rispecchia la crescita dell’Associazione, che nel 2005 era “di fatto” un gruppo di poche mamme che si consolavano: si contavano 8 utenti.

Nel 2006 diventava un nutrito gruppo di genitori attivi iniziando ad accarezzare l’idea di divenire associazione regolarmente iscritta: gli utenti erano 57. Nel 2007 il progetto di associazione andava in porto con l’atto statutario e la sua costituzione ispirata alla legge 266/1991 (Legge quadro del volontariato): gli iscritti al forum erano 123. A metà del 2008 l’Associazione veniva iscritta al Registro Generale delle Organizzazioni di Volontariato Regionale Friuli Venezia Giulia, divenendo una OdV, gli utenti erano 240, fino ad arrivare ai primi mesi di quest’anno 2009 in cui contiamo un picco che sfiora le 1.300 utenze. In realtà le iscrizioni al sito avvengono, nella maggior parte dei casi, per ricercare informazioni o per sola lettura: in questi 3 anni passati, le persone che hanno frequentato il forum sono state circa 200, di cui 100 attivamente e il picco di iscrizioni al forum coincide con la grandissima attività svolta proprio nei primi mesi di quest’anno.

Le coppie aiutate nel percorso di elaborazione del lutto, dal 2005 al 2008, sono state 80. Le donne seguite in una loro nuova gravidanza sono state 30, tutte oggi con un bambino in braccio! L’Associazione ad oggi conta circa 40 iscritti, che portano avanti numerose attività in prima persona: collaborazioni per tesi di laurea (psicologia, ostetricia, ginecologia, antropologia), dando disponibilità di intervento diretto sul proprio corpo con analisi e indagini diagnostiche a favore della ricerca sulla preeclampsia, organizzando incontri di auto mutuo aiuto, frequentando corsi formativi, con l’intento di migliorare le proprie competenze e capacità volte ad aiutare, in maniera concreta, chi si rivolge a noi.

A dicembre 2007 siamo intervenuti, grazie al cordiale invito del professor Nicola Rizzo, al II Congresso “PREECLAMPSIA 2007” tenutosi a Bologna ed organizzato dall’associazione medici AIPE (Associazione Italiana PreEclampsia), durante il quale abbiamo presentato l’attività della nostra Associazione e abbiamo richiesto ai medici il loro aiuto e offerto la nostra collaborazione ad ogni iniziativa utile per creare un anello di congiunzione fra medico e paziente. Abbiamo inoltre proposto di creare insieme un depliant informativo ed abbiamo raccolto il loro favore. Il progetto è stato portato avanti dall’Associazione Italiana PreEclampsia con la realizzazione di una “Agenda per le future mamme”, contenente informazioni scientifiche sul monitoraggio della pressione arteriosa e utilissime linee guida su come riconoscere lo sviluppo della preeclampsia e su come comportarsi in

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CAPITOLO 1

caso di presenza di sintomi riconducibili alla patologia. L’Associazione “Sulle ali di un angelo Onuls” è presente nell’agenda con il logo e una breve presentazione, grazie all’interessamento del professor Herbert Valensise. L’agenda è stata presentata il 28 aprile 2009 durante una convention a Riccione organizzata dalla Medel S.p.A. (Azienda leader nel mondo produttrice di misuratori di pressione) in occasione del lancio di una nuova linea di misuratori di pressione. L’agenda è stata presentata dalla nostra Associazione durante il Convegno e per tutta la durata della manifestazione “Insieme a Trieste” e verrà distribuita nelle farmacie italiane.

Nel 2008 abbiamo raccolto numerose testimonianze delle nostre associate e, grazie al contributo del Centro Servizi Volontariato, abbiamo realizzato e stampato il libro “Le testimonianze delle mamme di angeli”, dedicato ad una giovane mamma prematuramente scomparsa per presunta Sindrome HELLP. Durante il Convegno, alla presenza del ginecologo dott. Francesco Morosetti, al quale va il nostro ringraziamento per aver curato la prefazione del libro, è stata fatta la presentazione della pubblicazione. Essa è stata consegnata gratuitamente al personale sanitario, durante una decina di incontri – giornate studio e presentazione dell’associazione, nei mesi di aprile – maggio – giugno 2009, presso gli ospedali della regione Friuli Venezia Giulia, che hanno dato la loro disponibilità.

Numerosi sono i progetti che l’Associazione si è prefissata per quest’anno: quello di maggior rilevanza è senza dubbio la collaborazione con l’Associazione Italiana PreEclampsia (AIPE), della quale ringraziamo il professor Herbert Valensise, che bandisce per l’anno 2009 un Premio di Ricerca AIPE e un Premio di Ricerca messo a disposizione dall’associazione di pazienti preeclamptiche “Sulle Ali di un Angelo Onlus” intitolato a Paola Santinello – mamma speciale stroncata per presunta Sindrome HELLP. La premiazione avverrà durante il III Congresso Preeclampsia 2009 organizzato dall’AIPE, che si terrà a Roma il 7/8/9 ottobre c.a.

“Quando abbiamo iniziato è stato come buttare un sassolino nel mare, mai avremmo immaginato che i cerchi da lui generati si allargassero così tanto e nemmeno sappiamo quanto si espanderanno ancora: quello che cerchiamo di fare quotidianamente è dare un minimo di sollievo a chi si affaccia alla nostra porta, nella speranza che un giorno quell’uscio rimanga vuoto, perché nessuna mamma e papà debbano più soffrire il dolore più grande”.

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CAPITOLO 2: UNO SGUARDO STORICO SULL’ASSOCIAZIONE

DAL WEB ALL’ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO: UN CAMMINO DI SPERANZA. STORIA E ATTIVITÀDi Roberta Radicchi e Simona Boassa

Il 15 Aprile 2004 alle 21:13, a sole 27 settimane di gestazione, nasce Giada, la bambina nasce con una grave prematurità, dovuta anche al rallentamento di crescita dovuto alla patologia.

Diana, la sua mamma, è stata colpita dalla HELLP Syndrome 15 giorni prima e nonostante le premurose cure e il ricovero in terapia intensiva, la sindrome avanza, procurando una grave sofferenza fetale che induce i medici a procedere al taglio cesareo per salvare entrambe. Questo purtroppo non ha permesso alla piccola di crescere adeguatamente e così dopo soli 3 giorni di vita, durante i quali ha duramente lottato, è volata via “sulle ali di un angelo”.

Diana, distrutta dal dolore per la morte della sua primogenita, continua la sua battaglia contro la brutta bestia, termine non propriamente scientifico con il quale le mamme chiamano questa malefica malattia…

Diana ce la fa… anche grazie all’aiuto dei medici.

Ritorna a casa con le braccia vuote e inizia la sua ricerca sul web per sapere di più su cose le è capitato, sulla HELLP… ma non trova risposte.

Prende così vita il progetto di creare un sito rivolto a tutte quelle persone che vogliono capire, che vogliono conoscere e divulgare, che non vogliono dimenticare…

Nasce così il sito sullealidiunangelo.it

Sei lì che cerchi di non sentirti diverso, lontano, solo. Fuori il mondo sorride a bimbi nati, a mamme e papà felici. Normali… E tu? Tu sei lì, differente da tutto e ti chiedi perché. E così parti alla ricerca di simili per riempire un vuoto che fa male… Finalmente l’incontro, altre mamme e altri papà che non hanno bisogno di troppe spiegazioni. Loro già sanno. E ti accorgi di non essere solo…

Giorno dopo giorno, mamme e papà si affacciano timorosi sul forum… raccontano le loro storie, si confrontano, parlano tra di loro ma soprattutto cercano di dare delle risposte alle tante domande… Che cosa è la HELLP? Si può fare qualcosa per renderla meno pericolosa? Da lì la spinta verso una sempre più efficace collaborazione con l’ambiente medico ospedaliero.

Passano i mesi e le mamme e i papà che arrivano al sito aumentano, con loro cresce anche il desiderio, la voglia di fare di più!

Il 1 luglio 2007 l’Associazione si costituisce ed il 3 giugno 2008 viene riconosciuta dalla regione Friuli Venezia Giulia e iscritta nel Registro Generale delle Organizzazioni di Volontariato.

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MA DI COSA SI OCCUPA L’ASSOCIAZIONE5?

“Sulle ali di un angelo Onlus” si occupa, oltre che di promuovere e favorire l’incontro, di offrire il sostegno psicologico e lo scambio di esperienze tra persone che abbiano subito la perdita di un figlio in età neonatale e che siano state vittime di preeclampsia, Sindrome HELLP e altre patologie legate ad una gravidanza ad alto rischio. Ma non solo… si occupa anche di sensibilizzare il personale socio-sanitario sulla mortalità neonatale o grave prematurità causata da patologie che rendono le gravidanze ad alto rischio.

L’Associazione mette a disposizione anche diversi numeri telefonici di sostegno. Ad ognuno di questi numeri risponde una mamma, una volontaria, adeguatamente formata e coperta da assicurazione contro terzi, che è in grado di capire, perché anche lei ha vissuto quello che chi la chiama sta vivendo. Le parole che dirà saranno di conforto e gentilezza. Ogni numero corrisponde ad una regione Italiana, così che la persona può, rivolgendosi alla volontaria più vicina alla sua zona, avere anche un incontro o un sostegno più tangibile. Chi ci contatta non si scoraggi se il numero che chiama è spento, si può lasciare un messaggio in segreteria, si può richiamare o comporre uno degli altri numeri di riferimento. I numeri li potete trovare sul sito dell’associazione.

In soli due anni di vita l’associazione ha realizzato già diversi progetti, i principali sono:

1. Collaborazioni per tesi di laurea.

2. Piena disponibilità per la ricerca sulla preeclampsia e le conseguenze che lascia sul corpo della donna.

3. Stampa di un libro di testimonianze intitolato “Le testimonianze delle mamme di angeli” che sarà di supporto ad una serie di incontri che si sono tenuti e si terranno negli ospedali regionali e nazionali.

4. Co-partecipazione con l’Associazione Italiana Preeclampsia, con la quale è stata presentata un’agenda informativa per le future mamme, con le principali linee guida sulla preeclampsia.

5. Diverse partecipazioni a manifestazioni della città di Trieste per promuovere la solidarietà del volontariato.

Ringrazio Diana per aver dato vita all’associazione e un ringraziamento speciale va a Giada …

5 Sulle ali di un angelo, “Bilancio di Missione”, Centro Servizi Volontariato, Trieste 2009.

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CAPITOLO 3: LO SGUARDO ANTROPOLOGICO

LO SGUARDO ANTROPOLOGICO SUL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTEDi Giuliana Mele

PREMESSE

Prima di affrontare più da vicino il tema qui proposto, credo sia opportuno, se non doveroso, fare delle precisazioni di carattere metodologico riguardo il taglio che ho inteso conferire al mio intervento, nonché alle fonti di riferimento ed ai criteri di ricerca adottati.

Si incroceranno qua e là dei richiami, quasi obbligati, alle questioni proprie della psicologia sociale e delle scienze della comunicazione, ma la vera matrice che anima questo breve scritto è di natura prevalentemente antropologica e nella fattispecie si ricollega alle tematiche approfondite dagli studiosi di Antropologia Medica.

Sebbene la costituzione dell’Antropologia Medica come disciplina autonoma non abbia una datazione certa, si è soliti collocarne la comparsa nei primi decenni del ’900, quando, in corrispondenza ai successi riscossi dalle scienze biologiche, si cominciò ad applicare un approccio antropologico anche alla Medicina. L’Antropologia Medica, costituisce tuttora una importante specializzazione del più vasto settore che è l’Antropologia Culturale, con cui condivide metodi ed obiettivi. Le direttrici che ne guidano la ricerca sono:

- la pluralità dei saperi e delle pratiche di prevenzione e guarigione e la molteplicità delle figure di operatori di salute, dagli sciamani ai medici occidentali;

- la difesa della salute e gli orizzonti magico-religiosi: la questione dell’efficacia delle terapie rituali;

- i problemi della calibrazione dei servizi sanitari nelle società multiculturali;

- la vasta e complessa fenomenologia che costituisce il versante sociale della dinamiche di salute/malattia;

- le tecniche del corpo: sogno, estasi, possessione e altri stati di coscienza;

- i processi di condizionamento socio-culturale, le mediazioni neuropsichiche e i meccanismi corporei di autoguarigione e di autodistruzione.

Tale scienza inoltre si prefigge come obiettivo da perseguire l’analisi e la comprensione di quei meccanismi che entrano in gioco durante la relazione tra medico e paziente.

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LA RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE: DUE MODELLI ESPLICATIVI A CONFRONTO

Così come la pragmatica della comunicazione insegna, una relazione è fatta di azioni e retroazioni, di continui scambi dettati dal sostrato culturale e personale, che informano l’altro del legame che si intende stabilire con lui. Si genera così una sorta di circuito di comportamenti, alla base dello schema relazionale, di cui fanno parte diverse componenti, quali ad esempio, le aspettative di ruolo, che cristallizzano le posizioni di chi ne è parte. Interazioni di questo tipo si esprimono generalmente secondo due strutture fondamentali: simmetria e complementarità (Watzlavick, 1967). Facile intuire che se la relazione si basa sull’uguaglianza, gli attori tendono a considerarsi pari, legandosi in maniera simmetrica; se viceversa la relazione si basa sulla differenza, si creano delle condizioni di disparità tali per cui si avranno due diverse posizioni, una superiore, primaria o di leader, e una inferiore, secondaria o di follower, che derivano dalla disuguaglianza dei soggetti in questione per età, sesso, esperienza, cultura ecc.

Il rapporto medico-paziente si colloca per l’appunto all’interno di una antropologia dell’alterità, poiché la relazione terapeutica è fondamentalmente una relazione asimmetrica. Tale asimmetria trova una spiegazione nella divergenza dei modelli esplicativi assunti dai due attori come punto di partenza delle proprie argomentazioni. Laddove, è bene puntualizzarlo, per modello esplicativo, così come lo intende originariamente A. Kleinman, si vuole significare l’insieme di spiegazioni e di idee circa l’eziologia, i sintomi, la patofisiologia, il decorso e la terapia della malattia. Di fatto, nella costruzione della propria diagnosi, medico e paziente attingono a categorie diverse:

MODELLO ESPLICATIVO MEDICO —> categorie delle scienze biologicheMODELLO ESPLICATIVO PAZIENTE —> categorie del bisogno e della percezio

Muovendo dunque da presupposti diversi, essi giungono a due diverse elaborazioni dell’episodio patologico. Si tratta di sfumature di significato che la lingua italiana non consente, in quanto usa un solo termine, malattia, per indicare genericamente esperienze piuttosto dissimili tra loro. Per questo motivo, si è soliti prendere a prestito dalla terminologia anglosassone la distinzione semantica del concetto di malattia. L’inglese infatti impiega più di un vocabolo, dimostrando una maggiore ricchezza nello specificare la realtà cui intende riferirsi:

- Illness: lo stato di disagio, sofferenza, dolore, così come è esperito dalla persona malata. La personalità dell’esperienza si manifesta in ciò che il paziente sceglie di raccontare del proprio sentire, a quali sintomi presta più attenzione, quali dettagli ritiene maggiormente rilevanti;

- Disease: l’interpretazione biomedica della malattia cui il terapeuta giunge attraverso la decodificazione del racconto del paziente e la ricodificazione all’interno della nosologia medica. L’ormai pluricitata esclamazione di Cassell recita: “Illness è ciò che il paziente si sente quando va dal dottore, Disease è ciò che ha quando torna a casa dall’ambulatorio” (Cassell, 1976).

L’accusa spesso rivolta all’approccio biomedico è quella di una spersonalizzazione dei rapporti col paziente, che si riduce a mero portatore d’infermità. L’analisi storica del rapporto medico-paziente dentro

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CAPITOLO 3: LO SGUARDO ANTROPOLOGICO

le strutture ospedaliere mette purtroppo in rilievo come l’evoluzione dalla medicina clinica a quella tecnologica ha provocato un progressivo distacco del medico dal paziente. Come se l’arricchimento tecnologico sia venuto drammaticamente a coincidere con un impoverimento antropologico; come se, nell’ambito di una medicina sempre più tecnicizzata e meno personale, essa abbia perso le proprie radici olistiche a discapito della dimensione umana del suo agire.

Ciò che la medicina occidentale tende a trascurare è che anche il paziente utilizza un suo modello esplicativo: egli si pone delle domande universali relative all’episodio di malattia che sta vivendo e costruisce una griglia di risposte, cui farà riferimento per spiegare e cercare di risolvere il suo male.

1. Cosa è accaduto?(descrizione dei sintomi e conferimento ad essi di un nome)

2. Perché è accaduto?(eziologia e interpretazione causale del male)

3. Perché è accaduto a me?(legame della malattia con aspetti del proprio comportamento o personalità)

4. Perché ora?(temporalità della malattia)

5. Che cosa accadrebbe se non facessi nulla?(probabile decorso, risultati, prognosi e pericoli della malattia)

6. Che cosa si dovrebbe fare?(strategie terapeutiche)

Il terapeuta, dal canto suo, spesso si arrocca nella sua conoscenza scientifica, ancorandosi a quel giudizio che reputa avvalorato dalla verità della scienza, forte della cultura professionale acquisita. Tuttavia, l’atteggiamento overconfident derivatogli dalla sua area di competenza lo induce facilmente a sottovalutare o a non considerare affatto la mappa che il paziente ha elaborato durante la sua ricerca di senso. Il punto di forza di altri sistemi, invece, sta proprio nella centralità del paziente come individuo che porta con sé una sua storia, che sente e che vive il proprio corpo, e nella capacità di instaurare una correlazione emozionale empatica ed un coinvolgimento personale nei rapporti medico-paziente, dove anche il secondo è parte attiva della consultazione. Tali posizioni si sono elevate a veri e propri modelli di approccio alla patologia, tra cui due risultano di nostro interesse in questo contesto: il modello biomedico, che prevede una rigida separazione dei ruoli, interpreta la malattia solo in funzione degli indicatori fisiologici e verte su una relazione di tipo gerarchico ed autoritario; il modello biopsicosociale, il quale considera l’uomo nella sua sistematicità, nel suo essere soma e psiche, nel suo essere un animale sociale e culturale. Nella tabella che segue si procede ad una schematizzazione di quanto detto.

MODELLO BIOMEDICO

1. Separazione dei ruoli: medico esperto vs paziente passivo destinatario della cura2. Indicatori fisiologici della mallattia3. Relazione medico/paziente gerarchica, unidirezionale e autoritaria

MODELLO BIOPSICOSOCIALE

1. Ruoli interattivi: medico esperto del sapere scientifico e paziente esperto di sé2. Indicatori biopsicosociali della malattia3. Relazione medico/paziente collaborativa, bidirezionale e dinamica

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CAPITOLO 3: LO SGUARDO ANTROPOLOGICO

CONCLUSIONI

Laín, medico e filosofo spagnolo, giunge alla struttura finale dell’incontro tra medico e paziente individuando tre momenti fondamentali: quello in cui l’altro è considerato come oggetto, quindi ancora tenuto a distanza, quello in cui è visto come persona e dunque termine del dono di se stessi e quello in cui lo si riconosce come prossimo e pertanto un individuo di cui prendersi cura.

Importante nell’etica medica è ancora la consapevolezza delle dimensioni narrative della malattia. La narrativizzazione della sofferenza serve in qualche modo a ricostruire il mondo della vita distrutto dal dolore ed è una pratica in cui le attività e gli eventi sono presentati in un ordine significativo attraverso la rappresentazione e il racconto dell’esperienza vissuta.

Sicché, la prassi medica dovrebbe sapersi avvalere contemporaneamente di un codice tecnico e di un codice relazionale. Il primo tipo si basa su reperti obiettivi, su strumenti, su documenti acquisiti sul paziente - spesso però il medico si sofferma prevalentemente su gli strumenti e gli oggetti utilizzati – e il secondo fa leva su una relazione interpersonale, orientata da un modello psicologico e centrata sulla persona del paziente, capace di attivare una partecipazione emotiva più intensa.

Attraverso l’uso congiunto di più strumenti interpretativi, la medicina potrebbe così riconquistare il suo originario carattere olistico voluto da Ippocrate.

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CAPITOLO 4: LO SGUARDO MEDICO-OSTETRICO

INSIEME NEL DISTACCO: IL PROBLEMA DELLA MORTE IN OSTETRICIADi Annalisa Locatelli

…Per tutto v’è il suo tempo, v’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire. Ecclesiaste, III, I

La morte di un bambino, sia che succeda in gravidanza, durante o dopo il parto, è sempre una tragedia. In gravidanza tutte le energie (fisiche, emotive, relazionali, spirituali) sono dedicate alla creazione della vita. Quando la vita non si realizza, il processo si blocca bruscamente e resta incompiuto. La sofferenza per la perdita di un bambino è molto intensa perché è innaturale: i figli sopravvivono a noi; è un rovesciamento dell’ordine naturale degli eventi; per la madre il bimbo è parte di sé ed è come perdere una parte di sé, sente un forte senso di vuoto poiché ci sono pochissime opportunità di creare collegamenti e raccogliere memorie. L’intensità della sofferenza non dipende solo dalla durata della gravidanza, ma anche dall’intensità con cui viene vissuta. Più sentito è il legame, più intensa e forte è la sofferenza, il lutto. E tuttavia, più chiaro è il legame ed il processo di realizzazione della morte, meno complicata è l’elaborazione del lutto. La sofferenza della perdita di un bambino è particolare rispetto ad altre perdite perché durante la gravidanza sono state fatte tante proiezioni sul bambino e sulla vita insieme che rimarranno sconosciute ed in molti casi non c’è nessuna memoria oggettiva. Quando un bambino nasce morto e muore poco dopo, non c’è niente. Il mondo non ricorda niente. L’utero è vuoto e le braccia sono vuote. Si ricorda la nascita o la morte. In questa esperienza si ha nascita e morte insieme, entrambe allo stesso tempo. “Ho sentito di aver creato morte”.

La morte è una realtà fondamentale dell’esperienza umana, ma è anche un tabù: si preferisce non parlarne o al limite mascherarla dietro parole che offendano meno la nostra sensibilità. Forse anche per questo è terreno di studi che raramente toccano il grande pubblico: sembra che la morte esista solo a livello astratto. Non se ne parla, si tende ad evitare l’argomento e a scansare il confronto. Pur verificandosi con relativa frequenza, l’aborto spontaneo o il bambino nato morto non trovano spazio nell’ideale di maternità. L’immaginario collettivo non lascia spazio nemmeno al lutto, sebbene anche il dolore provocato dalla perdita di un figlio durante la gravidanza vada vissuto come quello dato dalla perdita di una persona che ha vissuto. Il bambino che muore ancor prima di nascere è una cosa inimmaginabile e soprattutto incompatibile con l’idea che abbiamo della vita e della morte. Nel percorso della nascita, primo passaggio della vita umana, è inevitabile per l’ostetrica l’incontro con l’altro passaggio che la chiude definitivamente.

Credo sia molto importante che l’ostetrica sia cosciente della qualità del rapporto che ha nella sua vita con il dolore e con la morte, processo di inevitabile dolore.

Sono anche certa che sia nostra responsabilità fornire degli strumenti perché la persona possa elaborare questo distacco e la sua sofferenza. Ricordiamo che il lutto è l’espressione di un sentimento che consente alla vita di procedere. Un rapporto di non accettazione della sofferenza e della morte può influenzare in modo negativo l’atteggiamento terapeutico di sostegno e di cura nell’evenienza luttuosa.

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L’ostetrica necessita di mezzi propri per confrontarsi con la donna, con la coppia, quando il parto va male, quando il bambino muore o quando nasce un bimbo “diverso”.

Spesso mi sono chiesta durante il mio tirocinio clinico, in occasioni di questo tipo, come reggere la rabbia e il senso di impotenza che ci coglie di fronte alla morte, in particolare di un neonato, come si possono aiutare e sostenere le famiglie colpite da tale tragedia e qual è il ruolo che un operatore dovrebbe assumere in questi momenti.

Se non sappiamo andare oltre questo senso di impotenza, non potremo certo proporci a supporto della donna nell’accettare questo fatto ineluttabile della perdita del figlio. Se non accettiamo il limite del nostro operato e quello della scienza medica, non potranno certo accettarlo i genitori. Queste ed altre riflessioni sono state il principale stimolo per la composizione della mia tesi, che ho scritto con l’intento primo di capire come si possa aiutare a superare l’effetto della perdita subita, restituendo alla persona la carica vitale che permette di continuare il cammino nella vita. In passato si preferiva risparmiare ai genitori un dolore inutile evitando qualsiasi contatto col bambino. Per lo stesso motivo si evitava di parlare del neonato schivando ogni vicinanza diretta. Dopo la nascita di un neonato morto, i genitori si ritrovano soli, senza speranza, senza più progetti di una vita col bimbo. Nei primi studi (1968-70) si definisce la perdita del bambino “NON EVENT” ossia la perdita di una persona non ancora esistente e senza nome. L’esperienza ha invece dimostrato l’importanza di un contatto diretto col bambino morto e la presenza di ricordi tangibili. Tenerlo in braccio, magari anche lavarlo e vestirlo aiuta a creare un legame tra genitori e bambino, fondamentale poi nel processo di elaborazione del lutto. Vedere il bambino quando si è sotto shock può farne sbiadire il ricordo più in fretta. Il desiderio di avere un ricordo come una fotografia emerge solo in un secondo tempo.

IL RUOLO TERAPEUTICO DEL PERSONALE SANITARIO NEL SOSTEGNO AI FAMILIARIPer chi lavora in un reparto di ostetricia, la relazione con le pazienti è fondata sul meraviglioso progetto di aiutare i bambini a nascere e le nuove vite a venire alla luce. In questo clima di festosa aspettativa e di gioia, l’assistenza al parto in situazioni critiche, o luttuose, è estremamente difficile.

Le ostetriche, gli infermieri e i ginecologi si trovano a dovere gestire una situazione emotivamente difficile e contrastante rispetto ai normali obiettivi della routine, in cui entrano prepotentemente in gioco l’emotività, i vissuti personali rispetto al lutto, le esperienze pregresse, la propria auto percezione ed autoimmagine come professionisti, la sensazione di adeguatezza o meno al ruolo richiesto.

Un’esperienza di lutto in sala parto (o in terapia intensiva neonatale o al momento dell’esito negativo di un’ecografia) trasporta l’operatore in una dimensione professionale diversa, in cui non bastano la tecnica o l’esperienza professionale di base, ma sono necessari profondi (e umani) vissuti connaturati alla capacità di “prendere in carico” un problema, “prendersi cura” di una persona, condividere un’esperienza drammatica senza lasciarsene travolgere, per essere al contrario un sostegno saldo e quanto possibile rassicurante.

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CAPITOLO 4: LO SGUARDO MEDICO-OSTETRICO

Questi obiettivi sono tipici di ogni operatore che svolge una professione d’aiuto e dunque tutto il personale sanitario, specialmente medici, ostetriche e infermieri, non può fare eccezione.

Questi requisiti non sono innati: si acquistano con l’esperienza ed il lavoro, si mantengono con l’adeguata supervisione e con il confronto tra pari e si accrescono di giorno in giorno se sono sentiti come una nuova ed edificante caratteristica personale, non come un “compito professionale”.

Essere empatici e supportivi, infatti, non è un dovere, è un vantaggio, sia per l’operatore che per il paziente, nell’ottica di un miglior adattamento ad una situazione imprevista ed immodificabile.

Inoltre molti studi ci dicono che un atteggiamento comprensivo ed empatico da parte degli operatori è in grado di facilitare un corretto processo di lutto nei genitori. Ricordiamo che la morte di un bambino durante la gravidanza o in epoca perinatale è un evento inaspettato e improvviso, anche durante una gravidanza a rischio; i familiari sono emotivamente (e biologicamente) impreparati quando si trovano a dover affrontare questa situazione. Per i genitori si tratta spesso del primo incontro diretto con la morte di una persona importante.

La gestante - e più in generale la coppia - deve essere maggiormente supportata nel caso di lutto (perdita del bimbo, bimbo non rispondente alle aspettative). Tenendo conto delle fasi del lutto che la donna dovrà superare per elaborarlo (negazione, mercanteggiamento, rabbia, dolore), del fatto che in ogni gestante esiste una madre nascosta che prepara il nido per il figlio in arrivo, del fatto che sta parlando ad una mamma (anche se di un piccolo di pochi mesi di gestazione), l’operatore deve essere in grado di supportare una comunicazione chiara, sincera, semplice e precisa. Non ci si deve riferire al bambino chiamandolo feto, è necessario comunicare la notizia in ambiente consono e protetto, assicurarsi della presenza di una persona cara, stare attenti alle proprie posizioni corporee (non incrociare gambe/braccia, non sovrastare, non dare segni di frettolosità), permettere alla donna di avere un ricordo del figlio morto.

Simili alle sopra descritte dovranno essere le modalità di comunicazione nel caso di bimbo in difficoltà.

Chi svolge una professione “d’aiuto” e chi è parte di uno staff sanitario (medici, infermieri, ostetriche, ausiliari), all’interno di una struttura ospedaliera, di un distretto o in uno studio privato, ha spesso il difficile compito di doversi confrontare con la comunicazione dell’evento e con la reazione dei familiari. L’operatore sanitario non è immune dalle emozioni negative che si associano alla morte di un bambino (qualunque sia l’età gestazionale), può trovarsi in difficoltà nell’affrontare una situazione così delicata e avere reazioni di imbarazzo, chiusura, anestesia emotiva, rabbia. Per superare l’empasse emotiva gli operatori possono attuare in modo automatico e inconsapevole comuni meccanismi di difesa (negazione, svitamento, proiezione etc.) e adottano stili comportamentali difensivi (come abbassare lo sguardo, chiamare altro personale e uscire dalla stanza, irrigidirsi e parlare in linguaggio tecnico, staccare comunque ogni canale comunicativo di tipo empatico o emotivo). Tali reazioni, dettate dall’emergenza di superare una situazione emotivamente critica, non sono soddisfacenti né per l’operatore in sé (che in questa maniera non ha la possibilità di osservare consapevolmente i suoi reali sentimenti e pensieri rispetto all’accaduto), né per i genitori, che si sentono soli con il loro dolore. Avere reazioni appropriate di fronte ad un lutto non è affatto semplice, per motivi culturali, sociali e personali.

Nessuno ci chiede di recitare perfettamente un ruolo, impersonale ed asettico; sarà importante invece prestare attenzione ed empatia. In casi come questi, avere un’idea più chiara del lutto e dei suoi processi di elaborazione può essere di grande aiuto.

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CAPITOLO 4: LO SGUARDO MEDICO-OSTETRICO

BIBLIOGRAFIA

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

EDUCAR-SI PER EDUCARE IN FAMIGLIA: LA COMUNICAZIONE DEL DOLORE NELLA FORMAZIONE DELLA PERSONA

Di Elisabetta Madriz

Desidero innanzitutto ringraziare l’Associazione “Sulle ali di un angelo Onlus” nella figura della sua Presidente Diana Mayer Grego, per questo invito e per consegnarmi con tanta fiducia la responsabilità di intervenire in un tema così delicato con gli strumenti della pedagogia.

È con gli strumenti della pedagogia infatti che io vi parlo, di quella scienza che ha come suo oggetto l’uomo e quel percorso, che chiamiamo educazione, che ha come sua finalità la realizzazione massima della persona (Dalle Fratte, 1991), indipendentemente dalle caratteristiche (di natura o di cultura) che la contraddistinguono. Pertanto offro questa mia riflessione pedagogica semplicemente come un contributo di pensiero all’immenso lavoro concretamente sociale, di accompagnamento, di sostegno, di rete, di cultura e di scienza/conoscenza, che l’associazione ha già promosso alla sua giovane età. Mi sento di dirvi, da pedagogista, che non avete neanche 2 anni, formalmente li compirete a luglio (se non sbaglio) e state camminando e parlando con l’entusiasmo di un adolescente, la responsabilità di un adulto e la saggezza di un anziano… quindi non posso che augurarvi di continuare a stravolgere ancora le tappe del vostro sviluppo e della vostra crescita!

Il mio intervento si articola in 3 momenti:

1) quando nasce una famiglia?2) come ci si educa in famiglia?3) ci si può educare al dolore?

Con questa suddivisione solo ideale intendo procedere ed offrire il mio punto di vista sulla tematica relativa al convegno.

1) QUANDO NASCE UNA FAMIGLIA?

Lo psichiatra Erikson distingueva otto tappe nello sviluppo umano (dall’infanzia alla vecchiaia) ed attribuiva alla settima fase il periodo della generatività. In questa fase si esplicherebbe, secondo lo studioso, la propria capacità creativa nei vari campi dell’agire umano, lavorativo, dell’impegno sociale, della famiglia, compresa per l’appunto la capacità riproduttiva. Se la possibilità di “generare” venisse inibita in qualcuno di questi ambiti, Erikson ravvede qui la possibile regressione, l’impoverimento, il depauperamento della persona. Ciò che caratterizzerebbe tale fase sarebbe infatti la sollecitudine, definita come “la dilatante preoccupazione per ciò che è stato generato dall’amore, dalla necessità o dal caso” e viene intesa come la tendenza ad occuparsi del proprio simile. La cura, l’assistenza, l’allevamento dei figli, la trasmissione della cultura sarebbero dunque le virtù emergenti di questa fase.

Bene qui nasce l’adulto, nella preoccupazione verso l’altro: e in questa tensione ad occuparsi dell’altro, che è già caratteristica della coppia, nasce la famiglia. Nasce nell’apertura alla possibilità e nella realizzazione, sempre aperta e mai definibile in termini assoluti, del suo progetto storico.

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Il primo figlio ha il non facile compito di trasformare due persone in genitori (Penelope Leach, in Il bambino dalla nascita a 6 anni, 1991). Ma prima di essere trasformati assumendo la funzione educativa, i genitori concepiscono il figlio nei loro pensieri, lo immaginano, lo progettano, in qualche modo lo chiamano a diventare parte di quella famiglia. Ma come si fa a diventare famiglia? Quale percorso educativo si deve fare? Il primo percorso è quello personale, quello che pedagogicamente chiamiamo progetto storico personale a cui l’educazione (in tutte le sue forme da quella familiare a quella formale scolastica) si pone a servizio; poi c’è un percorso di coppia, segnato da un tempo di conoscenza, di fiducia, di ascolto, di affidamento reciproco… costruire tutto questo con il proprio compagno significa preparare un preludio a ciò che ci sarà dopo, a quando la famiglia si allargherà. Ma la coppia è già famiglia e come tale è la prima comunità umana, che ha anch’essa un suo progetto storico comunitario, ove si sono fusi i progetti storici che ciascun partner della coppia mette in comune nella relazione, con tutti i benefici, i rischi, le difficoltà che ciò comporta.

La nostra domanda iniziale contiene in sé però un secondo quesito: come educare la coppia a diventare famiglia? Oggi parliamo di psicologia prenatale, di educazione prenatale insistendo sulla necessità di una ipotetica “formazione” a diventare genitori. Nel 1600 Comenio proponeva una ‘scuola della nascita’ che avrebbe dovuto offrire «indicazioni utili ai genitori sui problemi della prima ed indispensabile cura verso il genere umano già nel grembo materno» e avrebbe dovuto comprendere tre ‘classi’:

- una specie di consultorio prematrimoniale,

- una classe dedicata agli orientamenti sul comportamento durante il primo periodo del matrimonio,

- una classe rivolta alla cura della «prole già concepita fino al momento della nascita».

Negli ultimi decenni gli studi e le riflessioni della psicologia prenatale hanno potuto dimostrare che l’esperienza e la relazione intrauterina con la madre rimangono fortemente impressi nel tessuto emozionale dell’essere umano a partire dal concepimento: ciò ha reso legittimo il compito principale dell’educazione prenatale, ovvero accompagnare i genitori nella progressiva conoscenza del nascituro durante il periodo gestazionale. Suggerisce infatti Gabriella Arrigoni Ferrari che “pensare che la comunicazione emotiva, profonda con la propria madre e con il proprio padre ha inizio già dal momento in cui si è un piccolo essere, cullato e protetto nel grembo materno, dà un senso di completezza” (Arrigoni Ferrari, 2005).

Il grande pittore Salvadore Dalì disse: “sebbene la mia nascita avesse mitigato nei miei genitori la disperazione provata (per la perdita di mio fratello), le cellule del loro corpo erano orami intrise del loro struggente dolore. Ho vissuto il tormento di mia madre sin da quando mi trovavo nel suo grembo. Il mio feto ruotava in una placenta diabolica. Non mi sono liberato di questo tormento”. Il percorso evolutivo di ognuno di noi non ha inizio dall’infanzia, ma nella vita prenatale. E nell’accettazione, nell’accoglimento di quella vita prenatale ha inizio la famiglia.

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

2) COME CI SI EDUCA IN FAMIGLIA?6

Educazione e comunicazione vivono in uno stretto legame di necessità: giacché non è possibile educazione al di fuori di una relazione, dobbiamo anche affermare che non esiste relazione se non attraverso la comunicazione. Tale che le relazioni che vivono all’interno della famiglia (genitori tra loro, genitori con i figli, figli tra loro, genitori con i loro stessi genitori etc.) sono caratterizzate da specifiche modalità comunicative che fondano quelle relazioni, e in qualche modo distinguono la crescita di quella comunità umana. La famiglia infatti, prima comunità umana, ha un suo progetto storico che raccoglie e contiene in sé tutti i progetti storici, realizzati ed ipotetici, dei suoi membri. La persona e le sue caratteristiche, le sue caratteristiche distintive, le sue disposizioni, le sue possibilità trovano nella famiglia il primo luogo di sviluppo. Ciò avviene attraverso la relazione e la comunicazione (ascolto-empatia).

In Le madri non sbagliano mai (1995), Bollea cita una frase del pedagogista russo Anton S. Makarenko, per il quale lo scopo dell’educazione è quello di raggiungere la «gioia del vivere insieme». La presenza dell’amore nell’interazione con il figlio è la modalità fondamentale della comunicazione: essa deve essere presente e sempre Bollea, nel definire la modalità di trasmissione, ribadisce la validità dell’esempio per l’apprendimento del bambino: «l’importante è dare l’esempio di una vita vissuta con entusiasmo, con fiducia» e più avanti: «i genitori poi devono dare ai figli l’esempio di un unione basata sull’affetto e la stima dei due coniugi».

Un tema dominante oggi nella ricerca sia sociologica sia psicologica sia pedagogica è quella dedicata alla qualità dei legami comunicativi che caratterizzano la famiglia: si può affermare che ogni famiglia si costituisce intorno una modalità comunicativa che contraddistingue le relazioni di coppia, quelle dei rapporti genitori-figli, i legami con le famiglie d’origine. Ogni famiglia nucleare adotta una suo codice comunicativo peculiare e tali codici sono il segno manifesto di abitudini che si tramandano attraverso le generazioni e confluiscono nelle narrazioni che specificano ogni famiglia. La relazione educativa in famiglia ha il proprio fulcro nella comunicazione: analizzare la comunicazione in quanto paradigma di comprensione delle azioni familiari significa entrare nella vita quotidiana, osservare i gesti, ascoltare i commenti, percepire i silenzi e i loro significati. L’educazione e la comunicazione in famiglia, sostiene Vanna Boffo, hanno un unico fine, la formazione umana dell’uomo, che abita progettualmente ogni famiglia in quanto comunità. Il problema sta nel grado di consapevolezza attraverso cui i genitori comunicano ai figli gli strumenti per farsi pienamente partecipi della costruzione della propria vita e del proprio percorso di crescita. L’ascolto e l’empatia sono gli strumenti con i quali la comunicazione diviene pienamente formativa e adempie il compito che le viene assegnato. L’ascolto e l’empatia sono le attitudini dell’altro, sono presenti nelle routine di un quotidiano che alle volte non è neppure progettato, eppure proprio per questo si fanno vettori di una elevata quota di formazione all’essere. Ne è esempio il momento in cui i genitori tacciono su eventi importanti: ciò non permette ai figli la comprensione di quanto sta accadendo, il silenzio non è una semplice assenza di comunicazione ma si trasforma nel suo opposto e si crea una barriera, che da comunicativa diventa educativa e formativa, che inciderà fortemente sullo sviluppo del bambino ma anche dell’adulto. Dove invece il silenzio (che di per sé non ha una connotazione solo negativa) è accompagnato dal dialogo costruttivo, esso può diventare sostegno alla comprensione del cambiamento, può addirittura essere generatore anche di nuove e più efficaci modalità di relazione. L’affetto e l’amore dei genitori passa anche dalla fiducia concessa alla capacità dell’altro (bambino) di elaborare l’accaduto, purché il tutto avvenga in quello che io chiamerei un “contenitore trasparente” ma solidamente strutturato, la relazione educativa.

6 Gli argomenti trattati in questa seconda parte del saggio sono frutto di una attenta lettura e rivisitazione del contributo di V. Boffo, Famiglia e comunicazione formativa, pp. 111-130, nel testo di F. Cambi (2006), vedi bibliografia.

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

In generale il termine RELAZIONE rimanda secondo Cigoli (1997) a due diverse etimologie:

- quella del verbo religo che la fa intendere come legame, vincolo, unione, patto, interazione (QUALITA’ DEI LEGAMI);

- quella del verbo refero, che la fa intendere come attestazione di reciprocità e di senso (RICERCA DI SENSO).

Le relazioni familiari non sono relazioni generiche, ma si connotano per un aggettivo fondamentale che ne richiama il senso dinamico e il senso valoriale: le relazioni familiari sono primarie “connettono e legano differenze cruciali della natura umana, le differenze di genere e le differenze di generazione. Esse danno luogo ad un bene relazionale essenziale alla comunità umana” (Boffo).

Vi sono due dimensioni fondamentali della comunicazione, che più sopra abbiamo definito le “attitudini dell’altro”:

a) ASCOLTO: l’ascolto dell’altro è vincolato dall’ascolto di sé, dal mettersi in gioco, dal disporsi verso l’altro, accogliere l’altro de-costruendo e de-stabilizzando la costruzione che come adulti abbiamo fatto di noi stessi. Ascoltare senza dire parole crea un ponte, un legame, è un dono che regaliamo costantemente all’altro: i racconti del vostro libro “Le testimonianze delle mamme di angeli” grondano di richieste di ascolto autentico, di ascolto senza parole (specie quelle falsamente riempitive tipo “passerà”, “ci sarà una prossima volta”, “il tempo cura ogni ferita”)… io credo, sì però resta la cicatrice, talmente incredibile è la fisiologicità umana del tessuto che si risana, ma tiene traccia di quanto è avvenuto, e la traccia è memoria, ed è giusto sia così.

b) EMPATIA: non esiste ascolto senza empatia, essa è la condizione stessa dell’ascolto: essa è sentire l’altro, dirigersi verso l’altro, anzi stare sulla soglia ad aspettare, porsi accanto in punta di piedi. Afferma Rogers “mi sento realizzato e pervaso di calore umano quando mi consento di percepire che qualcuno si preoccupa di me, mi accetta, mi ammira e mi apprezza”.

Dice Galimberti “la generazione è sempre doppia. Non solo i genitori educano i figli per condurli sui sentieri della formazione umana, ma anche i figli generano i padri e le madri e consegnano loro diversi doni che riconfigurano la loro personalità” (Galimberti, 2003).

Bisogna ascoltare le parole, anche dove non dette. Bisogna imparare a dire parole, a ricercarle, a farle proprie e a consegnarle come le briccole, i pali che segnano la via ai naviganti per uscire fuori dal porto. Le parole vanno scelte e va scelto il tono per proferirle, non si può improvvisare. La ricerca della comunicazione più adeguata è la ricerca della qualità del dirsi, del capirsi come uomini e donne sempre in crescita e formazione. Nel tempo degli “sms”, non confondiamo l’informazione con la comunicazione, riscopriamo il senso delle parole proprie, della fisicità e della pregnanza dei concetti e delle parole che non sono sinonimi, che non si possono usare in modo interscambiabile. La parola cercata con attenzione diviene già cura per l’altro, sollecitudine nei confronti dell’essere umano.

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

3) SI PUÒ EDUCARE/EDUCAR-SI AL DOLORE?

Ci si può educare a sopportare, a sopravvivere al dolore? Azzardo addirittura: è possibile utilizzare il dolore come particolare strumento di educazione/autoeducazione? Intendo qui condividere alcune riflessioni di carattere pedagogico su quello che la famiglia nel suo insieme, in quanto sistema, può fare per sopportare il dolore e supportare i suoi membri nella ripresa di un progetto di vita.

Mi piace ricordare proprio in questa sede che in cinese “prestare attenzione” è reso con l’espressione “fare cuore piccolo”, quindi lasciare spazio alle regioni più sottili dell’esistente.

Per prepararmi in modo – spero – più mirato a questo appuntamento odierno, ho voluto leggere con attenzione la vostra recente pubblicazione, per la quale esprimo anche da qui il mio apprezzamento. Quante famiglie si raccontano, in questo vostro libro! Quanto si raccontano queste mamme! Perché è vero che le mamme sono sempre più forti nella comunicazione, la cercano, la invocano! Io le chiamo mamme, non mamme mancate, ma pienamente mamme: quelle mamme che raccontano con sofferenza la loro storia, ma, come dice Diana, magari qualcuno si affaccia al sito e poi va per la sua strada, ma “c’è anche chi sceglie di rimanere per prendere per mano altri genitori e sostenerli in un nuovo cammino”7. Le testimonianze parlano dell’immenso aiuto che queste mani tese hanno generato, quando spesso si dice “solo chi ha provato può capire”… e allora qui si generano quelle che possiamo chiamare maternità, paternità, genitorialità sociali. Attraverso il lavoro culturale e di rete di sostegno che “Sulle ali di un Angelo Onlus” sta svolgendo si esercita propriamente e pienamente una genitorialità sociale, non meno importante di quella biologica. L’aver contribuito attraverso la ricerca scientifica, il sostegno e la vicinanza alla nascita di alcuni piccoli, nonostante le difficoltà della possibile patologia, porta quell’orgoglio giustamente umano a dire “siamo diventate zie!”.

Cosa accade all’interno della coppia?

Il “prima” e il “dopo” la morte del proprio figlio costituiscono nel loro insieme una cesura cronologica immane, incolmabile sempre, e la sofferenza personale può esasperare le difficoltà di relazione interne alla famiglia, soprattutto perché le differenti modalità di sperimentare il dolore e di elaborarlo sono legate alla peculiarità di ogni singolo individuo, ma si muovono anche nell’ambito delle caratteristiche di genere.

È tipicamente femminile attendersi comprensione, sostegno e accompagnamento da parte dei componenti maschi della famiglia, in particolare dal proprio partner. Le mogli si aspettano il rispetto dei propri tempi personali, inesorabilmente lunghi, per riprendere interesse per la vita; si aspettano anche la vicinanza fisica e affettiva, ma in modo particolare si attendono la condivisione di quel dolore in tutta la sua profondità, con comportamenti che alle volte richiedono atteggiamenti di vicinanza o lontananza che si ritengono scontati e che si pretendono di immediata comprensione. Stiamo attente noi mamme anche a non strumentalizzare questo silenzio: se non esprimi ciò che senti, non lo verbalizzi, non lo esterni in qualche modo, non puoi sempre pretendere che l’altro (per quanto vicino, coniuge, compagno, familiare) possa capire il tuo bisogno e ad esso corrispondere! Trasparenza e semplicità debbono essere costanti del rapporto con l’altro, specie se così prossimo, intimamente legato.

7 Mayer Grego D., introduzione a Le testimonianze delle mamme di angeli, Centro Servizi Volontariato, Trieste 2009.

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

Nello stesso tempo le esigenze vissute dall’uomo sono quasi esattamente speculari: necessità di allontanare i pensieri, di evitare per quanto possibile di ritornare a parlare dell’accaduto e di dedicarsi con foga ad attività varie, ai viaggi o comunque a necessità pratiche, quotidiane che possibilmente trattengano fuori casa, per tentare di ritrovare una normalità personale e di riportarla anche in famiglia.

Ognuno dei due partner riconosce nel comportamento dell’altro quasi un affronto alla propria sensibilità e alle proprie necessità: tacitamente alle volte tale percezione si trasforma in un’accusa nei confronti del partner, un’accusa di incapacità di reagire o di superficialità.

Nella variabilità legata a stili di vita e di coping assolutamente personali, emergono tuttavia alcune modalità elaborative costanti, legate a esigenze fondamentali dell’essere umano.

Le tratteggiamo così:

- L’importanza dei riti della quotidianità

Credo sia davvero importante incoraggiare le famiglie a individuare piccoli e grandi riti da condividere: non costituisce un problema la presenza di riti individuali, lo è l’assenza di riti familiari condivisi. Perciò il momento del pranzo o della cena insieme, la visita domenicale ai nonni, la lettura del racconto serale, la cena mensile con gli amici: sono tutti momenti che riescono a ricollegare alla quotidianità, in una dimensione che è quella della routine, non della meccanica ripetizione.

- La necessità della narrazione

Una parte determinante dell’elaborazione della perdita passa attraverso la narrazione: questa è una necessità profonda che fa emergere quanto di più intimo e caro sperimenta una persona e per questo deve essere accolta e rispettata dalle persone con cui esiste un legame privilegiato. Il fatto di tessere e ritessere la narrazione è una scelta obbligata: come la vita si è svolta fin lì, come si è interrotta, il dubbio su come si possa continuare la propria esistenza sono tutti elementi che debbono essere verbalizzati o comunque espressi, con l’intento, magari non sempre esplicito, di trovare modi e tempi per continuare il proprio progetto di vita.

- L’importanza del fare parte di comunità

Le madri partecipano molto più attivamente, si mettono in gioco, stringono forti legami con gli altri membri, anche se continuano a vivere come elemento centrale della loro vita la perdita subita. I padri tendono a raggiungere una certa stabilità, ma più sul piano razionale e quindi in realtà molto fragile, ma che proprio per questo vogliono difendere. Queste differenze trovano nel gruppo la possibilità di essere ammortizzate. Secondo Dalle Fratte (1991) la comunità è la rete vitale delle relazioni attivata dalla persona e si connota come spazio di cui la persona ha bisogno per la propria realizzazione. Ecco perché la comunità è il luogo ideale ove realizzare se stessi anche e soprattutto in quei momenti (come quello della perdita di un figlio) in cui si fa fatica a trovare ragioni per continuare i propri progetti.

Ma in sostanza come educarsi al dolore? Il dolore vero, espresso è già un sentimento educato, che trova un suo canale di espressività e quindi di comunicabilità, di esternazione. Se taciuto diviene problematico e costituisce un blocco nella dinamica dell’evoluzione della persona. Ma in sostanza si può dire che ci si può educare ad accettare il dolore nella propria vita con semplici atteggiamenti, quali per esempio essere aperti alla propria sofferenza e alla propria fragilità, sentire le proprie emozioni e quelle dell’altro come un importante strumento di crescita, fare propri le parole e il pensiero sulla morte (anziché allontanarli come tabù).

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CAPITOLO 5: LO SGUARDO PEDAGOGICO

Inoltre cosa possiamo offrire noi adulti di riferimento ai bambini?

Di certo possiamo offrire delle relazioni di contenimento nelle quali i bambini/ragazzi possano sentirsi rassicurati pur nello sperimentare dolore e sofferenza; possiamo offrire un atteggiamento di “ascolto particolare” (oltre a quanto espresso nel paragrafo 2) e quindi saper cogliere non solo dalle domande ma anche dai comportamenti di malessere quando aprire al dialogo su questi temi; possiamo ancora impegnarci personalmente nel dialogo sulle perdite e sulla morte non suggerendo regole di comportamento al dolore, ma accettando di esserne noi stessi toccati, scossi, messi in difficoltà; possiamo infine avere consapevolezza che è più importante esser-ci che dire la cosa giusta.

Da qualche parte ho letto che in Africa vive una tribù che crede che il bambino nasca nel momento in cui si fa presente alla mente della madre. Quando la madre è conscia della propria intenzione di concepire il figlio, va nella boscaglia e si siede sotto un grande albero. Rimane seduta finché ode la canzone del bambino. Quando torna al villaggio la insegna al padre con cui la canta durante il concepimento, poi la insegna alle levatrici e man mano a tutte le donne del villaggio. Non ci sarà evento che riguarderà quella persona che non sarà accompagnato dalla sua canzone, per sempre.

È importante cantare quella canzone, sempre, insegnarla alla famiglia, agli altri figli, farsi accompagnare da questo canto nei vari tempi della vita. È importante però che non rimanga un canto interno silenzioso, solipsistico… da voce sola a coro… allora sarà davvero un canto di relazione, di senso, di vita che continua.

BIBLIOGRAFIA

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FotografieIlaria Quaino / Maura Mayer Grego / Ugo Pamio / Piero Rosato

Progetto GraficoRoberta Biasutto

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