afterville n° 6
DESCRIPTION
ROSSO + NEROTRANSCRIPT
Ho cono-
sciuto Echaur-
ren nel 1993, nel
corso di una mostra
promossa dall’Asso-
ciazione Dioce in San Fi-
lippo Neri a Torino intitolata
Ecbatana. Imm
agini e scritture
da una città invisibile. La coperti-
na del catalogo era adornata da un
quadro di Pablo, anch’esso dedicato
a Ecbatana. Ma a quale “città invisibile”
guardavamo? Secondo un indimenticato
fondatore di Dioce, Gianni Dolino, eletto poi
deputato con Rifondazione Comunista, a un
luogo nel quale fosse possibile “cantare, pregare,
gridare la pace, sopra le guerre… comandate da
ordini di batraci in forma d’uomo. Con ogni mezzo: altri
con preghiere all’insegna dell’ecumène, noi con l’Arte”.
Echaurren, con l’arte, ha sempre proseguito a cercare la
pace sopra le guerre, rosse e nere, e per questo gli rendiamo
oggi il dovuto onore. Perché è stato il miglior p-artigiano di quella
città ideale nella quale, come ebbi a scrivere in Ecbatana, “gli estremi
si toccano, si integrano, si confondono”, dove l’uomo “che è relazio-
ne… sente il bisogno di uscire da sé per capire sé stesso e ritrovarsi”. Ora,
La Camera di com
mercio di Torino rin-
nova il suo impegno per l’arte e
l’architettura fornendo il proprio contri-
buto alle manifestazioni celebrative del
Centenario del futurismo, attraverso la
mostra Rosso+Nero allestita presso il
MIAAO M
useo Internazionale delle Arti
Applicate Oggi, situato nel complesso
monum
entale juvarriano di San Filippo
Neri. Prosegue così la strada di promo-
zione culturale che la Camera di com
-
mercio di Torino ha intrapreso in questi
anni, sostenendo con convinzione i
maggiori eventi e le attività dei centri
espositivi del territorio, e prosegue
anche il lavoro svolto in collaborazione
con l’Ordine degli Architetti di Torino,
che ha portato alla pubblicazione di
Torino Tour, guida ai luoghi del design.
Recentemente rinnovata anche in oc-
casione dell’importante XXIII Congres-
so mondiale degli Architetti UIA, con
inediti apporti grafici giovani e gradevo-
li, la pubblicazione è un viaggio attra-
verso percorsi ispirati alla creatività e
alla capacità progettuale dei torinesi.
L’imm
agine di una Torino che evolve,
che fa nascere nuovi spazi, che riper-
corre la propria storia culturale per
ricreare nuove occasioni d’arte, è un
obiettivo che concorre alla crescita
della qualità della vita e alla capacità di
rispondere alle crisi dell’oggi con la
progettualità del domani.
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Tributo al futurismo
Riccardo Bedrone
Presidente Ordine degli Architetti PPC di Torino e Provincia
Cosmopoli
futurista
In onore
di Echaurren
Padre Giuseppe Goi d.O.
Rettore Seminario Superiore di Arti Applicate
Alessandro Barberis
Presidente della Camera di com
mercio di Torino
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Ugo Pozzo, Cosmopoli, 1925, olio su tela, 100x70 cm
, Collezione Eredi Pozzo, Torino
Emanuele Prandi, Ritratto di Pablo Echaurren
e Claudia Salaris, 1996, fotografia a colori, 31x37 cm
Pablo Echaurren, Futurismo Contro
Corraini, Mantova 1995
Urlo di popolo in rivolta.
Cosmopoli nera, m
ostruosa, assassinata.
Vita di agguato e di lotta.
Fillia, Rivolta, in 1+1+1=1, Dinamite. Poesie proletarie. Rosso+Nero, 1922
architetture grafiche
forme tanatologiche
revival antagonistici
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In un recente articolo ironicamente in-
titolato Eja Eja ma va là (”La Stam
pa”,
28 gennaio 2009), Massim
o Gramelli-
ni ha accusato le istituzioni torinesi e
piemontesi di lasciare “nel dim
entica-
toio” quella “montagna di azioni ed
emozioni” rappresentata dall’arte e
dall’architettura “avanguardista” e ra-
zionalista -ivi compresi “stadi, teatri
ed edifici pubblici edificati da Mussoli-
ni”- e proprio nell’anno del Centenario
della pubblicazione del primo M
anife-
sto del futurismo, il cui inizio scocca il
20 febbraio 2009. Protesta in parte
condivisibile, ma che pensiam
o non ci
coinvolga. Come dim
ostrano quasi
tutti i numeri precedenti di “AfterVille”
(tabloid ideato da Undesign e diretto
da Enzo Biffi Gentili) e i nostri apporti
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ostre Astronave
Torino e
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aggi tributa-
ti, tra gli altri, a Nicola e Leonardo
Mosso, Giuseppe Pagano, Fe-
derico Maggia (autore a Biella
della Torre Littoria e del pro-
getto del Faro dell’Impero)
ed a Enzo Venturelli.
Questo numero spe-
ciale poi, Rosso+
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interamente
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problema di una sua possibile eredità
culturale. Che a noi interessa soprattut-
to sotto due aspetti: quello della “archi-
tettura tipografica”, alla quale dedichia-
mo da tem
po costante attenzione -basti
pensare alle due edizioni della guida
Torino Tour da noi promossa insiem
e
con la Camera di com
mercio di Torino-
e quella dell’architettura tout court, e
della sua “trasmissione”, questione in-
torno alla quale si è costruito e sviluppa-
to il programm
a del XXIII Congresso
mondiale degli Architetti UIA Torino
2008. Ebbene, è noto che proprio il co-
siddetto Secondo futurismo torinese,
sotto la guida di Fillia, era in qualche
modo specializzato in transm
itting ar-
chitecture, nella comunicazione dell’ar-
chitettura: si pensi a riviste come “La
Città Futurista”, “La Città Nuova”, “Stile
Futurista”, “Vetrina Futurista” e ai due
suoi regesti, La nuova architettura del
1931 e Gli ambienti della nuova architet-
tura del 1935, entrambi pubblicati dalla
UTET (parzialmente riediti com
e strenna
della stessa casa editrice cinquant’anni
dopo, con la curatela di Roberto Gabetti
e corredati da un suo acuto saggio inti-
tolato Architettura-ambiente: il progetto
del secondo futurismo). E ricordiam
o
anche alcuni veri architetti, di profes-
sione o di formazione, com
e Nicola
Diulgheroff (al quale Valeria Garuzzo ha
dedicato il bel libro Nicola Diulgheroff
architetto, Marsilio, Venezia 2005), Al-
berto Sartoris,
il già
citato Nicola
Mosso, Gyra e Pippo Oriani. Insom
ma,
l’architettura era davvero, per i futuristi
torinesi, la prima inter pares tra le arti,
sino a ispirare anche l’opera di pit-
tori come Ugo Pozzo, che in
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gere proprio sotto questa
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architetture grafiche 20 febbraio 2009
Luisa Perlo
Enzo Biffi Gentili
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Visto da sinistra Un collettivo dinamitardo
Architetture tipo-graficheDuilio Remondino, Il futurismo non può essere nazionalista, 1914
Politicamente, i futuristi marinettianihanno un voluminoso varicocele
Carlo Frassinelli, illustrazioni dalle tavole III, IV, V della Rivoluzione grafica, in “Il Risorgimento Grafico” n. 8, a. XVIII, agosto 1921, Courtesy Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Divieto di riproduzione
Copertina di 1+1+1=1, Dinamite. Poesie proletarie. Rosso+Nero, Edizione dell’Istituto di Cultura Proletaria, Torino 1922, Collezione Echaurren Salaris, Roma
Copertina di Duilio RemondinoIl futurismo non può essere nazionalista Tip. Cooperativa, Alessandria 1914 Collezione Echaurren Salaris, Roma
Pablo Echaurren, tavola da Majakovskij Il Serraglio Editore, Roma 1986
Remondinofuturista alessandrino
L’anarchico e sindacalista Maurizio Ga-rino (1892-1977), sardo d’origine ma attivo a Torino, così ricorda alcuni pro-tagonisti del dibattito politico-culturale nella capitale subalpina alla vigilia della prima guerra mondiale: “C’erano an-che quelli che si riconoscevano in Stir-ner. Noi abbiamo avuto, per esempio a Torino, quel famoso Rocca che è poi passato al fascismo, caro mio, era un capellone di allora, era un giovane, e allora tutti gli altri lo adoravano, per gli argomenti che tirava fuori, argomenti che poi all’atto pratico si sono dimo-strati fasulli, in una classe operaia che andava a lavorare in fabbrica dove c’era il senso dell’organizzazione, una certa disciplina, il senso della collaborazio-ne... In mezzo all’operaio l’anarchico individualistico non attaccava. Invece, Mario Gioda, che poi è stato il fonda-tore con Mussolini dei fasci di Piazza San Sepolcro, ecco io me lo son trova-to al centro di via Galliari (...). È ancora vivo Terenzio Grandi, un mazziniano... Era amico di Gioda... Lui ha seguito i mazziniani torinesi, che in quel tempo avevano un Circolo in Borgo San Pa-olo. Erano un nucleo che ha vissuto quel periodo là in pieno perché erano tipografi, lavoravano sul piano sindaca-le e politico (…). Allora c’era quel tipo di operaio lì, che dopo dieci ore di lavoro aveva ancora la forza di venire al Circolo a discutere di Marx, di Bakunin, di Stir-ner” (da un’intervista del 1976 a Mau-rizio Garino, sbobinata, non corretta, e pubblicata sul sito CGIL-FIOM). I co-gnomi citati sono tutti di tipografi, colti e coltissimi, e tutti connessi a episodi e rapporti, da approfondire, nella storia del fascismo e del futurismo, nazio-nale e locale. Principiamo da Terenzio Grandi (1884-1981), autore nel 1916 di un saggio intitolato Futurismo tipo-grafico (in “L’Arte Tipografica”, a. IV, n. 4). Grandi, legato, ricordiamo, al poeta Gian Piero Lucini, altro “avanguardista di sinistra”, nel suo testo distingue tra l’innovazione tipo-grafica praticata dal movimento futurista e quella gemma-ta nel suo ambito disciplinare, asse-gnando a quest’ultima maggior valore. Tra i nomi dei tipografi-novatori iscrive quello di Raffaello Bertieri, anche se poi afferma che, mentre il concetto che lo muove è “nobilissimo, meritorio” e riscuote il suo plauso incondizionato, ancora non lo persuadono del tutto “le manifestazioni del concetto stesso”. Infatti occorre attendere l’inizio degli anni ’20 perché sulla rivista milanese del Bertieri, “Il Risorgimento Grafico”, compaiano manifestazioni di più riso-luta innovazione, prodotte da un ex collaboratore e discepolo torinese di Grandi, Carlo Frassinelli (1896-1983), ai più noto per la successiva attività di editore, iniziata nel 1931. Frassinelli era una figura che in sé risolveva la duplici-
tà grandiana della locuzione “futurismo tipografico”: era infatti sia un tipografo, che un futurista (come tale lo troviamo tra gli espositori della mostra al Win-ter Club del 1922). Su “Il Risorgimento Grafico” Frassinelli pubblica nel 1921 e 1922 tre serie di articoli dedicati al tema di una “rivoluzione grafica”, no-tevoli sia come prova di ricchissima e anche eccentrica cultura, seppur come quella di ogni autodidatta un po’ disor-dinata; sia come esemplificazione di nuove proposte verbo-visive, alcune delle quali esposte anche al Winter Club, che riproduciamo a fianco ri-montate dai giovani grafici torinesi di Undesign per evidenziarne il carattere di “prove sospese tra l’ironia e il trau-ma”, come ebbe a dire Ugo Carrega a proposito di lavori di un altro, molto più tardo grafico, Silvio Coppola (Scrit-tura attiva, Zanichelli, Bologna 1980). Ma egli diviene ancor più persuasivo e profetico negli ultimi tre articoli della serie, intitolati Embriologia grafica ri-voluzionaria. Vediamo. Innanzitutto, “il tipografo nuovo deve essere un artista e avrà in questo una coincidenza con l’antico calligrafo” (prefigurando con ciò l’“artista e designer”, quel tipo di originale figura che costituirà soprattut-to a partire del secondo dopoguerra un nuovo “primato degli italiani” nelle arti del disegno). Inoltre Frassinelli afferma che occorre essenzialmente concen-trarsi sulla “pura lettera dell’alfabeto” che ha grandi proprietà: può essere letta e ascoltata, acquisire valori deco-rativi “abolendo così la decorazione”, assumere aspetti figurativi “abolendo così la figura”, stimolare sensorial-mente, riunire le proprietà “del lirico e del logico”. Così lettere e caratteri da stampa “si tramuteranno in simboli vi-venti”. Con ciò, da un lato Frassinelli apre la via a quella che diverrà la mag-giore specialità del design torinese e piemontese del XX secolo, con quello automobilistico: il disegno di caratteri, e basti citare la Nebiolo e il nome inter-nazionalmente noto di Aldo Novarese. Ma d’altra parte quell’aver intuito valori “poetici” esprimibili anche attraverso competenze “tecniche” precorre con-siderazioni solo molto dopo enunciate da un artista-critico come Vincenzo Accame: “Il design in effetti è già chia-mato in causa con la poesia concreta, in particolare con la linea che tende a isolare i momenti primari dell’alfabeto privilegiando i significati compositivi (…). Poesia ‘grafica’ a volte, ma anche graficizzazione della poesia nei suoi strumenti più immediati (…). Non a caso l’interesse del designer è spesso rivolto all’alfabeto, perché tutta la sua opera non è che una alfabetizzazione degli oggetti e dello spazio che li cir-conda” (Il segno poetico, Zarathustra-Spirali, Milano 1981).
Quando partecipa alla mostra del Winter Club, Duilio Remondino ha passato i quarant’anni. Alessan-drino come Carlo Carrà, nativo di Quarto d’Asti, è un futurista della prima ora secondo quanto ricorda Umberto Carpi (Bolscevico immagi-nista, Liguori Editore, Napoli 1981), iscritto nelle liste del movimento dal 1913 al 1924. Scrittore, poeta, pittore, da poco è un deputato del neonato Partito Comunista d’Italia. Alla vigilia della I Guerra Mondia-le, nel 1914, dava alle stampe, in aperta polemica antimarinettiana, il pamphlet Il futurismo non può essere nazionalista. In questo opu-scolo “da 4 soldi”, proclamava, scrive Angelo D’Orsi, “il carattere ‘passatista’ della guerra, rovescian-do il rapporto di subordinazione tra la parola Italia e la parola libertà (istituito, com’è noto, dal manifesto del ’13) e dando a quest’ultima una dimensione universale” (L’ideologia politica del futurismo, Il Segnalibro, Torino 1992), su posizioni che lo condurranno in seguito ad aderire alla cellula romana del movimen-to internazionalista Clarté di Henry
Barbusse. “Politicamente”, conclu-deva Remondino guadagnandosi la censura, “i futuristi marinettiani han-no un voluminoso varicocele. Con simile pendaglio ai coglioni non si è veri uomini. Via -presto:- si fac-ciano l’auto-operazione”. Benché la sua produzione artistica, poetica e pittorica non si discosti, se non nel periodo dell’esposizione torinese, da “stilemi ottocenteschi di assai modesto livello”, come ha osserva-to D’Orsi (Dizionario del Futurismo, Vallecchi, Firenze 2000), nelle paro-le di Carlo Cordiè egli “pensava e scriveva molto meglio di altri, ora considerati autori della tradizione italiana del Novecento” (Un futurista internazionalista, “La Martinella di Milano”, 1975). E la sua fede nelle potenzialità del futurismo di “espri-mere le aspirazioni del proletariato” è tale da procurargli non poche gra-ne con gli ex compagni socialisti. Tra gli episodi rintracciati nel 1921 sui fogli politici locali, Carpi cita il più curioso: l’imbiancatura del suo ”affresco soviettista” realizzato nella Camera del Lavoro di Asti. La sua difesa “dell’estetica futurista, vera e propria rivoluzione dell’arte”, passa anche su “Avanguardia”, organo filofuturista della federazione giova-nile comunista, lanciando una pole-mica che rimbalza sulle pagine del milanese “Gioventù Socialista”. Re-mondino vi afferma che il futurismo “non è altro che una premessa. Oggi il mondo, oggi la vita è dinami-ca, deve essere dinamica. Ma come deve esserlo? Ecco la domanda cui i futuristi marinettiani rispondono con gli stati d’animo plastici, con le linee-forza, con la compenetrazio-ne dei piani, colle parole in libertà, a cui noi rivoluzionari dell’arte rispon-diamo col rendere concetti umani e aspirazioni proletarie concreti in forme sia pure sintetiche e per quanto è possibile dinamiche nel giuoco della loro funzione, ma che incarnino, impersonifichino eterne verità, rendano più forte, più saldo lo spirito di fratellanza tra gli uomini esaltando l’amore e la forza nel la-voro, richiamando le turbe sulla via della lotta per un’umanità più gran-de e più concorde”.
Nel 1920, al II Congresso del Comin-tern, il commissario del popolo per l’istruzione Lunaciarskij definisce F.T. Marinetti “intellettuale rivoluzionario”. Da poco questi si è temporaneamente dissociato dal fascismo, inaugurando la stagione di massima apertura ideologi-ca del movimento. È l’Esposizione Fu-turista Internazionale del 1922 al Winter Club di Torino, in Galleria Subalpina, a costituire per Umberto Carpi (L’estrema avanguardia del Novecento, Editori Riu-niti, Roma 1985) “il momento più vitale dei contatti tra comunisti e futuristi”. Si tratta di una mostra itinerante, in arrivo da Bologna, che a ogni tappa accoglie nuove adesioni. “L’Ordine Nuovo”, il giornale comunista diretto da Antonio Gramsci la gratifica con ben dieci usci-te, tra segnalazioni e articoli. Alcune riguardano la visita operaia alla mostra organizzata dal giornale, presente Ma-rinetti, di cui Gramsci riferirà in una fa-mosa lettera a Trotskij. La vicenda vede in primo piano il redattore capo Alfonso Leonetti e il critico Mario Sarmati (alias Umberto Calosso), anche se Carpi ne sottolinea l’atteggiamento diffidente, rilevando come la “vivissima attenzio-ne del giornale” sia da ritenersi ispira-ta direttamente da Gramsci, benché assente, “che nei confronti dell’arte dì avanguardia aveva sempre manifesta-to ben altra sensibilità”, e del futurismo aveva a suo tempo elogiato la conce-zione “nettamente rivoluzionaria, asso-lutamente marxista” (“L’Ordine Nuovo”, 5 gennaio 1921). Organizzatore della mostra è Franco Rampa Rossi, poeta, critico e chimico farmaceutico, secondo Carpi divulgatore a Torino della stampa fiumana “di più eterodosso radicalismo avanguardista”. Gli apporti locali si de-vono al parlamentare comunista Duilio Remondino e all’“operaio autodidatta” Carlo Frassinelli, di cui altrove si parla in questa pagina. Con Rampa Rossi, Frassinelli firmerà nel 1923 la proposta tipografica nel manifesto I diritti artistici propugnati dai futuristi italiani che, riela-
borata da Marinetti provocherà la disso-ciazione di Rampa Rossi su “Rovente”, il foglio diretto da Pietro Illari, futurista comunista e ordinovista. Il catalogo, “tra arditi di destra e di sinistra, fra dician-novisti e rivoluzionari”, per Carpi “costi-tuisce un momento esemplare di quel complicato sovversivismo futurista degli anni posbellici, cui ‘L’Ordine Nuovo’ e il Proletkult riservavano speciale attenzio-ne”. “Tra le cose più forti della mostra” per “L’Ordine Nuovo” c’è la pittura della boema Rougena Zatkova, compagna di quell’Arturo Cappa, comunista e cogna-to di Marinetti che su quelle stesse pagi-ne nel 1921 aveva scritto: “Noi crediamo che l’arte della società comunista, che l’arte proletaria sarà un’arte futurista”. Episodio cardine della convergenza tra futurismo e sinistra politica, è anche la premessa alla nascita dell’ala torinese del movimento, segnalata a breve da un anonimo collettivo “dinamitardo”, guar-da caso proprio in seno al Proletkult.
Il 20 giugno 1922, L’Istituto di Coltura (sic) Proletaria per le vittime politiche annuncia su “L’Ordine Nuovo” l’uscita di Dinamite, “un volumetto di poesie ri-voluzionarie che viene messo in vendita negli ambienti operai”. Gli autori dei ver-si liberi, si legge, “sono giovani pervasi da quello spirito innovatore che va sotto il nome di… ‘futurismo’… e che è nella sua vera essenza eminentemente rivo-luzionario”. L’anonimo “primo saggio di musa proletaria”, firmato 1+1+1=1 -il cui titolo per esteso recita Dinamite. Poesie proletarie. Rosso+Nero- si deve a un ventenne Fillia e agli ancora oscu-ri Antonio Galeazzi e Jean Pasquali. Quest’ultimo, di lì a poco, organizzerà al Winter Club l’”ultradinamica sinteti-co-teatrale” serata Futurismo-Fisico-follia con il fantomatico gruppo “artisti futuristi” di Torino (considerando che la nascita ufficiale del movimento torinese verrà fatta risalire all’anno successivo). I contenuti dell’introvabile libretto, il cui titolo richiama l’omonima poesia di Lu-ciano Folgore, rimarranno ignoti fino al 1985, quando Claudia Salaris li pubbli-cherà integralmente nella sua Storia del futurismo. “I valori eversivi dell’’odio’ e della ‘demolizione’ (‘distruggi per rico-struire’) sono comun denominatore dei componimenti”, scriverà Salaris (Lavo-ro e rivolta nel futurismo, Pagine Libere di Azione Sindacale, Roma 1993), ri-levando come tale pubblicazione ben s’inquadri “nella strategia d’attenzione perseguita da Gramsci in quei mesi nei confronti di frange ribelli come quelle degli ex legionari fiumani d’ispirazione deambrisiana, nel tentativo di sottrarle all’egemonia fascista”. Ma “nonostante le aperture gramsciane, il volto ufficiale della politica culturale comunista resta quello del gruppo dirigente bordighia-no, antiavanguardista e anticulturale”. È Ugo Arcuno, sulle pagine dell’orga-no ufficiale del partito, “Il Comunista”, a stroncare senza appello Dinamite -di cui si conoscono oggi soltanto due copie- decretandone il precoce oblio.
L’incendiario libretto, che inneggia a “Distruzione e Anarchia. / Libertà e Rivoluzione” (Fillia, Noi), all’“ideale bel-lo di una morte bella, / all’ombra del rosso-nero vessillo / su una barricata vermiglia” (dove il nero è ancora il co-lore dell’anarchia) gridando vendetta per i “martiri Provera e Miglioretti sel-vaggiamente assassinati dai fascisti la sera del 31 luglio 1921, in via Mas-sena” (J. Pasquali, Assassini), scotta inoltre un po’ troppo nel clima di vio-lenza politica che si respira a Torino a ridosso della Marcia su Roma (violenza che presto evolverà in tragedia, culmi-nando nell’odiosa strage squadrista del 18 dicembre). Tuttavia, quando l’anno successivo Fillia e Tullio Alpinolo Bracci danno vita ai Sindacati Artistici Futuri-sti, il loro manifesto è ancora indirizza-to ai Lavoratori, nella consapevolezza, secondo Salaris, “della necessità di muoversi attorno a un asse ideale che saldi arte e lavoro, ‘creazione’ e civiltà industriale meccanica’”: “Il rapido con-senso ottenuto nella massa operaia” scrivono, “con l’iscrizione immediata e continua di un numero enorme di ade-renti, forma la certezza assoluta che i Sindacati Artistici futuristi avranno tutta la possibilità di essere portati a conqui-stare le vie prossime del domani, dove i produttori del lavoro e dell’arte cono-sceranno soltanto la forza della propria opera e la volontà sicura della propria Creazione”. Il programma dei Sindaca-ti -“sempre dinamite violentissima ed esplosiva”- sembra istituire una conti-nuità, anche linguistica, con la raccolta poetica edita dal Proletkult. Fino alme-no alla “ritirata strategica” del 1924, che segna l’adeguamento alle posizioni marinettiane verso un’arte futurista “di stato”. Nel numero unico “Futurismo” trova posto un nuovo programma: “La politica è superata. Interverremo nella lotta soltanto in momenti di estrema necessità. Il Governo nazionale, nato nel Futurismo, è già applicazione del nostro programma minimo”.
Nel 1964 Mario Gros, grande cartello-nista e tipografo torinese, privilegiava nell’opera di Ugo Pozzo -iniziatore con Fillia e Bracci del secondo futurismo a Torino- lavori non pittorici: “Ugo Pozzo esprimeva con ardore una sensibilità e predilezione, una sua innata, intelligen-te attitudine grafica e pubblicitaria”, in tempi “immaturi ad una visione di ar-dimento precoce” (Ugo Pozzo pittore grafico pubblicitario, “Amatore d’Arte”, Torino 1964). Anche se Pozzo prefe-riva definirsi soprattutto pittore, forse permanendo persino in lui, futurista, la cultura del sospetto di un diverso valore tra arte “maggiore” e “minore”, aderiamo al giudizio di Gros, e a quello successivo di Enrico Crispolti (in Ugo Pozzo, catalogo mostra Galleria Ciak, Roma 1970), per cui al nostro spetta “un posto incontestabile nella cultu-ra visuale degli anni 1925-35 in Italia” proprio perché la sua azione creativa andava “ben al di là della circoscrizione
architetture grafiche 03
Joan Abelló Juanpere
Enzo Biffi Gentili Enzo Biffi Gentili
Alessandra Paracchi Enzo Biffi Gentili
Quadretti marxiani
Ugo Pozzovisual designer
Parole pesanti Fascisti diversi
Luigi Colombo metalmeccanico
a destra sopra Pablo Echaurren, Antitutto, 1996, collage, 50x50 cm
Ugo Pozzo, Acciaio, 1934, pubblicità per materiali da costruzione, da Ugo Pozzo pittore grafico pubblicitario, edizione a cura della rivista “Amatore d’Arte”, Torino 1964, Collezione Eredi Pozzo, Torino (particolare)
sotto Pablo Echaurren, Dall’utopia alla scienza, 1976, china e acquerello su carta 23x16 cm (particolare)
Ugo Pozzo, copertina di Fillia, Gli ambienti della nuova architettura, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 1935, Collezione Echaurren Salaris, Roma
sotto Pablo Echaurren, Bussola caotica, 1996, collage, 50x50 cma destra sotto Pablo Echaurren, Usura, 1996, collage, 50x50 cm
Lapide a Mario Gioda in via Des Ambrois 2 a Torino, da Giovanni Croce, La vita di Mario Gioda, edita dal Gruppo rionale fascista Mario Gioda, L’impronta, Torino 1938 Collezione SSAA/MIAAO
Adriano Spatola, La macchina cufica. Per Pablo Echaurren, 1976
Su un progetto di sillabe o di segni sotto il tormento della decifrazione
Il “rivoluzionario” Carlo Frassinelli -vedi nella pagina a lato l’articolo Architet-ture tipo-grafiche- rimane molto attivo anche nel secondo dopoguerra, e non soltanto come editore. Prosegue infatti a occuparsi magistralmente di tecniche grafiche, di decalcomania e di serigra-fia (che fu tra i primissimi a introdurre in Italia). A esempio rintraccio su di una ri-vista dedicata a questo “quarto sistema di stampa”, illustrata da una copertina di Pino Tovaglia (“Serigrafia”, a. III, n. 14, febbraio 1959), un articolo dedicato a Frassinelli e una sua decalcomania. La citazione del nome del grande grafico Pino Tovaglia (1923-1977) è funziona-le allo sviluppo di un ragionamento su certi particolari esiti della poesia con-creta o visuale, gemmati più nell’ambito del graphic design che dell’arte “pura”, e per questo motivo meno noti e stu-diati (era giù avvenuto, come abbiamo visto, per il Frassinelli degli anni ’20). In altra occasione ho sottolineato l’appor-to straordinario di visual designer come Bruno Munari, Silvio Coppola, appunto Pino Tovaglia, e quel Giancarlo Iliprandi che “sviluppa un’indagine su adden-samenti e infittimenti delle lettere sino alla produzione di alfabeti concentrati e
‘pesanti’…”, per poi realizzare insegne-imprese distintive della dignità virile della persona come l’araldico slogan, personale e politico, Non mi avrete mai del 1965 (E. Biffi Gentili, La sindrome di Leonardo. Artedesign in Italia 1940-1975, Allemandi, Torino 1995). Pablo Echaurren è perfettamente a conoscen-za di questo specifico “pensiero visivo laterale” sulle “composizioni architetto-niche” tipografiche, come dimostra una serie di suoi collage degli anni ’90, pre-sentati nel 1997 in una mostra alla Gal-leria Giulia di Roma intitolata Rhythm ’n ’Glues (ovvero ritmi incollati). Claudia Salaris ha notato che questi collages “esibiscono una maggiore tensione strutturale” rispetto a quelli precedenti, ed effetti costruttivi quasi neoplastici. Vero. Ma i frequentissimi riferimenti di quasi tutti i critici, in relazione all’opera di Echaurren, a varie avanguardie arti-stiche -quella futurista, certo, ma anche quella dadaista e così via- rischiano di far nascere un sospetto di superficiale “citazionismo” che non coglie tutta la colta profondità e originalità dell’opera-re di Pablo. Che è senza dubbio alcuno, sin da quegli inizi “calligrafici” ai quali abbiamo già accennato in questa pagi-
na, anche “progettuale”. Adesso voglio dire qualcosa di diverso e di più: con tutto il rispetto, indubitabile per chi scri-ve, per ogni manifestazione della cosid-detta “arte applicata”, nella quale Pablo evidentemente eccelle, esistono nella sua produzione lavori, come nel caso di questi collages, dagli aspetti meno “illustrativi”, più elaborati e autonomi. A controprova, nei casi documentati in basso la strutturazione dell’immagine obbedisce a una necessità di intensifi-cazione semantica e impressiva di ter-mini già di per sé “pesanti”: Caos, Anti, Usura, anche attraverso l’adozione di colori “segnaletici”, quasi catarifrangenti (coniugando quindi progetto e conflitto, come tentano oggi di fare alcuni gruppi antagonistici giovanili, e si veda a pa-gina 7 di questo numero di “AfterVille” l’intervista a Giovanni Di Martino di Elisa Facchin). Tentativo opportuno, anche se forse velleitario, perché, come ha scritto Fabrice Pliskin (Ma génération, in “Le Nouvel Observateur”, 11-17 genna-io 2001), come è possibile oggi “articu-ler une saine pensée politique dans un monde où ‘l’Anarchiste’ est un parfum de Pierre Balmain et ‘Contradiction’ un parfum de Calvin Klein?”…
Pablo Echaurren, nato nel 1951, debutta nel teatro dell’arte, nei primi anni ’70, sot-to il patronnage di Arturo Schwarz, con carte di piccolo formato, sulle quali im-magini tematicamente coordinate dispo-ste in sequenze sono iscritte in un reticolo ortogonale tracciato a lineette. Approccio che a me è parso sempre decisamente “scritturale”, vieppiù quando, in alcuni casi, nelle pagine di questo suo quader-no a quadretti compaiono appunto aste, tratti, mistilinee, e lettere. Si vedano al proposito testi come Per una automazio-ne dello scarabocchio del 1971 e Dallo scarabocchio fondamentale all’aggrega-to del 1975, per i quali col senno di poi è possibile supporre un’inconsapevole concorrenza con le raffinate riflessioni sul significato dello scarabocchio di Luciano Lattanzi. Oppure si guardi ad Avanti così del 1975, ove famosi artisti sono rappre-sentati solo attraverso le loro firme, in una “identificazione” che richiama una “perizia calligrafica” (questa locuzione è adottata, guarda caso, come titolo del primo libro di Pablo, pubblicato dalle to-rinesi edizioni Geiger dei fratelli Spatola, storico “covo” di poeti concreti e visivi). Quelle firme attorniano un famoso ma-nifesto del Maggio ’68: dalla chirografia quindi, alla grafica e alla tipografia, in una relazione affermata anche in ambito pro-gettuale, e si pensi alla eccellente rivista “Calligrafia” diretta da Giovanni Lussu nei primi anni ’90. Relazione riconfermata, prima, da Echaurren in un lavoro come Dopo pranzo criticare così come mi vien meglio del 1976, “casellario” di caratteri gotici e figurine xilografiche.
Annus horribilis, a Torino, il 1922, chiuso tra il 17 e il 18 dicembre dall’eccidio di operai e sindacalisti compiuto dalle squa-dracce capitanate da Piero Brandimarte (vedi G. Carcano, Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971, La Pietra, Milano 1973). Non tutti i fascisti sono re-sponsabili di quella strage: gli ex tipografi anarchici Mario Gioda, segretario del Fa-scio di Torino, e il suo antico sodale Li-bero Tancredi-Massimo Rocca, a partire da quel luttuoso evento iniziano un’aspra polemica contro il notabile locale, e qua-drumviro, Cesare Maria De Vecchi e più in generale contro la violenza e il “rassi-smo”. Il riferimento al “revisionismo” di Gioda e Rocca è pertinente allo svolgi-mento di un tema sui rapporti tra fascisti torinesi e futuristi. Nel 1922, con la mo-stra al Winter Club e la pubblicazione di Dinamite, il futurismo subalpino stava “a sinistra”, rappresentando, come direb-be Edoardo Sanguineti, un “momento eroico-patetico dell’avanguardia”, poi seguito da un “momento cinico” (che Umberto Carpi situa nel 1925, con “una piena riconciliazione nella capitale pie-montese tra i due gruppi”, documentata sul foglio fascista locale “La Fiamma”). Non è solo così. Nel marzo-aprile 1923 si assiste infatti a quello che definirei come “momento sindacale dell’avan-guardia”: a livello locale con la fonda-zione dei Sindacati Artistici Futuristi di Fillia e Bracci; a livello nazionale con il manifesto al governo fascista, firmato da Marinetti, su I diritti artistici propu-gnati dai futuristi italiani. Quest’ultimo manifesto viene subito pubblicato sul giornale del Fascio di Torino, “Il Maglio” del 7 aprile 1923, assieme a un articolo di Mario Gioda firmato “l’amico di Vau-trin” -pseudonimo dei tempi anarchici- che celebra un Mussolini impegnato a creare “condizioni umane” per gli artisti. Passiamo a Massimo Rocca, il princi-pale “revisionista” fascista, che si batte contro la violenza con vari scritti (raccolti nelle sue Idee sul fascismo, La Voce, Fi-renze 1924). A prefazione di questo vo-lume Rocca premette una lunga lettera a Mario Gioda, con sé annoverato tra quei “fascisti… conservatori e rivoluzio-nari ad un tempo” dal “temperamento non rinnegato di anarchici”, nella quale leggiamo: “Dobbiamo considerare i non fascisti non più come nemici da annien-tare… ma come dei non credenti da convertire: e convertirli con l’esempio generoso, con l’opera disciplinata, con la protezione legale a tutti estesa, con una giustizia assoluta, col perdono ove sia necessario…”. Egli aspira a una “sin-tesi nazionale”, basata su di “un fondo etico… che salda la mia concezione di fascista odierno a quella del sindacalista e dell’anarchico di un tempo”. E di quel tempo, dal suo libro Anarchismo contro l’anarchia (Rinascimento, Pistoia 1914), cita come ancor valide considerazioni
su di una “etica di azione” che “preten-derà che la tragedia solenne non sia contaminata con le crudeltà inutili e le ipocrisie”, che “aborrirà il fattaccio della banda di ventura…”. Veniamo ai rap-porti tra i futuristi e Rocca. Rocca era stato sostenuto da Marinetti a Fiume nel 1919 -ne resta traccia nei Taccuini del leader futurista- e certamente aveva frequentato Mario Carli ed Emilio Setti-melli che a quell’impresa parteciparono (e alla fine della quale Carli si distinse per proposte di alleanza tra proletariato intellettuale e manuale, e sentimenti an-tifascisti, come evidenzia Emilio Gentile nei capitoli Un futurismo rosso e Futuri-sti contro Mussolini del suo recente libro Futuristi in politica, Laterza, Bari 2009). Ebbene, gli stessi Carli e Settimelli, nel 1924, quando Rocca accentua le sue critiche, che lo porteranno all’espulsio-ne dal Partito Fascista, sono tra i primi a contestarlo. Egli così loro risponde nel suo articolo Il problema morale del fa-scismo (in “L’Epoca”, 15 marzo 1924): “I due amici che ho citato come esem-pio d’una schiera sempre più vasta e ad essi inferiore, mi perdoneranno se parlo per mio conto e in persona prima: il fu-turismo ha insegnato così (…). Voi, ami-
ci, inneggiate al pugno in opposizione alla biblioteca, e stabilite nel fascismo una distinzione ipotetica fra gli uomini di pensiero, i nostalgici della cultura come sarebbe secondo voi il sottoscritto, e gli uomini d’azione, i nostalgici della violen-za, tipo Farinacci. Quanto è passatista, o amici futuristi, la vostra distinzione!”. Un momento troppo cinico dell’avan-guardia: oggi quei fascisti ci sembrano moralmente migliori dei futuristi. E pro-fetici nel rifiutare una troppo facile di-stinzione tra destra e sinistra: si vedano al proposito altre considerazioni di Roc-ca indirizzate a Gioda, dichiaratosi nel 1923, dimettendosi dalle sue cariche politiche, “apertamente, risolutamente favorevole alla corrente così detta revi-sionista capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che è Massimo Rocca”: “Appaiono piccini gli schemi parlamentari della Destra e della Sinistra”, anche filosoficamente, per-ché nel “reciproco generarsi delle forze rivoluzionarie e conservatrici quella di-stinzione, o è un’ennesima ed assurda illusione della mente se concepita come realtà oggettiva ed eterna, o implica l’esistenza di una superiore unità di svolgimento storico e di vita umana…”.
Il transito di Luigi Colombo-Fillia da po-stazioni di sinistra, contigue alle piatta-forme rivendicative della classe operaia dichiarate nel 1922 in Dinamite, anche se “in cifra” -egli è il numero 1, almeno per quantità di poesie composte, dei tre che firmano la sovversiva plaquette- all’area del fascismo, sino a un’esplicita adesione, si inserisce in un percorso scelto dall’assoluta maggioranza dei futuristi dell’epoca. Ma egli non si im-pegnerà politicamente oltre certi limiti, come faranno i camerati Carli e Setti-melli (Fillia sigla così il capitolo dedica-to a Il futurismo nella politica nel suo Il futurismo pubblicato nel 1932 nella Bi-blioteca del Popolo Sonzogno: “Dopo la salita del Fascismo al potere, Marinetti e i futuristi continuano in Italia e all’este-ro… la propaganda dell’orgoglio italiano e la difesa della superiorità creativa della razza. Quotidiani politici fascisti, come l’Impero, A e Z, Oggi e Domani sono fondati e diretti dai futuristi Carli e Set-timelli”). Può stupire maggiormente in Fillia, a livello metapolitico e letterario, il passaggio dalla rappresentazione tragi-ca della classe operaia del 1922 a nuo-ve raffigurazioni di industrie, fabbriche e lavoratori prive di ogni contraddizione e angoscia, in un’accettazione della civil-tà tecnologica totale, mai problematica o conflittuale (si vedano ad esempio, in suoi romanzi, la descrizione delle visite allo stabilimento della Fiat Lingotto ne L’ultimo sentimentale del 1927 o alle of-ficine Ford ne L’uomo senza sesso dello stesso anno, ove l’uomo viene ridotto a meccanismo, a ingranaggio funzionale: “Operai che si fondevano con le mac-chine, gareggiavano coi trasporti, con le ruote, con le leve”, mentre altrove “ope-rai immobili vicino alle presse lavorava-no ritmicamente”). Con ciò, Fillia afferma che “gli operai sono la parte più vergine e più sana della società presente... Vivo-no a contatto della tessitura meccanica che li modifica… in un prossimo doma-ni riusciranno ad aumentare le proprie facoltà intellettuali, bastare a sé stessi”.
Ma Fillia aveva già prefigurato La vita di domani: così è intitolata l’ultima novella del suo libro La morte della donna del 1925, ben rilevata da Barbara Zandrino nel suo Le forme del disordine (Sugar, Milano 1981), come esempio di science fiction descrittiva di una città totalitaria governata da una Centrale Meccanica ove i lavoratori sono divenuti morfologi-camente e sessualmente indistinguibili, privi di emozioni e sentimenti (i due pro-tagonisti della novella per riprodursi fan-no registrare la loro unione come “con-tratto di necessità sociale”). In questa visione superomistica-robotizzata, priva dello spirito critico di Farfa -che in Fiat l’operaio l’aveva fatto davvero- i perso-naggi non hanno nome ma numeri di matricola: UOMO M. 6434 e UOMO F. 10045. Tre anni dopo le Poesie proleta-rie di 1+1+1=1.
del dipinto” per entrare “in un ambito più prosaico e quotidiano, (…) cioè nell’ambito della progettazione grafica, dal cartellonismo all’illustrazione, alla pagina, alla sigla”, indicando poi tra i “risultati eccezionali” di questa pratica la copertina de Gli ambienti della nuo-va architettura di Fillia. Altri eccellenti esempi sono le réclame di materiali da costruzione, restituzioni grafiche di quegli importanti apporti alla “Nuova Tipografia” che secondo Carlo Fras-sinelli, nel suo Trattato di architettura tipografica del 1941, derivavano dalla nuova architettura “con le sue fotogra-fie per la propaganda dei materiali edi-li”. Ancor prima, nel 1937, cantore di Pozzo fu su “Graphicus” Ezio D’Errico, che ricordiamo non solo come uno dei primi pittori astratti d’Italia, ma come insegnante di disegno pubblicitario alla Scuola Tipografica Vigliardi Paravia di Torino, determinante anche per la for-mazione di Armando Testa.
sopra Pablo Echaurren, Il compagno F. Engels è autorizzato ad appostare a suo giudizio i cannoni, 1973, smalto e china su cartone, 18x24 cm (particolare)
Sacra Fabrica
Luisa Perlo
Enzo Biffi Gentili e William Sawaya, Sacra fabrica. La cappella, installazione realizzata ad Abitare il Tempo, Verona 1993, e al Passage de Retz, Parigi 1994 misure variabili (particolare), foto Maurizio Marcato
forme tanatologiche 20 febbraio 2009
Festa funebre Un fascino necrofilo?
Franco Fortini, poesia del 1947 ora in Poesie scelte, 1974 Giano Accame sculpsit
Quel fascista a Torino
che sparò per due ore
e poi scese per strada
con la camicia candida
con i modi distinti
e disse andiamo pure
asciugando il sudore
con un foulard di seta
Maurice Lesna Enzo Biffi Gentili intervista Giano Accame
Il “Covo” di via Paolo da Cannobbio ricostruito nella Mostra della Rivoluzione Fascista Palazzo delle Esposizioni, Roma 1932-1933, Courtesy Luce, Istituto Nazionale Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, Firenze, foto Archivi Alinari, Firenze
Fortunato Depero, illustrazione dal libro A passo romano. Lirismo fascista e guerriero programmatico e costruttivo, Edizioni di Credere, Obbedire, Combattere, Trento 1943 Collezione Echaurren Salaris, Roma
Pablo Echaurren, Mammaroma, 2008, acrilico su tela, 170x250 cm
Nelson Morpurgo, Non morior, anni ’20 impresa impressa su busta della Cartiera Italiana di Torino, Collezione SSAA/MIAAO
Già piuttosto incline al cupio dissol-vi, dopo la Grande Guerra e l’im-presa fiumana del 1919 Gabriele D’Annunzio “immaginifica” ancor di più la “bella morte”. Alla mistica estetizzante della dipartita eroica cara all’“orbo veggente”, e alla sua fisica rappresentazione nel dorato confino di Gardone Riviera -dove nel 1935 redige la summa del suo “fera-le taedium vitae”, Le cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di mo-rire- è dedicata nel 1993 una mostra di Enzo Biffi Gentili e William Sa-waya, una “ouverture fracassante”, a giudizio della stampa locale, del nuovo spazio espositivo del Passa-ge de Retz a Parigi. La Sacra fabrica del titolo, con una b sola, allude alla Santa Fabbrica del Vittoriale, refu-gium senile del Vate, racconto auto-biografico eretto e arredato con l’ar-chitetto Gian Carlo Maroni. Con un significativo slittamento semantico, all’aggettivo virtuoso i curatori sosti-tuiscono l’ambiguità del latino sacer, sacro (ciò che appartiene al Dio) ma anche esecrando, come l’“urna ine-sausta ancor attiva miniera di fascini
progettuali” che tale dimora costitu-isce. “Da un’estetica e da una mi-stica guerresca, dell’acciaio, di pro-iettili e di obici, navigli e aeroplani, esce anche il gusto, tutto moder-no, dei materiali e delle tecnologie dell’arte industriale”. L’inconsueta reinterpretazione del bric-à-brac del Vate ispira progetti e oggetti d’arte applicata allestiti in ambienti che di quelli dannunziani enfatizzano il cortocircuito tra sublime e Kitsch: dall’Oratorio al Boudoir, dall’Officina alle Celle per gli Offizi del Notturno (e del Diurno…). Nella sofisticata mise en scène compaiono, in hom-mage al pensiero “politicamente scorretto”, riferimenti ad altri intellet-tuali frequentatori di ultime spiagge: Yukio Mishima, Jean Genet, Pierre Drieu La Rochelle, Antoine de Saint Exupéry. “Thanatos, la mort, est un bon déclencheur d’Eros, le mythe littéraire est retransmis ici comme une métaphore obsédante” scrive “Libération” recensendo la mostra, ove, come maliziosamente scrive Biffi Gentili, “la sensualità appare non solo indulgere a Venere, ma vieppiù ad Apollo”.
Nella costruzione, quarantennale, dell’o-pus di Pablo Echaurren, un ventennio è ampiamente destinato a una cripta. Dal 1990 circa egli compone un corpus di teschi, a noi tocca introdurre all’ingres-so in quest’ossario. Di non facile inter-pretazione, soprattutto in una ricerca di interferenze con il futurismo. In quel movimento domina il vitalismo e di re-gola l’imago mortis si staglia più come figura retorica, tipica di una guerresca ideologia, che come iconografia. Cer-to, c’è qualche eccezione, documen-tata su questo foglio. Truce, nel caso di Depero, e non ci riferiamo tanto al disegno tratto dal suo libro A pas-so romano del 1943, quanto al bra-no di testo che lo illustra: “Passo ener-gico… come se ad ogni passo si do-vesse schiacciare con il piede sinistro la testa di un inglese e con quello de-stro la testa di un bolscevico” (libro che recentemente Giampiero Mughi-ni, in Collezione, Einaudi, Torino 2009, ha definito “tardo e infamante”, abba-stanza giustamente. Figuriamoci se Echaurren può essere invece conni-vente). Piuttosto si può supporre in lui qualche indulgenza per il teschio che Nelson Morpurgo appose a impresa
sulla sua carta intestata, una sorta di ossimoro, quel crâne viveur con mo-nocolo d’ordinanza, “numero” di un “eccentrico” amante, come moltissi-mi avanguardisti, di cabaret e tabarin. Difatti alcuni teschi di Echaurren am-miccano: hanno sicuramente letto, in vita, dei fumetti. Altri appaiono più in-quietanti -opportunamente, Enzo Bif-fi Gentili qui ne rivela alcune fonti- solo pochissimi potrebbero per qualcuno alludere, come in Mammaroma, anche ai fantasmi di certi cugini dei futuristi, i fascisti… (ma per non subire acritica-mente, a questo proposito, una lettu-ra convenzionale della teratofilia fasci-sta, si veda il contributo di Giano Ac-came, come sempre magistrale). Infi-ne, in queste pagine occupate da va-rie forme teratologiche compaiono ar-ticoli dedicati a prove più o meno re-centi di vecchi compagni e giovani se-guaci, divertiti, di Pablo: Sacra fabrica, una traduzione in birignao del linguag-gio mortifero dell’arditismo e del dan-nunzianesimo; Mutil-azioni, con le sue romagnole declinazioni; Thanatos ed Eros, ove diviene chiara a tutti la defi-nitiva distanza tra l’era di Claretta Pe-tacci e quella di Carlotta Petracci.
So che da anni stai lavorando a uno studio su una relazione fondamenta-le tra il fascismo -e, presumo, suoi antecedenti come dannunzianesimo, arditismo, futurismo- e l’idea, la “fi-gura” della morte. Di che tipo di ricer-ca “sotterranea” si tratta?Il mio lungo studio su La morte dei fa-scisti sta giungendo alle pagine finali. All’estetica del fascismo è stata impu-tata -come lugubre inclinazione al cat-tivo gusto- l’insistenza con cui utilizzò l’immagine della morte per improntare canzoni, gagliardetti, divise, giuramenti, rituali. Umberto Eco ha addirittura in-dicato nel culto della morte, ancor più che non nella violenza praticata anche da altri movimenti, la “componente dalla quale è riconoscibile il fascismo allo sta-to puro”. E aggiungeva: “Nessun movi-mento politico e ideologico si è mai così decisamente identificato con la necrofi-lia eletta a rituale e a ragion di vita”. A sua volta Erich Fromm in Anatomia del-la distruttività umana, a oltre un quarto di secolo dalla fine dei fascismi e dalla schiacciante vittoria delle democrazie, indicava preoccupanti continuità tra atteggiamenti fascisti, o addirittura pre-fascisti, del futurismo, e quelli del mac-chinismo in cui si sostanziano i successi del liberalcapitalismo: “F.T. Marinetti fu il primo a esprimere in forma letteraria lo spirito della necrofilia nel suo Manifesto futurista del 1909. La stessa tendenza emerge in gran parte dell’arte e della letteratura degli ultimi decenni, ostenta-tamente affascinata da tutto ciò che è putrefatto, non-vivo, distruttivo e mec-canico. Il motto falangista Viva la muerte minaccia di diventare il principio segreto di una società in cui la conquista della natura a opera delle macchine costitui-sce il significato stesso del progresso, e in cui la persona umana diventa un’ap-pendice della macchina”. Secondo me queste accuse rivolte al fascismo sono eccessive. Nella tradizione italiana i sim-boli della morte non appaiono col fasci-smo. Siamo il popolo che deve la sua lingua unitaria alla Divina Commedia, un viaggio tra i morti, e con Ugo Foscolo ha intitolato I Sepolcri il poema fondan-te del Risorgimento. L’inno di Garibaldi “si scopron le tombe, si levano i morti” precede e supera tutte le canzoni fasci-ste e le poesie futuriste in “necrofilia” patriottica. E d’altra parte il recupero prima futurista e poi fascista dei valori spirituali e nazionali accanto agli obiettivi di giustizia sociale, che i socialisti ave-vano forzosamente contrapposto alle idee di Dio e della Patria, doveva mar-care anche nei simboli l’antica massima secondo cui dulce et decorum est pro patria mori. La scandalosa affermazione di Marinetti sulla “guerra sola igiene del mondo” è alla base della filosofia mo-derna e parafrasa Hegel che sosteneva: “La guerra ha il superiore significato che mediante essa viene conservata la salu-te morale dei popoli nella loro indifferen-za verso il cristallizzarsi delle determina-tezze finite, così come il movimento dei venti preserva i laghi dalla putredine alla quale essi, come i popoli da una pace duratura o addirittura perpetua, verreb-bero ridotti da una perpetua bonaccia”. Hegel con ciò traduceva l’osservazione di Seneca Marcet sine adversario virtus, la virtù imputridisce senza un nemico; e precedeva Marx secondo cui “la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gra-vida di una società nuova”. Nell’immagi-nario fascista i teschi, le fiamme nere, le ostentazioni di coraggio e di sfida ai pericoli sino alla morte non derivano tanto dalla vena malinconica degli alpini quanto dagli atteggiamenti scanzonati e scaramantici degli arditi. Al punto da in-cludere vistose manifestazioni ridanciane e un po’ teppistiche di menefreghismo: un anticonvenzionale Me ne frego! era ricamato accanto al teschio sui gagliar-detti; e il legionario sfidava la mentalità borghese di legge e ordine cantando “Ce ne fregammo un dì della galera / ce ne fregammo della brutta morte / per preparare questa gente forte / chi se ne frega adesso di morir...”.
Come ben sai, un giovane storico pro-tagonista del fascismo torinese, Gui-do Pallotta, è considerato tra i mag-giori esponenti in Italia di una “mistica fascista” in cui la questione della mor-te diveniva davvero, autenticamen-te “cruciale”, e questa ci appare oggi, come dimostra la sua biografia, una “ricerca” non soltanto teorica...Torinese d’origine marchigiana, Pallotta, medaglia d’oro alla memoria, è stato un purissimo eroe. Ma mi sono occupato solo marginalmente della scuola di misti-ca fascista: me ne sono estranei gli ec-cessi di fideismo. Ci credevano troppo. Mi sono appassionato di più per chi ha coltivato sogni rimasti imperfetti, delusi, di grandezza italiana nella libertà: D’An-nunzio, Gentile, Marinetti, Malaparte, Berto Ricci, Sironi, il relativista Pirandello (che chiese a Mussolini la tessera dopo il delitto Matteotti, quando altri ne pigliava-no le distanze), Guglielmo Marconi (che fu membro del Gran Consiglio del Fasci-smo), Italo Balbo, Renato Ricci. E, quasi ancor più che ai fascisti, agli accusati di fascismo: Ezra Pound, Céline, Carl Sch-mitt, Drieu la Rochelle, Brasillach.Mi sembra di intuire che tu non riten-ga il tema della morte nel fascismo solamente come l’espressione di un “pensiero negativo”. Cerco di dir me-glio: pensi che sia limitativo collegare riflessioni sulla morte solamente alla pratica della violenza o a tendenze autodistruttive o suicide (mi riferisco al culto di personalità come quelle di Drieu, o di Yukio Mishima)?Certo. Alla base di tutto c’è una convin-zione profonda sulla dignità della vita. E cioè che la vita possa essere resa più degna d’esser vissuta, più carica di si-gnificato, dagli ideali che sei disposto a servire, sino al sacrificio della vita stes-sa. Si tratta di convinzioni comuni alla maggior parte delle religioni e delle fedi laiche, che in parte le hanno surrogate nei processi di secolarizzazione. Ci sono stati i martiri fascisti, come i caduti per la libertà o per il sogno tanto generoso quanto tragicamente sbagliato del co-munismo, della fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Le loro punte più alte tendono a realizzarsi nei valori po-sitivi della santità e dell’eroismo, ma an-che, su altri versanti, dove è richiesta più creatività e intelligenza che non dedizioni sacrificali, nelle conquiste dell’arte e del
progresso scientifico. Drieu la Rochelle, grande romanziere fascista francese, aveva tendenze suicide, ma alla fine si è suicidato evitando d’essere fucilato per le cose che aveva scritto, per reati d’opinione, come poco prima era capi-tato a un altro brillante scrittore fascista, Robert Brasillach, condannato a morte per le sue idee. A sua volta nel suicidio rituale di Mishima, più volte candidato al Premio Nobel, una vena autodistruttiva si era saldata ai propositi di riaffermare contro la degenerazione americanistica del Giappone l’antico spirito guerriero dei samurai. Nella morte dei fascisti il tratto distintivo risiede in una più accen-tuata attrazione per il valor militare, tra-montata con l’epocale sconfitta del ’45.Ritieni che vi siano differenze tra l’elaborazione dell’idea della morte presente nei fascisti e nei futuristi? (Pablo Echaurren per esempio ritiene che in Marinetti prevalesse sempre un insopprimibile, positivo vitalismo).L’impulso vitalistico che Pablo Echau-rren -anche se pittore, tra tanti altri soggetti, di teschi- giustamente indica come di gran lunga prevalente nel fu-turismo rispetto all’idea della guerra e della sfida alla morte, prevale ancor più nel fascismo, creatore di un effimero impero ma anche di città nuove, vitali, e grande committente di ottima archi-tettura. La differenza tra futurismo e fa-scismo si colloca piuttosto sul recupero fascista della tradizione accanto allo spirito dell’avanguardia. Marinetti vanta-va: “Fra i versi di Omero e quelli di Ga-briele D’Annunzio non esiste differenza sostanziale. Le nostre tavole parolibere, invece, ci distinguono finalmente da Omero, poiché non contengono più la successione narrativa, ma la poliespres-sione simultanea del mondo. Le parole in libertà sono un nuovo modo di vedere l’universo (…). Dalle nostre parole in li-bertà nasce il nuovo stile italiano sinteti-co, veloce, simultaneo, incisivo, il nuovo stile liberato assolutamente da tutti i fronzoli e paludamenti classici, capace di esprimere integralmente la nostra anima di ultra-veloci vincitori di Vittorio Veneto”. Ma qui appunto l’accenno a Vittorio Veneto riconduce a un elemen-to di continuità con l’epica omerica fino al D’Annunzio cantore della guerra e poeta-soldato, un sentimento antico, in cui anche Marinetti sin dal 1909 nel
Manifesto del futurismo si riconosceva: “Noi vogliamo glorificare la guerra -sola igiene del mondo- il militarismo, il pa-triottismo, il gesto distruttore dei liber-tarî, le belle idee per cui si muore”. E un anno dopo recandosi a Trieste ancora in mano austriaca annotava: “Non è lonta-no il giorno in cui per forza si dovranno constatare sui nostri cadaveri ammon-ticchiati la straziante sincerità del nostro programma e la tragica serietà della no-stra violenza. Questo però non c’impe-dirà di essere allegri, pazzamente alle-gri, questa sera...”. L’elenco dei futuristi caduti, feriti, decorati confermerà di lì a poco una disponibilità atavica a donare la vita per la patria. La costante esal-tazione della guerra, da La battaglia di Tripoli (26 ottobre 1911) descritta in una breve missione come corrispondente di guerra in Libia; a Zang Tumb Tuum sul conflitto bulgaro-turco del 1912; a L’alcova d’acciaio del 1921 (a suggerire l’atmosfera erotica dell’alcova fu l’auto-blinda usata da Marinetti nella fase fi-nale della Grande Guerra); a Il Poema africano (1937) sulla campagna d’Etio-pia, ove ripartì volontario; a Canto eroi e macchine della guerra mussoliniana (1942) e alla partecipazione alla cam-pagna di Russia da cui tornerà con il cuore a pezzi per gli strapazzi affron-tati a 66 anni; sino a L’aeropoema di Cozzarini primo eroe della Repubbli-ca sociale e al Quarto d’ora di poesia della X Mas ha contribuito a rendere più lontano dalla prevalente sensibilità del Duemila il Marinetti politico. Dopo Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki que-sto aspetto del futurismo è ormai fuori tempo; o troppo legato insieme al fa-scismo al suo tempo. Pablo appartiene a generazioni conquistate all’idea della pace, della creatività non violenta e nel-la loro riscoperta del futurismo disposte a concedere tutt’al più qualche licenza al gesto distruttore dei libertari. I sim-boli della morte che circolano nei suoi quadri appartengono, come la sempre più vasta letteratura su questo tema, a una visione più attuale, nebbiosa, an-gosciata della modernità. Un secolo fa i futuristi morivano, e sfacciatamente campavano, allegramente. Mentre una non sempre politicamente disinteres-sata devozione alla pace -purché non eterna!- oggi rischia di renderci inguari-bilmente più nevrotici e tristi di allora.
Thanatos ed Eros
da trucchi e accessori: rossetto ver-miglio e cerone cadaverico, ciondoli a cuoricini e borse a forma di bara, trine e merletti e poi, tra i seni, te-schietti. Simboli macabri? Non solo. Ormai lo skull è glamour: eccita donne e uomini di tutto il mondo, e non soltanto adolescenti gotici, dark o punk. In origine emblema del me-mento mori, poi simbolo della tra-sgressione usato da pirati e rockers, e della ribellione, adottato da gruppi di rivoluzionari rossi e neri -si veda l’articolo Un fascino necrofilo? a pa-gina 4- il cranio spolpato è ormai un segno di provocazione sdoganato. Non più tabù, oggi il teschio può essere indossato. Dalle ragazzine che bramano i cranietti fluorescenti di Tarina Tarantino, alle signore bor-ghesi che non sanno rinunciare agli Skull Rings tempestati di brillanti di Dior, ai maschi che squittiscono av-volgendo al collo la Alexander Mc-Queen Skull Print Scarf comprata a Torino da Posh… Così l’abuso del teschio diviene un po’ una sfida all’inevitabile caducità della vita. Se poi i teschi ornano come sotto un tanga, l’affondo culturale si fa più ficcante: on sait, “la petite mort” la jouissance est appelée.
05forme tanatologiche
A Faenza, vidi una coccia
Mutil-azioni
Va in skull!
Jess Weixler-Dawn nel film di Mitchell Lichtenstein Teeth, 2007
C’è qualcosa dentro di me. Ed è letale
Enzo Biffi Gentili Luisa Perlo
Elisabetta Bovina e Carlo Pastore Elisa Facchin
a sinistra Pablo Echaurren, Calligrafie del tempo, 1993, acrilico su carta, 50x50 cm
sotto Pablo Echaurren, Proposta per una sfilata di moda mutilata, abito autoritratto per la mostra Dressing Ourselves, Triennale di Milano 2005, scheletri su tessuto con stampella, dimensioni reali
a sinistra Pablo Echaurren, Mutilati, 2004 tarsia di tessuti, 113x66 cm
Carlotta Petracci, Sotto sotto Gothic. Omaggio a Pablo Echaurren, 2009fotografia digitale
a sinistra in alto Pablo Echaurren, Conflitto di ii, 1994, acrilico su carta, 100x100 cm
a sinistra Pablo Echaurren, 1991, 1991, acrilico su tela, 130x130 cm (particolare)
sopra Pablo Echaurren, Gente fosforescente, 2002, tarsia di tessuti135x85 cm
sopra Pablo Echaurren, Macina, 2006, mosaico, Ø 100 cm
Il 18 gennaio 2009 a Torino si è te-nuto il quarto GLIM, Gothic Lolita Italian Meeting. Lo abbiamo annun-ciato sul numero 5 di “AfterVille”, ca-talogo della mostra al MIAAO Dalle città dell’Aldilà (4 ottobre-31 dicem-bre 2008). Poi anche la stampa lo-cale si è accorta del fenomeno, che ha trasceso i confini del Giappone dove è nato per dilagare in seguito qui da noi in Italia. Le protagoniste del raduno nazionale sono state loro, “romantiche” Lolite adole-scenti vestite come bamboline, languide e lugubri, ingenue e fatali insieme. Ora che il GLIM si è con-cluso vogliamo fare qualche ulte-riore meditazione. Perché è questa la sede per segnalare quel quid di morboso presente, come indica la locuzione stessa, nella figura della Lolita Gotica che tenta di bloccare lo scorrere del tempo fissandolo in abitini vittoriani infantili, fra le cui balze però spesso si celano intenti non innocenti. La vista delle Goth Lolitas causa un senso di strania-mento: sono bambine eppur don-ne, pure eppur morbose, amorini eppur mefistofelici, erotiche eppur mortifere. Nel dressing da Goth Lo-lita l’ambiguità è rivelata soprattutto
Sarcastico memento mori da luxury store, è un teschio l’opera d’arte più costosa al mondo (un segno dei tem-pi?). Ex enfant gâté della Young British Art, da sempre il suo autore, Damien Hirst, flirta con la morte. Nel 2005, non a caso, ha preso casa in Messico. A metà del XIX secolo, nello Yucatan, il Giorno dei Morti i teschi degli antenati uscivano dagli ossari per essere espo-sti: sulla loro fronte era incisa una pre-ce, accanto ai nomi dei proprietari, più o meno come ancora oggi si suole fare con i loro succedanei di zucchero. Ma forse Hirst pensava all’effigie tempesta-ta di pietre preziose del dio Tezcatlipoca quando ha deciso di incastonare 8601 diamanti sul calco in platino del cranio di un giovane uomo vissuto un paio di secoli addietro. For The Love of God (2007), così si chiama, è il più riuscito dei suoi colpi mediatici, alla cui fama hanno contribuito i rumors sul prezzo pagato dall’ignoto acquirente, che su-pererebbe di gran lunga l’iniziale richie-sta di 50 milioni di sterline… l’apice cre-ativo di una riflessione culminata con la recente asta di Sotheby’s in cui l’artista
vendeva, senza intermediazione, opere per un valore di oltre 70 milioni di ster-line (un altro record), proprio nel gior-no in cui colavano a picco la Lehman Brothers e l’intera finanza mondiale. Il titolo dell’opera sarebbe da attribuirsi a una, senz’altro legittima, esclamazione della mamma. “L’espressione però”, scrive Tiziana Migliore, “non esiste in inglese e invece qualcuno ricorderà che Nietzsche (1886) dedica un capitolo all’Essere religioso, il quale ‘ama l’uo-mo per amore di Dio, unicamente per una calcolata finalità che lo santifica’”. In ogni caso nel frattempo the king of skulls ci ha preso gusto, e ha licenziato The Hallucinatory Heads, serie di cin-quanta esemplari in tecnhicolor (50.000 sterline a cranio) poi finiti su jeans e tee-shirt della limited edition Damien Hirst X Levi’s Fall 2008. Very fashionable. Ma niente di nuovo per chi, come Pa-blo Echaurren, da tempo aveva avver-tito il letale Zeitgeist. Per gli amanti di splendori a oltranza, in tempi di vacche magre, volendo si può ripiegare sulle Vanitas -in più tarocchi cristalli Swarow-ski- del nostrano Nicola Bolla.
In occasione di una mostra fittile di Pa-blo Echaurren al Palazzo delle Espo-sizioni di Faenza, Giovanni Testori scrisse: “Non conoscessimo il nome dell’Autore, di due cose saremmo su-bito certi: dell’infinita catena di tombe che stanno dietro all’insorgere di que-ste ceramiche; tombe per i re, per i go-vernanti, ma anche per l’immenso po-polo”. (E. Biffi Gentili, La via della sete. Ceramiche di Pablo Echaurren, Bottega Gatti e Tools Collection, Faenza 1992). A Faenza Pablo era giunto al sorgere degli anni ’90 per cimentarsi con la ceramica nella Bottega Gatti, che negli anni ’20 aveva realizzato quelle dei fu-turisti Balla, Benedetta, Pippo Rizzo... Eppure più che dalla memorie ancor vive di quelle avanguardistiche, ama-tissime, sue precedenze, era rimasto affascinato da racconti sulle locali “mi-niere” rappresentate dai “butti”, ossia da quegli immondezzai sotterranei un tempo creati usando come discariche di rifiuti domestici e “industriali” -la “industria” faentina era quella maioli-ca- pozzi, cisterne, o cavità naturali. Piene di ossa e cocci, delizia dell’ar-cheologo e dell’antropologo, e nuova ossessione di Echaurren, a cui viene
in mente per associazione un termi-ne “passatista” come “coccia”, vale a dire scatola cranica. E crani, teschi, da quel momento diventano soggetti frequentissimi sulle sue carte, sulle tele, sugli smalti. La sua avventura ro-magnola, che si sviluppa nell’ambito di un progetto intitolato L’apprendista stregone, rappresenta con la scelta dell’iconografia mortuaria, e insieme con la riscoperta della “grottesca”, un caso esemplare di “innovazione basata sulla tradizione”, raccomandata dall’il-lustre chaperon di quel progetto, Ernst Gombrich (abbiamo già accennato, a pagina 3 a proposito di alcuni collages di Echaurren, alla sua adesione a un altro tipo di “composizione” tra passa-to e futuro, in quel caso predicata da “tipografi” torinesi contigui al futurismo come Terenzio Grandi e soprattutto Carlo Frassinelli). Ma anche i crani di Pablo sono “composti”, ordinatamen-te, quasi che la struttura portante dei suoi disegni fosse transitata dal “ca-sellario” da cassetto tipografico dei suoi “quadretti” iniziali a una sorta di “colombario”, egualmente strutturato. La domanda sorge spontanea: Echau-rren è un “pentito”? Spiego meglio: di
fronte a queste prove è ancora possi-bile una connessione conclamata tra la sua figura di connaisseur, studioso e collezionista “avanguardista” e quel-la dell’artista? La risposta è sì, anche se va motivata con una referenza non strettamente futurista. Torniamo al pe-riodo cruciale tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, anni nei qua-li egli inizia a dipingere su tela. Tra i primi quadri, alcuni sono “astratti”, aniconici, e sono contemporanei di altri invece virulentemente “figurativi” e simbolici, come questi dei teschi: artisticamente, un paso doble. Non uso a caso lo spagnolo. Torno alle in-tuizioni di Testori: nello stesso scritto citato all’inizio, aveva anche notato che in quelle ceramiche “assistiamo al venire alla luce degli estri e delle
bellezze più segrete e tremanti di al-cune delle concentrazioni stilistiche e pittoriche dell’antica arte precolom-biana”, concludendo che, “insomma, il dialogo coi Padri” Pablo l’aveva dav-vero iniziato. Ma io non penso certo al padre naturale, Sebastian Matta, ma a uno spirituale, Joaquin Torrès-Garcia. L’uruguayano fondatore di Cercle et Carré, couche parigina di astrattisti, amico di Russolo, tuttavia insieme pittore d’icone simboliche schema-tizzate in superfici geometricamente compartimentate (e prima creatore in Italia di juguetes transformables futu-risteggianti di legno dipinto, nel 1923, lo stesso anno in cui la ditta A.L.A. Animali Legno Artistici di Ugo Pozzo vince la Medaglia d’Oro all’Esposizio-ne “Amici dell’Arte” di Torino).
Abbiamo conosciuto Pablo Echaurren a Faenza nei primi anni ’90, in un pe-riodo felice per l’arte fittile. Quando, in occasione della mostra L’apprendista stregone, curata da Enzo Biffi Gentili e patrocinata da Sir Ernst Gombrich, vennero nell’Atene di Romagna artisti di chiara fama a cimentarsi in un proget-to di innovazione basato sulla tradizio-ne della maiolica. I più alti esiti furono proprio conseguiti da Echaurren -non è solo un giudizio soggettivo, da suoi fan quali siamo, ma anche storicamente oggettivo, ormai ampiamente condiviso e “asseverato” dalla critica- con quelle sue magnifiche, bluastre, neogrottesche ceramiche, perfettamente plasmate e decorate in quella Bottega Gatti che proprio con i futuristi aveva dato inizio negli anni ’20 a una feconda stagione “antipassatista”. L’elezione della tipolo-gia decorativa della grottesca cinque-centesca a primaria fonte d’ispirazione non parrebbe operazione adatta a un “novatore”, e cultore del futurismo, ep-pure Pablo riuscì a deformare quei mo-delli ornamentali ricorrendo a un’esteti-ca da tatuaggio e da fumetto, tuttavia mantenendoli riconoscibili (inoltre non è vero che il grottesco non sia rintraccia-bile nell’opera dei futuristi storici: proprio il torinese Ugo Pozzo sin dai primi anni ’20 fornisce molte prove di Grotteschi e, dopo, persino di Arabeschi). La presen-za di Echaurren, artista e collezionista, ci spinse a intraprendere nuove direzioni di lavoro, e letture. Tra queste, importante fu quella di due testi di Marinetti, Come si seducono le donne e L’alcova d’ac-ciaio, con la loro visione eroico-erotica dei mutilati. Così, tempo dopo, ci sem-brò giunto il momento di “operare” sul corpo ceramico. La nostra performan-ce Mutil-azioni del 1998 aveva proprio lo scopo di simulare un nuovo scenario ceramico in cui piatti, vasi, statue non fossero più “integri” e “piedistallati” ma “mutilati” (e la mutilazione diveniva metafora di una cesura, e censura, di pezzi del corpo dell’arte). Protagonisti di questa performance, molto teatrale, forse “baraccona”, erano Santi e Mar-tiri, raffigurati in una serie di tableaux vivants inseriti in una torre al culmine della quale stava la figura di Orige-ne, perfetto martyr-symbol dell’auto-castrazione. Chiedemmo a Enzo Biffi Gentili di presentarla, per vedere se avevamo imparato la lezione. Lui volle farlo regalandoci una sua Antologia po-
etica mutilata, “ricomposta” con “brani” tratti da opere di Jonathan Swift, Emily Dickinson, Sylvia Plath, Allen Ginsberg, Dario Bellezza, Federico Garcia Lorca, Guido Ceronetti, Giampiero Bona. Qui trascriviamo solo quello che ci colpì di più: “Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle / splendente come un paralu-me nazi, / un fermacarte il mio / piede de-stro, / la mia faccia un anonimo, perfetto / lino ebraico” (S. Plath, Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano 1976). Come ci colpì molto poi, nel 2005, vedere alla Triennale di Milano Pablo Echaurren che si era autoraffigurato in guisa di plastico manichino, teschiato e mutilato (e oggi abbiamo saputo che quell’arto mancante era metafora di un’arte mancante: quella che abbiamo imparato ad amare, e praticare, da ma-estri come lui).
revival antagonistici 20 febbraio 2009
Dieci anni di impazienza Avanguardia di massa
Futurismo e gattabuismo
Joan Abelló Juanpere Luisa Perlo
Luigi Manconi
Affiche degli Ateliers Populaires, Parigi 1968
Laissons la peur du rougeaux bêtes à cornes
Artigiano metropolitanoEnzo Biffi Gentili
Pablo Echaurren e Renato Curcio, Metroposter n. 10, 1995, 50x70 cm, dalla serie di manifesti affissi nelle stazioni della metropolitana di Roma, Edizioni “Frigidaire”, Roma 1993-1995
Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti, Senza titolo, 1997, pennarello e acrilico su carta, 70x50 cm
sopra Pablo Echaurren, Basta con i padroni con questa brutta razza, 1973 acquerello e china su carta, 24x18 cm
a destra Pablo Echaurren, Senza titolo 1976, bozzetto per copertina di “Ombre Rosse”, acquerello e china su carta, 15x14 cm (particolare)
Pablo Echaurren, Parole ribelli. ‘68 e dintorni, Stampa Alternativa Roma 1998
Pablo Echaurren, copertina di Nanni Balestrini, La violenza illustrata Einaudi, Torino 1976
Quando Gianni Borgna, Assessore alla Cultura del Comune di Roma, invitò Pablo Echaurren a farsi “detenuto arti-stico volontario” nel carcere di Rebib-bia per condurre un laboratorio diretto a “curare l’inesauribile desiderio del mondo recluso di dare voce e forma al proprio sentire”, accese, secondo Luigi Manconi -si veda a fianco il testo Futurismo e gattabuismo- la miccia di una nuova azione futurista. Manconi ben interpreta la vicenda come l’inizio di una demolizione di codici ideologici, come il tentativo di guardare al di là di una contrapposizione ferale. È possi-bile un ragionamento più “disciplinare” sul problema del rapporto tra un artista, o un designer, o un poeta “laureato” e persone non specializzate nella pro-duzione di artefatti, o alle quali non si
riconoscono qualità formale o dignità professionale (ma si badi: senza rein-trodurre gerarchie operative, o iscrivere i risultati nella categoria dell’art brut). Anche qui a mio avviso Pablo si abbe-vera alla fonte futurista. Ma non si tratta di citare, ancora una volta, il manifesto di Balla e Depero su La ricostruzione futurista dell’universo del 1915, quel-la “dichiarazione di guerra mondiale” all’arte “pura” che tuttora rappresenta un’inesauribile deposito di indicazioni progettuali e operative per molti (Pablo compreso, ma in altre occasioni). È un altro meno noto evento futurista, prece-dente, il probabile imprinting dei lavori con Giusva Fioravanti e altri detenuti, o con Renato Curcio: l’Esposizione di Arte Libera di Milano del 1911, promos-sa dalla Società Umanitaria e dalla Casa
del Lavoro a beneficio dei disoccupati. Nella lettera d’invito a quell’esposizione “socialista”, firmata tra gli altri da Um-berto Boccioni e Carlo Carrà, si legge: “È nei nostri propositi non di dar vita a una delle solite esposizioni d’arte, ma di mostrare invece che il senso esteti-co, ritenuto privilegio di pochi, è innato nella natura umana”. Echaurren, anche dopo Rebibbia, sarà “recidivo”. È stato autore del logo di Artigiano metropo-litano, “titolo collettivo” delle mostre organizzate per celebrare il Centenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, e in quell’ambito cocuratore de Il tem-pio metalmeccanico, una “gigantesca macchina desiderante” eretta dai Mu-toidi e attivata, in una corrusca serata, con i sindacati dei metalmeccanici.
Sembra realizzarsi il sogno impossibile del futurista, la letteratura-arma... Parole indi-rizzate contro le gabbie che imprigionano l’uomo: al fine di svelarle, aprirle, svuotarle. Il progetto futurista di Pablo Echaurren non ha fatto saltare in aria il carcere di Rebib-bia; ma, si può dire, ha fatto qualcosa di peggio (che qui significa: di meglio). Ha contribuito a far saltare almeno in parte il linguaggio della galera e i codici semantici e ideologici lì dominanti. E l’ha fatto trave-stendosi da “buono”. Qui si manifesta già un primo sberleffo (futurista, appunto). C’è un modo di “visitare i carcerati” di tipo, come dire?, egoistico: perché non c’è nul-la che si possa dare loro ma si confida che loro possano dare qualcosa a noi… molto si può ricevere da chi è detenuto, espro-priato, alienato. Qui sta il rovesciamento etico-estetico, il détournement situazioni-sta operato da Echaurren: “fa il buono” per poter meglio “fare il male”. È a Rebibbia per liberare i detenuti, e liberare sé stesso. Ho conosciuto Pablo Echaurren a metà degli anni ’70, Valerio Fioravanti a metà degli anni ’90. Non avrei potuto conoscerli insieme negli anni ’70, perché all’epoca la parte in cui militavamo io e Pablo “cono-sceva” la parte cui apparteneva Fioravanti solo in termini di radicale antagonismo. Ora non è più così e questo consente di riprendere, sia pur brevemente, un ragio-namento su quegli anni. Partiamo da Um-berto Saba quando scrive: “Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia -da Roma ad oggi- una sola vera rivoluzione? La risposta-chiave che apre molte porte è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. (…) Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o leggenda) un fratricidio. Ed è solo con il parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione”. La mia ipotesi è che il conflitto sotteso al movimento del ’68 e a quelli successivi è stato solo in par-te un conflitto generazionale, una rivolta contro il padre. Il ’68 ha aperto un’epoca di guerre fratricide. Da qui, tra l’altro, la “guerriglia giovanile” destra-sinistra, nel-la sua dimensione di scontro di piazza e di terrorismo clandestino. Oggi non è più così, per ragioni altrettanto complesse…(abstract della postfazione di Luigi Manconi al libro di Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti Rebibbia Rapsody, Stampa Alternativa, Roma 1996, che qui funge da introduzione al tema di una modificazione di rapporti tra “de-stra” e “sinistra”).
Il ’77, ha scritto Pablo Echaur-ren, “non è solo l’anno del piombo (inferto&subito)”, è anche “l’anno del girotondo, del combo, delle facce pit-turate, delle schematizzazioni incep-pate, è soprattutto l’anno dell’autoi-ronia, dell’antinomia, dell’autonomia, autonomia dalle mediazioni, dalle imposizioni, dalle definizioni troppo striminzite” (La casa del desiderio, Manni, San Cesario di Lecce 2005). L’anno degli “indiani metropolitani”, nati “nel pieno di un’insurrezione dei segni e dei simboli”, ala creativa di un movimento alla ricerca della “possibilità di dare forma autonoma alla comunicazione alternativa” (N. Balestrini, P. Moroni, L’Orda d’oro, SugarCo, Milano 1988). Ad esempio con “Oask?!”, grido di battaglia del-le “facce pitturate” e prima fanzine “contro l’impaginazione al potere”. “L’anno appresso” scrive ancora Echaurren, che di “Oask?!” fu uno dei creatori, “Maurizio Calvesi ci con-feziona sopra un trattatello feltrinello (ndr. Avanguardia di massa, Milano 1978) per spiegare che trattasi dell’in-cunabolo d’un futurismo di massa, di un avanposto elitario inveratosi nel movimento tosto, di un’utopia realizzata, espressione di pischelli che, ancorché inconsapevoli, erano
dotati di antenne formidabili e ultra-sensibili ai richiami delle onomato-pee, delle cangiullate partenopee, delle epoche guerresche, insomma di un’ortografia libera ed espressiva”. Ma le analogie dei “nuovi Marinetti, i nuovi ragazzi di Lacerba”, come li definì Umberto Eco, con il futurismo, non finiscono qui. Proprio sulle pagi-ne di “Lacerba”, nel 1914 Carlo Car-rà invocava l’abolizione delle giurie artistiche (e senza giuria è la mostra del 1922 al Winter Club di Torino, in cui, scrive “L’Ordine Nuovo”, il primo capitato “ha il diritto di appiccicarci un quadro o uno sgorbio”). In que-sto atteggiamento Dino Mengozzi (Gramsci e il futurismo 1920-1922, Quaderni Fiap, Forlì 1981) legge “un’oggettiva apertura democratica operata dall’avanguardia artistica nei confronti della società civile, per raccogliervi una sorta di creatività diffusa”, quella che “a livello basso” per Calvesi cercava di imporre la pro-testa giovanile del ‘77. In Al di là del Comunismo, nel 1920 Marinetti non auspicava forse la necessità che in ogni città si costruisse “un Palazzo o Casa del Genio”, dove i giovani po-tessero esporre le loro opere, anche se apparentemente “giudicate assur-de, cretine, pazze o immorali”?
Il futurismo è stato anche un movimen-to politico, e in una fase della sua storia persino un partito (il che ha provocato una moralistica condanna per gran par-te del secondo dopoguerra del ’900; mentre oggi, nella maggioranza degli eventi dedicati al Centenario, come ha giustamente notato Pablo Echaurren, “si mette in scena il futurismo per i gri-dolini di piacere del pubblico, ohh, ma che bello, e poi non vedono l’ora che si apra il buffet!”). Pur amante dei buf-fet, non ci sto. Il passaggio dall’intolle-ranza all’indifferenza per quella politica “avanguardista” è sempre sintomo di una rimozione, che denunciamo in questo numero di “AfterVille”. Per mio conto, già molti anni fa ero intervenuto sul tema, in occasione della mia prima conoscenza del biffardo pensiero del direttore del MIAAO e di quello, molto “di sinistra”, di Luisa Perlo, allora quasi bambina: “La cosa che più mi colpiva del futurismo, rispetto ad altre avan-guardie, era il carattere tollerante e de-mocratico (e queste sono parole che faranno vacillare la coscienza di più di un illustre cittadino italiano)”. Mi riferivo prima di tutto alla tolleranza politica, invitando a “pensare alle figure di Rug-gero Vasari, di Vinicio Paladini e Ivo Pannaggi, del grafico Attilio Calzavara, dei milanesi Escodamé e Giandante X che in Spagna combatté per i repub-blicani a Guadalajara…”, e all’esisten-za di tematiche politicamente “di sini-stra” nei manifesti di quel movimento, “da quello del 1909 che parlava con-tro l’‘Italietta borghesuccia’ e ‘tirchia’, contro l’‘opportunismo e l’affarismo’, il ‘protezionismo gretto’; al programma redatto dopo la sconfitta di Caporetto che richiedeva, tra l’altro, la lotta con-tro l’analfabetismo, il ‘divorzio facile’, la socializzazione delle terre, la libertà di sciopero, la parificazione delle merce-di femminili con le mercedi maschili, la trasformazione della beneficenza in as-sistenza e previdenza sociale, le pen-sioni operaie, ecc…” (traduco un brano del mio Futurdesign, in E. Biffi Gentili, El síndrome de Leonardo. Artedesign en Italia 1940-1975, Allemandi, Torino 1995, catalogo della mostra, Museu Diocesà, Barcelona 1995). Vedo ades-so confortata, integrata da prove do-cumentali fondamentali subalpine (che molto devono a precorritrici scoperte di Claudia Salaris), quella mia tesi dal-
la mostra e dal giornale Rosso+Nero. Ma tutto questo Alice-Pablo non lo sa, se torniamo al decennio 1967-1977, quello che intercorre tra l’occupazione di Palazzo Campana a Torino -guar-da caso, l’edificio già sede del locale Partito Nazionale Fascista, nell’isola di San Filippo Neri ove ora è sito, poco più in là, il MIAAO- e l’ultima fiamma-ta del movimento di contestazione, Certo, è già un artista “politico”: ba-sti guardare alle riproduzioni di opere che ho scelto di inserire nel corpo del mio testo, marxiste e lottacontinuiste. Come tanti, all’epoca e dopo? Non credo. È anche un artista “ludico” e “popolare” (con la conoscenza certo, e qualche interferenza, con il pop). I suoi “quadratini” mi hanno infatti sem-pre ricordato, pur nelle loro sofisticate miniaturizzazioni, i tabelloni dei can-tastorie, o, ancor più, e prima delle bandes dessinées, le images d’Épinal, soprattutto quelle di soggetto storico, che illustravano la rivoluzione francese
del 1789, ed erano destinate a un pub-blico non “studiato” (condivido quindi l’idea, qui avanzata in altre pagine, di un fil rouge grafico-tipografico che per-corre l’opera di Echaurren). Attenzione però: Pablo, si sa, è anche molto colto, come dimostrano titoli e scritte in quel-le sue opere, e tra queste, quelle “sca-tole” che contengono anche oggetti solidi, tridimensionali (al proposito mi pare ammissibile la connessione con un’operazione artistica molto interes-sante degli anni ’70 di Herbert Distel, denominata Das Schubladenmuseum, che era la formazione del più piccolo museo d’arte moderna del mondo at-traverso il riuso di un armadio-conteni-tore di bobine di filo da cucito, trovato in una vecchia merceria, i cui 25 tiretti, ripartiti ciascuno in 25 caselle, acco-glievano 500 operine d’arte). Inoltre è assolutamente legittimo rintracciare, come hanno fatto molti critici avvedu-ti, a partire da Henry Martin in occa-sione della personale di Echaurren da
Schwarz nel 1974, in quei lavori una ricerca di resa del criterio della “simul-taneità” avanguardista. Anche se allo-ra lui amava più il Dada di Duchamp e Tzara. Qui devo ritornare alla pratica, autoerotica, dell’autocitazione dal mio saggio sovracitato, dove scrivevo che nel 1914 i dadaisti si opponevano alla figura dell’individuo “avanzato”, perfe-zionato, democratico, futurista, propo-sto dalla “fantasia limitata” (erano pro-prio le loro parole) di Marinetti. Mentre a me sembra che Pablo già seguisse la lezione di tolleranza di quel futurismo che voleva essere, mi ricito per l’ulti-ma volta, “una avanguardia di massa, molto articolata territorialmente, con la nomina, anche nel più minuscolo pae-se, di un responsabile del movimento, senza troppo badare alla qualità, ma piuttosto alla quantità”. Non stupisce quindi che qualcuno, con il ’77, se ne sia accorto. Ma di ciò tratta Luisa Per-lo, che pur di sinistra, è qui collocata alla mia destra, almeno per una volta...
Sin dal 1910, F.T. Marinetti “pensava di annullare l’idea della lotta di clas-se”, scrive Claudia Salaris, “attraverso l’alleanza fra intellettuali d’avanguardia e lavoratori, unificati nella mistica del-la guerra e della nazione” (Alla festa della rivoluzione, Il Mulino, Bologna 2002). Momento cruciale del “raccor-do tra futurismo, anarchia libertaria e soprattutto sindacalismo soreliano” (C. Salaris, Lavoro e rivolta nel futurismo), è la pubblicazione, nel marzo 1910, dell’appello I nostri nemici comuni sul-la rivista “La Demolizione”. Diretta dal sindacalista rivoluzionario Ottavio Di-nale, edita in Svizzera e Francia e poi a Milano, “La Demolizione” -che conta tra i collaboratori anche Libero Tancredi (alias Massimo Rocca, vedi l’articolo a pagina 3)- appartiene a quegli ambienti rivoluzionari che “avevano subito offerto a Marinetti una larga apertura di credi-to” (U. Carpi, L’estrema avanguardia del Novecento). Qui Marinetti, dice Salaris, “decide di rivolgersi direttamente alla classe operaia, lanciando un appello… in cui propone la formazione d’un fronte unico che comprenda ‘i sindacalisti tutti, delle braccia e del pensiero, della vita e dell’arte, distruttori e creatori insieme, anarchici della realtà e dell’ideale’”. L’alleanza tra “intellettuali estremisti e operai”, che sarà tra le ragioni dell’inte-resse culturale di Gramsci, è un leitmotiv del futurismo postbellico nella sua fase massimalista e politica. “Rifiutando la scelta di classe”, sottolinea Salaris, Ma-rinetti “attribuisce agli artisti d’avanguar-dia il compito di occupare un avanposto nella società, fungendo da stimolo ed elemento di punta, secondo un criterio che riassume con la formula ‘proletaria-to dei geniali’”. Nel pamphlet Al di là del comunismo, pubblicato nel 1920, dove Marinetti esprime un punto di vista cri-tico sulla rivoluzione bolscevica, all’“im-menso sistema di ventri comunicanti e livellati” e al “tedioso refettorio tesserato” del comunismo oppone il “meraviglioso paradiso anarchico di libertà assoluta arte genialità progresso eroismo fanta-sia entusiasmo, gaiezza, varietà, novità, velocità, record”, dell’italica via futurista alla rivoluzione. Al di là del comunismo per Marinetti c’è “Il vasto proletariato dei geniali” che “collaborando collo svi-luppo del macchinario industriale, rag-giungerà quel massimo di salario e quel minimo di lavoro manuale che, senza di-
revival antagonistici 07
Manifesti indigesti
Un pensiero, forte, da Torino
Base Militante Progetto Torino Il partito del tubo
FuturistRamones
Luisa Perlo Elisa Facchin e Valérie Zuddas intervistano Costanzo Preve
Elisa Facchin intervista Giovanni Di Martino Maurice Lesna Pablo Echaurren
Marinetti fu un ante punk. Diceva Gram-sci che i futuristi erano avanti mille miglia rispetto ai comunisti. Almeno in fatto di arte. I futuristi, secondo lui, offrivano a chiunque la possibilità di esprimersi, senza badare al censo o all’istruzione ri-cevuta. Non gli importava che in una po-esia la sintassi scricchiolasse e un qua-dro gocciolasse colore assomigliando più a un’insegna stradale che a un’ope-ra museale. I futuristi realizzavano la democrazia, erano operaismo allo stato puro. Ma erano anche punk. Cos’altro fu il punk se non il grimaldello che per-mise a ogni pischello di riappropriarsi della musica espropriata delle grandi band che avevano trasformato il rock in un orpello barockeggiante? Cos’altro fu il punk se non il diritto a suonare come ci pare, stonando e tuttoquanto? E i Ra-mones furono i campioni, gli iniziatori, i detonatori. Veloci quanto basta per essere insigniti dell’appellativo di Fast Four. Guardateli sulla copertina del loro primo LP, non sembrano Marinetti&C?
Renato Curcio, Dopo la caccia, in “L’eco”, Torino s.d. 1962-1963
Scendevamo dai monti / in lunga fila / stanchi di esser sinceriPoi giunti alle prime luci / ci lasciammo / e ritornammo ‘bugiardi’
Pablo Echaurren, illustrazione per il settimanale “Il Sabato”, 1992
Torino nera (più rossa)
Elisa Facchin
Logo di Giovane Europa
Copertina di F.T. Marinetti, Al di là del Comu-nismo, Edizioni de “La Testa di Ferro”, Milano 1920, Collezione Echaurren Salaris, Roma
Pablo Echaurren, logo del Partito del Tubo, 1999
Pablo Echaurren, Ramones-futuristi2005, collage, 33x48 cm (particolare)
Logo di Base Militante Progetto Torino
Sin dal numero 0 di “AfterVille” dell’ot-tobre 2007 abbiamo iniziato a esplora-re, culturalmente e politicamente, una Torino sotterranea (che guarda caso è anche il titolo di un molto provocatorio libello di Mario Gioda pubblicato nel 1914 dalla locale tipografia De Bianchi e Righini al Ponte Mosca). In quell’oc-casione, in un articolo intitolato Pianeta proibito, cercavo di ricostruire le vicen-de, all’inizio degli anni ’60, delle Edizioni dell’Albero di Piero Femore e Vittorio Viarengo, “covo” e ritrovo di intellet-tuali scomodi che contestavano, da differenti postazioni ma tutte “laterali” rispetto ai “poteri forti”, molti solidissimi luoghi comuni. Ad esempio, quello, già discusso da Angelo D’Orsi, secondo il quale il fascismo sarebbe stato “sino-nimo di incultura o pseudocultura tout court”. Oppure, quello per cui il cosid-detto neofascismo sarebbe stato tut-to “di destra”, reazionario, pronto allo scontro e chiuso al dialogo, nazionali-sta e non europeista (tesi, quest’ultima, decisamente, evidentemente, negata da chi nella Dell’Albero aderiva al nuo-vo movimento della Jeune Europe, da poco costituita). A Torino infatti alcuni giovani, prima in Giovane Nazione, poi in Giovane Europa, iniziavano pratiche politiche “eccentriche” sotto uno sten-dardo Nero+Rosso, destinato ad es-sere ammainato intorno al ’68. Incontri più o meno ravvicinati “del terzo tipo”: e tra i personaggi e interpreti, maggio-ri e minori, di quell’intreccio c’è chi ha annoverato Curcio, Cardini, Bruschi, Cinquemani, e Biffi Gentili, citando, per ora, solo uno dei vari subalpini...
Dopo il lavoro con Curcio e Fioravan-ti, Echaurren fonda nel 1997 a Roma il Partito del Tubo, con sede provviso-ria nel bagno di una camera dell’Hotel Sheraton affittata dalla galleria del Ma-scherino. La linea politica del P.d.T. si basa su un totale “altrovismo” e un po’ di nichilismo. Si legga nel programma: “Al vuoto della politica noi opponiamo una politica del vuoto (...). Il P.d.T. è un partito-virus che si prefigge di portare a morte definitiva se stesso e tutti gli altri partiti, già moribondi per mano dei propri dirigenti digerenti. La forma par-tito è a un passo dalla estinzione e il P.d.T. intende accelerarne il processo, il decesso, la caduta nel cesso della storia. A tutti i moralisti, a qualunque parrocchia appartengano, noi, sporchi di grasso, gridiamo ancora una volta: i nostri tubi sono tutti innocenti!”. Però, attenti: Pablo non è, come si dice a Roma, un “cazzaro”. La frequenza nella sua opera del divertissement è per me una “strategia di attenuazione della tensione”. Altrimenti insostenibile. Echaurren si chiama fuori e con il Par-tito del Tubo avverte tutti, rossi, neri, rosso+neri, che “l’idraulico non verrà”. Il perché, forse nemmeno lui lo sa. Pro-vo a spiegare la sua scelta di latitanza politica con alcuni versi di un perso-naggio già incontrato su queste pagi-ne, il gran grafico Giancarlo Iliprandi, altro aristocratico eccentrico:“Voi non mi avrete mai. / Non è un viatico inciso, / un epitaffio conciso, / un presuntuoso principio. / non amo che mi si abbia, / non ne conosco il motivo. / La ragione mi sfugge, / sono comunque restio”.
minuire la produzione, potranno dare a tutte le intelligenze la libertà di pensare, di creare, di godere artisticamente”. E così prospetta la “soluzione artistica del problema sociale”: “La rivoluzione futu-rista che porterà gli artisti al potere non promette paradisi terrestri. (…) Gli arti-sti, instancabili aeratori di questo trava-glio febbrile, riusciranno ad attenuare il dolore. Essi risolveranno il problema del benessere, come soltanto può es-sere risolto, cioè spiritualmente. L’arte dev’essere non un balsamo, un alcool. Non un alcool che dia l’oblio, ma un alcool di ottimismo esaltatore, che divi-nizzi la gioventù, centuplichi la maturità e rinverdisca la vecchiaia. Questa arte-alcool intellettuale deve essere profusa a tutti. Così moltiplicheremo gli artisti creatori. Avremo una tipica razza quasi integralmente formata d’artisti. Avremo in Italia un milione di intuiti divinatori, tesi accanitamente a risolvere il proble-ma della felicità umana collettiva”. Qual-cuno lo dica al ministro Bondi.
Professore, sia Pablo Echaurren che questo “AfterVille Rosso+Nero” ri-schiano l’accusa di nostalgia per il ’900, secolo oggi dai più “rimosso” per i suoi eccessi, e crimini, ideologi-ci, di vario segno. Qual è il pensiero di Preve sul “secolo breve”?Quando si giudica un intero secolo il ri-schio di semplificare e deformare la real-tà è molto elevato. Il ’700 non è solo Illu-minismo; l’800 non è solo il secolo della borghesia. E il ’900 non è solo il secolo, oggi demonizzato, delle ideologie assas-sine o delle utopie totalitarie, della follia fascista e comunista. Il congedo dal ’900 viene visto come un’entrata in un’era migliore: un’utopia, frutto della globaliz-zazione neoliberista e ultracapitalista che con la crisi attuale ha avuto un primo at-tacco virale. Ciò premesso, ritengo con il filosofo francese Alain Badiou (Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006) che il ’900 ha avuto la passione del reale, ha creduto nella possibilità di trasformare la realtà. Il ’900 o “secolo breve” (1914-1989), ha il pregio di aver tentato di riaffermare il primato della politica sull’economia. Ha tentato di farlo in cinque forme diverse, tutte fallite: il comunismo; il fascismo e il nazionalsocialismo; la socialdemocrazia scandinava distributiva a base fiscale; i vari populismi; i movimenti di liberazio-ne nazionale. Io apprezzo il tentativo e do quindi del ’900 un giudizio positivo. Sia ben chiaro, non assolvo tutto: Au-schwitz, Hiroshima, Dresda, i gulag sono inaccettabili, ça va sans dire; ma dobbia-mo metabolizzarli perché non accadano più, non condannare tutto il secolo che li ha prodotti. Io mi oppongo radicalmente al giudizio liquidatorio dei distruttori del ’900, da Hanna Arendt ad Aldo Revelli e così via. Un giudizio frutto della fusione mostruosa di vecchi conservatori liberisti e nuovi conservatori, i “pentiti” del ’68, dominante nella cultura degli ultimi anni del ’900, definiti da Badiou come “se-conda restaurazione”.Qui tentiamo una “strategia dell’atte-nuazione” dello storico conflitto de-stra/sinistra, già praticata da Echau-rren in forme creative clamorose. Lei, come “demolitore” di quella dicoto-mia, è stato un precursore.Nell’antica Roma o nel Medioevo non esisteva la dicotomia destra/sinistra come la intendiamo oggi. Possiamo dire che i Gracchi fossero di sinistra e Silla di destra, che i movimenti pauperistici del
Medioevo fossero di sinistra e i mercanti di destra, ma non è così. L’analogia stori-ca è inevitabile -nella storia tutti pensano a se stessi attraverso un détour- ma in-gannevole: ogni fenomeno storico è nuo-vo. Le parole destra/sinistra nascono in Francia nel 1791 da diverse collocazioni sui banchi dell’Assemblea Legislativa. La dicotomia ha poco più di duecento anni e non è una categoria universale, ma ti-pica dell’Europa occidentale, di una so-cietà che ha vissuto l’Illuminismo. Destra/sinistra è una divisione spaziale, e legit-timazione, orizzontale che presuppone lo smantellamento della legittimazione verticale: secondo Carl Schmitt presup-pone la secolarizzazione. Condivido al proposito l’opinione di Ernst Cassirer che considera Jean-Jacques Rousseau il fondatore della politica moderna per la sua affermazione che il peccato originale non è religioso, quello di Adamo ed Eva, violazione del volere di Dio; ma politico, quello dell’ingiustizia sociale, al quale si deve rimediare mediante un nuovo con-tratto sociale. Duecento anni dopo la dicotomia destra/sinistra è venuta meno con la seconda restaurazione, con la fine della sovranità della politica sull’econo-mia, quando il Mercato subentra a Dio e alla provvidenza. Oggi, anche se de-stra e sinistra non sono più categorie politiche credibili, resistono come risorse simboliche, come fenomeni inerziali di manipolazione, come target culturali re-siduali, non come parametri interpretativi delle decisioni in economia e in politica. Potrei dire che l’eccitazione oppositiva destra/sinistra è oggi un orgasmo simu-lato. L’uomo crede a questa simulazione perché è un animale simbolico, ha biso-gno di un’identificazione fittizia, fanta-smatica per dar senso a sé stesso. La simulazione è veicolata dal circo media-tico, sostenuta dalle teorie sistematiche del clero universitario e consentita dal ceto politico, che ormai si può definire un funzionariato privo di coscienza infe-lice. Pertanto io ritengo che la dicotomia destra/sinistra, ormai “defunta” in Paesi come Italia, Spagna, Francia, Germania -si badi, non in Bolivia, in Venezuela, nei paesi del Terzo Mondo- sia stata sostitu-ta dalla dicotomia fra chi accetta o non accetta l’impero americano.Il maggior successo editoriale “popo-lare”, e internazionale, di un celebre filosofo torinese, Norberto Bobbio, è stato il libro Destra e sinistra, alquanto
distante da queste sue tesi… Tuttavia lei stima Bobbio, meno i bobbiani, come dimostra il suo libro Le contrad-dizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale (C.R.T., Pistoia 2004). Perché?Voglio distinguere fra Bobbio e il “bob-bianesimo”, che definisco “il mito di le-gittimazione e di compensazione di una città-fabbrica con arredo urbano”. Di Bobbio, di cui ero amico, do un giudizio morale positivo, anche se dal punto di vi-sta contenutistico non avevamo niente in comune. Bobbio mi riteneva un futurista, stimabile ma non attendibile. Invece del bobbianesmo universitario torinese do un giudizio spietato. Li considero nani all’ombra di Bobbio e ho di loro un di-sprezzo tale da non riuscire a esprimer-lo con parole adeguate. Il problema è l’azionismo: una visione del mondo che si basa su un principio di superiorità mo-rale. L’azionismo rappresenta un modello culturale che ha trasformato l’antifasci-smo, secondo me politicamente giusto, in religione civile, in assenza di fascismo. L’averlo perpetuato ha fatto sì che, come dice anche il politologo francese Marc Lazar, da sessant’anni in Italia ci sia una
guerra civile simulata e una situazione di demonizzazione permanente dell’avver-sario. Da noi c’è sempre un mostro di turno: Fanfani, Craxi, Berlusconi. Questo perché il fascismo, fatto storico, è stato trasformato in indegnità morale; l’anti-fascismo azionista non tratta i fascisti come soggetti politici (per me comunque non accettabili) ma come appestati mo-rali. Trasformare il fascismo in una specie di tabe, di peste, è sbagliato. Trasforma-re la politica in moralismo è una cosa terribile: l’avversario politico, trasformato in individuo inumano, perde ogni ragione. Tornando all’azionismo locale mi sento di dire che Torino era una città-fabbrica spietata e feroce, monocratica, in cui do-minava un imperatore economico, Gianni Agnelli, attorniato da una corte famelica. Torino aveva bisogno di un supplemen-to d’anima assicurato dalla casa editrice Einaudi, dal mito di Gramsci e Gobetti, e dall’azionismo. Che giudizio do di questo azionismo piemontese? Pessimo. Ci scusi per l’eccesso di sintesi del suo complesso pensiero. Consideri quindi, parafrasando Jean-François Lyotard, che per una volta la sua filo-sofia sia expliquée aux nanas…
Torino, Quartiere Santa Rita. via Mom-basiglio 22. Ogni sabato pomeriggio, alle ore 15, puntuale il “Covo” apre i battenti. Entrando potrete incontrare i giovani, “li-beri, autentici rivoluzionari, mai domi” per autodefinizione, di Base Militante Progetto Torino. Non è semplice per nessuno “iden-tificarli” rapidamente, loro così complessi. Lasciamo che sia il loro segretario Giovan-ni Di Martino a raccontarci chi sono.Questo numero di “AfterVille” riassu-me per sommi capi anche una storia poco nota di relazioni, politiche ed estetiche, “rosse” e “nere” a Torino. E la storia continua con voi: leggo sul vostro sito (www.progettotorino.org) che siete tra i pochi a ricordare Libe-ro Tancredi, ovvero Massimo Rocca, a commemorare Filippo Corridoni, personaggio del quale avete apposto una frase a epigrafe di un’altra pagi-na (su un’altra ancora iscrivete paro-le di Gramsci). Insomma, vi sentite rossi+neri o neri+rossi?No, i tentativi rosso-bruni appartengono al ’900 e sono, purtroppo, tutti finiti male. Sul piano politico continuare a ragionare con le categorie politiche del ’900 sareb-be deleterio: ci allontanerebbe da una valutazione corretta della realtà per farci ricadere in logiche residuali e testimoniali lontane dai reali problemi. Tuttavia pro-veniamo dal ’900 e quindi alcuni di noi sono stati rossi e altri, come me, sono stati neri. Noi non chiediamo certificati d’anagrafe ideologica a chi aderisce ma la condivisione del nostro programma, che è un programma per il “socialismo del XXI secolo”. E del ’900 conosciamo bene la storia politica, fatta anche di occasioni perdute. Corridoni, Gramsci e Tancredi sono tre nostri riferimenti e siamo lusingati di essere considerati dei continuatori della loro mentalità innova-trice e profetica.Il 20 settembre dell’anno scorso ave-te organizzato un incontro intitolato ai Legionari Fiumani. Claudia Salaris ha recentemente pubblicato La festa della rivoluzione (Il Mulino, Bologna
2008) proprio sull’impresa di Fiume vista come annuncio di altre “conte-stazioni”: il ’68, il ’77, ma anche quelle beatnik e hippie. Aborrite o condivi-dete questa tesi? E qui a Torino pro-vate a costruire un dialogo con “an-tagonisti” apparentemente di segno contrario, “contro i nemici comuni”, come scrisse Marinetti nel 1910?Su una pubblicazione del Gruppo Edi-toriale L’Espresso (che nel tempo non ci ha risparmiato le peggiori diffamazioni) c’era scritto che il nostro frequente uso del termine disobbedisco era un tenta-tivo di infiltrarci a sinistra, simulandone il linguaggio. Chi ha scritto non sapeva che ci riferivamo alla risposta che D’An-nunzio diede a Giolitti. Il nostro convegno è stato direttamente ispirato dalla lettura del libro della Salaris, nel cui contesto però abbiamo approfondito, per ragio-ni di tempo, solo la vicenda del 1919-1920 e la figura di Mario Carli, ardito ed eccentrico poeta futurista. Il lavoro di storica della Salaris è preziosissimo, perché siccome il fascismo ha tentato con successo di assorbire l’impresa di Fiume come antesignano della marcia su Roma e il futurismo come avanguar-dia artistica, nel dopoguerra entrambi
i percorsi sono finiti nel dimenticatoio in quanto bollati come fascisti e basta. L’opera della Salaris sta rimettendo tutto a posto, ridando fiato a due esperienze che tutto avevano, fuorché il fiato corto. Noi stiamo svolgendo il nostro percorso e non abbiamo mai lanciato teste di pon-te verso chi è “apparentemente di segno contrario”. Però ormai siamo sulla piazza da un po’ di tempo e abbiamo sempre parlato in modo molto chiaro, perciò chi in questi anni ha voluto capire (e ce ne sono stati tanti) lo ha potuto fare.Passando dalla politica all’estetica, mi sembra che voi dedichiate molta attenzione -almeno per un ambiente “disobbediente”- alla grafica e al mer-chandising: dal logo con l’ape alle fel-pe con le scritte. Credete quindi, pur chiaramente impegnati in un Attacco alla Torino bene, come recita un altro vostro claim, che sia necessario oggi fare i conti con più sofisticate strate-gie di immagine e comunicazione?Le api sono un modello organico e co-munitarista: sanno costruire una casa, sanno chi far lavorare e sanno da chi far-si comandare. A parte questo la propa-ganda (oggi: comunicazione) è sempre più importante. Il fatto che a capo del governo ci sia un televenditore qualco-sa vorrà dire: per quanto volgare e poco colto in tutti gli ambiti, Berlusconi è un grande comunicatore, per questo vince le elezioni staccando gli avversari, per-ché quelli fanno la campagna elettorale solo prima delle elezioni (e pure male): per lui invece la vita è una gigantesca campagna elettorale. Per realtà come la nostra poi, che ha come uniche armi la fame e la sete, la strategia di propagan-da è essenziale. Non bisogna sbagliare un colpo, un manifesto, un adesivo. Col tempo tutti noi abbiamo finito per inte-ressarci alla grafica: abbiamo i momenti di maggiore partecipazione democratica interna quando si tratta di discutere un manifesto o una nuova felpa. Ogni nuo-va uscita deve essere un’accettata sullo stato attuale delle cose.
AfterVille anno 2 numero 1
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anno 2 n. 1
Rosso + Nero
collector’s issue diretto da Enzo Biffi Gentili ed edito per la ricorrenza del centenario del primo m
anifesto futurista
20 febbraio 2009
nata nel 1931, che la creatività di un operaio-tipografo “fu-
turista” nel 1921. Ma direm
mo che anche la critica d’arte
non è stata troppo sul pezzo, a ragione di quello sciocco
“paragone” che distingue tra arti “pure” e “applicate”. Figu-
riamoci se si potevano più che tanto considerare una pub-
blicazione come “Il Risorgim
ento Grafico” -palestra degli
esercizi di Frassinelli- che nel sottotitolo si era definita “Ri-
vista d’arte applicata alle industrie grafiche”; o un impresso-
re che a un certo mom
ento affermò “io voglio fare dell’arte
comm
erciale perché l’arte pura, oggi, è una sciocca infatua-
zione dei passatisti”. Eppure, vent’anni dopo, nel suo Trat-
tato di architettura tipografica, Frassinelli richiamò quelle
sue ricerche di un carattere che poteva essere “incendiato,
esplodente, veloce, terrorizzato, elettrico, metallico…
” op-
pure “terrorizzato, nervoso, anemico, doloroso…
”. Alla fac-
cia del font, più futurista di così… Quindi, aderiam
o al mot-
to che intitola una graphic novel, ancor inedita, di Echaur-
ren: Bombardiam
o l’arte. Anche perché su di un’altra rivista
tecnico-professionale, “Graphicus”, per lunghi anni torine-
se, comparirà nel num
ero speciale del 15 settembre 1935
un Manifesto dell’arte della stam
pa di Ezio D’Errico -altro
“avanguardista”, astrattista- firmato assiem
e a Giulio Da Mi-
lano ed Edoardo Orecchia; nel 1942, sul numero 5, quando
la rivista si pubblicava a Roma, il m
anifesto futurista L’arte ti-
pografica di guerra e dopoguerra firmato da M
arinetti con
Piero Bellanova, Luigi Scrivo e Alfredo Trimarco (non
vale dunque la pena di proseguire a scavare lungo
questa vena tipo-grafica, senza pregiudizio “disci-
plinare”? È quanto, al Seminario Superiore di
Arti Applicate presso il MIAAO, abbiam
o ini-
ziato a fare). Ritorniamo a rendere altri do-
vuti omaggi tipografici: a Terenzio Gran-
di; a uno dei suoi più grandi amici, il
“fascista libertario” Mario Gioda di
cui conservò l’archivio affidatogli
dalla vedova; a Libero Tancre-
di-Massim
o Rocca, altro fa-
scista contestatore della
violenza fascista
(su
cui sbagliò
anche
Gobetti, preferen-
dogli, seppur
paradossal-
mente, Fa-
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Nostalgia, nostalgia canaglia
Enzo Biffi Gentili
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ROSSO + NERO
Futurismo: per un
centenario incendiario
Echaurren collezionista
artista antagonista
20 febbraio-5 aprile 2009
curatori
Enzo Biffi Gentili
Luisa Perlo
grafica
Undesign
allestimento
Arteinmovim
ento
trasporti
Gondrand
assicurazione
Arte Sicura
MIAAO
Museo Internazionale
delle Arti Applicate Oggi
via Maria Vittoria 5, 10123 Torino
t 011 0702350 [email protected]
ROSSO + NERO
collector’s issue
per la ricorrenza del
centenario del primo
manifesto futurista
20 febbraio 2009
direttore
Enzo Biffi Gentili
caporedattore
Luisa Perlo
redazione
Elisa Facchin
Alessandra Paracchi
Valérie Zuddas
Liana Pastorin/FOAT
art direction e
progetto grafico
Undesign
Un ringraziamento particolare
a Giano Accame e Costanzo Preve
img Pablo Echaurren
La nostalgia, 1967
In un recente articolo ironicamente in-
titolato Eja Eja ma va là (”La Stam
pa”,
28 gennaio 2009), Massim
o Gramelli-
ni ha accusato le istituzioni torinesi e
piemontesi di lasciare “nel dim
entica-
toio” quella “montagna di azioni ed
emozioni” rappresentata dall’arte e
dall’architettura “avanguardista” e ra-
zionalista -ivi compresi “stadi, teatri
ed edifici pubblici edificati da Mussoli-
ni”- e proprio nell’anno del Centenario
della pubblicazione del primo M
anife-
sto del futurismo, il cui inizio scocca il
20 febbraio 2009. Protesta in parte
condivisibile, ma che pensiam
o non ci
coinvolga. Come dim
ostrano quasi
tutti i numeri precedenti di “AfterVille”
(tabloid ideato da Undesign e diretto
da Enzo Biffi Gentili) e i nostri apporti
alle m
ostre Astronave
Torino e
BAU+MIAAO, con gli om
aggi tributa-
ti, tra gli altri, a Nicola e Leonardo
Mosso, Giuseppe Pagano, Fe-
derico Maggia (autore a Biella
della Torre Littoria e del pro-
getto del Faro dell’Impero)
ed a Enzo Venturelli.
Questo numero spe-
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Era la personalità più spiccata delle ca-
micie nere, non c’è paragone con De
Vecchi. Gioda era un uomo com
pleto,
molto
preparato. M
a il
suo vizio
d’origine era il sindacalismo. Om
bra ne
buttava sugli
ambienti
conservatori
squadristi. De Vecchi ce l’aveva con
Gioda… Questo è un interrogativo che
mi pongo anch’io: il bisogno di rivalersi
su Gioda gli fece passare la misura? Il
desiderio di imporre il pugno squadri-
sta fu la scintilla della strage?” (in G.
Carcano, Strage a Torino. Una storia
italiana dal 1922 al 1971, La Pietra,
Milano 1973). Qui giungiam
o al cuore
del nostro “problema politico”, che non
era solo quello di privilegiare una cor-
rente “di sinistra” e “libertaria” nel futu-
rismo (e in certo fascism
o) contro una
“destra”, ma anche di interrogarci sulla
realtà di queste distinzioni, in quei mo-
menti storici, e ancor più oggi, aderen-
do così a un altro interrogativo recente-
mente, intelligentem
ente, posto da Lu-
ciano Lanna: “Chi ha paura del futuri-
smo in politica?”. Restava da capire
come fosse possibile cercar di tradurre
in una mostra allestita al M
IAAO queste
tematiche attraverso docum
enti e arte-
fatti. Abbiamo trovato la prim
a soluzio-
ne grazie a pubblicazioni, alcune rarissi-
me e m
ai prima d’ora esposte, prove-
nienti dalla collezione, unica al mondo,
di Pablo Echaurren e Claudia Salaris.
Claudia è una grandissima e autorevo-
lissima studiosa del futurism
o, i cui
scritti sono un riferimento obbligato per
ogni cultore del movim
ento, e tanto più
per questo nostro Rosso+Nero. La se-
conda l’abbiamo trovata con Pablo,
con la sua figura complicata m
a inte-
grata di collezionista, artista e “antago-
nista”, che ci consentiva di sviluppare,
provocatoriamente, il tem
a di una pos-
sibile “eredità”, non “stilistica”, ma spiri-
tuale del futurismo, ricorrendo al suo
“pensiero laterale” e destabilizzante, al
suo “rivoluzionario” progetto politico-
culturale, e a certi aspetti, magistrali e
inquietanti, della sua opera, altissima.
Qui lo
ringraziamo
vivissimam
ente
perché ci ha autorizzato a una sua inter-
pretazione “non autorizzata” e tenden-
ziosa, accettando di essere davvero
trattato come un corpus, un cadavere
eccellente, artisticamente. Concludia-
mo. Non abbiam
o forse reso il centena-
rio “incendiario”, ma abbiam
o comun-
que appiccato un fuocherello anche noi.
Perché già Brucia la città, come recita il
titolo dell’ultimo rom
anzo del torinese
Giuseppe Culicchia, una “opera di fan-
tasia” che tuttavia ferocemente rivela un
certo nostro degrado politico-culturale
(in cui va compresa l’assenza dalle ce-
lebrazioni futuriste da molti lam
entata).
Ma non è m
ai stata nostra caratteristica
la tristezza: faremm
o torto ai futuristi, a
Pablo, e al suo esprit spregiudicato,
che sovente si esercita in “basso”.
Allora rinviamo al refrain: “Nostalgia,
nostalgia canaglia… di un paese che
sogna e che sbaglia”. Gli sbagli, li de-
nunciamo, i sogni, li rim
piangiamo.
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