al pozzo di sicÀr

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Enzo Appella

GIUSEPPE DI GIACOBBERacconto della fraternità compiuta

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PAOLINE Editoriale Libri© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2021

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milanowww.paoline.it • [email protected]: Diffusione San Paolo s.r.l.Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

In copertina:sfondo: © Kristina Lozunko / Shutterstockparticolare in primo piano: © ArtMari / Shutterstock

Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbianella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana

© 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena

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Presentazione

Presento volentieri il bel lavoro, una serie di me-ditazioni sulla storia di Giuseppe di Giacobbe, che Enzo Appella (per molti prete, professore, forma-tore e amante delle Scritture, per me figlio da più di trent’anni), manda in stampa dopo la pubblica-zione della Lettera enciclica Fratelli tutti di papa Francesco.

Mi avverto come un artigiano cui un artista affi-di il commento di un’opera d’arte, come un vecchio custode a cui, in mancanza di guide accreditate, vie-ne chiesto all’ improvviso di far da guida nella visita a un museo. Le doti di amante del Verbo, di esegeta che dia da parlare al testo, di lettore appassionato che faccia rivivere la Parola sollevando le palpebre di antichi manoscritti (l’ immagine è di Erri De Luca) di Enzo Appella sono note a tanti e tu, lettore, che hai in mano questo libro, potrai nello scorrere dei capitoli gustare l’arte di rendere contemporanea la Parola che, da antica, si fa attuale e addirittura pro-

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fetica in tempi bui come i nostri, dove rischiamo di andare a tentoni dimenticando che « lampada per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105).

La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli costituisce un libro nel libro delle Scritture, un corpo che, come accade nei romanzi di Dostoevskij, potrebbe essere estrapolato dal resto e avere vita autonoma, dotato com’è di una sua struttura, di un inizio e una fine, di una sua trama drammaturgica, come una tragedia greca, dove il lettore-spettatore segue con attenzione, incollato alla sedia, la scena col fiato sospeso nei mo-menti più drammatici. Come accade sempre nella Bibbia, è la narrazione della vita, la vita umana col suo delitto e castigo, con la sua grandezza e i suoi in-trighi, con voli di aquila e ingloriosi tentativi di uc-celli di rovo che restano impigliati e feriti nei sentieri spinosi dei loro cuori. Nella storia di Giuseppe viene messo a tema il difficile rapporto tra fratelli che at-traversa tutta la Bibbia a partire dalla gelosia di Cai-no per Abele: la storia sacra si apre con quell’amarez-za che accompagna la vita di ogni padre che scopre che i suoi figli non sono fratelli tra loro.

«E questo sangue odora come nel giorno / quando il fratello disse all’altro fratello: / Andiamo ai cam-

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pi! », scrive Salvatore Quasimodo in Uomo del mio tempo a lamentare un copione che si ripete in ogni famiglia, in ogni luogo, in ogni epoca. La storia del peccato che, in un crescendo, si dispiega nei primi undici capitoli della Genesi, dopo il sospetto su Dio dei progenitori, procede con il sospetto rancoroso tra fratelli, un cielo vuoto diventa cielo addosso che sna-tura ogni relazione, anche quella del sangue. Nel te-sto ebraico l’ invito ad andare in aperta campagna riportato dal poeta non c’ è, l’ ha inserito il traduttore per dare senso compiuto a un «disse » che è senza pa-role, che rimbomba aggressivo nel silenzio di una pa-rola non più possibile, nell’afasia dove tutte le parole sono morte e non ci sono termini per raccontare, per raccontarsi, ma restano drammaticamente nudi i ge-sti violenti di chi uccide l’altro da sé per non avere più specchi che rimandino e rendano possibili dialo-ghi di vita.

Il nostro autore introduce, e quasi include e inca-stona, la storia di Giuseppe nella meraviglia che pervade i tre versetti del Salmo 133 che canta la fra-ternità. Inserito nel cammino spirituale dei Canti delle Ascensioni, il testo si colloca dopo la liturgia penitenziale del Salmo 129, quando, dopo aver of-ferto il sacrificio, ci si siede a mensa per far festa e i

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fratelli stanno insieme. La scena inusuale, rivoluzio-naria, degna di menzione, attira l’attenzione del sal-mista che si fa sfuggire un «oh! », un «ecco! » di me-raviglia: sta assistendo a ciò che non è proponibile altrove e che è possibile sperimentare solo tra le mu-ra di Gerusalemme alle cui porte si è fermato a lun-go nel Salmo 121, quasi a non voler entrare per la gioia, un indugiare sulla soglia della grazia.

Pino Stancari ci ha insegnato, quando eravamo giovani, che la fraternità non è per nulla scontata, ma un vero miracolo, una grazia profumata che fio-risce solo nell’abbraccio della Città Santa. Altrove la convivenza è sempre attentata e l’odio è più feriale dell’amore; altrove i fratelli si cercano non nell’ab-braccio di pace, ma per elidersi a vicenda in un com-battimento senza fine; altrove i figli non sono fra-telli e le mense paterne sono disertate dai virgulti d’ulivo da cui non scorre olio prezioso e profumato per la barba e le vesti di Aronne; altrove... non c’ è pace neppure tra gli ulivi.

La Genesi pone la città come sotto una maledi-zione: Caino « divenne costruttore di una città » (4,17). La città nasce non dal desiderio d’essere in-sieme ma dalla paura dell’altro e dal timore di di-ventare fratricidi; diventa allora il modo, ieri come

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oggi, di abitare lo stesso luogo senza conoscersi, senza incontrarsi, ignorandosi sullo stesso pianerot-tolo e nello stesso condominio. La città è l’ invenzio-ne d’essere accanto senza essere insieme, la giungla di palazzi e dedali di strade dove la folla srotola e arrotola gomitoli, urtandosi, sgomitando, in un fiu-me-oceano di solitudini che si addizionano senza risolversi, senza mai incontrarsi. La città nasce sotto il segno di Caino che, per fuggire i fratelli, si rinta-na dove i fratelli nascondono la loro identità singo-lare nell’essere in tanti, nel plurale della folla, nel chiasso del traffico e delle metropolitane che vomi-tano migliaia di persone. La città con i suoi ritmi serrati è sempre di corsa, non ha tempo da perdere, non ha tempo per amare, non ha tempo per guarda-re, per attendere; non sa più cosa siano i riti.

Ma Gerusalemme è un miracolo fatto pietra e là e solo tra le sue mura i fratelli si conoscono, si rico-noscono e possono sedere a mensa senza ferirsi, ri-cevono benedizione come rugiada che scende dal-l’Ermon, sono consacrati come famiglia e diventano, a cerchi concentrici, fratelli tutti. Quando Gesù calpesterà le pietre della Città Santa anche questo miracolo sembrerà essersi sbiadito e Gerusalemme parrà rientrare nel novero delle città maledette,

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quelle che, nella fretta, non hanno riconosciuto la via della pace e si sono armate contro l’unico Fratel-lo. Le lacrime di Gesù ancora scorrono, come fiume carsico, nelle viscere del mondo, nei cunicoli e nelle fogne delle città, per purificare liquame e sangue e trasformarli in olio prezioso per il volto consacrato dell’uomo, finalmente sacerdote della terra.

La trama della storia di Giuseppe nasce nella casa di Giacobbe, tra i dodici figli usciti dai suoi lombi, ma poi si complica quando dai giochi si passa ai pri-mati e alle primogeniture sempre problematiche nel-le storie dei patriarchi, si inceppa nell’ invidia e nella gelosia, si intreccia con i sogni di grandezza del figlio amato, si trasferisce sui pascoli dove i molti congiu-rano contro il solo, si cala nella cisterna che nella sto-ria viene ripresentata più volte come possibilità di morte, come schiavitù, come carcere, come calunnia, come intrigo, come paura. Nel corso del racconto i fratelli fanno i conti con le loro passioni, con la voglia di uccidere per impossessarsi della vigna (« costui è l’erede, venite uccidiamolo! », racconterà Gesù), con i pareri discordanti dei falchi e delle colombe, il dolore del padre inconsolabile, il rimorso sempre puntuale, con la carestia e la sterilità che vengono a essere un giudizio della terra che ha bevuto il sangue del fratel-

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lo che neppure la neve copre, con l’esilio in cerca di pane, con l’apparente durezza di Giuseppe che pre-siede ai beni del faraone. Giacobbe dovrà fare i conti con la predilezione che ha scatenato le passioni degli esclusi, con la veste macchiata di sangue del figlio amato e perduto, con il nuovo attaccamento a Benia-mino e al ricordo della madre, con la fame provocata dalla carestia che è lutto della terra, con le menzogne dei figli e il bisogno di mettersi in cammino come esule sulle orme di Abramo che fu cacciato dalla sua patria. Giuseppe dovrà maturare e stemperare il complesso di primo della classe, fare i conti con i propri limiti, la solitudine (Buongiorno tristezza!) che gli viene dai fratelli, con le lacrime inutilmente ver-sate per spegnere il fuoco delle loro passioni, con l’e-silio e la morte, con la schiavitù che si tramuta in predilezione, ma, attentata dalla moglie di Potifar, torna a essere carcere e abiezione, con i propri sogni che aspettano di maturare come grano sotto la zolla, quelli dei compagni di sventura di cui si fa interprete, quelli del faraone di cui diventa traduttore. Pur con i suoi limiti, Giuseppe è l’uomo mite che si scontra con un mondo di lupi, il bambino graffiato dagli adulti, colui che esce continuamente perdente dagli intrighi di corte finché non arriva il suo giorno.

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Nella storia di Giuseppe la fraternità, in un gioco di tesi-antitesi-sintesi, è affermata, poi negata, quin-di cercata e solennemente offerta nella grazia del perdono senza cui rischia di diventare una parola vuota, una chimera, una fraternité che, prima sven-tolata, finisce poi sotto la lama impietosa della ghi-gliottina ieri come oggi. Il nostro oggi è segnato dalle parole e dal sogno di papa Francesco che, in Fratelli tutti, indica una via di uscita dal vicolo cieco del particolare della cultura consumistica. Nell’ in-troduzione alla sua terza enciclica, il Pontefice ri-corre più volte al sostantivo « sogno» e al verbo « so-gnare » (nn. 1 - 8), vi torna più volte in altri passaggi del documento, fino alla preghiera finale: « Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giusti-zia e di pace », consegnato a tutti gli uomini di buo-na volontà, quasi a sottolineare che la fraternità sia un sogno da sognare in tanti per dargli spessore e ali, concretezza e idealità.

Grazie a Enzo Appella che ci ripropone, in una lettura sapienziale attenta e competente, il testo sa-cro invitandoci a sognare la fraternità oltre ogni la-cerazione e tradimento. A te, lettore, il compito di completare e portare a ulteriore approfondimento quanto è nato nel cuore dell’autore a confronto con

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le Scritture: ogni libro infatti è aperto, cresce con il lettore e si avvalora di significati sempre nuovi. Mi piace concludere con i versi di Giuseppe Ungaretti di una poesia del 1916 che porta il titolo Fratelli, dove la parola nasce nel cuore di un conflitto, nella notte in cui ogni rumore è avvertito come pericolo, nell’estremo pudore di uomini macerati da inverni in trincea, la parola, foglia tremolante e appena na-ta, sembra rispondere al tremito del cuore che, nel pieno dello sterminio di «uomini contro», ha quasi timore di credere che si possa ancora pronunciare la parola sacra: «Di che reggimento siete fratelli? / Pa-rola tremante / nella notte / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua fragilità / Fratelli ».

Arturo AielloVescovo di Avellino

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Capitolo primoLA BESTIA

CONTRO LA FRATERNITÀ (Gen 37,1-4)

La storia di Giuseppe brilla nella Bibbia al pari di un gioiello di rara bellezza. A essa ci siamo affe-zionati perché, sin dall’ infanzia, ce l’ hanno raccon-tata: a casa, a scuola, al catechismo, ovunque. Lo facevano soprattutto per dar enfasi al valore della fraternità, perché crescessimo con il suo culto. Non perché le nostre autentiche origini fossero figlie del-la Rivoluzione francese con il suo motto liberté, éga-lité, fraternité, ma molto più seriamente perché esse affondano nell’ascolto secolare del Verbo divino. Che cosa sarebbero infatti la famiglia, un popolo, il mondo, le società, una comunità, la Chiesa senza fraternità così come la Bibbia da millenni ce la spie-ga, ce la racconta in tutti i suoi versanti, riusciti o traditi? Senza fratellanza tutto e tutti sarebbero in guerra. Chi ci ha allevati non aveva torto a insistere nella performance narrativa, giacché il piccolo ro-manzo che chiude il libro della Genesi, pur portan-do in seno altre tematiche come la filiazione, il rap-

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porto con gli stranieri, la sapienza, il buon governo e specialmente la guida provvidente di Dio, ha a cuore proprio l’ intreccio delle relazioni tra fratelli, la sua complicazione fino al peccato omicida, gravissi-mo, e la sua risoluzione alla luce del perdono.

Non è un caso che la parola ebraica ach, « fratel-lo», ricorra nei capitoli 37 - 50 almeno cento volte, di cui ventuno volte solamente nel capitolo iniziale del racconto. Sono numeri elevati, danno nell’oc-chio, danno da pensare. I nostri educatori sapevano quanta difficoltà avrebbe comportato nella vita l’es-sere fratelli e quanto precario sarebbe stato l’equili-brio nella relazione. Crescendo ce ne siamo resi con-to ciascuno sulla propria pelle, non ignorando affatto il monito costante che, nella storia dell’uma-nità fino alla cronaca odierna, è rappresentato da feroci e impressionanti fratricidi. È così nella storia pagana, con l’antesignana vicenda di Romolo e Re-mo. È così nella storia sacra a partire dall’archetipo di Caino e Abele. Anzi, la prima storia di fratelli inscenata nella Bibbia è quella di un primogenito che non diventa mai fratello: Caino ha, sì, un fratel-lo, ma non è un fratello, non viene mai detto « fra-tello di Abele » che, al contrario, è qualificato come « fratello di Caino» per ben sette volte nel testo.

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In realtà, più che essere fratello, si tratta di diven-tarlo e, se diamo credito al racconto, ciò risulta assai delicato. Un pensatore del calibro di Paul Ricoeur ha giustamente scritto che l’assassinio di Abele fa della fratellanza un « progetto etico» e non un sem-plice dato della natura. Non è un fatto naturale per-ché, per costituirsi, la fratellanza deve attraversare e superare una prova. Quale? I racconti della Genesi, sin dalle prime battute, ammettono che nelle storie di fratelli si dilata a dismisura la logica che determi-nò il peccato originale, la colpa di adám (cfr. Gen 3). Essa ha a che vedere con la bramosia, la concupi-scenza, per usare un nome di altri tempi e che però ha ancora senso. Ed è fatta di gelosia pungente, di invidia spicciola. Nega incessantemente l’alterità, il «di fronte », il tu che Dio ha dato perché fosse col-mata la primigenia solitudine dell’ io. La nega a co-minciare dalla donna, incrinando così prima di tut-to la relazione sponsale e segnando il rapporto generativo.

Tale logica tossica si ripercuote in qualche modo anche sulla prole per quella tendenza mimetica che le scienze psicologiche hanno acclarato. Caino è in parte determinato dalla scelta sciagurata della bra-mosia che i suoi genitori operarono dando ascolto al

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serpente, senza nulla togliere alla sua personale re-sponsabilità qualora assecondi il pungente istinto. Di conseguenza la gelosia del primogenito di Ada-mo nei confronti di Abele lo divora, gli fa bramare colui che, da soggetto «di fronte », ossia partner di scambio o di alleanza e quindi fratello, è trasforma-to in oggetto da possedere, da consumare fino all’eli-minazione. Alla fine la logica accaparratrice ha tra-mutato Abele in «un soffio che non è più » e Caino in un assassino.

È quel che si ripete pari pari con Giuseppe e i suoi fratelli. Fin dal momento in cui lo vedono arri-vare da lontano, mandato lì dal padre (37,18), ormai egli non è altro che un oggetto per loro: oggetto del loro odio assassino, oggetto che non conta, che può essere eliminato. Più avanti si apprende che Giusep-pe aveva gridato e supplicato che non lo eliminasse-ro (42,21), ma i fratelli rimasero di pietra, pietra che colpisce e toglie la vita, pietra di morte, pietra di tomba. Tanto che Giacobbe, disperato, dirà che Giuseppe «non è più » (enénnu in ebraico, 42,36) e, per questo, non vuol essere consolato. Scriverà più avanti Geremia: «Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non so-no più » (enénnu, Ger 31,15). Come già adám e, in

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lui, ogni uomo fino a noi, Caino avrebbe dovuto imparare a fare « il lutto della totalità », a rinunciare a stare sopra a tutti i costi. Chi non riuscisse ad at-traversare questa prova, quella della bramosia, vin-cendola attraverso il « lutto della totalità », preclude-rebbe a se stesso le porte del mondo della fraternità.

È questo il motivo per cui la Genesi moltiplica le storie che mostrano i misfatti della bramosia: ci av-visa di cotanto pericolo che minaccia continuamen-te il nostro umano. La fraternità non è dunque scontata ed è data se si supera tale prova, il cui risul-tato ne determina oppure no l’esistenza. Se non si contrasta la logica dell’ambizione al tutto, ci si ritro-va nei suoi f lutti mortiferi ed è un’esperienza dele-teria: c’ è disgrazia non solo per se stessi, ma per tutti, senza che alcuno però possa ignorare l’ impor-tanza della propria responsabilità. Una volta avviata, essa non ha timidezza nel propagarsi, rompendo gli argini come in un’alluvione. Isacco sarà preferito dai suoi genitori rispetto al figlio di Agar, Ismaele. Ci saranno discordie tra i due e tanto dolore. Quando toccherà a Isacco, questi preferirà il primo dei suoi gemelli, Esaù, il cacciatore, mentre la madre, Re-becca, si diletterà di Giacobbe. E quanta lotta tra loro, senza esclusione di colpi. Poi i figli di Giacob-

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be tireranno su relazioni contorte, come un muro edificato senza la direzione del filo a piombo, se-gnate da spasimi di gelosia e contraddistinte da odio quando il padre riverserà sul figlio di Rachele, Giu-seppe, la preferenza manifestata già per la madre di lui, ormai morta.

Predilezioni del genere sono ingiuste nei con-fronti degli altri figli, che si fanno particolarmente sensibili a un simile trattamento, come se Giacobbe non avesse imparato nulla dalla propria vicenda e dalla sua infanzia. Chi incendiò il suo conflitto con Esaù? Non furono proprio le preferenze dei genito-ri? E la sua inclinazione per Rachele non creò forse una dura rivalità tra questa e sua sorella Lia? La sto-ria si ripete, è vero, perché nessuno osa fermarne per generosità gli artigli felini su se stesso. Bisognerà aspettare Gesù, il fratello grande. Lui sì che lo farà per tutti e una volta per sempre: per chi è stato pri-ma e per chi verrà dopo.

Il nome Yoséf significa « il Signore ha aggiunto» e immancabilmente richiama la prima storia di fratelli. Infatti « poi (Eva) partorì ancora Abele, suo fratello» (Gen 4,2), alla lettera è: «E (Eva) aggiunse (wattósef ) al partorito (cioè a Caino) Abele, suo fratello». Abe-le viene aggiunto al figlio maggiore ed è aggiunto

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nella qualità di « fratello », mentre Caino riceve la fratellanza come un compito, direi una sfida. Riusci-rà Caino a diventare fratello, ad accogliere l’altro, Abele, come tale? Purtroppo no! I figli maggiori di Giacobbe vorranno accettare Giuseppe, l’« aggiunto», come loro fratello? La suspense comincia da qui. Il groviglio di bramosie e di ardenti gelosie diventa sempre più evidente, ingarbugliato com’è, tanto da crescere come una matassa orribile. Questa generava, tra fratelli, conflitti al limite dell’omicidio. L’ intrec-cio largo lascia intravedere che, da una generazione all’altra, i problemi relazionali si ripetono, si sposta-no, si amplificano. C’è poco da star tranquilli. Prima di ogni lettura possibile, la storia di Giuseppe va col-locata in questo processo, nel flusso che ne manifesta senso e scopo. Perciò, come il bambino portato in grembo, che esiste già prima del momento del parto, essa non parte dal capitolo 37. Il concepimento della storia è incominciato molto in precedenza. A sua vol-ta l’ inizio del capitolo gioca subito a sorprendere ed è fondamentale cogliere il tenore che i suoi particolari stabiliscono. Possiamo così sottoporci alla provoca-zione del testo con le sue domande che puntano a impressionarci per farci riflettere e così smuovere le nostre insensibilità.

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Indice

Presentazione, di Arturo Aiello, vescovo di Avellino pag. 5

PremessaUna chiave per aprire la storia: il Salmo 133 » 15

IntroduzioneLa fraternità d’olio e di rugiada » 23

Capitolo primo La bestia contro la fraternità (Gen 37,1-4) » 35Capitolo secondo Sangue e colpa sulla fraternità (Gen 37,5-36) » 53Capitolo terzo La fedeltà nella fraternità (Gen 39,1-20a) » 77Capitolo quarto Come pane sotto la neve (Gen 39,20b - 41,57) » 97Capitolo quinto Artefice di fraternità (Gen 42,1-38) » 109Capitolo sesto

Travestire menzogna e verità(Gen 43,1-14) » 123

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Capitolo settimo Prove di fraternità (Gen 43,15 - 44,34) pag. 135Capitolo ottavo L’epifania del volto fraterno (Gen 45,1 - 46,34) » 153Capitolo nono

Fraternità benedetta per sempre (Gen 47,1 - 50,26) » 175

ConclusioneGli estremi si toccano ed è pace » 189

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2021

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Nella storia di Giuseppe tutti ambiscono alla fraternità. Per arrivarci, però, Giuseppe dovrà andare oltre il suo orgo-glio, i fratelli dovranno superare la spinta della gelosia e il padre dovrà permettere ai figli di essere tali, aiutando soprat-tutto il preferito a staccarsi da lui per dar corpo all’aspirazione a stare con i fratelli.

Il racconto ci indica la possibilità del perdono quale via per dare futuro alla fratellanza che è dono e vocazione. La fra-ternità, tuttavia, fiorisce anche quando si ricerca l’unità con coraggio, con tutto il cuore, anche dopo che è stata intaccata. È nella fraternità ristabilita che prende corpo la benedizione di Dio che diventa vita per tutti e vita per sempre.

226M

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ISBN 978-88-315-5384-1

€ 15,00

Enzo Appella è presbitero della diocesi di Tursi-Lagonegro in Basi-licata. Insegna Sacra Scrittura nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sez. S. Luigi, a Napoli e si occupa di discernimento.