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Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est

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Alabarde Spaziali—

Storie di fantascienza a est

SOMMARIO

INCONTRO 7di Lorenzo Davia

FARE NIENTE (È RIVOLUZIONARIO) 11di Simonetta Olivo

EFFETTO BANANA 15di Fabio Aloisio

I MONDI DI NESSUNO 19di Roberto Furlani

LO SCRITTORE 23di Fabio Calabrese

CAPO IN B 29di Zeno Saracino

IL MURO, UNA STORIA DI VIAGGI 39di Gianfranco Sherwood

L’ULTIMA STANZA DEL MONDO 45di Alex Tonelli

ORATE DORATE E GAMBERI A 15 WATT 75di F. T. Hoffmann

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Era la sera del 9 marzo 2020 quando Giuseppe Conte, premier italiano, annunciava il lockdown del Paese come risposta all’epidemia di Covid-19. Un’intera Nazione, tra molte altre, che d’improvviso si ritrovava blindata, prigioniera di un virus che avrebbe rovesciato tutti i paradigmi sui qua-li si fondano le nostre vite e le nostre esperienze. Parliamo dell’Italia, un Paese occidentale che figura tra le prime potenze industriali del mondo e la seconda manifattura d’Europa, la quale era d’improvviso costretta a chiudere impianti e ad abbassare saracinesche. E parliamo di un popolo tradizionalmente incline alla socialità, alla tessitura di relazioni umane, le quali avrebbero dovuto per forza di cose essere differite, o quantomeno rimodulate.

Il giro di vite non risparmiava nemmeno il settore della cultura, sof-focato da una situazione contingente che (comunque la si veda) risultava imperante e ineludibile.

La Cappella Underground sintetizza le anime sopra tratteggiate, soprat-tutto in quanto aggregatore sociale e importante nucleo culturale.

Era del tutto inevitabile che l’emergenza sanitaria si ripercuotesse per-tanto anche sulle attività della Cappella, e di conseguenza sulle iniziative legate al Trieste Science+Fiction Festival, che ne resta espressione di punta, nonché uno dei riferimenti più importanti a livello nazionale e interna-zionale per gli appassionati di fantascienza.

Preso atto della frenata che avrebbero subito i suoi programmi, po-larizzati sull’espressione cinematografica del genere fantascientifico, la squadra del TS+FF ha fatto appello ai propri concittadini più “attivi” nell’ambito sci-fi finalizzato a costruire una via alternativa (e in qualche modo praticabile) all’offerta canonica del Festival.

Il proposito era quello di fare dei canali social del TS+FF un collettore di fantascienza nelle sue forme più disparate – dalla narrativa al fumetto,

dalla musica al cortometraggio – in un periodo contingentato al lockdown, con il chiaro intento di reagire in modo tangibile e costruttivo all’oppres-sione del confinamento.

Fortuna vuole che Trieste abbia da sempre una spiccata vocazione fan-tascientifica: è nel capoluogo giuliano che sono nate riviste che hanno sa-puto ritagliarsi uno spazio a livello nazionale (pensiamo a Il Re in Giallo e a Continuum), e sempre Trieste è la città in cui vivono autori capaci di affermarsi nell’ambito della narrativa di genere con pubblicazioni e rico-noscimenti di primo piano.

Presupposti, questi, che hanno trasformato quello che avrebbe dovuto essere un diversivo da reclusione domestica in qualcosa di più struttura-to. È nata così la rubrica Alabarde Spaziali, pubblicata all’interno del sito del TS+FF (sciencefictionfestival.org), nella quale sono stati proposti dieci racconti appartenenti all’immaginario del fantastico di altrettanti autori, triestini di nascita o di adozione, che sono anche delle firme riconosciute all’interno del fandom nazionale.

La risposta da parte del web è stata molto positiva, e quindi eccoci qui: quella che state leggendo è la versione ebook di Alabarde Spaziali, con un’introduzione riscritta per l’occasione.

Ma la conclusione è quella della prima volta.Restate con noi… Si (ri)parte!

Roberto Furlani

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INCONTRO

di Lorenzo Davia

– Lei è un amico del festeggiato?Sobbalzo alla domanda della ragazza. È in piedi di fronte a me e mi

guarda incuriosita.– Scusi, non volevo spaventarla. Solo che… ha sentito parlare del mu-

taforma che è fuggito dal laboratorio?– Sì, perché? – Scoppio a ridere. – Pensava che fossi io?La ragazza sorride, si rende conto di star per dire una sciocchezza.– Ho pensato: se fossi la creatura, appena fuggita mi trasformerei in

un umano e mi nasconderei in bella vista. In un luogo piego di persone.Fa un gesto della mano per indicare il soggiorno affollato.– Come una festa di compleanno? – Concludo io. Mi alzo e mi presen-

to. – Sono un collega di lavoro.– Le sarà sembrata un’idea stupida da parte mia – si scusa lei. – Ma non

trova che sia una cosa eccitante? Incontrare una creatura aliena!– Dicono che uccida le persone.– Secondo me non vuole uccidere. Penso che stia cercando di comuni-

care in qualche modo alieno, e il nostro corpo umano non resiste alla sua forma di telepatia. Lei cosa ne pensa?

– Dicono che si nutra di sale.– L’acqua salata è un buon conduttore. Penso che le serva per stabilire

il contatto con noi esseri umani.– O per succhiarci via meglio l’energia vitale.

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Scoppiamo a ridere entrambi. La ragazza mi sembra delusa. Sollevo il telefonino.

– Se le interessa, adesso stanno postando che la creatura è stata avvista-ta nella zona dei magazzini abbandonati del porto. Non è lontano da qui.

La ragazza sgrana gli occhi.– Davvero? Si immagina? Essere lì ed entrare in contatto con quella

mente aliena. Scusi ancora se l’ho disturbata, adesso devo scappare. Arri-vederci.

La ragazza prende la sua borsetta, saluta alcuni ospiti ed esce.Mi avvicino all’angolo bar. C’è un’ampia selezione di alcolici. Gli occhi

mi cadono sulla boccettina del sale.Sghignazzo.

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Lorenzo Davia (Trieste, 1981) è ingegnere, giramondo e topo di biblio-teca. Suoi racconti sono apparsi in varie antologie. Il suo racconto Ascen-sione Negata è arrivato secondo classificato alla prima edizione del Premio Urania Shorts, mentre il suo Umuntu Umuntu Ngabantu è arrivato terzo al concorso letterario di racconti di Fantascienza LGBTQI del 2017. Nel 2019 Davia ha vinto il Premio Viviani con il racconto Il tempo che occorre a una lacrima per scendere. Ha creato con Alessandro Forlani il progetto di scrittura condivisa Crypt Marauder Chronicles, la cui antologia Thanatolia è arrivata finalista al Premio Vegetti. Ha scritto le storie della Fata Mysel-la pubblicate in New Camelot e Le Avventure della Fata Mysella. Assieme al Collettivo Italiano di Fantascienza ha pubblicato l’antologia Atterraggio in Italia”.

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FARE NIENTE(È RIVOLUZIONARIO)

di Simonetta Olivo

Se solo quella stupida macchina la smettesse di rintuzzarmi come una suo-cera, potrei dedicarmi con zelo al mio nuovo interesse: far niente.

Dottoressa Steiner, c’è della corrispondenza da evadere.Dottoressa Steiner, una flessione significativa del suo peso corporeo e il rapporto

fra massa grassa e magra indicano l’assoluta necessità di avviare alcune sessioni di attività fisica aerobica.

Dottoressa Steiner Dottoressa Steiner Dottoressa Steiner! La vocina digitale mi tormenta, mi segue anche in bagno, vive nelle pareti, striscia sul pavi-mento.

Ieri sono fuggita nella mia automobile, per dedicarmi là dentro al far niente, e quella passando dall’autoradio mi ha proposto di ascoltare almeno un po’ di musica, giusto per usare il tempo in modo produttivo. Così ha riempito l’abitacolo d’una polka insopportabile, realizzata da qualche improbabile pianista digitale.

La nostra guerra continua da un paio di settimane; da quando ho preso ferie, e invece di partire per una meta turistica, seguire un corso di yoga on line, contattare tutti i conoscenti sui social per coltivare un po’ le relazioni, acquistare indumenti per la nuova stagione, leggere uno dei tanti roman-zi acquistati d’impulso, disattivare la cucina automatica per dedicarmi alla composizione di pietanze slow food ho preso questa decisione, di far niente.

È accaduto così: che una mattina mi sono svegliata e mi sono limitata a osservare il sole sorgere e farsi infine alto nel cielo, e mi è piaciuto. Ho

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consumato il mio pasto con calma, gustando ogni boccone, in assoluto silenzio. Ho guardato i mobili di casa, i suoi quadri, le lampade, i muri bianchi, senza pensare a nulla, col solo intento dello sguardo.

Un senso di pienezza mai provato mi ha illuminata. Ho fatto dell’inattività uno scopo da perseguire con la stessa diligenza

con cui per anni ho svolto il mio lavoro in ufficio, allevato figli, acquistato beni, amministrato crediti, accumulato conoscenze, curato il mio aspetto. Mi sono accorta di non essermi mai fermata, per almeno quarant’anni. Gli ultimi ricordi di questo godibile nulla risale all’infanzia, quando av-volta nella coperta di lana ero ancora capace di trascorrere qualche ora impegnata solo a percepirne il ruvido calore. Poi, tutta una lunga corsa riempita d’azioni e di scopi. Liberarmene è una gioia.

Però quella non vuole. Potrei disattivarla, ma ciò mi metterebbe nella condizione contradditoria di dover pulire i pavimenti, far la polvere e il bucato, prepararmi colazione, pranzo e cena, ordinare viveri e detersivi e sistemarli negli scaffali, tutte incombenze di cui si occupa per me. Di fatto, mi sarebbe a quel punto impossibile far niente.

Ho provato a ingannarla, aprendo un libro e fingendo concentrazio-ne, ma ha preso presto a tormentarmi: dottoressa Steiner, mi chiedo se si senta bene. Non sta girando la pagina da un’ora. Potrebbe essere opportuno che le misuri la pressione arteriosa?

La odio, perché mi impedisce la contemplazione del tramonto. Osteg-gia questo essere totalmente me stessa.

La mia ipotesi è che non mi permetta di dedicarmi all’ozio perché non implica consumi oltre quelli necessari. Così nelle ultime settimane ho ordinato un oggetto al giorno, a caso: un orologio, un rossetto, un abito nuovo, un diffusore di essenze, un tappeto, e via avanti così. Una teoria di fattorini, consegne, ricevute, pacchi e pacchetti, molti dei quali non ho nemmeno aperto. Tutta quell’inutile accozzaglia si è accumulata nel mio soggiorno, riempiendolo, inondandolo, straripando in bagno e in came-ra, sopra e sotto il letto.

Non c’è più spazio per me.

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Per qualche giorno quella ha taciuto e io, seppur immobile, sono stata libera.

Poi ha ricominciato, insaziabile: dottoressa Steiner, esprima il suo gradimen-to per l’articolo ricevuto lunedì. Dottoressa Steiner, esprima il suo gradimento per l’articolo ricevuto martedì. Dottoressa Steiner, dottoressa Steiner, dottoressa Stei-ner!

Ma non mi arrendo.Me ne sto qua, immobile, ricoperta di cose inutili.Perché fare niente è rivoluzionario.

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Simonetta Olivo è nata a Udine nel 1976. Vive a Trieste, dove lavora come psicologa in un servizio pubblico. A 40 anni ha cominciato a scrivere rac-conti di fantascienza. Col suo primo racconto, che nel maggio 2018 è stato pubblicato da Mondadori nella collana Urania, è stata finalista nella prima edizione del Premio Urania Short. I suoi racconti sono stati finalisti anche della XI e XII edizione del Premio Robot. È membro del Collettivo Italia-no Fantascienza, gruppo di scrittura con cui ha pubblicato come curatrice e autrice l’antologia Atterraggio In Italia (Delos Digital, febbraio 2019). Ha partecipato a un progetto di micronarrativa tradotta in inglese con Specu-lative Fiction in Translation: quattro sue microstorie sono state selezionate da Word Withouth Borders e pubblicate nel maggio 2019 con il titolo di Microverses. Nella collana Robotica.it di Delos Digital ha pubblicato le rac-colte di racconti Fantafiabe (novembre 2018) e Insogno (luglio 2019). Nel novembre del 2019 ha pubblicato il racconto Tertium sulla rivista Robot (Delosbooks).

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EFFETTO BANANA

di Fabio Aloisio

Comelieri era un ricercatore tutto genio e sregolatezza; mi aveva invitato nel suo laboratorio per esporre una nuova scoperta.

Eravamo in una stanza piena di strumentazioni. Tirò fuori una bana-na da un sacchetto e la depose su un tavolino, nel centro della sala.

− La mia colazione − spiegò.− Mi hai portato qui per mostrarmi cosa mangi di mattina?− No, rettore. Si tratta di… viaggi temporali nel futuro. Ora farò an-

dare la banana avanti nel tempo di un milionesimo di secondo.− Addirittura un milionesimo! − replicai sarcastico.− Aumenterò la durata: facciamo un decimo? − disse lui scocciato.Poi armeggiò sugli strumenti e infine uscì dalla stanza per cinque mi-

nuti.− Per arrivare ad un decimo di secondo ho bisogno di più energia del

solito – si giustificò al ritorno – Ho dovuto togliere corrente a gran parte dell’Università.

Quando le macchine smisero di ronzare, la banana sparì.− Dov’è finita? – domandai.− Ho sbagliato i calcoli? − si accigliò Comelieri, poi si diresse verso il

PC.Strabuzzai gli occhi: tre quarti di banana gli uscivano dalla schiena,

all’altezza delle scapole.− L’ho trovata − gli dissi tremando.− Oh, è tornata…ehi, ma non c’è sul tavolino!

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− Toccati la.. la spallaComelieri si tastò ed emise un grido.− È fantastico! Un effetto non previsto: un effetto banana! − Si grattò

il mento con indice e pollice, pensando.− Ma certo! − esclamò. – Che banalità! Ho spostato un oggetto rispet-

to ad un riferimento nel tempo, ma non nello spazio. La Terra, e quindi anche noi, si è mossa nel frattempo, il frutto no. Con i soliti viaggi di un milionesimo di secondo non vi sono spostamenti evidenti, ma aumentan-do la durata, noi ci siamo spostati un poco…quel che bastava perché la banana mi si incastrasse in schiena.

− Che ne dici di andare in ospedale, adesso?− Certo − rispose in tono assente, poi si portò una mano dietro la

spalla, strappò il frutto a metà e cominciò a mangiarselo.Corsi in bagno a vomitare.− Ehi! − mi urlò. − La prossima volta tolgo la buccia, non volevo ur-

tare la tua sensibilità!

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Fabio Aloisio, classe ’84, è nato e lavora a Trieste come ingegnere. Come scrittore ha partecipato ad antologie pubblicate da Delos Books, tra cui Atterraggio in Italia, e Lethal Books (Penisolatomica) ed è presente coi suoi racconti sulla rivista Robot, WMI e Delos Science Fiction. Il suo racconto Mercy compare in appendice al volume Urania n.1672 – Le ombre di Morje-grad. È stato finalista ai premi Robot 2018 e Urania Short 2017, è di nuo-vo in finale al premio Urania Short 2019. Fa parte del collettivo italiano fantascienza (CIF).

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I MONDI DI NESSUNO

di Roberto Furlani

Il tuono aveva spezzato le reni alla Jachin Star.Il veicolo in avaria era precipitato rovinosamente sul suolo di Dome-

ras, da dove non sarebbe ripartito mai.Il terrestre aveva impiegato qualche minuto per rendersi conto di es-

sere appena sopravvissuto per miracolo alla collisione, poi si era girato verso il compagno, riverso con la testa contro il pannello dei comandi del-la Jachin Star.

– Fratello – aveva esclamato. Niente da fare, l’impatto gli era stato fa-tale. – Fratello…

Il superstite aveva afferrato il fucile a pressione acustica ed era sgu-sciato faticosamente fuori dal relitto: era ferito, aveva un taglio sull’arcata sopracciliare e probabilmente una tibia lussata.

Ma non aveva potuto permettersi di riposare: presto i Germi che ave-vano abbattuto il suo velivolo sarebbero arrivati lì per portare a termine ciò che avevano cominciato.

I Germi, già: gli abitanti autoctoni di Domeras. Abitanti, non popola-zione.

Nel Trattato Internazionale della Colonizzazione Extrasolare era stato sancito che i Terrestri non avrebbero mai invaso pianeti popolati da specie intelligenti, al fine di risparmiare inauditi soprusi ad altre razze senzienti e, soprattutto, di evitare guerre dalle proporzioni colossali.

Ma i Germi non erano un popolo: la loro stirpe si snocciolava in nuclei di civiltà barbara di stampo tribale, con un tessuto sociale molto limitato.

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Quello, dunque, era un mondo nullius, un mondo di nessuno, e come tale poteva essere colonizzato.

Era il pianeta promesso, quello che l’Universo aveva consegnato agli orfani di una Terra divenuta inospitale.

L’uomo stava zoppicando da due giorni terrestri in una selva boschiva simile a una foresta pluviale: doveva raggiungere un avamposto dei colo-ni prima che qualche soldato nemico lo individuasse. Stelle aliene a indi-cargli la via.

Sentì uno strano brusio che per qualche ragione lo attirò. Si avvicinò, facendosi largo tra la vegetazione, e quello che vide lo lasciò senza fiato: giù, a valle di un pendio, c’era una gola scavata tra le rocce, ed era piena di Germi.

Non dieci o venti, erano centinaia. Si nutrivano, mercanteggiavano, giocavano, copulavano.

Quella non era una nidata: era una città.Il terrestre si affrettò ad abbandonare quella vista, tornò sui suoi passi

e riprese il proprio cammino.Ora sapeva dove avrebbero dovuto colpire.

* Racconto selezionato da Writers Magazine Italia per la pubblicazione nell’antologia Il magazzino dei mondi 2.

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Roberto Furlani è nato nel 1982 a Trieste, dove lavora come ingegnere elettronico. Con i suoi racconti è stato finalista o segnalato ai principali concorsi del settore, tra i quali il Premio Italia, il Premio Alien e il Premio Courmayeur. Ha pubblicato su numerose riviste nazionali, tra cui Delos Science Fiction, Futuro Europa e NeXT. Le sue storie sono inoltre appar-se su antologie pubblicate da varie case editrici, come Delos Books e Kip-ple. Nel 1999 ha fondato la storica rivista telematica Continuum, che ha curato fino al 2012 e su cui sono state pubblicate le maggiori firme della fantascienza italiana.

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LO SCRITTORE

di Fabio Calabrese

Il vecchio respirava a fatica, una sorta di sordo dolore chi si era solo in parte abituato, gli gravava sul petto. Sapeva che non c’era niente da fare. L’età, semplicemente l’età. Un essere umano non è fatto di acciaio, e a un certo punto, inevitabilmente, il suo organismo si logora. Il medico conti-nuava a dire:

– Oggi ti vedo bene, ti riprenderai presto.Ma l’uomo sapeva che si trattava di una pietosa bugia. Tutte le cose pri-

ma o poi devono finire, e presto sarebbe toccato a lui. Stranamente, l’idea della cessazione della sua esistenza non gli incuteva paura, e non provava neppure un senso di risentimento, solo una placida rassegnazione. Poteva ritenersi soddisfatto: aveva vissuto una vita lunga e piena, quasi sempre in salute, non gli erano mancate le soddisfazioni né gli interessi da coltivare, aveva impiegato bene il suo tempo.

– Annie – chiamò.– Si, caro, sono qui – rispose la moglie – Cosa posso fare per te?– Niente di speciale – rispose lui – Vorrei solo che mi tenessi la mano.La donna allungò il braccio verso il capezzale del letto, fino a stringere

la mano del marito.– Robert, Vanda, Edward.I tre figli risposero all’unisono. Robert, il maggiore, venne da pensa-

re al vecchio, era ormai sessantenne. Vanda, “la ragazza” aveva un paio di anni di meno, ed Edward, “il piccolino” aveva ormai anche lui varcato la soglia del mezzo secolo. Il marito di Vanda e la moglie di Edward non

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erano nella camera, erano di là in salotto a tenere a bada la turbolenta schiera dei nipoti.

Aveva una moglie devota con la quale aveva costruito un rapporto so-lido negli anni, tre splendidi figli che gli avevano dato molte soddisfazioni e qualche trascurabile grattacapo, e una congerie di nipoti vivaci e schia-mazzanti che contribuivano a tenerlo in attivo dopo il pensionamento, e a farlo sentire vivo.

Per molti anni l’uomo aveva lavorato in un ufficio governativo dove era entrato dopo poco aver completato gli studi. Col tempo aveva fatto carrie-ra, non una di quelle carriere esaltanti e fulminee, ma una progressione solida nelle responsabilità e anche nei miglioramenti economici, nel corso della quale non gli erano mancate né la stima dei superiori né l’amicizia dei colleghi.

La fonte principale della stima che aveva ricevuto, anche se non delle soddisfazioni economiche, però derivava da un’altra fonte, la sua attività di scrittore, di scrittore di fantascienza per la precisione.

Ricordava come era cominciato tutto, in una maniera per la verità al-quanto singolare: tanti anni prima, si era trovato nella casa dei nonni in vacanza, e rovistando fra le vecchie cose in soffitta, aveva trovato dentro un baule un quaderno le cui pagine erano scritte con la grafia corsiva ele-gante di epoche passate, aveva l’apparenza di un diario, ma la storia che raccontava era davvero singolare.

Narrava di una spaventosa epidemia che anni prima avrebbe falcidia-to la razza umana, riducendo l’umanità da miliardi di persone che popo-lavano il pianeta, a un gruppo sparuto di superstiti.

Ricordava di aver sbattuto le palpebre per l’incredulità: quella storia non corrispondeva per nulla a ciò che vedeva intorno a sé; poi capì, o gli parve di aver capito: suo nonno o chiunque fosse stato l’autore del diario, aveva voluto probabilmente scrivere un romanzo fantastico.

Si era immerso nella lettura della storia e ne era rimasto affascinato. I pochi superstiti si erano ritrovati a vivere in un’atmosfera di disfacimen-to e di decadenza, al punto tale che fra molti di loro, incapaci di vivere in un mondo così desolato, si erano verificati diversi casi di suicidio. Qual-

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cuno a questo punto aveva avuto un’idea brillante: era stato costruito un super-computer che proiettava in tutto il mondo una realtà fatta di olo-grammi che lo ripopolava di oggetti, animali, piante, persone, soprattutto persone, simulando il mondo che esisteva prima dell’epidemia.

In quel momento sentì una punta di scetticismo. Una storia del genere aveva qualche elemento di verosimiglianza, si poteva davvero scambiare un ologramma per un oggetto o, a maggior ragione una persona reale? Beh, qui l’ignoto autore aveva mostrato una punta di genialità.

Gli oggetti che noi riteniamo solidi, spiegava, sono in realtà compo-sti in grandissima parte di vuoto, vuoto fra le molecole, fra gli atomi e, all’interno di essi, fra il nucleo e gli elettroni che li compongono. Ciò che ci dà l’impressione della solidità e l’impenetrabilità dei corpi, è solo una questione di repulsione elettrostatica. Ottenere lo stesso effetto con degli ologrammi non presentava particolari difficoltà.

Il computer era anche abbastanza potente e complesso da controllare il comportamento di miliardi di simulazioni olografiche in modo che non vi fosse una differenza riscontrabile con quello dei veri esseri umani. In questo modo, la riproduzione del mondo che era stato, si era sostituita alla tragica realtà.

Lo sconosciuto autore però avvertiva: la fine dell’umanità era solo rin-viata: se un uomo o una donna senza saperlo si accoppiavano con una si-mulazione olografica, da un simile rapporto non potevano nascere figli, al massimo il computer poteva generare delle simulazioni olografiche che sarebbero passate per figli della coppia, modificandole nel tempo in modo da simulare la crescita di un essere umano. Allo stesso modo, poteva pro-durre in una donna la simulazione dei sintomi della gravidanza. In prati-ca con questo programma, invece di una fine in tempi brevi in un mondo atroce e squallido, spiegava l’autore, la nostra specie aveva scelto una più lunga, inconsapevole, serena agonia.

La trama della storia gli era parsa ottima, avvincente; con pochi ritoc-chi per renderla più letteraria, ne sarebbe venuto fuori uno splendido ro-manzo di fantascienza, e così fece, poi mandò il testo a un editore specia-lizzato. Il romanzo fu pubblicato ed ebbe un discreto successo. Si sentì in

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colpa, perché si rendeva conto di aver commesso tutto sommato un pla-gio, anche se altrimenti quella bella trama sarebbe rimasta forse per sem-pre ad ammuffire nel fondo di un baule, così iniziò a scrivere altre storie, romanzi e racconti che furono più o meno tutti regolarmente pubblicati.

Cominciò a farsi un nome, ricevette diversi premi, fu ospite d’onore a diverse conventions di fantascienza, comparve più di una volta in televi-sione, concesse interviste, firmò autografi.

Ogni tanto lo tormentava un dubbio: e se quello che aveva scritto fosse stato semplicemente reale? Se quel che aveva trovato in quel vecchio bau-le fosse stato davvero un diario col resoconto di eventi passati di cui si era voluta cancellare la memoria?

In fondo, si chiedeva, incontrando una qualsiasi persona, come faccia-mo a sapere se dietro la sua fronte c’è davvero una soggettività simile alla nostra, o invece solo il programma di un computer in grado di far repli-care a quella simulazione i comportamenti umani?

Ma un conto sono i dubbi metafisici, e un altro conto è la vita concreta, una vita che procedeva serena e regolare, e che era stata ricca e longeva.

Si rivolse alla moglie.– Mia cara – disse– ti prego, fai entrare tutti!Annie chiamò dentro la stanza il genero, la nuora e i nipoti.Il vecchio passò lo sguardo in giro, abbracciando con esso tutti quanti.– Miei cari – disse – vi voglio bene.Poi chiuse gli occhi abbandonando la testa sul guanciale e lasciandosi

andare.Il computer centrale prese una decisione: ora che l’ultimo essere uma-

no era morto, il programma non serviva più.Di colpo, miliardi di simulazioni di esseri umani scomparvero, lascian-

do un pianeta deserto e silenzioso.

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Fabio Calabrese, nato a Trieste il 12 novembre 1952, laureato in filoso-fia, docente di scuola superiore, coniugato, due figlie. Scrive narrativa e saggistica di fantascienza da moltissimi anni. Negli anni ’70 ha dato vita assieme a Giuseppe Lippi alla fanzine Il Re in giallo, nel 2000 assieme a Roberto Furlani alla webzine Continuum. Ha pubblicato racconti e arti-coli su quasi tutte le riviste professionali, amatoriali e on line del settore. Ha all’attivo tre romanzi: La spada di Dunnland, Uomini e sauri e L’orizzonte di cristallo. Quest’ultimo è stato finalista al premio Urania nel 2015, più svariate antologie personali. Ha collaborato alla stesura dei due diziona-ri del mondo di Tolkien, quello Rusconi del 1999 e quello Bompiani del 2003. Ha pubblicato all’estero sulle riviste Foundation (Gran Bretagna), Fantaztyka (Polonia), Galaxies (Francia).

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CAPO IN B

di Zeno Saracino

Hashtur rovistava nella spazzatura con il tentacolo destro, mentre il sini-stro grattava la palpebra dell’unico occhio nella protuberanza del capo. Liberò dalla polvere un pezzo di lamiera rosso, triangolare, ricoperto di ruggine: il grande occhio di Hashtur lacrimò nel mettere a fuoco le paro-le sul cartello.

– STOP –

La bocca, collocata nell’inguine, pronunciò l’arcana parola con suoni gutturali.

Hashtur si domandò, mentre continuava a strofinarsi la palpebra, qua-le significato avesse potuto avere quel misterioso oggetto. Uno strumento cerimoniale, forse? Osservò i contorni del cartello.

La forma triangolare echeggiava un significato nascosto, carico di mi-naccia, e altrettanto quel colore bianco su sfondo rosso, così vibrante no-nostante i secoli. I resti di un’asta grigia, un tempo fissata nel cemento, protrudevano dalla lamiera.

– Adad! –

Si girò verso il compagno, gracidando dal ventre.Adad rispose al saluto agitando entrambi i tentacoli.Ancora un ragazzo, si rimproverò Hashtur, appena cent’anni di età.

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Si trascinava con il corpo oblungo, dalla forma di una lumaca abissale, recante i colori biancastri della giovinezza. La bocca inguinale digrignò una triplice corona di denti a rostro, quando iniziò ad arrampicarsi sul cumulo di rottami. Le ventose dei tentacoli aderivano con soffici plop alle macerie. Intanto, il grande occhio di Hashtur ruotava a trecentosessanta, contemplando il paesaggio.

Una landa desolata, pensò, ma non priva di bellezza.Un mare di rifiuti si estendeva all’orizzonte: dalle profondità sottoma-

rine colme di barili tossici, correnti di tegole e legname nuotavano verso la superficie, spumeggiando con creste di rigonfi sacchi di plastica. La fu-soliera malridotta di un Airbus A430 affogava nel ciarpame, le ali spezza-te. Qua e là scogli e isole di cemento affioravano nel mare di spazzatura: ciclopici macigni, barriere coralline di stracci e cavi elettrici, scheletriche ossa di ferro con ancora una carne di calcinacci.

Il corpo di Hashtur si gonfiò dalla contentezza, di fronte a quello spet-tacolo: la pupilla nera dell’occhio si dilatava e restringeva man mano che zoomava su ogni singolo particolare. I lineamenti irriconoscibili, cancella-ti fino a raggiungere un’impossibile levigatezza, di due figure umanoidi, abbattute a fianco di una struttura a ogiva, che Hashtur riconobbe come una campana. Una fila di panchine di ferro, contorte e fuse, spiaggiate ai piedi della collina dove si trovava. Le ossa degli antichi occupanti ancora brillavano, incastonate da un inconcepibile calore nella struttura stessa dei manufatti. Hashtur guardò ancora, sollevando la protuberanza del capo fino all’orizzonte lontano.

Il mare di ciarpame si asciugava diversi chilometri avanti, divorato da una sabbia cristallina, dalla consistenza del vetro. Un pavimento di mat-toni boccheggiava nella sabbia, proteso verso l’esterno. La chierica di una bitta, di ottone lucido, rifletteva la luce della stella.

Sole, rimembrò Hashtur, qui lo chiamano Sole. Non di meno, concesse, quella sorta di approdo proteso verso il deserto, un molo quasi, così lun-go e solitario, era qualcosa d’inedito, pure in quell’infernale collezione di anticaglie. Audace, niente da dire, concesse Hashtur.

Un ansito e il risucchio di un tentacolo che si staccava dal cemento an-

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nunciarono l’arrivo di Adad. Aveva l’occhio socchiuso, costellato di stria-ture rosse.

– Allora? – mugugnò – Ci è rimasto poco tempo a disposizione, come sai bene. I Padroni vogliono una risposta e subito.

Hashtur curvò la protuberanza e con una lenta torsione afferrò con i due tentacoli un oggetto rotondo, dalle dimensioni di un palloncino. La bocca di Adad esalò un sospiro, mentre l’occhio si colorava di stupore.

– È meraviglioso – balbettò – Non sapevo potesse esistere qualcosa d’u-na simile bellezza.

– Tanto bello quanto prezioso – concordò Hashtur. Alzò l’oggetto a li-vello dell’occhio.

I denti ghignanti di un teschio ricambiarono spenti lo sguardo di Ha-shtur. Questi contemplò il giallo dell’avorio e gli occhi putridi dello sche-letro, prima di riporre il reperto dentro una scarsella legata alla cinta.

– Siamo sulla strada giusta – sottolineò, indicando il cartello. – Ho an-che trovato quell’oggetto cerimoniale, senza dubbio parte del loro culto. Dobbiamo solo continuare a scavare.

Mentre Adad si arrabattava tra i rottami, Hashtur si concesse di con-trollare l’astronave. Aleggiava sopra il molo invaso dalla sabbia, la sago-ma luminescente nella forma di una balena. I microrganismi responsabili dell’energia nucleare della nave emanavano un impercettibile brillio, re-minescente di un miraggio. Hashtur sentì qualcosa sfrecciargli davanti, si piegò di scatto: uno dei tentacoli saettò in avanti, stringendo per la collot-tola un animale ringhiante. Era tutto un batuffolo: una coda serpeggiava avanti e indietro, degli unghioni e due triangolini a mo’ di orecchie. In mezzo a tutti quei magnifici rottami, contaminati e morti da secoli, quel-

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la presenza viva disgustava profondamente Hashtur. Contaminava, con la sua vitalità selvaggia, la purezza artificiale del luogo. Con uno schiocco come di un elastico che si rompe, mutilò in due il gatto selvatico, ne afferrò la testa dagli occhietti che ancora sbattevano e la divorò in un sol boccone. Secoli di contaminazione radioattiva e ancora così tanta vita, così tanta natura… deprimente, pensò, consolandosi con il ruminare degli ossicini del micio.

Il rimbombo di un tuono, lo stridio di una tonnellata di sassi in movi-mento e infine un urlo sottile: Hastur si voltò, solo per vedere Adad scivo-lare strillando in un crepaccio. Le grida del giovane perforarono le mem-brane acustiche di Hashtur, mentre si avvicinava con cautela alla fossa che si era spalancata nella collina. Un cartellone di diversi metri, raffigurante una figura umanoide che trangugiava una sostanza, giaceva in un angolo. Hashtur la guardò sbattendo l’occhio, riconoscendovi un’altra sacra icona. Un rituale di morte, forse, suggellato da quel “Coca Cola” inciso a lettere gigantesche. Probabilmente l’umanoide beveva il sangue dei suoi nemici nelle speciali occasioni, per assimilarne la potenza. Un avviso, ignorato dall’incauto Adad.

Svelato dal cartellone, un pavimento di vetro, ora infranto. Un pozzo di cartacce e sacchi di plastica si spalancava nel fianco della collina, scen-dendo nelle profondità di quel mare di spazzatura. Hashtur sospirò, scuo-tendo la protuberanza, poi afferrò dalla scarsella un organismo-torcia, lo strizzò per farlo impaurire e fargli secernere la luminescenza necessaria. Lo gettò nel pozzo, guardando la luce penetrare l’oscurità sottostante. Le pareti del pozzo sembravano solide e il fondo non era troppo distante, a giudicare dai singhiozzi ingrati di Adad.

Un tentacolo alla volta, Hashtur discese nell’oscurità.Una fanghiglia terrosa caratterizzava il fondo del pozzo. Hashtur striz-

zò un altro organismo-torcia, prima di fargli mordere la sua spalla, affinché funzionasse da illuminazione portatile e gli lasciasse liberi i tentacoli. A di-verse decine di metri dalla superficie, il pozzo rivelava un rozzo edificio di pietra. Hashtur si guardò intorno: bacheche di legno, con i vetri infranti, un mobile di plastica ingombro di carta e una tinozza piena di terra. Ha-shtur si avvicinò prima alle bacheche, ammirando all’interno una serie di

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oggetti di legno e ferro. Mazze e spade, lesse da un cartiglio della bache-ca. Erano molto belle, rimuginò, anche se non riusciva a comprenderne l’utilità. Strumenti per mangiare o forse per riprodursi o addirittura per grattarsi la protuberanza. Innocui: poco, ma sicuro.

Il mobiletto di plastica aveva diversi cassetti. Ci armeggiò per qualche minuto, prima di farne scaturire un rivolo di carta. Erano pezzi di carta verdi, tutti eguali, con sopra un numero. Hashtur rinunciò a compren-derne l’utilizzo: sembravano buoni per la pulizia corporale, con il nume-ro corrispondente alla grandezza del pezzo. Cinquanta di quegli “euro” quando sei davvero sporco, venti quando hai meno da espellere e così via.

La tinozza era piena di terra e ospitava, coltivati in fila, diversi funghi luminescenti. Una paletta giaceva a lato della vasca, ancora fresca di terra. I funghi erano cresciuti da poco, osservo Hashtur. Qui ci vive ancora qual-cuno! E Adad, dov’è finito? Maledetto sciagurato…

Lo trovò accucciato dietro la carcassa di un’automobile.

– Tutto bene… Come diamine hai fatto…

Adad lo azzittì con un colpo di tentacolo, ne avvicinò la punta alla boc-ca. Indicò qualcosa dietro ad Hashtur, gesticolando. Hashtur si volse con lentezza deliberata. Sentiva la bocca digrignare e agitarsi, il corpo cambia-re colore dalla tensione. Hashtur represse il fremito nei tentacoli, sbatté la palpebra dell’occhio. Si preparò a fronteggiare il terrore assoluto che aveva cacciato Adad nelle tenebre.

E scoppiò a ridere, ogni tensione svanita.

– Hai paura di lui, Adad? Un essere così insignificante, così piccolo…

Hashtur riconobbe dal cranio il profilo di un umanoide: due occhi ca-tarrosi, quell’appendice chiamata naso, la bocca minuscola, il corpo sgra-ziato. Una gran massa di pelo copriva la faccia dell’essere, dai capelli alla barba, mentre un torace emaciato mascherava le ossa, protese sotto una pelle raggrinzita, colorata del rosso di ustioni cicatrizzate. Un lembo di

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tessuto copriva le terga, a cui seguivano gambe dalle ginocchia calcificate a causa dei calli e grossi piedi ritorti.

Hashtur osservò l’uomo avanzare gattoni, prima di accucciarsi e abba-iare una serie d’incomprensibili suoni. Le mani che si agitavano e i guaiti continui stremavano lo sguardo, osservò Hashtur, concedendo qualche punto al collega. Ma quella cosa chiamata “uomo” restava un affarino mi-nuscolo, neanche due metri di altezza rispetto ai suoi cinque. Un pove-ro essere, nemmeno in grado di cambiare il colore della pelle a seconda dell’emozione e del messaggio che voleva trasmettere. Probabilmente è pro-prio per questo motivo, meditò Hashtur, che sente il bisogno di parlare e gestico-lare così tanto.

Cosa diamine era quel gesto con l’indice della mano puntata verso la bocca?

Si avvicinò all’umanoide con movimenti lenti. La bocca era un baratro di gengive infiammate e monconi marci. Hashtur riconobbe dall’espe-rienza con i microrganismi sulla nave le ustioni derivanti dalle radiazioni nucleari, rimarginatosi dopo decenni.

Quel gesto… cosa accidenti desiderava quello stupido animale?Analizzò la tinozza e i resti dei funghi smangiati lungo il bordo. Ha-

shtur aprì allora la scarsella e pescò un altro piccolo organismo, model-lato a forma di cilindro. Lo massaggiò affinché secernesse il suo liquido, del quale assaggiò una sorsata rivitalizzante. L’offrì avvolto nel tentacolo all’uomo, che indietreggiò mugolando. Il selvaggio aveva gli occhi sbar-rati, le braccia incrociate sul petto: sbaglio qualcosa, rifletté Hashtur, non è questo il modo corretto.

Strisciò verso le bacheche, alla ricerca di un contenitore. Lesse dal car-tiglio: tazza di porcellana, era Ming. Massaggiò l’organismo fino a riempi-re la tazzina, la offrì all’uomo.

Quel barbaro animale gettò subito a terra la tazza, la infranse in mille pezzi! Quale spreco, sbraitò tra se e se Hashtur, tutto quel liquido l’avreb-be come minimo tenuto sveglio un’intera notte. Il meglio delle sue scorte, nientemeno.

L’umanoide continuava a gesticolare, con quell’indice puntato verso la

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bocca e quel mugolio continuo. Hashtur provò un’altra tazzina, solo per vederla infranta. Tentò una tazza grande, una tazzina piccola, una tazza di colore diverso, una tazza di plastica dal mobile…

Un servizio da te giaceva distrutto sul pavimento. Hashtur brontolò, valutò se spaccare il collo all’uomo. Adad gli picchiettò sulla protuberanza con un tentacolo, gli porse un nuovo contenitore. Era simile alle “tazzine”, ma dalla forma semplice: un cilindro corto e basso, composto di vetro. Ci versò le ultime riserve della sostanza, riempiendolo fino all’orlo. L’anima-letto espulse fino all’ultima goccia il liquido nero pece, prima di secernere con le ultime forze uno strato bianco. Hashtur propose quella prelibatez-za all’uomo, sospirando.

Il selvaggio dilatò gli occhi, batté il palmo della mano contro il pugno, sorridendo. Si sedette a gambe incrociate, afferrò con mignolo sollevato il bicchiere e assaporò la bevanda. Si leccò i baffi, prima di riprendere a ge-sticolare e sbraitare. Indicava ora il bicchiere, ora Hashtur. Questi gemet-te, non la smette proprio mai di parlare! e scosse la protuberanza, mostrando il piccolo organismo svuotato.

– Basta, basta! Non abbiamo altro liquido, ci arrivi o no? Niente. Più. Liquido.

L’uomo continuava a indicare il bicchiere e accompagnava il gesto con tre parole. Hashtur si lambiccò la protuberanza, cercando di ricordare lingua e dialetti della razza umana, relativamente all’area dove si trovava. Riconobbe dopo qualche minuto la sillaba “B”.

Senza dubbio, rifletté, vuole trasmettermi un profondo ragionamento: un mes-saggio di pace, di fratellanza, di riconoscenza…

Adad era A, Hashtur era B. Quell’umano forse contava tramite l’alfa-beto. Dopo mezz’ora e un lungo colloquio con Adad, Hashtur riconobbe la seconda parola, “Capo”. Capo come guida, padrone, essere superiore: quell’animale non poteva che riferirsi a lui, Hashtur. Quindi, ricapitolan-do: Hashtur era sceso nel pozzo subito dopo Adad ed era pertanto “B”, ma era anche il padrone, il “Capo”. Hashtur: “Capo in B”. Gonfiò il cor-

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paccione, lusingato dal complimento.Questo significa che non solo quest’umano è vivo e vegeto – ragionò

Hashtur – ma persino nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e lingui-stiche, con tanto di lingua e dialetto della zona pienamente conservatesi dopo così tanti decenni di bombardamento radioattivo. In altre parole, qualcuno ancora abita questo colle e questo mare di spazzatura e infesta, come quell’animale catturato all’aperto, la bellezza sterile del paesaggio.

Afferrò come Adad dalla scarsella dell’altro cibo e liquido, che lasciò ai piedi dell’uomo, affinché non li disturbasse nella risalita e se ne restasse nel suo buco. Sulla cima del colle, Hashtur assaporò il vento denso di li-quami, prima d’iniziare la lenta discesa verso l’astronave.

Hashtur si sentiva la protuberanza leggera e colorò il corpaccione di rosso dalla soddisfazione. Frugò nella scarsella fino a rinvenire un altro piccolo organismo dalla forma arcuata: dopo averlo strofinato alla testa, lo convinse ad allungare un’antenna.

Lo accostò alle membrane acustiche, controllò la ricezione.

– Pronto, pronto, mi senti? La ricerca è finita, prepa-ra i motori. Io e Adad abbiamo verificato la presenza di esseri viventi e persino di un essere umano, ancora fermo alla famiglia sapiens sapiens. Sì, hai capito bene, ancora in grado di parlare e ragionare. Gli abbiamo lasciato del cibo. Pienamente d’accordo: un bombar-damento planetario non è bastato, o tre testate nucle-ari su larga scala per cancellarne la presenza. Sono re-sistenti, questi umani. Un altro paio di secoli e forse si decideranno ad estinguersi.

Hashtur accarezzò il cranio d’uomo nella scarsella, prima di dirigersi ver-so la rampa dell’astronave.

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Zeno Saracino è nato a Trieste nel 1992.Ha iniziato lo studio della storia locale all’Università di Trieste con una tesi triennale sulla rivoluzione del 1848 a Gorizia e ha approfondito la pas-sione per la Mitteleuropa con una tesi magistrale in Storia dell’ebraismo sulla vita a Vienna dell’intellettuale Filippo Zamboni.Negli anni ha lavorato con Italia Nostra nella salvaguardia del patrimonio di archeologia industriale del Porto Vecchio di Trieste. Collabora con le case editrici Watson Edizioni e Lettere Elettriche, mentre a livello giorna-listico scrive per la testata Trieste All News.Ha pubblicato nel 2018 il saggio Trieste Asburgica: l’arte al servizio dell’indu-stria con centoParole edizioni. Lo studio della tesi magistrale è poi sfocia-to nel saggio Filippo Zamboni: un repubblicano in Austria-Ungheria edito da Quaderni Giuliani di Storia.

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IL MURO, UNA STORIA DI VIAGGI

di Gianfranco Sherwood

Il vecchio trovò Traxhil sulla sponda del ruscello, intento a lavarsi il corpo massiccio.

– È tutto sangue vahazal? – chiese al ragazzo.– Di quei ladri di polli? Sì – rise Traxhil.– Dici così, ma prima che vi addestrassi alle armi…Dal villaggio giunsero urla: i contadini avevano finito di ammucchiare

sulle pire i corpi dei predoni e ora toccava alle donne mutilare i prigionie-ri.

– Torneranno? – fece Traxhil.– Come il sole cala dietro il Muro. A nessuno è dato mutare destino –

disse il vecchio fissando la linea nera che chiudeva l’orizzonte. – Tienilo a mente: a nessuno, mai.

Era tempo di raccolto quando venne il reclutatore imperiale. A nord in-combevano i barbari e l’esercito aveva fame di braccia, ma la nomea bel-licosa del villaggio sconsigliava arruolamenti forzati. L’ufficiale cavalcava dunque tra gli uomini intenti a mietere il grano e, quando vedeva un gio-vane dal fisico adatto, lo invitava a marciare sotto le insegne del drago. Ma lo scrivano al suo seguito aveva annotato solo un paio di nomi, figli di famiglie con troppe bocche da sfamare.

Poi l’ufficiale notò la possanza di Traxhil.– Tu. Che vuoi farne dei tuoi anni migliori? Restare con i piedi nel le-

tame o vivere la gloria?

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Traxhil si deterse il sudore con l’avambraccio. – Né l’uno né l’altro, si-gnore. Diventerò ricco.

L’ufficiale si accigliò. – Chi prende la via del brigante ottiene solo il pa-tibolo.

– Non pensavo a quello.– Ah! Un altro sciocco che s’illude di trovare il tesoro nel Muro. Rim-

piangerai di non esserti arruolato.Traxhil raccolse il falcetto e non gli badò più.Procedeva sicuro, i mannelli alle sue spalle ben legati e accatastati. Ma

lo sguardo tornava su ciò che gli occupava la mente: l’infinita linea del Muro.

Una sera di primavera Traxhil mise in una sacca pochi averi. Suo padre gli diede un cavallo e delle provviste, la sua parte d’eredità, disse. Sua ma-dre lo salutò a ciglio asciutto. Tutti sapevano che non si sarebbero rivisti.

Ai bordi del villaggio sostava il vecchio. Traxhil tirò le redini. – Che vuoi? chiese.

– Ho qualcosa da darti.Il ragazzo svolse il fagotto. Conteneva una spada d’acciaio, una cotta di

metallo e cuoio, un arco di frassino.– Perché non mi dici anche ciò che sai? – chiese.– Del tesoro? Ne so quanto te.– Menti. Ma io l’avrò. A qualunque costo.– Sì, ora dici così. Ma sai che ti aspetta?Traxhil sogghignò, spronando il cavallo, la mente già volta alla strada

per il Muro. Ma quando il villaggio fu solo un’ombra confusa nel crepu-scolo, si voltò d’istinto. Sentiva che il vecchio era ancora là, intento a fis-sarlo.

In cima alla collina, fermò il cavallo. Vedeva un’oasi rigogliosa ai margini del deserto di sassi. A nord, le vampe di calore confondevano le lontane mura di una città. Attese, passandosi la mano sulla barba nera e sulla cica-trice che gli solcava la fronte.

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Arrivò il capo della carovana. – Che c’è, Traxhil? – chiese.– Troppa quiete, Harp. Aspettiamo. Col buio andrò a vedere com’è

davvero.– Sei pagato per proteggermi non per dirmi cosa fare– replicò l’altro.

– In quella città c’è un presidio, di che hai paura?– Vi guarderò le spalle» concluse Traxhil impugnando l’arco.L’armò, mentre la carovana svaniva nell’oasi. Si udirono strepiti e urla.

Apparve Harp, galoppando a spron battuto, seguito da predoni nero ve-stiti. Quando furono a tiro, Traxhil scagliò tre frecce. Altrettanti cavalli rimasero senza cavaliere e i banditi tornarono nell’oasi.

Harp scivolò a terra. Aveva una gamba squarciata. Traxhil l’esaminò.– L’arteria è intatta – disse. – Ma l’osso è rotto.– Non sto in sella. Portami in quella città. Mi cureranno.– Io vado a occidente. Sapevi che sarei stato con te solo se le nostre

strade coincidevano.– Ti farò ricco!– Vieni con me. Arriveremo nella città cui eri diretto.– A dieci giorni di cammino? Con questa gamba? Marcirà! Morirò!Traxhil alzò le spalle. – Ti lascio dell’acqua. Addio.Allontanandosi, udiva le suppliche del mercante. Ma lui fissava il Muro,

ora ben distinguibile sotto il cielo cobalto.

Nelle ultime stagioni, mentre città e villaggi si diradavano e i suoi capelli s’ingrigivano, Traxhil aveva notato altri diretti a occidente, solitari anch’es-si. E forse il suo sguardo era altrettanto folle. Ora il Muro lo sovrastava, le immense pietre squadrate sovrapposte, alte e lisce a perdita d’occhio. Arrivò al Varco. Caotica e lercia, una città era sorta accanto alla fenditura. L’abitavano puttane, venditori di mappe, indovini, preti untuosi. Perché il Muro attirava la feccia come la fiamma la falena. Traxhil girò nei vicoli, ignorando trafficanti di corpi e ciarpame, attento alle insegne. Scelse la bottega di un vecchio dagli occhi astuti.

– Che vuoi? Armi, cibo, la mappa del tesoro?

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– Cibo. E informazioni – rispose Traxhil, posando una borsa d’oro. – Chi ha fatto il Muro?

– Per i preti, gli dei hanno sistemato così le pietre avanzate dalla cre-azione del mondo. Ci credi? Neanch’io. Però è un gran lavoro. Tranne il Varco, tra le pietre non passa un capello.

– E il tesoro?– Tanti lo cercano e pochi tornano, miseri e pazzi. Dentro il Muro trovi

solo i mostri che lo infestano.– Mostri… Voglio anche una pietra magica.– Tu lascerai le tue ossa più lontano di chiunque altro – rise il commer-

ciante.

Entrando nel Varco con mille altri, Traxhil decise di tenere conto dei gior-ni. Ma inoltratosi negli spazi tra le pietre, prima alla luce di torce, poi nel lucore di vaste fungaie, presto non seppe più quanto tempo fosse passato. I cercatori del tesoro si diradarono, ognuno scegliendo la propria strada agli infiniti bivi, secondo la mappa comprata in città. Lui cercava l’ovest, accertando la direzione con la pietra magica: una scheggia in una ciotola d’acqua, che indicava il nord. Poi non vide più nessuno. A tratti sentiva urla di cercatori impazziti per l’oppressione dei cunicoli e la fame. Anche le sue provviste si fecero scarse. Ridusse la razione a un boccone di carne secca. Per la sete, c’erano stille di un’acqua fredda e amara. Poi trovò uno scheletro. Mentre traeva dalla sacca del morto pezzi di galletta, notò le ossa abrase. E udì un rumore, rapido, secco. Colse occhi scarlatti, un bru-licare ossuto, zanne fameliche. Spalle al muro, mulinò la spada tra schizzi d’icore fetido. Saltò su un rialzo. Le creature s’inarcarono, ma gli artigli scivolavano sulla roccia. Si guardò attorno. C’erano passaggi a mezz’altez-za. Ma cosa li infestava?

Divenuto anche lui creatura dei cunicoli, percepiva il pericolo con nuovi sensi e quando la minaccia dei Molli era insostenibile, tornava tra le Zan-ne. La fame lo spinse a farsi predatore dei mostri, ma sempre avanzando. A tratti, ricordava una pietra che indicava la strada di un tesoro, forse solo

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un sogno. Perché la realtà era avanzare, uccidere, stare all’erta. Poi, una lama gli trapassò gli occhi. Cadde, le mani sul volto.

Aspettò la notte per guardarsi attorno. In alto, luci di cui aveva scordato l’esistenza; dietro, il Muro. Pianse rammentando le parole del reclutatore e il resto. Ma l’odore dell’erba lo rincuorò. Trovò della frutta. Dormì.

Il mattino s’incamminò, riparati gli occhi con uno straccio. Quando il dolore cessò, vide campi e alberi. Uccise una lepre con l’arco. Mentre l’arrostiva, venne un contadino. Traxhil si alzò per accoglierlo, ma l’altro fuggì urlando. Allora si specchiò in un ruscello e sorrise al mostro che lo fissava. Si lavò e rase col coltello. Poi, guardò a ovest. Ora, voleva fuggirlo, il Muro. Ma si sentiva stanco.

Proseguì, vivendo di caccia. Conobbe genti e ne imparò la lingua. Anche là c’era un impero e barbari a nord. E predoni. S’imbarcò su navi di mer-canti, viaggiando e viaggiando sinché la linea nera non svanì. Si mise allora in cerca di un luogo dove attendere che il resto del suo tempo si compisse. Un giorno attraversò un villaggio incendiato, vide cadaveri di contadini, donne sventrate e s’impietosì. Mentre meditava sulla crudele insensatezza del vivere, scorse a occidente una sottile striscia d’ombra: un altro Muro. Traxhil rise sino alle lacrime.

– Oh, dei che vi fate gioco degli uomini! Ora vi capisco!Sì, doveva insegnare a un villaggio l’uso delle armi. E forse avrebbe

dato la sua spada a un giovane ossessionato da un’illusione vana quanto quella che gli aveva consumato l’esistenza. Eppure… dopotutto, poteva anche darsi che un tesoro ci fosse davvero, celato tra le radici del mistero del mondo. E che a qualcuno toccasse scoprirlo. Così riflettendo, andò a compiere il proprio destino.

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Gianfranco Sherwood ha vinto il XII premio di letteratura fantastica, se-zione fiction di Courmayeur; il premio speciale della giuria del concorso Cosseria galattica 2000, il premio letterario 2001 dell’Editrice Nord, lo Sherlock Magazine Award 2004. Si è inoltre classificato terzo al Lovecraft 2000. I suoi libri sono pubblicati dalla Delos e dalla MGS Press. In gene-re, gli piace ridere e scherzare. Negli ultimi anni, quando non si dedica ai nipoti, riflette sugli ormai tanti decenni trascorsi quaggiù, cercando di trarne un senso. Per ora, non ha risolto granché, ma non dispera di farce-la, prima dell’Ultima Tappa. Se mai accadesse, si impegna a non tenere la cosa per sé. Tra l’altro, proprio di questo parla Il muro. Il racconto è tratto dalla Weird Anthology, edita dalla Delos.

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L’ULTIMA STANZA DEL MONDO

di Alex Tonelli

Quei viali di luceChe scorrevano tra le nuvole

Qualche attimo fa sono scomparsi,Ed improvviso è buio.

Mark Strand

La stanza è fiocamente illuminata. Un alone di luce si diffonde intorno alla lampadina sorretta da un filo nero e consumato che pende dal soffitto scrostato. Tutt’intorno il buio resiste e si annida tra gli oggetti, languendo placido negli spazi. A fatica si intravede un piccolo tavolo, basso e quadra-to, esattamente al di sotto della debole lampadina, nel centro della stanza, pare messo lì per un motivo, una ragione condivisa, ormai dimenticata. Sconosciuta.

Lì se ne stanno quattro bicchieri di forme e fattezze diverse, in alcuni pare ancora versato un liquido denso, colloso, di colore viola e intorno delle lattine e una bottiglia di vino senza etichetta. Un posacenere traboc-ca mozziconi di sigarette piegate e mezzofumate.

L’odore di birra, vino scadente e tabacco ristagna nell’aria e tocca la pelle quasi come una sensazione tattile, appiccicosa, unta.

Si ode un brusio, un bisbiglio, un parlottare fra sé e improvvisamente il rumore di un accendino che s’accende; la fiammella bluastra illumina le

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fattezze di un uomo per un breve istante, il naso, le labbra che stringono la sigaretta, i baffi cespugliosi, e poi lo sbotto di fumo, biancastro che sale, spiraleggiando, verso l’alto nell’alone sferico della lampadina accesa.

– Smettila di fumare.La voce femminile arriva dal lato opposto rispetto al punto rosso della

brace della sigaretta che in tutta risposta si fa più luminosa e una nuova, nebbiosa, ondata di fumo attraversa la sfera di luce, in onde che si inse-guono in spire ritorte.

– Sei uno stronzo!Nessuna risposta all’insulto e il silenzio torna a regnare nella stanza.

Il tempo sembra scorrere con una pigrizia strana, trascinando dietro di sé un ricordo, un passato pesante. Un macigno lungo una salita scoscesa.

Un raggio di luce fende l’aria, come una lama di luce, sottile. Pulviscoli di polvere ed altro danzano nello spicchio luminoso e sottile. Altri parti-colari della stanza si rivelano.

Intorno al tavolo, uno per ogni lato, se ne stanno quattro poltrone, così come i bicchieri anche queste sono scompaginate. Una di pelle strap-pata, l’altra di stoffa macchiata e un tempo rossa, un’altra ancora semplice struttura di legno senza più la morbida gommapiuma e infine una nuova, talmente nuova da aver ancora il cellophane ad avvolgerla e proteggerla. Su ognuna di queste se ne stanno sedute quattro figure; nella luce debo-le della sfera e della spada se ne colgono poche fattezze, forse sufficienti però per attribuire loro caratteri umani. Scomposte in pose disarticolate, gettate lì come manichini afflosciati, privi di ogni impudico esibizionismo.

– Un raggio di sole.Una delle quattro figure sembra un poco muoversi, agitarsi su di una

poltrona, quella nuova, ancora avvolta dalla guaina protettiva. La sua voce è carica di una tensione immotivata, come se temesse la daga di luce che da una finestra penetra nella stanza rovinando il delicato equilibrio dell’oscu-rità. La stessa figura alza una mano vero lo spicchio di luce, muove le dita all’interno del sottile strato luminoso, sfiorando i granelli di polvere che si muovono scomposti. Le dita sono sottili, femminili e, come la sua voce,

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con l’identica incomprensibile tensione. Uno spasmo improvviso l’attra-versa facendola tremare leggermente, sussultare nervosa. La pelle è chia-ra, se ne intuisce la morbidezza al tatto, la delicatezza del tocco, la capacità di trasmettere emozioni intense. La mano ruota nella luce: il palmo, poi il dorso e, qui, le macchie nere. Cicatrici, forse croste, di un nero intenso, come carne bruciata, cancerosa.

Uno scatto, la mano torna al sicuro nel buio.– Hai ancora quelle macchie.– Si. Sono sempre più grandi.– Ormai ti copriranno tutta.– Smettila di dirle queste cose!– Lo sai anche tu che è la verità. Ha la Malattia e non le resta molto

tempo.– Coglione!Due voci, crudeli che giocano fra di loro, a prevalere, a imporsi. Da un

lato la voce raschiante dell’uomo che fuma la sigaretta, dall’altro quella di un’altra donna, adulta, il cui tono è aspro, duro, quasi a rinnegare il tim-bro femminile e materno che ancora se ne coglie. In mezzo il gemito teso, tremolante, che viene dalla ragazza dalla mano macchiata, e, infine, un singhiozzo, un pianto sommesso, sussurrato.

– Smettetela! Entrambi.E ancora il silenzio cala sulla stanza. È vecchia l’ultima voce che ha par-

lato. Stanca ma ancora possente, il tono di chi è abituato a dare ordini, e soprattutto ad essere rispettato.

La stanza resta nel buio di un alone sferico e di una lama di sole e il tempo continua a scorrere pesante, trascinandosi le storie di tutti gli esseri umani che vivono quel presente. Sono le storie di quattro figure, silhouet-te d’ombra contro il nero dell’estinzione finale.

È la notte a scandire il passaggio da un giorno all’altro, ad indicare, come un ticchettio silenzioso, lo scorrere pigro dal passato al futuro, senza nep-pure giacere nel momento. Non vi è realtà nel presente della stanza e del-le quattro figure.

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Il buio è ora ovunque, scomparso il raggio di un sole ormai tramonta-to chissà dove, spento l’alone sferico di una lampadina consumata. Il nero si fa opprimente, avvolge gli oggetti e ogni cosa scompare. Resta solo il freddo di una notte d’autunno in una stanza senza nessun calore se non il respiro convulso di quattro figure. Neppure si scorgono le piccole nubi dei tiepidi aliti e il freddo sembra perdersi nel buio.

Nella stanza si odono i respiri regolari del sonno. Lenti, ritmati sospiri, profondi ansimi delle coscienze sprofondate e dormienti.

– Dormi?Nessuna risposta.La voce femminile, delicata esita. La parola sussurrata, quasi troncata

per non rompere il ritmo dei sospiri ma incapace di resistere alla curiosi-tà, alla paura del silenzio, all’orrore del vacuo.

– Dormi?Quanto coraggio per tentare di nuovo, per alzare il tono, per chiedere

e nel farlo pretendere.– Si.– Scusa. Non volevo svegliarti.– Non importa.L’altra voce femminile libera il tono materno, affettuoso, protettivo.

Scomparsa è la rabbia, la ferocia di prima, una madre ora al sicuro con i suoi cuccioli.

– Non riesco a dormire.– Neppure io.– Che senso ha dormire?– Abitudine.– Non ricordo neppure il tempo. Da quanto sono seduta su questa pol-

trona?– Dal mio stesso tempo.– E tu da quanto lo sei?Silenzio. Un attimo più lungo dei precedenti.– Non lo so.– Silenzio! Smettetela voi due. Lasciatemi dormire.

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La terza voce. Quasi richiamata nel buio, come un predatore, da un odore, da un sussurro o dal rumore di un gesto sbadato. Cattiva. Pronta a ferire col tono tagliente.

Si ode il solito suono, uno schiocco, la fiamma divampa e la brace si ac-cende. Un’altra sigaretta tributata al dio dell’insonnia. Nella stanza ormai è solo uno il respiro che lentamente pasce nei campi del sogno. Ignaro di una conversazione incomprensibile.

– Voi due donne fate discorsi senza senso.E la punta della sigaretta si illumina, un punto di luce rosso, violento,

rabbioso.– Rispondi tu allora. Da quanto tempo sei qui.– Cosa c’entra. Non importa il quanto. Ma il perché.– E tu le conosci le ragioni?– Certo. Io le conosco.– E quali sono?– Stiamo aspettando.– Cosa? Cosa stiamo aspettando qui, seduti su queste poltrone da così

tanto tempo da non ricordarlo neppure più?!– Aspettiamo.– Cosa?– Nulla. Non c’è nulla da aspettare. E ora chiudete il becco.Il punto rosso della brace compie un improvviso arco e con un leggero

sfrigolio si spegne per terra, forse in una pozza o forse in altro.Il silenzio ritorna. Un silenzio diverso. Rotto dal respiro lento e rego-

lare di una voce vecchia ma possente che resta, caparbiamente, zitta. E tre altre attendono. Aspettano una parola che quella notte non verrà.

Ogni mattino, in qualunque luogo del mondo, i rumori sono identici, si ripetono in un ciclo convulso e assordante, frenetici picchiettii, accelerate improvvise, sbadigli repressi e rotaie torchiate da ruote metalliche. Suo-ni riconosciuti, iscritti nello stesso muovere del tempo, come un sinfonico accompagnamento, o forse una trionfale marcia delle prime abbaglianti

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ore del giorno. Una stonata banda che pomposa annuncia l’arrivo del sole oltre le montagne là in fondo.

Non nella stanza. Lì, circondanti dalle pareti grigie di calcinacci senza intonaco, ogni mattino sono altre le note distorte che s’odono. E sono le striscianti voci, bisbiglianti e fastidiose, che accompagnano il feretro nero verso la sepoltura di ogni illusione.

– Basta! Non ne posso più.Uno sfogo ripetuto ogni singolo giorno, all’accendersi metodico della

lampadina e del suo alone opaco, ripetuto ancora all’arrivo del raggio del sole che fende l’aria e la polvere che vi ristagna.

Ma nessuno sembra ascoltare la lamentela. Né dentro la stanza, né fuo-ri la stanza.

– Voglio andarmene!È l’uomo delle sigarette a urlare la sua frustrazione. Intorno giace un

silenzio ovattato di indifferenza.– Fatemi uscire. Arrivate. Voglio andarmene!– E dove?L’altro uomo. Il vecchio. Poche sono le sue parole all’interno della stan-

za, ma pesanti come macigni condotti in cima ad un monte. Infinite volte.– Ovunque.– Non esiste un luogo simile.– Qualunque posto. Uno, dannazione!, va bene l’altro. Tutto ma non

qui.– Perché non qui?– Perché qui non vi è nulla. Sono rinchiuso con voi. Dentro queste

quattro mura.– E cosa ti angoscia di questo?– Loro! Io so che mi sentono. Mi vedono. Loro mi osservano. Stanno

aspettando. Arriveranno.– Chi sono Loro?– Non lo so. Cazzo! Non lo so. Ma so che apriranno al porta!– Quale porta?– Quella porta!

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Un gesto, deciso. Indica una direzione. Un punto preciso racchiuso dalle mura della stanza. Si voltano. Tutti gli sguardi seguono il dito teso, forse un po’ tremante, che indica. Là.

Gli occhi sono puntati. Si socchiudono nella speranza di mettere a fuo-co, di scorgere meglio. Di vedere. Ma là solo nero. Buio. Nessuna porta.

Il braccio teso si affloscia, cade pesantemente sul bracciolo della poltro-na, come esangue. E la voce rabbiosa si spegne in un’eco che si distorce.

– La porta. La porta. Là. Porta.– Deve esserci la porta!Voce di ragazza, in perenne bilico tra l’essere bambina e giovane don-

na. Decisa. Lei sa che nulla può essere così insensato da non poter essere compreso.

– Ogni stanza ha una porta! Anche questa deve averla. Siamo noi a non vederla. Solo per questo maledetto buio che ci avvolge.

Certezze. Certezze che ogni cosa nel mondo debba avere una sua ra-gione. E una sua sede.

Stranamente l’altra voce femminile materna tace, non supporta il pen-siero espresso. Come se fosse un bambinesco capriccio a cui non dar peso.

– No. Nessuna porta. Non vi sono vie d’uscita a questa stanza. Ciò che ci circonda è tutto ciò che per noi esiste. Non vi è un al di là, un oltre.

– E che ne sai tu?!!! Parli ora, ma cosa ne sai?!– Sono vecchio. Io ho vissuto tutta la mia vita dentro questa stanza e

so che ora che sto per morire non vi è nulla oltre. Se anche ci osservano, sono indifferenti alla nostra sorte.

– Come puoi esserne certo?L’altra voce femminile. Non c’è curiosità nella sua voce. Piuttosto c’è

paura. Paura della risposta che sa aver creato con quella domanda. Paura di conoscere già la risposta.

– Perché io ero qui quando voi siete arrivati…Silenzio.– Perché voi, come me, siete nati qui dentro.Silenzio.– E qui siete condannati.

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Silenzio.– A morirvi.

Le ore scorrono. L’una dopo l’altra. Meticolose. Puntuali, pignole. In ogni luogo esse eseguono il loro caparbio compito; artigiane laboriose, tessitrici instancabili della trama del tempo. Ma ogni ora è diversa, unicità irripeti-bile di un fenomeno di distorsione.

Ogni ora è difforme a se stessa infinte volte. Esiste miriadi di volte. Si ripete differentemente nei singoli soggetti che in essa vivono, nascono e muoiono.

Ogni ora si dilata, si restringe, trascorre in un veloce momento o in sta-si eterna. L’identica ora vive gli irriducibili universi delle creature viventi. E l’ora esiste solo in questa frammentazione di pulviscoli, di uomini. Solo in essi, solo nei viventi, l’ora, il tempo, trovano senso. Trovano esistenza.

Oggettività che esiste solo nel relativismo della singolarità. Paradosso. Ennesimo paradosso.

Quell’ora visse nei mondi distanti degli esseri nella stanza.– Laggiù!Un urlo improvviso. Rotta la sonnolenza della stanza, delle poltrone.

E le altre figure sedute s’agitano. È la donna ad urlare.– Laggiù!Sembra esserci follia nascosta nella sua voce. Come se avesse perso il

potere sui luoghi in cui la sua mente si spinge, trova rifugio. Come se fos-se sull’orlo della deriva.

– Laggiù!O forse v’è altro nel grido. Nascosto in fondo ad esso. Quasi camuffato.

Ma che si intuisce. Un pensiero molesto che emerge, che si tenta di scac-ciare. Vanamente.

– Laggiù!E se questo pensiero fosse la speranza? Speranza di dare senso. Di tro-

vare una ragione. Non sarebbe il più pericoloso tra i pensieri? Non sareb-be allora davvero bordo di follia?

– Laggiù!

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– Cosa?!!!– Cosa hai visto?– Dove?Le altre tre voci rispondono. Irata. Compassionevole. E pratica. Tutte

però in egual misura curiose.– Un’ombra! Si è mossa un’ombra laggiù!La luce riflessa dalla lampadina che pende malamente dal soffitto sem-

bra farsi più fioca. E il nero intorno più scuro, più opprimente. Neppure la daga di luce dalla finestra giunge a donare sollievo.

– Si. L’ho vista. Si è mossa. Si è spostata. Uno scatto. Ma l’ho vista.– Sono Loro! Ve l’avevo detto.– Stava venendo qui. Da noi? Cosa vuole?– Sei sicura?Ancora le tre voci. Medesimo l’ordine. Il fanatismo dell’uomo con la si-

garetta. Il terrore della ragazza. Il pragmatismo del vecchio. E a innescare le voci diverse l’incredulità della donna, che è costretta a credere a ciò che non vorrebbe credere. L’ombra. Nel nero.

– Stavo fissando il nulla. Stavo aspettando che l’ora passasse. E l’ho vi-sta. Un guizzo. Un pezzo di nero che s’è mosso nel buio dello sfondo.

– Ci osservano! Aspettano il momento. Sarò pronto. Che forma aveva?– Che forma aveva? Era cattiva? Perché è qui?– Che forma aveva? Cosa importa? Dove si è spostata?Domande. Il desiderio di conoscere. Di assoggettare alla propria men-

te e inglobare, dominare nel proprio mondo. Trasformare ciò che sta ol-tre, oscuro, in un pezzo del dominio, conquistarlo ed annetterlo al regno della propria conoscenza. Rendendolo innocuo.

È la donna a dover dare risposte che non ha a domande che vorrebbe essa stessa urlare.

– Non lo so. Era nero. Si è mosso, di là mi sembra. È stato un attimo.Senza conoscenza non vi è controllo. E ogni cosa resta semplicemente

pericolosa.– Manca poco! Me lo sento. Stanno arrivando! Mi libereranno.– Non voglio! Ho paura! Chi sono? Dove ci portano?

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– Da nessuna parte. Non ci porteranno da nessuna parte. Noi siamo indispensabili per loro.

Qualcosa attraversa la stanza, non un’ombra. Una sensazione. Un bri-vido che corre lungo le schiene delle poltrone. E di chi vi è seduto. Nelle parole del vecchio s’annida un sospetto. Un covo di serpi ripugnanti na-scosto in fondo ad un pozzo. Nero. Profondo. Inatteso.

La donna non replica. È cambiato qualcosa nel gioco delle parti. Non è più lei, con lo sguardo fugace dato all’ombra che guizzava, a conoscere qualcosa da svelare agli altri. No. È ancora una volta il vecchio. Nelle sue parole vi è un’antica saggezza che sembra emergere lentamente. Svelarsi pudica, donandosi agli altri come un’amante affettuosa.

– Che cazzo stai dicendo?Il tono dell’uomo, la sua voce raschiata dal fumo di innumerevoli siga-

rette aspirate con avidità e rabbia, dice più che la sua domanda e dice ciò che anche le donne vogliono sapere. Che significa?

– Ma non lo avete ancora capito?– No! Sapientone spiegati.– Smettila con questo tono! Lascialo parlare.Sembra attendere il vecchio. Come se volesse svolgere il suo compito.

Creare tensione. Pathos. Come se in questo atteggiamento vi fosse già la risposta alle domande. Silenzio. E la carica di tensione si leva in un silen-zioso grido di aiuto. Gli altri attendono. Seduti sulle poltrone. Fissando.

– Alzati.È improvvisa la risposta del vecchio. Tagliente e diretta. Un ordine.

Un invito diretto all’uomo che fuma. E Alle due donne. E a se stesso.– Alzati e vai a vedere dove s’è nascosta l’ombra.– Dimmelo tu, vecchio!– Io? Io non lo so. Come posso saperlo?– Sei tu che fa quello che conosce ogni cosa.– Io non so nulla. L’avevo già detto.– Tu avevi detto di sapere perché eri vecchio.– Io conosco solo ciò che ho visto nei miei anni qui. Seduto qui, su que-

sta poltrona.

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– E cosa cazzo hai visto?– Te l’ho già detto: niente.– Perché noi siamo loro indispensabili?La donna ripete la domanda e interrompe la catena di incomunicabi-

lità fra i due uomini.– Perché? Semplice. Alzati. E vai a vedere in quel punto, là dove è spa-

rita l’ombra. Vai a vedere dove è andata.– Non posso.– Perché non puoi?– Perché non posso. Non ne sono in grado.– Eggià. Non ne sei in grado. Nemmeno io. Nemmeno voi. Nessuno di

noi è in grado di alzarsi da queste dannate poltrone.– Ma le poltrone sono la nostra casa. La nostra vita.La fanciulla, la cui ingenuità a volte ha il potere di donare infinita tri-

stezza. O straripante rabbia.– E che diamine c’entra questo con il fatto che siamo indispensabili a

loro?L’uomo con la sigaretta. Non capisce. Non vuole capire.– Tu l’hai compreso, vero?Il vecchio, quasi con un sorriso complice, verso la donna.– Si. Ho capito.– Ne ero certo.– Che cazzo hai capito?Nessuno risponde.– Rispondi cazzo!Silenzio.– Rispondi!!!E questa volta a rispondere è solo il pianto spaventato della fanciulla.Anche lei ha compreso. E piange.

Un istante come tanti. Una conversazione come tante. Nella stanza gli istanti si legano fra loro in una collosa epifania di nulla.

Un momento.

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– Ricordo quella volta..– Si.. anche io la ricordo.– Ma è la stessa?– Che altra?Un momento.– Dicevo, ricordo quella volta…– Mentre camminavi.– Ma dove?– O eri fermo?Un momento.– Quella volta in cui osservavo.– Ah già! Il mondo.– Le mani.– Le stelle.Un momento.– In cui osservavo questo tavolino.– Anch’io lo guardo ogni tanto.– È brutto.– E questi bicchieri. Tutti scompaginati.Un momento.– E sul tavolino vedevo l’alone della lampadina.– Ma chi l’accende?– Ogni giorno.– Tutte le mattine.Un momento.– Fermo. Ma nei bicchieri il liquido sembrava danzare.– Come in un teatro di danza.– Come le foglie al vento.– Terribile questo vino!Un momento.– E nelle onde leggere sulla superficie vedevo altro.– Il mare! Che bello dev’essere il mare.– Quanti visi e quanti sorrisi sono racchiusi nella memoria.

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– Ma non ci potevano dare un vino migliore?Un momento.– Per un po’ l’ho guardato.– Il tempo scorre lento dentro questa stanza.– Sei tu che non sai vivere la giornata.– A proposito. Che ore sono?Un momento.– Poi nel riflesso ho capito cosa stavo guardando.– La mente, quale potere.– Una volta mi ricordo che anche io…– Allora non sapete proprio che ore sono?Un momento.– E ho avuto paura.Un momento. Più lento.– Di cosa hai avuto paura?– Perché hai avuto paura?– Che ci hai visto nel riflesso?L’ultimo momento.– Vi ho visto voi.E il coro tace.

Un ticchettio. Una goccia cade lentamente e tintinna su una lastra metal-lica nascosta chissà dove nel buio. In fondo alla stanza, oltre i confini della luce, nella periferia di un impero in decadenza, pallido ricordo di un po-tere sconfitto, un suono si ripete. Ritmico. Demenza ripetuta. Due occhi fissano il nero là in fondo cercando di scorgervi qualcosa, si socchiudono, scrutano ma ciò che resta è solo un’oscurità velata, ed oltre il suono. Ripe-tuto. Assillante.

Nella stanza ristagna un odore di pioggia. Sale improvviso alle narici lasciando che la memoria torni a paesaggi antichi. E vi si allontani. Timo-rosa. Spaventata.

– Sta piovendo.Non una domanda. Una constatazione. E nessuna risposta.

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Le quattro figure parzialmente racchiuse nell’alone della lampadina che cade dal soffitto, stanno immobili. Ferme. Come se la pioggia fosse un evento da celebrare. Da ricordare. Il segno di una realtà che esiste, di una ciclicità persistente. Ostinata, aldilà dell’immobilità dell’uomo.

Silenziose le figure stanno in ascolto. Nessun rumore se non il ritmico, cadenzato cadere di una singola, insistente, goccia nel nero in fondo alla stanza. S’infrange su una lastra di metallo e produce un suono prolun-gato, dilatato che sale lentamente verso un climax e poi si spegne, subito dopo, improvvisamente. E nell’aria rimane solo il sospetto del suo passag-gio. Ricordo o immaginazione?

Una sola goccia che precipita rumorosa, martellante, che tiene col fia-to sospeso, in attesa del suo ritorno, pochi attimi dopo. Essa annuncia se stessa in una ritorsione incalzante. Asfissiante. È la pioggia che benedice la stanza.

– Si. Sta piovendo a dirotto.E la singola goccia cade. E il rumore attraversa la stanza. Dietro di sé

un’aura di speranza. Un invito e un messaggio: il suo prossimo ritorno.– È tanto che non pioveva così tanto. Si. Tanto tempo.La promessa è mantenuta. Una nuova goccia. Sembra di vederla nel

nero. Lucente, cristallina, pulita e trasparente. Pigra si stacca dal soffitto della stanza e scivola nel nulla addomesticata e s’immola sul grigio ruggi-noso della lamiera gettata a caso in un angolo. E rivela una nuova se stes-sa. Messia di una religione che salva.

– Che bello ascoltare il suono della pioggia.Tlack. Un’altra goccia. Tlack. Un’altra goccia. Convulsamente e lenta-

mente. Ripetutamente.E le figure rimangono come incantate. Sedute sulle loro poltrone.La donna sospira.La fanciulla si rannicchia. E sorride.L’uomo si accende una sigaretta e aspira con voluttà il fumo denso e

azzurrognolo.Il vecchio prende un bicchiere dal tavolino. Beve un sorso del liquido

denso e amaranto che vi ristagna. Profumato. Alza il bicchiere come a vo-

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ler vedere nel riflesso della luce altri volti. Antichi e perduti volti.È un momento.Un gesto improvviso.Inaspettato.Violentemente lo scaglia. Nel nero là in fondo. Oltre il dominio della

luce. Nell’angolo più lontano. In quell’angolo.S’infrange il bicchiere sulla lamiera metallica. Colpisce la superficie

rugginosa, ramata nel buio. Come una goccia, immensa, vetrosa. Finale. Definitiva. Mortale. Ultima.

Sobbalzano le altre tre figure. Cade la sigaretta e identico è lo stupore.Cala il silenzio nella stanza. E l’attesa. Di un’altra goccia.L’attesa di un nuovo suono, di un tlack, dell’annunciazione. Ripetuta.Ma nulla arriva. Nessun suono riconosciuto. E resta solo il silenzio. E

l’attesa. Frustrata. Inutile.– Perché l’hai fatto?– Stava piovendo così bene.– Sei impazzito?!Il vecchio risponde. E nelle sue parole c’è una saggezza antica che non

può essere compresa. Sembra ormai solo follia.– No. Non stava piovendo.E sul tavolo restano ora solo tre bicchieri.

L’aria è gelida, stranamente densa. Il freddo arriva dritto alle ossa, schiac-ciandole. Le mani si fanno di pietra e le dita perdono la sensibilità, tanto che gli oggetti si trasformano in forme dipinte, senza spessore. Gli occhi lacrimano e piccole perle salate attraversano i volti, rigandoli in sentie-ri neri e tortuosi. Irriconosciuti marchi di guerra prima di una battaglia perduta.

Ma l’aria è densa. Spessa. Consistente come in un pomeriggio afoso. Solida come un brodo, pullulante di vita.

Faticosamente gli arti, stanchi e disillusi, si muovono in essa. Si sposta-no. Si agitano. C’è una antica fatica nelle membra delle figure sedute sulle poltrone. Un’indolenza che le lascia giacere. Immobili e in eterna attesa.

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Ma nell’aria c’è forse qualcosa. Che vive. Prolifera. Si moltiplica. E uc-cide.

Invisibile nelle sue forme infinitesimali ma così numeroso da essere quasi solido. Denso nell’aria. Non ha un nome. Nessuno ne ha mai dato un nome. Se non il semplice. Tautologico. La Malattia.

E la Malattia è nell’aria. E nei polmoni. E nel sangue. E sulla pelle. Nel-le quattro figure che siedono. E aspettano. Forse solo la fine.

– Non penso alla morte. Ma a volte ho l’impressione che la morte pensi a me.

Nel buio e nell’alone luminoso della lampadina le parole si muovono lente. Sembra che a fatica attraversino lo spazio che resta stranamente compatto. Lunghi secondi per giungere alle altre figure. Per essere com-prese. Pensate e risposte.

– Ha ben altro da fare la morte per pensare a te.– O a noi.– E cosa avrebbe di tanto importante da fare?Si ripete il gioco. Il bizzarro meccanismo. Affermazioni e domande. Ci-

nismo crescente. Opprimente. Annichilente.– Se ne starà in una limousine a bere champagne con la sua diletta.– Vuoi dire?– Si. Quella.– La Malattia.Il nome che non è un nome. Il nome che è la descrizione. Il nome che

racchiude in sé tutti gli altri nomi. Il nome che è l’universale.Il nome della paura. E della morte.– Hai ancora le macchie?– Si.– Dove?– Non lo so, non le vedo.– Senti dolore?– No. Non sento male. Ma le sento.– Che intendi?– Le sento sulla pelle, passandoci la mano. Sono quasi setose, molli, ro-

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tonde. Le sento in rilievo. Calde. Mi sembrano pulsare.– Come se fossero vive.Un colpo di tosse. Rauco. Lungo.– Sono vive.– Sono solo macchie.– No! Non sono solo macchie. È la Malattia.– Tutti l’abbiamo.– Si.– E siamo qui dentro per questa ragione. Perché siamo malati?– Rinchiusi.Nessuno parla più. L’ultima parola aleggia nell’aria. Ristagna. Danza

nel vuoto colloso, melliflua. Sembra non voler andarsene e restare. Mor-morando se stessa infinite volte.

– Rinchiusi.– Da dove arriva?– Cosa? La Malattia?– Dov’è?– Quando? Ora?– Tutti abbiamo le macchie?– Si. Sulle mani.– Si. Sul viso.– Si. Sul torace.– Si. Sulle gambe.Vi è una crudele pietà nel buio che serpeggia nella stanza. Un’oscurità

che è una maschera. In cui nascondersi. Rifugiarsi. Celare agli occhi del mondo lo scempio. E il dolore. Delle macchie. Nere.

– Guariremo?– Gli altri sono guariti?– Chi sono gli altri?– Che vuoi dire?– C’è stato qualcun altro oltre noi?– Nella stanza?– Nel mondo?

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– Altri sono stati malati?– Altri?– No. Nessuno è guarito. Credo.– Lo credo o lo sai.– Lo credo.– Quindi c’è speranza.– Si. Qui dentro si.– Perché qui dentro.– Perché finchè la porta non sarà aperta noi saremo vivi e morti. Con-

temporaneamente.– Quale porta?– Quella!– Non c’è nessuna porta!– Non abbiamo già fatto questo discorso?– Ieri.– O era un mese fa?– Non era pochi minuti fa?Il tempo si dilata e si deforma e ogni cosa acquista un senso nuovo. Re-

lativo. Solo nel singolo uomo vi è la ragione di un’esistenza in sé assurda. Semplicemente insensata.

– Loro ci salveranno.– Loro…– Le ombre nel buio?– Loro?! Loro non sanno neppure se siamo vivi o morti.– Loro sanno tutto!– Loro sanno solo che in questo momento, dentro questa stanza noi

siamo al tempo stesso vivi e morti. E finché non apriranno la porta che non esiste noi resteremo in questo stato sospeso. Duplice. Eternamente vivi. Eternamente morti.

– Mi ricorda una vecchia favola.– Si. Anche a me.– L’ascoltavo da bambina.– Raccontamela ti prego.

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– Non la ricordo bene.– Raccontagliela.– Parlava di una scatola.– O una gabbia?– E di un veleno.– Non era un atomo?– Di uno scienziato– Ma non era un filosofo?– Ricordo che però parlava soprattutto di qualcos’altro.– Di un gatto.– Si, di un gatto.– Che viveva.– O che moriva?– O forse entrambi?

Un ronzio. Appare e scompare nell’aria fredda della sera. Di un’identi-ca sera. Sale e scende, s’allontana e s’avvicina, sino ad infastidire, urtare. Sino ad insinuarsi, malizioso, negli incavi delle orecchie. Violandoli. Bru-sio solleticante.

È trattenuto a fatica un gesto brusco, uno scatto convulso. Per scacciar-lo. E le quattro figure se ne stanno sedute ad ascoltare. Ed osservare.

La piccola mosca ondeggia in spire ripetute, in spirali via via più stret-te, verso la lampadina che pende desolata dal soffitto. Nuota nell’alone di luce che debole si estende nello spazio oscurato della stanza, in una danza rituale verso la fonte, verso l’abbagliante chiarore che acceca. Verso il ca-lore mortale della lampadina incandescente.

Un ronzio. Ogni suo movimento, ogni suo lento incedere è accompa-gnato da un frusciare, improvviso, senza ordine, come guidato da una ca-sualità a cui essa stessa non riesce a dare una spiegazione.

La mosca vola, a tratti s’ode il brusio delle sue ali e incantate le figure sedute sulle poltrone spaiate restano immobili. Il capo volto verso la luce come in attesa di qualcosa che non pare giungere mai.

– Una mosca.

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– Da dove è sbucata?– Dalla finestra.– Dal mondo là fuori?– Ma allora esiste un mondo là fuori?– O forse esiste solo questa mosca.– Ultima testimone di un mondo là fuori scomparso?– O forse mai esistito.Le quattro voci si rimbalzano, l’una sembra sbattere contro la prece-

dente e finire cruenta contro la successiva. Non sembra esserci comunica-zione. Monologhi alternati, scansati, l’un con l’altro.

– Perché è finita in questa stanza?– Perché esiste solo questa stanza.– No. È una Loro messaggera. Ha un messaggio per noi.– E che ci vuole comunicare?– E come? Tu capisci il suo orrendo ronzio?– Ma non lo sentite? Ascoltate? È chiaro!– Cosa? Diamine cosa!Il tono della donna si fa aspro. Sembra stanca di questa costante inca-

pacità di comprendere le altre parole. Di dar senso a ciò che ogni giorno ascolta. Neppure il suono fastidioso della mosca che si fa progressivamen-te più intenso. Violento.

– Ascoltate come si ripete. È un codice.– Un codice?– Ha ragione. Anche io lo sento.– Io non sento nulla!Delusione. La voce della donna si affievolisce, sino quasi a spegnersi

nello sconforto del non sentire. Del non comprendere. Tristezza nel vede-re la ragazza sperare. Nel sognare le folli illusioni dell’uomo con la siga-retta. E il vecchio tace. Indifferente.

– Ascolta.– Il ritmo. Si, lo sento. Ma sei sicura di non sentirlo anche tu?– Acceso. Spento. Ronzio. Silenzio.– Un codice. Semplice.

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– Binario.– E che cosa dice questo diavolo di codice? Che ti dice di tanto impor-

tante il brusio della mosca?– Non lo. Ancora non lo so.– Dobbiamo interpretarlo.– Smettila tu di dire fesserie.– Lasciala parlare!– Ora sei tu a difenderla?– Hanno ragione. Ci sta dicendo qualcosa.Il vecchio. La sua voce stanca risuona nella stanza come un liquido

denso, caldo che si espande, occupando gli spazi, e possedendo gli oggetti.L’autorità è nel timbro, nella sicurezza con cui i suoni escono dalla sua

bocca grinzosa.– Anche tu lo senti?– Si.– Capisci cosa ci sta dicendo?– Sono Loro, vero? Ci stanno comunicando che stanno arrivando?– Siamo salvi?!– No. Non sono Loro.– Ma…?– Allora noi…– Che cazzo ci sta dicendo?È la prima volta. La donna si scrolla di dosso la sensazione opprimen-

te della saggezza, dell’autorevolezza del vecchio e reagisce. Si oppone. Si ribella ad un gioco delle parti in cui ogni ruolo è già deciso. E con il ruolo le parole, i gesti, i comportamenti. Lei si ribella al suo essere un figura di una trama già scritta. Come un personaggio che sul palco si oppone, rifiu-ta le battute e decide di essere vivo. Scomparendo oltre il sipario. Libero dal destino impostogli dal drammaturgo. Urlando contro di esso tutto il suo odio per la condanna ad una vita ripetuta, eternamente identica a se stessa, nelle colpe e negli errori. Grida l’illusione di poter non sbagliare e di non poter agire diversamente. Di non poter imparare.

E di non poter trovare il perdono per i gesti passati.

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– Te lo ripeto. Che cazzo stai dicendo?Il vecchio tace a lungo. Ha sentito nella voce della donna la ribellione.

La punta di una lancia invisibile diretta non solo contro di lui ma contro tutto il resto: gli altri seduti alle poltrone, la stanza, il buio e forse anche qualcosa d’altro. Di indefinito. D’oltre.

– La mosca ci sta dicendo qualcosa.– E cosa?– Non ascoltarla. Ma guardala.– La vedo. Vola intorno alla lampadina.– Esatto. Osservala attentamente. Guarda come si avvicina lentamente.

Gira intorno alla luce. E ogni cerchio è sempre più prossimo alla lampa-dina. Inesorabilmente.

– Si.– Dove vuole arrivare la mosca?– A me lo chiedi?– A te. A voi.– Alla luce.– Alla lampadina.– E ci arriverà?– Smettila con queste domande del cazzo! Dicci che cosa ti sta dicendo

quella fottuta mosca!La ribellione della donna è nelle parole. Nell’uso violento dei termini.

Falsa impressione di forza per mascherare debolezza. E paura. Infinita paura.

– Come vuoi. Guarda tu stessa.Il vecchio alza il braccio sinistro, un gesto lento, svogliato. Come se non

volesse più giocare un gioco in cui le regole e i ruoli sono scomparsi. Persi nella rivolta.

La donna osserva. L’uomo che fuma osserva e così la fanciulla. Osser-vano la mosca.

I cerchi si fanno sempre più stretti. I ronzi più insistenti. Più frenetici. Vi è ansia in quel suono fastidioso? Speranza?

La mosca è a ridosso della luce. Sembra sfiorare la superficie traspa-

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rente e luminosa della lampadina.La superficie incandescente della lampadina.È un attimo. Il cerchio si è fatto troppo stretto, troppo chiuso e la mo-

sca si appoggia sul vetro della lampadina. È arrivata? È così giunta alla luce? Alla verità? Alla salvezza finale?

Ci resta appoggiata un attimo.Nel bagliore accecante gli occhi delle quattro figure sedute non riesco-

no a scorgere la mosca. Ma sanno che è nella luce. Lo sanno perché non sentono più il ronzio fastidioso. Né scorgono più il momento circolare. E poi succede.

Un ultimo ronzio. Più alto. Più acuto. Ma con un tono diverso. Non aggressivo. Triste. O forse disperato.

E la mosca cade. A terra. Attraversa l’alone d luce e scompare nel buio. Persa chissà dove sul pavimento incrostato e sporco di mille passi perduti. Un brusio sembra accompagnare la sua caduta ma è solo impressione. O un ricordo.

E il silenzio torna.E la luce resta appesa. Là in alto. Lontana.Mortale.– Ecco cosa aveva da dirci la mosca.Nessuno replica al vecchio. Fallite le rivolte. Fallita la ribellione dei

personaggi condannati a scelte non proprie. E tutto resta identico. L’au-torevolezza. La sottomissione.

I ruoli restano gli stessi. Ora. Prima e dopo. Conformemente ripetuti.Semplicemente eterni.Mortali.

Il tavolo. Tre bicchieri appoggiati. Una sigaretta e un rivolo di fumo che sale lento verso l’alto. Annebbiato l’alone di luce di una semplice lampa-dina pende dal soffitto macchiato e grigio. Uno strano odore nell’aria invernale. Tabacco mischiato al profumo di un liquore cattivo e sudore. Odore di esseri umani: secrezioni inconfessate, purulente emanazioni, fe-cali scorie. Ed altro. Un fragranza segreta. Che fa paura. Un sapore dol-

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ciastro, caramelloso, malignamente invitante. L’aroma della morte. Della sua ancella. Della Malattia. Ristagna tutt’intorno e impudico si mostra. È un amalgama indistinto che permea le quattro figure silenziose scompo-ste sulle poltrone spaiate. I volti oscurati dal buio perenne di una stanza mal illuminata. Tacciono e osservano il tempo scorrere pesantemente in avanti, maledettamente uguale a se stesso. Ad ogni respiro torna l’identi-co momento che si ripete, e l’odore. E la Malattia.

– Non sentite anche voi qualcosa?– No. Non mi sembra.– Tacete un momento. Ecco! Sentite?– Forse…– Sembrerebbe…Una voce. Nella stanza improvvisa giunge una voce. Una nuova voce.

Metallica. Impossibile distinguerne il timbro, il tono. È di donna? Di uomo? Sembrerebbe di entrambi. O di nessuno dei due. Come provenisse da un essere ancora indifferenziato. Antico. Androgina è la voce che è apparsa nella stanza. Antecedente ad ogni definizione di genere. Maschile e fem-minile al tempo stesso.

– Una voce.– Viene di là!– No. A me sembra più dall’altra parte.– Maledetto buio!– Accendete le altri luci!!!– Loro non ti ascolteranno mai.– Che si fottano i tuoi Loro!– Chi è là? Fatti vedere! Vieni fuori!– Non c’è nessuno là in fondo.– E la voce?– Zitti! Fatemi sentire!Per una manciata di minuti le quattro figure languidamente stese sulle

poltrone se ne stanno in silenzio cercando di catturare il mormorio che viene dal buio. E le parole. Confuse.

– È una radio.

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– Si. Sembrerebbe una radio.– Chi l’ha messa lì?– Chi l’ha accesa?– Per quale motivo?– Perché ora?La voce metallica e androgina continua a parlare ma le sue parole non

si distinguono. Come un odore si fondono e si perdono nelle altre parole strillate dalle quattro figure sedute sulle poltrone. In un impasto sfocato. Denso.

– Fate silenzio! Non volete sentire cosa dice?– Non dice nulla.– Frasi gettate a caso qua e là.– Lasciala parlare. Che importa?– Ha ragione lui. Non facciamoci caso.– Ma potrebbe dirci qualcosa del mondo di fuori. Degli altri.– Non esistono gli altri!– Che vuoi che ci interessi degli altri. Ci siamo solo noi ora.– E Loro.Non si agitano le figure sulle poltrone. Indifferenti alla voce androgi-

na e metallica. Come se non avesse nulla da dire. Come se fosse poca cosa. Inutile.

Solo la donna sembra curiosa. Tende il corpo, quasi a catturare le pa-role, una ad una per dar loro senso. Per comprendere il significato e dare una ragione.

Persino il vecchio sembra non voler ascoltare la voce improvvisa della radio. Che già ne conosca il contenuto?

– Fatemi sentire, vi prego.– Ma cosa vuoi che dica?– Sono solo parole.– Hanno ragione. Non ascoltare. Non prestar attenzione a quelle frasi.

Tra poco finiranno.– No! Io voglio sapere. Voglio ascoltare.– Non c’è nulla da sapere.

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– Si è quasi già spenta.– Manca poco.– Vi prego. Tacete. Fatemi ascoltare.– Bla. Bla. Bla. Bla.– No. Noi non vogliamo sentire quelle parole. Quindi non le ascolterai

neppure tu.– Non essere curiosa. Ti prego non esserlo.E la voce della radio si affievolisce. Lentamente. E si spegne. Così come

è comparsa svanisce. Nel nero di un angolo imprecisato della stanza buia. Muore il suono metallico e androgino. E il silenzio risorge. Protettivo. Op-primente.

– Si è spenta.– Bastardi! Bastardi!– Torna a dormire. L’hai sognata.– No. Non l’ha sognata. Era lì. Ma non era per noi.Sono sempre le parole del vecchio a porre il velo della fine. Conosce

forse il momento in cui si giunge alla soglia dell’oltre. E serve così tacere. Fedele al suo ruolo. Ubbidiente alla trama.

– Bastardi!La donna, le mani tra i capelli, il viso rigato da lacrime salate di fru-

strazione. Di disperazione. Di insensatezza. Mugugna insulti che non sono rivolti a nessuno. O contro se stessa. Fiele tra le labbra, nella bocca e nel naso l’odore, l’aroma indefinito di sudore, tabacco, liquore. E morte. Sin-ghiozzi di un pianto per cui non vi sono lacrime.

– Bastardi!L’identico momento. Nell’angolo la radio continua incessante a ripe-

tere le stesse parole, ciclica ripetizione di poche frasi troppo debolmente sussurrate per essere ascoltate. Esaurita è la batteria che alimenta i circu-iti ossidati, inutili i suoi rantoli finali, i vani tentativi di urlare le sua fine e con essa di trasmettere il messaggio, dando senso alla sua stessa esisten-za. Non condannandola al fallimento. Ma nessuno ode le parole. Che nel freddo buio si perdono e avvizziscono. Fallimento.

– Trasmettiamo da…

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– Qui Radio Libera Albemuth…– La Malattia è ovunque.– Questo è un messaggio registrato, il giorno…– In automatico è ripetuto…– Identico…– Pochi sopravvissuti…– Macchie nere ovunque…– Morti. Morti. Morti.– Secondo le stime…– Sull’isola di…– In una stanza…– Resteranno…– Gli ultimi…– Quattro…– Supersiti…– Razza umana…– Soli e…– Condannati…– Condannati.

La stanza è flebilmente illuminata, una lampadina pende dal soffitto scro-stato tingendo di luce un poco dello spazio intorno. Un leggero bagliore che non rischiara gli oggetti, perpetuamente ammantati dal velo nero di un buio testardo, più forte di ogni luminosa ribellione.

Un piccolo tavolo quadrato se ne sta al centro della stanza, la superficie lucida sembra riflettere il tenue chiarore della lampadina, ma forse è solo un’impressione. Tre bicchieri vuoti sono lì poggiati e a un lato un posace-nere, traboccante sigarette spente e fredde. Ormai fumate.

L’aria intorno è calda, un tepore sonnolento, avvolgente. Il caldo di una primavera che lentamente si sta trasformando in un’estate afosa, appicci-cosa, sudaticcia. Nessun odore di fiori o di piante germogliate, ma solo il puzzo di vecchio, di stantio. E di altro. Dolciastro. Zuccheroso. Vago.

Intorno al tavolo quattro poltrone, scompaginate, sporche.

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Vuote.C’è silenzio nella stanza. Un silenzio languido, che pare distendersi su-

gli oggetti, inghiottendoli, avvolgendoli in una bolla priva di suoni. Ogni cosa resta immobile. Cristallizzata in un momento, statico. Eterno.

Nessun movimento, neppure un rivolo di vento agita la polvere de-positata sul pavimento sporco e macchiato. Nessuna impronta, nessuna traccia di vite antiche. Resta solo la stanza, il tavolo e le poltrone. E forse un ricordo.

Un accendino pende dal bordo di un bracciolo della poltrona di pelle. Sfregiata, tagliata, come punita, massacrata per una crimine mai commes-so. L’accendino se ne sta così, in un equilibrio instabile, messo lì apposta. In piedi. In attesa di un alito di vento che lo smuova. E a terra lo faccia cadere. Ma nessuna brezza. Nessun movimento.

E rimane lì, immobile, solitario. Ad aspettare ciò che mai giungerà. Inutilmente.

E il silenzio continua a regnare nella stanza.

Questo racconto è stato scritto ascoltando l’album Black Rain di Ozzy Osbourne” e pubblicato nell’antologia Frammenti di una rosa quantica, Kip-ple Officina Libraria, 2008.

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Alex Tonelli è nato in riva all’Adda nel 1977 e si è laureato in Filosofia a Milano con una tesi contro il libero arbitrio. Connettivista da sempre, ha curato la rubrica Ermetica Ermenuetica sul bollettino del Movimento NeXT e la raccolta di poeti connettivisti Concetti Spaziali, Oltre (Kipple Of-ficina Libraria). È presente nelle antologie Frammenti di una Rosa Quantica (Kipple Officina Libraria), Nuove Eterotopie (Delos Libri) e La prima frontie-ra (Kipple Officina Libraria) e dal 2015 è il curatore della collana di poe-sia VersiGuasti per la Kipple Officina Libraria. Ha pubblicato una silloge di poesie dal titolo Oltremuro (Kipple Officina Libraria). Attualmente vive a Trieste.

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ORATE DORATE E GAMBERI A 15 WATT

di F. T. Hoffmann

Dal diario di Lucio Rosvich

Oggi l’ho vista di nuovo. Il carrello carico di sporte e sacchetti romba sui sampietrini del lungomare, annunciando il suo passaggio quotidiano. La gente si volta, lancia occhiate sospettose. Qualcuno borbotta contro la chiusura dei manicomi ma la maggioranza si limita a ridacchiare. Quelli sulla sua strada, invece, cercano di liberare la strada e fuggire dalla puz-za. La Pescivendola, dal canto suo, cammina verso il tramonto e li ignora tutti quanti.

Sul Lungomare la conoscono tutti: sono cinquant’anni che fa lo stesso giro ogni giorno. Parte appena dopo pranzo dal Faro Gatsby e risale ver-so il Castelbianco che raggiunge solo a tarda sera. Non è una passeggiata così lunga, ma lei si ferma ogni cento metri a rovistare nei cassonetti in cerca di lische e gusci di crostacei. Quando trova qualcosa lo prende con mani delicate e lo mette al sicuro in una delle tante borse del suo carrello come fosse un tesoro prezioso.

Non lo fa per fame: da quello che so io, il comune le passa una pensio-ne sociale anche se non ha mai lavorato. Già, Pescivendola è solo uno dei tanti soprannomi che le hanno affibbiato negli anni. Per esempio, quelli che vivono nei rioni vicino alla Piazza Grande la chiamano la sirena, men-tre nel quartiere di Barcon la conoscono come la figlia dell’Olandese. In realtà si chiama Julia, ma sono in pochi a ricordare il suo vero nome.

È molto metodica, nel suo. Ipnotica, quasi. La osservo ormai da pa-

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recchio e ormai potrei disegnarla nei suoi gesti. Arriva a un nuovo casso-netto, sistema il carrello di modo che non sia d’intralcio a nessuno, alza la sciarpa lurida fin sopra il naso e si infila nel sarcofago urbano. Non so come riesca a tollerare l’odore di certe giornate estive, visto che l’odore fa lacrimare me che sono a due metri di distanza. So solo che in un massimo di quattro pause per riprendere fiato, rovista a fondo in tutte le interiora della città. Poi, felice come una bambina riprende la marcia.

Oggi l’ho seguita fino alla fine del tragitto. Il rombo del carrello risuona per la Spiaggia della Principessa e si infrange sugli scogli in una schiuma di eco. Da una tasca, la donna tira fuori un mazzo di chiavi così volumino-so da sembrare una scultura moderna. Sono tutte chiavi smarrite, così mi ha detto una volta; chiavi abbandonate dentro un tombino, sotto le ruote di un automobile o ai lati di un’aiuola. Chiavi storte, rotte, o rovinate. Lei le prende tutte senza distinzione. E fra quelle chiavi smarrite a volte ce n’è una che apre i posti più inaspettati, come ad esempio il cancelletto della Spiagga della Principessa, un’oasi chiusa al pubblico. Recupera le borse e scende gli scalini dietro di lei.

Non so se l’ho già detto, ma ormai è sera e un mare scuro come vetro affumicato riflette l’occhio della luna. La Pescivendola percorre la spiag-gia deserta e arriva al bagnasciuga. Si inginocchia sulla sabbia umida. co-mincia a scavare a una grossa buca appena sopra la linea di marea. Non so quanto scava, me ne sto lontano, non voglio spaventarla. A un certo punto ci svuota vicino i sacchi di plastica e rimane a guardare quel muc-chio di scarti di pescheria e avanzi avariati. Occhi bianchi, lische fantasma e carapaci vuoti diventano le tessere del suo puzzle quotidiano. Sposta, confronta, smonta e ricompone quei corpi varie volte. Poi il mare sale tan-to da invadere la buca.

A quel punto Julia raccoglie una bestiolina alla volta, la bacia a fior di labbra e la fa scivolare nella polla d’acqua. Quindi attende.

È un attimo, un bagliore dorato, il flash di una lampadina fulminata. La buca si accende all’improvviso come se all’interno ci bruciasse il cuore ardente di una stella. Poi si spegne, con la stessa velocità. Al suo interno,

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nel buio della notte, rimane solo un bel pesce dorato che pulsa di luce del chiarore delle lucciole.

Di fronte a quello spettacolo la Pescivendola batte le mani, ogni volta come se fosse la prima, e continua con l’avanzo seguente. Solo alla fine, dopo aver esaurito tutti gli scarti, si lascia andare a danze e risate mentre la marea riporta al largo i suoi miracoli.

Julia, la Pescivendola. Julia la Sirena. Julia la figlia dell’Olandese.Un bel mistero. Se è vero che la Bora Nera le ha portato via la sanità

mentale, c’è da dire che in cambio le ha portato un dono davvero speciale.E io l’ho visto.

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F. T. Hoffmann è nato nel 1992 fra le montagne del Friuli, anche se ora vive, lavora e scrive a Trieste. I suoi racconti compaiono nelle antologie di Lethal Books, Industria Tipografica Novocarnista e Acheron Books.

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