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SOMMARIOALPES N. 11 - NOVEMBRE 2004

EVENTI 6LA PAGINA DELLA SATIRA 7aldo bortolotti

L’OSPEDALE FANTASMA 8pier luigi tremonti

SE MILLE POLIZIOTTIVI SEMBRAN POCHI 10gianluigi galeotti

UN PASSAPORTO PER CANI,GATTI E FURETTI 12gianluca felicetti

PREOCCUPAZIONIPER LA CHIUSURA DEI RIFUGIALPINI IN LOMBARDIA 15tito lupi

91 ANNI... AL GIORNO D’OGGI 16giancarlo ugatti

QUALI SONO GLI EVENTI PIÙ TEMUTI?DA UN SONDAGGIO EMERGONOASPETTI CHE FANNO RIFLETTERE 18lorenzo croce

“CON-TATTO”: UNO STRUMENTODI CONOSCENZA E DI AMORE 21loredana filippi

4 OTTOBRE 1954: TRIESTERITORNA ALLA MADRE PATRIA 22giorgio gianoncelli

VIAGGIO IN TUNISIA 24luciano scarzello

BRUNO ZANETTIN E IL K2 26giovanni lugaresi

GIORGIO DE CHIRICO:INCISIONI E LITOGRAFIE 42pierangela bianco

PACIFISMO IPOCRITA?OVVERO LA GUERRA VISTA“DALL’ALTRA PARTE” 44... MA NON TUTTIERANO CON TITO... 45nemo canetta

LA MIA TERRA. LA MIA GENTE.STORIA, TRADIZIONI E LINGUAGGIO DELL’ALTA VALLECAMONICA 49giuseppe brivio

LA “SCIORA OLIVA” DELL’ANTICO“CAFFÈ” SVIZZERO DI CHIAVENNA 52costante bertelli

MARCO NANA: GENIALITÀMECCANICA IN VALTELLINA 54angelo granati

FOTOSERVIZIO SUL 2º RADUNOEQUESTRE PROVINCIALEIN VAL D’ARIGNA-DOSSO DEL GRILLO 56maurizio azzola e nicoletta scieghi

RECENSIONI 58giuseppe brivio

2 NOVEMBRE:LA “FESTA” DEI MORTI 28alessandro canton

“VINODOMANI” 29giacomo mojoli

RISTORAZIONE SURREALE 30pier luigi tremonti

INTERVISTA A CASIMIRO MAULE,DIRETTORE DELLA CASA VINICOLA NEGRI DI CHIURO 31pier luigi tremonti

IL FORMAGGIO “SPREMUTO” 33stefano corrada

“BENI CULTURALIDELLA COMUNITÀ MONTANAVALTELLINA DI SONDRIO” 34giuseppe brivio

RENATO CORTESI:L’IMPULSO DI UNA SCELTA 36ermanno sagliani

SCOPRENDO L’ALTA VAL TREBBIA 38chiara rezzari

PREZIOSA ANTOLOGICA DI PIERRE CASÈ ALLA PINACOTECA CASA RUSCA DI LOCARNO 40donatella micault

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Dopo l’11 settembreIl paradosso del nostro tempo nella storia è che:• abbiamo edifici sempre più alti ma moralità più basse• autostrade sempre più larghe ma orizzonti più ristretti• spendiamo di più ma abbiamo meno• comperiamo di più ma godiamo meno• abbiamo case più grandi e famiglie più piccole• abbiano più comodità ma meno tempo• abbiamo più istruzione ma meno buon senso• abbiamo più conoscenza ma meno giudizio• abbiamo più esperti e ancor più problemi• abbiamo più medicine ma meno benessere• beviamo troppo• fumiamo troppo• spendiamo senza ritegno• ridiamo troppo poco• guidiamo troppo veloci• ci arrabbiamo troppo• facciamo le ore piccole• ci alziamo stanchi• vediamo troppa TV• preghiamo di rado• abbiamo moltiplicato le nostre proprietà ma ridotto i nostri valori• parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso• abbiamo imparato come guadagnarci da vivere ma non come vivere• abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni• siamo andati e tornati dalla Luna ma non riusciamo ad attraversare il pianerottolo per incontrare un nuovo

vicino di casa• abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno• abbiamo creato cose più grandi ma non migliori• abbiamo pulito l’aria ma inquinato l’anima• abbiamo dominato l’atomo ma non i pregiudizi• scriviamo di più ma impariamo meno• pianifichiamo di più ma realizziamo meno• abbiamo imparato a sbrigarci ma non ad aspettare• costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma• comunichiamo sempre meno• questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta• grandi uomini e piccoli caratteri• ricchi profitti e povere relazioni• questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte• questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una

notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti• è un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino• un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera e in cui puoi scegliere di condividere queste

considerazioni con altri o di cancellarle• ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre• ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione perché quella piccola

persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco• ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco perché è l’unico tesoro che puoi dare con

il cuore e non costa nulla• ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo• un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima• ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti perché un giorno quella persona non sarà più lì• dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione• dedica tempo per condividere i pensieri preziosi della tua mentela vita non si misura da quanti respiri facciamo ma dai momenti che ci tolgono il respiro

George Carlin*

*Comico molto famoso negli anni 70 e 80 in America, un po’ l’equivalente del nostro Lino Banfi.

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AAllppeessRIVISTA MENSILE DELL’ARCO ALPINO

Anno XXV - N. 11 - Novembre 2004

Direttore responsabilePier Luigi Tremonti - cell. 3492190950

Redattore CapoGiuseppe Brivio - cell. 3492118486

Segretaria di redazioneManuela Del Togno

Direttore editorialeAldo Genoni

A questo numero hanno collaborato:Costante Bertelli - Pierangela Bianco - Aldo BortolottiGiuseppe Brivio - Nemo Canetta - Alessandro Canton

George Carlin - Stefano Corrada - Lorenzo CroceAntonio Del Felice - Gianluca Felicetti - Loredana Filippi

Gianluigi Galeotti - Aldo Genoni - Giorgio GianoncelliAngelo Granati - Giovanni Lugaresi - Tito Lupi

Donatella Micault - Giacomo Mojoli - Chiara RezzariErmanno Sagliani - Luciano Scarzello - Pier Luigi Tremonti

Giancarlo Ugatti

In copertina: Terrazzamenti

Ed.ce l’Alpes Agia - S. Coop a R.L.23100 Sondrio - Via Vanoni, 96/A

Direzione e amministrazione:Sondrio - Via Vanoni, 96/A

Tel. e Fax 0342.512.614E-mail: [email protected]

SITO IN RIELABORAZIONE

Autorizzazione del Tribunale di Sondrio n. 163 del 2.12.1983

Stampa Lito Polaris - Sondrio

C/C postalen. 10242238C/C bancari

Credito Valtellinese - Agenzia n. 1 - n. 51909/14Banca Popolare di Sondrio - Agenzia di Albosaggia

n. 14300/86Credito Cooperativo di Sondrio - c/c nº 220178-85

Quote abbonamento anno 2004Italia EE 15,50 - Europa EE 33,57 - Altri EE 51,65

ABBONAMENTO ANNUALE ALPESEURO 15,5

BENEFICIARIO ALPESVia Vanoni, 96/A - Sondrio

Banche di appoggio:

BANCA POPOLARE DI SONDRIO - Ag AlbosaggiaABI 05696CAB 52390C/C 14300/96

CREDITO VALTELLINESE - Ag 1ABI 05216CAB 11020C/C 51909/14

CREDITO COOPERATIVO - Sede SondrioABI 08430CAB 11000C/C 220178/85

ORDINANTE

NOME ………………………….........………………………………………………………………

COGNOME …………………..……………………………………………………………………

VIA ……………………………................……………………………………………………………

LOCALITA’ …………………..……………………………………………………………………

PROVINCIA ………...……………………………………………………………………………

CAP ………………………………...............…………………………………………………………

PRESSO BANCA

……………………………...........................……………………………………………………………

C/C ……………………...............……………………………………………………………………

DATA ………………………............…………………………………………………………………

FIRMA ………………………………………………........…………………………………………

BONIFICO

Tutti i manoscritti a questa rivista sono al vaglio del direttoreresponsabile e della redazione.Gli articoli firmati rispecchiano solo il pensiero degli autori enon coinvolgono necessariamente la linea della rivista.Testi e foto, pubblicati o meno, non si restituiscono, salvo spe-cifici accordi, e la redazione non si assume la responsabilità perl’eventuale smarrimento.La riproduzione anche parziale, è subordinata alla autorizza-zione della direzione ed alla citazione dell’autore e della rivista.

Il nostro nuovo sito è oramai pronto ed è in lineaLa Web Agency - nereal.com dell’amico Claudio Frizziero ha con-cluso il suo lavoro.Qualcosa ancora manca,ma ora siamo noi della re-dazione a dover completa-re l’opera.Ancora un po’ di pazienza epoi via alla grande con larivista in pdf, interessantilink, “chi siamo” e altro an-cora.Provate fin da ora a colle-garvi con il nostro indirizzo:http:www.alpesagia.comAttendiamo vostri consigli e suggerimenti.Nel numero di dicembre daremo ampio spazio alla presentazione“ufficiale” e definitiva del nostro sito.*Alpesagia è il nome della nostra cooperativa ed è il nome con il quale tanti anni fa ènata la nostra rivista.

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E V E N T I

Sondrio FestivalLa 18ª edizione del SondrioFestival,oramai archiviata, ha fatto registra-re numeri record di partecipazioneed un altissimo gradimento sia daparte del pubblico che dei protago-nisti.Gli spettatori, tra i quali molti ragazzi,hanno affollato le due sale del teatroDon Bosco, eccezionalmente dotato di80 posti in più per contenere il pub-blico sempre più numeroso.I documentari, tutti radicalmente di-versi tra loro, hanno accompagna-to appassionati ed addetti ai lavoriattraverso un viaggio straordinario.Il compito delle giurie non è stato fa-cile in considerazio-ne dell’altissimo li-vello delle 11 pelli-cole selezionate fraquelle presentate neimesi scorsi da nu-merosi registi di tut-to il mondo.Nella serata finalecondotta dal voltonoto della Rai Sve-va Sagramola, è sta-to dichiarato vinci-tore della rassegnail regista e produt-tore Neil Curry, au-tore insieme a Ala-stair Mac Ewen eSean Morris dellapellicola L’elefantee l’albero delle far-falle. Il documenta-rio, che illustra il ci-clo ecologico com-pleto in una forestaafricana del Bot-swana, si è aggiudi-cato anche il Pre-mio Giuria degliStudenti.Al film austriacoPlitvice, la terra creatrice dei laghiè andato il premio giuria del pub-blico, mentre il parco nazionale del-lo Stelvio ha premiato la pellicolarussa Vagabondi del Nord.Altri riconoscimenti sono stati asse-gnati a film di livello straordinario:Il Leopardo Indiano (targa Parta Sa-rathy) e I misteri del Madagascar(menzione speciale della giuria stu-denti).

Il direttore del Sondrio Festival, Ma-ria Grazia Cicardi, ha poi cercato lepossibili sinergie per la valorizza-zione del materiale della mostra an-che in altri ambiti: interessante ilconvegno “Al lavoro nei parchi, op-portunità professionali per i giova-ni” rivolto agli studenti delle scuo-le superiori.La Midop punta a potenziare il pro-prio ruolo: dietro la vetrina inter-nazionale dei film sulla natura piùbelli del mondo ambisce a diventa-re un laboratorio di idee e speri-mentazione in cui far crescere pro-getti di studio, valorizzazione e di-vulgazione degli ambienti protetti eda proteggere: i parchi vanno visti

come opportunità di lavoro e stra-tegie per la tutela e la valorizzazio-ne, conservando la natura e le bio-diversità all’interno dei loro spazi eriducendo al minimo le possibiliconseguenze negative legate alleesigenze di sviluppo socioeconomi-co. ■

Un hospice a MorbegnoCompletare l’offerta di ricovero per curepalliative nella provincia di Sondrio.

La struttura di ricoverodi Sondalo ha ricove-rato in media 110 pa-zienti l’anno, con untasso d’occupazionevicino al 100%.L’apertura di un secon-do hospice con 5 postiletto a Morbegno, nel-la parte meridionaledella provincia di Son-drio, è la soluzione piùadeguata per comple-

tare l’offerta di ricovero per cure palliativesul territorio.Nell’ottica di Cancro Primo Aiuto l’hospi-ce rappresenta il primo passo verso l’atti-vazione di un servizio specialistico di assi-stenza domiciliare nella provincia di Son-drio.In questi reparti viene offerto al malato unprogramma universale, articolato e struttu-rato, finalizzato a migliorare la qualità del-la vita residua attraverso il controllo di sin-tomi fisici e del dolore nella sua quadruplavalenza (fisica, psicologica, sociale e spiri-tuale) ed a garantire al paziente dignità uma-na fino alla fine.I Tecnici della Pezzini S.p.A. -DivisioneContract, che è tra i principali sponsor del-la iniziativa, hanno progettato l’hospice se-guendo le indicazioni del Dott. GiovanniCairo, Responsabile Scientifico dell’Asso-ciazione, del Dott. Donato Valenti, Re-sponsabile dell’Hospice di Sondalo e delDott. Luigi Roffi, Primario Medicodell’Ospedale di Sondrio.Nel periodo 1997-2001, su 176.838 abitan-ti (nel 2001), in media 550 malati l’anno so-no morti di cancro e il 90% dei pazienti on-cologici a fine vita ha bisogno di cure pal-liative.Il progetto dell’hospice è stato recentementepresentato presso la Pezzini di Morbegno.In occasione dei campionati mondiali di sci,che si terranno a Bormio e S. Caterina nel2005, la Onlus Cancro Primo Aiuto intra-prenderà una azione capillare di raccoltafondi grazie anche al Comitato Mondiali,che coinvolgerà, tra l’altro, cittadini e or-ganizzazioni industriali e commerciali pre-senti nella provincia, in modo da conse-gnare I’hospice alla Azienda OspedalieraSondrio Valchiavenna per la fine della pros-sima primavera. ■

Prossimamente approfondiremo l’argomento.

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7L A PA G I N A D E L L A S AT I R A

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Oramai un paio di anniorsono fu presentatoun progetto per la co-

struzione di un nuovo ospe-dale a Sondrio in zona Mon-cucco, progetto redatto dauno studio del lecchese, senon ricordo male.Ebbene oggi non se ne sentepiù parlare e con ogni proba-bilità il progetto giace inqualche polveroso cassetto inattesa del definitivo oblio, an-che se, come succede in que-sti casi, dovrebbe essere sta-to pagato agli autori.Se non vado errato gli onora-ri consistenti in una miliar-data di vecchie lirette sonostati saldati!Sbaglio o si tratta di quattri-ni gettati al vento?Il progetto di per se stesso eradi ottimo profilo sia dal pun-to di vista strutturale che fun-zionale e tale da allineare lanostra provincia con le me-glio servite.Ma dietro le luci anche le om-bre.In primo luogo la collocazio-ne era quanto di peggio unamente umana potesse conce-pire.

La posizione, ottima dal pun-to di vista paesaggistico, è deltutto scollegata dalle vie dicomunicazione su ferro e sugomma, e il problema è irri-solvibile, manca poi anche lapossibilità di portare in locoi servizi necessari, dimensio-nati ad una simile struttura.Ma siamo ancora in tempo apensare di porre rimedio ed afare un bel salto di qualità.In altre città (cfr Torino) so-no state usate aree ex indu-striali, oramai urbane, percollocare strutture con fortevalenza sociale e di servizisanitari.A Sondrio abbiamo ancora adisposizione qualche areanella piana di fondovalle e cisi masturba il cervello pen-sando a soluzioni che lascia-no quasi sempre dubbi e per-plessità.Aree vicine al centro, alla sta-zione ed alla tangenziale,quindi raggiungibili conestrema facilità e con possi-bilità di prevedere ampi po-steggi.Perchè non pensare alla pos-sibilità di fare lì il nuovoospedale?

Mi si dirà che le aree sono diprivati ... ma “chi se ne fre-ga”: avete mai sentito parla-re di interventi pubblico/pri-vato e di perequazioni fon-diarie, di scambi?Il patrimonio immobiliare del“mondo della sanità” valtel-linese è immenso e se non va-do errato è di grande valore.La partita si potrebbe chiu-dere in pareggio o quasi.Prevedendo la possibilità dilasciare nei comuni e nei di-stretti dei posti di primo soc-corso, dei poliambulatori erecapiti indispensabili, si po-trebbe alienare il tutto conuna operazione di “specula-zione edilizia e fondiaria” econ il ricavato pagare la nuo-va struttura.L’operazione, se gestita dagente onesta e capace, po-trebbe dare un forte valoreaggiunto non solo alla sanitàma anche alla intera valle.Ovviamente i poco funziona-li e costosissimi ospedalettiche costellano la provinciaandrebbero chiusi (anticipan-do quello che inesorabilmen-te sarà il loro destino futuro)e il personale potrà operarein parte in una struttura mo-derna, sicura ed efficiente opotrà essere destinata al ter-ritorio.Pensiamo che nella vicinaMilano vi sono lavoratori cheper andare al lavoro debbonostare in giro anche un paio diore al giorno su poco ospita-li mezzi pubblici o inscatola-ti nelle auto su una rete viariaperennemente bloccata: cosasaranno mai una ventina dichilometri su strade tuttosommato vivibili.Un paio di “piccoli” elicotte-

L’ospedale fantasmaUna sanità per i dipendenti, per i pazienti o per il patrimonio immobiliare, questo è il dilemma amletico!

di Pier Luigi Tremonti

Perchè no?

• Recupero del “progettoMoncucco”

• Valutazione delle aereecompatibili

• Valutazione del patrimoniodella azienda ospedaliera

• Chiusura dei piccoli ospe-dali che comunque chiude-ranno presto o tardi: è illoro destino

• Riunificazione delle specia-lità

• Riunificazione del persona-le medico e paramedico

• Prevedere incentivazioneper coloro che dovranno af-frontare trasferte

• Rivedere la rete del soccor-so con due elicotteri abili-tati al volo strumentale enotturno (cfr Rega) e conmoderne autoambulanze

• Organizzare una rete dipunti di primo intervento

• Seria ristrutturazione delCUP

• Ampliare l’orario di attivitàospedaliera, che oggi è li-mitata tra le sette e le do-dici del mattino

• Aprire le sale operatorie siaal mattino che al pomerig-gio (perchè no la notte?),cosa possibile avendo con-centrato il personale in unsolo punto

• Reale integrazione con tut-to il personale sanitario sulterritorio, con la medicinadi base e con la continuitàassistenziale.

(m.m.)

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Un po’ di storiaApprovata la famigerata legge 833/78 sulla riforma sanitaria,tutti i partiti come avvoltoi si lanciarono sulla preda per ac-caparrarsi più spazio possibile per gestire il clientelismo elet-torale senza pensare troppo all’interesse degli assistiti.Per colpa dei politici cura, prevenzione e riabilitazione per tut-ti finirono in fanteria.I componenti dei famosi comitati di gestione delle Unità sa-nitarie locali erano spesso incompetenti ed incapaci colonnellipolitici dei vari comuni (indicati da comunisti, socialisti, de-mocristiani, repubblicani e socialdemocratici), insomma mez-ze tacche di partito.Ma allora tutto sommato le cose, almeno dal punto di vista psi-cologico andavano abbastanza bene.Si assumevano discrezionalmente medici e paramedici conpseudoconcorsi e su corsie preferenziali.Si inventavano divisioni e reparti ospedalieri nominando pri-mari e assistenti scelti tra congiunti e affini con il consensodei sindacati creando le premesse per avere un esercito di ge-nerali.Tolti di mezzo i Comitati di Gestione e imboccata la strada del-la gestione monocratica (spiccatamente politica in mano aipartiti dominanti) la situazione certamente non brilla.Oggigiorno la Regione pone severi vincoli ai bilanci mentreuna volta i rimborsi venivano fatti a piè di lista con una for-se eccessiva larghezza di vedute ed è innegabile che il cam-biamento possa creare situazioni di disagio e disservizi.Il vento lo hanno comunque seminato i politici, la tempestala raccolgono come al solito i cittadini che li hanno scelti!

(pielleti)

PromesseL’idea attorno a cui ruota tutto il progetto “Spaggiari” per lasanità prossima ventura parte da un serio ragionamento:l’ospedale moderno non può più essere visto nell’ottica tradi-zionale in cui tutto ruotava attorno al numero di posti lettoche afferiscono alle diverse Unità Operative.Il modello organizzativo dovrà valere per tutti e quattro gli ospe-dali e prevederà la flessibilità del personale, da non considerar-si più come appartenente a un unico reparto ma a disposizionedel Dipartimento che lo alloca in base alle esigenze.Ma che senso ha, se non quello di non voler sollevare un vespaioin clima preelettorale, fingere di non sapere che un solo ospe-dale ben attrezzato ed efficiente sarebbe la soluzione ottimaleper la Valtellina.La “bozza di Piano Strategico Aziendale” prevede per Sondriomassicci interventi di ristrutturazione che comprendono la rea-lizzazione dei bagni (attualmente alcuni servizi sono veramenteda quarto mondo!), dell’impianto di condizionamento, un nuo-vo blocco operatorio, una nuova sala per l’emodinamica, il nuo-vo pronto soccorso (era ora) e una nuova piattaforma di atter-raggio dell’elicottero*.Un primo lotto di lavori prevede una spesa di 12 miliardi.Sondalo dovrebbe divenire l’ospedale di riferimento per la ria-bilitazione, con il mantenimento di tutte le Unità Operative og-gi esistenti. Sarà invece riorganizzata l’attività di pediatria, inconsiderazione dell’esiguo numero di ricoveri, ed è prevista l’uni-ficazione dell’attività di terapia intensiva e unità coronarica.Previsto l’accorpamento dei reparti di chirurgia generale e va-scolare.Dimenticavo: per la messa in sicurezza del presidio di Sondalo,tra adeguamento degli impianti ed adeguamenti strutturali, sene andranno a breve altri 7 miliardi.Nessuno stravolgimento significativo è previsto per l’ospedale diChiavenna, dove l’unica novità riguarda la centralizzazione a Son-drio nell’arco di due anni del laboratorio di analisi.Di grazia vorrei sapere se una chirurgia senza una rianimazionealle spalle può essere considerata sicura!Per Morbegno l’idea potrebbe essere quella di trasformarlo in uncentro di eccellenza per gli interventi di day surgery.Lì presto sarà inaugurato un centro di cure palliative, e si pen-sa di fare anche un centro di terapie per patologie muscolo-sche-letriche.Sollevare fumo serve solo per dare una impressione di movi-mentismo, per far passare la nottata e per rinviare a “tempimigliori” i provvedimenti drastici che si impongono ma che pur-troppo sono impopolari.Forse, e me lo auguro, la gente arriverà presto a capire che è me-glio fare qualche chilometro e andare in un centro sicuro, piut-tosto che avere strutture vicine traballanti.Meglio affrontare una trasferta che cacciarsi nei guai vicino a ca-sa o attendere mesi per un esame o per una visita.A cosa può andare incontro oggi un infartuato grave in unasperduta valle senza strade e nella notte?Vorrei poi avere il dato certo sui valtellinesi che fuggono dallavalle e ricorrono alle cure di centri lontani pagando di tasca pro-pria o a carico di assicurazioni private: ci sarebbe di che riflet-tere!Una sanità per i dipendenti, per i pazienti o per gli immobiliquesto è il dilemma amletico!Con i pannicelli caldi e nella confusione non si è mai risolto nul-la.

* La piattaforma potrebbe essere necessaria qualora dovesse decollare il progetto diun “Traumal center” ripartito tra Sondrio e Sondalo o se questo centro dovesse esse-re addirittura assegnato a Bergamo, Lecco o Como in quanto richiede una utenza dioltre un milione e mezzo di abitanti.

ri, sul modello di quelli in usoa Samaden, con tre personedi equipaggio ed abilitati alvolo strumentale e notturnoassicurerebbero il trasporto daqualsiasi punto della valle dipazienti ad un centro vera-mente attrezzato e sicuro.Concentrare poi tutti mediciospedalieri in un unico centro

consentirebbe a mio avvisotra l’altro anche una notevoleriduzione delle liste di attesa:per avere un servizio h 24 inun solo centro occorre un mi-nore numero di operatori, sipossono destinare gli altri acompiti operativi interni e sulterritorio con una operativitàpiù proficua. ■

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Il Consiglio dei ministri del 4 set-

tembre ha deciso di procedere per de-

creto alla assunzione di mille agen-ti, recuperandoli dalle graduatorie del

concorso dello scorso anno. L’obiettivo

dichiarato è avere più pattuglie nellestrade e combattere meglio l’immi-grazione clandestina.

Il provvedimento è stato commentato po-

sitivamente dalla stampa e anche dall’op-

posizione. Si è parlato anche di una vit-

toria di Giuseppe Pisanu su Giulio Tre-

monti, poco incline ad aumentare la spe-

sa in questo settore. Le poche voci di-

scordanti avrebbero invece preferito piùrisorse per uffici, utilizzo di mezzi e at-trezzature. Dobbiamo però riconoscere

che Tremonti ha ragione a opporsi agli

aumenti della già cospicua spesa.

Non è una questione di numeriChe il problema della sicurezza inItalia non sia questione di numeri,si tratti di soldi o di personale, è di-

mostrato dal fatto che negli ultimi ven-

ti anni gli stanziamenti di bilanciosono aumentati in termini reali di ol-tre l’80 per cento, passando dai 7.200

milioni di euro del 1980 agli oltre

13mila milioni di quest’anno. E si trat-

ta di una stima probabilmente per di-

fetto, dal momento che i non facili cal-

coli coinvolgono almeno sei ministe-ri, con sovrapposizioni non solo nel

caso delle due forze di polizia princi-

pali, ma anche delle altre forze diret-

tamente o indirettamente coinvolte

nella sicurezza interna (guardia di fi-

nanza, polizia penitenziaria, guardia

costiera e corpo forestale).

Resta il fatto, comunque, che già nel

1995 questa spesa risultava pari all’1,28

per cento del Pil, superiore al rapporto

di Germania (0,91 per cento), Regno

Unito (0,86 per cento) e Francia (0,60

per cento).

Quanto al personale, nello stesso pe-

riodo l’aumento è stato superiore al60 per cento. Cosicché, aggiungendo

polizia municipale e polizie provincia-

li, le forze pubbliche oggi preposte al

rispetto della legge in Italia ammonta-

no a 400mila unità. Un numero che ci

pone al primo posto tra i paesi euro-pei in rapporto alla popolazione, come

mostra un calcolo olandese del 1999

(vedi grafico).

Nel gruppo di paesi che hanno un rap-

Se mille poliziotti vi sembran pochidi Gianluigi Galeotti

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a privilegiare la quantità delle singole

forze, accentuando l’inefficienzadell’impegno pubblico totale.

Si potrebbe iniziare con i servizi neglistadi. Costano somme folli in termini

di personale, straordinari e automezzi

(anche nelle piccole città, spesso ancor

più impegnative delle grandi). Questo

tipo di sorveglianza potrebbe essere

contrattato e fatto pagare ai privati, in

questo caso le società di calcio.

E lo stesso discorso vale per i serviziprestati alle istituzioni pubbliche e

agli stessi organi costituzionali. Chi si

avvale di servizi “senza costo” tende

a chiederne più di quanto sarebbe effi-

ciente: paradigmatico il carabiniere-mo-

tociclista utilizzato per il recapito del-

la corrispondenza istituzionale. Ma co-

sì, ancora una volta, viene privilegiata

la quantità e svilita la qualità dell’im-

pegno del personale. ■

Il testo riprodotto è tratto da www.lavoce.info.

porto forze di polizia-popolazione su-

periore alla media europea, l’Italia

precede Spagna, Francia e Grecia.

Germania e Regno Unito hanno inve-

ce valori inferiori del 15 per cento al-

la media.

In conclusione, negli ultimi venti anni

l’Italia ha adeguato il livello delle for-

ze dell’ordine su un piano prettamen-te quantitativo, con un aumento del-la spesa che ha sostanzialmente se-guito l’andamento della criminalità.

Tuttavia, a questo non è corrisposto un

miglioramento della sicurezza collet-tiva. Un fatto che non stupisce, perché

in nessun paese all’aumento delle for-

ze di polizia segue automaticamente la

diminuzione del crimine.

Nel frattempo, però, è nettamente mi-gliorata la tecnologia di produzione di

sicurezza (tecniche di controllo, infor-

matizzazione, ecc.), perché allora insi-

stere nell’aumento degli organici?

Dalla quantità alla qualitàLa risposta alla richiesta di sicurezza dei

cittadini è da cercare piuttosto nei mi-glioramenti di professionalità, nel

proficuo impiego delle tecniche che

rendono più produttivo il personale, in

remunerazioni che tengano conto del-

la diversità dei compiti svolti (a parità

di grado e di anzianità, lo stipendio, in-

clusi gli straordinari, di un addetto alla

mensa oggi è uguale a quello di un

agente della squadra mobile). Ma so-

prattutto, in una chiara divisione dicompiti tra le varie forze dell’ordine:

il vero nodo della questione, che nes-

suna forza politica ha mai voluto af-frontare seriamente.

Occorre favorire la vocazione specifi-ca dei vari corpi, eliminando duplica-

zioni e sovrapposizioni. Il fatto che tut-

ti tendono a occuparsi di tutto, con re-

sponsabilità che si intersecano sino a pa-

ralizzarsi, alimenta la dispersione del-le risorse.

Il coordinamento delle varie forze

dell’ordine, del resto, ha dimostrato isuoi limiti (la leggenda metropolitana

vuole che il controllo elettronico nelle

grandi città venga utilizzato anche per

“controllarsi” a vicenda negli inter-

venti).

Se non si procede in questo senso, per-

mangono segnali sbagliati che portano

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Dal 1 ottobre 2004 quattordici mi-lioni di cani e gatti italiani nonpotranno più viaggiare all’este-

ro senza il passaporto.Così come da oggi tutti gli animali do-mestici in ingresso nel nostro Paese siaper “compagnia” che per scopi com-merciali dovranno essere accompagna-ti dalla nuova certificazione.Lo stabilisce una disposizione europeasul trasporto degli animali che, inizial-mente prevista dal 3 luglio scorso e poislittata ad oggi, interesserà anche qual-che migliaio di furetti, animali purtrop-po riconosciuti implicitamente con que-sto atto come domestici a tutti gli effet-ti.La nuova normativa prevede inoltre l’in-troduzione di un microchip identificati-vo a sostituzione, per i soli cani, del ta-tuaggio di riconoscimento, entro i pros-simi otto anni. Pratica, quest’ultima, giàinserita in Italia nei regolamenti di al-cune regioni e che il Ministro della Sa-lute si è impegnato a rendere uniformeed obbligatoria entro il 10 gennaio 2005anche a seguito dell’Accordo Stato-Re-gioni del febbraio 2003.Per garantire una maggiore sicurezzasanitaria, il Regolamento comunitario998/2003 sancisce l’obbligo del passa-porto attestante la vaccinazione anti-rabbica e gli altri eventuali trattamentisubiti dall’animale, limitazioni per glianimali con età inferiore ai tre mesi ma,in caso di mete come Irlanda, Gran Bre-tagna, Malta e Svezia che hanno da tem-po regole più severe - ricordiamo la tri-stemente famosa quarantena ora cadu-ta - sarà necessario anche un test im-munologico di verifica degli anticorpidopo almeno trenta giorni dalla vacci-nazione antirabbica.Regola questa che vale anche per i Pae-si extra UE.La partenza in questi casi può avveniretrascorsi sei mesi dalla effettuazione del

prelievo.Il passaporto dovrà contenere i dati ana-grafici dell’animale e lo accompagneràper tutta la vita, ma non interessa ani-mali tropicali, anfibi, rettili, uccelli, ro-ditori e conigli.Il provvedimento ha suscitato le rea-zioni positive degli animalisti: anche sel’obiettivo dell’Ue è solo quello di tu-telare la sicurezza sanitaria dal puntodi vista etico, infatti il passaporto è unimportante riconoscimento implicitodella soggettività dell’animale.A rilasciare il passaporto saranno i ve-terinari delle Asl e il microchip potrà es-sere inserito anche da un veterinario li-bero professionista che ne rilascia cer-tificazione.Sul tesserino devono essere riportati no-me, specie, sesso, colore del mantello edata di nascita dell’animale.Facoltativi, invece, la foto ed il nome.In tutto è composto di XI sezioni nu-merate alla romana che non possono es-sere intercambiabili ma devono rigoro-samente rispettare la sequenza.Il formato deve essere uniforme come ilcolore della copertina: blu con stellegialle nel quarto superiore, conforme-mente alle caratteristiche dell’emblemaeuropeo.Sotto il simbolo Ue la dicitura in blu susfondo bianco Unione Europea e, subi-to sotto, il nome dello stato membro.A centro copertina l’intestazione: “Pas-saporto per animali da compagnia”.Il passaporto deve essere redatto nella onelle lingue ufficiali dello Stato membrodi rilascio; i termini Unione europea eil nome dello Stato membro di rilasciodevono essere stampati con caratteri si-mili.Sulla copertina del modello di passa-porto deve essere stampato il numerodel passaporto, ossia il codice ISO del-lo Stato membro di rilascio seguito daun numero unico.

Per quanto riguarda le informazioni,queste devono essere fornite nella o nel-le lingue ufficiali dello Stato membro dirilascio e in inglese; la dimensione e laforma delle caselle del modello di pas-saporto sono indicative e non vincolan-ti.Oltre all’antirabbica (sezione IV) ci so-no gli spazi riservati anche per il tratta-mento anti-zecche e contro l’echino-coccus.Dovrà essere obbligatoriamente indi-cato il numero, la data d’impianto e lalocalizzazione del ‘’microchip identifi-cativo’’. Indolore, non soggetta a usura,la spia sottocutanea, che per essere in-serita non richiede anestesia, ha già so-stituito il tatuaggio di riconoscimento inVeneto, Emilia Romagna e Abruzzo.Non è ancora previsto dalle disposizio-ni regionali, invece, nel Lazio e nellamaggior parte delle regioni del Sud.I costi stanno suscitando polemiche: seil passaporto in Friuli-Venezia Giuliacosta 8,50 euro, in Veneto si paga 10 eu-ro, in Lombardia a seconda delle pre-stazioni da 11,57 a 17,35 euro, in Li-guria, Emilia Romagna e Toscana costa

UN PASSAPORTOPER CANI,GATTI E FURETTIdi Gianluca Felicetti

Sia per i viaggi in paesi comunitari cheextra Unione Europea.Disposizioni più restrittive per alcuni paesi.Incredibili costidifferenziati da regione aregione.

Il Regolamento comunitario 998/2003ha innovato anche il settore delle im-portazioni a scopo commerciale rego-late dalla direttiva 92/65 prevedendo,articolo 22, “il certificato sanitario at-testante un esame clinico effettuatoentro le 24 ore prima della spedizioneda un veterinario abilitato dall’auto-rità competente, da cui risulti che glianimali godono di buona salute e so-no atti a sopportare il trasporto fino al-la destinazione”.E’ questo un documento che da oggi po-trà essere richiesto per scoraggiarequanto più possibile l’importazione a fi-ni di vendita di cani e gatti.

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15, nel Lazio 100 euro, portati con re-tromarcia di qualche giorno fa a 60.Una cifra che, secondo le disposizioniregionali, comprenderebbe anche l’in-serimento del dispositivo ma che èsempre il doppio o più del doppio del-le altre Regioni.

Per portare un cane all’estero ci sonoregole base più o meno restrittive pae-se per paese.

Gli animalisti consigliano di nonportare animali se non in caso di tra-sferimento definitivo. ■

Di seguito alcune informazioni riguardo ipaesi extracomunitari, tenendo presente lepagine ufficiali del Ministero della Salute,della raccolta delle disposizioni della Com-missione Europea e l’obbligo base del pas-saporto, per tutti:Canada: necessario un certificato del vete-rinario che specifici le caratteristiche del ca-ne e le vaccinazioni, in particolare quella an-tirabbica deve risalire a non piu’ di tre anniprima.USA: occorrono un certificato di buona sa-lute internazionale, uno di vaccinazione an-tirabbica effettuata da almeno un mese.Non è richiesta alcuna quarantena tranneche per le Hawaii dove è necessaria unaquarantena di circa un mese.Cuba: E’ proibito l’ingresso di animali vivi.Argentina: Certificato di buona salute in-ternazionale e quello di vaccinazione anti-rabbica, quest’ultimo solo per gli animalicon più di 3 mesi.Brasile: Certificato di buona salute interna-zionale emesso dal Consolato brasiliano inItalia e quello di vaccinazione antirabbica seil cane ha più di 4 mesi.Cile: Certificato di buona salute internazio-nale emesso dal consolato cileno in Italia equello della vaccinazione antirabbica.Egitto: Certificato veterinario ufficiale (va-lido 2 settimane). All’arrivo l’animale vieneesaminato e, se necessario, messo in qua-rantena (per un massimo di due settimane).Marocco: Certificato di buona salute inter-nazionale rilasciato almeno 10 giorni primae certificato di vaccinazione antirabbica ri-lasciato tra 1 e 6 mesi prima della parten-za.Sudafrica: Certificato di vaccinazione anti-rabbica effettuato almeno 30 giorni prima.E’ in vigore una quarantena di 30 giorni enon sempre sono accettati i cani.Tunisia: Certificato di vaccinazione anti-rabbica rilasciato tra uno e sei mesi primadella partenza, certificato di buona saluteche garantisca che l’animale non ha avutomalattie nelle sei settimane antecedenti lapartenza.Proibito l’ingresso dei cani da caccia.Cina: Certificato di buona salute interna-zionale, quello per l’esportazione e di vacci-nazione antirabbica effettuata almeno 30giorni prima.Giappone: Stesse regole della Cina con inpiù una quarantena di 2 giorni.Australia: Certificato di buona salute inter-nazionale, certificato sanitario per l’espor-tazione e quello di vaccinazione antirabbi-ca effettuata almeno 6 mesi prima. Vaccinisono richiesti anche contro cimurro, epatitee parainfluenza. Test vengono effettuati perla brucellosi, leptospirosi e panitopenia tro-picale. Previsti anche trattamenti contro pa-rassiti interni ed esterni e una quarantenadi 30 giorni.Nuova Zelanda: Quarantena di 30 giorni emolte altre restrizioni. Il consolato può for-nire tutta la documentazione necessaria.

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VVEERRGGOOTTTTIINNII

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L’eco della chiusura di alcuni sto-rici rifugi alpini in Lombardia èarrivato al convegno organiz-

zato l’estate scorsa in Valmasino (Son-drio) dall’Associazione Kima in con-comitanza con la disputa di una celebrecorsa in montagna lungo il sentieroRoma.E’ dell’estate 2004 infatti una denunciache dalle pagine del notiziario del CAI“Lo Scarpone” è dilagata sui media na-zionali con riferimento alle difficoltà digestione di rinomati e frequentatissimirifugi della Lombardia, alcuni dei qualicostretti a chiudere mentre altri ri-schiano di subire la stessa sorte.Un’onta intollerabile per una regionedove la montagna (il 44% della super-ficie complessiva) riveste una specificaimportanza per la sua incidenza territo-riale, demografica ed economica.“Una situazione non brillante” l’hadefinita con fair play il presidente dellaCommissione rifugi e opere alpine delCAI Broccardo Casali, individuandouna delle cause in una carenza legisla-tiva che in Lombardia complicherebbetremendamente le cose.“Il Piemonte, il Trentino, il Veneto e al-tre regioni -spiega Casali - hanno ag-giornato la legge regionale riguardantei rifugi mentre in Lombardia la vecchialegge li assimila agli alberghi. E’ statapresentata una proposta di legge regio-

nale in linea con quelle approvate inaltre regioni ma a oggi non c’è statoalcun riscontro. Inoltre la RegioneLombardia non eroga fondi ed è in-comprensibile che in Lombardia nonesista un assessorato alla montagnacome in altre regioni e che i problemiriguardanti le montagne vengano sud-divisi tra vari assessorati. E comunque,tenendo conto delle caratteristiche delterritorio dovrebbe esistere un ufficiospecifico per tali problemi”.L’occasione per sgrovigliare la matassadei tanti rifugi in crisi è stata colta alvolo anche da Carlo Lucioni, allaguida come presidente dei diecimilasoci milanesi del CAI.“Oggi è quasi impossibile evitare lachiusura di qualche struttura che nonrispetta le normative igieniche e di si-curezza - dice Lucioni - Per la grandemaggioranza delle sezioni la gestioneeconomica dei rifugi è passiva perchéla manutenzione straordinaria dellestrutture finisce per assorbire tutti gliutili e crea paurosi deficit di bilancio.I canoni di gestione non sono assoluta-mente sufficienti a coprire le spese permantenere in efficienza e adeguare lestrutture alle normative vigenti”.“Aumentare i canoni in modo da ga-rantire i necessari flussi finanziari -precisa ancora il presidente dellaSezione milanese del CAI - non

è realizzabile in tempi brevi e proba-bilmente sarebbe antistorico, dato il li-vello a cui dovrebbero essere fissati evista la tradizionale politica di servizioai soci attuata dal CAI: i gestori infattinon sono liberi di fissare il prezzo deipernottamenti e di alcune altre voci es-senziali del tariffario che sono decisedal CAI stesso con chiari intenti so-ciali. Va detto poi che in un’ottica di li-bero mercato i rifugi diventerebberopresto infrequentabili anche da partedi una utenza a reddito medio alto. Diquesta politica beneficiano anche i nonsoci che costituiscono la maggioranzadei frequentatori dei rifugi del CAI. Diconseguenza come chiedere ai soci chesi accollino (attraverso un aumentodelle quote associative) al cento percento gli oneri per un servizio definitodi utilità sociale? Il CAI e le sue se-zioni faranno certamente la loro parte,ma - conclude Lucioni - è l’intera col-lettività che deve farsi carico del de-stino dei rifugi e su questo tasto è op-portuno che batta con maggiore deci-sione l’organizzazione centrale delCAI nei suoi rapporti con le istitu-zioni”. ■

Preoccupazioni per la chiusuradei rifugi alpini in Lombardia

di Tito Lupi

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Era una stupenda giornata settem-brina ed io, stanco ed annoiatodel fragore cittadino, della sua vi-

ta frenetica, del suo traffico, degli odo-ri e dei miasmi, mi accingevo ad uscireda quella bolgia e già pregustavo la tran-quillità della casa di campagna di miamadre, la nostra casa natale, immersanel verde della campagna ferrarese.Il campanile e la vecchia chiesa sem-bravano salutarmi e lo stormire dellefronde dei pioppi rimproverarmi peraver da tempo, forse troppo, abbando-nato quel piccolo angolo di paradiso.

Un qualcosa di antico, di familiare e diamico aleggiava nell’aria e da un pro-fumo di cucina, di lavanda, dal vecchiomagazzino ora trasformato in garage,stipato di vecchi attrezzi, la fucina di

mio nonno le pinze da fabbro, il tor-chio, il tandem con il quale scorazzavoper le stradine polverose del mio paese,la vecchia madia, i macinini da caffè, lepentole in alluminio, i vecchi paioli, lavite “del Clinto”, le dalie, i garofanini edi girasoli, il tutto mi riportava ai vecchitempi, a quando ero bambino ed ai vec-chi sapori dimenticati per i fast-food,per un piatto unico e per i pranzi mordie fuggi per recuperare il tempo e corre-re, correre verso che cosa? Verso qualetraguardo? Verso quale benessere? Perquale premio? Il tempo guadagnato poi... per farne che cosa?

Entrai quatto quatto nel portico, unicoad accorgersi di me il vecchio gatto“Ocim” acciambellato su se stesso, loaccarezzai e nella penombra udii delle

risatine, un parlottio fresco e squillan-te, un tintinnare di tazze e di bicchieri,un profumo di biscotti all’anice e quel-lo inconfondibile del rosolio. ..titubai unpo’, prima di entrare, forse impacciatoed indeciso se turbare o meno tanta se-renità!

Entrai con i miei fiori tenuti alla rove-scia, come prontamente mi fecero no-tare, ed abbracciai mia madre ed im-mediatamente fui travolto da abbracci,da baci e da domande delle sue amicheche stavano festeggiando il suo novan-tunesimo compleanno.

Tutto come un tempo. Ero a casa mia:mancavano il profumo del tabacco dipapà, le risate di mia sorella e tante al-tre cose.

Ma poco era mutato, tutto era armo-

91 anni... al giorno d’oggidi Giancarlo Ugatti

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nioso e tranquillo.Mi accomodai con una fetta di dolce etanta nostalgia nel salotto ascoltando iloro discorsi.“Pensate - diceva una signora - siamo ri-maste in cinque della nostra numerosa“congrega” e quest’anno la somma deinostri anni arriva a 446, chi l’avrebbemai detto! Chi sarà la prima di noi?”. Edavanti con questi discorsi in manieracalma e pacata come stessero parlandodi altre persone, ogni tanto sorseggia-vano un goccio di rosolio ed assaggia-vano qualche pasticcino colorato e ri-coperto di zucchero ripetendosi di tan-to in tanto che l’esame del diabete loavrebbero fatto il mese prossimo.Poi i discorsi si spostarono sui nuovimodi di vivere del giorno d’oggi, sulcomportarsi dei figli e dei giovani ingenere, del rispetto per le persone an-ziane, dell’amore per gli animali e diquando le loro madri davano del “voi”al loro marito.Smisi di leggere il giornale e mi fecipiù attento.Mamma Novella disse: “Sapete perchéci piacciono tanto i bambini? Perché lisappiamo ingenui, spontanei e puliti,perché siamo sicuri di non vedere af-fiorare nei loro pensieri e nei loro mo-di di fare la benché minima tracciadell’ipocrisia e della falsità degli adul-ti”. Tutte ricordarono spaccati di vitavissuta ed esperienze attestanti quelloche era stato appena detto.Questo malvezzo è penetrato cosìprofondamente in noi che sicuramentesolo se ci sfiorasse il dubbio che i bam-bini fossero in grado di pensare comegli adulti immediatamente diventerem-mo diffidenti e guardinghi anche con-tro loro.

E concludeva: “Sicuramente sono l’one-stà, l’innocenza e la loro spontaneità afarci innamorare di loro”.Un’altra invitata ricordava con amarez-za che alcuni giorni fa era andata a far-le visita la sua nipotina ed a suo dire,conciata in modo strano, stranissimo:ferretti infilati nel naso, nelle orecchie,nell’ombelico, tatuaggi sulle braccia,capelli colorati, gonnellina da ricercarecon il lumicino. “Ero esterrefatta – di-ceva - ed alle mie rimostranze sapeteche cosa mi ha ribattuto mia figlia?Mamma ma tu sei una matusa, i figli de-vono fare le loro esperienze!”.

Se io potessi vivere per poter vederla ar-rivare agli ottanta anni le vorrei chiede-re: “Cara la mia bambina, ora sai cos’èla vita e come la dovevi vivere. Ma che

cosa ti serve oggi? Era adiciotto anni che ti servivasaperlo, che cosa te ne faiora delle tue esperienzeno-global, ora non ti rima-ne altro che essere scon-tenta e delusa e rimpiange-re il bene sciupato dellafreschezza degli anni cheti era stato regalato su diun piatto d’argento perchètu ne facessi tesoro per te eper i tuoi figli, mettendo afrutto l’esperienza di chi tivoleva bene e ti avrebbe in-segnato le vie migliori dapercorrere e da scegliere”.Mia madre stava prepa-rando dei piccoli involtini,dei deliziosi pasticcini, miavvicinai curioso e le dis-si: “Mamma non ti sembradi esagerare con questidolci e queste merendi-ne?”.“Ma non vedi sciocco chesono i pacchetti per i canied i gatti che sono diven-tati per noi anziani come inostri bambini! Quasi fossero una sor-ta di ricompensa d’istinto: sono affet-tuosi, fedeli, spontanei e noi siamo si-curi di non trovarci di fronte a bugiardiche agiscono solo per un loro torna-conto personale. Ci sono stati dati dal-la Divina Provvidenza per continuaread essere felici, per poter amare ed es-sere amati anche adesso che non siamopiù utili ed importanti per nessuno, mapurtroppo siamo solo di peso” .Poi piano piano la piccola festa volge-va al termine ed una alla volta le ami-

che, dopo gli ultimi saluti e ringrazia-menti, aiutate dai loro bastoni, si diri-gevano verso le loro case dove quasicertamente le aspettavano i loro “Caribambini a quattro zampe”.La casa avvolta da questa luce stranache precede la sera tornò silenziosa, manon triste, aleggiava nell’aria uno stra-no senso di festa e di allegria, forsequelli “Che erano partiti da tempo perun altro mondo” erano attorno a noi ebrindavano felici allietati dal pizzicoredelle bollicine dello spumante. ■

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“Tenetemi informato il più possibile, ma non coinvolgetemidirettamente”

Questa potrebbe essere in

sintesi l’analisi che emerge

dal sondaggio effettuato su

un campione di 624

residenti nella zona di

Colico e della Bassa

Valtellina in rappresentanza

di un campione di

popolazione di circa 10.000

abitanti e presentato sabato

9 ottobre al Policampus di

Sondrio nell’ambito del

convegno Rinamed

organizzato da Irealp.

Il convegno valtellinese è stata unadelle tappe importanti del progettoche ha coinvolto tutte le regioni eu-

ropee dell’arco alpino e mediterraneo eche ha visto la Lombardia operare fian-co a fianco delle regioni alpine italianee con le regioni dell’oltralpe francese espagnolo in un progetto che aveva nel-la Catalogna spagnola la regione capo-fila.Del convegno e dei singoli interventi siè occupata a grandi riprese la stampaprovinciale e regionale, noi vogliamoinvece affrontare il nocciolo della que-stione dell’analisi presentato nel corsodel convegno dal professor Marco Lom-bardi del dipartimento di sociologiadell’Università Cattolica del Sacro Cuo-re di Milano, che con la sua equipe harealizzato ed analizzato il sondaggio.Sono diversi i dati che emergono dal-le quasi trenta tabelle che corredano illavoro di Lombardi, ma sicuramentealcune considerazioni generali nonpossono sfuggire ad un occhio attento.La prima riguarda la necessità di veri-ficare quali sono le vere condizioni di ri-schio percepito ed in cui pensano di vi-vere i valtellinesi intervistati.E qui vengono le prime due sorpreseche sono poi a mio avviso il filo rossoconduttore di tutto il sistema e del ra-gionamento attorno alla percezione delrischio.Ovviamente la maggioranza ritiene che

i rischi maggiori a cui si è esposti sia-no quelli legati alle frane ed alle eson-dazioni, due fenomeni naturali che in-cidono sulla popolazione valtellineseed in particolare su quella intervistata inquanto scelta tra coloro che risiedono incomuni dove nell’ultimo decennio sisono verificate frane, alluvioni ed eson-dazioni.Ma proprio perché questo campione dipopolazioni dovrebbe essere più di al-tri incline a uniformare il rischio allapaura delle frane e delle alluvioni dicui sono state vittime, suona come unpugno nello stomaco lo scoprire chesupera abbondantemente il 20%, il nu-mero di coloro che ritengono che il ve-ro pericolo è proprio nella schifosastrada statale che attraversa i centriabitati. Paura degli incidenti stradaliinsomma!E il secondo dato che lascia perplessi edallo stesso tempo deve fare aprire unarigorosa discussione è dettato da quel16% di intervistati che ritiene l’elettro-magnetismo, legato prevalentementealla questione dell’attraversamento del-la valle dei grandi elettrodotti, fonte pri-maria di rischio.Estremizzando potremmo anche aprireuno spazio di discussione e di com-prensione sul fatto che il problema de-gli elettrodotti ha una sua forte base diconsenso tra coloro i quali lo ritengonoun rischio vero: forse certi fenomeni

Quali sono gli eventi più temuti?Da un sondaggio emergono aspetti

che fanno riflettere.di Lorenzo Croce

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che si sono verificati nei mesi scorsinelle nostre valli, pur da condannare,sociologicamente andrebbero letti inmaniera meno superficiale.Quasi si trattasse della punta di un ice-berg che è presente e non è nemmenotanto sommerso tra la gente comune.Sulla vicenda della percezione del ri-schio entrano in gioco nella lunga rela-zione di analisi del sondaggio anche unaserie interessante di dati che dimostra-no come i valtellinesi si ritengano rap-presentati dagli enti locali in quantovedono il sindaco come primo oggettodell’informazione edella prevenzione esubito dopo gli esper-ti, i vigili del fuoco ela protezione civile.Gli intervistati nonhanno molta fiducianella stampa, pur sot-tolineando che i gior-nalisti, non sono poitutti da buttare; gli in-tervistati ritengonoche troppo spessol’informazione diven-ta di fatto un paraven-to di piccolo cabotag-gio dietro al quale sinascondono non solola impreparazione,ma soprattutto un piz-zico di fantasia.Un dato questo che cideve seriamente fareriflettere sul ruolo deimezzi di stampa e diinformazione.Occorre maggiorechiarezza nell’infor-mazione, maggioreprevenzione ed anchemaggiore coinvolgi-mento della popola-zione.Ma qui arriva quellache secondo i socio-logi della Cattolica è

una vera e propria doccia fredda: lagente vuole essere informata (tranneun 6% che non ne vuole proprio sape-re) ma difficilmente vuole essere coin-volta.In particolare quando si parla di assi-curarsi contro i rischi o di parteciparedirettamente alle azioni di protezionecivile o di prevenzione, la gente diceno.Un no secco che lascia un po’ tutti per-plessi e a bocca aperta in quanto non èpossibile teoricamente alcuna azionedi prevenzione senza il coinvolgimen-

to e prima ancora la conoscenza di tut-ti noi, altrimenti il rischio è alto e quelsei per cento di coloro che dicono difregarsene (su una popolazione di10.000 persone sono complessivamen-te 600 persone) sono un piccolo nume-ro sotto il profilo statistico, ma bastanoper riempire un paio di cimiteri in ca-so di rifiuto di aiuti e di interventi nelmomento del bisogno.Questo dato, molto più di tanti altri,dovrebbe essere sufficiente a farci ri-flettere con o senza l’ausilio di socio-logi ed esperti. ■

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Il tatto, fra i cinque sensi, veicola unpotere antico quanto misterioso, por-tatore di vita e di guarigione, stru-

mento di conoscenza spesso temuto erelegato dalla storia nel limbo della col-pa e della trasgressione.Penalizzato, soprattutto nell’Occidentecristiano, da troppi retaggi religiosi che,a fini di controllo delle masse e di tan-ta “pericolosa” conoscenza popolare,hanno identificato corpo e peccato, ilsenso del tatto costituisce un enormestrumento di conoscenza.Nel corpo umano, attraverso lo svilup-po di miliardi di connessioni neocorti-cali che nei secoli dell’evoluzione han-no portato l’uomo ad orientarsi nellospazio e ad agire in esso con consape-volezza attiva, è il senso più potente cuiè riservato, in ambito cerebrale, unospazio assolutamente maggioritario ri-spetto agli altri quattro. Quale altro es-sere sulla terra ha sviluppato ai polpa-strelli delle dita la sensibilità che la no-stra specie possiede?Ben sa rispondere a questa domandachi purtroppo è stato privato nella vitadi altre percezioni sensoriali; subito do-po la vista, il senso del tatto viene co-me strumento di conoscenza del mondoesterno, come dimostra qualunque ban-carella del mercato su cui faccia bellamostra la merce migliore: l’istinto di“toccare” segue immediatamente all’at-trazione visiva che fornisce l’impattopiù veloce anche a distanza.Il tatto fornisce informazioni piùprofonde, che la vista non può coglieree si pone non a caso come sofisticatostrumento di percezione dell’invisibile.Insieme, opportunamente sviluppati, co-stituiscono non solo i più grandi stru-menti di conoscenza, ma anche di “po-tere”. Scienza e tecnologia ne stannoamplificando unicamente gli aspetti percosì dire “minori”.Quando un tempo (e oggi ancora inmolte culture) a tale strumento non eranegato il suo potere, solo toccando unapersona si poteva dire se era nervosa,

egoista, magari matta o semplicementeinsicura.Allo stesso modo, chi percepiva il toc-co dell’altro tanto poteva inferire di es-so: qual era l’intenzione profonda con laquale si avvicinava, cosa anche senzaparole volesse dire, quanto - e come -sapeva amare.

Forse proprio questa antica quanto mi-steriosa conoscenza, così direttamentecollegata ai meno conosciuti “sensi in-terni”, all’irrazionale che conosce, hafatto in passato tanta paura a chi anda-va istituzionalizzando altri tipi di ap-prendimento e, attraverso questi, altreforme, ben più temute, di controllo. ■

“CON-TATTO”: uno strumentodi conoscenza e di amore

di Loredana Filippi

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L’italianissima città di Trieste,fondata dai Romani nel II seco-lo a.C., fu contesa nel corso dei

secoli, per il suo porto marittimo e perla posizione geografica avanzata versoil Centro Europa, dai popoli invasoriche di volta in volta controllavano lapenisola italiana.Dal barbaro Odoacre agli Ostrogoti, daiBizantini alla Serenissima, dalla prote-zione dei duchi d’Austria ai Francesiche la conquistarono, la persero e la ri-conquistarono, per finire all’Austria chenel 1813 se ne appropriò fino alla finedel 1° conflitto mondiale.Nel periodo di protezione dell’Impera-tore austriaco Carlo VI il porto maritti-mo di Trieste e il vicino porto di fiumefurono dichiarati porti franchi, con l’ob-bligo per le merci dirette al centro Eu-ropa di transitare da quei due porti. Trie-ste divenne centro di notevole impor-tanza commerciale a carattere cosmo-polita.Durante il Risorgimento italiano Triesteed il suo entroterra divennero il cuoredell’irredentismo verso il naturale con-fine orientale d’Italia..

Allo scoppio della 1.a guerra mondialetra Austria-Ungheria e Inghilterra, Fran-cia e Russia, l’Italia proclamò la suaneutralità, ma le potenze delle NazioniUnite per coinvolgerla indussero il Go-verno italiano a sottoscrivere un pattosecondo il quale, in caso di vittoria, par-te del litorale dalmata e la Venezia Giu-lia sarebbero state poste sotto il con-trollo italiano (Patto di Londra del 26aprile 1915).Il Patto di Londra fu però osteggiato dalPresidente degli Stati Uniti d’Americae disatteso da Francia e Inghilterra perfavorire le pretese avanzate dagli Slavi,tant’è che il Governo italiano prima difirmare l’armistizio fu costretto ad or-dinare l’occupazione militare di Trie-ste, che avvenne alle ore 16,00 del gior-no 3 novembre con l’attracco al molo diSan Carlo del cacciatorpedini Audace elo sbarco del Generale di Corpo d’Ar-mata Carlo Petitti di Roreto, designatoGovernatore della città, che subito or-dinò l’esposizione della Bandiera Na-zionale sul castello di San Giusto con glionori dovuti. Dopo l’alzabandiera, dal-le unità navali che seguirono l’Audace

sbarcarono 200 carabinieri, il 7° e 11°reggimenti Bersaglieri, tre battaglioni diMarina e altri reparti di armi specialiche raggiunsero e occuparono le posi-zioni ritenute di pertinenza dell’Italia.Il successivo Trattato di pace riconob-be all’Italia il possesso di Trieste,dell’Istria e di Zara, ma non della cittàdi Fiume. Ciò scatenò le ire di Gabrie-le d’Annunzio. Il problema si trascinòfino al novembre del 1920 con il Trat-tato di Rapallo (12 novembre 1920), ri-confermato a Roma nel novembre 1924con il Regno di Jugoslavia.La seconda guerra mondiale segnò ilperiodo più doloroso per Trieste, Fiu-me, Pola e Zara. Verso la fine del 1944il governo italiano intuì l’intenzionedelle forze di Tito di occupare più ter-ritorio possibile prima della fine delleostilità. Le Forze Armate italiane pre-disposero allora un piano di occupa-zione dell’Istria e della Dalmazia, maancora una volta gli alleati impedironodi salvare quelle italianissime terredall’occupazione slava. Così il 5 mag-gio 1945 Trieste fu occupata dalle for-ze jugoslave e si aprì un contenzioso tra

4 Ottobre 1954: Trieste ritorna alla Madre Patria

di Giorgio Gianoncelli

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alleati; contenzioso che durò circa unmese e mezzo prima che in città potes-sero entrare i Neozelandesi e che nonimpedì alle forze titine di infoibare nu-merosi nostri connazionali colpevoli so-lo di essere italiani.Solo il 5 ottobre 1954, dopo lunghe trat-tative politiche e diplomatiche e moltasofferenza delle popolazioni giuliane edalmate, con un atto protocollare sotto-scritto a Londra dagli AmbasciatoriManlio Brosio e Vladimir Velebit fu co-stituito il Territorio Libero di Trieste(Zona A) sotto l’amministrazionedell’Italia, dal confine di Monfalcone aPunta Grossa, terminale del golfo diTrieste.Aver acquisito all’Italia quell’area ma-rina fu per le Nazioni Unite interessepolitico in rapporto alla linea di demar-cazione tra il blocco orientale e quellooccidentale; per i giuliani, per gli italianie per quanti avevano a cuore l’eroismodel Risorgimento italiano fu un fatto digrande emozione e di ..commozione.La notizia della firma protocollare futrasmessa alle ore 13 da Radio Trieste,seguita subito dalle reti nazionali. Tra lefamiglie triestine del litorale ci fuun’esplosione di felicità e come d’in-canto alle finestre delle case, sui balco-ni e un po’ in ogni dove apparvero i tri-colori; alle ore 14 la Bandiera italiana fuissata sul più alto pennone in PiazzaUnità d’Italia.I festeggiamenti raggiunsero l’apice il26 ottobre all’ingresso in città del Ge-nerale di divisione Edmondo De Renzialla testa dei Bersaglieri del raggruppa-mento “Trieste” con il compito di assu-mere il potere politico e militare dellaZona A.L’incontenibile entusiasmo della follascompigliò le formazioni dei soldati,stretti in un caloroso abbraccio. Il ge-nerale impiegò più di un’ora per per-correre tre chilometri per raggiungere,in grave ritardo, il palco delle autoritàper la cerimonia ufficiale.Dopo l’ingresso a Trieste dei Bersa-glieri fu la volta delle unità della Mari-na Militare, sorvolate da otto cacciaF84G della 51.a aerobrigata. Alle 11,33il caccia Grecale ormeggiò alla banchi-na Audace di fronte a Piazza dell’Unità.Anche altre sei unità raggiunsero il po-sto d’ormeggio; per ultimo l’incrocia-tore Duca degli Abruzzi, con a bordol’Ammiraglio Candido Bigliardi, at-traccò al molo Bersaglieri.Appena terminati gli ormeggi, in moltisi mossero verso le navi, abbordandole

con slancio, correndo anche qualche pe-ricolo, coinvolgendo il personale di bor-do in una commovente attestazione diitalianità. Né la pioggia né la bora riu-scirono a fermare quella folla festante.Il…pomposo generale Inglese, infasti-dito dal freddo, ma soprattutto dall’en-tusiasmo dei triestini incuranti del climae di lui, lasciò il palco delle autorità amuso duro rinunciando all’incontro conil generale italiano per la cerimonia delfestoso passaggio dei poteri.Lo schieramento navale si completò neigiorni successivi con la nave scuola Ve-spucci e l’incrociatore Montecuccoliche portava a bordo molti reduci della

battaglia di El Alamein, tutto in vistadella imminente cerimonia per il 36°anniversario della Vittoria, con la pre-senza del Presidente della RepubblicaItaliana On. Luigi Einaudi, con il con-ferimento al Gonfalone della città del-la Medaglia d’Oro al Valor Militare peri periodi 1848 - 1870, 1915 - 1918, 1943- 1947 e la sfilata in parata del rag-gruppamento Trieste, seguito dai repar-ti delle altre Forze Armate.Quel 4 novembre calò la bora e ritornòil sole per una festa di libertà mai di-menticata, ma quanta sofferenza per lalibertà! E quanto entusiasmo per averlaritrovata! ■

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Quando il “Boeing 727” della “Tu-nisair” atterra sulla pista dell’ae-roporto “Habib Bourghiba” di

Tunisi e, una volta scesi dall’aereo si en-tra nelle sale dell’aerostazione, la primaimpressione che si ha è quella di un pae-se dalla vocazione spiccatamente occi-dentale.Su questa strada la Tunisia venne av-viata fin dagli anni sessanta dal presi-dente Bourghiba “Fondatore della pa-tria” dopo la rivoluzione contro i fran-cesi.La nostra visita inizia proprio con unarapida visita della capitale con i suoigrandi viali e palazzi tinteggiati di bian-co, molti dei quali costruiti negli ultimianni.Il fuoristrada sul quale viaggiamo, ac-compagnati dal funzionario del Mini-stero del Turismo Mohamed Maamou-ri, sfreccia veloce sulla superstrada indirezione di Sidi Bou Said per la visitaad una delle periferie più interessantidella città.E’ il mattino di una splendida giornatadi primavera e Sidi Bou Said è situataproprio sul golfo, caratteristica per lapiccola Medina all’aperto dove gli am-bulanti espongono merce di ogni tipo.Altra tappa interessante è la visita delluogo dove sorgeva l’antica Cartagine,legata al nome di Annibale, protagoni-sta della leggendaria conquista dell’Ita-lia attraversando le Alpi con gli elefan-ti, un’impresa che a quel tempo fu so-vrumana.Il secondo giorno del nostro viaggio tor-niamo a Tunisi. Nella parte nuova del-la città si trovano i più importanti mini-steri, alcuni dei quali costruiti negli ul-

timi anni, e pare di trovar-si in una qualsiasi Nizza oMarsiglia del Mediterra-neo con i lunghi e larghiboulevard alberati e il tea-tro dell’Operà, anche sel’anima profondamenteislamica della città non ècertamente andata persa,anzi è quella più misterio-sa ed affascinante.Ne è un esempio l’im-mensa Medina, il quartie-re bazar fatto di stretti vi-coli dove brulicano ban-carelle e botteghe in unsusseguirsi continuo per chilometri diesotici profumi.Ogni vicolo ha la sua particolarità: c’èquello delle spezie, quello dei gioielli ecosì via, tanto che diventa irresistibile latentazione di fare acquisti ad ogni sosta.Per visitare l’intera Medina servirebbe-ro almeno due giorni o forse più, perchénon sono da dimenticare le antiche ca-se nobiliari abitate ai tempi del Mufty,la massima autorità dei Sultani, e al cuiinterno sono esposti gli abiti che veni-vano un tempo indossati per le cerimo-nie più importanti e per le grandi feste.Il nostro tour prosegue poi incammi-nandoci verso il sud.Prima tappa è stata Hammamet, sul ma-re, una delle località più gettonate daituristi stranieri. La spiaggia è grandis-sima e negli ultimi anni sono sorti adogni angolo eleganti hotel e ristoranti.Poi, ancora lungo il litorale, un cennomeritano la modernissima Sousse, for-

se la città più elegante di questo paese,Monastir fino all’estremo sud dove vi-sitiamo l’isola di Djerba anch’essa mol-to ricercata dai turisti.Da Gabes ci dirigiamo verso l’interno etra le città più interessanti c’è Gafsa ri-battezzata la “Rosa delle sabbie” carat-teristica per le case con i muri dipinticolor ocra ed i larghi boulevards.Siamo alle porte dell’immenso Saharae poco lontano si trova la mitica To-zeur.Visitarla è un tuffo nel passato perché èrimasta autenticamente araba, dallo sti-le delle case ai mercati rionali ricchi disaporiti datteri e di altri prodotti locali.Tornando verso nord sulla superstradaincontriamo Kairouan uno dei centri re-ligiosi più suggestivi dell’Islam.La parte più antica conserva le caratte-ristiche della città medioevale (vennefondata nel VII° secolo) e tra i monu-menti meritano di essere ricordati il Ba-lo el Kukha (la Porta delle Pesche), lagrande moschea, la moschea delle Spa-de e la moschea delle Tre Porte. L’in-verno è la stagione più indicata per itour nel deserto. ■

Viaggio in Tunisiadi Luciano Scarzello

■ Il castello di Monastir■ In basso: il mausoleo di Habib Bourghiba a Monastir

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ENNEPI

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Quando cinquant’anni or sono laspedizione italiana guidata daArdito Desio conquistò il K2, il

nostro paese non era quella “Italiaprovvisoria” che aveva così bene de-scritto Giovannino Guareschi, ma nonera ancora diventata l’Italia del boomeconomico che avrebbe fatto sbalordi-re il mondo.Ebbene, proprio per quella “vittoria”del luglio 1954, il prestigio italiano siaffermò nel mondo.Quell’impresa alpinistica fu grande edi questo si è parlato e scritto proprioa mezzo secolo dal suo compimento.Ma l’esito di quella impresa memora-bile, compiuta dalla Spedizione Desio,non fu soltanto di carattere “alpinisti-co”, appunto, perché ci fu anche un“risvolto” (e non dappoco) di naturascientifica.E sotto questo profilo quell’”esito” fue resta affidato a due volumi della ce-lebre casa editrice Brill d’Olanda, afirma Bruno Zanettin, uno, e BrunoZanettin e Ardito Desio, l’altro.Per cui, nelle varie rievocazioni e ce-lebrazioni della conquista del K2 nonappare fuori luogo sentire uno dei pro-tagonisti del “risvolto” scientificodell’impresa stessa.Lo studioso Zanettin ha oggi 81 anni,essendo nato nel 1923 a Malo (Vicen-za). Si è laureato a Padova nel 1948 inscienze geologiche e nel 1954, quan-do Ardito Desio gli chiese di parte-cipare alla spedizione in Ka-rakorum, era assistente e pro-fessore incaricato di mine-ralogia e lavorava con-temporaneamente nelcampo della petro-grafia nella fa-coltà di Scien-

ze dell’ateneo patavino.Parliamo con lui di quell’esperienzache resta la più importante e signifi-cativa della sua lunga attività di stu-dioso e di esploratore (soprattutto inAfrica).

Come avvenne l’incontro con Desio,da parte di un giovane professoredell’Università di Padova?Geologo “classico”, che si interessavacioè delle rocce sedimentarie e dellestrutture geologiche, Desio sapeva chela sua attività scientifica, nella spedi-zione, sarebbe stata ridotta, dovendoegli seguire principalmente l’andamen-to della scalata. Quindi, gli serviva unpetrografo che studiasse la genesi dellerocce, cioè i meccanismi attraverso iquali si formano le rocce stesse. Chie-se a studiosi di sua fiducia chi avesse irequisiti più adatti, sia dal punto di vi-sta scientifico che... fisico.

E fu fatto il mio nome.Fu il primo incontro con il già famo-so scienziato ed esploratore friulano?L’avevo incontrato l’anno prima a Pa-dova, quando stavo compiendo un giroper l’Italia a illustrare il progetto dellaspedizione, ma in quella occasione luiancora non aveva compiuto la scelta.Mi telefonò successivamente da Mila-no: “venga qui che parliamo”, mi dis-se...E il giovane Zanettin già aveva capi-to di quale discorso si sarebbe trat-tato?Mi lusingò molto quella chiamata, manon mi nascondevo le difficoltà del pro-gramma che mi propose. Il compito era,infatti, quello di poter ricostruire la geo-logia di un territorio molto vasto, che sispingeva dal K2 al Nanga Parbat, unfamoso ottomila metri scalato proprionel 1953 dall’austriaco Hermann Buhl.Avrei dovuto osservare e raccoglieremateriali da studiare poi in laboratorio.Allora, aprile 1954, partenza verso ilPakistan...Ai primi di maggio eravamo a Skardu,un villaggio sull’Indo a duemila metri,

Bruno Zanettin e il K2Intervista raccolta da Giovanni Lugaresi

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nell’Himalaya. Comenoto, eravamo: AchilleCompagnoni, Lino La-cedelli, Walter Bonatti,Ubaldo Rey, ErichAbram, Gino Soldà,Mario Puchoz (che sa-rebbe poi morto), Ciril-lo Floreanini, Ugo An-gelino, Sergio Viotto,Pino Gallotti, MarioFantin, il medico GuidoPagani, il geofisico An-tonio Marussi, il capita-no Francesco Lombar-di, topografo, e il sotto-scritto, con in testa De-sio... Una bella rappre-senza, per così dire, ditutto l’arco alpino.E mentre gli alpinistiaffrontavano il K2, fi-no ad allora inviolato,fra le tante difficoltà che sappiamo,Zanettin che cosa faceva?Ci dividemmo, ovviamente, ed io conun gruppo di portatori indigeni mi av-viai verso il Nanga Parbat (cinquemilametri) dove feci disegni, scrissi note eraccolsi campioni di rocce. Poi, pro-gressivamente, scavalcando montagnesconosciute, raggiunsi il campo basedella spedizione. Era metà luglio....Dovette essere un percorso avventu-roso, quello seguito per le osservazio-ni scientifiche, da solo con pochi por-tatori.Sì. In effetti non avevo radio né altrefonti di informazione, sia rispetto aglialtri della spedizione, sia per quello cheaccadeva in Italia, dove avevo lasciatomoglie e figlia. Anche nella zona delcampo base continuai a muovermi, ol-tre i seimila metri, e in qualche occa-sione, sulla “Sella dei venti” con Desio.La notizia che il K2 era stato conqui-stato come arrivò?La sera dopo. Era l’1 agosto quandosull’imbrunire giunsero sfiniti al campobase Rey e Floreanini a darci la notizia:“È fatta! È fatta”.La reazione, lo stato d’animo?Di grande esultanza, ovviamente. Ilgiorno dopo arrivarono anche i prota-gonisti, che ci raccontarono i dettaglidell’avventurosa conquista.Cenni di quella polemica che sarebbeseguita e che è durata per mezzo se-colo?Nel racconto di Compagnoni, Lacedel-li, Bonatti, Gallotti ed Abram non ap-parvero segni di polemica o di animo-

sità. Sì, Bonatti disse di essere stato ob-bligato ad un sacrificio molto pesante,quello di dover bivaccare all’aperto conun portatore senza attrezzature... Le po-lemiche sarebbero sorte qualche tempopiù tardi, ed anche piuttosto vivaci, maio devo dire che mi sorpresero perché almomento non mi ero proprio reso con-to che ci fossero stati episodi tali daportare a contrapposizioni così forti.Conquistato il K2, rientro in Italia ingloria, quindi...E no. Loro, gli alpinisti tornarono in pa-tria, ma Desio ed io continuammo nellavoro scientifico, portandoci nell’altoBaltoro, uno dei più grandi ghiacciaidel mondo per continuare le ricerchegeologiche in un ambiente eccezionale:un condensato, per così dire, di alte ci-me, tutte sugli ottomila... una delle areepiù belle e impervie del mondo. Là citrattenemmo sino alla fine di settembre.Non mancò la straordinaria soddisfa-zione di una scoperta geografica: unpasso, a 5.500 metri, attraverso il qualesi arrivava al Sinkiang cinese! Anchein quel periodo feci diverse cose da so-lo, dal momento che con Desio ci era-vamo divisi: ciascuno da una parte di-versa.Quell’ “esito” del quale si è dettoall’inizio, dal punto di vista scientifi-co, in che cosa consistette?Le osservazioni compiute e i dati rac-colti ed esaminati poi in laboratorio han-no portato ad una serie di pubblicazio-ni condensate nei volumi della specia-le collana scientifica della casa editriceBrill. Il fine principale della ricerca era

quello di stabilire la natura delle rocceche costituiscono l’imponente catenadel Karakorum e le cause che hanno de-terminato il sollevamento della catenastessa, cause legate allo scontro avve-nuto milioni di anni fa, ma i cui effettisono ancora oggi in atto: lo scontro frala placca indiana e l’antica placca asia-tica.Concludendo: come vedi, oggi, quel-la lontana esperienza?Come l’occasione che ebbi di vivereuna vicenda veramente straordinaria,feci veramente della esplorazione geo-logica e geografica di un territorio cheper molti versi era ancora incontamina-to.Magari provasti anche la sensazionedi essere un “pioniere”?Allora no, quella sensazione la ebbiquando Desio compì cento anni e ci fuall’Accademia dei Lincei un convegnointernazionale di geologia mineraria. Imolti giovani ricercatori di varie nazio-nalità che a quel tempo si dedicavanoagli studi nella grande catena asiatica,oltre a riconoscere in Desio un loro “nu-me tutelare”, mostrarono di considerar-mi uno studioso che aveva aperto nuo-ve vie, e quindi, quasi, un maestro. Sec’è stato dunque un momento nel qua-le mi sono sentito un “pioniere”, è sta-to quello.Dopo, per Zanettin sarebbero venutealtre esplorazioni, altre ricerche, altristudi, soprattutto in Africa... ma que-sto, come avrebbe detto Kipling, èun’altra storia! ■

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Scrive San Luigi Gua-nella: “Qualunque sia lastrada, qualunque sia

l’impresa che ci pone innanziil Signore, noi dobbiamo get-tarvisi ad occhi chiusi, con tut-ta la buona volontà, senza ri-sparmiarci fatiche, purché sipossa fare un po’ di bene pernoi e per il prossimo! Abban-doniamoci interamente allaDivina Provvidenza.E poi, avanti, senza timore, fi-no alla fine”.Anche Socrate, nel Critone dice: “Nondevi cercare che gli avvenimenti vada-no come vuoi, ma volere gli avvenimenticome avvengono”.E ancora: “Mio caro Critone, se agliDei piace così, così sia!”.“Come sarebbe bella la morte, se sa-pessimo guardare al di là della morte!”L’ora della morte è, per ognuno di noi,l’ora della Chiesa.L’uomo è il sacerdote della sua morte.Il sacerdozio regale investe ogni bat-tezzato che può offrire a Dio la sua mor-te, come un’offerta aggiunta, tramite ilsacrificio eucaristico del corpo e delsangue di Gesù Cristo.Anche se non c’è nessuno accanto a lui,a tenergli la mano, la Chiesa invisibileassiste e prega per lui e per tutti gli uo-mini, senza alcuna eccezione, cristianio no, conosciuti o sconosciuti.

Il battezzato poi, non è mai un isolato,sicché la sua morte non può essere so-litaria.Quale membro del Corpo mistico, egliè sempre legato nel modo più intimoalla Chiesa.Nel Rituale è scritto:“Dio dei viventi, noi affidiamo alle tuemani colui che amiamo.Nel momento in cui la morte lo separada noi, aprigli tu stesso le porte della vi-ta!”“Venite, santi del cielo, soccorretelo.Andategli incontro, angeli del Signo-re”.Nella sua ultima lettera, un mese primadi morire, dopo otto lunghi anni di tre-mende sofferenze, la mia cara suor Ol-ga, guanelliana, scriveva testualmente:“Speravo che con le ultime applicazio-ni di cobalto il dolore diminuisse alme-no un poco, ma non è più possibile, per-

ché le metastasi sono diffuse in tutte leossa della colonna e del bacino. Pa-zienza! Anche in questo, c’è la mano diDio che scalpella, raffina, lucida e miprepara per l’incontro eterno. Quan-do? Quando?”.Emily Dickinson,(1830 - 1886) in sin-tonia, interpreta questa duplice invoca-zione in una poesia:Il cuore chiede piacere - primapoi assenza di dolore,poi - quei piccoli calmantiche ottundono la sofferenza.E poi - addormentarsi,e poi - se è volontà del suo Inquisitore,il privilegio di morire.Sì, avete letto bene: “il privilegio dimorire”. ■

2 NOVEMBRE: LA “FESTA” DEI MORTIVivere con il sole in fronte

di Alessandro Canton

Un audace commento delVangelo.“Alle nozze di Cana Mariainvita Gesù ad affrettare ilsuo ingresso nella vita pub-blica allo scopo… di affret-tare l’ora della Croce!”.Lei insiste, perché a noi siaaccordata più presto l’oradella Redenzione: “Figlio,guarda, non hanno più vi-no!”. Come dire: “Non han-no più Fede, non hanno piùSperanza, non hanno piùCarità: tu puoi dare loroquesta Fede, questa Speran-za, questa Carità. Solamen-te quando constateranno chesei risorto, comprenderan-no che tu solo hai parole divita eterna!”. Affrettare quelgiorno è appunto la missio-ne di chi avanza verso il ter-mine della vita.“Preziosa agli occhi del Si-gnore è la morte dei suoi fe-

deli!” (Salmo 116,15).

Molti si sonodomandati:

come si può contrastare la complessa paura

della morte?Accettando la vita come si presenta!

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In questi ultimi anni sono state di-verse e complesse le grandi questio-ni che hanno attraversato il mondo

della ricerca, dell’agronomia, della pro-duzione agroalimentare in generale.Temi di grande rilievo e di notevole in-terazione socioeconomica, nel campodell’agricoltura, sono stati quelli legatial concetto di sostenibilità e di biodi-versità.Sulla scia di numerosi scandali, ma an-che di una accresciuta coscienza criticadel consumatore, sempre di più è au-mentata la domanda di qualità.Qualità che, a differenza di qualche an-no fa, non è più interpretata come sem-plice questione “organolettica” o, an-cor più riduttivamente, come uno scon-tato fenomeno edonistico.Il consumatore vuole conoscere di piùe meglio ciò che consuma, vuole com-prendere da dove un prodotto derivi,quale sia stata la sua filiera produttiva.Per usare un termine tecnico, il consu-matore, ma anche l’operatore, vuole in-dividuare la rintracciabilità del prodot-to finale.Anche il mondo del vino sarà moltopresto attraversato da queste problema-tiche.E, proprio per questo, non sarà più suf-ficiente immaginare un vino “solo” buo-no da bere: esso dovrà anche risultarebuono da pensare.Non possiamo più limitarci ad immagi-nare che la comunicazione, la rappre-sentazione del vino, della sua storia,della sua valenza agronomica, econo-mica e culturale, sia oggi interpretabilecon la sola lente della qualità, della sen-sorialità e del potenziale successo com-merciale.Nel nostro rapporto con il cibo, così co-me per il vino, abbiamo bisogno di unanuova e più complessa etica dell’eno-logia e della gastronomia, di aggiorna-te strategie in grado di coniugare eco-nomia con ecologia globale e sosteni-bilità dell’agricoltura.

L’enologia europea, quella italiana inparticolare e la stessa situazione dellaValtellina, deve saper investire sui pro-pri storici terroir, privilegiando la salu-te, la naturalità e l’originalità del terre-no.Bisogna, con laica lungimiranza, apri-re una profonda riflessione in tutto ilcomparto enogastronomico: sulle futu-re strategie da privilegiare e, quindi, sualcune “nuove” filosofie produttive.Non tanto per capire come vendere piùvino, né soltanto per farlo più buono: maper farlo più rispettoso dell’ambiente,dei terreni e della biodiversità.Occorre fermarsi un momento per ra-gionare, per ridefinire meglio il futuro,per capire di più il presente.Senza paura di intraprendere strade nuo-ve, ma sapendo che per progettare il“nuovo”, bisogna saper decontestualiz-zare il vecchio, senza nostalgie, ma conspirito libero e originale.Avendo sempre ben presente che nonpuò esistere un prodotto alimentare diqualità se al tempo stesso non ci si

preoccupa di determinare un ambientebasato sulla sostenibilità.Mangiare è oggi, di fatto, un atto agri-colo.Di conseguenza per avere cibo di qua-lità bisogna partire dalla terra, dal ma-re, da un nuovo modello di agricoltura,di zootecnia, di agronomia e di acqua-coltura.Un cibo, quindi, anch’esso buono damangiare e anche buono da pensare,verso un modello che sempre di più saràbasato sul concetto di “ecologia dell’ali-mentazione”. ■

* Presidenza internazionale Slow Food

“Vinodomani”di Giacomo Mojoli*

Non basterà immaginare un vino “solo” buonoda bere: esso dovrà risultare “anche” buono da pensare.

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RISTORAZIONESURREALEdi Pier Luigi Tremonti

Una amica giornalista, GiulianaCerretti, nel corso del dibattito“Identità territoriali e identità

enogastromiche. Idee e progetti per ilfuturo” condotto da Giacomo Mojolinel contesto della manifestazione “ilGrappolo d’Oro”, ha riportato una suagradevole e stimolante esperienza fattain un elegante ristorante nella vicinaEngadina.Ecco il “quadretto” idilliaco: un risto-rante accogliente, con ottima cucina etutto, proprio tutto perfetto.Su una delle porte di accesso all’hotelfceva bella mostra di sè un cartello,scritto a mano con una elegante calli-grafia e in caratteri gotici:

• L’insalata e le verdure sono statecoltivata nell’orto della famiglia Ro-samilia

• Le uova e le galline sono del pollaiodi Arno Tarnuzer

• L’agnello è stato allevato dal signorGiser Thaler

• Il maiale ci è stato dato dal signorPlaz Roland

• La pasta è stata fatta dal-la signora Paltzer Reina

• Il formaggio è della caseradi Arnold Plaz

• Il pane è stato cotto nelforno a legna della fami-glia Groll

• Il vino deriva da uve colti-vate nel vigneto del signorRuth Gandner

• Le botti di invecchiamentosono quelle della cantinadi casa Oectinger

• I dolci e le marmellate so-no quelli della signora Syl-vie Mondini

Non sarebbe bello vedere uncartello simile in tutti, dico intutti i ristoranti?Chi ha mai detto che in cuci-na ci debba per forza essereun genio creativo dei fornelli?

Una serie di portate genuine e sane, uni-te ad un rapporto prezzo/qualità e prez-zo/piacere, possono certamente indurredelle emozioni e delle sensazioni estre-mamente gradevoli.Ebbene un simile ristorante esiste perdavvero, ma sapete dove?Nella vicina Svizzera, non lontano daqui!Una “tracciabilità” dei prodotti miglio-re e più chiara di questa penso che nonpossa trovare uguali in nessun altro an-golo del mondo.Ma la Svizzera è un paese extracomu-nitario, insomma “non è in Europa” emen che meno in Italia.Pare di essere fuori dal mondo, anche seAustria e Germania pare che non sianoallineate come noi alle C.D. normativeeuropee.In Italia, per esempio, un piccolo agri-turismo che intenda “macellare” diret-tamente un pollo, un agnello o un maia-lino deve disporre di una struttura degnadi una piccola industria.Per utilizzare una piccola casera ci vuo-le la mano di Dio!

Per fare qualsiasi cosa i problemi e gliostacoli si moltiplicano esponenzial-mente.Il tutto in nome di un esagerato igieni-smo e di norme applicate spesso conapodittico rigore.E’ pur vero che al meglio non si devemai porre un limite, ma prima bisognastabilire quale è il meglio!Non mi risulta che in Svizzera si sianoverificate epidemie di colera, salmo-nella o anche solo di “cacca molle” ...suvvia!Se un ristorante in Italia esponesse quelbenedetto cartello, il proprietario si tro-verebbe in un vero mare di guai se nonin galera, sempre che gli si riesca a tro-vare un posto.

Si precisa che il fatto è realmente acca-duto e sul cartello vi erano i nomi realidei fornitori.Ovviamente tutti i nomi sopra citati so-no rigorosissimamente inventati.Ogni riferimento a persone realmenteesistenti è pertanto da ritenersi pura-mente casuale. ■

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Come si prospetta la vendemmia2004?Ottima sotto ogni profilo, il 2004

è un’annata eccezionale e, tempo per-mettendo, si avrà una produzione di uvae quindi di vino ancora migliore dell’an-nata 2003.Le è possibile darci qualche numeroper capire la reale portata economicae socio economica del comparto?In Valtellina abbiamo 850 ettari coltiva-ti a vite (zona DOC e DOCG), 2000 col-tivatori iscritti nei registri della Cameradi Commercio, un indotto di 5.000 per-sone impegnate sul territorio, in generepart-time ma pur sempre impegnate, cheproducono 4.500.000 chilogrammi diuva, vale a dire circa 3 milioni di litri divino, media degli ultimi cinque anni.Si parla spesso di esportazione dei vi-ni valtellinesi: qual è il quadro reale?Oltre al mercato locale e nazionale i no-stri vini sono esportati all’estero e nellaSvizzera in particolare, ma anche inGermania, nei Paesi Bassi, in Inghilter-ra e negli Stati Uniti.Recentemente esportiamo in Giappone,in Svezia ed in Danimarca.Si tratta comunque di piccoli quantitati-vi, cioè di circa il 30% dell’intera pro-duzione che finisce per lo più in risto-ranti ed enoteche.Nella vicina Svizzera come sono ac-colti i nostri vini?Nella vicina Svizzera fino a qualche an-no fa finiva il 70% dei vini valtellinesi,ma in seguito alla liberalizzazione deicontingenti, la nostra quota è crollata esi è stabilizzata attorno al 20%. Insom-ma, nell’80 prendevano la via della Sviz-zera ben 4.500.000 litri di vino, un quan-titativo molto maggiore rispetto alla pro-duzione attuale.Sugli scaffali dei negozi e dei super-mercati si vedono sempre più spessobottiglie con etichette esotiche ed aprezzi stracciati. Sembra che sia inatto un’agguerrita concorrenza daparte dei produttori esteri: Australia,Cile, Sud Africa, Cina, ecc.

Certo, però attenzione, i vini di qualitàcostano come e più dei nostri.Un conto sono le partite promozionali ole offerte speciali che attirano i clienti,ma poi bisogna vedere se vi è un segui-to nelle richieste e nei riordini.Mi preoccupa parecchio invece la con-correnza dei produttori italiani, e mispiego.Sui mercati esteri aleggia una grave cri-si e quindi calano le esportazioni dei vi-ni italiani. E’ ovvio che i produttori pie-montesi, veneti e toscani, forti della pos-sibilità di ridurre i costi delle uve po-tendo utilizzare macchinari nel lavorodelle vigne pianeggianti o collinari, pos-sono permettersi di abbattere anche i lo-ro listini.Da noi purtroppo non è così, anzi, i co-sti della manodopera aumentano e lamanutenzione dei terrazzamenti è gra-vosa. Ci resta l’unica strada di poter pro-durre uve e vini di qualità, quasi di nic-chia.Certo, il margine al produttore e al tra-sformatore (cantina) è sempre più risi-cato ma si deve guardare avanti.Avete la possibilità di accedere a fi-nanziamenti e siete aiutati dagli entipubblici o siete abbandonati a voi stes-si?Grazie agli aiuti ed ai finanziamenti che

ci sono stati riconosciuti dall’Ammini-strazione Provinciale e dalla RegioneLombardia si è potuto fare un certo tipodi marketing.La Regione ha promosso concretamen-te il “Progetto Sforzato” ed in ogni oc-casione evidenzia l’immagine della Val-tellina.Interventi strutturali nelle cantine sonostati finanziati al 30% a fondo perso dalPiano di sviluppo rurale, e per noi ha vo-luto dire parecchio. Se non ci fosserostati questi interventi la Valtellina viti-vinicola non avrebbe avuto continuità.Anche le viti invecchiano e si richiedeun oneroso reimpianto dei vigneti conpiante migliori, e si è iniziato a reim-piantare qualche ettaro di vigneto. Alloscopo ci è stato assegnato un finanzia-mento speciale regionale di 20.000 eu-ro per ettaro, e non è poca cosa!Su quali settori del mercato fondate lavostra espansione?I nostri vini sono in genere presenti neiristoranti e nelle enoteche di un certo li-vello. Ovviamente per poter “fare i nu-meri” e vendere qualcosa come 3 mi-lioni di bottiglie si impone la presenzanella grande distribuzione almeno inLombardia.Si vede da qualche tempo nei risto-ranti valtellinesi una maggiore pre-senza dei nostri vini o sbaglio?Da qualche tempo siamo finalmente piùpresenti: era ora! Ammettiamo che laqualità di 10 anni fa era altra cosa.E’ soddisfatto dei risultati degli ulti-mi anni?Certo si deve sempre migliorare, ma distrada ne è stata fatta tanta.Per i nostri vini finalmente la visibilitàè buona e possiamo guardarci attornosenza complessi di inferiorità.Confidiamo nella collaborazione di tut-ti per sostenere un settore non facile,solo il dialogo e l’unità di intenti puòportare a risultati straordinari. ■

Intervista raccolta da Pier Luigi Tremonti

Facciamo il punto con l’enotecnico Casimiro Maule, direttore

della Casa Vinicola Negri di Chiuro

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PIANI

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Qual è la prima immagine che vienealla mente pensando al paesaggiodel Trentino e alla sua gastronomia?

Un cielo cristallino e una vetta dolomiticasullo sfondo.Sotto i dolci prati alpini, rigogliosi e colmidi erbe grasse.E poi tanti bovini che producono latte eformaggi d’alpeggio cremosi, ricchi e son-tuosi, in una parola: grassi.Eppure è vero il contrario.La Spressa delle Giudicarie, l’unico for-maggio interamente prodotto in territoriotrentino che possa vantare il marchio D.o.p.(l’attestazione di qualità e tipicità ricono-sciuta a livello europeo), è magro, magris-simo.“Spresàt” ovvero spremuto, solevano direi contadini; da cui il nome “Spressa”.Spremuto, perché la parte grassa del latteappena munto veniva eliminata più volte,in modo da ottenere, da un lato, il lattequasi totalmente scremato e, dall’altro lapanna.Se oggi la panna e quindi il burro hannoperso quasi tutto il loro valore economico,anzi sono quasi considerati dai contadinidelle vallate alpine come dei sottoprodot-ti, fino a pochi decenni fa costituivano unamerce altamente pregiata facilmente ven-dibile sui mercati delle città della pianuralombarda e veneta.Con il latte magro che avanzava i contadi-ni di quasi tutte le valli trentine produce-vano formaggi destinati all’autoconsumo.Prodotti duri, asciutti e per niente sapori-ti: poco attraenti, diremmo oggi, ma untempo in grado di fornire le proteine e lecalorie fondamentali per il sostentamentodegli agricoltori dell’epoca.Attualmente questi formaggi sono presso-ché scomparsi. Tutti, tranne uno.In val Rendena e nelle aree limitrofe (sia-mo in una lingua di territorio trentino pro-tesa verso la Lombardia), si è salvatadall’estinzione la Spressa delle Giudicarie.Grazie alla tenacia dei casari, all’orgoglioper la tradizione contadina locale e alla ca-pacità di “fare sistema” da parte dei casei-fici del distretto delle Giudicarie si è tornatia produrre questo formaggio.Per di più, dopo un iter di otto (otto!) lun-ghi anni dalla prima richiesta ufficiale, si èarrivati a far entrare la Spressa delle Giu-

dicarie nella élite dei formaggi italiani:quelli con la Denominazione di OrigineProtetta.Gli sforzi, alla fine, sono stati premiati e conl’ottenimento della D.o.p. la domanda su-pererà senza problemi l’offerta e le 12milaforme prodotte ogni anno si volatilizzeran-no, visto che la Spressa sarà venduta suibanchi della più importante catena di su-permercati italiana.Cosa succederà quando i consumatori, do-po aver assaggiato per curiosità il prodottoe dopo averne apprezzato il gusto caratte-ristico, dolce, ampio e suadente, con unapiacevole e invitante nota sapida, ne sco-priranno la “magrezza”?E le signore quando si accorgeranno che laSpressa è calorica all’incirca quanto unamozzarellina di latte pastorizzato, anoni-ma e di incerta provenienza, prenderannod’assalto i banconi dei supermercati!Rivoluzione casearia…Forse il modo migliore per gustare appie-no le specificità di un formaggio è quellodi servirlo al naturale, all’ottimale stato dimaturazione: un tagliere di legno con del-la Spressa delle Giudicarie stagionata (cir-ca dodici mesi), tagliata a dadini e ac-compagnata con miele di acacia e fette dipane integrale. ■

Il formaggio “spremuto”di Stefano Corrada

Altrettanto piacevole è l’acco-stamento con un altro classicoingrediente del territorio: lafarina di mais.Un connubio che in val Ren-dena prende forma nella tipi-ca “polenta carbonera trenti-

na”: eccovi la ri-cetta.Gli ingredientiper 4 porzionisono: 400 gr difarina di mais agrana grossa, ac-qua e sale per lapolenta; 200 grdi burro, 200 grdi salsiccia, 200gr di Grana Tren-tino grattugiato,400 gr di Spressadelle Giudicariestagionata, vinorosso, salvia, pe-pe.Si prepara nelpaiolo di rame lapolenta. A partesi soffrigge ilburro con la sal-

via e la salsiccia; poi si fa sfu-mare il vino rosso. Appena lapolenta è pronta, si incorporail composto con la salsiccia, ilpepe, il grana grattugiato e laSpressa a cubetti. Una voltaamalgamati i sapori, si scodel-la la polenta ancora fumantesul tagliere di legno.

Quale vino si può sposare allaperfezione con questo piatto,così robusto e ricco, senz’altrograsso, discretamente saporitoe con una piacevole tendenzadolce? Occorre un vino che sap-pia “asciugare” la bocca, chesgrassi quella patina che foderail palato ad ogni boccone. Maserve anche un vino dotato didiscreto corpo e di profumi in-tensi, per sorreggere l’imponen-za del piatto.Come può essere un MarzeminoTrentino o un Grignolino delMonferrato.

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Giovedì 7 ottobre presso la sala

conferenze della Comunità

Montana Valtellina di Sondrio

vi è stata la presentazione del libro “Be-

ni culturali della Comunità Montana

Valtellina di Sondrio”, strumento per la

valorizzazione del patrimonio culturale

presente nei 21 Comuni della Comu-

nità Montana. La presentazione della

pubblicazione e delle sue finalità è sta-

ta introdotta da Giordano Caprari, As-

sessore alla Cultura della Cm di Son-

drio, che ha definito il volume come “

una banca dati a disposizione dei citta-

dini”, punto di arrivo di un progetto di

catalogazione e censimento dei beni ar-

tistici e storici fortemente voluto

dall’ente comprensoriale.

Il volume si apre con una breve intro-

duzione del Presidente Aldo Faggi nel-

la quale egli ricorda che l’azione di go-

verno della Comunità Montana Valtel-

lina di Sondrio si è sviluppata

con l’obiettivo centrale di pre-

servare la documentazione

del passato e le radici

dell’identità culturale del ter-

ritorio quale presupposto per

dare forza allo stesso svi-

luppo economico. Obietti-

vo perseguito attraverso una

politica articolata di inter-

venti ricordati con orgoglio

dall’Assessore alla Cultu-

ra Giordano Caprari in

apertura del volume.

L’opera è poi illustrata in

un’ampia premessa da

Elena Castellini e Giam-

paolo Palmieri del Ser-

vizio Cultura della Co-

munità Montana stessa.

Vi si sostiene che” con questa opera si

è voluto evidenziare il lungo e pazien-

te lavoro che la Comunità Montana ha

affrontato nell’inventariazione e cata-

logazione di alcune fondamentali tipo-

logie dei beni culturali (architettonici,

storico-artistici ed etnografici) presenti

nel suo territorio. Un progetto durato

molti anni ed articolato in più interven-

ti che ha dato risultati importanti e che

ora si vuole porre a disposizione dei cit-

tadini e degli studiosi”.

Si ricorda che il primo censimento dei

Beni Culturali risale agli anni 1984 e

1985, con rilevamento di circa 400 be-

ni culturali, un interessante banco di

prova e punto di partenza per indagini

più approfondite e utile strumento per

stilare le priorità di intervento nei re-

stauri e nelle opere di salvaguardia suc-

cessive alla alluvione del luglio 1987

in attuazione della “Legge Valtellina”.

Segue un’ampia illustrazione della im-

postazione metodologica seguita da par-

te degli studiosi che hanno collaborato

nel censimento dei beni culturali del

comprensorio e hanno portato alla pro-

duzione di circa 1900 schede, con un

lavoro di circa 12 anni.

La lunga premessa si chiude con un

cenno alla informatizzazione dei dati

raccolti, sfociata in un Compact Disk

con tutti i dati censiti fino al 1997, una

vera banca dati al servizio degli studio-

si e di tutti i cittadini.

Il volume è suddiviso in sei capitoli,

tutti di estremo interesse, dei quali ri-

porto qui di seguito titolo e autori, non

senza prima aver sottolineato la bravu-

ra di Federico Pollini, autore di gran

parte delle fotografie, e di Mario Vigo,

curatore di impaginazione, grafica e

mappe:

• Gli insediamenti rurali come ele-menti della costruzione del territo-rio di Egidio Gugiatti;

• Casa del dio, casa dell’uomo di Ma-rio Giovanni Simonelli

• La dimora rurale e le sue testimo-nianze di Tiziana Forni;

• I palazzi di Gianpaolo Angelini;

• “Mira queste piage o pechatore…”Spunti di lettura sugli affreschi devo-

zionali di ambito popolare di Loren-za Bertoletti, Nicoletta Moretti eMaurizio Zucchi;

• Dipinti e sculture nel territorio del-la Comunità Montana Valtellina diSondrio tra il XV e il XVIII secolodi Giovanna Virgilio;

Il libro si chiude con una Appendice di

estremo interesse che presenta mappedi inquadramento nel territorio dei

Beni Culturali distribuiti nei 21 Comu-

ni della Comunità Montana Valtellina di

Sondrio. Ne è autore Mario Vigo. ■

Beni culturalidella Comunità Montana Valtellina

di Sondriodi Giuseppe Brivio

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Esistono artisti che più di altri parla-no con le proprie composizioniall’immaginazione e in cui le sug-

gestioni della memoria si traducono sem-pre nuove nel presente.Così è Renato Cortesi.La lunga e intensa vicenda artistica di Cor-tesi, classe 1940, testimonia un passato bendocumentato di tenace e coerente impe-gno, di appassionata creatività, priva diogni tentazione di copiare, ma solo di espri-mere e affermare il proprio modo di per-cepire il proprio mondo interiore in visio-ne surreale e di renderlo “visibile” sui suoicartoni e le sue tele in acrilico, materiali cheegli predilige.Renato Cortesi, lombardo, natio del bre-sciano agricolo e zootecnico, per decisio-ni familiari si trova adolescente a vivere inVenezuela.Non seguendo le volontà paterne, con in-sistenza e volontà, intraprende studi artisticiall’Accademia delle Belle Arti CristobalRoias e alle Università Andres Bello (fa-coltà di Sociologia) e Simon Bolivar di Ca-racas, città straordinaria, di clima e floralussureggianti.Cortesi assorbe e matura nelle sue compo-sizioni artistiche, le atmosfere, i colori e leluci sudamericane.L’opera artistica di Cortesi è intensa, ap-passionata, di elevata tensione intellettivae spirituale, quasi a voler spiegare per for-me e colori, la realtà, dopo averla introita-ta nel profondo e “dopo averla digerita be-ne”, riemerge filtrata, sedimentata, elabo-rata, limpida e schietta.Renato Cortesi trascende i confini dellamaterialità, elabora sempre nuove rispo-ste, con dinamismo e introspezione umana.I confini della conoscenza artistica di Re-nato Cortesi si ampliano e progredisconocon l’artista: da Caracas al Whitney Mu-seum e al Metropolitan Museum of Art diNew York con ampie soddisfazioni, rico-

A R T E

RENATO CORTESI:l’impulso

di una sceltadi Ermanno Sagliani

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noscimenti personali e conclusione deglistudi di estetica proprio presso il Metro-politan Museum nel 1996.La ricerca e l’evoluzione pittorica di Re-nato Cortesi nel decennio degli anni Ot-tanta esprime paesaggi naturali venezue-lani e urbani di Caracas e New York.Tradizione nel significato più autenticodel termine non è mai imitazione o rical-co del passato.E’ invece continuo potere di invenzione,che presuppone memoria e assimilazionedi un repertorio di espressioni formali conlibertà di rielaborarle per tramandarel’opera alle generazioni future.Negli anni di passaggio tra i due secoliRenato Cortesi, sempre più creativo e in-novativo, è passato a rappresentare l’uma-nità. Figure umane trattate su tele. A vol-te utilizzando brani di fotografie di celebridipinti, incollati e completati da pennela-ture nello spazio compositivo, secondo unprogetto prestabilito. L’insieme delle ope-re di Renato Cortesi è splendido, creativo,quasi una sfida.Sagome umane, immagini vibranti, ten-denze surreali con richiami colti e liriciispirati a Raffaello, a Velazquez, a Manet,a Cezanne. Gli esseri umani contempora-nei di Cortesi dialogano con il Minotauro,con Prometeo, esseri mitologici della Gre-cia antica, con figure Medioevali, con ma-nichini di Goya.Le nuove forme in pasta acrilica e “colla-ge” colloquiano indagando nel libro della

storia e traducono immagini del sogno fan-tastico di Renato Cortesi.L’artista espone, colloca opere ovunque, aNew York, a Washington, nell’Art Mu-seum of the Americans di New York, ingallerie, in autorevoli collezioni private.Raccoglie consensi da esponenti massimidel mondo dell’arte (Eduardo PlanchardLìcea di Caracas nel 1991, Jasper Jhons,Ruachenberg a New York).Cortesi, rientrato in Italia a Brescia, affer-ma: “Il Venezuela non è violento, ma aNew York ti triturano, ti dimenticano su-bito. New York è comunque affascinante,richiamo di tutte le genti provenienti datutto il mondo.Tutti vogliono New York, è una grandesfida. E chi si afferma è vincente”.Cortesi, coerente con il suo personale eautonomo percorso artistico e intellettua-le, insensibile alle tentazioni delle mode,ora nella mostra milanese alla Petrofil Ar-te affronta il tema dell’umanità.E lo fa convinto di un suo nuovo modo diesprimersi, senza contraddizione con i suoiprecedenti momenti espressivi, sul pae-saggio o sui temi sociali.Ogni volta trova in quelli abbandonati lacorretta premessa al nuovo, sicuro nellarinnovata necessità di espressione, che nondistoglie l’attenzione dai temi classici, mi-tologici, lirici, come quello tra uomo e na-tura.Cortesi, ai giorni nostri, realizza tele inuna gamma di colori acrilici, proponendo

un simbolismo figurativo astrattista in cuiutilizza altre immagini, foto preincollatesulla tela, lacerti di celebri composizioni ele completa fondali di sua invenzione pit-torica.Renato Cortesi conferma l’originalità del-la sua espressività umanistica: piedi, ma-ni, occhi doppi, tripli che lasciano imma-ginare all’osservatore la persona che c’èdietro.Anche delle scarpe, apparentemente ba-nali, lasciano intuire il personaggio che leindossa.Si impegna nella figurazione umana. Cor-pi, parti del corpo sollecitano, forse, il de-lirio dell’odierna umanità, smembrata dal-le lotte, dalle appartenenze e da assurdifanatismi.L’artista propone una nuova classicità li-rica e moderna che evoca Velazquez, Ver-meer, Rembrandt, Van Eyck, Michelan-gelo o Cézanne e Manet, in un realismo in-cisivo e diretto.Idee chiare, chiaramente espresse.L’operazione artistica, l’espressività e lacreatività di Renato Cortesi proseguononel nuovo millennio, inesauribili, semprealla ricerca di nuovi linguaggi espressivi,inediti, secondo i suoi personalissimi, ori-ginali codici e tecniche di decifrabilitàtutt’altro che banali.Cortesi favorisce con il suo flusso creati-vo il risveglio della sensibilità attraverso lasollecitazione sociale, dovere etico di uneclettico artista contemporaneo. ■

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La Valle in questione deve il suo no-me di battesimo al fiume omonimoche l’attraversa, il Trebbia per

l’appunto (o la Trebbia che dir si voglia;l’appartenenza di genere delle sue acquenon è ancora ben chiara, ma non perdia-moci in sterili diatribe e ammutoliamodinnanzi al suo limpido e incontaminatofluire…).Il percorso del Trebbia in territorio ligu-re è pari a circa 44 km; tale comprenso-rio è costituito dai comuni di Fascia,Fontanigorda, Gorreto, Montebruno,Propata, Rondanina, Rovegno e Tor-riglia.E’ caratteristica la non omogeneità delleformazioni geologiche che interessanola Val Trebbia, dunque la presenza di di-verse varietà sedimentarie: arenarie, ar-

gilliti e rocce di origine magmatica.In particolare, meritano menzione il co-siddetto Bric di Rondanina, una rocciacalcarea a strati di forma triangolare e laconca nella quale affiorano rocce scure(ofioliti) dove sorge il paese, chiamato(per ovvi motivi) Pietranera.Alla varietà di forme geologiche si asso-cia la ricchezza di flora che popola i bo-schi (dove il gioco dei raggi del sole tragli alberi crea suggestive “piogge di lu-ce”): latifoglie, roveri, abeti, faggi, pini,pioppi, salici e castagni … a proposito,ottime le castagne domestiche di Fonta-narossa!Per restare in tema di prelibatezze la ValTrebbia è rinomata per i dolci: deliziosii “Canestrelletti” di Torriglia, la torta “Labella di Torriglia” e le specialità a base dicastagne e di miele preparate a Rovegnoin autunno.Si suppone che Rovegno sia un centro diorigine romana ma l’ipotesi non è maistata verificata; certo è, che il più anticoscritto relativo al paese è stato recupera-to nell’archivio del Monastero di Bobbioe si riferisce ad un atto notarile datato863.Mons. Cesare Bobbi in una sua pubbli-

cazione su Rovegno, dalla quale sonostate estrapolate molte notizie documen-tate afferma: “Qua e colà nel Rovegne-se s’incontrano avanzi d’embrici e lar-ghi tavolati di terracotta ad uso sepol-crale” che potrebbero effettivamente ri-salire al periodo romano.Un’altra fonte cartacea attesta che taliUgo e Mariano di Rovegno in data 17 lu-glio 1197 giurarono fedeltà ai marchesiMalaspina di Prezzoli, gli stessi che Dan-te ha cantato e “feceli eterni”.Questo feudo successivamente passò daiMalaspina ai Doria Panphili, quindi aiFieschi e ai Centurione.L’erezione di Rovegno a Comune è da-tabile intorno al 1797, quando cadde il re-gime feudale.Purtroppo è impossibile ricostruire mi-nuziosamente la storia della Rovegno ci-

Scoprendol ’Alta Val Trebbiadi Chiara Rezzari

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vile, perché molti documenti sono anda-ti perduti nell’ultimo conflitto mondiale.L’attuale chiesa parrocchiale di SanGiovanni Evangelista, iniziata nel 1821in sostituzione della precedente (andatadistrutta a causa di una frana), è decora-ta con stucchi nel 1848 e in seguito af-frescata: l’ingresso principale è adorna-to da un elegante portale in bronzo a ope-ra dello scultore G. Galletti (1962).Da segnalare, fra le tante cose interessantiche possiamo trovare a Rovegno la sto-rica miniera di rame situata all’iniziodel paese, rivelatasi un fallimento dalpunto di vista estrattivo e dunque chiusanegli anni Venti. Sono ancora visibili ca-nali di scarico del materiale con vasti de-positi di limonite.Nel paese ha sede il CE.R.S.A.L. (Cen-tro Ricerche Sperimentazioni Acquicol-tura Ligure), nato con la finalità di uti-lizzare e coordinare le singole esperien-ze acquisite dai suoi collaboratori in mol-ti anni d’attività nei settori delle lorocompetenze specifiche, dalla biologia al-la chimica ambientale, dall’allevamentoittico all’ittiopatologia.A Rovegno si possono trovare molte sor-genti; ricordiamo in particolare la fontedel “Galletto”, dalle provate qualità me-dicamentose. Si può citare il caso di unagiovane madre nefritica grave e pertantoricoverata in un ospedale di Genova. Pur-troppo nessuna terapia sortì gli effettisperati e la paziente fu rimandata a casa.Sottoposta a idroterapia con l’acqua del-la fonte del “Galletto” la donna si rista-bilì.Rovegno offre ai suoi ospiti eventi di va-ria natura: feste della parrocchia, festedanzanti e sagre.Basti dire che tutti gli anni, nel giornodella “Festa della patata”, (in ottobre)ha luogo un convegno dedicato alla patata“quarantina di Rovegno”, dove parte-cipano le più note personalità conoscitri-ci dei pregi di questo dono della terra.“… La quarantina ha buccia chiara pa-glierina appena rugosa; pasta bianca econsistente; forma globosa e irregolare;gemme profonde e rosa; peso medio digr. 150. Il suo nome ne evoca la preco-cità e il ciclo breve di 90/100 giorni. Digusto saporito, tiene bene la cottura edè geneticamente indicata per tutti gliusi. Per mantenerne la fertilità i conta-dini dovevano ogni anno (al massimodue) cambiare il terreno e la semente,che veniva acquistata nelle località piùelevate…” (da “La Casana” di Massi-mo Angelici).Le principali frazioni di Rovegno sono:Casanova, Garbarino, Isola, Loco e

Pietranera.Casanova, nel XIII secolo era sotto il do-minio degli Imperatori Germanici; suc-cessivamente passò ai Malaspina, i qua-li costruirono anche un castello, del qua-le purtroppo non sopravvive che qualcherudere.Si deve ai Malaspina anche la prima chie-sa, fatta erigere in onore di San TerenzioVescovo e Martire di Todi, e dedicata aSan Pietro Apostolo, la chiesa di Casa-nova presenta una pianta a croce latina,con tre navate, transetto e coro che fuo-riescono. La facciata principale è a ca-panna con il portone centrale, con so-vrapposta una nicchia che custodisce lastatua del Santo a cui la parrocchia è de-dicata. Internamente è caratterizzata dadecori e dipinti eseguiti in parte in affre-sco e in parte in tempera che risalgono al1921, realizzati dai pittori Gambini e To-selli. L’iconografia dei dipinti raffigurascene della vita di San Pietro Apostolo,dal Martirio alla Gloria.Per quanto concerne eventi a sfondo re-ligioso, suggestiva la Festa di San Roc-co, che si svolge ogni 16 agosto nellacappelletta nei boschi a lui dedicata.Nel corso della celebrazione si ricorda lavita del Santo. Si pensa (le fonti a suo ri-guardo sono oscure) che egli, in pelle-grinaggio verso Roma, dopo aver dona-to tutti i suoi beni ai poveri, si sarebbe fer-mato ad Acquapendente, dedicandosiall’assistenza degli ammalati di peste fa-cendo guarigioni miracolose. Anche ilritorno da Roma a Montpellier è inter-rotto da un’epidemia di peste e Roccosubisce il contagio.Allora si trascina a una capanna lungo ilTrebbia per morirvi in solitudine. Quientra in scena il cane famoso ritratto datanti artisti, che giunge in soccorso delSanto…Invece, “feste di degustazione” che ri-corrono ogni estate a cui non mancare so-no “La polentata” nel bosco, “La sagradell’asado” e “La festa della salsiccia”.Nel territorio di Casanova sul confinecon Fontanigorda, è situato un mulino(testimonianze ne assicurano il funzio-namento sin dal 1400) con un ponte me-dioevale che attraversa il torrente Pescia.Le zone circostanti il paese elargisconoal visitatore anche angoli naturali che in-cantano lo sguardo, come i “laghetti” dainomi suggestivi tramandati di genera-zione in generazione: “il Lago della Lu-ce”; “il Lago dei Buoi”; “il Lago delleVergini”…Da percorrere a piedi (il paesaggio lo me-rita) è la strada che conduce da Casano-va a Pietranera (circa 5 km); lungo il

cammino s’incontra la Colonia, al cuiinterno si trova un osservatorio astrono-mico (le stellate in questa vallata sonomeravigliose).Superando Pietranera, sulla strada pro-vinciale che inizia in prossimità dellachiesa di Rovegno, si raggiunge Fop-piano. La frazione si trova sul vecchiopercorso che, attraverso le mulattiere delcrinale orientale, consentiva di raggiun-gere la Val d’Aveto da Genova.Infine, nella frazione di Loco, è sepoltoil poeta Giorgio Caproni* che ha fre-quentato a lungo l’Alta Val Trebbia, pri-ma come maestro a Rovegno, in seguitocome partigiano (“senza sparare nem-meno un colpo”), poi come commissario(“qualcosa come sindaco” diceva luistesso) del Comune di Rovegno, nonché

unico insegnante a Loco durante il se-condo conflitto mondiale, infine comevilleggiante nei mesi estivi (qui conobbela moglie Rina Dettagliata, originaria delposto).A Fontanigorda (il nome del paese sem-bra derivare dalle sue 13 fontanelle), nelpittoresco “Bosco delle Fate”, ricco dicastagni e faggi, vi è un suggestivo sen-tiero poetico su lastre di ardesia sullequali sono incisi i più bei versi dedicatida Giorgio Caproni alla Val Trebbia. ■

* Ecco i versi che il poeta Giorgio Caproni dedicò a Rovegno:

Lasciando LocoSono partiti tutti.Hanno spento la luce,chiuso la porta, e tutti(tutti) se ne sono andatiUno dopo l’altro.Soli,sono rimasti gli alberie il ponte, l’acquache canta ancora, e i tavolidella locanda ancoraingombri - il deserto.E io,io allora, qui,io cosa rimango a fare,qui dove perfino Diose n’è andato di chiesa,dove perfino il guardianodel camposanto (unodei compagnoni più gaie savi) ha abbandonatoil cancello, e ormai,di tanti – non c’è più nessunocol quale amorosamentepoter altercare?

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Per i sessant’anni di PierreCasè, che è stato per oltreun decennio impegnato

come direttore artistico di Ca-sa Rusca, dove ha allestito mo-stre significative di maestri in-ternazionali quali Max Bill, Al-berto Burri, Osvaldo Licini,Enrico Baj, Asger Jorn, Anto-ni Tapiès, Marino Marini ed al-tri, la città di Locarno ha volu-to giustamente, con questa af-fascinante antologica, rimette-re in luce l’opera artistica, te-nuta volontariamente in ombradurante il periodo della sua di-rezione, di questo creatore.Di lui ricorderemo la bella mo-stra a Sondrio del 2001 al Pa-lazzo Sertoli e al Museo Val-tellinese di Storia e Arte, inti-tolata “Pierre Casè - Atmosfe-re arcaiche”, mettendo a fuocoil suo percorso plastico lungoquasi venticinque anni di ricer-ca.Si inizia dalle opere del ciclo“Antiche presenze” dei primianni ‘80, per giungere fino alavori completati nella primametà del 2004. La selezione èstata operata nell’intento di do-cumentare i vari cicli tematiciche hanno caratterizzato, pe-riodo per periodo, la sua ispi-

razione, seguendo memoria etempo, che costituiscono la ba-se della sua poetica.Le “Reliquie dei muri” che sisviluppano in grandi e piccoledimensioni, racchiudono giàmolte sue intuizioni, che ma-tureranno col tempo, per esplo-dere nei grandi dipinti della se-conda metà degli anni ‘90.I segni del passato sono evi-denti nel lavoro materico dellesuperfici dipinte, sofferte e vi-ve, che rappresentano il sog-getto e l’oggetto del suo dipin-gere, oggetto come rappresen-tazione e soggetto nella sugge-stione creativa.Il rapporto di Casè con i suoi la-vori è un legame profondo, nu-trito dal rapporto che egli in-trattiene con i vari aspettidell’esistenza, a partire dallecostruzioni e dai muri, che piùdi altre cose sono un registrosensibile e leggibile del tra-scorrere del tempo e dell’effi-mero passaggio umano.Si comprende sotto questo pro-filo la corposità dei suoi dipin-ti ed i loro colori di terra, ma an-che, soprattutto dal 2001, la per-sistenza del nero, un nero più omeno denso, mezzo ideale peresorcizzare l’incognita dellamorte e della fine, che si intro-duce in modo inequivocabilenelle narrazioni precedenti.Forse si può ricercare in un pas-saggio delicato attraverso lamalattia, il motivo che lo haportato ad incidere in modopropriamente fisico sulle su-perfici da dipingere.In mostra sono visibili 115 ope-re, dai piccoli formati delle“Reliquie” e delle “Teste arcai-che”, alle grandi “Atmosferearcaiche”, secondo un itinerariocronologico delle sale della Ca-sa Rusca.

In complemento, negli spazidella Sinopia, è presentata larassegna intitolata “MarcoD’Anna. Il ritorno della me-moria. Un viaggio fotograficonel mondo dell’artista PierreCasè”, corredata da un interes-sante catalogo edito dal Con-solato Generale Svizzero a Mi-lano, e che è già stata propostanello Spazio Culturale Svizze-ro di Venezia.Il fotografo, nato nel 1964 aZurigo, compie in queste belleimmagini uno studio approfon-dito della personalità e del la-voro di Pierre Casè, presentan-done i differenti aspetti, anchenella fisionomia, dallo sguardolimpido e scrutatore, e con lasilhouette inconfondibile emassiccia che ci è familiare.L’antologica, curata da LuigiCavadini, con la estrema preci-sione e chiarezza che gli è con-sueta, è accompagnata a sua

volta da un catalogo edito dal-la Pinacoteca Casa Rusca, conla riproduzione di tutte le ope-re esposte e completato da testidi Luigi Cavadini e MartinaCorgnati.La pubblicazione ci guida at-traverso queste opere misterio-se e singolarmente accattivan-ti, sovente eseguite a tecnicamista su tela e tavola, ed arric-chite da segni e graffiti chepaiono risorgere da tempi ora-mai lontani, senza dimenticarela serie di “Teste arcaiche” del2001, composte con piombo,sabbia e catrame, chiuse nel lo-ro impenetrabile segreto, o lestele su metallo che evocanototems lontani, forse dedicati adivinità scomparse. ■

A R T E

Preziosa Antologica di Pierre Casèalla Pinacoteca Casa Rusca di Locarno

testi di Donatella Micault - foto di François Micault

Pierre Casè. Antologica. Pinacoteca Casa Rusca, PiazzaS. Antonio, CH-6600 Locarno,Svizzera.Fino al 12 dicembre 2004.Orari: 10-12/14-17, chiuso lu-nedì.Catalogo edizione Città di Lo-carno Servizi Culturali, CHF40/_ 28.Catalogo fotografico MarcoD’Anna. Il ritorno della memo-ria. CHF 30/€ 21.Per informazioni telefono00.41.91.7563185.

Antologica Pierre CasèPinacoteca Casa Rusca LocarnoMnemosine IV, 2002Dittico - Tecnica mista su tela etavola - cm 200x175 Foto François Micault

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Antologica Pierre CasèPinacoteca Casa Rusca LocarnoImpronte nel tempo VIII 1985,tecnica mista su tela di juta cm100x100 Foto François Micault

Antologica Pierre CasèPinacoteca Casa Rusca LocarnoUn insieme di opere dell’artistae sul fondo il curatore dellamostra Luigi Cavadini Foto François Micault

Antologica Pierre CasèPinacoteca Casa Rusca LocarnoKoss I, 1986Installazione di 12 stele, tecnicamista su tela, tavola e metallocm 200x450Foto François Micault▼

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In un ambiente prestigioso esuggestivo, la Galleria Ci-vica di Campione d’Italia,

che ha sede in una chiesa scon-sacrata del ‘700 antistante illago, si è aperta il 4 settembrela mostra “Vita ed opere diGiorgio De Chirico attraversoincisioni e litografie” curata daIlia Pellegrinelli che del Mae-stro è una grande conoscitrice,un’ interprete sensibile e raffi-nata.La mostra ripercorre la vita delPictor Optimus attraverso 50fogli, dei quali alcuni moltorari e la cui esposizione al pub-blico costituisce un evento.De Chirico scopre tardi questaforma espressiva e se ne serveper dare vita ai suoi primienigmi.Solo alla fine degli anni ventiil rapporto con gli altri territo-ri della sua ricerca artistica,pittura, scultura, disegno e per-sino teatro, diventa costante.Le tecniche sono diverse, mala ricchezza, la vastità, laprofondità della sua arte sonole stesse.

Nelle sue incisioni troviamol’invenzione, la sperimenta-zione più ardita, la nostalgicarilettura del mondo classicosenza un ordine, ma con unacontinua contraddizione, se-gno della sua profonda in-quietudine e del suo bisogno ditradurre in immagini il miste-ro dell’esistenza.Camminando per la sala il vi-

GIORGIO DE CHIRICO:incisioni e litografie

di Pierangela Bianco

■ L’enigma del ritorno, litografia1966 - mm 295x465.

■ Ed ecco un tronostava in cielo,litografia 1969/70 -mm 300x420.

■ Il fiumemisterioso, litografia 1970 -mm 580x450.

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sitatore entra in contatto con lefasi più significative ed inte-ressanti della produzione diquesto genio che ha attraver-sato il ventesimo secolo inter-pretandone la complessità e lavarietà, ma restando sempresostanzialmente un isolato.I fogli esposti sono tutti digrande interesse pittorico eculturale, ma soprattutto alcu-ni attraggono l’attenzione delvisitatore e lo portano all’in-terno dell’universo del mae-stro che, varcata la soglia, loaccoglie con un “autoritrattoin costume del ‘600”, una scel-ta di ritorno al classico che ca-ratterizza parecchie opere.Si viene poi catturati da“Scuola di gladiatori” e “Com-battimento di gladiatori” testi-monianza della sua esperienzaparigina, quando, assieme aJean Cocteau, si allontana dalSurrealismo e recupera la clas-sicità attraverso il mito rilettoe reinterpretato in una dimen-sione ambigua, onirica.Sono gli anni del ripensamen-to e del ritorno alla metafisicache vede una produzione se-gnata dall’intrecciarsi fra laquotidianità e il mistero.Questo intreccio, riletto, rivi-sto, arricchito, segnerà tantaparte della sua produzione fi-

no a quella del De Chirico ma-turo de “Il fiume misterioso”.L’enigma del ritorno per arri-vare al “Ritorno di Ulisse” digrande valore autobiografico.La Mostra presenta alcune ra-rità come i “fogli di Hebdo-meros”, uscito nel 1972 perl’editore Bestetti, ma scrittoalla fine degli anni ’20.La dimensione autobiografica,che caratterizza l’opera è im-mediatamente evidente nelletavole che l’accompagnano so-spese fra trasognamento clas-sico e visionarietà.Fra le iconografie più affasci-nanti, che maggiormente col-piscono e affascinano il visita-tore è un foglio trattodall’Apocalisse del 1941 e “Edecco un trono stava nel cielo”.La stagione più matura è rap-presentata da “Le Muse delpomeriggio” che riprende unodei suoi motivi più intensi epiù famosi, “Le Muse classi-che”, senza cadere nello ste-reotipo, ma mantenendo intat-ta la loro magia. Una serie di incisioni e di lito-grafie, dunque, che ci offronoin un’ottica più ampia ed inte-ressante questo grande geniosempre intento a penetrare ilmistero dell’esistenza, che ri-teneva l’arte uno strumento perconoscere la realtà e l’artistaun essere superiore, un veg-gente che guida gli uomini al-la scoperta di quella verità al-la quale egli è approdato pro-prio attraverso l’esperienzadell’arte. ■

■ Le muse del pomeriggio,litografia 1969/70 - mm 450x580

■ Combattimento di gladiatori,Acquaforte 1928, mm 139x178.

■ Autoritratto in costume del ’600

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Il popolo iracheno lotta da oltre un

decennio per la sua libertà: ha do-

vuto subire due aggressioni milita-

ri, bombardamenti selvaggi sulle città,

che aggiunti a dodici anni di embargo

hanno trasformato una nazione prospe-

ra e moderna in un letamaio: ora l’oc-

cupazione!

La “lotta di liberazione” è ancora viva

ed attiva.

L’Italia invasa nel ’45 ancora oggi

“ospita” le forze armate americane in ol-

tre cento basi sul nostro territorio.

Abbiamo “esorcizzato” la realtà tra-

sformando il senso delle parole inva-

sione e occupazione in “liberazione”.

Anche l’Iraq è stato ufficialmente “li-

berato”.

Il popolo iracheno è davvero festante

dopo la caduta del feroce dittatore?

Una trentina di figuranti assoldati

dall’invasore erano davanti alle teleca-

mere e accuratamente inquadrati!

Lo testimoniano le riprese dall’alto.

Quel popolo non ha venduto la dignità

per una tavoletta di cioccolato!

Il “tradimento” che fu consumato in Ita-

lia è stato respinto dall’Iraq.

Quale può essere la credibilità di una or-

ganizzazione di “libere nazioni” (ONU)

quando alcune contano più di altre e

quando solo gli USA, la Francia, l’In-

ghilterra, la Russia e la Cina hanno il di-

ritto di veto?

Perché mai scattano le sanzioni, i bom-

bardamenti umanitari e gli embarghi so-

lo contro alcuni paesi?

Gli unici che possono detenere arsena-

li di armi di distruzione di massa sono

solo gli USA ed i suoi fiancheggiatori:

è un mistero!

Solo alcune nazioni sono passibili di

democratizzazione coatta mentre molti

dittatori detengono indisturbati il pote-

re, talvolta ottenuto perfino con l’aiuto

della Cia: perché?

La dittatura e la usurocrazia finanziaria

di Wall Street e della City, che schia-

vizzano molti popoli, non sono svento-

late come crimini contro l’umanità.

I “governatori della colonia italica” pos-

sono solo aggregarsi tra loro, fingere di

litigare per “fare un po’ di cinema” co-

me si suol dire, tanto per cercare di di-

fendere le loro poltrone costruite sulla

perduta sovranità del popolo italiano.

Il ritiro delle forze armate italiane po-

trebbe rappresentare il primo passo del-

la nostra stessa “liberazione naziona-

le”.

Pervenuto in redazione da parte di Cornelia Colombi.

PACIFISMO IPOCRITA?Ovvero la guerra vista “dall’altra parte”

O P I N I O N I

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Durante la I guerra mondiale, slovenie croati combatterono senza incer-tezze (salvo pochissime eccezioni)

nel campo austro-ungarico; così come in ge-nere i bosniaci, mentre i serbi si schieraro-no compattamente dalla parte opposta.Con la fine dell’impero asburgico, croati esloveni “saltarono il fosso”, accordandosicon il Regno di Serbia per costituire un uni-co Stato ed essere trattati non da vinti ma davincitori. Speravano così di contenere le pre-tese italiane sulla Valle dell’Isonzo, l’Istriae la Dalmazia che, per il vero, andavano benal di là dei nostri diritti sulle località costie-re, generalmente a maggioranza italiana.Così si formò il Regno di serbi, croati e slo-veni: Belgrado aveva promesso larghe auto-nomie agli altri popoli.Ma se gli sloveni si adattarono alla situa-zione (non senza rimpiangere il severo masaggio e giusto governo di Vienna), con icroati le cose andarono subito male: già al-la fine del ’18 l’esercito sparava sulla follaa Zagabria.Per dare l’idea dell’intolleranza tra serbi ecroati, ricordiamo un avvenimento crucia-le: il 20 giugno 1928, in pieno parlamento aBelgrado, un deputato serbo-montenegrinosparò a Stefano Radic (capo degli autono-misti croati) e ad altri cinque suoi colleghi.

Subito dopo, Re Alessandro Karagjorgjevicinstaurò un regime di dittatura personale,abolendo ciò che restava delle autonomielocali. Le cose in Kossovo e in Macedonia non an-davano meglio. La politica jugoslava, in ge-nere profondamente avversa all’Italia eall’Ungheria, oscillava tra l’amicizia fran-cese e talune simpatie verso i regimi totali-tari in Germania, come pure in Italia.Ricordiamo, per verità storica, che in queglianni nell’Europa orientale, fatta salva la Ce-coslovacchia, non vi era nessuno Stato real-mente democratico.Ciò che fece esplodere la polveriera jugo-slava fu il II conflitto mondiale.L’Italia era in guerra con la Grecia in Alba-nia; la Bulgaria, pur neutrale, simpatizzavaper l’Asse, cui si andava accostando la Ro-mania e cui era già legata l’Ungheria; laGermania si apprestava ad attaccare l’URSSdi Stalin.Il Governo jugoslavo decise di avvicinarsiagli italo-tedeschi, urtando in ciò contro ladecisa volontà dell’esercito e della popola-zione serba. Così la notte del 26 marzo 1941un gruppo di Generali serbi (oggi sappiamodietro precise promesse e sollecitazioni in-glesi) effettuò un colpo di Stato chiaramen-te anti-tedesco.Pare che gli inglesi spingessero gli iugosla-vi ad attaccare alle spalle le forze italianeschierate in Albania contro i greci, promet-tendo al Regno dei Karagjorgjevic tutti i ter-ritori italiani ad oriente dell’Isonzo.Ma gli iugoslavi non fecero in tempo a muo-versi che furono colpiti dalla vendettadell’Asse.Qui vennero a galla sia le poche simpatie chela Jugoslavia vantava presso i paesi viciniche la scarsissima solidità della sua compa-gine statale.Italiani, tedeschi, ungheresi, bulgari, al-banesi si buttarono contro il Regno nemi-co; i rumeni non intervennero ma lasciaro-no transitare le truppe tedesche. Insomma

… ma non tuttierano con Tito…

di Nemo Canetta

Tempo fa, scrivendo diBalcani, abbiamoevitato il periodo tra le dueguerre mondiali: è infatti così complessoe la storiografia tantodi parte, da richiedereuna trattazione a sè.Conoscere l’ex-Jugoslavia degli anni‘30 e ‘40 èindispensabile percapire quanto successein quell’areamartoriata negli anni‘90: certi odi,apparentemente sopiticon la vittoria di Tito,riemersero intatti, quasiche mezzo secolo distoria non fossetrascorso!

■ 1942 Slovenia: un ufficiale del Regio Esercitoassieme ad un gruppo di “guardie bianche”, inquesto caso contadini che difendono il lorovillaggio.

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tutti fecero a gara per annientare Bel-grado.D’altra parte le truppe italo-tedescheavanzarono nei territori sloveni e croa-ti, in Voivodina e lungo il litorale dal-mata praticamente senza sparare un col-po. Salvo poche formazioni esclusiva-mente serbe, il resto dell’esercito iugo-slavo si sciolse al sole. Basti dire che, co-me raccontano i testi militari italiani,una compagnia di bersaglieri motocicli-sti si lanciò in Slovenia alla conquista diLubiana. Senza incontrare alcuna resi-stenza, entrò in città, la occupò total-mente (saranno stati 150 uomini!) edebbe la sorpresa di trovare Lubiana pron-ta a ben accogliere le truppe tedesche.Ed in effetti, ma questo sarebbe un lun-go discorso, noi occupammo la Sloveniacentro-occidentale al solo scopo di te-nere gli “amici” germanici il più possi-bile lontani da Trieste.Insomma l’ex-Jugoslavia in pochi gior-ni cessò di esistere.E gli invasori si ritagliarono belle fettedi territorio a loro vantaggio. L’Italia,oltre alla Provincia autonoma di Lubia-na, occupò gran parte della Dalmazia. IlIII Reich si “accontentò” del resto dellaSlovenia, l’Ungheria annesse tutta la

Voivodina, la Bulgariala Macedonia, l’Alba-nia il Kossovo. LaCroazia, amputata del-la costa ma arricchitadella Bosnia-Erzegovi-na, si proclamò Statoindipendente sotto laguida di Ante Pavelic,esule politico che daanni si batteva all’este-ro per tale soluzione,con appoggi dal gover-no italiano. Ciò che re-stava andò a costituireun misero Stato serbo eun Regno del Monte-negro, sotto protettora-to italiano (non di-mentichiamo che laRegina Elena mogliedi Vittorio EmanueleIII, era figlia dell’ulti-mo Re del Montene-gro).Certamente una solu-zione non stabile, vi-sto poi come andò a fi-

nire il conflitto, ma certo nessuno im-maginava cosa stava per accadere.Gli occupanti dell’Asse non furono cer-to teneri, anche se non pochi sloveni cihanno privatamente confessato quantofosse diverso essere sotto Roma, piutto-sto che sotto Berlino. Almeno noi, inteoria, avevamo garantito lingua e cul-tura slovena; nelle zone occupate dai te-deschi invece fu attiva una violenta ger-manizzazione. In modo non dissimile sicomportarono ungheresi, bulgari e al-banesi.Ma il peggio doveva avvenire in Croa-zia, ove erano al potere gruppi più che didestra, di fanatici nazionalisti. Questiiniziarono subito una violentissima cam-pagna di croatizzazione, consistente inveri e propri massacri di serbi (oltre chedi zingari ed ebrei). Tanto violenti e spie-tati da fare inorridire perfino i tedeschie da spingere le forze italiane di occu-pazione ad intervenire. Ne “Le opera-zioni dell’unità italiane in Jugoslavia

1941-1943” (1978 -Ufficio storicodell’Esercito italiano), si afferma che inmolti casi i nostri soldati intervennero,anche senza ordini, per fermare i mas-sacri che, oltretutto, stavano spingendoi serbi alla resistenza armata.E qui veniamo al secondo punto dellatragedia dell’ex-Jugoslavia.La resistenza fu attiva quasi da subito inlarga parte del territorio. Pare unica ec-cezione il Kossovo ove la popolazione,per il 90% albanese, vedeva nell’occu-pazione italo-albanese una garanzia con-tro i serbi.Ma il fatto è che di resistenze nell’ex Iu-goslavia ve ne furono parecchie, che benpresto entrarono in conflitto tra loro.Nelle aree a maggioranza serba era at-tivissimo il movimento dei cetnici, con-trollato dai monarchici in contatto colgoverno in esilio a Londra. Nelle areesloveno-croate prevalevano invece i co-munisti, sotto il comando di un attivistapreparato a Mosca, il cui nome di bat-taglia era Tito.D’altra parte italiani e tedeschi ebberobuon gioco a costruire nei territori oc-cupati formazioni, spesso assai nume-rose, di “collaborazionisti” che si mo-strarono sovente ancor più spietate, spe-cie con i partigiani comunisti, degli stes-si occupanti.Da un lato era facile far leva sul risenti-mento di varie minoranze (ad esempioi musulmani di Bosnia-Erzegovina) con-tro il governo di Belgrado già control-lato dai serbi.Molto spesso la molla che fece arruo-lare croati e sloveni sotto le bandiereitalo-tedesche fu però prettamente po-litico sociale. In queste aree i partigia-ni erano essenzialmente comunisti e si

■ Monumento aiDomobranci, massacratinel 1945, in un villaggiorurale sloveno (foto N.Canetta)

■ Kocevje (Slovenia meridionale). In questefitte foreste furono eliminati moltissimicomponenti le forze filo italiane e filotedesche. Dopo l’indipendenza sono sortesemplici ma suggestive croci lignee, sullefoibe piene di resti (foto N. Canetta)

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scontravano con i sentimenti di unapopolazione in larga parte cattolica econservatrice, venata assai di sovente,di nazionalismo, non certo di fascismood, ancor peggio, di nazismo.E’ il caso dei domobranci sloveni, pri-ma organizzati dagli italiani nella Pro-vincia di Lubiana, poi trasformati daitedeschi in un vero e proprio esercitocon artiglieria e carri armati.L’argomento, nella Jugoslavia di Tito,fu tenuto accuratamente nascosto e an-che in Italia se ne parlò poco per nondir nulla. In realtà migliaia di contadi-ni sloveni si organizzarono, sotto con-trollo italiano, per costituire le cosid-dette Guardie Bianche, i Belogardistiche, apertamente appoggiate dal clerolocale (con in testa il vescovo di Lubia-na), difendevano vaste aree dalle in-cursioni dei partigiani.Dopo l’8 settembre 1943 la Provinciapassò sotto sovranità germanica ma Ber-lino promise larga autonomia e conti-nuò ad arruolare ed organizzare questeforze, ottenendo risultati spesso notevo-li.Gli scopi finali del conflitto erano di-vergenti ma, al momento, un fine uni-va tutti: italiani, domobranci, cetnici,tedeschi, croati: combattere Tito e i suoiuomini che d’altra parte ricambiavanol’avversario con non minore durezza.Insomma, specie dopo il 1943, fu unaguerra di tutti contro tutti, fatta di vil-laggi incendiati, massacri di popolazio-ne, fucilazione di ostaggi, ritorsioni evendette. Se spesso i nostri soldati simostrarono sensibili alle sofferenze del-le popolazioni, non di meno furono so-vente anch’essi assai duri nel contrasta-re la guerriglia, non lesinando in esecu-

zioni. Ebbene, a pagina 109 leggiamoche, il 15.7.1943, i belogardisti eranoben 6131, mentre i comandi italianivalutavano i partigiani sloveni a soli1800 circa. Insomma più di 3 “colla-boratori” ogni partigiano!Difficile, quasi impossibile avere daticerti su altre aree dell’ex Jugoslavia, mail fenomeno non fu meno imponente,specie nella Croazia che costituì nume-rose unità militari (alcune addiritturada inviare in Russia), mentre in Mon-

tenegro e Serbia vi fu una notevole pre-senza di nazionalisti monarchici, tuttiferocemente anticomunisti. Quanto ai Bosniaci di fede musulmanabasti dire che formarono un paio di di-visioni arruolate direttamente dai te-deschi. Se aggiungiamo i cetnici, i partigianimonarchici, possiamo ben riconoscereche le forze di Tito, pur notevoli, nonrappresentavano certo la totalità deipopoli dell’ex Jugoslavia.

Quanto fu esteso il fenomeno della“collaborazione” nell’ex Jugoslavia?Qualcuno potrebbe pensare che sia sta-ta marginale o caratteristica di piccoligruppi. Non fu così. I dati non sonoagevoli da reperire, anche perché Bel-grado fece di tutto per non farli cono-scere. Ma abbiamo almeno un punto diriferimento. In epoca non sospetta, nel 1998, l’Uf-ficio Storico dell’Esercito Italiano haedito un interessante volume: “L’occu-pazione italiana della Slovenia, 1941-‘43”, ricchissimo di dati ed informa-

FORZE DELLO STATO CROATO1) caporale delle forze bosniache, a Tuzla2) Sergente d’artiglieria, Bosnia occidentale, 19433) Soldato croato, Bosnia orientale

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zioni e deportazioni (anche se, almeno

secondo la nostra storiografia, i nostri si

attennero sempre alle Leggi di Guerra,

a quel tempo in vigore, che purtroppo

prevedevano anche azioni spietate con-

tro i partigiani, considerati “combatten-

ti irregolari” e come tali non ricono-

sciuti).

Nel 1945 si giunse alla resa finale deiconti. E il sangue scorse a fiumi.Tutti gli elementi filo Asse che riusciro-

no, si ritirarono verso nord al seguito

dell’esercito germanico.

Cetnici, serbi e montenegrini, guerri-

glieri albanesi, bosniaci, croati e slove-

ni; lo scopo di tutti era di consegnarsi

all’esercito inglese per sfuggire alle fe-

roci rappresaglie di Tito. Moltissimi vi

riuscirono ma qui si aprì un capitolo distoria che non fa certo onore al Go-verno e all’Esercito inglese.Per decisione politica, Londra riconse-

gnò tutti nelle mani dei partigiani. Di

moltissimi di loro non si seppe più nul-

la: sparirono nelle foreste slovene, nelle

foibe o in lunghe “marce della morte”.

Solo nel caso degli sloveni su poco piùdi un milione di abitanti si ebbero10.000 spariti (ma c’è chi dice 20.000).Il numero dei croati fu assai più alto, siparla di 100/200.000 persone elimina-te. Probabilmente nessuno ha mai po-tuto calcolare il numero degli “spariti “tra le altre nazionalità dell’ex-Jugosla-via.Poi calò il silenzio e anche se in segreticampi i superstiti di queste forze lan-guivano e morivano (gli ultimi cetnicifurono eliminati in Bosnia nella primametà degli anni cinquanta), il Paese fuletteralmente travolto da una martel-lante propaganda.Ovunque una sola verità: Tito mitiz-zato e venerato, i suoi uomini buoni edinvincibili. Tutti gli altri “aggressorifascisti” o “venduti al nemico”.Poi la ruota della storia ha iniziato agirare.Con il crollo della ex Jugoslavia moltemezze verità sono venute a galla.Così in Slovenia hanno cominciato, ingenere presso le parrocchie, a sorgeresobri ma significativi monumenti condecine, centinaia di nomi di caduti nel1945. Il turista italiano spesso distrattoe che viaggia poco in quei villaggi ru-rali, probabilmente non li ha mai visti,o al più scambiati per i soliti monu-menti ai partigiani. No! Sono dedicati aidomobranci spariti nella mattanza se-guita alla vittoria di Tito.Gli sloveni ne parlano malvolentieri congli stranieri, ma i testi sopra le lastre dimarmo sono sufficientemente chiari: ri-cordano chi ha combattuto contro il co-munismo per la propria terra.Conosciamo meno cosa è avvenuto inaltre aree dell’ex Jugoslavia. Manell’Erzegovina croata abbiamo vistoin bella mostra fotografie delle milizieustascia, gli uomini di Pavelic, quasifossero eroi.Il “partito del diritto” che si richiama di-rettamente all’ideologia di Pavelic futra l’altro attivissimo nella guerra con-tro i serbi negli anni ‘91-’95.E qui ci fermiamo, saldando il cer-chio.I massacri del ‘45 non chiusero la par-tita, la rimandarono soltanto e nel ‘91molti ripresero le armi quasi che i 46 an-ni di distanza dagli eccidi non fosserotrascorsi.Gli ex-jugoslavi non amano parlare conlo straniero di questi “conti interni”, maricordare la storia di quegli anni tinti disangue servirà certamente al restodell’Europa per meglio capire questoirrequieto territorio. ■

FORZE SLOVENE1) Tenente del 3º battaglione d’assalto delle Forze d’Autodifesa (Domobranci), 19442) Sergente, 19443) Milite del SNVZ (Forze slovene del Litorale) 8ª compagnia, Postumia, 1944

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Non è facile conservare la storia, letradizioni e il linguaggio di unazona montana come la Valle Ca-

monica dopo la rapida modernizzazio-ne degli ultimi decenni che ha visto i rit-mi agricoli e pastorali perdere impor-tanza a favore del turismo di massa edell’urbanizzazione diffusa e che hamesso in crisi un modo di vivere, ren-dendolo, soprattutto per le giovani ge-nerazioni, poco più che un ricordo.In questa opera difficile e meritoria èpienamente riuscito Dino MarinoTognali, da anni collaboratore di Al-pes; egli, come ci ricorda nella pre-fazione Edoardo Bressan, profes-sore di Storia contemporanea pres-so la Facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università degli Studi di Mi-lano, “in queste pagine parla, conun’impareggiabile conoscenzadelle vicende camune e unagrande capacità narrativa, di unarealtà viva, tratta dall’esperien-za personale e da molte testi-monianze” ed ancora: “Gli aspetti con-siderati rimandano non a caso a un datoculturale, che si esprime nelle formespontanee della convivenza e nei mo-menti di festa, nei riti di passaggio e nel-la tradizione orale, nella religiosità po-polare e nella liturgia, sempre attraversola mediazione di una lingua che non èquella della comunicazione letteraria mache si lega direttamente al vissuto quo-tidiano, ai sentimenti, alle relazioni diprossimità. Ed è una cultura elaborata insecoli di vita sociale liberamente e spon-taneamente organizzata, senza particolarivincoli esterni, in cui le comunità, graziealla vicinia, hanno dato vita a un equili-brato sistema di rapporti sociali e am-bientali, che neppure la modernizzazio-ne è riuscita a compromettere del tutto”.

Si tratta di un patrimonio di inestimabi-le valore che Dino Marino Tognali ciaiuta a salvaguardare e a valorizzare.I due volumi de La mia terra, la miagente sono un prezioso scrigno che con-tiene un “testamento” importante: la me-moria della cultura contadina-montana-ra, ancora vivissima in Tognali, di una ci-viltà già in buona parte cancellata edespulsa dalla Val Camonica negli ultimidecenni del secolo scorso. Come dicenella introduzione al primo volume Ga-briele Calvi, Psicologo sociale, già Pro-fessore Ordinario nelle Facoltà di Scien-ze Politiche di Firenze e di Pavia, “ i duevolumi sono un regesto prezioso dellavita dell’ultima generazione di contadi-

Storia, Tradizioni e Linguaggio

dell’Alta Valle CamonicaAutore: Dino Marino Tognali

Impaginazione e stampa: TipografiaCamuna S.p.A - Breno/Brescia

di Giuseppe Brivio DINO MARINO TOGNALI nasce a Vione, inAlta Valle Camonica, il 30 dicembre 1928.Insegna per quarant’anni nelle scuole ele-mentari del suo Comune, di cui è Sindacoper un ventennio.

Svolge il servizio militarenelle truppe alpine. E’ sociodel Gruppo Italiano Scritto-ri di Montagna (G.I.S.M.).Cultore di storia, dialetti efolclore, raccoglie, con i suoialunni, le tradizioni e i co-stumi popolari della sua mon-tagna che, nel 1978, vengonopubblicati in un volume dallaFondazione Besso di Roma, coltitolo “Viù…’na òlta”.Partecipa, con altri autori, allastesura di “Temù, un paese unastoria” (N.E.DD., Milano, 1987);“Malghe e alpeggi dell’Alta Valca-monica” (N.E.D.. Milano, 1987);“L’Alta Valcamonica, da Vione aPonte di Legno”(Guide Grafo, Bre-scia, 1992).Con Walter Belotti pubblica “Incu-dine, Paese di Valle Camonica - am-biente, storia, arte” (Tip. Camuna,Breno, 1995) e redige uno studio sulpercorso dell’antica strada “Valleria-na” camuna che viene incluso nel vo-lume “Viaggiare in Valle Camonica”(Banca di Valle Camonica, Breno,1997).Per volontà della sua parrocchia dà al-le stampe “La chiesa parrocchiale di S.Remigio in Vione – Storia e arte” (Tip.Camuna, Breno, 1998).

Nel 2001 contribuisce alla pubblicazione“Pastori di Valcamonica” (Grafo Edizioni,Brescia) a cura di G. Maculotti e M. Ber-ruti.Collabora, con argomenti di vita alpestree pastorale, alle riviste “Aviolo” e “Ca-stellaccio” del C.A.I. dell’Alta Valle Camo-nica e alla nostra rivista.Ha al suo attivo anche due raccolte dellepiù significative poesie dialettali: “Raìs”e “Os”, rispettivamente del 1993 e del1999, stampate presso la Nordpress Edi-zioni di Chiari.Deve infine essere ricordato che Tognali èl’ideatore e il coordinatore del museo et-nografico “’l zuf” di Vione, che ha per te-ma la cultura contadina e pastorale.

La mia TERRALa mia GENTE

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ni e alpigiani della Valle, una genera-zione cui Tognali appartiene e che hatanto amato da fare dei suoi scritti, pursenza volerlo, un regesto della sua stes-sa vita. Ha dunque fatto bene a scrive-re, con la mente fresca e il cuore fra lemani, come sa sempre scrivere, poiché,rottosi il filo della continuità nelle espe-rienze giunte fino a lui, non sarebberorimasti che il silenzio sul passato,l’oblìo e l’ignoranza per ciò che è statoogni giorno per tante generazioni, per legioie fatte di niente e le infinite tribola-zioni di un popolo di montanari ormaidefinitivamente scomparso; non sareb-be rimasta che la presuntuosa ignoran-za con la quale televisione e internetcercano inutilmente di riempire il geli-do vuoto lasciato da tante realtà dimen-ticate”.I testi che Tognali ci presenta in due vo-lumi sono in effetti una sintesi di quan-to da lui scritto nel corso di nove anniper le varie edizioni de il Lünare delleparrocchie di Vione, Stadolina e Canè,

un calendario speciale, fatto di fogli vo-lanti tenuti insieme da una precaria fet-tuccia, una vera e propria enciclopediadella vita quotidiana delle popolazionidi quell’area camuna montana; per ognimese il calendario aveva un foglio sulquale, accanto all’elenco delle settima-ne e dei giorni, compariva uno scritto diTognali dedicato ad uno specifico ar-gomento.Ogni Lunare, ogni anno, trattava dodi-ci temi, uno per mese. Alla fine di no-ve anni si è dunque accumulata unamontagna di informazioni coloratissi-me che hanno condensato la tradizioneorale relativa alla vita quotidiana dellacomune gente di montagna in una trat-tazione scritta estesa ed organica. Daun semplice calendario è divenuto mez-zo e occasione per un’importante ope-ra culturale. Come ha ben detto il prof.Gabriele Calvi “dalla creta è stato rica-vato uno splendido vaso”. Egli sostieneche i due volumi di Tognali richiamanoalla mente “Il mondo dei vinti”, i tre vo-

lumi del compianto Nuto Revelli, am-bientati in comunità del cuneese, conuna differenza sostanziale: Tognali è te-stimone vivente di quanto ci descrive,Revelli invece fissa memorie di unarealtà a lui estranea attraverso intervistecon persone anziane che sfociano inquasi duecento ‘racconti’ di storie divita ascoltate e registrate. Sostiene in-fine che, pur con marcate differenze trail lavoro di Tognali e di Revelli, emer-ga la dimostrazione dell’esistenza in unpassato non lontano di un unico grandepopolo contadino - montanaro delle Al-pi Centrali e Occidentali alle prese conla sfida una natura difficile: la lotta con-tro il freddo, la fame, le alluvioni, gli in-cendi dei boschi e dei paesi, la perditadegli armenti o dei greggi per inciden-ti naturali o malattie, la memoria deisacrifici sopportati dalle generazioniprecedenti e la memoria dello strettocameratismo delle truppe alpine nelledue recenti guerre mondiali; un’unicaidentità pre-politica. ■

Gi uomini del ferro*Lungo i corsi d’acqua del nostro terri-torio i fabbri avevano piazzato i loroopifici, espressione di assoluta labo-riosità, ultimi e rilucenti barlumi diquella industria metallurgica che fu persecoli prerogativa camuna.Fin dalla mia fanciullezza ebbi la for-tuna di carpire immagini e ricordi,quando occupavo i mesi più belli dellalibera estate fra il procedere del lavo-ro agricolo e la pastura perpoi salire agrado a grado alla cognizione delleaspre rocce di Bles, indossando scar-poni dotati di sapète e bròche, eccel-lenti calzature chidate. Per questo unpensiero ritorna con devota ricono-scenza al mirabile lavoro delle fuzinèledi cui vidi vampare gli ultimi fuochi,udire il tintinnio pressante dei suoni, igrevi tonfi del maglio, accompagnatidal borbottare dell’acqua dell’aigual sul-la ruota, imparare che “chi ol pruà le pé-ne de ‘l’ infèren, i faghe ‘l ferér d’istà e‘l muradòr d’invèren”. Era un fascino co-sì forte che dovevo andare spesso a fic-care il naso nella fuzina di Tòne Sem-binelli dei Zòrs e tentare di avviare imeccanismi anche se mi consigliava:Dal ferèr nu tucà, dal spissièr nu tastà”.Più tardi mi procacciai, interrompendol’alacre suo lavoro, una speciale confe-zione di ramponi da ghiaccio e una pic-cozza per le mie limitate possibilità ar-rampicatorie. Il ferèr Tòne, che, con la

forza dei suoi muscoli, dominava la fer-rarezza e modificava lingottini, conl’ausilio delle rosse fiammate, era larealizzazione del mio sogno infantile.Lo sentivo diverso dagli altri, quandoandava ingobbito per l’acciotolato; lagrinta scurita del suo volto e la lucedella sua persficacia mi affascinavano.Fantasiosi gli attrezzi della schirpa cheimpreziosivano la fuzinèla e fantasiosae singolare la filastrocca che le madrirecitavano ai loro infanti, accompa-gnandola col battito del pugno chiusoe del gomito ad imitazione dei ritmicicolpi del maglio. In essa si canzonavala rivalità tra le tre famiglie dei fabbridi Vione che avevano fucine lungo la Al.Il maglio della fucina più in alto, il piùgrosso, del clan dei Miche, coi suoi col-pi pesanti, sembrava dire al suo rivale:Debitù…debitù…debitù…, burlandosidella povertà e dei debiti del vicino.Il maglio di Tòne di Zòrs rispondevacon ritmo rabbioso e compassato: Pa-garòm…pagaròm…pagaròm…Il ma-glietto del fabbro Cornelio, più piccoloe veloce, s’intrometteva nella contro-versia: “ Con chi…con chi…con chi?”pretendendo di conoscere in quale mo-do l’altra officina potesse estinguere idebiti. La risposta era subito pronta:Con bròche e con ciò…con lame esedéi…con pich e badii…”.Le nostre fucine, legate a metalli inuso da secoli, lentamente spariscono,anche se il lavoro del fuciniere, fatico-

so e poco remunerativo, affascina ilmontanaro.Spariscono nella grande alluvione del1885 gli opifici Tognali della Iacia alleFusine di Stadolina. Resistono, per al-cuni anni ancora, le fucine dei bassi-cotti, le più piccole, quelle che riduco-no il ferro già lavorato, quelle di com-plemento all’attività contadina. Con ilprocesso di abbandono dei campi arri-va anche la lenta agonia delle fuzinèlee la scomparsa di quegli uomini dallafaccia scura che hanno prodotto pertutte le case oggetti della quotidianità.Estremamente semplice l’impiantodell’opificio, legato al torrente chescorre nel suo alveo lambendone la ca-sa di pietra e dando impulso agli ap-parati: maglio e forno che rendono rea-lizzabili i prodotti per il montanaro. Ununico grande ambiente rettangolare,pavimento in terra battuta, pche le fi-nestre perché la lavorazione del ferroincandescente si svolge in penombra.La ruota esterna, a pale, mossa dal sal-to dell’acqua, calettata al grosso èrbor,trasmette il movimento alla leva delmaglio: la testa d’asino picchia sull’in-cudine sprofondato nel terreno. Un get-to d’acqua, cadendo in una grossa tina,produce l’ora che rende incandescenteil carbone della grande forgia. Sullemuraglie annerite è appesa la schirpa:tenaglie, martelli, cesoie, trapani…Se chiediamo ai nostri anziani: “Cosaproduceva il ferèr di una volta, quando

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Piccolo glossario camunoSapète - chiodi infissi nella suola degli scarponi e sporgenti in punta e ailati per evitare di scivolare.bròche - chiodi per risuolare gli scarponi di cuoio.Fuzinèle - piccole fucine aigual - canale di adduzione dell’acqua ai mulini e ai magli.erbor - albero di trasmissione collegato alla ruota di un mulino o di un ma-glio; pianta di castagno.schirpa - attrezzatura di un artigiano; finimenti degli equini.òra - brezza; aria.ciàpe - Pianelle per ferrare i bovini.

i nostri paesi non erano ancora spopo-lati?”, ci sentiamo rispondere: ”Di tut-to!”.Vasto era il campo di attività del fab-bro. Nella sua bottega nascevano i fer-ri per il lavoro dei campi e dei boschi;diventava chiavaio e preparava cate-nacci, serrature e chiavi in ferro battu-to per usci, casse, armadi. Batteva fer-ro per i cancelli, ringhiere, inferriate.Foggiava chiodi per carpenteria, brò-che per le scarpe, chiodi de glacc e deris per ferrare gli equini e s’improvvi-sava anche lattoniere e stagnino.In uno spiazzo, nelle adiacenze dellefucine, sorgeva il travaglio, ‘l feradòr,trabiccolo di pali infissi nel terreno,per rinserrare le bestie da munire diferri.Si specializzava pure in mascalcia e conuna striscia di metallo rovente creavaferri con ramponi e barbetta, per gliequini, e pianelle, ciàpe, per i bovini.Cosa resta, ora, dell’ingegno, degliaccorgimenti, dell’inventiva di colo-ro che sapevano lavorare il ferro conla coscienza del bravo artigiano?Quando i martelli picchiavano sull’in-cudine e l’acqua delle rogge facevastridere le ruote, la maestria avevaforza espressiva, si immedesimavacon la manualità e il lavoro era verapotenza comunitaria. ■

* tratto dal volume “La mia terra – La mia gente”

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una sorella o una collega di lavoro.

Oggi la Nelide dice di lei: “ ha lavora-

to tanto che a una donna di più non si

poteva chiedere”.

Sulle sue labbra albergava sempre il sor-

riso e teneva ben presente la massima

che “il cliente ha sempre ragione”.

Già di prima mattina frequentavano il

caffè decine e decine di clienti tra i qua-

li il dottor. Foppoli e l’Italo Pandini.

Non mancava l’avvocato Giacinto Ron-

zoni dal parlare e dai modi signorili pre-

so con le storie sulle origini del cavallo

avellignese di Samolaco e l’Avv. Giu-

riani a difendere la sua presenza con il

fatto di essere più vicino alla Pretura ed

a Nicola Bernardini, il Giudice che

spesso lo nominava “avvocato d’uffi-

cio” di qualche ladro ruba galline o an-

che “Pretore onorario”.

Subito di buon mattino la Sciora Oliva

e la Nelide venivano a contatto con i

52

Ne l l ’ a n n o

cinquanta

del mille-

novecento sia

l’Erus che la Sciora

Oliva si identifica-

vano con il Caffè

Svizzero.

Oltre quel Bar, atti-

vo fin dalla seconda

metà del 1800, an-

dando su per via

Dolzino verso piaz-

za Castello termina-

va Chiavenna, nel

senso che finiva il

passeggiare e lo

scorrere della gen-

te.

Attorno al funzio-

namento dello Sviz-

zero “giravano” una

mezza dozzina e

più di persone.

L’Erus con zio Ti-

no Mandelli e il

Sergio curavano il

laboratorio di pasticceria, la Nelide e la

Velita il Bar con la Sciora Oliva teori-

camente alla cassa ma che in pratica le

toccava anche correre di qua e di là a so-

stegno delle bariste.

L’Adelaide provvedeva alle incomben-

ze di una casa abbastanza grande perché

tutti, dipendenti e proprietari, vivevano

giorno e notte sotto lo stesso tetto.

Nessun dipendente ha mai visto l’Oliva

in qualità di “padrona”, come a quei

tempi ancora si usava indicare i pro-

prietari di un esercizio pubblico, la

Sciora Oliva era vista piuttosto come

La “SCIORA OLIVA”dell’antico “caffè” svizzerodi Chiavennadi Costante Bertelli

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dipendenti del comune: c’era il dottor

Carta e il Mario Staiti, il Sergio Con-

sonni e il Persenico, capo dei Vigili, e

tutti gli altri; poi le signorine del te-

lefono la Ginetta, la Marisa e la Piera

Buzzetti.

E al Caffè Svizzero non mancavano di

far visita, durante il giorno, l’ingegner.

Simionato ed il suo ragioniere.

E ancora il Bianchi, la Ida de Tanti e il

Rag.Vitali (che poi fu vice direttore ge-

nerale della Banca Popolare), dirigenti

o impiegati nei cantieri idroelettrici per

le centrali di Chiavenna e Prestone.

Cento righe non basterebbero a citare

tutti i clienti del più famoso e frequen-

tato Caffè di quegli anni.

Con una clientela tanto varia e di ogni

classe sociale che dagli sportivi Afro

Villa, Mario Donati ”Regina” ai fratel-

li Tognoni, andava ai commercianti Ri-

co Bregai, Lelo Paiarola, Fratelli Poz-

zoli Vella e Spotti ai dipendenti

dell’Everest, a tutti gli impiegati dei va-

ri uffici e operai delle fabbriche.

Con tanti variegati clienti erano neces-

sarie persone che al Bar sapessero ben

trattare con la gente.

Un saluto, un sorriso, una gentilezza,

una breve conversazione ... ad avere

queste caratteristiche c’erano le bariste

di turno e con loro la Sciora Oliva.

Confessa oggi la Nelide: “c’erano dei

giorni che a furia di usare la leva della

macchina per il caffè mi veniva un ma-

le tremendo al braccio destro; per dar-

mi un momento di riposo mi sostituiva

la Sciora Oliva; alle volte succedeva

l’inverso: era l’Oliva a chiamarmi in

soccorso per lo stesso problema e lo fa-

cevamo come sorelle che si aiutano a vi-

cenda”.

Nei mesi invernali, a mezzogiorno, A.P,

anziano operaio dell’Everest, residente

a Bette, pranzava con “due boeri e un

caffè”e la Sciora Oliva correva da lui col

piattino e la tazzina fermandosi a di-

scorrere con la stessa gentilezza con la

quale trattava il suo “padrone” l’Orfeo

De Peverelli.

Gli artigiani, gli industriali ed i banchieri

di Chiavenna approdavano dopo l’una,

per l’ora del caffè e non mancava nes-

suno: dal Nando Confalonieri all’Athos

Pandini, dall’Alfredo Persenico al Mez-

zera del Birrificio Spluga, al Ferruccio

Rota, al Pito Moro e al Dioli.

E toccava alla Nelide o alla Sciora Oli-

va cortese e gioiosa, di intrattenere il

primo in attesa dell’altro.

Girandosi di spalle trovava il Pierino

Martocchi e il Fulvio Brusati o l’Aldo

Geronimi (del Vespa Club) per i quali

aveva pure una gentilezza.

Don Giocondo D’Amato si affacciava di

buon mattino, dopo avere officiato la

Messa in Santa Maria e lì incontrava i

più mattinieri: l’Italo Pandini il Pin e il

Pedroncelli autista e il Guanella scia-

vatin.

Un pomeriggio di settembre del 1951

mentre il Giancarlo Dolci con l’An-

dreino Vitali e il Pin, l’autista stavano

seduti fuori dallo Svizzero, la Sciora

Oliva , in un breve periodo di pausa, os-

servava i passanti.

Scende da via Dolzino una Lambretta

rossa guidata dalla Ginetta dei telefoni

con la Nelide sul sellino posteriore.

Al passaggio dinanzi allo Svizzero tut-

ti battono le mani.

La Ginetta, alla sua prima guida di uno

scooter, si emoziona

a un punto tale che

anziché pigiare sul

freno, tira la mano-

pola del gas. La

Lambretta si impen-

na, aumenta di velo-

cità e va a cozzare

contro il taxi del Le-

vi Cacio, che era fer-

mo dinanzi al Paia-

rola.

Nell’urto la leva del

freno si incastra nel

radiatore dell’auto

facendo perdere

molta acqua che

scorre sull’asfalto.La Ginetta subisce fratture gravi agliarti mentre la Nelide ne esce indenne.La Sciora Oliva che assiste allo scontrochiama subito l’autoambulanza.Il Cacio Levi, che si preoccupa solo deidanni al taxi, smania, grida e si sdraia interra per ben esaminare l’auto.Arrivano l’Oreste e il Bruno Sigismon-di con l’ambulanza e, oltre alla Ginet-ta, credendolo ferito, caricano anchel’energumeno Cacio e lo portano inospedale vociante e smaniante.All’ospedale, quando l’equivoco è chia-rito davanti al prof. Corbetta, il CacioLevi viene dimesso.Ma egli giura eterna vendetta agli in-fermieri.Sarà poi la Sciora Oliva a intervenirecon il suo “saper fare” a mettere pace trai contendenti anche perché assicura ilCacio che gli avrebbe procurato deibuoni clienti.A fare la storia del Caffè Svizzero diquegli anni cinquanta furono,oltre quel-li citati e centinaia d’altri ancora: Enri-co Greppi, il Luigino Festorazzi, il Che-chè, l’Oreste, el Levi stornel, l’AldoTamburel, el Spotti calzolar, l’AdolfoPasina, l’Angelo Pietrobelli, il Luigi Ta-vasci e così via di questo passo.La vita e la storia della Sciora Oliva èstata per decenni storia di incontri conla gente, di gentilezze e sorrisi e di tan-to lavoro.La storia di un paese non è fatta solo digrandi personaggi e giganteschi avve-nimenti, ma anche di piccole cose, diazioni individuali che si susseguonogiorno dietro giorno e che avvengonomagari anche in un Caffè.E nel Caffè Svizzero la Sciora Oliva haconsumato una vita. ■

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In un recente articolo apparso su Al-pes, parlando di Don Silverio Ra-schetti, avevo accennato a suo papà

Lino che, avendo un estro particolare egeniale per la meccanica, era riuscito arealizzare dei brevetti originali, utiliz-zati su macchine impiegate per la lavo-razione della plastica.E’ una passione, quella della mecca-nica, atipica per le nostre valli, dove leattività professionali sono più orientateal turismo, all’edilizia residenziale, al-berghiera e infrastrutturale, all’agricol-tura ed alla trasformazione dei suoi de-rivati.In verità, però, ci sono in valle, a mac-chia di leopardo, alcune eccellentirealtà produttive come la Selva di Ti-rano, la Cranchi di Piantedo, la Ski Trabdi Bormio e la Blossom di Chiavennache evidenziano la presenza di nicchieimprenditoriali che si distinguono, nonsolo per le caratteristiche originali delprodotto finale, ma anche per la qualitàe la modernità di una produzione di pre-gio.Su questa qualificata linea imprendito-riale vi è anche la Nana Meccanica diMarco Nana & C. s.n.c. di CastioneAndevenno, una piccola ma dinamicaazienda che è un po’ il polo di eccel-lenza di una particolare produzione nelcomparto della meccanica di preci-sione: valvole industriali utilizzate negliimpianti petrolchimici.Per inquadrare più efficacemente questaazienda ed il comparto in cui opera sipensi che circa l’85% della produ-zione mondiale di queste particolari especiali valvole è attestata in Italia.

Anima di questa pregevole realtà pro-duttiva di nicchia, legata alla meccanicadi precisione, è il titolare dell’aziendavaltellinese: il trentottenne Marco Nanache, ereditando dal papà Franco, origi-nario di Lanzada in Valmalenco, l’atti-vità di una piccola officina meccanica,ha saputo rifocalizzare, ampliare, spe-cializzare e dinamicizzare la sua atti-vità.Ha saggiamente abbandonato una lavo-razione meccanica eterogenea e genera-lizzata, ancorché, talvolta, per alcuneoriginalità, di indubbio livello qualita-tivo, per orientarsi su una più proficuaproduzione specialistica di nicchia.Come vedremo, questo cambiamento dirotta consente oggi, nonostante le sem-pre più stringenti difficoltà del com-parto, di guardare con serenità al futuro.La concorrenza dei paesi dell’est e diquelli asiatici non lascia molte speranzedi sopravvivenza a chi rimane ancoratoad una produzione statica e non specia-lizzata, non solo per il costo del lavoropiù basso, ma anche per la proverbialecapacità di copiare migliorando.

Non è stato facile per l’azienda di Ca-stione raggiungere acque più calme e lastrada è ancora in salita, ma Marco,forse per le sue sane origini malenche,procede speditamente e coraggiosa-mente sull’erto pendio dell’efficienta-mento dei cicli di lavorazione, della ra-zionalizzazione produttiva e del miglio-ramento qualitativo.Marco Nana è uno che bada al sodo e loha dimostrato sin dal nostro primo in-contro.Conoscevo bene il papà Franco chevedo spesso a Lanzada. Parlando ungiorno con lui e con lo zio Carlo, sim-patico compagno di avventure alpinisti-che, mi aveva parlato dell’azienda delfiglio e mi aveva invitato ad andarli atrovare a Castione. Incuriosito ed inte-ressato a vedere una tale atipica realtà,un giorno che ero in zona, telefonavo inazienda, ma Franco non c’era. Al te-lefono mi rispondeva un impegnatis-simo Marco, che, pur non essendo alcorrente dell’invito del padre e pur es-sendo molto preso, con grande disponi-bilità e spontaneità mi invitava a pas-sare in azienda.Arrivato in quel di Castione lo trovavoimmerso nel suo lavoro, in prima linea,con le mani annerite dal grasso di unagrossa rettificatrice che stava instal-lando.Mi colpì subito la sua pragmaticità, lasua modestia e la spontaneità del suorelazionare.Dopo alcuni scambi di informazioni micolpì l’unicità e la genialità di quantostava realizzando, aveva realizzato e diquanto mi diceva voler realizzare.La grande passione per la meccanica eper il suo lavoro illuminava il suo visoe la sua circostanziata esposizione.Non era facile per me capire le partico-larità di quello che stava creando in unsettore, quello della meccanica di pre-cisione, che non conosco, ma con le suespiegazioni volutamente e generosa-

MARCO NANA:genialità meccanicain Valtellinadi Angelo Granati

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mente semplificate, riuscivo a com-prendere la valenza imprenditorialedelle sue idee.Nel 1990 Marco, ventiquattrenne, tra-sferendo alcuni macchinari dall’officinadi Lanzada, dove operava con il padre,ad un’officina in Torre S.Maria, avevacominciato ad operare autonomamente.Da sempre appassionato di meccanica,grazie all’esempio paterno, aveva dap-prima operato a 360°, in virtù della suaabilità e poliedricità, sviluppata sin daragazzo cimentandosi nella costruzionedi oggetti vari, tra cui un go-kart e per-sino un gatto delle nevi.Poi con l’esperienza delle prime diffi-coltà legate all’accesa concorrenza, inun contesto poco specializzato, avevaanalizzato con freddezza e raziocinio ipotenziali sviluppi della sua attività eaveva intelligentemente cercato diorientarla e canalizzarla in un compartopiù specialistico e di elite, che offrissemigliori opportunità reddituali.Per ragioni sia logistiche che produttiveabbandonava la Valmalenco e si trasfe-riva alle porte di Sondrio, a Castionelungo la strada statale.Il settore della meccanica di precisioneed in particolare quello delle valvole in-dustriali è un comparto difficile perchérichiede grande attenzione e precisione:le tolleranze sono quasi impossibili e glierrori, anche minimi, si pagano salati.Le difficoltà insite nel realizzare questefini lavorazioni meccaniche, anzichéscoraggiare Marco lo hanno intrigato edegli ha saputo interpretare così benequesta ostica produzione che, oggi, nonsolo produce valvole pesanti anche 85quintali e dalle enormi dimensioni (dia-metro di 1,78 metri), ma è in grado direttificarle con tolleranze che hannodell’incredibile.La cosa più stupefacente è che la deli-catissima attività di rettifica, che so-stanzialmente qualifica tutto il pro-cesso, viene eseguita con dei macchi-nari che ha ideato lui stesso.Queste rettificatrici sono state assem-blate a Castione con parti meccanichecostruite in loco su progetto Nana.Marco ci ha lavorato con grande pas-sione, sovente anche di notte, ansiosodi rendere operative altre macchine cheservivano per far fronte agli ordini cre-scenti di clienti soddisfatti e diventatisempre più esigenti.Sono arrivato a Castione curioso di ve-dere questa strana realtà meccanica val-tellinese, sono uscito impressionato edammirato del lavoro fatto con passione,genialità, originalità e competenza daMarco Nana. ■

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Associazione Ippofila Provi

2° Raduno Equestre ProvVal d’Arigna - Dosso Del Grillo - 5 SetteFoto Servizio di Maurizio Azzola e Nicoletta Scieghi

Franco Giudicatti,l’ottimo presentatoredella manifestazione.

La piccola ElianaSchenatti

nella ginkana

Franco Biscotti, sindaco di Ponte Valt.na

e l’assessore del Comune di SondrioMario Bellero.

Le premiazioni: da sinistra: Aldo Genoni, gestore centro turistico sportivo e organizzatore, G. Luigi Borromini presidente Parco Orobie Valt.;senatore Fiorello Provera presidente Provincia di Sondrioe signora, l’arch. Giuseppe Galimberti ritira il premio daldott. Casimiro Maule direttore “Cantine Negri”.

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fila Provinciale di Sondrio

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tre Provincialello - 5 Settembre 2004

INCENTIVIAMO LO SPORT EQUESTREDopo la torrida estate ègiunta la stagione delletranquille passeggiate acavallo, del turismoequestre, della voglia dimontare in sella eripercorrere, nei mille coloridell’autunno, la nostra valletra sentieri montani e arginidei fiumi e torrenti, itineraristorici, ambientali e,importanti assai,enogastronomici.Solo il cavallo ci puòumilmente insegnare quantosia importante non perdere ilcontatto con quel poco dimondo naturale che ancoraci rimane e che sta, semprepiù risicato, oltre la città.Per questo motivo e per altriancora è importante dareforza alla nostraAssociazione aderendo eincentivando lo sportequestre.Questo dovrebbe essere unimpegno di tutti noi ippofilial fine di avere unaAssociazione autorevole,pronta ad intervenire, asviluppare seri rapporti congli Enti pubblici per averemaggiore tutela e l’usogratuito di terreni e spazi diallenamento.Si creerebbero così campipratica stagionali conpossibile accesso gratuito atutti i neofiti.Si incentiverebbe il desiderodi iniziare a montare traragazzi e adulti, figli egenitori.Si allargherebbe la base.

Aldo Genoni

Marianna Azzola istruttrice 2° livello Siewesegue uno spin su Johnny Stecchino

senza imboccatura.

Daniele Marveggio, il cavaliere solitario.

Chiara Gambino nel salto ostacoli.

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ra di Commercio diPesaro e Urbino.Non poteva mancareper l’occasione unapresentazione dellarealtà culturale e arti-stica della RegioneMarche, a cura di Pa-trizia Forlani e Sa-muele Sabatini.Sono presenti anchealtri servizi dedicati al-la vita interna delle ProLoco ed ai problemiconcreti che esse in-contrano nella realiz-zazione delle proprieattività turistico-cultu-rali.Di grande interesse èpoi l’inserto dedicato

a Genius Card, la prima fidelity card pro-gettata per il socio Pro Loco, con tutte leconvenzioni con alberghi, negozi, punti diristorazione, musei, parchi ecc. che offro-no vantaggi esclusivi.

ma il 4 luglio tra il Pa-pa e più di novecentoesponenti di ben 17 Re-gioni d’Italia, con unaforte rappresentanzadei duemila giovaniche stanno prestando ilservizio di volontariatocivile presso le Pro Lo-co; esso descrive la ma-gnifica realtà del ‘pia-neta Pro Loco’ e le po-tenzialità per un ulte-riore sviluppo.Degni di attenzione so-no anche l’intervistaall’Assessore al Turi-smo della RegioneMarche, Lidio Rocchi,ed il servizio sulla par-tecipazione dell’Unplialla decima edizione di Expo WorkshopInternazionale Turismo del Mare che si èsvolto a Pesaro dal 30 settembre al 3 otto-bre 2004, salutata con particolare caloreda Alberto Drudi, Presidente della Came-

LE FLAMBEAURevue du comité des traditions valdotainesN° 191 - Autunno 2004

Il fascicolo n.° 191 della Rivista LEFLAMBEAU è diestremo interesse per-ché completamenteimperniato sulla figu-ra di Emile Chanoux,il grande pensatorevaldostano che ses-santa anni fa sacrificòla sua giovane vitaper difendere l’idealedi libertà e assicurarela continuità del pro-gresso morale, lingui-stico ed etnico del po-polo valdostano.L’occasione per ri-cordare la figura ed ilpensiero di Chanouxè legata alla presenta-zione del libro l’“at-tualità di Emile Cha-noux nella prospetti-va federalista”, tratto dalla tesi universi-taria di Giorgio Andrea Pasqui, Aosta, Le

Chateau Edizioni, 2004. Ne ha fatto lapresentazione Gianfranco Garancini, pro-fessore di storia del diritto all’Universitàdegli Studi di Milano con una prolusio-ne sul sistema delle Autonomie in Valled’Aosta riportata sulla rivista. Nell’am-pio servizio, al di là del destino istitu-

zionale che EmileChanoux pensavaper la Valle d’Aostadopo la liberazione(o completa indi-pendenza o parteci-pazione federativaalla Repubblica ita-liana), viene richia-mato con ammira-zione il disegno dicostruzione ammi-nistrativa del siste-ma delle autonomielocali; disegno chesi sarebbe ritrovatonelle Dichiarazionidi Chivasso (19 di-cembre 1943), diDesenzano (7 aprilee 22 giugno 1947) edi Milano (7-8 set-

tembre 1947): la marcata sottolineaturadelle autonomie politiche amministrative

R E C E N S I O N I

da parte dei Rappresentanti delle popo-lazioni alpine, non si limitava infatti, no-nostante le apparenze formali, a una ri-vendicazione per pochi, ma disegnavauna traccia per costruire, complessiva-mente, il sistema delle autonomie nella“nuova” Italia. Viene anche riportato l’ampio interven-to di Giovanni Maria Flick, giudice del-la Corte Costituzionale, su Territorio,identità e memoria: dalle “piccole pa-trie” all’Europa. In esso Flick sostiene,tra l’altro: “E’ un messaggio, quello diChanoux, che mi sembra profondamen-te attuale; che riflette alcuni fra gli in-terrogativi più ricorrenti e drammatici diquesto nostro tempo della globalizzazio-ne (ed ora anche di terrorismo globale elocale), segnato dalle contraddizioni, dalrischio e dal timore di perdere la nostraidentità”.Il fascicolo pubblica altri numerosi serviziche sottolineano l’attualità di Emile Cha-noux nella prospettiva federalista infra-nazionale ed europea. Egli aveva infattiintuito lo stretto rapporto che doveva es-serci tra orizzonte valdostano ed orizzonteeuropeo. Lo si può ricavare dalle bellis-sime pagine della Déclaration des repré-sentants des populations alpines, da luiscritte nel lontano dicembre 1943.

“ARCOBALENO D’ITALIA”Periodico trimestraleOrgano ufficiale delle Pro Loco d’ItaliaPiazza della Vittoria, 11 – LadispoliRoma

E’ in distribuzione in tutta Italia la nuovaRivista delle Pro Loco aderenti all’UnioneNazionale Pro Loco d’Italia (UNPLI). Sitratta di un periodico trimestrale che foto-grafa lo stato di salute della forte Associa-zione che, come afferma nell’Editoriale ilsuo presidente nazionale Claudio Nardoc-ci, ha raggiunto la massa critica e deve peril futuro, dopo l’assemblea nazionale di Pe-saro (1-3 ottobre 2004), non stancarsi maidi spiegare le proprie ragioni, la propria at-tività rivolta alla salvaguardia delle localitàitaliane, dei valori più alti del nostro popo-lo, di quelle tradizioni che altrimenti sa-rebbero ormai scomparse, e soprattutto diprogettare un nuovo turismo sostenibile,ma soprattutto umano.Di estremo interesse è un servizio su un in-contro avvenuto in Piazza San Pietro a Ro-

pagina a cura di Giuseppe Brivio

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