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Alviero Niccacci LA CASA DELLA SAPIENZA VOCI E VOLTI DELLA SAPIENZA BIBLICA

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Sapienza dell'AT

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Page 1: Alvieri Niccacci La casa della sapienza

Alviero Niccacci

LA CASA DELLA SAPIENZA

VOCI E VOLTI DELLA SAPIENZA BIBLICA

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Alviero Niccacci

LA CASA DELLA

SAPIENZAVoci e volti

della sapienza biblica

SAN PAOLO

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P refazione

■jr a sapienza biblica è invilo a vivere nel timore di Dio la propria condizione m di creatura. Il lettore non si lasci ingannare dalla formulazione poco mo-

1 J dema e attraente delVinvito. Se avrà pazienza e costanza, sperimenterà la ricchezza di quella prospettiva per alimentare la sua fede e indirizzare la sua con­dotta nel tempo presente.

Che senso ha l universo, non tanto la realtà sterminata che è ai di fuori della portata dell'uomo, maruniverso umano, il suo mondo? Qual è il rapporto dell'uo­mo con le cose? Qual è il suo posto nel mondo, nella società, nella famiglia, nella sua casa? Cos 'è quella presenza che il credente avverte intorno a sé, quella voce che lo interpella con autorità? In realtà, le voci che lo raggiungono sono diverse e invitano in direzione opposta: come può orientarsi? Che senso ha il dolore, in particolare la sofferenza del giusto? Il lavoro, il duro lavoro dell 'uomo sulla terra, ha un vantaggio o è del tutto vano? E qual è il senso dell 'amore che fin dagli anni giovanili è gioia e pena dell'esistenza? Esiste un senso globale sotteso a tutte queste esperienze? L 'orizzonte dell 'esistenza è un intreccio di voci che circolano in senso orizzontale soltanto, o si verifica una comunicazione misteriosa che sorpassa i lim i­ti della terra?

I maestri di Israele hanno riflettuto per circa un millennio su questi e altri pro­blemi e hanno dato risposte che non finiscono di sorprenderci. I l mondo moderno, in cui le voci e g li orizzonti hanno raggiunto moltitudini e dimensioni inimmagina­bili, può essere illuminato da quelle risposte. La fede cristiana oggi, nel tempo che viviamo, può nutrirsi di esse e trarne ispirazione per maturare nuove risposte e trac­ciare nuovi comportamenti.

L'interesse per la sapienza biblica e nato in me a seguito dell'interesse per la letteratura egiziana antica e si è nutrito d i esso fino a superarlo. I l motivo iniziale della scelta è stato in parte contingente: nella Bibbia la letteratura della sapienza è la parte che manifesta il maggior numero di contatti con la letteratura egiziana. L ’interesse si è poi evoluto e precisato nel senso di un incontro: un incontro fecondo di due culture e di due fedi che, lo spero, non ha ancora finito di portare i suoi frutti.

La passione per la sapienza e convissuta con la stoltezza di ogni giorno. Le de­lusioni arrecate dalla seconda hanno contribuito, per grazia divina, a far penetrare la rivelazione della prima. Sapienza e stoltezza fanno parte della vita di ogni uo­mo, dalla giovinezza alla maturità e forse fino alla vecchiaia. Prevarrà alla fine la sapienza? I l perdurare della pensione per essa, mai soffocata dalla stoltezza,lo lascia sperare.

Ringrazio la condirettrice della collana «Narrare la Bibbia» Elena Bosetti, sen­za la cui insistenza e ispirazione probabilmente non mi sarei mai messo a scrivere un libro che intende presentare i tesori della sapienza biblica in forma leggibile a

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un vasto pubblico. La ringrazio anche per aver dedicato tempo a una revisione ap­profondita del mio testo.

Affido al lettore questa fatica, che è uscita come di getto in un tempo relativa­mente breve ma che è il risultato di anni di ricerca} riflessione e insegnamento. Le parti più recenti sono quelle di Giobbe, del Cantico dei cantici e di Qoelet.

26 ottobre 1992 A. N.

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Invito alla sapienza

Sapienza e Stoltezza si contendono le strade della città: preparano un banchetto, invitano, promettono. Due donne, due forze sulla scena della vita, che usano un linguaggio simile, si rivolgono allo

stesso genere di persone, promettono generosamente, ma invitano in direzioni opposte. Il capitolo 9 di Proverbi le presenta una dopo l’altra come in un dittico: prima il ritratto di Signora Sapienza, poi Picona di Donna Stoltezza.

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DONNA STOLTEZZA (Pro 9,13-18)

Donna Stoltezza strepita,

Sciocchezza, e non sa che cosa (dica).Siede all’ingresso della sua casa,

su un sedile nella città alta,

invitando i passanti per la strada.

quelli che percorrono i loro sentieri:Chi è semplice venga qui.Allo sconsiderato («il senza cuore») ella dice:Le acque rubate sono dolci e il pane segreto è soave.

SIGNORA SAPIENZA (Pro 9,1-12)Signora Sapienza ha costruito la sua casa,ha intagliato sette colonne per sé.

Ha macellato le sue vittime, ha mescolato il suo vino, ha anche apparecchiato la sua mensa.Ha mandato le sue ancelle e gridanelle zone della città alta:

Chi è semplice venga qui.Allo sconsiderato («il senza cuore») ella dice:Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho mescolato.Lasciate, o semplici, perché viviatee incamminatevi nella via dell’intelligenza!Chi corregge il beffardo prende per sé l’insultoe chi rimprovera il malvagio, suo è il danno.Non rimproverare il beffardo affinché non ti odi, rimprovera il saggio perché ti ami.Da’ al saggio perché diventi più saggio,fa; conoscere al giusto perché accresca l’insegnamento.Inizio della sapienza è il timore di Jahvehe la conoscenza del Santo è intelligenza.Perché per me cresceranno i tuoi giornie ti aggiungeranno anni di vita.

Se sei saggio, sei saggio per te, se sei beffardo tu solo porterai (il danno).

Le due donne sono personificazione di due insegnamenti; l’insegna- mento stesso è indicato sotto forma di banchetto, mangiare e bere. Il luogo dell’insegnamento è una casa. La casa della sapienza viene co­struita dalla signora stessa; quella della stoltezza è posta nello Sheol, il

Ed egli (il semplice) non sa che le Ombre sono là, nelle profondità dello Sheol finiscono i suoi invitati.

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luogo delle ombre, dei morti. Le persone a cui le due donne si rivolgo­no sono dette «semplici» (pelaim), termine che può avere connotazione negativa, ma che non l’ha normalmente quando designa i destinatari dell’insegnamento. Indica gente che è come un campo non dissodato,o come un contenitore aperto e una lastra impressionabile. Si può pen­sare che designi soprattutto i giovani, ma la formulazione generica («i passanti per la strada...», 9,15) non suggerisce esclusione alcuna.

Ci troviamo di fronte al tentativo di dare volto e voce alle due vie aperte di fronte all’uomo, in particolare di fronte al giovane:

Ecco io pongo davanti a voi la via della vita e la via della morte (Dt 30,15; cfr. 30,19).Sono presentati davanti a te il fuoco e l’acqua, a quello che preferisci stendi le tue mani.Davanti all’uomo sono la vita e la morte, quello che preferisce gli sarà dato (Sir 16,16-17).

Pro 9 mostra che l ’uomo non è lasciato a se stesso nella scelta della via da percorrere; ci sono voci che lo interpellano: due voci principal­mente. due volti che lo invitano in direzione opposta, ambedue pro­mettendo quello che egli desidera.

E cosa degna di nota che la via del bene e la via del male vengano tematizzate rispettivamente come sapienza e stoltezza e personificate in due donne. La tematizzazione si comprende facilmente: sapienza e il suo opposto stoltezza costituiscono la terminologia caratteristica del mo­vimento sapienziale. La personificazione si spiega per il fatto che i due termini usati, sapienza e stoltezza, sono femminili in ebraico come in italiano. Ma, ugualmente, la cosa non può non sorprendere se conside­riamo il carattere decisamente «maschile» della società israelitica, dove tutto è basato sulFuomo.

Quella scelta di terminologia e di immagine rivela un aspetto impor­tante del mondo ideale della sapienza biblica: un’altissima, seppure am­bivalente, considerazione della donna. La donna ha importanza decisi­va nella vita delPuomo (poiché dal punto di vista delFuomo è formula­to, nonostante tutto, il mondo ideale dei saggi), ma è ambivalente; è il più prezioso tesoro e la più grande sciagura; personifica la sapienza e la stoltezza, la vita e la morte.

La Signora Sapienza costituisce la figura unificante di svariate realtà e voci che convergono verso il medesimo obiettivo: educare il «sempli­ce», il giovane. La prima voce che risuona nel libro dei Proverbi sugge­risce la figura del padre:

Ascolta, figlio mio, la disciplina di tuo padre e non respingere Finsegnamento di tua madre (Pro 1,8).

Non sono in realtà il padre e la madre che parlano; è la voce del mae­stro di sapienza, il quale riveste i panni del padre e della madre. Que­sto appello «figlio mio» è un tratto tipico dell’insegnamento sapienzia­le. ma non è soltanto finzione letteraria. E come nei bei tempi antichi quando il maestro prolungava la funzione patema e materna nelle aule scolastiche. Ed è anche un’indicazione puntuale: Finsegnamento del

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maestro di sapienza riecheggia l ’etica della famiglia e della tribù, que­sto complesso tradizionale di norme di comportamento che si trasmet­teva di bocca in bocca per generazioni nella società patriarcale israelitica.

L’insegnamento del maestro trasmette, inoltre, la sua propria espe­rienza, il frutto delle sue osservazioni. Non esige apprendimento incon­trollato, sulla parola o sull’autorità, ma invita il discepolo ad osservare personalmente, a ripetere l’esperienza:

Ho osservato di persona e ho posto il mio cuore, ho visto e ne ho tratto insegnamento (Pro 24,32).Hai osservato un uomo abile nel suo ufficio? (Pro 22,29).Hai osservato un uomo veloce nelle sue parole? (Pro 29,20).Hai visto un uomo saggio ai suoi occhi? (Pro 26,12).

Questo invito alPosservazione e all’esperienza personale è tratto ca­ratteristico della didattica; si trova negli insegnamenti dei popoli circo­stanti di Israele, come gli antichi egizi, e compare anche sulla bocca del Maestro di sapienza che è Gesù di Nazaret:

Osservate gli uccelli del cielo...Considerate i gigli del campo...! (Mt 6,26.28).

È naturale che questo genere di insegnamento utilizzi immagini, pa­rabole, dipinga tipi di persone, modelli concreti.

Va’ dalla formica, o pigro,vedi le sue vie e diventa saggio (Pro 6,6).Fino a quando, o pigro, starai coricato, quando ti alzerai dal tuo sonno?Un po’ sonni, un po’ assopimenti,un po’ stare con le mani in mano («abbracciare le mani») stando coricato,e arriverà come un milite la tua povertàe la tua miseria come un uomo d’armi («uomo di scudo») (Pro 6,6-11; 24,33-34).

Tutto questo, nelle sue varie forme, è insegnamento del maestro di sapienza: istruzione familiare, esperienza personale, detti dei maestri antichi, osservazione degli uomini, delle creature, dei fenomeni, degli avvenimenti. La Signora Sapienza unifica nella sua figura i vari canali di apprendimento; tutte le voci del creato sono la sua voce.

Ma chi è la Signora Sapienza? Torneremo più avanti su questo argo­mento che costituisce il filone più ricco del movimento sapienziale bi­blico. Per ora è sufficiente osservare che è una figura che sorpassa ogni creatura. Stava accanto a Dio mentre creava l’universo, trovando deli­zia di fronte a lui; poi anche negli uomini ha trovato delizia. E figura in qualche modo divina e umana, collegamento tra il Creatore e le crea­ture, sua voce e portatrice delle sue esigenze:

Beato l’uomo che mi ascolta vigilando alle mie porte giorno dopo giorno, custodendo gli stipiti dei miei ingressi, poiché chi mi trova trova la vita e incontrerà benevolenza da Jahveh.

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Ma chi pecca contro di me danneggia se stesso.tutti quelli che mi odiano amano la morte (Pro 8,34-36).

Anche Donna Stoltezza, la concorrente di Signora Sapienza, è figura molteplice. E cifra soprattutto della prostituta, ma anche dei malvagi che invitano il giovane a seguire la strada del guadagno facile (Pro 1,10-19) e di tutto quel tipo negativo di comportamento che il maestro chiama «malvagio, iniquo, stolto» (Pro 10,1-16 ecc.).

La prostituta incarna la stoltezza in modo eminente al punto che l’in­segnamento del maestro ha lo scopo essenziale di indirizzare il discepo­lo alPamore della sapienza per renderlo capace di sfuggire alle lusinghe della prostituta. O l’una o l’altra, fa intendere il saggio; e ambedue hanno le sembianze di una donna:

Figlio mio, custodisci le mie parole e i miei precetti riponi in te.Custodisci i miei precetti affinché tu viva, e il mio insegnamento, come la pupilla dei tuoi occhi.Legali sulle tue dita,scrivili sulla tavola del tuo cuore.Di’ alla sapienza: Mia sorella tu sei, e chiama amica P intelligenza, per custodirti dalla donna straniera,dalla forestiera che pronuncia parole carezzevoli (...) (Pro 7,1-5).

L’opposizione tra Signora Sapienza e Donna Stoltezza si riduce a quel­la tra due case. La prima è la casa della sapienza, la seconda è spesso la casa della prostituta. Sapienza e stoltezza, giusto e malvagio, vita e morte. Il mondo dei saggi ama i forti contrasti, non conosce sfumature:

Non gioveranno tesori di malvagità, ma la giustizia libererà dalla morte.Jahveh non lascerà soffrir la fame al desiderio del giusto, ma la brama dei malvagi respingerà (...)•Il ricordo del giusto è in benedizione,ma il nome dei malvagi andrà in rovina (Pro 10,1-3.7).

Forse questa pittura a forti tinte, bianco e nero, persegue uno scopo educativo: inculcare più efficacemente il lato positivo e allontanare da quello negativo. Ma è anche una visione ideale, ben definita, della realtà; visione che nasce da una fede profonda. Se Dio è creatore e provviden­te, nulla sfugge al suo controllo; se poi il re, fulcro della società, è pleni­potenziario di Dio sulla terra, allora nessuno potrà mai sottrarsi alle conseguenze del suo operato, né su questa terra né nel mondo futuro.

In ogni luogo gli occhi di Jahveh guardano cattivi e buoni (Pro 15,3).Nella luce del volto del re c’è vitae il suo beneplacito è come nube dell’ultima pioggia (Pro 16,15).Temi Jahveh, figlio mio, e il re,e con gli alti funzionari non immischiarti,poiché improvvisamente sorgerà sfortuna da loroe la rovina di entrambi chi la conosce? (Pro 24,21-22).

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Visione di fede dunque, ma non dogmatica, stereotipa, a dispetto della realtà, come accusano talvolta gli autori. La realtà visibile di segno con­trario, come la prosperità dei malvagi e la disgrazia dei giusti, è effime­ra. L’occhio della fede è capace di vedere oltre e cogliere «il futuro, la fine» [aharit) quando l’ordine verrà restaurato:

C’è una via diritta di fronte a un uomo, ma alla fine è via di morte (Pro 14,12; 16,15).Non invidi il tuo cuore i peccatori ma i timorati di Jahveh ogni giorno; perché certo c’è un futuroe la tua speranza non sarà stroncata (Pro 23,17-18).Non adirarti contro i malfattorie non indignarti con i malvagi,poiché non c’è futuro per il cattivo,la lampada dei malvagi si spegnerà (Pro 24,19-20).

Quello che abbiamo presentato finora riflette essenzialmente il mon­do ideale del libro dei Proverbi e di quello molto più tardivo ma simile del Siracide. E, possiamo dire, la sapienza della vita quotidiana, diffi­cile perché piena di insidie, esigente perché richiede scelte precise e tem-

COSTRUÌ PALAZZI, PREPARÒ UN BANCHETTOI nostri Rabbi insegnarono:

Adamo fu creato |per ultimo] la vigilia del sabato. E perché? Per­ché i Sadducei non dicessero: Il Santo, sia benedetto, ebbe un compagno nella sua opera della creazione. Un’altra risposta è: Perché se la mente di un uomo diventa superba, egli si ricordi che i moscerini lo hanno prece­duto nell’ordine della creazione. Un’altra risposta è: Perché egli possa mettersi immediatamente a compiere un precetto (il sabato). U n’altra risposta è: Perché egli possa andare subito al banchetto (la creazione pronta).

Questa cosa può essere para­gonata a un re di carne e sangue (cioè un re umano) che costruì palazzi e li adomò, preparò il banchetto e poi introdusse gli ospiti. Poiché è scritto: La sapien­za ha costruito la sua casa, ha inta­gliato le sue sette cobnne, ha ucciso i

suoi animali, ha preparato il suo vino e ha apparecchiato la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle, ha gridato sui punti alti della città (Pro 9,1 -3). La sapienza ha costruito la sua casa, que­sto è l’attributo del Santo, sia be­nedetto, che ha creato il mondo con la sapienza. Ha intagliato le sue sette colonne, questi sono i sette giorni della creazione. Ha uccise i suoi animali, ha preparato il suo vi­no e ha apparecchiato la sua tavola, questi sono i mari e i fiumi e tut­te le altre necessità del mondo. Ha mandato le sue ancelle, ha chia­mato, questo si riferisce ad Ada­mo ed Èva. Sui punti alti della cit­tà: Rabbah ben Bar Hana con­trappose [due versi]. E scritto: Sulla sommità dei punti più alti, ma altrove è scritto: Su una sede sui punti alti (Pro 9,14). Prima egli era seduto sulla «sommità» dei punti alti, ma poi su una «sede».

(Talmud, Sanhedrin 38a)

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pestive, ma pur sempre sapienza della ferialità e della normalità dell’e­sistenza. Ci sono però situazioni speciali nella vita dell’uomo. Speciali per il sopravvenire della sofferenza che costringe a interrogarsi sul sen­so del dolore, sulla sua origine e motivazioni; o per l’esperienza fru­strante dell’inutilità degli sforzi e del lavoro umano, per cui si mettono in discussione i valori della vita per vedere cosa resta alla fine di ogni cosa.

Problemi del genere non sono trattati in Proverbi e in Siracide se non in forma molto marginale. Sono invece all’origine di due composizioni tra le più poderose della letteratura biblica e dell’umanità: il libro di Giobbe e quello di Qoelet. Diciamo che dolore e inutilità del lavoro so­no all’origine, rispettivamente, del libro di Giobbe e di quello di Qoe­let, ma non costituiscono il loro problema principale. In ambedue il pro­blema principale è Dio.

L’esperienza dell’uomo sulla terra è incontro con Dio. Non si potrà mai esagerare l’importanza di questa intuizione della sapienza biblica. Per la sua fede in Dio creatore e signore dell’universo, Israele percepi­sce che ogni esperienza del mondo è esperienza di Dio e viceversa. Non è una vicenda privata dell’uomo ma un incontro con Dio che è presente in ogni essere, persona, avvenimento perché è presente la sua sapien­za, cioè il piano della creazione concepito e realizzato a suo tempo. Co­noscendo, usando le creature, ascoltando e sperimentando, l’uomo non fa altro che acquisire il senso delle cose, penetrare il piano secondo cui esse sono fatte; in altre parole, acquista la sapienza e in fondo conosce Dio.

La presenza della sapienza in ogni cosa fa sì che il mondo non sia in realtà un oggetto di conoscenza ma un soggetto di rivelazione; più che venir conosciuto, il mondo si rivela. E come un organismo vivente che va incontro all’uomo e gli rivela il Creatore. Questa è, possiamo dire, l’originalissima teoria israelitica della conoscenza.

L’uomo è il re della creazione ma non il padrone perché non è il crea­tore. Tutto quello che accade non è opera del destino ma disposizione di Dio provvidente. Ecco perché ogni esperienza del mondo è esperien­za di Dio e viceversa. Ed ecco perché il problema ultimo è Dio.

Certamente, i saggi che scrissero Proverbi e Siracide, cioè autori di quella sapienza che viene spesso chiamata ottimistica, ebbero ben pre­sente Dio nella loro visione del mondo. Per questo i loro insegnamenti non sono mai categorici né vengono presentati come validi per ogni cir­costanza. Proprio perché è quasi involucro di Dio, il mondo è un miste­ro e l’esperienza è ambigua. L’uomo deve essere cauto e attento alle circostanze in modo da adattare il suo atteggiamento a quello che Dio gli rivela tramite le circostanze.

Ma è soprattutto in Giobbe e Qoelet che il problema di Dio viene avvertito in modo doloroso, addirittura spasmodico. La sofferenza del giusto pone l’interrogativo del rapporto con lui: può essere giusto l ’uo­mo di fronte a Dio? La libertà e dignità dell’uomo contano qualcosa di fronte alla sovranità di Dio? Qual è il rapporto della creatura con il Creatore, del finito con l ’Infinito, del mortale con il Trascendente?

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In Qoelet il problema di Dio viene posto in rapporto al lavoro. Il la­voro dell’uomo è vanità perché non porta vantaggio per chi lo compie con tanta fatica sotto il sole; d’altra parte, il lavoro di Dio, cioè la sua opera della creazione, è comprensibile alFuomo solo in piccolissima parte.

Sia Qoelet che Giobbe contengono frasi e posizioni di tensione fortis­sima, al limite della bestemmia e della negazione totale senza però ca­dere né nell’una né nell’altra. Alla fine, dopo esperienze di dolore e di disperazione, i saggi riescono a comunicare un messaggio di fede. Un messaggio sofferto sulla propria pelle, che perciò è realmente in grado di parlare a chiunque si trovi in situazione analoga.

U n’ulteriore voce della sapienza biblica risuona nel Cantico dei can­tici. Inteso correttamente, questo libro sacro si presenta come una voce singolarissima di rivelazione. Dio ha scelto di rivelare 1’Amore come forza di vita, cioè se stesso, tramite l’esperienza di due adolescenti che si aprono all’amore reciproco nel quadro del creato dove pulsa la vita. Per una volta almeno, non sono gli uomini maturi (come ci immaginia­mo i saggi) ma i giovani a fungere da mezzi di rivelazione per l'umani­tà. Ogni uomo nell’adolescenza e giovinezza è chiamato a vivere l’e- sperienza dell’amore in una forma piena di scoperta, meraviglia e lode.

Il problema della sapienza (e anche il problema massimo dell’esistenza) è fare unità dei tanti fenomeni, dei tanti insegnamenti; vedere il piano di fondo, cogliere la sapienza e infine la Sapienza personificata, mani­festazione di Dio attraverso le creature; la sapienza che tutto unifica e nella quale tutto acquista senso e funzione. Fare unità delle tante voci che interpellano l’uomo, che lo bombardano, soprattutto oggi, con l’e­splosione moderna dell’informazione, e rischiano di soffocare la voce delle cose, dell’esperienza e dei maestri veri. Ciò allo scopo di giungere alla sapienza che dà la vita, saper vedere Dio nelle sue opere, conoscer­lo e arrivare a lui attraverso di esse; sentirsi parte dell’opera divina e assumere il proprio posto in essa.

E un problema anche fare unità dei vari libri chiamati sapienziali:

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Proverbi, Giobbe, Qoelet, Cantico dei cantici, Siracide, Sapienza. Tutti appartengono al movimento della sapienza biblica secondo il canone cattolico; ma la sapienza è quanto di più asistematico si possa immagi­nare, il che non significa però disordinato, caotico. Si richiedono atten­zione speciale e familiarità prolungata per cogliere le linee fondamenta­li che percorrono i diversi libri, Porientamento comune verso Dio e verso il mondo, quello che può essere indicato come tipico del movimento della sapienza.

Prenderemo dei testi campione, faremo dei saggi di ricerca. Citere­mo testi prolungati, anche perché molto spesso il senso esatto è contro­verso ed è necessario fare delle scelte. Lo scopo è aiutare l’uomo e la donna di oggi a recuperare i valori, la qualità della vita, che è il bene supremo perseguito dalla sapienza.

L’uomo moderno, con le enormi possibilità del fare, trova difficile armonizzare la sua opera con Pambiente in cui vive. La sapienza bibli­ca può insegnargli che il mondo è creatura di Dio, quasi un enorme organismo vivente che si può comprendere attraverso la fede. Uomo e donna sono invitati a collocarsi in esso in armonia, a sviluppare Pope­ra del Creatore senza contrastarla. La sapienza biblica può realmente introdurli nel cuore delle cose, nel punto dove le tensioni si placano e si sperimenta la pace di aver trovato il proprio posto nel mondo e P ar­monia con se stesso nella propria casa.

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LA VIA DELL’ESPERIENZA

Tre cose sono troppo alte per me:la via dell’aquila in cielo,la via del serpente sopra la roccia,la via della nave nel cuore del mare,la via deiruomo con la ragazza (Pro 30,18-19).

L’osservazione del saggio copre un ventaglio di fenomeni ampio quan­to il mondo. Tutto è grande, importante, realtà vivente; tutto ha senso e parla. Talvolta però il senso e le parole sfuggono alla comprensione. E questo il pungolo e la sfida del sapiente d’Israele.

In quanto opera di Dio, il creato, nel momento stesso in cui è visibi­le, è anche elusivo; qualcosa di esso, e certo il fondo ultimo, rimane nascosto all’uomo. Questa percezione è espressa nel modo forse più chia­ro in un testo del Siracide, erede strettissimo del libro dei Proverbi an­che se lontano nel tempo:

Ogni sapienza è da presso il Signore ed è con lui per sempre.La sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni del mondo, chi potrà contarli?L’altezza del cielo, l’estensione della terra, l’abisso e la sapienza, chi potrà esplorarle?Prima fra tutte le cose fu creata la sapienza e la saggia prudenza è da sempre.La radice della sapienza a chi è stata rivelata e i suoi segreti chi li ha conosciuti?Uno solo è saggio, molto terribile, seduto sul suo trono.Il Signore, lui stesso l’ha creata,l’ha vista e l’ha contata,e l’ha versata su tutte le sue opere,con ogni carne secondo il suo dono,e l’ha concessa a quelli che lo amano (Sir 1,1-10).

Due grandi blocchi del libro dei Proverbi sono, più di altri, testimoni e frutto dell’osservazione della realtà da parte dei saggi di Israele: i ca­pitoli 10-22,16 e 25-29. Se ci mettiamo a leggerli, sperimentiamo subi­to la difficoltà di questa letteratura. A prima vista, regna il disordine più completo, la disorganizzazione del materiale: detti brevi, troppo brevi e avari di informazioni, per cui l’interpretazione e persino la stessa tra­

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duzione sono problematiche. Il lettore potrà facilmente rendersi conto che spesso la traduzione che trova in queste pagine si discosta da quella della versione ufficiale della Cei.

Come possiamo orientarci? Direi che Torecchio è organo essenziale di interpretazione, nella letteratura ebraica in generale e nei detti dei Proverbi in particolare. Occorre fissare i termini, i suoni, tenerli a mente perché sono segnali e punti di riferimento per la lettura. Un libro mo­derno si compone di capitoli, ha titoli, suddivisioni; la letteratura bibli­ca non ha tutto questo (la divisione in capitoli e versetti è cosa recente). In questa situazione, i termini e i suoni, con il loro ripetersi, collegarsi e contrapporsi, segnano i limiti, le suddivisioni: suggeriscono titoli ine­spressi per le varie parti di una composizione e parole chiave per V in­terpretazione; sono spie dell*argomentare e mezzi di organizzazione del materiale.

La lettura di un brano abbastanza lungo ci aiuterà a spiegare il fe­nomeno.

Pro 10,1-15

Un figlio saggio rallegra il padre e un figlio stolto è tristezza per la madre.Non giovano tesori di malvagità, ma la giustizia salva dalla morte.Jahveh non lascia soffrir la fame al desiderio del giusto, ma la brama dei malvagi respinge.Miseria procura la mano ignava ma la mano operosa fa arricchire.Raccoglie in estate un figlio prudente, dorme in mietitura un figlio svergognato.Benedizioni vengono dalla testa del giusto

ma la bocca dei malvagi rivela violenza.Il ricordo del giusto è in benedizione

ma 0 nome dei malvagi va in rovina.Il saggio di cuore accoglie i precetti e l’iniquo di labbra vi trova inciampo.

Chi cammina nella rettitudine cammina sicuro ma chi è tortuoso nelle sue vie viene smascherato.Chi ammicca con l’occhio procura tristezza e l ’iniquo di labbra vi trova inciampo.Fonte di vita è la bocca del giusto ma la bocca dei malvagi rivela violenza.

L’odio suscita contesema tutte le iniquità copre l’amore.Sulle labbra dell’intelligente si trova sapienzama il bastone è per il dorso dello sciocco («senza cuore»).

Una realtà da classificare

saggio / / stolto

malvagità / / giustizia

giusto / / malvagio

giusto / / malvagio; cfr. 7a

giusto / / malvagio; cfr. 6a

l ’iniquo di labbra.. 10b

= dbgiusto / / malvagio rivela (scopre: cfr. 12b)

cfr. llb

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I saggi ripongono la conoscenzama la bocca dell’iniquo è sciagura prossima.Le sostanze del ricco sono la sua città fortificata e la sciagura dei deboli è la loro povertà.

Si potrebbe continuare, perché il capitolo prosegue sullo stesso tono sino alla fine, e del resto i versetti 1-15 citati non costituiscono un bra­no chiuso in se stesso. Si nota subito la disparità degli argomenti tratta­ti: non è un discorso coerente, dicono spesso i commentatori. Nono­stante il disordine apparente, tutto il capitolo è saldamente costruito in­torno alla coppia di termini contrapposti: giusto // malvagio, in ebraico tsaddiq / / rasha \ al singolare o al plurale. All’inizio troviamo una equi­valente: saggio // stolto, quindi la coppia base: malvagità // giustizia (v. 2, con termini astratti invece che concreti). Nel resto del capitolo la coppia giusto // malvagio ritorna di frequente (talvolta però le ver­sioni non sono coerenti nel tradurre): nei versetti 20, 21 (con piccola variazione: giusti // iniqui), 24, 25, 28, 30, 32. Un elemento solo della coppia ricorre anche nei versetti 27 e 31.

La ricorrenza della coppia giusto // malvagio non è soltanto un feno­meno letterario o stilistico; è il mezzo con cui l’autore compone il suo brano e organizza materiale diverso. L’argomento fondamentale è dun­que la contrapposizione tra il comportamento del giusto e quello del mal­vagio sotto diversi aspetti. L’attenzione al vocabolario aiuta a isolare due temi principali. Il tema della ricchezza/miseria compare con vari termini nei versetti 2-5. Il tema successivo è il parlare, identificato me­diante il succedersi di parole chiave: bocca (6), labbra (8), labbra (10), bocca (11), labbra (13), bocca (14). Ricompare poi il tema della ric­chezza/povertà (15). I medesimi termini si trovano nel resto del capito­lo, che svolge anche il tema della vita: lunga vita per il giusto, vita bre­ve per il malvagio.

Vediamo, così, un primo metodo di organizzazione del materiale e di composizione letteraria. Dobbiamo comprenderlo per quello che è e significa, per quanto possa apparire strano alla logica e al gusto mo­derno.

Un altro metodo di organizzare e classificare la realtà consiste nel- l’applicare una medesima frase a fenomeni diversi. Ad esempio l’espres­sione «è abominio di Jahveh» e la sua opposta «è suo beneplacito» qua­lificano comportamenti diversi:

Bilance di inganno sono abominio di Jahvehe peso integro è suo beneplacito (Pro 11,1).

La medesima espressione è applicata ad altre azioni: inganno e retti­tudine (11,20), inganno e lealtà (12,22), sacrifici degli iniqui e preghie­ra dei giusti (15,8). Altre cose, poi, sono dette abominio di Jahveh: la v ia dell’iniquo (15,9), i pensieri malvagi (15,26), la superbia (16,5), di­storeere la giustizia (17,15), usare pesi ingiusti (20,13.23). In definiti­va, la qualifica abominio/beneplacito di Jahveh collega azioni diverse. Forse si può dire che l ’autorità divina viene chiamata in causa per in­culcare azioni che riguardano il prossimo, il comportamento sociale, co­

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me per dire: l’inganno contro il prossimo non è qualcosa di privato o di secondaria importanza dal punto di vista morale, perché chiama in causa il rapporto con Dio.

Un giudizio analogo qualifica azioni come andare dalla moglie del prossimo (6,29), arroganza (11,21; 16,5), disprezzo del povero (17,5), falsa testimonianza (19,5; 19,9), frenesia di diventare ricchi (28,20). Chi fa queste cose — dice il maestro — «non verrà considerato senza col­pa», usando un verbo al passivo il cui soggetto inespresso è Dio.

Un altro metodo di classificare azioni differenti sotto un comune giu­dizio morale consiste nell’utilizzare l’espressione «è meglio... che...»:

Meglio poco con il timore di Jahvehche molta ricchezza in cui c’è inquietudine (Pro 15,16).Meglio poco con giustiziache molto profitto con sopruso (Pro 16,8).Meglio chi è umile di spirito con i poveri che dividere il bottino con i superbi (Pro 16,19).

Frasi del genere presentano giudizi paradossali, che esprimono l’op­posto di quello che l ’opinione comune si aspetta. E un modo per incul­care comportamenti piuttosto impopolari.

I detti che stiamo commentando richiamano l’attenzione per la bre­vità, incisività e anche per la perizia letteraria con cui sono formulati. Non sono certo proverbi popolari o trascrizione di detti che si sentono nella vita quotidiana, per la strada. Sono formulazioni artistiche, spes­so raffinate per la scelta dei termini e per la costruzione della frase. Gli studiosi ritrovano in essi delle tecniche letterarie attestate in una poesia arcaica e solenne come quella di Ugarit (circa 1400-1200 a.C.) che can­ta i miti degli dèi di Canaan.

Una di queste tecniche è il cosiddetto «proverbio numerico», che elen­ca cose o fenomeni utilizzando in stichi paralleli un numero e il suo suc­cessivo (il medesimo accresciuto di un’unità). E anche questo un meto­do per classificare la realtà, forse di carattere mnemonico:

Per tre cose è in subbuglio la terrae per quattro non può sostenersi:per un servo quando diventa ree per uno sciocco quando si sazia di pane;per una donna rifiutata quando viene sposatae per una schiava quando eredita la sua signora (Pro 30,21-23).

Più di una volta leggiamo, in passi differenti, detti ripetuti alla lette­ra o con qualche variazione, oppure un medesimo stico applicato a si­tuazioni differenti; così, ad esempio, in Pro 11,13 e 20,19 sul maldicen­te; in 12,11 e 28,19 su lavorare seriamente o, al contrario, inseguire i sogni; in 14,12, 16,2 e 21,2 sulla presunta rettitudine. Le ripetizioni possono essere un residuo della preistoria del libro dei Proverbi, della sua origine per trasmissione orale; ma possono anche svolgere una fun­zione specifica nel contesto. Occorre decidere caso per caso.

Qualche caso, più inquietante per gli interpreti, presenta contraddi­zioni palesi, come il seguente:

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Non rispondere allo stolto secondo la sua iniquità per non equipararti a lui anche tu.Rispondi allo stolto secondo la sua iniquità perché non sia saggio ai suoi occhi (Pro 24.4-5).

Che la contrapposizione sia stridente nessuno lo può negare, ma non si raggiunge l’assurdità. Normalmente — insegna il maestro — non devi rispondere sullo stesso tono a chi ti parla in modo sconveniente, per non scendere al suo livello; ma c ’è situazione in cui devi farlo a scopo di bene: perché lo stolto non creda di essere nel giusto per il fatto che non gli rispondi.

D etti di questo genere, con la loro formulazione di contrasto, hanno la funzione di mettere in guardia il discepolo della sapienza dal rischio di considerare la realtà come univoca e i consigli stessi che riceve come tassativi. I saggi hanno fortissimo il senso dell’am biguità delle situazio­ni: un consiglio valido per u n a può non esserlo per u n ’altra. La sapien­za consiste appunto nel saper decifrare i tempi e scegliere il comporta­m ento adatto.

Non si creda che dietro l ’incertezza della realtà si nasconda il caso anonim o o il destino cieco; si nasconde piuttosto il volto di Dio che ha creato e sostiene l ’universo. All’inizio dei tempi egli h a fissato le leggi che ne regolano il funzionamento, m a non lo ha fatto questo una volta per tutte. Dio non si è estraniato dall’universo; al contrario, è presente, anche se nascosto, e interviene nella vita e negli avvenimenti. La sua presenza segna il limite e l ’am biguità dell’esperienza; verso di lui il di­scepolo deve essere costantemente aperto e in ascolto.

Classificando i fenomeni, i maestri si propongono lo scopo di ridurre

UNA PAROLA A SUO T E M P O , COM ’È BUONA!

I nostri Rabbi insegnarono:Colui che recita un versetto del Canto dei cantici e lo tratta co­me u n 9aria (profana), come an­che colui che recita un versetto aun banchetto fuori del tempoadatto, porta il male sul mondo.Infatti la Torah si veste di sacco e si pone davanti al Santo, sia be­nedetto, e si lamenta di fronte alui: Signore dell’universo, i tuoi figli m i hanno fatto diventare co­me u n ’arpa sulla quale suonano liberamente. Egli risponde: Figlia mia, quando essi stanno m an­giando e bevendo, di che cosa si devono occupare? Essa replica: Signore dell’universo, se essi pos­

siedono conoscenza della Scrittu­ra, si occupino della T orah, dei Profeti e degli Scritti; se sono stu­diosi della M ishnah, si occupino della Mishnah, kalakhot e hagga- dot (parti morali e parti teologi­che); se sono studiosi del Tal­mud, si interessino delle leggi del­la pasqua, della Pentecoste e dei tabernacoli per le feste rispettive.

Rabbi Simeone ben Eleazar attestò, su autorità di Rabbi Si­meone ben Hanina: Colui che legge un verso a suo tempo por­ta il bene al mondo, come sta scritto: Una parola a suo tempo, co­rn'è buona! (Pro 15,23).

(Talmud, Sanhedrìn lO la)

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il margine di ambiguità deiresperienza. La loro classificazione può in­dicare però al massimo delle costanti, mai delle regole fisse e senza ec­cezioni. Tra i libri sapienziali, Qoelet è quello in cui il senso del limite e dell’ambiguità è percepito in modo addirittura spasmodico.

Nelle pagine che precedono abbiamo chiamato «detti» gli insegna- menti dei maestri di sapienza. Abbiamo evitato intenzionalmente di chia­marli proverbi, per quanto sia la designazione comune. Ciò allo scopo di allontanare ogni sospetto che questi insegnamenti siano proverbi po­polari. Come abbiamo notato sopra, non sono affatto proverbi popola­ri nella loro forma originaria; sono piuttosto detti artistici, magari pro­verbi riformulati dai maestri per la scuola, poi raccolti e pubblicati co­me libro dei Proverbi.

Dal punto di vista formale, sono detti affermativi, costruiti con verbi all’indicativo o con proposizioni nominali, che sono mezzi adatti a de­scrivere esperienze, tipi di persone, situazioni emblematiche. Per que­sto loro carattere si distinguono nettamente dall’altro genere di compo­sizioni a scopo più direttamente parenetico o didattico, detto « istruzio­ne», in cui prevalgono l ’appello diretto al discepolo o lettore e le forme volitive. Detto e istruzione sono riconosciuti come i due generi letterari fondamentali del libro dei Proverbi.

Interpretare i detti sapienziali è compito delicato. Il motivo è insito nel carattere stesso della sapienza biblica, nella sua asistematicità. In effetti, il mondo ideale dei saggi non viene mai illustrato in modo siste­matico. I detti sono, possiamo dire, il concentrato finale di esperienze: non esplicitano però il contesto in cui le esperienze si sono prodotte. Inoltre i detti appaiono staccati l’uno dall’altro, non chiaramente omo­genei, anche se si notano raccolte tematiche e vari tentativi di organiz­zazione logica. Da qui il problema di interpretarli.

Una possibilità di ricostruire il mondo ideale dei saggi consiste nel raccogliere e confrontare detti simili: simili per la ripetizione di voca­boli singoli e in particolare di coppie di termini paralleli. In questo mo­do si rischia di perdere il legame con il contesto in cui i singoli detti sono inseriti, ma si acquisiscono elementi per tracciare il pensiero sog­giacente riguardo ad argomenti preferiti dai saggi, come la ricchezza, il re, le compagnie, il parlare e il tacere ecc.

Si può aprire così qualche spiraglio su quel mondo variegato e can­giante, dove nulla è fisso o definitivo, dove il gioco degli avvenimenti, delle circostanze, e non ultimo il gioco di Dio rendono tutto unico e irripetibile. Non esistono soluzioni prefabbricate. Ogni soluzione deve essere «situata» nelle circostanze e valutata alla luce di Dio.

Questa cangiabilità produce certo insicurezza, ma la sana insicurez­za che fa stare continuamente all’erta, con gli occhi e le orecchie aper­te; non incute paura ma profonda fiducia in Dio.

Israele non ha conosciuto affatto l’«impasse» in cui ci troviamo alla lettura di questi testi. La sua grandezza consiste forse in questo, nel non

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aver separato la fede dalla conoscenza: le esperienze del mondo erano sempre per lui esperienza di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo. Si è detto a buon diritto che in ogni conoscenza entra in gioco anche un atteggiamento di fiducia. Qui, nelle sentenze sapienziali: una fiducia nella stabilità delle relazioni elementari tra uomo e uomo, una fiducia nella conformità degli uomini e delle loro reazioni, una fiducia nella costanza delle regole che reggono la vita umana o, di conseguenza, esplicitamente e implicitamente, una fiducia in Dio che ha messo in vi­gore queste regole (G. von Rad, La sapienza in Israele, Torino 1975, 65).

L ’impasse di cui parla von Rad riguarda la distinzione, e persino op­posizione, che l’uomo moderno vede tra fede e ragione, sacro e profa­no. Con questa mentalità gli esegeti interpretano la Bibbia e anche la letteratura sapienziale. Poiché la maggior parte dei detti dei maestri non sono espressamente religiosi, molti esegeti ritengono che siano profani. E stabiliscono persino una cronologia: i detti profani sono i più antichi, quelli che nominano Dio sono una reinterpretazione del materiale anti­co in chiave religiosa, un tentativo di riportare nell’alveo della fede di Israele un movimento di pensiero che era di per sé profano, non inte­ressato al livello religioso della vita.

Un’interpretazione del genere non corrisponde al mondo ideale del­la sapienza. Non si può attribuire alla mentalità israelitica l’opposizio­ne tra fede e ragione che è propria del pensiero moderno. Infatti peri saggi di Israele, il «timore di Dio», cioè press’a poco l’obbedienza a lui, è il principio della sapienza in quanto dispone e conduce alla sa-

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pienza. Questa concezione costituisce l'originalità di Israele. Il giusto è capace di giungere alla sapienza perché riconosce che la realtà è crea­ta da Dio e da lui costantemente regolata, e quindi tiene conto dei limi­ti da lui imposti e vi si conforma.

Non si può dunque accusare la sapienza biblica di utilitarismo o di eudemonismo, come se presentasse il bene non tanto come valore in se stesso quanto a motivo dei vantaggi che arreca. Secondo i saggi, in­fatti. bontà e riuscita sono sì strettamente connesse e complementari, ma ambedue dipendono dalFaccettazione debordine divino della crea­zione. Nella misura in cui l’uomo si inserisce in questo ordine fa il bene e, per disposizione di Dio, al bene è legato il successo e l’onorabilità nella società.

Negli ultimi cinquantanni il movimento della sapienza biblica ha at­tirato l5attenzione e la simpatia di un numero crescente di studiosi. Nel secolo scorso e all’inizio del presente, la teologia biblica aveva posto l’ac­cento sulle grandi idee dell1 Antico Testamento, soprattutto l’elezione, l’alleanza e la legge, e aveva deprezzato la letteratura sapienziale in cui quelle idee non compaiono, al punto di considerarla più o meno un corpo estraneo. Non che questo giudizio sia del tutto passato di moda, ma certo è cresciuta la considerazione per la sapienza, per la base della sua visione del mondo, che è la creazione e non l’alleanza, e per la sua rile­vanza teologica. Quest’ultima è fortemente attuale oggi che il proble­ma della casa dell’uomo, deH5ambiente, è diventato di importanza vitale.

La sapienza biblica è un forte movimento religioso, autonomo nel­l’ambito dell’Antico Testamento ma non estraneo ad esso. Un movi­mento che non si fonda sulla rivelazione storica, o storia della salvezza, ma sull’esperienza del credente israelita che va alla ricerca del senso delle cose e quindi dell’ordine stabilito da Dio creatore e del come orien­tare la propria vita in conformità ad esso. Un movimento che pone al centro l’individuo, non il popolo eletto in quanto tale, non però l’indi­viduo isolato ma inserito vitalmente nella comunità.

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La v o ce d e l m a estr o

Entriamo idealmente in un’aula scolastica presso la corte di Ge­rusalemme al tempo del re Salomone e del suo emulo il re Eze­chia (rispettivamente X e V ili see. a.C.).

Veramente l’esistenza della scuola non è ammessa da tutti gli studio­si prima del III-II see. a.C. quando viene nominata esplicitamente in un famoso testo del Siracide:

Accostatevi a me, o stolti,e dimorate nella mia scuola («mia casa di studio») (Sir 51,23).

È ragionevole ammettere che la corte avvertisse fin dall’inizio la ne­cessità pratica di un’istituzione scolastica di qualche tipo, per quanto rudimentale. Infatti il nuovo stato ebraico dovette preparare ministri e funzionari per le varie cariche dell’amministrazione e per le relazioni con l’estero. Era necessario formare persone affidabili dal punto di vi­sta professionale e anche morale: amministratori non solo capaci ma anche coscienziosi.

Il legame speciale del movimento della sapienza con la corte viene indicato esplicitamente nei titoli di alcune raccolte del libro dei Proverbi:

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Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele (Pro 1,1: titolo iniziale).Proverbi di Salomone(Pro 10,1: titolo della seconda collezione 10,1-22,16).Anche questi sono proverbi di Salomone, trascritti dagli uomini di Eze­chia, re di Giuda(Pro 25,1: titolo della quinta collezione, capitoli 25-29).

Nell’organizzare le strutture dello stato Salomone si ispirò a un mo­dello sperimentato e forte come quello egiziano. Non a caso si legge che egli sposò una figlia del faraone (IRe 3,1; 9,16). Ezechia emulò Saio- mone nel tentativo di unificare Israele dopo la caduta del Regno del nord (732). accolse i profughi israeliti a Gerusalemme, edificò per loro un nuovo quartiere e fortificò il paese in previsione di un attacco assiro (2 Re 18-20). Al suo tempo prevalse a corte il partito filoegiziano patro­cinato dai « saggi » (consiglieri regi) ma osteggiato da Isaia che predica­va la neutralità e la fiducia assoluta in Jahveh (Is 30).

In questo contesto storico si può collocare la costituzione della scuola e anche l’intensa attività editoriale dei detti e dei precetti dei saggi da parte dei maestri di sapienza, istruttori dei giovani aspiranti alla carrie­ra di scribi e funzionari di stato. Di Salomone sappiamo che non solo promosse tale attività ma vi collaborò come autore:

Dio dette a Salomone sapienza e intelligenza molto grande e larghezza di cuore come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. Perciò la sapienza di Salomone fu superiore alla sapienza di tutti i Figli d’Oriente e a tutta la sapienza d’Egitto. Fu più saggio di ogni uomo, da Etan l’Ezrahita a He man a Kalkol a Darda figli di Mahol, e il suo nome si diffuse tra i popoli all'intorno. Pronunciò tremila proverbi e i suoi canti furono mille e cinque. Parlò di piante, dal cedro che è nel Libano all’issopo che nasce nella parete; parlò di animali, uccelli, rettili e pesci. Vennero da tutti i popoli ad ascoltare la sapienza di Salomone, inviati da tutti i re della ter­ra che sentirono parlare della sua sapienza (IRe 5,9-14).

Leggeremo una parte abbastanza lunga del libro dei Proverbi che vie­ne chiamata la terza collezione (22,17-24,22). E una parte che mostra una notevole unità di composizione al punto da costituire un libretto di formazione del giovane, quasi un manuale che gli studenti dovevano trascrivere e probabilmente anche memorizzare.

Si notano subito differenze marcate rispetto ai passi che abbiamo letto finora. Il testo mostra, anzitutto, una compattezza maggiore, è più chiaramente uniforme e coerente. Inoltre ha un tono diverso: apo­strofa il discepolo, o il lettore, e lo chiama in causa direttamente; non presenta esperienze generali ma esortazioni specifiche ad adot­tare certi comportamenti ed evitarne altri; la forma verbale domi­nante non è l ’indicativo che descrive ma l’imperativo che esorta e proibisce.

Accompagnerò il testo con annotazioni sul margine, accanto al testo

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vero e proprio. Non vorrei che fossero pedanterie esegetiche di cui si lamentano, talvolta a ragione, i non addetti ai lavori. Sono indica­zioni intese come un aiuto per identificare le varie parti del testo, la loro relazione e funzione specifica, e quindi come una guida per la lettura. L ’antico scrittore non utilizzava mezzi del genere né espedien­ti tipografici per indicare le suddivisioni. Si contentava di mezzi stili­stici e retorici, come il ricorso a schemi speciali (quelli che gli esegeti chiamano generi letterari), comprendenti una serie fissa di motivi, op­pure la ripetizione di vocaboli chiave, le riprese stilistiche ecc. Di con­seguenza, se l ’esame letterario è ben fatto, le suddivisioni che segnale­remo non saranno qualcosa di imposto o di aggiunto, ma una sempli­ce esplicitazione del testo.

Il genere letterario dominante del libretto, o manuale di formazione che leggeremo, può essere chiamato «istruzione». Si compone di una esortazione (positiva) o di una ammonizione (negativa) normalmen­te accompagnata da una motivazione, volta a illustrare il senso e la ragionevolezza di ciò che viene raccomandato e così facilitarne Tac­coglimento da parte del discepolo. Il maestro, si noti, non impone in

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forma autoritaria ma si sforza di convincere mostrando la bontà, i van­taggi e gli svantaggi di un certo comportamento e del suo contrario.

Per lo più varie istruzioni si susseguono in serie, formano delle se­zioni a sé stanti precedute da un’introduzione nella quale compaiono tre elementi: l’appello diretto «figlio mio», un invito ad ascoltare l’in­segnamento del maestro e custodirlo con tutto l’essere, e una motiva­zione che elenca i benefici che ne derivano.

Il genere della istruzione si manifesta in modo chiaro nella prima suddivisione del libretto di formazione (22,17-23,11), mentre nelle al­tre due (23,12-25; 23,26-24,22) le singole istruzioni sono ampie e com­plesse, e perciò più difficili da analizzare.

Per non annoiare troppo il lettore metterò le indicazioni marginali, che spiegano la funzione delle singole unità, solo nell’introduzione 22,17-21; in seguito mi contenterò di segnare le singole istruzioni me­diante un numero progressivo.

Pro 22,17-21

Porgi il tuo orecchio e ascolta le parole dei saggi e applica il tuo cuore alla mia saggezza.Poiché è dolce se tu le custodisci nel tuo ventre, se sono stabili insieme sulle tue labbra, perché sia in Jahveh la tua fiducia.

INTRODUZIONEesortazione

motivazione

PROVERBI, CANTICO ED ECCLESIASTE

Questi sono i proverbi di Salomo­ne che copiarono gli uomini di Eze­chia re di Giuda (Pro 25,1). Essi non solo li copiarono ma anche vi rifletterono sopra. Abba Saul disse: (Il senso) non è che vi ri­fletterono sopra ma che li porta­rono alla luce. All’inizio si rite­neva che i libri di Proverbi, Can­tico dei cantici ed Ecclesiaste fos­sero da nascondere poiché con­tenevano solo aforismi e che non fossero parte delle Scritture. Per­ciò essi furono condannati a ri­manere nascosti finché non ven­nero gli uomini di Ezechia cheli riportarono alla luce. (Erano condannati) perché si afferma: Vidi tra gli inesperti un giovane sen­za intelligenza... Ed ecco una donna

incontro a lui in veste di prostituta e ingannatrice nel cuore... (Pro 7,7. 10-20). È scritto nel Cantico dei cantici: Vieni, mia diletta, andia­mo nella campagna, dimoriamo net villaggi... là ti darò il mio amore (Ct 7,12-13). È scritto nell’Ecclesia- ste: Rallegrati, o giovane. nella tua giovinezza, e il tuo cuore sia lieto nei giorni della tua giovinezza, e cammi­na nelle vie del tuo cuore, e nella vi­sta dei tuoi occhi, ma sappi che per tutto questo Dio ti porterà in giudizio (Qo 11,9). È scritto inoltre nel Cantico dei cantici: Io sono del mio diletto e il suo desiderio è verso di me (Ct 7,11). Così essi non riflette­rono su di essi ma li portarono alla luce.

{Abot de Rabbi Natan 1.4)

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Ti ho fatto conoscere oggi, a te, ecco ho scritto per te l’altro ieri in materia di consigli e saggezza,perché tu sappia riferire in modo conveniente parole di verità, perché tu sappia riportare parole di verità a quelli che ti mandano.

Pro 22,22-23,11Non defraudare il debole perché è debole e non opprimere il povero alla porta, poiché Jahveh difende la loro causa e rapina i loro rapinatori della vita.Non farti compagno dell’iracondo e con il focoso non andare, perché tu non impari la sua condotta e ne tragga una trappola per la tua vita.Non essere tra quelli che stringono le mani, tra quelli che si fanno garanti dei debiti; se non hai da pagare,perché dovrebbe essere preso il tuo giaciglio da sotto di te?Non spostare il confine antico che posero i tuoi padri.Hai osservato un uomo abile nel suo ufficio?Davanti ai re egli sta,non sta davanti a gente oscura!Quando siedi per mangiare con un’autorità, considera bene quello che è davanti a te, e poni un coltello nelle tue fauci, se sei un tipo vorace.Non bramare le sue squisitezze, poiché ciò è un pane d’inganno.Non darti pena di arricchire, a motivo della tua intelligenza rinunciaci.Volano i tuoi occhi su di essa? Non c’è più!Poiché certo si fa le ali, come aquila vola al cielo.Non mangiare il pane dell’avaro e non bramare le sue squisitezze,poiché come uno che prepara (la tavola) per se stesso, così è lui.— Mangia e bevi! — ti dirà, ma il suo cuore non sarà con te.Il boccone che avrai mangiato, lo dovrai vomitare e rovinerai le cose più deliziose per te.Alle orecchie dello stolto non parlare, poiché disprezzerà la saggezza delle tue parole.Non spostare il confine antico e i campi degli orfani non invadere, poiché il loro vindice è forte, difenderà la loro causa contro di te.

Dal punto di vista stilistico e formale le dieci istruzioni si raggruppa­no in due serie che si corrispondono: dalla prima alla quarta e dalla settima alla decima. Le istruzioni centrali, la quinta e la sesta, variano

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un po’ lo schema normale in quanto la quinta introduce l’argomento con una domanda retorica, mentre la sesta è di tipo casuistico, presenta cioè una situazione specifica (il caso di un invito a mangiare con u n ’au­torità) a cui esortazione, ammonizione e motivazione si riferiscono. Inol­tre, nella quarta istruzione manca Pammonizione, mentre nelPottava essa è più complessa del solito.

Possiamo immaginare una classe di studenti che ripetono queste istru­zioni, una per una, ad alta voce dietro il maestro che le proclama, se­condo un metodo antico di apprendimento in uso ancora oggi nelle scuole in Oriente. La struttura rigida e la formulazione stringata corrispondo­no bene allo scopo didattico. Certamente gli studenti dovevano non so­lo imparare a memoria le varie istruzioni, ma anche trascriverle nelle loro tavolette. In tal modo imparavano la lingua e contemporaneamen­te ricevevano l ’insegnamento. Era infatti costume presso i popoli anti­chi irrparare le lingue trascrivendo le opere dei classici.

Il n.aestro di sapienza si propone come scopo del suo insegnamento, accanto alla preparazione professionale del discepolo, la sua formazio­ne urr.ana e religiosa. I due scopi vanno insieme e non sono mai di­sgiunti. La preparazione professionale non serve senza la formazione personale. Il funzionario che viene trovato infedele o non del tutto affi­dabile non progredirà nella carriera pubblica.

Le dieci istruzioni che seguono l’introduzione rispondono ai due sco­pi indicati. Le istruzioni parallele, dalla prima alla quarta e dalla setti­ma alla decima, fanno conoscere al discepolo le regole fondamentali della vita nella società perché egli possa occupare il suo posto in essa in quanto uomo saggio. Elenchiamone brevemente il contenuto per avere una vi­sione d’insieme:

(1) non opprimere il povero(2) non farsi compagno dell’iroso(3) non essere nel numero dei mediatori(4) non spostare i confini antichi(7) non darsi pena di accumulare ricchezze(8) non mangiare il pane dell’avaro(9) non sprecare parole con lo stolto(10) non spostare i confini degli orfani.

Le istruzioni centrali, invece, si riferiscono direttamente alla carrie­ra futura del discepolo:

(5) esempio dell’uomo abile nel suo ufficio(6) comportamento da tenere quando si è a tavola con un’autorità.

Il resto del libretto di formazione del giovane comprende due parti che sono identificate da altrettante introduzioni:

Applica alla correzione il tuo cuoree il :uo orecchio alle parole di saggezza (Pro 23,12).Poni, figlio mio, il tuo cuore verso di mee i tuoi occhi le mie vie gradiscano (Pro 23,26).

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Se confrontiamo queste due introduzioni con quella iniziale:

Porgi Forecchio e ascolta le parole dei saggi e applica il tuo cuore alla mia saggezza (Pro 22.17).

colpisce il fatto che in ognuna delle tre compare una coppia di termini paralleli che riguarda il discepolo e un’altra che riguarda il maestro. Le coppie riguardanti il discepolo nominano due aspetti della sua per­sona, uno esterno e l’altro interno: in due casi orecchio e cuore, in un caso cuore e occhi. Le altre coppie designano in modo vario l’insegna­mento del maestro: le parole dei saggi, la mia saggezza, parole di sag­gezza, le mie vie.

Il giovane discepolo, è chiaro, viene coinvolto in tutta la sua perso­na, esteriorità e interiorità. L ’elemento più importante dell’apprendi­mento e della formazione è il cuore, il centro e il motore di ogni attivi­tà. Su di esso fa leva il maestro il quale non teme di proporre il suo insegnamento, l’esperienza sua propria e quella dei maestri più anti­chi, come sicura norma di vita.

Sarebbe troppo lungo e complesso percorrere le altre due parti del libretto di formazione del giovane: molte cose sono discusse e non è pos­sibile in questa sede entrare in dettagli troppo tecnici. Basterà afferma­re che in esse la concezione della sapienza come formazione personale e arte di vivere nella società è ancor più sviluppata che non nella prima

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parte. L ’intenzione di formare il futuro funzionario non è però altret­tanto esplicita in quanto non si parla espressamente di carriera. E chia­ro, comunque, che tutto è indirizzato ai giovani della società agiata vi­cina alla corte. Si veda, ad esempio, la raffinata descrizione del bevito­re (23,29-35), Paccenno breve ma significativo alla sapienza che conce­de vittoria in guerra (24,6) e l’ammonizione ad essere cauti nei rappor­ti con il re e con gli alti funzionari (24,21-22).

Alcune istruzioni inculcano al discepolo tematiche che si possono ri­tenere proprie dell’educazione familiare, come l’esortazione a correg­gere il giovane (23,12-14), l’ammonizione a non invidiare i peccatori ma piuttosto emulare i timorati di Dio (23,15-18) e a non essere disso­luto né indolente (23,19-21) e l’esortazione a comprare la verità e non venderla (23,22-25).

Prima di considerare complessivamente i contenuti di questo libretto di formazione, vorrei illustrare un fenomeno singolare che Io riguarda: il caso di un influsso letterario esterno. Il confronto esteso con un testo egiziano ci aiuterà a valutare meglio il testo biblico.

Per rispondere alle necessità dello stato, i giovani funzionari doveva­no conoscere le lingue straniere, necessarie per intrattenere rapporti di­plomatici con le corti dei popoli circostanti. Nonostante i disagi che ciò comportava, gli antichi viaggiavano molto, soprattutto per ragioni di commercio e di relazioni internazionali. Lo attestano, tra l’altro, i nu­merosi influssi esteri (dell’Egitto, dei paesi del Mediterraneo ed Egeo, della Mesopotamia ecc.) che gli archeologi rilevano sulla base dei ma­nufatti di vario tipo che vengono alla luce negli scavi. Con i beni mate­riali viaggiavano anche le idee e così si produceva un continuo inter­scambio culturale.

Era necessario conoscere le lingue estere soprattutto per i mercanti e per gli ambasciatori. E siccome le lingue si imparavano trascrivendo □pere classiche, anche le letterature viaggiavano ed esercitavano il loro influsso. In questo modo si comprendono i molteplici contatti che gli studiosi scoprono tra la letteratura biblica e quelle extrabibliche, egi­ziana, mesopotamica, cananea (soprattutto ugaritica), siriana (eblaita) ecc.

La prima parte del corso di formazione che stiamo esaminando (Pro22,17-23,11) offre, a ragione della sua ampiezza, una possibilità spe­ciale di controllare il modo come la sapienza biblica abbia utilizzato la letteratura delle civiltà circostanti benché diverse per cultura e per reli­gione. In effetti, il movimento della sapienza è quanto di più aperto verso l’esterno Israele abbia mai prodotto. La ragione è che, a motivo del suo orientamento verso l’uomo tout court e non verso il popolo eletto, non sente la necessità di erigere una barriera verso l’esterno per difendere la purezza della fede.

Nel 1923 fu pubblicata una composizione didattica egiziana detta «In­segnamento di Amenemope», contenuta nel manoscritto del British Mu-

Sapienza biblica e sapienza egiziana

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seum 10474. Gli studiosi notarono subito che essa era fortemente simi­le a un brano del libro di Proverbi (Pro 22,17-23,11).

L ’autore dell’insegnamento, «il saggio scriba Amenemope», indiriz­zò Fopera al suo figlio m inore Hor-em-maa-kheru, che era sacerdote in un tempio del dio Min e amministratore dei possedimenti annessi al tem­pio stesso. L ’Insegnamento aveva lo scopo di fare di lui un uomo pio e un fedele amministratore. Il tipo di uomo che viene proposto come mo­dello è il «silenzioso» (gkeru), cioè il paziente, l ’umile, il fiducioso in Dio. A questo tipo si oppone il «focoso» (skemu), cioè l’arrogante, l’ambizio­so, l ’empio. Sono due modelli di comportamento non dissimili da quelli del giusto e del malvagio che compaiono nella letteratura sapienziale.

Si è discusso a lungo se Proverbi avesse influito su Amenemope o vi­ceversa. Oggi è certo che il testo egiziano è anteriore a quello biblico, essendo databile al X III-X II see. a.C .

Per aiutare il lettore a cogliere l’im portanza delle somiglianze e delle differenze, presento i due testi in parallelo. Del testo egiziano cito non frammenti m a brani sufficientemente completi allo scopo di farne pro­vare il gusto e la bellezza.

Seguirò l ’ordine del testo di Proverbi, così sarà possibile controllare il modo in cui il compositore israelitico ha scelto il materiale egiziano. Per ogni testo proporrò un commento breve ed essenziale sui punti più im portanti di contatto.

P o rg i il tuo orecchio e ascolta

PR O V ER BI 22,17-19a (Introduzione)

Porgi il tuo orecchio e ascolta le parole dei saggi e applica il tuo cuore alla mia saggezza,Poiché è dolce se tu le custodisci nel tuo ventre,

se sono stabili insieme sulle tue labbra,

perché sia in Jahveh la tua fiducia.

A M EN EM O PE (Cap. 1)

Porgi le tue orecchie e ascolta ciò che viene detto, poni il tuo cuore per interpretarle.E bene che tu le ponga nel tuo cuore,ma guai a chi le trascura.Fa’ che riposino nello scrigno del tuo ventree che siano una serratura nel tuo cuore;e quando verrà una tempesta di parole,saranno un piolo d’ormeggio sulla tua lingua.Se tu passi la vita mentre essesono nel tuo cuore,tu le troverai che sono unsuccesso fortunato,tu troverai che le mie parole sonoun magazzino di vitae il tuo corpo sarà sano sullaterra.

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Entrambi i testi sono introduzione a un’istruzione. Il maestro apo- rofa il discepolo con un invito ad ascoltare e gli illustra i vantaggi che e derivano. Chiaramente, lo scopo deir insegnamento è la formazione ersonale, anche interiore, deir indirizzato.Il maestro di sapienza prosegue nel suo appello introduttivo, il più

mgo che troviamo nel libro di Proverbi.

PROVERBI 22,19b-21 (Introduzione)

Ti ho fatto conoscere oggi, a te,

ecco ho scritto per te l’altro ieri in materia di consigli e saggezza,

perché tu sappia riferire in modo conveniente parole di verità, perché tu sappia riportare parole di verità a quelli che ti mandano.

AMENEMOPE (Cap. 30 e Prologo)

Considera per te questi 30 capitoli:essi divertono, essi istruiscono, sono il meglio di ogni libro; essi insegnano all’ignorante: se vengono Ietti davanti a un ignorante,egli diventerà rispettoso a causa di essi.Riempiti di essi, ponili nel tuo cuore,e sii un uomo capace di interpretarli,uno che li interpreta come un maestro.Lo scriba che è abile nel suo ufficiotroverà se stesso degno di diventare un cortigiano.Inizio dell’istruzione di vita, della testimonianza di prosperità, di tutte le regole per far entrare fra i consiglieri, delle prescrizioni per i cortigiani, per saper dare una risposta a chilo chiama (?)per riportare un resoconto a colui che lo manda,per dirigerlo nei sentieri della vita,perché egli sia prospero sulla terra ...

vE interessante notare il modo con cui procede l ’autore biblico. Il suo

testo condensa il cap. 30, che è l’ultimo, e il prologo di Amenemope.In Proverbi gli studiosi sono soliti leggere «30 (detti)», come trovia­

mo anche nel testo ufficiale della Cei: « Non ti ho scritto forse trenta. ma la cosa è molto ipotetica perché nel testo biblico non sono rintrac­ciabili 30 capitoli come nel modello egiziano. Non è consigliabile perciò correggere l’uno per farlo concordare con Paltro. L ’influsso di Amene­mope è ugualmente sensibile.

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Non opprim ere il povero

PROVERBI 22,22-23 (.Istruzione 1)

Non defraudare il debole perché è debolee non opprimere il povero alla porta,

AM ENEM OPE (Cap. 2)

Guardati dal derubare il bisognosoe dal fare violenza al debole.

Non prendere l’iniziativa di («stendere la tua mano per») avvicinarti a un anziano, non prendere la parola («bocca») con un adulto.

poiché Jahveh difende la loro causae rapina i loro rapinatori della vita.

In questo brano c’è somiglianza con Amenemope, ma non necessa riamente dipendenza. Nell’insegnamento egiziano, all’ammonizione ri guardante il povero, ne segue un’altra parallela che ha per tema Fan ziano. La protezione del povero è argomento frequente nelle parti giù ridiche dell’Antico Testamento e nella predicazione dei profeti. La mo tivazione di 22,23 è tipicamente israelitica: Dio difende il povero.

Non farti compagno dell’iracondo

PROVERBI 22,24-25 (Istruzione 2)

AMENEMOPE (Cap. 9)

Non farti compagno dell’iracondoe con il focoso non andare,

Non fraternizzarti con il focoso

perché tu non impari la sua condottae ne tragga una trappola per la tua vita.

e non avvicinarti a lui per conversare.Salva la tua lingua dal rispondere al tuo superiore e guardati dall’insultarlo.Non lasciare che egli getti la sua parola per prenderti al laccio e non dare libertà alla tua risposta.Discuterai la risposta solo (se viene) da un tuo pari e guardati da...[Segue una descrizione del «focoso» che non controlla le sue parole].Non volare per aderire a quello.

perché il terrore non ti porti via.

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Incontriamo qui il tipo del «focoso», caratteristico di Amenemope. Proverbi rende il termine egiziano con due espressioni tipicamente se­mitiche, che letteralmente suonano così: «possessore di naso, ira», e «uo­mo di furia». Le corrispondenze di Proverbi riguardano l ’inizio e la fi­ne del cap. 9 di Amenemope.

Analoga è anche l’immagine del «laccio» (Amenemope) e della «trap­pola» (Proverbi). L’ira, con la sconsideratezza che comporta, costitui­sce uno dei pericoli maggiori del giovane e di chiunque voglia raggiun­gere la sapienza che è, al contrario, misura, autocontrollo, dosaggio delle proprie reazioni secondo le situazioni che si presentano.

Non spostare il confine antico

PROVERBI 22,28 (Istruzione4) e 23,10-11 (Istruzione 10)

Non spostare il confine antico

che posero i tuoi padri.

Non spostare il confine antico

e i campi degli orfani non invadere,

poiché il loro vindice è forte,

difenderà la loro causa contro di te.

AM ENEM OPE (Cap. 6)

Non spostare i segnali sui confini delle terre arabili e non alterare la posizione della corda.Non desiderare un cubito di terrenoe non superare i confini di una vedova.I solchi dell’aratro che il tempoha consumato,chi li falsifica nei campi,anche se cerca di ingannare congiuramenti falsi,sarà preso dalla potenzadel dio-Luna.[Chi farà questo sarà rovinato...].

Guardati dal superare i confini dei campi,perché il terrore non ti porti via. Si pacifica un dio con il potere del Signore,il quale stabilisce i confini delle terre arabili.Desidera perciò che il tuo corpo sia sano,guardati dal Signore dell5 universo![Il raccolto rubato non viene goduto...].

L’esortazione a non spostare i confini dei campi si comprende me­glio nella situazione ambientale egiziana che in quella ebraica. In Egit-

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to l’inondazione del Nilo faceva sparire i confini delle proprietà e ren­deva necessario ridefinirli ad ogni stagione. In entrambi i testi la moti­vazione è espressamente religiosa e severa, a conferma dell5importanza dell’argomento. In Amenemope il dio-luna Thot è garante dei confini e giudice finale, in Proverbi Jahveh è il difensore degli orfani.

L ’uomo abile nel suo ufficio

PRO V ERBI 22,29 (Istruzione 5)

Hai osservato un uomo abile nel suo ufficio?Davanti ai re egli sta,

non sta davanti a gente oscura!

AM EN EM O PE (Cap. 30)

Lo scriba che è abile nel suo ufficio,troverà se stesso degno di diventare cortigiano.

La somiglianza dei due testi è grande, m a c ’è una piccola differenza. In Amenemope questa è la parte finale del cap. 30 e quindi l’esortazio­ne conclusiva deU’opera; Proverbi ha invece un istruzione a parte. Nel testo biblico la dom anda «hai osservato?... » serve a richiamare l’atten­zione su un tipo da im itare, un espediente educativo che si trova anche nei testi didattici egiziani. Amenemope parla di «scriba», Proverbi ge­nericam ente di «uom o», m a il senso è lo stesso. L ’espressione «stare davanti ai re, non stare davanti a gente oscura» di Proverbi equivale a «diventare cortigiano» di Am enemope; il senso è: essere ammesso a corte. Le corrispondenze sono forti. La carriera politica o am m inistra­tiva è in prim o piano anche nel testo biblico.

À tavola con un’au to rità

P R O V E R B I 23,1-3 (Istruzione 6)

Q uando siedi per m angiare con u n ’autorità,considera bene quello che è davanti a te,

e poni un coltello nelle tue fauci,

se sei un tipo vorace.N on bram are le sue squisitezze,

poiché questo è un pane d ’inganno.

A M E N E M O P E (C ap. 23)

Q uando mangi pani in presenza di un magistrato non applicare la tua bocca per primo.Se ti sazi (con) bocconi di falsità, essi sono un diletto sulla tua saliva. G uarda la coppa che è davanti a tee fa’ che essa sia il tuo necessario. Q uanto più u n magistrato è grande nel suo ufficio, tanto più è come un pozzo num eroso quanto all’attingere.

I punti di contatto tra Amenemope e Proverbi sono numerosi, ma anche le differenze sono marcate. L’ammonizione riguarda non il man-

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giare in sé, ma il modo di mangiare: mette in guardia dal prendere cibo prima del magistrato e quindi dal mostrarsi avido. Il testo di Proverbi presenta un’analoga messa in guardia mediante l’espressione: «consi­dera bene quello che è davanti a te», cioè probabilmente l’autorità ospite. Tale espressione non può non richiamare quella del testo egiziano: «Guarda la coppa che è davanti a te», benché questa si riferisca non alla persona ma a ciò che viene offerto.

Il testo di Proverbi, benché formulato diversamente, è abbastanza vicino quanto al contenuto. Il senso è perciò che i pranzi con un’autori­tà sono una trappola per il giovane che non sappia controllarsi.

Non darti pena di arricchire

PROVERBI 23,4-5 (Istruzione 7)

Non darti pena di arricchire,

a motivo della tua intelligenza rinunciaci.

Volano i tuoi occhi su di essa? Non c’è più!

Poiché certo si fa le ali, come aquila vola al cielo.

AMENEMOPE (Cap. 7)

Non lanciare il tuo cuore dietro alle ricchezze,poiché non c5è nessuno che ignori Shai e Renenet [dee del destino]. Non gettare il tuo cuore al di fuori, poiché ogni uomo appartiene alla sua ora.Non affannarti per cercare il sovrappiù,se è salvo per te il tuo necessario. Se vengono a te ricchezze da furto, esse non passeranno la notte con te.Quando si fa giorno, esse nonsono più nella tua casa;se si guarda il loro posto, essenon ci sono più,poiché il terreno apre la suabocca, le livella e le inghiotte,con esso (?) sprofondanonell’oltretomba.fanno per sé un buco di parigrandezza,sprofondano nella fossa.Fanno per sé ali come oche, volano al cielo.[Segue un invito a confidare nelle divinità].

Proverbi abbrevia Amenemope, ma le corrispondenze sono forti. Si noti che all’oca, comune in Egitto ma non in Israele, Proverbi sostitui­sce l’aquila (cfr. Is 40,31; Ap 12,14). Il motivo di non sforzarsi per a r­ricchire è, nel testo biblico, l ’amore della sapienza; in quello egiziano è l’accettazione della volontà degli dèi che non faranno mancare il ne­cessario a chi confida in loro.

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Non mangiare il pane dell’avaro

PROVERBI 23,6-8 (Istruzione 8)

Non mangiare il pane dell’avaro

e non bramare le sue squisitezze, poiché come uno che prepara (la tavola) per se stesso, così è lui.

— Mangia e bevi! — ti dirà,

ma il suo cuore non sarà con te.

Il boccone che avrai mangiato,lo dovrai vomitare

e rovinerai le cose più deliziose per te.

AM ENEM OPE (Cap. 11)

Non defraudare la proprietà di un dipendentee non aver fame dei suoi pani. La proprietà di un dipendente, essa è una chiusura per la gola, è un vomito per la strozza.Se uno la procura con giuramento falso, il suo cuore è turbato nel suo ventre.Quando l’inimicizia rovina il successo,fallisce il male e il bene (cicè, ogni cosa).Quando sei mancante davanti a un tuo superiore e sei confuso nel tuo racconto, le tue lusinghe, esse sono respinte con maledizioni, le tue prostrazioni con percosse. Il boccone (troppo) grande di pane, se lo inghiottirai, lo vomiterai,e sarai privato del tuo bene.

[Esempio delFispettore infedele]. Lontano da un dipendente devi dirigere il remo sul cammino: tu lo vedrai e rispetterai la sua proprietà.

La struttura di Amenemope è interessante. Troviamo un’ammoni­zione (l’ispettore rispetti i dipendenti), poi la motivazione (altrimenti il suo superiore lo punirà). Il saggio descrive quindi un esempio negati­vo (l’ispettore infedele viene castigato) e termina con una nuova am ­monizione che richiama quella iniziale.

Si notano varie espressioni analoghe, ma l’argomento dei due testi è di­verso: in Proverbi il pranzo dell’avaro, in Amenemope la proprietà di un dipendente. Troviamo quindi espressioni simili applicate a casi differenti.

Non sprecare parole con lo stolto

PROVERBI 23,9 AMENEMOPE (Cap. 21)(Istruzione 9) (Seconda parte)

Alle orecchie dello stolto Non vuotare il tuo internonon parlare. con tutti

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perché disprezzerà la saggezza delle tue parole.

e non rovinare la tua rispettabilità.Non far circolare le tue parole tra la gentee non fraternizzarti con chi è chiacchierone.Meglio un uomo la cui comunicazione resta nel suo interno,che colui che la dice con danno, poiché non si corre per raggiungere il successo e non ci si lancia per rovinarlo.

In Amenemope il futuro funzionario viene esortato a conservare il segreto professionale, perché il parlare con chiunque gli rovinerebbe la carriera. Proverbi ammonisce il discepolo a non sprecare parole per ri­chiamare lo stolto, il quale non si ravvederà, anzi si prenderà gioco di lui. I due testi sono abbastanza lontani, benché l’ammonizione presen­ti una somiglianza esteriore.

Sir 8,18-19 è un parallelo di Amenemope persino migliore di quello di Proverbi:

Davanti a un estraneo non fare niente di segreto, perché non sai cosa ciò genererà alla fine.Ad ogni carne non svelare il tuo cuore, e non allontanare da sopra di te il bene.

È ora di raccogliere e valutare i dati ottenuti confrontando i testi, co­sì potremo comprendere un po’ meglio il modo di procedere dell*auto­re biblico e il mondo ideale dei vari insegnamenti.

Notiamo che l’introduzione del libretto biblico di formazione (Pro22,17-21) ha contatti con più di un capitolo di Amenemope, mentre le varie istruzioni sono parallele a un singolo capitolo. E chiaro che Pro­verbi non ha ripreso tutti gli argomenti di Amenemope, ma ha fatto una scelta e ne ha tratto una sua propria composizione. H a riformulato alcuni insegnamenti, abbreviando molto e imprimendo uno stile uni­forme e ben definito. Inoltre ha adattato gli argomenti all’ambiente so­ciale e religioso israelitico.

Per valutare gli insegnamenti di Proverbi dobbiamo allargare il con­fronto, di modo che non sia un confronto a due ma a tre: Proverbi, Ame­nemope e resto dell’Antico Testamento. Questo allargamento di oriz­zonte fornisce dati abbastanza sorprendenti.

Solo due ammonizioni di Proverbi si ritrovano nelle leggi dell’Antico Testamento: quella riguardante l’oppressione del povero e quella riguar­dante lo spostamento dei confini. Delle due, solo la seconda ha un pa­rallelo abbastanza stretto:

Non spostare il confine del tuo prossimo che hanno fissato gli antichi (Dt 19,14).

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Le motivazioni che compaiono in Proverbi non sono paragonabili a quelle che accompagnano le leggi dell’Antico Testamento, e perciò una dipendenza diretta non è ipotizzabile; i contatti che si verificano si spie­gano bene come dipendenza di entrambi (istruzioni e leggi) dalla mo­rale popolare (o tribale) tradizionale.

La sorpresa maggiore viene dal confronto degli argomenti trattati. Solo due argomenti su nove (ricordiamo che le istruzioni quarta e deci­ma vertono sullo stesso tema) hanno un parallelo nelle leggi dell* Antico Testamento, mentre sei su nove hanno corrispondenti in Amenemope.

In tre casi poi non si tratta di corrispondenze casuali, ma addirittura Amenemope è la fonte da cui Proverbi ha attinto. Essi sono: il tipo del­l’iracondo, l’uomo abile nel suo ufficio, l’invito a pranzo con l’autori­tà. Infine, due argomenti sono comuni a Proverbi, Antico Testamento e Amenemope: l’oppressione del povero e lo spostamento dei confini.

Il confronto allargato permette di notare non solo le somiglianze ma anche le peculiarità. Richiamano l’attenzione tre tipi esclusivi di Pro­verbi, che non si trovano in Amenemope e neppure nel resto dell’Anti- co Testamento. Si tratta dei mediatori, dell’avaro e dello stolto. Sono tipi negativi che esemplificano comportamenti che il discepolo deve evi­tare o tali che richiedono da lui una speciale cautela.

Risulta così che il libretto biblico di formazione (Pro 22,22-23,11) non è una composizione che applica le leggi israelitiche all’ambiente dell’e­ducazione, ma è fin dall’origine un’opera autonoma, di tipo sapienzia­le, una composizione che si inserisce nella tradizione vicino-orientale antica.

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In effetti il brano di Proverbi è profondamente legato alP Insegnamento di Amenemope poiché ha in comune con esso la maggior parte degli argomenti e delle motivazioni. Questo non significa però che anche la concezione del mondo e della vita sia identica.

L ’ideale di vita che risulta dalle istruzioni di Proverbi è al negativo: azioni da non fare, persone da evitare. Per trame il positivo occorre interpretare i singoli argomenti alla luce del resto del libro.

Secondo i maestri di sapienza il comportamento ideale deve anzitut­to rispettare i poveri e gli orfani nei loro diritti e nella loro proprietà, tenendo ben presente che Jahveh stesso va in soccorso alla loro debo­lezza e farà loro giustizia. Questo è il dovere fondamentale del saggio. Esso compare anche nella legislazione biblica e costituisce il fondo della morale tradizionale.

Le istruzioni dei saggi toccano situazioni che non rientrano nelPam­bito del diritto biblico né sono oggetto dell’insegnamento profetico. Pre­sentano norme di comportamento riguardanti aspetti della vita quoti­diana individuale che non vengono presi in considerazione dal resto del­l’Antico Testamento. Sono problemi minori ma non privi di significato in vista di quella vita ordinata e felice nel mondo creato da Dio che è l’ideale del saggio. Alcuni di questi problemi sono connessi con la vita dell’uomo in quanto tale, altri con la vita del funzionario dello stato.

La scelta oculata delle compagnie è importante soprattutto per il gio­vane. Un tipo che bisogna assolutamente evitare è l’iroso, cioè colui che rifiuta l ’ordine del mondo e della società, che non vuole inserirsi in esso e in definitiva non riconosce Dio. Con l’avaro è necessario non stringere alcuna relazione impegnativa, né bisogna lasciarsi ingannare dal suo modo in apparenza gentile, poiché egli tutto fa per il suo torna­conto e quello che dà lo esige poi con l’interesse.

Lo stolto è il modello negativo del discepolo, poiché è l’opposto del saggio. Lo stolto si manifesta in modo speciale nel parlare, nell’uso scon­siderato della lingua. Nella società che è descritta in Proverbi è impor­tante che il saggio, e in particolare il funzionario pubblico, sappia di- scemere correttamente quando parlare e quando tacere, cosa dire e co­sa nascondere, a chi rivolgersi e chi evitare. Lo stolto è uno da evitare, poiché è inutile e dannoso fargli raccomandazioni o correzioni.

L ’argomento della ricchezza è quello in cui Proverbi si mostra mag­giormente indipendente rispetto ad Amenemope. Nel passo di Prover­bi (23,4-5) si tratta della ricchezza in generale, mentre il testo parallelo di Amenemope tratta della ricchezza proveniente da furto. Forse si ri­flette qui la diversa impostazione delle due società. La società egiziana era fortemente centralizzata; il faraone era padrone di tutto e tutto am ­ministrava tramite i suoi funzionari. In questa società c ’era un posto limitato per l ’iniziativa privata. Il funzionario poteva essere tentato di approfittare dei poteri affidatigli per il suo proprio interesse; ma ciò era pericoloso perché i controlli erano severi. La società israelitica invece

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fu sempre piuttosto frammentata in unità tribali e familiari, anche nel periodo della monarchia unita. L ’iniziativa privata poteva perciò eser­citarsi meglio e l’attività finanziaria libera era fiorente.

Così si comprende che ben due istruzioni di Proverbi su dieci tratti­no dell’attività finanziaria diretta ad accumulare ricchezze. Esse affer­mano con forza che la ricchezza non è una cosa stabile sulla quale possa fondarsi lo scopo della vita. La sapienza deve essere questo scopo e per essa vale la pena impegnare le proprie energie.

Due istruzioni riguardano esplicitamente la carriera del discepolo e dipendono strettamente da Amenemope. Le composizioni didattiche egi­ziane non s’interessano solo della carriera m a anche delFeducazione umano-religiosa dell’individuo. Questo è vero per Amenemope e ancor più per Proverbi.

Alcuni dettagli della brevissima istruzione 5 di Proverbi meritano una nota in più di commento. Il testo parla genericamente di «uomo», non di «scriba abile nel suo ufficio» come il modello egiziano. Inoltre, l’uso del plurale nell’espressione «davanti ai re egli sta» (cioè al loro servizio) significa forse che il saggio propone al discepolo l ’esempio del funzio­nario delle corti estere. E l’aggiunta «non sta davanti a gente oscura» presenta la professione dello scriba o funzionario statale in contrappo­sizione alle altre professioni a servizio dei privati.

Si sente, in questo, u n ’eco della cosiddetta «satira dei mestieri», un genere di composizione tipico dell’Egitto e legato all’ambiente della scuo­la, che esalta la professione dello scriba sopra ogni altra possibile. E un genere tipico dell’Egitto ma servì da modello anche a una composizio­ne tardiva come quella del Siracide (Sir 38,24-39,11), del III-II see. a.C.

Un passo del libretto di formazione (Pro 23,1-3) si riferisce a una cir­costanza speciale nella carriera del discepolo: il giorno in cui egli, gio­vane scriba, è invitato alla mensa di un ’autorità del governo. E una circostanza speciale perché egli viene ammesso all’intimità di un perso­naggio importante; ma è anche una circostanza pericolosa perché i cibi squisiti, a cui forse egli non è abituato, possono tentare la sua avidità e fargli dimenticare le buone maniere. L ’avidità dimostrata sarà un in­dizio negativo per l ’autorità, che ne trarrà le conseguenze, e la carriera dello scriba sarà compromessa.

Le somiglianze con il testo egiziano attestano nel mondo sapienziale biblico una profonda apertura ai valori dell’ambiente circostante, che pure era così diverso dal punto di vista religioso. Questa apertura non è però incontrollata, ma è regolata da un forte senso della società e del­la mentalità israelitica.

Fu probabilmente l’orientamento fondamentale verso il Dio creatore e garante dell’ordine che permise al movimento biblico di inserirsi così profondamente nel movimento intemazionale, soprattutto egiziano, il quale si basava parimenti sul principio dell’ordine divino del mondo personificato nella dea della verità M a’at. L’altro orientamento princi­pale dell’Antico Testamento, quello della storia di Israele, dell’elezione

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e del patto, tendeva al contrario verso una chiusura rispetto al mondo esterno, allo scopo di salvaguardare la fede nel Dio nazionale e l’identi­tà del popolo.

U n ’analoga apertura verso il mondo circostante conserva anche Ben Sira che pure scriveva in epoca di crisi per la fede di Israele di fronte al pericolo dell’ellenismo. Si tratta effettivamente di un’attitudine pro­pria della mentalità e della teologia del movimento sapienziale.

Non si può dire che Israele si sia accontentato di sostituire Jahveh al nome degli dèi stranieri lasciando immutata la concezione fondamen­tale della divinità. Le somiglianze, considerate insieme alle differenze, non solo non escludono ma anzi esigono un quadro religioso specifica- mente israelitico nel quale somiglianze e differenze possano essere spie­gate e composte in un disegno coerente.

Scorrendo il resto del libretto di formazione, cioè la seconda e la ter­za parte (Pro 22,12-25 e 23,26-24,22), il quadro ottenuto finora si al­larga e si arricchisce soprattutto nella dimensione sociale.

La seconda sezione è fondamentalmente positiva. Si apre con un in­vito alla correzione educativa, che secondo la prassi antica non era solo a parole:

Non trattenere dal giovane la correzione, poiché se lo percuoti col bastone non morirà; se tu col bastone lo percuoti, la sua vita dallo sheol salverai (Pro 23,13-14).

Se viene corretto, il giovane conserverà la vita e non si perderà nello sheol (il regno dei morti). Questo accenno al futuro apre una prospetti­va che non si esaurisce nelPambito della vita terrena ma lascia intrave­dere uno spiraglio di fede in u n ’esistenza dopo la morte.

L ’accenno al futuro ritorna anche nell’istruzione seguente:

Figlio mio, se è saggio il tuo cuore, si rallegra il mio cuore stesso ed esultano i miei reni, quando parlano le tue labbra cose rette.Non invidi il tuo cuore i peccatori ma i timorati di Jahveh ogni giorno, poiché certo ci sarà un futuro per te e la tua speranza non sarà stroncata (Pro 23,15-18).

L ’invito alla sapienza del cuore si concretizza nel non invidiare i pec­catori. Non inganni il miraggio del guadagno facile! Al contrario, il gio­vane deve emulare i timorati di Jahveh perché allora, nonostante tutto, c’è un futuro e una speranza che non finisce con la morte.

Un rinnovato appello al giovane perché ascolti e diventi saggio, in­troduce una messa in guardia molto severa di fronte a un tipo negativo detto mangione e beone, o indolente:

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Non essere tra quelli che trangugiano vino, tra quelli che sono prodighi di carne per sé,poiché il beone e mangione sarà ridotto in miseria e di pezze lo rivestirà l’indolenza (Pro 23,20-21).

I due tipi vengono abbozzati a rapide pennellate e descritti con tratti che non sono affatto bonari ma estremamente severi. Sia il mangione e il beone che l’indolente finiscono nella miseria. O ra, la miseria è ne­gazione della vita, più specificamente della qualità della vita, che com­prende una casa, una famiglia, numerosi figli, ricchezze e onore nella società.

La seconda parte del libretto di formazione termina con un ’esorta­zione ad ascoltare i genitori e a «comprare la verità, saggezza, corre­zione e intelligenza» (Pro 23,23), cioè a impegnare tutto, energie, tem­po e ogni possibilità di guadagno, per raggiungere l’ideale di vita del saggio, ideale severo ma che dà gioia e pienezza.

La parte finale del libretto di formazione, con le molte difficoltà che presenta, si apre con un rinnovato invito a seguire le vie del maestro di sapienza e perciò evitare le insidie della prostituta che è «straniera» alla società (Pro 23,26-28).

L’istruzione successiva è uno dei passi più vivaci che sia dato di leg­gere nelle composizioni dei saggi:

Per chi l’ohi? per chi Fohimè?per chi le liti? per chi la discussione?per chi le ferite per niente? per chi il rossore degli occhi?Per quelli che si attardano sul vino, per quelli che vanno a scrutare il boccale.Non guardare il vino come rosseggia, come sparge nella coppa il suo scintillio, come scorre morbidamente.Alla fine come un serpente esso morde e come un basilisco pizzica.I tuoi occhi vedranno cose strane e il tuo cuore pronuncerà parole perverse.E sarai come uno che giace nel cuore del mare e come uno che giace in cima a un’isola (?).Mi hanno percosso? non ne ho sofferto!Mi hanno bastonato? non me ne sono accorto!Quando mi sveglierò? tornerò a cercarlo di nuovo! (Pro 23,29-35).

Anche in questo caso la descrizione non è affatto bonaria. Il testo in­siste sulle conseguenze devastanti del bere. Dietro la facciata sontuosa— ricchezza del boccale, morbidezza del vino che rosseggia — si cela una realtà ben diversa. L ’ubriachezza allontana il giovane dall’ideale della sapienza e della vita ordinata della società, lo immerge nel vizio e nelle risse.

Della terza parte del libro di formazione, la più lunga e complessa, possiamo solo elencare i temi trattati. L’argomento generale riguarda il comportamento sociale del giovane.

Troviamo anzitutto u n ’ammonizione a non invidiare i malvagi, per­

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ché la loro condotta è contraria alla sapienza e nemica della società (Pro 24,1-2). Per corroborare il suo insegnamento, il maestro cita un detto sui vantaggi della sapienza: grazie ad essa il discepolo potrà fondare una famiglia prospera e inserirsi ai posti di responsabilità nella società (24,3-6). Segue, collegato, un detto sugli svantaggi di scegliere la falsa sapienza, cioè la ricchezza acquistata facendo il male. Lo stolto, osser­va il maestro, non ha voce nella società, anzi viene rifiutato da essa (24,3-9).

Un passo di difficile interpretazione inculca fortemente la responsa­bilità sociale del saggio. In base alla sua scelta della sapienza, il disce­polo deve intervenire in favore del prossimo oppresso, altrimenti Diolo punirà:

Se agisci da indolente nel giorno dei torbidi, poca è la tua forza!Strappa i prigionieri dalla mortee quelli che sono prostrati, dalla strage devi risparmiare!Poiché se dici: — Non lo sa Egli —,forse Lui che esamina i cuori non lo comprende?e Lui che custodisce la tua anima non lo sae non rende all’uomo secondo il suo agire? (Pro 24,10-12).

Il maestro ritorna quindi sul tema della sapienza inculcando al disce­polo di fame personale esperienza, confortato dalla promessa del futuro:

Mangia, figlio mio, il miele perché è buono e il favo di miele perché è dolce sul tuo palato.Così considera la sapienza per la tua anima!Se la trovi, ci sarà per te un futuro e la tua speranza non sarà stroncata (Pro 24,13-14).

Il maestro continua con u n ’ammonizione a non far del male al giu­sto come fa il malvagio, abbandonando così la scelta della sapienza, per­ché Dio veglia sul giusto, mentre il malvagio va in rovina (24,15-16). A questa ammonizione si collega un’istruzione: chi si rallegra della sven­tura del nemico diventa malvagio a sua volta e su di lui ricade l’ira di­vina (24,17-18).

Il brano si conclude con due istruzioni complementari: non irritarsi a causa dei malvagi, perché la loro prosperità è di breve durata; piutto­sto temere Dio e le autorità, i quali hanno il potere di causare la rovina di chi trasgredisce il suo posto nella società. Richiama l ’attenzione l’am­monizione finale che mette sullo stesso piano Jahveh e il re:

Temi Jahveh, figlio mio, e il re e con gli alti ufficiali non immischiarti, poiché all*improvviso si produce la loro rovina e la sventura di entrambi, chi la conosce? (Pro 24,21-22).

In effetti un unico imperativo «temi!» esprime il dovere verso Dio e verso il re suo luogotenente sulla terra. Vengono nominati anche gli alti ufficiali che aiutano il re nel governo e così partecipano anch’essi al potere divino. L ’espressione «temi, non immischiarti» è un invito a riconoscere prudentemente il potere che il re e i funzionari hanno in

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comune con Dio, a tenere diligentemente il proprio posto nella società e a non voler oltrepassare i limiti imposti ai sudditi.

Dopo questo viaggio attraverso un antico libretto di formazione, il paziente lettore si sarà fatta un’idea del tipo di formazione che veniva impartita in una scuola israelitica per i giovani dell alta società. Il viag­gio è stato certo non privo di asperità, ma ne è valsa la pena se il risul­tato è penetrare almeno un po’ nel mondo dei saggi.

Una formazione fortemente sociale, dicevamo, quella impartita ai di­scepoli della sapienza. In effetti la sapienza non è qualcosa che si limita alla sfera privata dell’individuo, alla sua formazione interiore, e nep­pure all’ambito della famiglia. Non condanna il mondo né l’uomo e per­ciò non esige di estraniarsi dalla realtà per rifugiarsi in un circolo ri­stretto di adepti. Al contrario vede il mondo come creazione di Dio, l’uomo come parte dell’umanità in questo mondo. Il saggio non deve restare isolato ma vivere nella società ordinata in cui Dio creandolo l’ha inserito.

Secondo la concezione israelitica, la vita delPuomo si svolge nella «casa del padre», nel suo «clan», nella sua «tribù»; l’insieme delle tribù si

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chiama «Israele», «Casa di Israele», o «popolo di Jahveh». Dobbiamo avvertire subito che nessuno di questi termini compare nella sapienza più antica, rappresentata da Proverbi, e non senza significato. In Pro­verbi si parla di «casa» in senso fisico e in senso di famiglia, di «città» con le sue varie istituzioni, di «re», ma nulla richiama la realtà peculia­re di Israele; al contrario si parla di «uomo» e di «popolo» senz’altra specificazione.

Va precisato il senso di un termine importante nel libro dei Prover­bi: «uomo» {adam). E un termine caratteristico dei primi capitoli della Genesi (Gn 1-11), dove si parla di eventi che toccano l’umanità nel suo complesso: la creazione, il peccato e la cacciata dal paradiso, il diluvio e la dispersione. Designa l’uomo in senso collettivo, prima e fuori di ogni determinazione di razza, lingua, luogo.

L ’alta frequenza del termine adam in Proverbi (45 volte) dipende dal fatto che la religione della sapienza si basa sulla fede in Jahveh creatore e quindi sulla concezione dell’uomo come creatura (appunto adam)t chia­mato a occupare il suo posto e svolgere il suo compito nel mondo. Ciò significa che l’individuo di Proverbi non è visto come membro del po­polo eletto e della comunità cultuale di Israele. T ra parentesi notiamo che la mancanza di sentimento nazionale in Proverbi, in opposizione ad esempio a Deuteronomio in cui esso è fortissimo, è un segno di alta antichità.

Dio, che ha creato l’ordine del mondo e lo conserva, ha affidato al re il compito di farlo rispettare nell’ambito della vita sociale (ammini­strazione della giustizia). Il posto del re è dunque accanto a Dio come responsabile dell’ordine e della giustizia con potestà di punire e di ri­compensare. E il contegno guardingo nel trattare con le autorità non è frutto di opportunismo ma di una visione unitaria ed equilibrata della società e dell’ordine voluto da Dio. D ’altra parte, inviti ad essere pru-

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denti nei contatti con i re e i funzionari s’incontrano anche nelle sa­pienze extrabibliche.

L ’uomo, perciò, in quanto creatura di Dio è strettamente legato alla sua famiglia, alla sua città e alle loro istituzioni. E alle prese con i pro­blemi che la vita sociale comporta, sotto la guida del re e dei suoi fun­zionari custodi dell’ordine cosmico con autorità divina.

L ’ambiente della sapienza, e in particolare del nostro libretto di for­mazione. è quello della vita di città, presso la corte del re, probabil­mente l’ambiente della scuola per i funzionari statali o comunque per i figli delle classi influenti della società. Altri testi di Proverbi, però, pre­suppongono un ambiente diverso, borghese o contadino.

Bisogna tener ben presente che la società non è intesa nel senso mo­derno di comunità civile o laica ma sacrale, in quanto essa crede in Jah ­veh creatore, si regola in base alle tradizioni ancestrali e alle istruzioni dei saggi ed è amministrata dal re «figlio di Dio».

Espressioni singolari, tipiche della letteratura della sapienza (Proverbi, Giobbe, Siracide), si leggono nel libretto di formaziDne che stiamo esa­minando: «comprare la sapienza» (Pro 23,23), e «trovare la sapienza» (24,14). La prima espressione incrocia la dimensione del denaro, un bene della vita, la seconda la dimensione della ricerca.

Confrontando i passi in cui quelle espressioni ricorrono, si ricava che per comprare la sapienza bisogna ascoltare l ’insegnamento, compreso il rimprovero, e impegnare tutto ciò che si possiede. Le due condizioni non si realizzano in modo automatico. Infatti lo stolto è incapace di ascol­tare e non impegnerà mai ciò che ha per acquistare la sapienza perché non comprende che essa vale più dei tesori; al contrario, per lui «le per­le sono la somma sapienza» (Pro 24,7).

C ’è ragione di ritenere che i verbi «comprare» e «trovare» vengano detti della sapienza perché essa viene assimilata a una donna. Confron­tiamo i seguenti testi:

Come inizio della sapienza, compra la sapienzae con ogni tuo possesso compra l’intelligenza (Pro 4,7).Compra una donna come inizio di ogni possesso (Sir 36,29a).

Secondo il testo ebraico (che si può accettare convè) Pro 4,7 afferma che l’inizio della sapienza è esattamente comprare la sapienza a prezzo di ogni possedimento. Viene nominata qui una delle due cose che ven­gono dette «inizio della sapienza» (l’altra è il «timore di Dio»: Pro 1,7). Per ora interessa notare la somiglianza di vocabolario e di frase con il testo di Siracide. E chiaro che in Siracide la donna è considerata in mo­do analogo alla sapienza perché i due termini si scambiano come ogget­to di una frase del tutto simile.

Anche in altri passi di Proverbi, sapienza e donna si scambiano in frasi quasi identiche:

Poiché chi mi trova trova la vitae incontrerà benevolenza da Jahveh (Pro 8,35, park Signora Sapienza).

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Chi trova una donna trova il bene e incontrerà benevolenza da Jahveh (Pro 18,22).Beato l’uomo che trova la sapienza e l’uomo che incontra Vintelligenza (Pro 3,13).Una donna di valore chi può trovarla? (Pro 31,10a).

Alla luce dello stretto parallelismo sapienza-donna, si comprende be­ne la personificazione della sapienza come una Signora che invita gli ìomini nella sua casa (Pro 1,20-33: 8,1-36; 9,1-12), in contrapposizio­ne alla stoltezza, anch’essa personificata come una donna che ha le ca­ratteristiche della prostituta (si confronti 9,13-17 con 7,6-20). E inten­done del maestro presentare, in questo modo, la sapienza come la spo- >a del discepolo al posto della donna straniera.

L ’antica concezione della sapienza, che veste i panni della donna, spira testi appassionati, molto posteriori a Proverbi ma non lontani per ì sentimento che li anima:

Da quando fui ragazzomi compiacqui di lei, la cercaie pregai ardentemente dalla mia giovinezza.Nella sua verità camminò il mio piede;Signore, dalla mia giovinezza imparai la sapienza.Il suo giogo fu per me gloria e ai miei maestri darò lode.Ho pensato di fare il bene e non mi rivolgerò ma la troverò.E attaccata a lei l’anima mia e il mio volto non rivolgerò da lei.La mia mano aprì le sue porte, da lei entrai e la contemplai.La mia anima posi dietro di lei,in eterno per sempre non mi allontanerò da lei.Cuore ho comprato per essa fin dal suo principio (...).Le mie viscere si agitano come una fornace al contemplarla e per questo motivo l’ho acquistata come un buon acquisto (Sir 51,13-21, ms B).Questa ho amato e ho ricercato fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prenderla come sposa per me e mi sono innamorato della sua bellezza.Nobiltà manifesta vivendo insieme con Dio, e il Signore di tutti l’ha amata (...).Ho deciso pertanto di prendere questa per vivere insieme sapendo che sarà per me consigliera di beni e conforto dalle preoccupazioni e dai dolori.Avrò a causa di lei gloria tra le folle e onore presso gli anziani, io che sono giovane (...).Entrato in casa, troverò riposo presso di lei, infatti non ha amarezza la sua compagnia, né dolore il vivere insieme con lei, ma è benessere e gioia (Sap 8,2-3.9-10.16).

Letta in questa prospettiva acquista senso nuovo una frase con cui la Sapienza personificata esprime il suo rapporto con Jahveh:

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Jahveh mi ha comprata come inizio della sua via, agli albori della sua attività, da allora (Pro 8,22).

Vari autori moderni traducono «mi ha creata» invece di «mi ha com­prata», secondo un altro senso del verbo ebraico qanà. Ma è quanto mai sorprendente la somiglianza di questa frase con quelle citate sopra, che raccomandano in modo analogo Pacquisto della sapienza e Pacquisto della donna della propria vita:

Come inizio della sapienza, compra la sapienza e con ogni tuo possesso compra l’intelligenza (Pro 4.7).Compra una donna come inizio di ogni possesso (Sir 36,29a).

È temerario concludere che anche Jahveh all’inizio della sua attività ha «comprato la sapienza», ovvero ha «comprato una donna», e dun­que ha in qualche modo formato la sua famiglia?

In questa prospettiva Dio risulta il modello delPuomo saggio: pro­getta la sua opera con la sapienza, quasi prendendola come moglie, e così inizia la sua attività su solida base. Non si poteva esaltare in modo più elevato l’ideale di vita che i maestri propongono ai giovani.

E certo un linguaggio umano, analogico, come direbbero i teologi, ma non disdicevole alla maestà di Dio. Comprare la sapienza, cioè pro­gettare l ’universo, e formare la famiglia divina sono presentati come inizio delPopera della creazione. Non per niente nella prima pagina della Bibbia leggiamo: «Facciamo un uomo secondo la nostra immagine, se­condo la nostra somiglianza», con forme al plurale (Gn 1,26).

Nel testo di Proverbi citato sopra troviamo una chiave di lettura di questo plurale inquietante per la fede monoteistica, laddove la Sapien­za personificata si vanta di essere stata accanto a Dio al momento della creazione. Prima che ogni cosa esistesse, ella fu sua compagna nella gioia e nel gioco. Da quel mirabile dialogo d'amore è nato Puniverso:

Allora ero presso di lui, l’architetto, ero tutta delizie giorno dopo giorno, giocando davanti a lui in ogni tempo, giocando sulFuniverso della sua terra,e le mie delizie sono (ora) con i figli dell’uomo (Pro 8,30-31).

Questa grandiosa concezione raggiunge pienezza di significato nella rivelazione del mistero della vita intima di Dio, della sua realtà di Fa­miglia trinitaria. M a, prima ancora, una misteriosa disposizione ha gui­dato Pantica speculazione giudaica, e poi più chiaramente quella giudeo- cristiana, verso la rivelazione piena del mistero di Dio. Questo è avve­nuto proprio facendo leva sul rapporto di Dio con la sapienza. Sono illuminanti, al riguardo, alcune antiche interpretazioni di Gn 1,26:

Fin dal principio con (la?) sapienza il Figlio del Signore portò a com­pimento il cielo e la terra (Targum Neofiti 1 di Gn 1,1).

Come fine della creazione formasti l’animale, cittadino del mondo, dan­do quest’ordine alla tua sapienza: «Facciamo un uomo secondo immagi­ne e somiglianza nostra», costituendolo ornamento del cosmo (Costituzioni Apostoliche, VII, XXXIV).

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Uno solo è Colui che disse alla sua sapienza: «Facciamo un uomo». Questa sapienza, poi, con la quale come col proprio spirito Egli sempre godeva, è unita come Tanima a Dio. ma si estende lontano da lui come mano creando tutto. Per questo appunto un solo uomo venne all’esisten­za, ma da lui procedette anche la femmina (Omelie Clementine, XVI, XII).

Il testo deltargum è ambiguo. Si può intendere infatti: «con sapien­za il Figlio del Signore portò a compimento», e allora si afferma la dot­trina antica che Dio creò con sapienza, cioè concependo un piano pre­ciso ed eseguendolo (Pro 3,19). Ma si può intendere anche: «insieme con la sapienza... », cioè in sua compagnia, e allora il targum andrebbe nella direzione interpretativa degli altri due testi citati.

Non può sfuggire, in particolare, la suggestione del passo delle Ome­lie Clementine. L ’uomo primordiale, esso dice, rispecchia la misterio­sa, profonda connessione di Dio e della sapienza; per questo l’uomo nacque uno e insieme duplice, maschio e femmina. E un modo alta­mente suggestivo di interpretare la singolare formulazione di un passo biblico ben noto che passa dal singolare «lo creò» al plurale «li creò»:

Dio creò Fuomo a sua immagine e secondo la sua somiglianza;a immagine di Dio lo creò,maschio e femmina li creò (Gn 1,27).

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La frase «il timore di Jahveh è inizio della sapienza» viene conside­rata, e a ragione, il motto del movimento sapienziale. La traduzione migliore della parola ebraica reshit è «inizio», non «parte migliore», op­pure «compendio» come preferiscono alcuni esegeti.

La formula significherà quindi che il timore di Dio conduce alla sa­pienza. Esso dispone ad acquistarla e la insegna (von Rad, La sapienza, 68).

Alcuni passi di Proverbi danno quasi una definizione del timore di Jahveh: è conoscenza di Dio (Pro 2,5) o del Santissimo (9,10), è odiare il male (8,13; cfr. 16,16), correzione e saggezza (15,33; cfr. 1,7; Gb 28,28), ricchezza, onore e vita (Pro 22,4). Altri passi enumerane i van­taggi del timore di Jahveh: aumenta i giorni (18,27), è fonte di vita per sfuggire dai lacci della morte (14,27; cfr. 19,23), è fiducia forte per chilo possiede e rifugio per i figli di lui (14,26). Non designa quindi paura ma piuttosto quel timore che è frutto di una piena conoscenza di Dio e della sua maestà trascendente. E l ’atteggiamento religioso di fronte al divino.

Se il timore di Jahveh è il principio della sapienza, da alcuni testi appare che lo stesso timore ha un «prima»:

Il timore di Jahveh è correzione e sapienza e prima dell’onore viene l’umiltà (Pro 15,33).Prima della disgrazia l’uomo è altezzoso e prima dell’onore (viene) l’umiltà (Pro 18,12).Frutto dell’umiltà è il timore di Jahveh, ricchezza e onore e vita (Pro 22,4).

Perciò il timore di Jahveh (e gli altri beni collegati) sono frutto del­l’umiltà. Possiamo così delineare l’intero processo che conduce alla sa­pienza. L ’umiltà conduce al timore di Jahveh; il timore di Jahveh con­duce alla sapienza. E uno degli «inizi» di essa in quanto pone l’uomo nella giusta posizione verso Dio e lo conduce alla sapienza, che è fonda­mentalmente sapienza di Dio.

Ma la sapienza ha un altro «inizio», indicato come «comprare la sa­pienza». Questa espressione si trova collegata al dovere di ascoltare l’in­segnamento e dare tutto ciò che si possiede per acquistarla. E il secon­do inizio in quanto implica il riconoscimento che la sapienza è il tesoro più alto della vita e per esso vale la pena impegnare energie e ricchezze.

Infine, «trovare la sapienza» indica lo stato finale e maturo del pro­cesso. In connessione con questa espressione vengono enumerati i van­taggi che ne derivano: vita e guarigione (4,22), vita e benevolenza da parte di Dio (8,35); un futuro e una speranza (24,14; cfr. 3,13-20).

Viene spontaneo ricordare un detto evangelico in cui la medesima terminologia del cercare e del trovare viene applicata al regno di Dio:

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; trovatolo, un uomo lo ha nascosto e pieno di gioia va, vende quanto ha e compra quel campo.

Di nuovo, il regno dei cieli è simile a un mercante che cerca perle pre­ziose. Trovata una perla di grande valore, andato, ha venduto quanto aveva e l’ha comprata (Mt 13,44-45).

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G iobbe O IL LIMITE E L’INFINITO

1 libro di Giobbe e quello di Qoelet vengono considerati dagli stu­diosi due scritti tardivi critici dell’antica sapienza di Israele, rap­presentata in modo eminente dal libro dei Proverbi. Proverbi è otti­

mista fino a rischiare di essere dogmatico, dimentico e staccato dalla realtà quotidiana; Giobbe e Qoelet sono pessimisti fino a rischiare di essere blasfemi.

Un giudizio del genere è talmente diffuso che è difficile dissentire. Si rischia di essere presi per fondamentalisti, per gente che vuole far concordare la Scrittura ad ogni costo (il che era poi preoccupazione dei rabbini di Israele e dei padri della Chiesa). Eppure se si leggono i testi senza idee prefabbricate, desunte dai manuali, quel giudizio appare mol­to schematico. Riflette la preoccupazione di sistematizzare, di applica­re un modello logico di sviluppo del pensiero, un modello che il testo, letto nella sua interezza e complessità, non sembra giustificare.

Si rischia di contrapporre fede (Proverbi) e ragione (Giobbe e Qoe­let), con la conseguenza non certo innocua di applicare al pensiero bi­blico uno degli equivoci più miopi e deteriori del pensiero filosofico mo­derno. Infatti la contrapposizione fede-ragione non è mai esistita nel mondo biblico né in quello antico in generale, e forse neppure nel mon­do occidentale fino al cosiddetto illuminismo. D ’altra parte, in un pre­sunto sviluppo logico del pensiero (dalla sapienza ottimista e quasi in­genua di Proverbi, a quella critica e quasi filosofica di Giobbe e Qoelet) mal si colloca un libro ottimista non meno di Proverbi, come Siracide, posteriore sia a Giobbe che a Qoelet.

Cosa fare allora? Ignorare semplicemente le terribili invettive di Giob­be o le devastanti considerazioni di Qoelet? Certo che no. Piuttosto porsi di nuovo all’ascolto dei testi con umiltà e apertura. Non eliminare le tensioni né in un senso né nell’altro, privilegiando l’aspetto negativo o quello positivo. Trovare il modo di comporre le tensioni perché in fondo a questo tendono testi del genere.

Dobbiamo considerare bene questo aspetto. Abbiamo a che fare con testi che non sono dogmatici o scientifici nel senso moderno del termi­ne, né sistematici. Vi troviamo lamenti, confessioni, paradossi, affer­mazioni contrastanti giustapposte l’una all’altra. Spesso le conclusioni vengono lasciate al lettore. Tutto lascia intendere che la verità non sta in una opinione con esclusione di quella contrapposta; essa, al contra­rio, risulta dalla tensione delle opposte opinioni.

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La contrapposizione paradossale, quasi brutale delle opinioni che tro­viamo in alcuni libri sapienziali, ha lo scopo di creare nel lettore uno stato d ’animo conseguente, adogmatico e asistematico come sono i te­sti. La realtà creata è sempre mutevole, ambigua, sfuggente; non è un oggetto di studio e di ricerca, ma piuttosto un soggetto con cui bisogna instaurare un rapporto. E un soggetto imprevedibile, elusivo perché pos­siede in sé il marchio del divino. Dio che ha creato l’ordine del cosmo, si nasconde dietro di esso, m a è presente e interviene per assicurarne il funzionamento. E perciò tu tt’altro che un ordine fisso, come qualcu­no ha inteso, stabilito una volta per tutte, un sistema che funziona in virtù della spinta iniziale ricevuta dal Creatore, il quale se ne starebbe per i fatti suoi al di sopra delle nubi.

Dire che il lettore deve fare la sintesi delle opinioni contrapposte si­gnifica che deve ritenere la verità sia dell’una che dell’altra. Di conse­guenza, la sintesi non potrà mai essere indolore né definitiva. Domine­rà l’aspetto positivo o quello negativo, secondo le circostanze, eie cir­costanze non saranno frutto di un destino cieco ma segno di Dio e ma­nifestazione del suo libero intervento nelle vicende degli uomini.

Lo scopo finale di questa incomoda situazione è insegnare il timore di Dio. L ’uomo non sia mai sicuro del risultato, convinto che esso, in ultima analisi, non dipende da sé ma da Dio; non ritenga nessun com­portamento definitivo e valido per ogni situazione. Portato alla tensio­ne estrema, si può dire che non esiste un comportamento buono in as­soluto; tutto è da ri-decidere caso per caso.

Radice di questa situazione dell’uomo nel suo rapporto col mondo è Dio. L’esperienza è ambigua perché è incontro con il Creatore trami­te le creature. In fondo, tutto si riduce al rapporto tra Dio e l’uomo, il Creatore e la creatura. Il problema non è la sofferenza del giusto (Giob­be) o la vanità di ogni cosa (Qoelet), e neppure la dottrina della retri­buzione; il problema è il rapporto con Dio: «Come può l’uomo essere giusto di fronte a Dio?» (Gb 9,2); «L’uomo non può raggiungere tutta l’opera (di Dio) che viene fatta sotto il sole» (Qo 8,17).

Giobbe e Qoelet non criticano la sapienza tradizionale in sé ma le deformazioni che immancabilmente ne derivano ogniqualvolta si affie­volisca il timore di Dio. Del resto non si può ridurre i maestri di Pro­verbi a una caricatura di saggi da tavolino, astratti dalla vita, dogmati­ci e insensibili alla realtà. Forse essi non sapevano che la vita spesso contraddice la fede, che il giusto riceve il male e il malvagio il bene? Certamente, la loro presentazione ottimistica dell’ordine del mondo è frutto di fede (Dio è giusto) e ha funzione pedagogica (facilitare l’accet­tazione da parte dei giovani). M a a chiunque legga attentamente non può sfuggire che i maestri di Proverbi non presentino affatto la realtà come univoca. Affermano infatti che il giusto può corrompersi (Pro 25,26), che anche contro di lui può rivolgersi l’ira di Dio (24,17-18), che i malvagi possono prosperare ma bisogna considerare la fine (23,17-18).

Esempio classico della deformazione della sapienza sono gli amici di Giobbe. Vanno da lui per consolarlo ma gli fanno torto, in quanto ne­

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gano la sua rettitudine per difendere la giustizia di Dio. Giobbe prote­sta contro gli amici che calpestano la sua coscienza e anche contro Dio che lo tratta da nemico; e Dio alla fine gli dà ragione.

L’intervento di Dio evidenzia la verità e insieme V insufficienza della protesta di Giobbe. Indubbiamente i suoi amici non hanno capito che Dio è ibero nel suo agire, e perciò può mandare sventura anche sul giusto, m a anche lui, Giobbe, non ha capito che non può chiamare Dio a rendergli conto. In questa prospettiva, che è quella di Dio e non del­l’uomo, la prosperità di Giobbe può benissimo convivere con le disgra­zie che gli capitano una dopo l ’altra e anche con la restaurazione del­l’antica prosperità. Ambedue le cose sono vere anche se appaiono con­traddittorie. In Dio si concilia la tensione e l’uomo diventa capace della lode. Non ha bisogno di capire la situazione contraddittoria perché ha capito che Dio è lì, dietro ad ogni avvenimento, e di lui si può fidare.

Si comprende, allora, che il limite che il saggio sperimenta nel suo rapporto con il mondo non equivale alle colonne d ’Èrcole, con il senso di frusirazione che esse producevano nell’uomo antico. Non è qualcosa che la divinità impone per gelosia e per paura che l’uomo attenti ai suoi privilegi. Il limite che il saggio sperimenta è il segno dell’infinito, è ri­velazione della presenza invisibile di Dio creatore e provvidente, incom­prensibile ma non capriccioso, generoso ma non arrendevole, padre che educa j non vizia i suoi figli, che dona tutto ma è anche esigente nel chiedere e duro nel richiamare.

Giobbe è una delle composizioni più sublimi dell’umanità e. proba­bilmente, la sua interpretazione è una sfida troppo grande per chiun­que. Ilsuo fascino comunque è irresistibile al punto che ogni interprete (non solo l’esegeta biblico) è tentato di misurarsi con esso.

Il canovaccio del libro non rende ragione della complessità del testo, tanto è semplice e privo di azione. Il nocciolo era una storia antichissi­ma, dilfusa nel Vicino Oriente antico. Infatti si conoscono paralleli piùo meno estesi nelle letterature extrabibliche di ambiente egiziano, ca­naneo e mesopotamico, in particolare il poema intitolato «Loderò il Si­gnore della sapienza», conosciuto come «Il poema del giusto sofferen­te» o «11 Giobbe babilonese». Nella tradizione biblica Giobbe viene ri­cordato per la sua giustizia dal profeta Ezechiele (Ez 14,14.20) e per la sua sopportazione nella Lettera di Giacomo (Gc 5,11).

La cata di Giobbe, forse più che di ogni altro scritto biblico, è un problema non risolto. D a una parte, il libro presenta elementi antichis­simi ccme il personaggio, il colorito patriarcale della storia e il dialogo a sfonco filosofico che ne costituisce la trama; dall’altra mostra, secon­do l ’opinione comune, una critica della sapienza tradizionale che lo fa datare in tardo periodo postesilico, se non addirittura in periodo elleni­stico. Probabilmente una datazione così bassa è follia, ma anche la da­tazione postesilica non ha argomenti solidi.

Il libro di Giobbe si può collocare in un periodo di sconvolgimenti

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socio-politici e religiosi (si legga il terribile capitolo 24) come fu il perio­do assiro, con la caduta di Samaria e la deportazione (722) e il contem­poraneo regno di Ezechia. Dato che presenta elementi settentrionali, legati al Regno del Nord, si può supporre che esso fu portato nel Sud dai rifugiati che vennero a Gerusalemme al tempo di Ezechia, insieme ad altre tradizioni settentrionali (tra cui forse il nucleo primitivo del Deu­teronomio).

Dal punto di vista letterario, si possono portare paralleli singoli ma il complesso del libro resta assolutamente unico. Il problema è, appun­to, il complesso: individuare le parti e la dinamica interna che le lega, poiché da ciò dipende l’interpretazione.

Poiché regna grande incertezza, la cosa più saggia è attenersi a quel­lo che è controllabile. Cerchiamo, perciò, di capire il libro di Giobbe come lo abbiamo nell’originale, lasciando da parte i problemi e le ri­strutturazioni proposte dagli esegeti moderni. Il piano del libro nella sua forma finale si presenta articolato in parti nettamente delimitate sia per il genere letterario, prosa e poesia, sia mediante esplicite indicazio­ni che introducono i personaggi che via via entrano in scena.

La composizione del libro di Giobbe che mostra la tabella accanto, non è casuale o priva di ordine. Ha una cornice in prosa: Giobbe pro­vato, Giobbe restaurato, e un corpo in poesia. La parte poetica presen­ta un alternarsi di soliloqui da parte di Giobbe: lamento (A), dichiara­zione di innocenza e sfida a Dio (A % e di dialoghi con personaggi diffe­renti: i tre amici (5), Eliu e Dio (B*).

Dopo una prova non comune di sopportazione, improvvisamente il protagonista erompe in un terribile lamento per la sciagura che si è ab­battuta su di lui; poi risponde ai tre amici che sono venuti a consolarlo,i quali si succedono ordinatamente in tre serie di interventi. La polemi­ca diventa sempre più aspra finché i tre sono ridotti al silenzio e il terzo amico, Zofar, addirittura non interviene nella terza serie. A quel punto Giobbe si rivolge esclusivamente a Dio con un’appassionata protesta di innocenza e una sfida aperta, quasi titanica, a entrare in giudizio con lui.

Dio non risponde subito alla sfida. Prima interviene un personaggio uscito come dal nulla, un giovane che si esibisce in tre, anzi quattro discorsi, a cui Giobbe non sa mai cosa replicare. Dopo di lui, senza al­cun segno di interruzione nel testo, parla Dio dalla tempesta. Termina­to il primo discorso, Dio si arresta per invitare Giobbe a rispondere, cosa che egli fa in forma laconica, e dopo il secondo discorso Giobbe si arrende pienamente al Signore dell’universo.

Gli interpreti trovano tensioni e addirittura contraddizioni nel piano del libro di Giobbe e ritengono che esso non sia originario. Molte parti, anche importanti, sarebbero aggiunte posteriori non ben amalgamate.

Uno dei maggiori problemi avvertiti è il rapporto tra cornice narrati­va e corpo poetico. Come è possibile che il Giobbe paziente della corni­ce diventi il Giobbe impaziente del corpo poetico? Come si può imma­ginare che Dio dia ragione a Giobbe e lo ristabilisca nel suo stato ante­riore, dandogli anzi il doppio di quanto aveva, dopo le accuse terribili

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Piano del libro di Giobbe

PROSA: Prologo

A ) Soliloquio

B) Dialoghi prima serie

seconda serie

terza serie

A ’) Soliloquio

B ’) Dialoghi

PROSA: Epilogo

che gli ha lanciato? Come può Dio preferire Giobbe che lo ha accusato ai tre amici che lo hanno difeso? Come si può conciliare la critica totale della dottrina tradizionale della retribuzione che si trova nella parte poe­tica (non è affatto vero che il giusto riceve il bene e il malvagio il male!) con la piena affermazione della medesima dottrina nella parte narrati­va? Se Giobbe è così critico della sapienza tradizionale ottimistica, co­me può pronunciare il poema della sapienza del capitolo 28 (che il testo attribuisce a lui) e vari altri passi in cui si riafferma la dottrina tradi­zionale?

Giobbe provato 1,1-2,13

Lamento di Giobbe 3

Interlocutori GiobbeElifaz 4-5 Risposta 6-7Bildad 8 Risposta 9-10Zofar 11 Risposta 12-14

Elifaz 15 Risposta 16-17Bildad 18 Risposta 19Zofar 20 Risposta 21

Elifaz 22 Risposta 23-24Bildad 25 Risposta 26

Aggiunta 27-28 (poema della sapienza)

Dichiarazione di innocenza di Giobbe e sfida a Dio 29-31

Interlocutori GiobbeEliu, introduzione 32 —

Eliu, primo discorso 33 —-Eliu, secondo discorso 34 —

Eliu, terzo discorso 35 —

Eliu, aggiunta 36-37

Jahveh, primo discorso 38-39 Jahveh, invito a rispondere40,1-2 Risposta 40,3-5Jahveh, secondo discorso 40,641,26 Risposta 42,1-6

Giobbe restaurato 42,7-17

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Gli esegeti trovano problemi ancora più gravi e consistenti. Eliu è ritenuto un intruso: esce dal nulla e subito vi ritorna (non è nominato né prim a né dopo); il suo lungo intervento disturba la composizione ri­tardando i discorsi divini e in parte anticipandone i temi. Gli stessi di­scorsi divini sono per molti aggiunta posteriore in quanto non hanno nulla a che vedere con il problema di Giobbe: non nominano la sua sof­ferenza né rispondono alle sue domande.

Questo e altro ancora trovano gli interpreti. Si comprende quanta confusione e disorientamento accompagnino il libro di Giobbe. Il letto­re ne deve essere cosciente per non rimanere sconcertato quando gli ca­pita di leggere opinioni contrastanti. I testi sono molto più grandi di noi; dobbiamo metterci al loro ascolto con umiltà per imparare, non pretendere di farcene giudici e di riscriverli a nostro piacimento. Non si nega l’utilità di tracciare la storia della loro formazione dal nucleo originario agli sviluppi posteriori lungo i secoli. M a dobbiamo essere coscienti che tale ricostruzione è quasi sempre opinabile e comunque ciò che importa in ultima analisi è il testo finale ispirato. Gli stadi ante­riori sono importanti in quanto aiutano a capire il testo finale, che è l’unico sicuro e contiene la rivelazione.

Per uscire dalla giungla è necessario focalizzare due punti di base: l’argomento del libro e il suo genere letterario. Infatti molti interpreti restano perplessi perché quello che ritengono sia l’argomento di base in effetti non lo è, e perché non capiscono la natura della composizione. Pretendono di trovare il loro tema preferito e se non lo trovano dicono: questa parte non è originaria. Oppure esigono una coerenza logica e di azione che corrisponde alla loro concezione ma non alla natura del libro.

Il problema del libro di Giobbe non è la sofferenza del giusto né la retribuzione o, come si scrive spesso, il legame tra azione buona o catti­va e la sua conseguenza corrispondente. Parlano di retribuzione quelli che vedono Dio all’opera nel ricompensare o punire gli uomini per le loro azioni. Altri parlano di collegamento quasi automatico tra azione e conseguenza, un collegamento insito nella natura stessa di ogni azio­ne, senza un intervento diretto di Dio.

Tale distinzione è probabilmente un vezzo interpretativo, ma si tro­va di frequente in opere che trattano di sapienza biblica. E un vezzo, e anche pericoloso, per il fatto che, è vero, la fraseologia biblica è spes­so reticente nei confronti di Dio, non lo nomina esplicitamente e lascia che l’ordine delle cose faccia il suo corso: la bontà stessa ricompensa e la malvagità punisce chi la compie. M a sappiamo oramai che secondo la sapienza biblica è Dio l’autore dell’ordine cosmico, il quale perciò non è qualcosa di anonimo e non è affatto paragonabile al destino.

Sofferenza del giusto e retribuzione sono problemi del libro di Giob­be ma non sono il problema di fondo. Questo viene enunciato più volte nel corso dei dialoghi. Dopo che Giobbe ha dato voce al suo lamento,

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il primo interlocutore Elifaz ne coglie subito il senso e le implicanze profonde:

Forse l’uomo davanti a Eloah (Dio) è giusto o davanti al suo Creatore è puro il mortale?Ecco nei suoi servitori non pone fede e i suoi messaggeri accusa di follia!Quanto più esseri che abitano case di fango,il cui fondamento è nella polvere,che vengono schiacciati come tarma? (Gb 4,17-19).

E più avanti aggiunge:Chiama pure, forse c’è chi ti risponda? e a chi dei santi ti rivolgerai? (5,1).

Elifaz ha colto nel segno: come può l ’uomo essere giusto di fronte a Dio suo creatore, far valere diritti, porre condizioni o chiamarlo a ren­dere ragione del suo operato? Anche se grida e strepita, come fa Giob­be, Dio non gli risponderà né potrà sperare che un qualche essere cele­ste interceda in suo favore!

Elifaz ribadisce il suo pensiero più avanti e Bildad gli fa eco quasi con le stesse parole nel suo ultimo intervento:

Cosa è l’uomo perché sia puro e sia giusto un nato di donna?Ecco nei suoi santi non pone fede e i cieli non sono puri ai suoi occhi!Quanto più è abominevole e corrottoun uomo che beve malvagità come acqua? (15,14-16).Come può essere giusto un uomo di fronte a Dio e come è puro un nato di donna?Ecco neppure la luna è senza difetto e le stelle non sono pure ai suoi occhi!Quanto più un uomo (che è) verme e un figlio d ’uomo (che è) un insetto? (25,4-6).

Di fronte a frasi così forti Giobbe non resta insensibile, anzi protesta. Sa anche lui che non potrà mai «essere giusto» (il che è più del semplice aver ragione!) di fronte a Dio che è così potente. Infatti se Giobbe ve­nisse a disputa con Dio, non potrebbe rispondergli, perché egli lo schiac­cerebbe con la sua maestà.

Senza dubbio so che è cosìe come può essere giusto un uomo di fronte a Dio?Qualora desideri contendere con lui non gli risponderà una volta su mille!Lui, saggio di cuore e potente di forza, chi può sfidarlo e restare sano?Lui che sposta le montagne senza che lo sappiano, che le rovescia nella sua ira (...).Se Eloah non ritira la sua ira,sotto di lui sprofondano gli alleati di Raab (mostri mitici).Quanto meno io gli potrò rispondere,

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potrò trovare parole davanti a lui?Lui che, anche se ho ragione («sono giusto») non gli potrò rispondere, ma al mio oppositore dovrò chiedere grazia (9,2-15).

Ecco dunque il problema: il rapporto uomo Dio, creatura Creatore, finito Infinito. La sofferenza di Giobbe è il caso che fa emergere il pro­blema, non è il problema stesso. E perché il problema risalti al massi­mo, il caso viene dipinto con abbondanza di tratti nel cosiddetto prolo­go, la cornice iniziale in prosa. Giobbe è «uomo integro e retto, timora­to di Dio e alieno dal male» (1,1). E ricco e potente, e perciò agli occhi di tutti benedetto da Dio. Dio permette che venga colpito nei possedi­menti, negli affetti più cari e quindi nella sua stessa persona per una specie di scommessa con Satana (un modo arcaico di «sceneggiare» il fatto che Dio stesso mette alla prova Giobbe). Lo scopo finale è dimo­strare che la sua pietà è del tutto disinteressata. E di fatto Giobbe supe­ra la prova in modo esemplare: «Nonostante tutto ciò, Giobbe non peccò e non attribuì alcun biasimo a Dio... Nonostante tutto ciò, Giobbe non peccò con le sue labbra» (1,22; 2,10).

Vengono tre amici a consolarlo, fanno lamento e restano seduti a terra per sette giorni e sette notti senza dire parola. A questo punto Giobbe che ha tutto accolto dalla mano di Dio senza lamentarsi, apre la sua bocca per maledire «il suo giorno». Maledire il giorno della propria na­scita può essere opera da insensato (Sir 23,14), ma nel caso di Giobbe

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(come in quello di Geremia: Ger 20,14-18) è frutto di amarezza morta­le ed è il necessario inizio del dramma.

Tutto ciò serve da cornice. La sofferenza di Giobbe è sofferenza di un uomo giusto che, tra l’altro, ha accettato tutto senza ribellarsi. Per­ché allora? D lamento del protagonista è contestazione del Creatore e del suo modo di reggere il mondo. Dire che il giorno diventi tenebra significa invocare il ritorno al caos primordiale prima che Dio dividesse la tenebra dalla luce. E la contestazione del governo di Dio avviene me­diante due «perché...?» che costituiscono il corpo del lamento di Giobbe:

Perisca il giorno in cui sono stato generato e la notte in cui si disse: E stato concepito un uomo!Quel giorno diventi tenebra, non lo ricerchi Eloah in alto e non appaia su di lui alcun raggio di luce! (...).Perché non sono morto già dal grembo, uscito dal seno e spirato? (...)•Perché Egli dà alFafllitto la luce e la vita a quelli dall’anima amara? (Gb 3,3.11.20).

Gli amici, perciò, hanno ben compreso: è in discussione il rapporto dell’uomo con Dio. Questo è il problema del libro di Giobbe.

Tutti lo comprendono, sia gli amici che Giobbe stesso, m a la pro­spettiva è molto diversa. Per gli amici l ’accusa di Giobbe è del tutto ingiustificata; egli, anzi, deve convincersi di essere peccatore, perché è il peccatore che riceve il male nella vita mentre il giusto riceve il bene. Questa idea, con tonalità e accentuazioni diverse, viene ripetuta senza fine. Per i tre amici non esiste altra spiegazione.

Ricorda, ti prego: chi mai è innocente e perì?Dove mai i retti sono stati distrutti?Come ho visto, sono quelli che arano il male e quelli che seminano inganno che lo mietono (4,7-8).Non è forse grande la tua malvagità e non c’è limite alle tue iniquità?Infatti senza misericordia hai esigito pegni dai tuoi fratelli e le vesti dei nudi hai sottratto.Non hai dato da bere acqua allo stanco e all’affamato hai negato il pane (...).Arrenditi a lui e ritornerai sano,perciò stesso verrà su di te il bene (22,5-7.21).

Giobbe, da parte sua, vede le cose molto diversamente. Cosciente della sua rettitudine, egli chiama Dio a render ragione del suo comportamento e alla fine lo accusa apertamente di castigare senza motivo. Il suo lin­guaggio diventa man mano più duro: Dio agisce in modo dispotico; nel mondo regna il caos; è come se la terra fosse consegnata in mano ai prepotenti.

Anche se chiamassi e mi rispondesse,non ho fiducia che darebbe ascolto alla mia voce,Lui che dalla tempesta mi guarderebbe e moltiplicherebbe le mie ferite senza motivo.

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Se si tratta di forza, è lui il potente,ma se di diritto, chi potrà citarmi in giudizio?Benché io abbia ragione, la sua bocca mi condannerebbe, benché io sia perfetto, Egli mi dichiarerebbe perverso.Benché io sia perfetto, non riconosco me stesso, detesto la mia vita.Una sola cosa resta, e perciò ho detto:Perfetto e colpevole Egli annienta.Se la sferza uccide all'improvviso, dell’angoscia degli innocenti Egli ride.La terra è consegnata in potere del colpevole, il volto dei suoi giudici Egli vela: se non Lui, chi allora? (9,16-24).Si rimane senza fiato a leggere un brano del genere. Il poeta dà voce

ai sentimenti di un uomo in situazione limite, di dolore e disperazione mortali. Mettendogli in bocca espressioni così forti, mostra grande sen­sibilità per il problema dell’angoscia degli innocenti, di quelle persone che sperimentano profondamente il senso della sovranità di Dio senza perdere l’orgoglio della propria dignità.

Così il problema «Può essere giusto l’uomo davanti a Dio?» viene risolto in modo molto diverso dai tre amici e da Giobbe. Gli amici ve­dono solo la «legge» o, se si preferisce, il «dogma»: Dio dà il male al malvagio e il bene al giusto; tu hai ricevuto il male, dunque sei malva­gio. T ra i due, Dio e l’uomo, gli amici stanno decisamente per il pri­mo. E volendo difendere Dio ad ogni costo, fanno torto non solo all’uo­mo, di cui calpestano senza ragione la dignità, ma anche a Dio. Il mo­tivo è che Dio non entra per nulla in discussione, viene lasciato fuori dall’orizzonte della soluzione. Gli amici non considerano neppure la pos­sibilità che egli, nella sua libertà sovrana, possa modificare la legge. Que­sto è appunto il rimprovero che Giobbe rivolge loro:

Forse a favore di Dio volete parlare iniquità e in suo favore volete parlare inganno?Forse volete fare preferenze per lui («sollevare il suo volto»)o a favore di Dio volete contendere?Vi andrà forse bene quando vi esaminerào come si inganna un uomo potrete ingannarlo?Certamente vi condanneràse segretamente avrete preferenze per lui («solleverete il suo volto»). Forse il fatto che egli possa annientarvi non vi atterrisce e la paura di lui non cade su di voi? (...).State in silenzio di fronte a me perché voglio parlare io e mi capiti («passi davanti a me») qualunque cosa.Qualunque cosa mi accada, prenderò la mia carne con i miei denti e la mia vita porrò sulle mie palme.Anche se mi ucciderà non aspetterò (esiterò?), ma le mie vie davanti a lui difenderò.Lui stesso sarà per me salvezzaperché davanti a lui nessun empio ha accesso (13,7-16).Sono, anche queste, parole di uno che ha un’angoscia mortale nel­

l’anima e nonostante tutto conserva la fierezza della sua rettitudine e

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la chiarezza di giudizio. Paradossalmente, benché gli amici difendano Dio ad ogni costo mentre Giobbe lo accusa apertamente, tuttavia egli ha un senso della grandezza divina molto più profondo del loro. Gli amici ripetono che Dio è grande e giusto, ma in realtà fanno torto sia alla grandezza che alla giustizia di lui. Rinchiudono Dio in formule dogma­tiche, non lasciano alcuno spazio alla sua libertà, stabiliscono quale «deve essere» il suo comportamento, e non temono di calpestare la dignità del­l ’uomo per «fare giustizia» a Dio. Forte della sua fede, Giobbe ritiene che Dio stesso non vuole questa «preferenza» nei suoi confronti. D ’al­tra parte, il profondo senso della grandezza di Dio non impedisce a Giob­be di rivolgersi a lui con una franchezza che suona bestemmia per i ben­pensanti di ieri e di oggi. E alla fine sfida apertamente Dio a giudizio:

Magari avessi uno che ascolti il mio caso!Ecco la mia firma, Shaddai (Dio) mi rispondae un documento scriva il mio avversario!Giuro che sulla mia spalla lo porterei,10 legherei come corona per me,11 numero dei miei passi gli racconterei,come un principe lo affronterei (31,35-37).

Nonostante le differenze, sia gli amici che Giobbe risolvono il pro­blema «Può essere giusto l’uomo davanti a Dio?» dalla prospettiva del­l’uomo, e in questo hanno torto entrambi. Gli amici sbagliano perché calpestano l’uomo e racchiudono Dio entro una legge di retribuzione che, così rigida, non è frutto di fede ma di umana presunzione. Giobbe sbaglia perché, cosciente della sua rettitudine, pretende di chiamare Dio a rendere ragione del suo operato. Ma egli ha il vantaggio di lasciare spazio alla libertà divina anche quando rivendica i diritti della propria dignità. E alla fine Dio gli dà ragione sugli amici (42,7).

Giobbe si sente insieme attratto e disgustato di Dio. Avendo una fe­de genuina, sa bene che non esiste un altro a cui possa ricorrere: egli è il suo creatore, il suo accusatore e anche il suo giudice. Com’è possi­bile un giudizio equo con lui?

Nel tormentoso alternarsi di attrazione e di avversione, Giobbe giunge ai limiti del consentito, al punto in cui amore e bestemmia si toccano pericolosamente. E osa immaginare e invocare un mediatore nella sua lotta con Dio.

Nel capitolo 9 (un testo in parte già citato sopra) possiamo seguire il corso del suo ragionare. Inizia riconoscendo pienamente la grandez­za di Dio che gli amici gli predicano (9,2-3). Segue un inno a Dio sa­piente e forte nella creazione, capace di controllare le potenze più spa­ventose simboleggiate nei mostri primordiali della mitologia cananea detti «gli alleati di Raab» (9,13). Benché creda fermamente nella gran­dezza di Dio, tuttavia Giobbe osa accusarlo di ingiustizia nel governo degli uomini (9,14-15). Riprendendo poi il lamento, ritorna sul tema della sua incapacità di fronte a Dio. E qui troviamo il primo testo sul mediatore.

U n m ediatore t r a noi

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Poiché (Dio) non è un uomo come me, che io possa rispondergli, che possiamo andare insieme al giudizio.Se ci fosse tra noi un arbitroche ponesse la sua mano su noi due,se (Dio) allontanasse da me la sua vergae il suo terrore non mi spaventasse,allora io parlerei e non avrei paura di lui,poiché non così sono io da me stesso (?) (9,32-35).

Bisogna leggere «Se ci fosse tra noi un arbitro» come la versione gre­ca, oppure «Non c'è tra noi un arbitro» come vocalizzano gli editori del testo ebraico (i Masoreti)? L ’originale può essere letto nei due modi, ma il primo è conforme al contesto e agli altri passi che passeremo in

SALMI PER LA SPERANZA, PROVERBI PER LA SAPIENZA, GIOBBE PER LA PUNIZIONE

Se uno vede (in sogno) una vi­gna pregiata, può attendersi di vedere il Messia, poiché dice: Le­ga alla vite il suo asino, e a vite pre­giata il figlio della sua asina (Gn 49,11). Se uno vede un fico in so­gno, la sua conoscenza sarà con­servata dentro di lui, come dice: Chi coltiva ilfico mangerà il suo frutto (Pro 27,18). Se uno vede melo­grani in sogno, se sono piccoli, i suoi affari saranno fruttuosi co­me il melograno; se sono grandi,i suoi affari cresceranno come il melograno. Se sono aperti, se egli è uno studioso, può sperare di imparare di più la Torah, come dice : Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno (Ct 8,2); se è un illetterato, può sperare di compiere i precetti, come dice: Le tue tempie sono come un melograno aperto (Ct 4,3). Che si indica con «tue tempie»? Anche gli illette­rati in mezzo a te sono pieni di precetti come un melograno (...).

Ci sono quattro saggi (impor­tanti nei sogni). Se uno vede in sogno Rabbi Iohanan ben Nuri, può sperare di essere uno che te­me il peccato; se vede Rabbi Eleazaro ben Azaria, può spera­

re importanza e ricchezza; se ve­de Rabbi Ishmael, può sperare sapienza; ma se vede Rabbi Aki- ba, tema una punizione.

I nostri Rabbi insegnarono che ci sono tre re (che sono importan­ti nei sogni). Se uno vede David può sperare pietà; se vede Saio- mone può sperare sapienza; se vede Ahab tema una punizione.

Ci sono tre profeti (importan­ti nei sogni). Se uno vede in so­gno il Libro dei Re, può sperare grandezza; se vede Ezechiele può sperare sapienza; se vede Isaia può sperare consolazione; se ve­de Geremia tema una punizione.

Ci sono tre grandi libri degli Agiografi (importanti nei sogni). Se uno vede il libro dei Salmi, può sperare pietà; se vede il libro dei Proverbi può sperare sapien­za; se vede il libro di Giobbe te­ma una punizione.

Ci sono tre piccoli tra gli Agio­grafi (importanti nei sogni). Se uno vede in sogno il Cantico dei cantici può sperare pietà; se ve­de F Ecclesiaste può sperare sa­pienza; se vede Lamentazioni te­ma una punizione (...).

(Talmud, Berakot 57a; 57b)

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rassegna in seguito. Giobbe desidera che ci sia un arbitro, anche se la frase lascia intendere che la sua tenace speranza è tutt’altro che certa. Egli vorrebbe infatti discutere in giudizio con Dio, ma sa che questi nep­pure gli risponderebbe, al contrario lo schiaccerebbe. Magari esistesse un arbitro capace di colmare la distanza tra uomo e Dio, ponendosi al di sopra di entrambi, in modo da consentire un processo alla pari.

Lamento dell’incapacità degli amici di andare oltre i soliti dogmi, ac­cusa a Dio di aver inflitto una sorte ingiusta e spietata: sono sentimenti frequenti, che compaiono anche nel capitolo 16. Al culmine dello scon­forto, Giobbe pronuncia una frase che appare terribile e persino blasfe­ma se la si legge siila luce della condanna di Caino omicida di suo fra­tello: «Cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal­la terra. E perciò, tu se: maledetto dalla terra (cioè, la tua maledizione proviene dalla terra stessa!) la quale ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano» (Gn 4,10-11).

Terra, non coprire il mio sanguee non ci sia un luogo di riposo per il mio grido! (Gb 16,18).

Pur trovandosi Giobbe in questa agonia, la fede è capace di impen­nate sublimi come questa:

Anche ora, ecco è nei cieli il mio testimone e il mio garante è nell’alto, il mio mediatore, il mio amico!Verso Eloah si consuma il mio occhio,perché (il testimone) possa essere arbitro fra l’uomo ed Eloah, come tra un figlio dell’uomo e il suo prossimo (16,19-21).

Subito dopo l’improvvisa fiammata di speranza cede il passo al la­mento che continua senza interruzione nel capitolo 17. Poi Giobbe si rivolge ancora a Dio:

Poni, ti prego, uno che sia mallevadore tra me e te,qualcuno che lui stesso stringa la mia mano (?),poiché i loro cuori (dei tre amici) hai chiuso alla prudenzae per questo non li hai esaltati(oppure: non vieni esaltato) (17,3-4).

La richiesta di un mediatore in questo passo non viene riconosciuta da tutti gli esegeti (le traduzioni date sono differenti), m a è confermata dall’uso della coppia di termini giuridici «essere mallevadore » e «strin­gere (la mano di qualcuno)», usuali in materia finanziaria (Pro 6,1; 11,15; 23,26), che qui vengono applicati al mediatore tra Dio e uomo. Giobbe giunge a sognare tale figura perché i tre amici, che avrebbero dovuto essere suoi intermediari presso Dio, sono incapaci di farlo. I suoi occhi si consumano nell’attesa che un mediatore intervenga e questo chiede espressamente a Dio:

Abbiate pietà di me, abbiate pietà di me, voi miei amici, poiché la mano di Ebah si è abbattuta su di me!Perché mi perseguitate come Dio e della mia carne non vi saziate?

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Magari dunque venissero scritte le mie parole, magari in un documento fossero incise, con uno stilo di ferro e di piombo, come testimonianza nella pietra fossero scolpite!Poiché io so che il mio Redentore vive e rUltimo sulla polvere sorgerà, e dopo che la mia carne avranno fatto a pezzi così, anche senza la mia carne contemplerò Eloah.Io lo contemplerò, da me stesso, e i miei propri occhi lo vedranno, non un altro!Vengono meno i miei reni nel mio ventre poiché voi dite: Come possiamo perseguitarlo? poiché la radice della cosa si trova in me (19,21-28).

Su questo grido angosciato di disperazione e insieme di fede, molto è stato scritto ma le opinioni sono molto divergenti. Si discute se il «re­dentore » {goel) sia la stessa figura del mediatore che compare nei testi precedenti, cioè diverso da Dio, o sia Dio stesso. Si discute anche se la « visione » di Dio sia da collocare durante la vita terrena di Giobbe o dopo la sua morte, e perciò se si debba tradurre «senza la mia carne»o «nella mia carne» (19,26).

E probabile che in questo passo Giobbe abbandoni la speranza di un mediatore diverso da Dio, che possa prima o poi ottenere la sua riabili­tazione durante la vita terrena. Per questo motivo egli desidera che le sue parole vengano scritte in modo indelebile, affinché restino oltre la morte. I termini paralleli «Redentore» e «Ultimo» sono probabilmente epiteti di Dio come in Isaia (Is 44,6). Giobbe immaginerebbe, allora, una scena grandiosa: Dio, che vive in eterno, alla fine si ergerà sulla polvere del suo sepolcro e gli concederà di vederlo. Denudato oramai della sua veste mortale, egli potrà finalmente godere la visione del suo Redentore.

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Si giustifica realmente questa fede, che molti esegeti ritengono im­possibile soprattutto alla luce di riflessioni pessimistiche che compaio­no, ad esempio, in 14,7-12? Nel dare un giudizio, non si perda di vista che si tratta di lamenti e non di formule dogmatiche. Inoltre, proprio a continuazione delle riflessioni pessimistiche, troviamo la seguente speranza:

Magari nello sheol mi occultassi, mi nascondessi finché sia rientrata la tua ira, ponessi per me un termine e ti ricordassi di me!Se muore l'uomo, davvero rivivrà?Tutti i giorni del mio servizio aspetterei, finché venisse la mia trasformazione.Mi chiameresti e io ti risponderei, dell’opera delle tue mani sentiresti nostalgia.Perché allora i miei passi non conteresti, non sorveglieresti più il mio peccato.Sarebbe sigillata in un sacco la mia trasgressione e ricopriresti la mia iniquità (14,13-17).

Benché neppure questo testo sia esente da problemi (ma quanti testi di Giobbe lo sono?), esso ipotizza una situazione abbastanza inconsue­ta: un periodo di permanenza nello sheol, e quindi dopo la morte, pas­sato il quale Dio si muova a pietà della sua creatura e la perdoni. Que­sto Dio che «sente nostalgìa» deiruomo ricorda la figura del « Redento­re» che riabiliterà Giobbe dopo la morte. L ’arditezza di tale speranza si comprende ricordando che, nella concezione del tempo, lo sheol è re­gno dei morti senza ritorno.

Così, la fede di Giobbe genera una speranza impossibile. Sogna una figura distinta da Dio ma appartenente al mondo celeste (un angelo?), che possa fare da arbitro fra l’uomo e il Creatore, tra il finito e lTnfini- to, secondo la procedura normale tra due uomini in lite. Ad un certo punto però, anche per l’insensibilità dei tre amici, Giobbe abbandona la speranza di un intermediario durante la vita terrena e sogna un in­contro diretto con il suo Redentore dopo la morte.

La contraddizione sembra a molti insanabile. Da un lato Giobbe ac­cusa violentemente Dio di crudeltà ingiustificata nei suoi confronti, dal­l’altro fa appello allo stesso Dio perché riconosca la sua giustizia duran­te la vita terrena in un giudizio che spera equo, reso possibile da un arbitro, oppure lo invoca perché lui stesso lo riabiliti dopo la morte sul­la base di un documento scritto.

Per spiegare tale contraddizione, alcuni hanno parlato di una «dop­pia anima» in Dio: crudeltà e misericordia. Altri si sono rifatti alla con­cezione mesopotamica del dio supremo, crudele, e del dio personale, dio minore che si prende cura dell’uomo a lui affidato. Altri ancora han­no fatto ricorso alla letteratura dell’assurdo o a concezioni filosofiche, psicologiche’ecc. Ma spiegazioni del genere hanno ben poche possibili­tà di essere soddisfacenti. Il dualismo di accusa e di speranza in Dio si comprende nel quadro della fede incrollabile di Giobbe. Per lui esiste un solo Dio, che perciò è pienamente responsabile del male che gli è

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capitato, ma che non può non essere giusto e perciò alla fine riabilitar­lo. E questo duplice sentimento, di accusa e di speranza, che nutre il dramma e grida angosciosamente verso una soluzione che, si vede sem­pre più chiaro, può venire solo da Dio.

Il problema «Può essere giusto l’uomo davanti a Dio?» ritorna due volte nei discorsi di Eliu:

Poiché Giobbe ha detto: Sono giusto, e Dio ha eliminato il mio diritto.Nonostante il mio diritto sono considerato un bugiardo, sono ferito dalla sua freccia pur essendo senza colpa (34-,5-6).Forse questo hai pensato secondo diritto,(quando) hai detto: La mia giustizia è davanti a Dio? (35,2).

Al confronto dei tre amici e dello stesso Giobbe, la soluzione di Eliu è più articolata. Ipotizzando un mediatore capace di colmare l’enorme distanza tra il Creatore e la creatura «mettendo le mani su» entrambi, in pratica Giobbe abbassa il primo al livello del secondo. Pur essendo consapevole della trascendenza di Dio, come gli amici, egli non intende affatto rinunciare alla coscienza della sua rettitudine né mortificare la

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sua dignità. La sua sofferenza mette Dio sotto accusa, e il silenzio divi­no è per Giobbe segno di capriccio e insensibilità. Il D io trascendente è dunque ingiusto, perché è lui in fondo la causa di tutti i m ali degli uomini.

Eliu è un giovane che possiamo qualificare carismatico. Di fronte al dramma di un uomo ragguardevole come Giobbe e di fronte a tre an­ziani che disputano con lui sottilmente, egli si dichiara intimidito per la sua giovane età. M a solo formalmente. Ritiene infatti di essere por­tatore di un’autentica sapienza frutto non di canizie m a di ispirazione divina. Si presenta con grande sicurezza, usa un linguaggio ampio e solenne, al punto che è risultato antipatico a molti interpreti. F in dal­l'antichità lo hanno visto come un presuntuoso parolaio che pretende dare lezione a persone molto più anziane di lui, o addirittura come un portavoce di Satana. Recentemente è stato giudicato figura ridicola o buffone.

Ci sono però elementi che sottolineano la serietà e l ’importanza di Eliu nell’economia del libro di Giobbe. I capitoli che lo riguardano (32-37) iniziano con una parte in prosa come il libro intero. In essa il problema della giustizia davanti a Dio viene subito e lucidamente rica­pitolato:

Cessarono dunque quei tre amici di rispondere a Giobbe (che affer­mava) di essere giusto ai propri occhi. Allora si accese Tira di Eliu, figlio di Berachel il Buzita della famiglia di Ram. Contro Giobbe si accese la sua ira perché dichiarava se stesso giusto davanti a Dio. Anche controi suoi tre amici si accese la sua ira perché non avevano trovato alcuna risposta, eppure avevano dichiarato malvagio Giobbe (32,1-3).

Verso i tre amici Eliu manifesta una condanna totale, confermata al­la fine da Dio stesso (42,7-8). Essi non hanno saputo controbattere la pretesa di Giobbe che si sente giusto di fronte alla sua coscienza e per­ciò pretende di esserlo anche davanti a Dio; tuttavia hanno voluto ri­solvere il problema nel modo più comodo: semplicemente accusando Giobbe di essere colpevole. Di essi Eliu quasi non si cura nei suoi di­scorsi, mentre considera con attenzione Giobbe e le sue argomentazioni.

Eliu mostra che il problema non si può risolvere a partire dall*uomo e dal suo punto di vista, né il rapporto uomo-Dio può essere trattato secondo il modello della disputa giudiziaria come vorrebbe Giobbe. Il giovane interlocutore procede a gradi. Per smontare la pretesa di Giob­be, comincia col presentare un caso emblematico della situazione del- Tuomo con Dio:

Perché con lui (Dio) vuoi contenderese a tutte le sue parole nessuno può rispondere?se una volta parla Dioe due volte nessuno può vederlo?Nel sogno, nella visione notturna, quando cade il torpore sugli uomini, nel sonno sul giaciglio, allora apre l’orecchio degli uomini e per la loro correzione li atterrisce,

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per allontanare l’uomo dal suo operato e l’orgoglio al mortale svelare, per preservare la sua anima dalla fossa e la sua vita dal passare per il canale.Quando egli viene castigato con il dolore sul suo giaciglio

e con il tormento continuo delle sue ossa, la sua vita gli fa aborrire il pane e la sua anima il cibo squisito, si consuma la sua carne dalla vista e traspaiono le sue ossa che non si vedevano, si avvicina alla fossa la sua anima e la sua vita alla morte,

se c’è su di lui un angelo, un solo mediatore tra mille, che annunci all’uomo la rettitudine di lui (Dio), che abbia pietà di lui (uomo) e dica (a Dio):Redimilo dallo scendere nella fossa, ho trovato il riscatto,

(allora) ridiventa florida di giovinezza la sua carne, ritorna ai giorni della sua fanciullezza.Se egli (l’angelo) intercede presso Eloah perché gli sia propizio,

gli mostri il suo volto con esultanza e ridoni al mortale la sua benevolenza,

(allora) egli (l’uomo) canta davanti ai mortali e dice:Ho peccato e la rettitudine ho distorto, ma non mi ha reso il contraccambio.Ha liberato la mia anima dal passare nella fossa, e la mia vita, perché goda la luce.Ecco tutto questo fa Diodue volte, tre volte con l’uomoper far tornare la sua anima dalla fossa,perché sia illuminato con la luce della vita (33,13-30).

Non sfugga il carattere straordinario di questo brano difficile e subli­me. Eliu parte dalla posizione di Giobbe, dal suo modo quasi giuridico di vedere il rapporto Dio-uomo che intende demolire. L’esperienza in­segna che l’uomo, come nel caso di sogni terrificanti e di malattia, non può rispondere a Dio né vederlo; come potrebbe allora avanzare diritti di fronte a lui? Il rapporto non si fonda sul diritto m a sulla pura grazia.

La vicenda dell’uomo colpito prima dal terrore e poi dalla malattia è disperata. Il poeta descrive con abbondanza di particolari la sua si­tuazione usando un doppio lunghissimo periodo ipotetico (segnalato con rientranze nella traduzione per evidenziare le protasi e le apodosi). Il processo è inarrestabile e va verso la morte: tormento notturno, inson­nia, inappetenza, deperimento fisico. M a questo processo viene mira­colosamente arrestato, anzi completamente rovesciato.

Il rovesciamento è dovuto all’intervento di un angelo mediatore, uno solo tra migliaia che sono al servizio di Dio nel governo del mondo. Da vero mediatore, l’angelo ha una duplice funzione: verso l’uomo e verso Dio. Mosso a pietà, spiega all’uomo la giustizia di Dio anche in quella situazione disperata; si noti: la giustizia di Dio, non quella dell’uomo!

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A Dio chiede la liberazione dell’uomo dalla morte (la fossa e il canale sotterraneo che conduce al mondo dei morti sono espressioni comuni della mitologia del tempo).

Ma in base a che l’angelo ardisce chiedere a Dio il rovesciamento del processo mortale? Egli dice: «Ho trovato il riscatto». Normalmente gli interpreti presumono che l’uomo risponda positivamente alla spie­gazione dell’angelo, e cioè si converta, e che il riscatto sia un’offertao un prezzo che veniva pagato al tempio «per redimere la propria vita» (si veda Es 21,30; 30,11-12). Il punto è, però, che il testo non nomina affatto la reazione positiva dell’uomo, che pure viene ritenuta elemento necessario del processo di restaurazione. Al contrario, Fangelo si china sull’uomo per spiegargli l ’azione divina e poi, senza attendere la sua risposta, si rivolge a Dio. Effettivamente l’uomo è passivo e muto du­rante tutto il processo, ed è necessario un mediatore proprio perché l’uo­mo da sé è totalmente inconsapevole del senso di ciò che gli accade.

Qui si rivela il carattere del tutto particolare del nostro brano. Non ha nulla a che vedere con le dispute acrimoniose degli amici che voglio­no difendere Dio ad ogni costo; è puro annuncio di grazia. La reden­zione dalla morte fisica non è conseguenza della conversione ma la pro­duce. Per intervento del mediatore celeste, Dio restaura l’uomo fisica­mente e lo riabilita a confessare pubblicamente il beneficio ricevuto. Pro­prio questa lode pubblica, espressione eminente di conversione e di rin­graziamento nel libro dei Salmi, sembra essere il «riscatto» trovato dal­l’angelo mediatore.

Dopo aver preparato l’uomo mediante l’annuncio che Dio è giusto anche quando porta sull’orlo della morte, l ’angelo assicura Dio che il suo protetto saprà cantare la grazia ricevuta, come infatti avviene. L ’uo­mo guarito nel corpo e nello spirito si sente un peccatore graziato: « Ho peccato e la rettitudine ho distorto, ma (Dio) non mi ha reso il contrac­cambio. Ha liberato la mia anima dal passare nella fossa, e la mia vita, perché goda la luce». Il malato non ha gridato verso Dio, ma è stato salvato da un intervento gratuito. Il suo atteggiamento di lode è conse­guenza, non premessa, della salvezza.

Aver fatto risuonare la nota della grazia nel libro di Giobbe è merito di Eliu, questo giovane carismatico tu tt’altro che portavoce di Satana. Per controbattere l’opinione di Giobbe, che sente di essere giusto e per­ciò vuole disputare con Dio circa il suo caso personale, egli sottolinea la sovranità del Creatore, il quale controlla totalmente la creatura, en­tra nel suo mondo interiore e lo prostra fisicamente. Anche la figura dell’intermediario serve a sottolineare l’incapacità dell’uomo a inter­pretare l’azione di Dio nella propria vita.

Sia Giobbe che Eliu prevedono l’intervento di un mediatore celeste, ma quale differenza! Per Giobbe egli dovrebbe perorare la propria cau­sa e in qualche modo abbassare il Creatore al livello della creatura, per­ché il processo possa aver luogo. Per Eliu il mediatore fa da tramite trail Dio trascendente e l’uomo nel profondo della sua prostrazione: è in­terprete verso l’uomo e intercessore presso Dio. Anche il risultato è molto diverso. Per Giobbe dovrebbe essere un processo che porti al riconosci­

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mento della sua «giustizia» davanti a Dio; per Eliu è un’opera di grazia che l’uomo proclama pubblicamente nel momento stesso in cui confes­sa la propria colpevolezza.

Il mistero tremendo del Dio trascendente e dei suoi rapporti con le creature, che è il problema centrale del libro di Giobbe, suscita dunque reazioni e soluzioni diverse nei protagonisti. Per i tre amici Giobbe de­ve arrendersi perché è certamente peccatore; per Giobbe Dio è ingiusto e crudele perché egli si sente retto; per Eliu l’uomo non può essere giu­sto di fronte a Dio perché riceve da lui solo grazia. E importante evi­denziare quale atteggiamento verso Dio Eliu suggerisca a Giobbe come conseguenza della sua posizione.

Alla fine del processo che produce la sua salvezza, l’uomo diventa capace di « cantare » pubblicamente la misericordia divina manifestata­si nella sua vicenda personale (33,27). Il verbo usato shir non indica so­lo il cantare vero e proprio ma anche il proclamare solennemente, so­prattutto con la poesia, le meraviglie del Signore. In questo senso viene usato frequentemente nei Salmi. Eliu lo usa un ’altra volta in una for­ma verbale più solenne della forma semplice (il cosiddetto polel):

Ricorda che devi magnificare la sua opera (di Dio),che devono cantare i mortali,che ogni uomo contempla,che ogni mortale scorge da lontano (36,24-25).

L ’opera divina di cui si parla in questo passo è la creazione. Secondo la concezione sapienziale, l’uomo è capace di contemplare l’ordine mi­rabile secondo cui Dio ha creato l’universo perché l ’ordine stesso, per­sonificato nella figura della Signora Sapienza, gli va incontro e gli si rivela. L ’uomo però lo «scorge da lontano» nel senso che riesce a vede­re solo una piccola parte di esso.

Notiamo che lo stesso verbo «cantare» viene riferito da Eliu sia alla vicenda personale del guarito (capitolo 33) che alla creazione (capitolo 36). Ambedue sono opera dell’unico Dio grande e buono e vanno esal­tate allo stesso modo dall’uomo.

Si profila così un parallelismo tra l’azione divina verso gli uomini e l’azione divina nel creato che si rivela fondamentale per comprendere l’organizzazione dei discorsi di Eliu e la loro coerenza (capitoli 32-37). Possiamo solo offrire degli accenni, notando l ’estensione dei discorsi eil loro tema principale:

— Gb 33, contro l’opinione di Giobbe, l’uomo non è giusto di fron­te a Dio;

— Gb 34, Dio non agisce ingiustamente verso gli uomini, rende a ciascuno secondo le proprie azioni;

— Gb 35, contro l’opinione di Giobbe, Dio non resta indifferente di fronte alla malvagità degli uomini, giudicherà a suo tempo;

— Gb 36,1-21, Dio sottomette gli uomini alla prova: se accettano la correzione vivranno, altrimenti periranno;

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— Gb 36,22-37,24, Dio è grande nelle opere della creazione, l’uo­mo deve esaltare la sua opera.

I temi cari ad Eliu sono perciò il governo degli uomini e le opere del­la creazione. Sono due temi coerenti: entrambi manifestano la gran­dezza sovrana di Dio. Per Eliu il mondo umano e il cosmo fanno parte dell’unico ordine creato e conservato da Jahveh sovrano incomparabile.

Giungiamo così alla domanda di partenza: quale deve essere 1’atteg­giamento della creatura verso il Creatore? Non certo quello di Giobbe che pretende essere giusto e mettere Dio sotto accusa; infatti l ’ordine che regola gli uomini e il mondo sfugge totalmente al controllo della creatura. Il Dio trascendente, benché sia luce suprema, è tenebra asso­luta per l’uomo. Questi non può giungere a lui né vederlo né disputare con lui né rispondergli. In questo senso va inteso l’appello conclusivo di Eliu a Giobbe, difficile e insieme meraviglioso:

Facci sapere cosa possiamo dirgli!Non possiamo esporre il caso di fronte alla Tenebra!Forse gli verrà riferito se io parlo,o se uno dice qualcosa, gli verrà notificato?E ora, poiché gli uomini non possono vedere la Luce,

benché essa sia più limpida del cielo quando il vento passa e lo spazza; poiché dallo Zafon viene l’oro, ma El-Eloah, il Terribile di maestà,Shaddai, non possiamo raggiungerlo; l’Alto di forza e di giudizio,sì, il Grande di giustizia, nessuno può rispondergli;

perciò lo temano gli uomini,il Forte, lo temano tutti i saggi di cuore! (37,19-24).

La traduzione è certamente dura; ho dovuto aggiungere particelle (se­gnalate in corsivo) per evidenziare i collegamenti logici e anche far rien­trare parte del testo per mostrare la connessione lontana: « E ora, poi­ché... perciò». M a, alla fine, il senso è eccellente, perfettamente in li­nea con il pensiero di Eliu. Dio è totalmente al di fuori dell’orizzonte e della portata dell’uomo. Eppure Dio gli parla sia attraverso la soffe­renza che attraverso le opere della creazione.

L’atteggiamento corretto può essere perciò solo il «timore di Dio», l ’unico che consenta all’uomo di capire il messaggio divino. Solo il ti­more di Dio, cioè il riconoscimento che egli è il Creatore, dà all’uomo la capacità di comprendere le cose e se stesso nel quadro dell’ordine co­smico. Ciò non significa affatto che l’uomo debba abdicare alla sua di­gnità; al contrario solo così egli può trovare il suo posto come re della creazione e vivere in essa in modo ordinato, lodando incessantementeil Creatore.

Scopriamo, in questo modo, collegamenti sotterranei e inattesi tra l ’ottimistico Proverbi, il problematico Giobbe e il pessimistico Qoelet (che vedremo nel capitolo successivo).

Scoprire tali collegamenti non significa appiattire i vari contributi. Significa invece rendersi conto che, a livello profondo, nonostante i pund

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di partenza e le problematiche differenti, le varie posizioni si incontra­no nell’essenziale: nel delineare l’unico rapporto saggio dell’uomo ver­so il suo Dio.

L’argomento del libro di Giobbe e il suo genere letterario, diceva­mo, sono la base per comprendere il senso generale. Finora abbiamo seguito l’argomento (essere giusti davanti a Dio) nei vari modi in cui viene trattato. Ci rimane da identificare il genere letterario e infine ten­tare una lettura globale.

Il genere letterario di Giobbe è difficile da definire, anche perché si parla normalmente di generi letterari al plurale, nel senso che nel libro ne sono presenti diversi, come il lamento, il dialogo, la disputa sapien­ziale, l’inno, il discorso, la confessione ecc. Non sempre questi generi vengono identificati con criteri precisi. A noi interessano, comunque, non tanto i generi letterari delle varie parti del libro di Giobbe, quantoil genere complessivo, quello che è capace di includere le singole parti e ne può spiegare la funzione.

Purtroppo nessuno sembra in grado di indicare in modo convincente quale sia questo genere complessivo. Molti si vedono costretti a conclu­dere che il libro di Giobbe è una composizione sui generis, qualcosa di unico.

Procederemo perciò in modo pragmatico. Prendendo per buono il testo come lo abbiamo, o testo finale, cercheremo di identificare le parti che

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lo compongono e la funzione di ciascuna. Il genere complessivo dipen­de da questo esame e in qualche modo ne trae le conclusioni.

Le parti, che compongono il libro di Giobbe e che godono di autono­mia letteraria, sono segnalate nella tabella data sopra: la cornice in prosa, formata da una parte iniziale detta prologo (Giobbe provato) e da una parte finale detta epilogo (Giobbe restaurato) e un grande corpo cen­trale in poesia. All’interno del corpo centrale si identificano due solilo­qui o sfoghi di Giobbe (lamento, dichiarazione di innocenza e sfida a Dio), che incorniciano due blocchi di dialoghi in cui gli interlocutori sono nell’ordine i tre amici. Eliu e Jahveh.

Quelli che abbiamo chiamato dialoghi sono propriamente dispute sa­pienziali. Hanno infatti uno schema di base che comprende: invito ad ascoltare, esposizione dell’opinione avversa, confutazione, invito a ri­spondere. Non sempre si ritrovano tutti gli elementi dello schema di base e nello stesso ordine, poiché i vari interlocutori li utilizzano in mo­do vario o ne omettono qualcuno.

Si è soliti chiamare «discorsi» quelli di Eliu e di Jahveh, ma impro­priamente. Infatti Eliu invita ogni volta il suo interlocutore a risponde­re (nel capitolo 33 l’invito si trova sia alPinizio che alla fine), per quan­to Giobbe non lo faccia mai. Sono dispute anche quelle di Jahveh. In effetti, dopo il suo primo intervento, Dio invita formalmente Giobbe a rispondere. E questi lo fa, seppur brevemente, due volte.

La disputa sapienziale è dunque un genere importante del libro di Giobbe, ma non è il genere complessivo. Questo infatti dovrebbe poter includere sia il lamento iniziale che il giuramento e la sfida a Dio. Sen­za contare il prologo e l’epilogo in prosa.

Direi che è il dramm a il genere complessivo del libro di Giobbe. Lo si può immaginare sulla falsariga della tragedia greca. La parte in pro­sa racconta Pantefatto, o meglio la situazione del dramma, e ne espone gli ingredienti di base: Giobbe uomo pio e timorato, benedetto da Dio, viene messo alla prova mediante la privazione di tutto. Il lamento, con la sua contestazione del Creatore, aggiunge un ingrediente nuovo e di­rompente, che fornisce l'argomento della discussione: il rapporto del­l ’uomo con Dio («Può essere giusto l ’uomo di fronte a Dio?»). Le di­spute espongono le varie opinioni. La risoluzione viene dalla teofania e dalle dispute che l’accompagnano, quando Giobbe si arrende piena­mente a Dio. L ’epilogo racconta la restaurazione della situazione ini­ziale di Giobbe e il rovesciamento di quella degli amici venuti a con­fortarlo.

A differenza della tragedia greca, il libro di Giobbe è a lieto fine. Inol­tre la teofania non è paragonabile all’espediente del « Deus ex machi­na», nel senso che la risoluzione del dramma non è semplicemente im­posta dall’esterno senza vero impatto nella realtà. Viene da Dio, certo (e da chi poteva venire?), ma è preparata attraverso una serie di inter­mediari umani e trasforma profondamente Giobbe.

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Abbiamo già mostrato come il prologo esponga la situazione in cui si colloca il problema del libro. Senza di essa la parte delle dispute non avrebbe senso, o non avrebbe il senso attuale. Anche se il prologo ri­prende una storia antica, bisogna riconoscere che le assegna una fun­zione precisa.

E difficile vedere una logica o un progresso nella sezione delle dispu­te dei tre amici. Gli interlocutori vanno per la loro strada senza curarsi molto dell’opinione altrui, né di Giobbe né dei colleghi. Giobbe, poi. più che rispondere agli amici ha di mira Dio, e lo fa in modo sempre più esplicito.

Possiamo fermarci un momento su un fenomeno che ci aiuterà a va­lutare elementi difficili della posizione di Giobbe. Il fenomeno è la so-

PREZIOSI CASTIGHI

Una volta Rabbi Eliezer era malato e i quattro anziani, Rab­bi Tarfon, Rabbi Ioshua, Rabbi Eleazaro ben Azaria e Rabbi Akiba, andarono a fargli visita. Rabbi Tarfon prese la parola e disse: Maestro, tu sei più prezio­so per Israele che il disco del sole perché il disco del sole dà luce so­lo in questo mondo mentre tu ci illumini sia in questo mondo che nel mondo avvenire.

Rabbi Ioshua prese la parola e disse: Maestro, tu sei più prezio­so per Israele dei giorni di piog­gia perché la pioggia dà vita solo in questo mondo mentre tu ci dai vita sia in questo mondo che nel mondo avvenire.

Rabbi Eleazaro figlio di Aza­ria prese la parola e disse: Mae­stro, tu sei più prezioso per Israele del padre e della madre perché il padre e la madre dan­no la vita in questo mondo men­tre tu ci hai dato la vita del mon­do avvenire.

Allora Rabbi Akiba prese la parola e disse: Preziosi sono i ca­stighi. Rabbi Eliezer disse ai suoi discepoli: Aiutatemi ad alzarmi. Rabbi Eliezer si sedette e gli dis­se: Parla, Akiba. Akiba allora gli

disse: Manasse aveva 12 anni quan­do cominciò a regnare e regnò 55 anni in Gerusalemme. Fece quello che è male davanti al Signore (2Cr 33,1-2). Di­ce inoltre: Anche questi sono prover­bi di Salomone che copiarono gli uo­mini di Ezechia re di Giuda (Pro 25,1). Potè mai entrare nella mente di Ezechia re di Giuda, che insegnò la Torah a tutto Israele, di non insegnare la To­rah a suo figlio? Devi perciò af­fermare che tutto l’insegnamen­to che gli diede e tutta la preoc­cupazione che ebbe di lui non gli giovarono affatto. E cosa gli gio­vò? Devi dire: i castighi, perché è scritto: Il Signore parlò a Manasse e al suo popolo ma non ascoltarono. Perciò il Signore condusse i capi del­l'esercito del redi Assiria, il quale pre­se Manasse con ganci e lo legò con ca­tene e lo portò a Babilonia. Quando

fu in angoscia, supplicò il Signore suo Dio, si umiliò molto di fronte al Dio dei suoi padri. lo pregò e lo scongiu­rò. Allora ascoltò la sua supplica e lo ricondusse a Gerusalemme nel suo re­gno (2Cr 33,10-13). Questo per insegnare che i castighi sono pre­ziosi.

{Mekilta de Rabbi Ishmael, Bahodesh 10,58-86)

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miglianza che scopriamo tra i capitoli 12-14 (ultima risposta di Giobbe nella prima serie di dispute) e i capitoli 26-31 (ultima risposta di Giob­be nella terza serie). Nel secondo blocco di capitoli sono presenti due problemi che abbiamo già ricordato: silenzio del terzo interlocutore (Zo- far non interviene) e paternità del poema della sapienza (come può es­sere pronunciato da Giobbe?). Proviamo a mettere a confronto lo svi­luppo generale del pensiero nei passi che abbiamo indicato.

PRIMA SERIE DI DISPUTE

Gb 12,2-13,2Giobbe sa che tutto è nelle mani di Dio.Solo Dio è saggio.

13,3ssNonostante ciò Giobbe vuole parlare con Dio.

Guai a voi che volete difendere Dio ad ogni costo!

capitolo 14L'uomo è povero e senza speranza.

TERZA SERIE DI DISPUTE

Gb 26Giobbe conosce la potenza di Dio nel creato,anche se ciò che egli sa ì solo una piccola parte del potere divino.

capitolo 27Non avete ragione e non ve la darò mai!Avrete la sorte del malvagio.

capitolo 28Capacità tecnica dell 'uomo, ma la sapienza solo Dio la conosce.

capitolo 29Magari tornassero i bei tempipassati!capitolo 30Ora invece...capitolo 31Giuramento di innocenza.

Nelle grandi linee, lo svolgimento del pensiero presenta parecchie so­miglianze. Giobbe intende dimostrare di saper bene ciò che gli amici gli dicono e gli ripetono, cioè il cosiddetto «dogma della retribuzione» (il buono riceve il bene, il malvagio riceve il male); e per dimostrarlo recita delle formule tradizionali, sia nel capitolo 12 che nel capitolo 27. Egli vuole controbattere gli interlocutori con le loro stesse armi, e giun­ge a dire che può far loro da maestro. M a quelle formule non risolvonoil suo problema.

Gli amici insistono che egli riconosca i suoi peccati, forse occulti, per «giustificare» Dio ad ogni costo. M a Giobbe risponde che è cosa ingiu­sta, che Dio stesso non lo vuole, e giunge a minacciare la punizione divina.

L ’uomo, come dimostrano bene i tre amici, non è saggio quando pre­tende di spiegare la condotta di Dio. Questa idea, accennata nei capito­li 12 e 13, viene sviluppata nel poema della sapienza, dove si mostra

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appunto che. nonostante la tecnica, la ricchezza e ogni sforzo, l ’uomo non ha alcun potere sulla sapienza, che è prerogativa di Dio.

Proprio perché la fede dogmatica degli amici non lo convince, Giob­be manifesta la ferma volontà di trattare il suo caso direttamente con Dio, in un giudizio che spera equo, nel quale cioè egli non venga schiac­ciato dalFonnipotenza divina, ma possa far valere le proprie ragioni. Giobbe manifesta tale volontà nel capitolo 13 e la pone in atto nei capi­toli 29-31 dove egli dichiara la sua innocenza e lancia una sfida aperta a Dio.

La sfida di Giobbe ha una base, non è pura presunzione. Se infatti la sapienza è timore di Dio e allontanarsi dal male (28,28), questo eglilo ha fatto (cfr. 1,1.8; 2,3). Perciò ricorda i bei tempi passati quando la sua rettitudine veniva ricompensata in accordo con i dati della «fe­de». Ma la sua sofferenza presente contraddice la «fede», poiché non può essere spiegata come punizione dei peccati.

Questo confronto permette di risolvere i problemi detti sopra. Giob­be può realmente aver pronunciato il poema della sapienza del capitolo 28 poiché con esso egli riepiloga la fede che ha sempre ispirato la sua condotta: il timore di Dio è sapienza. Inoltre quel poema sublime e la fede sicura che esprime piegano definitivamente la pertinacia degli amici oppositori. Quale modo migliore per indicare questa rottura della di­sputa che lasciare incompleta la serie degli interventi degli amici? Zo- far non parla affatto, mentre la risposta di Giobbe al precedente inter­locutore Bildad diventa una requisitoria inarrestabile.

In effetti, quello che per molti interpreti è disordine e segno di rima­neggiamenti del testo, può riflettere una sapiente strategia compositiva su cui vale la pena riflettere un momento. Il poeta attribuisce a Giobbe risposte sempre più lunghe degli interventi degli amici. Nella terza se­rie la sproporzione è aggravata. Parla Elifaz, Bildad abbozza solo qual­che frase, Zofar non parla affatto, mentre Giobbe risponde a due ripre­se (capitoli 26 e 27-28). Nei seguenti capitoli 29-31, che sono un solilo­quio parallelo strutturalmente a quello del capitolo 3, Giobbe ignora gli amici e ha di mira ormai soltanto Dio.

Questi fatti hanno tutta l’aria di essere una tecnica compositiva vo­luta. Perciò Eliu ha perfettamente ragione di costatare, all’inizio del suo intervento, che i tre amici «sono distrutti, non rispondono più, sono passate via da essi le parole» (32,15). Nei confronti di Eliu invece il poeta non concede a Giobbe nessuna risposta, nonostante gl’inviti ripetuti a esporre le proprie ragioni. E segno che Eliu ha centrato il cuore del pro­blema, per cui Giobbe resta colpito e silenzioso.

Contro questa lettura unitaria si obietta che, se realmente Giobbe fosse stato convinto che la sapienza ultima è solo di Dio, non avrebbe insisti­to nel richiedere a lui una spiegazione e un giudizio. Ma consideriamo la logica del dramma, non quella della ragione. Il «Giobbe paziente» della parte in prosa e il «Giobbe impaziente» della parte in poesia non sono due strati separati del libro sacro, ma piuttosto elementi contra­stanti che nutrono il dramma e lo fanno progredire. Giobbe può essere cosciente, come lo è. del suo limite di fronte all’onnipotenza divina e

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nello stesso tempo, consapevole della propria rettitudine, può chiedere a Dio una risposta alla sua disperazione.

U n'altra difficoltà contro la lettura globale che stiamo facendo è che l’idea della sovrana sapienza di Dio nella creazione (capitolo 28) rende­rebbe superfluo il messaggio della teofania (capitoli 38-41). C ’è del ve­ro in questo argomento. Infatti i contatti tra il poema della sapienza e i discorsi di Jahveh sono reali. Però, nonostante la sua fede, Giobbe non è convinto e lancia una sfida a Dio. Ciò rientra nella logica del dram ­ma. Se perdesse la fede, non si appellerebbe a Dio; se d’altra parte la sua fede gli bastasse, la teofania sarebbe superflua. Il poeta porta la ten­sione del dramma fino al culmine per far risaltare la risoluzione.

La risposta di Dio non viene subito dopo la sfida di Giobbe. T ra sfi­da e risposta il poeta interpone i discorsi di Eliu, un personaggio mai nominato né prima né dopo, per cui si ritiene comunemente che i suoi discorsi siano un’aggiunta posteriore. Ma, ancora una volta, dobbia­mo considerare la logica del dramma. Se la risposta di Jahveh venisse subito dopo la sfida aperta di Giobbe, difficilmente potrebbe essere una risposta di grazia. Opportunamente il poeta fa intervenire Eliu, la cui posizione dottrinale è un po’ a metà strada tra la sapienza dogmatica dei tre amici e il superamento di essa per mezzo della teofania. In qual­che modo egli apre la strada a Jahveh cantando le grandi opere della creazione e affermando che l’uomo non le comprende e perciò deve te­mere Dio.

Così preparato, giunge l’intervento divino nella disputa:Poi Jahveh rispose a Giobbe dalla tempesta e disse... (38,1).

Anche Dio, come tutti gli interlocutori precedenti, risponde a Giobbe e quindi prende posizione circa il suo lamento iniziale e la successiva dichiarazione di innocenza con la sfida che la conclude.

Per comprendere il senso dei discorsi divini nell’insieme del dramma è utile notare una somiglianza con i discorsi di Eliu. Per questo giovane carismatico Giobbe, come ogni uomo, non può contendere con Dio peril semplice motivo che non comprende la sua opera, non lo vede e non può rispondergli. Infatti nei sogni terrificanti e nella malattia mortale l’uomo non comprende il messaggio che Dio gli invia, è come una be­stia senza intelligenza. Dio lo conduce vicino alla morte ma poi, per sua grazia, gli m anda un mediatore e intercessore che lo rende capace di comprendere e di rispondere. E allora la sua risposta non è che con­fessione del proprio peccato e lode della grazia divina. Così, conclude Eliu, Dio agisce ripetutamente con l’uomo e fa questo non per sfoggio di forza capricciosa e crudele, come Giobbe ha immaginato più volte, ma per pura bontà, affinché egli comprenda.

Le cose da comprendere sono al di sopra di ogni capacità umana, possono solo venire da rivelazione divina. Per spiegarci dobbiamo ri­chiamare un passo del discorso di Eliu già citato in precedenza:

Nel sogno, nella visione notturna.quando cade il torpore sugli uomini,nel sonno sul giaciglio,

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allora (Dio) apre Foracchio degli uomini e per la loro correzione li atterrisce, per allontanare l’uomo dal suo operato e l’orgoglio al mortale svelare... (33,15-17).

Se interpretiamo bene, queste parole sono straordinarie. Nelle situa­zioni terribili descritte da Eliu, in cui l’uomo sta di fronte a Dio come una bestia, Dio manda un messaggio di rivelazione («apre l ’orecchio») con uno scopo preciso: «allontanare l’uomo (adoni) dal suo operato (ma’a- seh) e l ’arroganza (gewd) al mortale (geber) svelare». Non si dice: il pec­catore, ma l’uomo, il mortale, cioè l’uomo nella pura condizione di crea­tura senza alcuna qualifica di giusto o malvagio.

In che senso va inteso allora lo scopo di Dio? La coppia di termini «operato» e «orgoglio» (endiadi per operato orgoglioso) non indica al­cun peccato specifico che l’uomo potrebbe conoscere da sé o che la so­cietà potrebbe denunciare. No, lo scopo di Dio è svelare qualcosa che resta nascosto sia alla società che alFuomo stesso. Di che si tratta?

Il termine che abbiamo tradotto con orgoglio (in ebraico esso presen­ta diverse varianti della medesima radice) copre un ventaglio di sensi che vanno da altezza, forza e bellezza a vittoria, gloria e vanto. Il ter­mine si trova riferito per lo più a Dio e allora ha valore positivo; indica una prerogativa divina che si mostra all’opera sia nelle azioni salvifiche della storia sacra che nelle opere della creazione. Possiamo comprende­re le implicanze di ciò confrontando alcuni passi della teofania.

All’inizio di ciascuno dei suoi interventi Jahveh sfida Giobbe «a cin­gere la cintura come un eroe (geber)» (38,3; 40,7), cioè a prepararsi al duello secondo il costume militare antico. L’espressione invita Giobbe

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a confrontarsi con Jahveh sulle opere della creazione. Dio pone una se­rie di domande: sai tu chi ha fondato la terra? dove è la sede della luce? sei stato tu a ordinare i giorni? Mostrami se sei capace di controllare esseri «orgogliosi» come Beemot (l'ippopotamo) e Leviatan (il cocco­drillo), o gli animali della steppa come le cerve, l’asino selvatico e il bufalo! Evidentemente Giobbe dovrebbe rispondere che non sa e che non può e perciò (è la conclusione implicita ma trasparente) la sua pre­tesa di «essere giusto di fronte a Dio» equivale a «oscurare il piano (di­vino) con parole di non-saggezza» (38,2).

Jahveh rispose a Giobbe dicendo:Forse chi contende con Shaddai gli potrà dare istruzioni,0 chi discute con Eloah gli potrà rispondere?Giobbe rispose a Jahveh dicendo:Ecco, sono piccolo, cosa potrei replicarti?La mia mano pongo sulla mia bocca.Una volta ho parlato ma non risponderò più, due volte ma non lo farò più (40,1-5).

Così Giobbe riconosce valido il principio di Eliu: Dio è troppo gran­de perché l’uomo possa rispondergli; tanto meno può contendere con lui. Volerlo fare significa oscurare il suo disegno sapiente o, detto di­versamente, «ammantarsi di maestà» come solo Dio può fare.

(Parla Jahveh a Giobbe):Potrai mai vanificare il mio diritto e dichiararmi colpevole allo scopo di essere tu giusto?Forse hai un braccio come Dio e con voce uguale alla sua mandi il tuono?Ammantati di maestà e di altezza, di gloria e di splendore rivestiti! (40,8-10).

Ecco il senso dell’orgoglio da cui Dio intende allontanare l’uomo: la ridicola pretesa della creatura di prendere il posto del Creatore, rivesti­re i suoi panni, governare il mondo a suo modo. Questo è il peccato deir uomo, non tanto questo o quel peccato concreto con il suo numero e specie che noi siamo abituati a considerare. Un peccato che è in ag­guato in ogni uomo e da cui neppure il giusto è esente. Anzi, secondo un detto hasidico: « Meglio un peccatore che sa di essere peccatore che un santo che sa di essere santo».

Lo scopo che Dio si propone quando prostra l ’uomo è, in conclusio­ne, svelargli il peccato che consiste nel dimenticare la propria dipen­denza dal Creatore. Per ricordargli questa attitudine fondamentale del vivere saggio, Dio ricorre anche a mezzi energici, come il terrore, la malattia mortale, la sventura di vario tipo. Questo è il pensiero di Eliu, e la teofania lo conferma e gli conferisce autorità definitiva.

La teofania è l’intervento risolutore del dramma. Ha una funzione analoga a quella dell’oracolo divino nel salmo 73 dove il salmista riflet­te sul problema del malvagio che prospera:

Ecco, questi sono i malvagi:1 più tranquilli del mondo, ammassano ricchezza.

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Ma allora invano ho tenuto limpido il mio cuore e ho lavato nella purità le mie palme (...).Riflettei per comprendere questo ma una pena fu questo ai miei occhi finché non entrai nel santuario di Dio e considerai la loro fine.Davvero in luoghi scivolosi li poni,li abbatti riducendoli in rovine... (Sai 73,12-13.16-18).

Jahveh risponde finalmente, come Giobbe tante volte aveva richie­sto, ma non per discutere con lui il suo problema personale. Esso non viene neppure nominato, e Giobbe non se ne lamenta (a differenza di molti interpreti moderni!). Jahveh lo strappa al suo egocentrismo e lo eleva alla contemplazione della propria sapiente grandezza e provviden­za. Questo fatto non può stupirci. Sappiamo oramai che il problema essenziale del libro di Giobbe non è la sofferenza del giusto né la retri­buzione ma piuttosto il rapporto con il Creatore.

Eliu ha avuto una funzione importante in questa «conversione» di Giobbe. Infatti gli ha mostrato che il suo problema non poteva essere risolto nella prospettiva deiruom o ma in quella di Dio. Il governo degli uomini e l ’ordine cosmico rivelano la grandezza trascendente del Crea­tore ed esigono come risposta il timore del Signore da parte della crea­tura. In tal modo Eliu ha cominciato a convertire Giobbe dal suo ego­centrismo indirizzando il suo sguardo verso la grandezza di Dio. Anco­ra una volta, il ruolo di Eliu nello svolgimento del dramma appare co­me necessaria preparazione all’atto finale della rivelazione di Jahveh dalla tempesta. Si potrà ancora continuare a ripetere che i discorsi di Eliu sono un’aggiunta secondaria al libro di Giobbe?

In realtà Eliu dice tutto quello che un uomo di fede poteva dire. Ol­tre potevano arrivare solo la rivelazione e l’incontro personale con Dio. Grazie alla preparazione operata in lui da Eliu, Giobbe — benché ab­bagliato dalla maestà divina che gli si dispiega dinanzi — ritrova final­mente la voce per lodare e umiliarsi di fronte al suo Creatore. Qualcu­no ha suggerito che l’«angelo interprete» che compare nel capitolo 33 sia proprio Eliu. Certo, questa interpretazione non corrisponde alla real­tà, m a almeno sottolinea una certa analogia. La funzione di questo gio­vane carismatico è in qualche modo simile a quella dell’angelo che spiega all’uomo la rettitudine di Dio e lo prepara all’incontro di grazia con lui.

Con questo abbiamo mostrato l’importanza di Eliu nell’economia del dramma, ma anche la sua insufficienza. Il suo messaggio è importante ma non basta. Solo la teofania poteva convincere Giobbe e farlo cadere in ginocchio:

Con audizione di orecchio ti avevo udito, ma ora i miei occhi ti hanno visto!Perciò mi umilio e mi pento su polvere e cenere (42,4-6).

C om ’è diverso Dio da quanto Giobbe si attendeva! Lo trasporta in alto, come un pulcino ghermito dall’aquila, eppure sente che tutto quello che avviene non è per la sua morte. Dio si fa «vedere» da Giobbe, cosa

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che Eliu riteneva impossibile. Ciò costituisce infatti un’esperienza ec­cezionale, riservata a pochi spiriti destinati a restare come segni e testi­moni per l’umanità. E una conclusione eccezionale quale si conviene a un dramma eccezionale che non poteva essere risolto con ragionamenti umani (dei tre amici o dello stesso Eliu).

Dall’incontro personale con Dio Giobbe riceve ciò che né la dottrina tradizionale degli amici nc la sana teologia di Eliu erano capaci di dar­gli. Non impara nulla di nuovo, ma ritrova la preghiera e la lode che aveva perduto nel corso delle dispute a causa dell’amarezza crescente della polemica con i tre amici, e alla fine riesce a convivere con la soffe­renza propria e altrui. Certo, ci viene raccontato che egli alla fine viene completamente, anzi doppiamente riabilitato. Ma possiamo dire che que­sto non ha più, come prima, un’importanza decisiva per lui. Egli è di­venuto oramai uno che teme Dio senza guardare alla ricompensa (1,9). Nella contemplazione della sapienza e potenza del Creatore ha impara­to a considerare le vicende della vita, il mondo e tutte le cose nel dise­gno di Dio e quindi ad accettarle come segno e messaggio che attende di essere decifrato e che invita alla lode.

Il fatto che Giobbe venga restaurato allo stato primitivo e anzi dop­piamente benedetto nei possedimenti e nella famiglia, non deve trarre in inganno come se tutto il dramma ne risultasse svigorito o annullato. T utt’altro. L ’epilogo in prosa costituisce un completamento e una pre­cisazione importante del corpo in poesia. Significa che, in fondo, la co­siddetta legge della retribuzione è vera. Essa non diventa cattiva per il fatto che i tre amici raffermano senza possibili eccezioni e quindi ne fanno un dogma rigido che fa torto alla libertà divina. Così è falsa, ma non è falsa in sé. Anzi è profondamente vera. Dio infatti, essendo etica-

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Ma allora invano ho tenuto limpido il mio cuore e ho lavato nella purità le mie palme (...).Riflettei per comprendere questo ma una pena fu questo ai miei occhi finché non entrai nel santuario di Dio e considerai la loro fine.Davvero in luoghi scivolosi li poni,li abbatti riducendoli in rovine... (Sai 73,12-13.16-18).

Jahveh risponde finalmente, come Giobbe tante volte aveva richie­sto, ma non per discutere con lui il suo problema personale. Esso non viene neppure nominato, e Giobbe non se ne lamenta (a differenza di molti interpreti moderni!). Jahveh lo strappa al suo egocentrismo e lo eleva alla contemplazione della propria sapiente grandezza e provviden­za. Questo fatto non può stupirci. Sappiamo oramai che il problema essenziale del libro di Giobbe non è la sofferenza del giusto né la retri­buzione ma piuttosto il rapporto con il Creatore.

Eliu ha avuto una funzione importante in questa «conversione» di Giobbe. Infatti gli ha mostrato che il suo problema non poteva essere risolto nella prospettiva dell’uomo ma in quella di Dio. Il governo degli uomini e l’ordine cosmico rivelano la grandezza trascendente del Crea­tore ed esigono come risposta il timore del Signore da parte della crea­tura. In tal modo Eliu ha cominciato a convertire Giobbe dal suo ego­centrismo indirizzando il suo sguardo verso la grandezza di Dio. Anco­ra una volta, il ruolo di Eliu nello svolgimento del dramma appare co­me necessaria preparazione all*atto finale della rivelazione di Jahveh dalla tempesta. Si potrà ancora continuare a ripetere che i discorsi di Eliu sono un ’aggiunta secondaria al libro di Giobbe?

In realtà Eliu dice tutto quello che un uomo di fede poteva dire. O l­tre potevano arrivare solo la rivelazione e l’incontro personale con Dio. Grazie alla preparazione operata in lui da Eliu, Giobbe — benché ab­bagliato dalla maestà divina che gli si dispiega dinanzi — ritrova final­mente la voce per lodare e umiliarsi di fronte al suo Creatore. Qualcu­no ha suggerito che F«angelo interprete» che compare nel capitolo 33 sia proprio Eliu. Certo, questa interpretazione non corrisponde alla real­tà, ma almeno sottolinea una certa analogia. La funzione di questo gio­vane carismatico è in qualche modo simile a quella dell’angelo che spiega all’uomo la rettitudine di Dio e lo prepara all’incontro di grazia con lui.

Con questo abbiamo mostrato l’importanza di Eliu nell’economia del dramma, m a anche la sua insufficienza. Il suo messaggio è importante ma non basta. Solo la teofania poteva convincere Giobbe e farlo cadere in ginocchio:

Con audizione di orecchio ti avevo udito, ma ora i miei occhi ti hanno visto!Perciò mi umilio e mi pento su polvere e cenere (42,4-6).

Com’è diverso Dio da quanto Giobbe si attendeva! Lo trasporta in alto, come un pulcino ghermito dall’aquila, eppure sente che tutto quello che avviene non è per la sua morte. Dio si fa «vedere» da Giobbe, cosa

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che Eliu riteneva impossibile. Ciò costituisce infatti un’esperienza ec­cezionale, riservata a pochi spiriti destinati a restare come segni e testi­moni per l’umanità. E una conclusione eccezionale quale si conviene a un dramma eccezionale che non poteva essere risolto con ragionamenti umani (dei tre amici o dello stesso Eliu).

Dall’incontro personale con Dio Giobbe riceve ciò che né la dottrina tradizionale degli amici né la sana teologia di Eliu erano capaci di dar­gli. Non impara nulla di nuovo, ma ritrova la preghiera e la lode che aveva perduto nel corso delle dispute a causa dell’amarezza crescente della polemica con i tre amici, e alla fine riesce a convivere con la soffe­renza propria e altrui. Certo, ci viene raccontato che egli alla fine viene completamente, anzi doppiamente riabilitato. Ma possiamo dire che que­sto non ha più, come prima, un’importanza decisiva per lui. Egli è di­venuto oramai uno che teme Dio senza guardare alla ricompensa (1,9). Nella contemplazione della sapienza e potenza del Creatore ha impara­to a considerare le vicende della vita, il mondo e tutte le cose nel dise­gno di Dio e quindi ad accettarle come segno e messaggio che attende di essere decifrato e che invita alla lode.

Il fatto che Giobbe venga restaurato allo stato primitivo e anzi dop­piamente benedetto nei possedimenti e nella famiglia, non deve trarre in inganno come se tutto il dramma ne risultasse svigorito o annullato. T u tt’altro. L’epilogo in prosa costituisce un completamento e una pre­cisazione importante del corpo in poesia. Significa che, in fondo, la co­siddetta legge della retribuzione è vera. Essa non diventa cattiva per il fatto che i tre amici l’affermano senza possibili eccezioni e quindi ne fanno un dogma rigido che fa torto alla libertà divina. Così è falsa, ma non è falsa in sé. Anzi è profondamente vera. Dio infatti, essendo etica-

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mente integro, non può prima o poi non ricompensare e castigare se­condo le opere di ciascuno. I tempi, i modi e le «eccezioni» m omenta­nee vanno però lasciate alla sua libertà.

Sappiamo l’importanza che figli, ricchezze e onore nella società rive­stono nell’orizzonte teologico della sapienza biblica. Questo tipo di ri­compensa terrena e materiale non è affatto vile per la mentalità biblica, anzi fa tu tt’uno con la ricompensa spirituale dell’amicizia con Dio di cui è segno tangibile. M a, attenzione, non si può concludere che per la Bibbia non si dia amicizia con Dio senza ricompensa terrena, né che la ricompensa terrena sia segno inequivocabile dell’amicizia con Dio. La situazione è complessa ed è necessaria una fede profonda per deci­frarla. Va ricordato, comunque, che la mentalità biblica ignora la di­stinzione netta fra terreno e spirituale. La nostra mentalità quasi duali­stica, influenzata dalla filosofia greco-platonica, può arrecare danno al­la comprensione della Bibbia.

Il Signore dell’universo certo ricompensa e castiga secondo le azioni, ma anche sottopone alla sofferenza e alla prova per scopi sapienti che lui solo conosce. Egli mira in primo luogo a rivelare, non a castigare e neppure a purificare. Intende rivelare la debolezza della creatura e in particolare la propria grandezza, perché l ’uomo accetti il suo stato nel mondo e impari a lodarlo.

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Q o e l e t O LA SAPIENZA DEGLI OPPOSTI

essuno si stupirà se dico che Qoelet non è un libro che si legge e si capisce facilmente. I rabbini di Israele dissero che Salomo-

X 1 ne compose il Cantico dei cantici in gioventù, il libro dei Pro­verbi in maturità, Qoelet in vecchiaia. Forse si può affermare che non si comprende il primo se non si è mai stati innamorati e non si apprez­za il secondo prima di una riflessione assidua e severa che suppone o produce capelli almeno brizzolati. Ma il terzo non si comprende senza l’esperienza del dolore, quella profonda, che sembra uccidere ma alla jEjjfine m atura e insegna a convivere con le opposte verità dell’esistenza.

Qoelet è un libro strano, scritto con un linguaggio personalissimo, con una fraseologia, costruzione di frasi e stile praticamente senza pa- ralleli, che bisogna imparare attraverso lunga familiarità.

Queste difficoltà si riflettono nella disparità scoraggiante delle opi- |f•*?**. Ji nioni degli studiosi. C ’è chi lo ritiene un pessimista, un edonista o uno scettico. Quasi sempre la sua sapienza viene vista come negativa sol­tanto: sa distruggere ma non sa costruire, nonostante egli affermi che c’è un tempo per l’uno e per l’altro (3.3). Il suo contributo viene valu­tato piuttosto come negativo: testimonia la necessità della rivelazione ulteriore e in fondo la necessità di Cristo.

Per quanto legittime in sé, queste opinioni sembrano scappatoie piut­tosto che valutazioni, un modo per trarre qualcosa di buono anche da questo libro che, volenti o nolenti, fa parte del canone delle Scritture.Il ricorso alla pienezza della rivelazione in Cristo rischia di far passare in secondo piano l ’approfondimento del libro in se stesso, per quello che significa per la fede di Israele, tenendo conto certo dello sviluppo della rivelazione, ma senza saltare indebitamente al punto finale del com­pimento.

Il nome Qoelet è una forma verbale ebraica, esattamente il partici­pio femminile di un verbo che significa convocare, tradotto in greco ek- klesiastes, da cui il nome alternativo di Ecclesiaste con cui il libro è cono­sciuto. E probabilmente nome d ’ufficio per designare uno che convoca, guida o parla in un’assemblea. Non si dà il nome proprio dell’autore, ma l’indicazione «figlio di David, re in Gerusalemme» (Qo 1,1) lo iden­tifica con Salomone. Gli studiosi sono concordi che tale attribuzione sia fittizia: nient’altro che un espediente per porre l’insegnamento sotto l’au­torità dell’iniziatore e patrono della sapienza in Israele.

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L ’epoca di composizione del libro è questione irrisolta. Viene datato per lo più verso il III see. a.C. a motivo di presunti influssi ellenistici, ma la cosa è tu tt’altro che sicura. Si notano infatti contatti con la lette­ratura pessimistica egiziana anteriore di molto a quella data. D’altra parte, la datazione fissata in base allo sviluppo delle idee è incerta, co­me è incerto l’argomento filologico (uso di term ini ritenuti tardivi, lin­gua recente).

Il riferimento a Salomone come autore, nel migliore dei casi, non va preso nel senso moderno di autore. Come nel caso di Proverbi e del C an­tico dei cantici, può significare ispirazione alla sua attività e al senso del­la sua figura nella storia della sapienza di Israele. D ’altra parte Qoelet, come Giobbe, riflette un periodo di torbidi (4,1), in cui però l’autorità del re è salda (8,2-4), che potrebbe convenire all’epoca di Ezechia. In que­sto senso si esprime anche una tradizione giudaica (Baba Batra 15a).

Le prime parole di Qoelet, che sono anche tra le più famose, enun­ciano il tema e il tono del libro. Sono un annuncio programmatico:

(Vanità delle vanità!)Vanità delle vanità, disse Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità.Quale utilità ha l’uomo in tutta la sua fatica che fa («fatica») sotto il sole?Una generazione va e un ’altra viene, mentre la terra in eterno rimane.Se sorge il sole e tramonta il sole, al suo luogo esso tende dove sorge (di nuovo).Va verso sud e gira verso nord, gira e rigira e va il vento e alle sue regioni torna il vento.Con tutti i fiumi che vanno verso il mare, il mare non è pieno; al luogo dove i fiumi vanno, là essi tornano ad andare.Tutte le parole faticose, nessun uomo può pronunciarle.Non si sazia l’occhio di vedere e non si riempie l’orecchio dal sentire.Quello che fu è ciò che sarà e quello che fu fatto è ciò che sarà fatto.Non c’è niente di nuovo sotto il sole.Se c’è una cosa di cui si dice:Vedi, questo è nuovo, già fu nei secoli in quanto fu prima di noi.Non c ’è ricordo dei primi e neppure degli ultimi che saranno, non ci sarà di essi ricordocome neppure di quelli che saranno dopo (Qo 1,2-11).

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«Vanità delle vanità», come «Cantico dei cantici»: un modo per dire somma vanità, cantico eccelso sopra ogni altro. Gli opposti si incontra­no in questa formulazione tipica della lingua ebraica: la somma ama­rezza e la somma gioia. Il termine kebel (vanità) significa soffio, respiro: quasi una vita breve e stroncata, come quella di Abele (medesima pa­rola). Spesso questo termine è associato a u n ’espressione composta con un verbo che può significare essere compagno, andare con qualcuno, seguire o inseguire, oppure anche essere cattivo, duro; il complesso si può rendere: «vanità e inseguire il vento» (1,14).

Vanità e utilità sono le parole chiave del brano citato. Tutto è vano perché nulla è utile, nulla dà quel qualcosa in più (yitron) che ricompen­si la fatica incessante dell’uomo sotto il sole — sotto il sole impietoso delTOriente. Non dobbiamo fraintendere Qoelet né vedere nelle sue af­fermazioni non so quale nichilismo o determinismo filosofico. No, le cose stanno diversamente e più semplicemente.

Il motivo della vanità si chiarisce alla fine mediante la parola « ricor­do»: non c’è ricordo delle generazioni antiche e neppure di quelle che verranno. L ’attività dell’uomo è parte di un processo ripetitivo senza fine e senza storia. Il sole non fa storia perché ripete sempre lo stesso corso, non finisce mai di ritornare a sorgere; così il vento e i fiumi e anche le generazioni che vanno e vengono. Non fanno storia le «paro­le»: parole che sono anche fatti e avvenimenti nel linguaggio e nella men­talità biblica. Per il saggio le parole procurano fatica e stanchezza: l’uomo non potrà mai pronunciarle tutte, come 1’occhio non potrà saziarsi del vedere né l ’orecchio del sentire. Non potrà pronunciare, vedere e senti­re tutto ciò che il mondo contiene e perciò non sarà mai sazio, la sua fatica non raggiungerà mai la fine. Non c’è utilità perché non c’è sto­ria, non c’è un inizio e una fine.

Qoelet teorizza un processo cosmico che supera il singolo e anche le generazioni, che in ogni tempo si svolge ritornando continuamente su se stesso. Forse è ciò che nella filosofia greca viene detto il divenire, il continuo mutarsi degli esseri e della realtà, con la differenza che per Qoelet il processo si svolge ad anello e ritorna su se stesso. Le genera­zioni, il sole, il vento, i fiumi, l’attività degli uomini non fanno altro che ripetere quello che avvenne nel passato. Per il semplice motivo di ripetere il medesimo percorso, u n ’ondata cancella la precedente in un flusso perenne che non lascia traccia né memoria.

E possibile aggrapparsi a qualcosa in questo processo senza sosta? Per ora Qoelet suggerisce un unico punto fermo: la terra, opera di Dio. rimane in eterno (1,4).

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10 Qoelet fui re su Israele in Gerusalemme.Posi il mio cuore a ricercare e a riflettere con la sapienza

tutto quello che fu fatto sotto il cielo.Ciò è un’occupazione dura che Dio ha dato ai figli dell’uomo per occuparsi di essa.

Vidi tutte le opere che sono state fatte sotto il sole ed ecco, tutto è vanità e inseguire vento.Ciò che è storto non può essere raddrizzato e ciò che manca non può essere contato.

Parlai io con il mio cuore dicendo:Io, ecco ho aumentato e aggiunto sapienzapiù di tutti quelli che furono prima di me (re) su Gerusalemme, e il mio cuore vide in abbondanza sapienza e conoscenza.

Posi il mio cuore a conosceresapienza e conoscenza, follia e stoltezza.

So che anche questo è vanità e inseguire vento, perché nella molta sapienza c’è molta pena e se uno aggiunge sapienza aggiunge dolore.

Dissi io al mio cuore:Andiamo, ti voglio mettere alla prova con la gioia perché tu goda il bene, ed ecco anche questo è vanità.Del riso dissi: Folle! e della gioia: Cosa fa questa?

Riflettei nel mio cuoredi attirare con il vino la mia carnementre il mio cuore si comportava con sapienza,di afferrare la stoltezza fino a che io sapessiqual è bene per i figli dell’uomoche essi facciano sotto il cielonei pochi giorni della loro vita.

Aumentai le mie opere,mi costruii case e mi piantai vigne, mi feci orti e giardini e piantai in essi ogni pianta da frutto.Mi feci piscine di acquaper innaffiare con essa la foresta che produceva piante.Comprai servi e serve e altri mi nacquero in casa («ebbi qudli nati in casa»),anche greggi e armenti e pecore in quantità ebbipiù di tutti quelli che furono prima di me in Gerusalemme.Mi radunai anche argento e oro e tesori dei re e delle terre.Mi feci cantori e cantatrici,11 diletto dei figli dell’uomo e donne in quantità.Diventai grande e aumentaipiù di tutti quelli che furono prima di me in Gerusalemme, e in questo la mia sapienza mi assistette.Tutto quello che chiesero i miei occhi non glielo rifiutai, non trattenni il mio cuore da alcuna gioia; sì, il mio cuore gioì di tutta la mia fatica e questa fu la mia parte da tutta la mia fatica (Qo 1.12-2,10).

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Colpisce lo stile nuovo e autorevole di questo brano, che è poi lo stile dell’intero libro. Si nota in particolare una concentrazione di forme ver­bali di prima persona singolare (le principali occorrenze le ho segnalate mediante rientranze nel testo). I maestri di Israele raramente parlaro­no in prima persona e comunque mai con Pinsistenza di Qoelet. Lo scrit­to s’impone subito per la forte personalità dell’autore, per la sua origi­nalità e indipendenza, quasi per la sua solitudine. Qoelet è sì un Con- vocatore, un leader, ma di fronte a lui sta u n ’assemblea senza volto, una massa impegnata in un duro lavoro: «i figli dell’uomo».

Benché così personale, la ricerca di Qoelet è la ricerca dell*umanità; egli porta avanti un compito che incombe su tutti gli uomini e chiama in causa il bene universale. Lo scritto ce lo presenta come un re che per tutta la vita ha ricercato la sapienza e ora, giunto alla vecchiaia, ripercorre il cammino seguito. Non è certo un principiante nella via della sapienza; è uno che ricerca la realtà munito della sapienza acquisita lungo anni di esercizio e illuminato da essa: « Ho posto il mio cuore a ricerca­re e a scrutare con la sapienza... e in questo la mia sapienza mi assistet­te» (1,13; 2,9). E una ricerca esemplare, condotta a beneficio di tutti.

Le prime frasi descrivono l ’oggetto della ricerca e il modo come essa fu condotta, ma per comprendere dobbiamo familiarizzarci con la termi­nologia. Qoelet parla di « tutte le opere che sono statefatte sotto il sole», senza specificare l ’agente, ma nel suo linguaggio esse sono le opere di Dio. Il modo di esprimersi è sottile e può essere facilmente frainteso: « Ciò è un’oc­cupazione dura che Dio ha dato ai figli dell’uomo per occuparsi di essa », il che significa: le opere di Dio costituiscono il compito dell’uomo, la sua occupazione durante la vita. L ’opera delFuomo si esercita sull’opera di Dio e la presuppone; Dio e l’uomo sono in attività nel mondo; la loro opera si incrocia, si incontra e si scontra. E, questo, un tema fondamentale su cui Qoelet torna ripetutamente. Il passo più esplicito è forse il seguente:

Vidi tutta l'opera di Dio,che cioè l’uomo non può trovare tutta l'opera che è stata fatta sotto il sole;per quanto l'uomo fatichi a ricercare, non troverà;anche se il saggio dirà di conoscere, non potrà trovarla (Qo 8,17).

All’opera di Dio viene riferito il linguaggio della conoscenza che com­pare nel poema della sapienza del libro di Giobbe (Gb 28). Troviamo infatti sia il linguaggio spaziale e indiretto (trovare l’opera di Dio), che è prevalente, sia quello diretto (conoscerla). Il passivo («tutto quello che fu fatto sotto il cielo») è perciò teologico in quanto sottintende Dio co­me agente.

E motivo di frustrazione sperimentare che le deficienze che l’uomo scopre nella realtà non possono essere corrette: «tutto è vanità e inse­guire vento... Ciò che è storto non può essere raddrizzato e ciò che manca non può essere contato». Per quanto si dia da fare, l’uomo non ha po­tere di modificare la creazione in modo consistente. Ma forse, riflette Qoelet, può realizzare qualcosa di buono con la propria attività.

A questo punto il disegno del saggio diventa temerario: si propone di conoscere non solo la sapienza ma anche la stoltezza. Non intende

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trascurare nessun aspetto della realtà. Vuole sperimentare non soltanto quello che la sapienza tradizionale (e comune) considerava (e conside­ra) bene, come ricercare l’opera di Dio nella creazione e sforzarsi di raggiungere la sapienza. Vuole sperimentare anche quello che la sapienza considerava pericoloso, e in definitiva stolto, come acquistare case, vi­gne, giardini, piscine, servi e serve, ogni genere di possedimenti, don­ne, senza rinunciare a nulla di desiderabile.

Infatti, «chi è veloce a diventare ricco non sarà senza colpa», ammo­niva il maestro (Pro 28,20).

La peculiarità della posizione di Qoelet viene indicata dalla frase: «posi il mio cuore a conoscere sapienza e conoscenza, follia e stoltezza». Per la dottrina tradizionale, infatti, la sapienza procurava ogni bene; non

SALOMONE, DOV’È LA TUA SAPIENZA?

Tu, Salomone, dov’è la tua sa­pienza e la tua intelligenza? Non solo le tue parole contraddicono le parole di tuo padre David ma sono anche contraddittorie in se stesse! Tuo padre David disse: I morii non lodano il Signore (Sai 115,17), mentre tu dici: Perciò io lodo i morti che sono già morti (Qo 4,2), e tuttavia tu dici ancora: Un cane vivo è meglio di un leone morto (Qo 9,4), mentre non c’è alcuna difficoltà. Quello che David dice:I morti non lodano il Signore, ecco ciò che significa: Un uomo si oc­cupi della Torah e delle opere buone prima che muoia, poiché appena muore è impedito dalfoc- cuparsi della Torah e delle opere buone e perciò il Santo, sia be­nedetto, non trova nulla da loda­re in lui (...).

Rabbi Giuda figlio di Rabbi Samuele ben Shilat disse a nome del Rab: I saggi desiderarono na­scondere 1* Ecclesiaste (cioè esclu­derlo dal canone) perché le sue parole sono contraddittorie in se stesse. Tuttavia perché non le na­scosero? Perché il suo inizio è in­segnamento della Torah e la sua fine è insegnamento della Torah, come sta scritto: Che vantaggio ha

l'uomo da tutta la sua fatica in cuifa­tica sotto il sole? (Qo 1,3) (...). E la sua fine è insegnamento della Torah: Ascoltiamo la conclusione del­la cosa: Temi Dio e osserva i suoi co- mandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo (Qo 12,13). Che signi­fica: Perché questo è il tutto dell'uo­mo? Disse Rabbi Eleazaro: Il mondo intero fu creato solo per questo tipo di uomo. Simeone ben Azzai — altri dicono Simeo­ne ben Zoma — disse: Il mondo intero fu creato solo per essere compagno di questo uomo (...).

Anche il libro dei Proverbi es­si volevano nascondere perché le sue affermazioni sono contraddit­torie in se stesse. Tuttavia perché non lo nascosero? Dissero: Non abbiamo esaminato il libro di Ec­clesiaste e vi abbiamo trovato ac­cordo? Così facciamo la ricerca anche qui. Come sono contrad­dittorie le sue affermazioni? E scritto: Non rispondere allo stolto se­condo la sua stoltezza (Pro 26,4); tuttavia è anche scritto: Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza (Pro 26,5). Non c’è alcun problema: uno si riferisce a cose di scienza, l’altro a cose generali.

(Talmud, Skabbat 30a; 30b)

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c’era posto quindi per u n ’attività autonoma dell’uomo diversa dal ri­cercare la sapienza.

Qoelet, però, non si dà alla ricerca della gioia e della ricchezza in modo sconsiderato, dimenticando la sapienza; come abbiamo rilevato, egli tutto intraprende assistito dalla sapienza (2,9). Nello sforzo di te­nere insieme in modo equilibrato aspetti contrapposti come stoltezza e sapienza, egli in qualche modo si sdoppia: «Riflettei nel mio cuore di attirare con i] vino la mia carne mentre il mio cuore si comportava con sapienza».

E un esercizio che oggi diremmo stressante, al limite della capacità umana. Il saggio si sforza di mettere distanza sia dall’una che dall’al­tra, sia dalla sapienza che dalla stoltezza: « So che anche questo è vanità e inseguire vento, perché nella molta sapienza c’è molta pena e se uno aggiunge sapienza aggiunge dolore» (1,17-18); «Andiamo, ti voglio met­tere alla prova con la gioia perché tu goda il bene, ed ecco anche questo è vanità. Del riso dissi: Folle! e della gioia: Cosa fa questa?» (2,1-2). Sia la sapienza che la stoltezza sono vane: la prima porta con sé pena e dolore, la seconda è follia e non porta giovamento.

La tensione degli opposti tenuti insieme, senza rifiutare né l’uno né l’altro, emerge varie volte dal libro e in fondo costituisce la sua tram a di base. Compare nel modo più chiaro in un passo famoso:

Tutto vidi nei giorni della mia vita vana («mia vanità»).C ’è un giusto che perisce nella sua giustizia e c’è un malvagio che vive a lungo nella sua cattiveria.Non essere giusto in abbondanza e non essere giusto troppo,

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perché vorresti rovinarti?Non essere malvagio in abbondanza e non essere stolto,perché vorresti morire prima del tuo tempo?E bene che tu ti attenga a uno, ma anche dall’altro non allontanare la tua mano, poiché chi teme Dio se la caverà con tutti e due; la sapienza dà al saggio più forza di dieci governatori nella città.Poiché l’uomo — non c’è giusto sulla terra che faccia il bene e non pecchi (Qo 7,15-20).

Si ritiene comunemente che questo passo enunci la morale della cosid­detta aurea mediocrità, o morale dell’equilibrio, di tradizione greca; ma è assai dubbio che questa interpretazione colga il segno. Schematicamente, il ragionamento di Qoelet sembra il seguente: non troppa saggezza per­ché anche il saggio muore, né troppa stoltezza perché lo stolto muore an­zitempo. C ’è, agli occhi di Qoelet, una preoccupante affinità tra le due realtà opposte, e questo stesso fatto consiglia di assumere una certa equi­distanza tra sapienza e stoltezza. M a il motivo profondo sembra essere la consapevolezza che nessun uomo è del tutto senza peccato; solo il ti­morato di Dio riesce a tenere il giusto equilibrio in questa dolorosa ten­sione degli opposti. Così inteso, l’insegnamento di Qoelet è ben lontano dall’aurea mediocrità dei pagani, in cui manca del tutto il senso del peccato.

Un altro elemento saliente viene enunciato alla fine del brano letto sopra: «Tutto quello che chiesero i miei occhi non glielo rifiutai, non trattenni il mio cuore da alcuna gioia; sì, il mio cuore gioì di tutta la mia fatica e questa fu la mia parte da tutta la mia fatica» (Qo 2,10). Non si confonda questa riflessione sofferta con il «carpe diem» dei pa­gani e dei buontemponi. Godere la sua «parte» è quanto di meglio l’uo- mo. per divina bontà, riesce a trarre da tutta la sua fatica sulla terra. Questa idea costituisce forse il succo ultimo dell’insegnamento di Qoelet.

Nella situazione stressante dell’esistenza umana, di tensione spasmo­dica tra la sapienza, vantaggiosa e tuttavia insufficiente, e la stoltezza, che spinge a ricercare la gioia nella propria attività anche a rischio di peccato e di morte, Dio concede momenti di gioia. Il saggio è consape­vole che questi momenti sono fugaci e che presto verranno sofferenza e frustrazione. M a questa consapevolezza non gli deve impedire di go­dere del momento di gioia concesso da Dio, perché questa è la sua «par­te», il suo bene sulla terra.

E edonismo, questo? E materialismo o opportunismo etico? Per Qoelet è la sapienza, il segreto ultimo del comportamento retto. Il timorato di Dio riesce, per grazia, a evitare i due estremi: sia la ricerca spasmodica della sapienza, che procura eccessiva preoccupazione e toglie la gioia, sia la stoltezza che insegue la felicità ad ogni costo, senza altra preoccu­pazione. Dato che l’uomo è limitato e mai del tutto esente da colpa, questa è la saggezza suprema della vita.

E semplicemente saggezza a misura della ragione umana senza pie­na rivelazione e redenzione, come spesso si legge? Non mi sembra af­

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fatto. Indubbiamente la rivelazione ha aperto prospettive sempre nuo­ve fino alla pienezza del Cristo, ma questo non toglie nulla alla bontà basilare dell’insegnamento di Qoelet. Una saggezza di quel tipo è vali­da anche per noi cristiani, per la nostra attività in un mondo già reden­to. Vale sempre la saggezza di saper godere la gioia al momento giusto, quando il Signore la concede, e la capacità di raccordare la propria atti­vità con quella di Dio, la vita con la fede, il tempo con l’eternità senza ripudiare né Tuna né l ’altra componente.

L ’esame precedente ci ha portato a esporre quelle che sembrano le linee portanti del pensiero di Qoelet. Restano però altri aspetti da se­gnalare, il primo dei quali è la determinazione dei tempi.

Per tutto c’è un momento e un tempo per ogni cosa sotto il cielo.Un tempo per partorire e un tempo per morire,un tempo per piantare e un tempo per sradicare il piantato,un tempo per uccidere e un tempo per curare,un tempo per abbattere e un tempo per costruire,un tempo per piangere e un tempo per ridere,un tempo di fare lamento e un tempo di danzare,un tempo per gettare pietre e un tempo per radunare pietre,un tempo per abbracciare e un tempo per allontanarsi dall’abbraccio,un tempo per cercare e un tempo per perdere,un tempo per conservare e un tempo per gettare,un tempo per strappare e un tempo per cucire,un tempo per tacere e un tempo per parlare,un tempo per amare e un tempo per odiare,un tempo di guerra e un tempo di pace.Qual è l’utilità di colui che lavora, in quello in cui egli fatica? (Qo 3,1-9).

Il senso di questo passo viene spesso frainteso. Sarebbe dichiarazione di determinismo universale, teologico: tutti gli avvenimenti sono stabi­liti in anticipo da Dio; l’uomo non può conoscere nulla di questo ed è perciò totalmente alla mercé di Dio o del destino. E molto probabile che le cose non stiano affatto così.

Certamente ogni cosa ha il suo tempo; questo è infatti un pensiero preferito della riflessione sapienziale di Israele e anche dei popoli orien­tali antichi, e possiamo dire, della saggezza di ogni tempo. E vero che Qoelet, con quella specie di filastrocca, accentua l ’idea del tempo adat­to in una forma che non ha paragone. M a per capire l’insegnamento da trarne si dovrà interpretare il passo alla luce del contesto.

L’annuncio programmatico (1,2-11) ha mostrato che non c’è utilità nell’opera dell’uomo perché essa è parte di un processo cosmico ripeti­tivo che ritorna continuamente su se stesso, non ha inizio né fine e per­ciò non ha storia e non lascia ricordo. L ’attività um ana che Qoelet ha intrapreso su questa base è uno sforzo faticoso di tenere insieme gli op­posti, sapienza e stoltezza (1,12-2,10). In questo processo una doman­

L ’opera di Dio

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da ritoma continuamente: «Qual è l’utilità di colui che lavora, in quel­lo in cui egli fatica?» (3,9). Occorre trovare il principio che renda ra­zionale e redditizia l’attività umana, la chiave che consenta di risolvere il problema dall’interno.

A questo scopo Qoelet introduce la nozione del tempo adatto. C ’è un tempo per una cosa e un tempo anche per il suo opposto: questo è il principio che permette di tenere insieme gli opposti, la chiave che consente di penetrare nel cuore del problema. Non è fermare il proces­so, che è inarrestabile, ma almeno ancorare un’attività determinata al suo momento. Questo ancoraggio la salva dal fluire perenne, le dà ri­lievo e consistenza, la fa entrare nella storia perché produce il ricordo. In una parola, la fa diventare un’attività che procura un vantaggio per colui che la compie.

Nel seguito del suo ragionamento, Qoelet mostra come la nozione del tempo giusto riscatti l’attività umana ancorandola all’attività di Dio che «tutto ha fatto bello a suo tempo».

Vidi l’occupazione che Dio ha dato ai figli dell’uomo per occuparsi di essa.Tutto egli ha fatto bello a suo tempo; anche l’oscurità (?) ha posto nei loro cuori di modo che l’uomo non trovi l’opera che Dio ha fatto dall’inizio alla fine.So che non c’è bene per essi (uomini) se non gioire e trascorrere il bene nella loro («sua») vita.E anche ogni uomo che mangia,beve e gode il bene in tutta la sua fatica,questo è dono di Dio.So che tutto quello che Dio fa, rimane in eterno; ad esso non c’è da aggiungere e da esso non c’è da togliere.E Dio lo ha fatto perché lo temano.Quello che fu, già è e quello che sarà, già fue (così) Dio ricerca ciò che è passato (?) (Qo 3,10-15).

Il ragionamento di Qoelet si rifa al principio; infatti la frase «Vidi l’occupazione che Dio ha dato ai figli dell’uomo per occuparsi di essa» (3,10) riprende quasi alla lettera l’ultima parte di 1,13. Ritorna così il problema del senso dell’attività umana, ma con una prospettiva diversa.

A differenza di 1,13, in cui l’attività umana è vista nel fluire perpe­tuo del cosmo, qui essa viene ancorata all’attività divina che è basata sul tempo adatto: «Tutto egli ha fatto bello a suo tempo; anche l’oscu­rità (?) ha posto nei loro cuori di modo che l’uomo non trovi l’opera che Dio ha fatto dall’inizio alla fine» (3,11). Scoprire il senso dell’atti-

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vita divina in rapporto al tempo adatto produce l’effetto di porre l’atti­vità um ana su un terreno solido. C ’è però un limite: Dio ha come an­nebbiato il cuore dell’uomo di modo che egli non giunga mai a cono­scere l’opera divina nella sua interezza.

Se questo è il senso di 3,11, l’idea di Qoelet è simile a quella di Pro­verbi, di Giobbe e di Siracide: l’uomo può conoscere la sapienza per­ché essa stessa, come un essere vivente, gli viene incontro e gli si rivela (Pro 8), m a non potrà mai conoscere le profondità della sapienza, le sue radici, o l’interezza del piano divino della creazione; la conoscenza completa è riservata a Dio, che è il solo saggio (Gb 28,23-24; Sir 1,6).

L ’attività di Dio in Qo 3,10-15 è dunque diversa dal fluire perpetuo del cosmo perché è fatta nel tempo adatto. E diversa anche perché è completa e perfetta in se stessa: « So che tutto quello che Dio fa, rimane in eterno; ad esso non c’è da aggiungere e da esso non c ’è da togliere» (3,14). M a, sotto un altro aspetto, anche l’attività di Dio si colloca nel fluire cosmico. Questo sembra il senso delle parole successive, che ri­chiamano 1,9: «Quello che fu, già è e quello che sarà, già fu e (così) Dio ricerca ciò che è passato (?)» (3,15).

In questo modo Qoelet presenta l’attività di Dio sotto un duplice aspet­to: buona a suo tempo e immutabile, e insieme inserita nel fluire del cosmo. Il primo è l’aspetto divino, profondo dell’attività divina (o della sapienza nel linguaggio di Proverbi, Giobbe e Siracide); il secondo è l’aspetto umano, esteriore di essa. Secondo la riflessione di Qoelet, l’uo­mo riesce a cogliere il secondo, e ne resta come perduto e interdetto, in quanto si sente trasportato nel fluire del cosmo senza lasciare trac­cia; il primo aspetto gli si rivela solo in piccola parte e si presenta come un orizzonte irraggiungibile, fuori della sua portata.

Questo lato nascosto della sapienza ha due scopi ben precisi, enun­ciati in due frasi parallele introdotte dalla medesima formula «So che... ». il primo scopo è che l’uomo goda delle opere di Dio: «So che non c’è bene per essi (uomini) se non gioire e trascorrere il bene ( = godere) nella loro vita. E anche ogni uomo che mangia, beve e gode il bene in tutta la sua fatica, questo è dono di Dio» (3,12-13). Il secondo scopo è che l’uomo tema Dio: «So che... Dio lo ha fatto (tutto) perché lo te­mano» (3,14).

Il secondo scopo è tradizionale, nel senso che richiama il motto della sapienza classica, da Proverbi a Giobbe fino a Siracide: «Principio del­la sapienza è il timore di Jahveh». Il primo scopo invece è proprio di Qoelet. Questa combinazione dei due scopi ha un significato veramen­te grande per l’interpretazione del libro.

Anzitutto, il godere unito al temere Dio esclude l’interpretazione del «carpe diem» di stampo pagano. Secondo Qoelet il godimento dell’uo­mo è uno scopo dell’opera divina della creazione: le cose sono state create per essere godute da lui; non c’è alcun bisogno di strappare il piacere a un destino geloso e punitivo. In secondo luogo, l’insistenza di Qoelet che l’uomo goda le opere di Dio, o la propria opera (le due cose, a que­sto livello, coincidono), esclude u n ’interpretazione pessimistica del suo insegnamento.

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Per intenderci, dobbiamo mostrare quanto Qoelet insista sull’invito al godere e cercare di capire il senso e la funzione di tale invito. Comin­ciamo dal passo che segue immediatamente quello che stiamo esami­nando. Dopo aver presentato il principio del tempo adatto e aver mo­strato che tutta l’opera di Dio è buona a suo tempo, Qoelet presenta subito il rovescio della medaglia: l’esistenza dell’ingiustizia nel mondo. La giustapposizione risulta dura, quasi brutale, sottolineata anche dal­la ripetizione della medesima formula introduttiva: «Vidi...» l ’opera di Dio (3,10), «Vidi...» l’ingiustizia (3,16).

Vidi ancora sotto il sole:il luogo del giudizio, là era la malvagitàe il luogo della giustizia, là era la malvagità.Dissi io al mio cuore:Il giusto e il malvagio giudicherà Dio, poiché c’è un tempo per ogni affare e per ogni opera, là!Dissi io nel mio cuore:A motivo dei figli dell’uomo,perché Dio possa chiarire a loroe perché vedano che bestie sono essi per se stessi.Poiché il destino dei figli delFuomo e il destino delle bestie,un destino unico li attende,come muoiono gli uni così muoiono le altre,un unico spirito vitale hanno tuttie non esiste alcun vantaggio delFuomo sulla bestiaperché tutto è vanità.Tutto va a un unico luogo; tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere.Chi conosce lo spirito dei figli delFuomo, se esso sale in alto, e lo spirito della bestia, se esso scende in basso nella terra?Perciò vidi che non cJè benepiù che l’uomo goda delle sue opere,perché questa è la sua parte;perché chi lo porterà a vederequello che sarà dopo di lui? (Qo 3,16-22).

La vista dell’ingiustizia che domina nel luogo stesso della giustizia, probabilmente nel tribunale e per opera degli stessi giudici, provoca in Qoelet due riflessioni parallele introdotte dalla medesima formula: «Dissiio al mio cuore». La prima è una convinzione di fede, comune alla tra­dizione biblica: Dio giudicherà a suo tempo. La seconda è invece un ’os­servazione propria di Qoelet, provocatoria e quasi devastante: Dio la­scia prevalere l’ingiustizia per mostrare agli uomini che sono bestie, che non c’è differenza tra il destino che li attende dopo morte e il destino delle bestie. L’aspetto esteriore, almeno, è identico e uno spietato os­servatore come Qoelet non m anca di trarne tutte le conseguenze: chi può confermare che lo spirito delFuomo va davvero verso Falto, men­tre quello delle bestie va verso il basso?

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Se non si fa distinzione tra giusto e malvagio nell’amministrare la giustizia, c’è da dubitare che esista differenza tra il destino finale del­l’uomo e dell*animale. E una riflessione terribile, certo, ma non si può concludere frettolosamente che Qoelet neghi ogni possibilità di vita do­po la morte. Il ragionamento è simile a quello che abbiamo trovato in 7.15-20. Là Qoelet scopre una preoccupante affinità tra sapienza e stol­tezza, nel nostro passo l’aflinità riguarda l’uomo e la bestia; il termine di paragone è il medesimo: la morte. Il fatto che il saggio muoia comelo stolto, o che l’uomo muoia come la bestia, provoca la riflessione soli­ta: è vanità. Il saggio rileva un aspetto di vanità anche nella sapienza e nel destino dell’uomo, come esiste vanità nella stoltezza e nel destino della bestia.

Non viene data risposta all’interrogativo posto da queste considera­zioni. Anche altrove, dove ritorna il problema dell’ingiustizia e della sorte dei giusti e dei malvagi, non troviamo una risposta univoca ma, in caso, duplice, una positiva e una negativa, cosa che oramai possia­mo dire caratteristica del pensiero di Qoelet.

Nel capitolo 8, ad esempio, il saggio presenta di nuovo la sua espe­rienza dell’ingiustizia, «nel tempo — egli dice — che l’uomo ha potere sull’uomo per il suo male» (8,9). Ritorna la parola «tempo» ( 'et), e questo richiama la nozione del tempo stabilito da Dio. In effetti, Dio ha stabi­lito un tempo in cui l’uomo ha potere sull’uomo, il che si riferisce al potere giudiziario sulla terra. Questo tempo è tempo di ingiustizia: i malvagi ricevono sepoltura con tutti gli onori (8,10) e i peccatori vivo-

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no a lungo (8,12). Anche di fronte a questa vista sconcertante Qoelet presenta due risposte, o due riflessioni contrapposte, prima quella posi­tiva, di fede: il timorato di Dio avrà il bene, al contrario dell’iniquo (8,12-13); poi quella negativa, di esperienza: i giusti ricevono la sorte dei malvagi e viceversa (8,14). Segue la valutazione solita: è vanità (8,10; 8,14).

In tutti i casi, però, la vanità non è la parola finale di Qoelet. L’im­portanza di questa osservazione non può essere esagerata: è davvero cruciale per l’interpretazione. La riflessione positiva ha valore, ma ha valore anche la riflessione negativa; non si deve assolutizzare né l’una né l ’altra come non si deve rifiutare né l’una né l ’altra; bisogna tenere insieme entrambe. Nella tensione degli opposti che è l’esistenza dell’uo­mo sulla terra, né l’una né l’altra costituiscono la soluzione finale. In­fatti la soluzione di fede ignorerebbe la realtà, mentre la soluzione di esperienza annullerebbe la sovranità di Dio.

Da tale situazione, che è doloroso equilibrio degli opposti, Qoelet trae un imperativo: godere! Questa è la sua ultima parola quando tratta il problema dell’ingiustizia e delle contraddizioni dell’esperienza in am­bedue i passi che stiamo confrontando:

Perciò vidi che non c’è bene più che l’uomo goda delle sue opere, perché questa è la sua parte; perché chi lo porterà a vedere quello che sarà dopo di lui? (3,22).E perciò lodai io la gioia,in quanto non c’è bene per l’uomo sotto il sole se non mangiare, bere e gioire, e questo lo accompagnerà nella sua faticanei giorni della sua vita che Dio gli ha dato sotto il sole (8,15).

L ’importanza dell’invito alla gioia risulta più chiaramente se pren­diamo in considerazione gli altri passi in cui compare. Possiamo affer­mare infatti che esso figura immancabilmente in ogni sezione maggiore del libro in cui si discutono problemi dell’esistenza. Dopo aver evocatoi due soliti aspetti contrapposti, quello positivo e quello negativo, l’au­tore conclude con un invito alla gioia.

Gli altri passi in cui tale invito compare sono i seguenti: 5,17; 9,7; 11,7-10. Li passeremo in rassegna cercando di inquadrarli nel contesto delle argomentazioni che essi concludono.

Qo 5,7-197 Se oppressione del povero

e defraudamento del diritto e della giustizia vedi nel paese,non essere sconvolto dalla cosa, poiché un Alto più dell’alto è custode e l’Altissimo è sopra di essi

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8-1617

18

19

Qo 8,16-9,10

8,16-9,6

7

8

9

10

Qo 9,11-12,2

9,11-12 9,13-10,4 10,5-11,6

l i , 7

8

(spesso la ricchezza non è goduta dal suo padrone).Ecco quello che vidi io,il bene, che è anche il bello,è mangiare, bere e vedere il benein tutta la sua fatica che fa sotto il solenei pochi giorni che Dio gli dà,perché questa è la sua parte.Proprio ogni uomo a cui Dio dette ricchezze e proprietà e gli dette il potere di mangiarne, di prendere la sua parte e di godere della sua fatica, questo è dono di Dio.poiché non molto (a lungo) ricorderà tutti i giorni della sua vita,ma Dio gli concede la («risponde con la») felicità del suo cuore.

(i giusti ricevono bene e male da Dio,un solo destino per il giusto e per il malvagio...però meglio la vita che la morte...).Va’, mangia nella gioia il tuo pane e bevi con cuore allegro il tuo vino perché Dio ha già gradito le tue opere.In ogni tempo siano le tue vesti bianche e l’olio sul tuo capo non manchi.Godi la vita con la donna che ami tutti i giorni della tua vana esistenza che Dio ti ha dato sotto il sole, tutti i giorni della tua vana esistenza, perché questa è la tua parte nella vita e nella fatica che tu fai sotto il sole.Tutto quello che la tua mano riesce a fare, fallo, poiché non c’è opera né affare né conoscenza né sapienzanello sheol dove tu andrai.

(il successo non dipende dall’uomo...)?(potenza della sapienza, però...)?(lati negativi e positivi della sapienza, in serie...)? E dolce la lucee buono per gli occhi vedere il sole,poiché se anni in abbondanza vivesse un uomo,in tutti gioiscae ricordi che i giorni delle tenebre saranno numerosi.Gioisci, giovane, nella tua fanciullezzae sia lieto il tuo cuore nei giorni della tua gioventù,va’ nelle vie del tuo cuoree nei desideri dei tuoi occhi,ma sappi che su tutto questoDio ti porterà in giudizio.

(conclusione)

(cfr. 3,13!)

Sotto il sole (I)

(lato negativo)

(lato positivo) (conclusione)

Sotto il sole (II)

(lato negativo) (lato positivo)

(conclusione)

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10 Allontana Tira dal tuo cuoree fa’ passare via il male dalla tua carne, perché la fanciullezza e la tenera età sono vanità.

12,1 E ricorda il tuo Creatorenei giorni della tua gioventùfino a quando non vengano i giorni del malee giungano gli anni in cui dirai:Non ho più piacere in essi;

2 fino a quando non si ottenebrino il sole e la luce e la luna e le stelle e tornino le nubi dopo la pioggia (...).

Ognuna delle tre grandi sezioni di Qoelet che abbiamo passato in ras­segna tratta i problemi dell’esistenza: ingiustizia, senso dell’attività uma­na, retribuzione, sapienza e stoltezza. Il ragionamento del saggio pro­cede sempre per contrapposizioni nette; prospetta i lati positivi e i lati negativi di ogni argomento senza giungere ad alcuna conclusione uni­voca né in un senso né nell’altro. L ’unica conclusione che trae in tutti i casi è l’invito a godere. Per Qoelet, questo è il punto d ’arrivo di ogni riflessione, l’unica lezione da trarre nella contrapposizione inestricabile delle due verità dell’esistenza.

L ’importanza dell’invito alla gioia emerge anche dal punto di vista stilistico. Per due volte infatti troviamo espressioni singolari:

E anche ogni uomo che mangia,beve e gode il bene in tutta la sua fatica,questo è dono di Dio (3,12-13).Proprio ogni uomo a cui Dio dette ricchezze e proprietà e gli dette il potere di mangiarne, di prendere la sua parte e di godere della sua fatica, questo è dono di Dio (5,18).

L ’espressione «questo è dono di Dio» suona sorprendente di fronte all’altra, molto più frequente, formata allo stesso modo ma di senso op­posto: «questo è vanità». Tale contrapposizione non è certo priva di significato. Il fatto di godere il frutto della propria fatica vince la vanità fondamentale dell’esistenza umana con il suo fluire perpetuo e le sue contraddizioni. E la constatazione «questo è dono di Dio» cancella, al­meno per un momento, la constatazione contrapposta «questo è vanità».

Si potrà ancora ritenere che Qoelet è un pessimista o un nichilista? Al contrario, il suo è uno sforzo sovrumano di estrarre un succo di po­sitività dall’esistenza umana, uno sforzo che torna a beneficio di tutti i «figli dell’uomo» sottoposti a un duro lavoro sulla terra.

Poter godere il frutto del proprio lavoro è una «grazia» veramente preziosa in quanto Dio non sempre la concede. Su questo punto il lin­guaggio di Qoelet diventa grave:

C ’è un male che ho visto sotto il sole che è pesante sull’uomo:uno a cui Dio ha dato ricchezza, mezzi e onore e nulla manca alla sua brama di tutto quello che possa desiderare,Dio poi non gli concede di mangiarne

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ma uno straniero ne mangerà.Questo è vanità e malattia cattiva (6,1-2).

Dio non agisce a capriccio quando concede o non concede di godere del frutto delle proprie fatiche. L ’uomo certo non può comprendere, ma proprio per questo non deve imprecare; deve invece vedere e medi­tare l’operato di Dio e adattarvisi nel miglior modo possibile.

Osserva l ’opera di Diopoiché chi può raddrizzare quello che egli ha curvato?Nel giorno della gioia sii nella gioia e nel giorno della sventura osserva!Appunto una cosa di fronte all’altra ha fatto Dioallo scopo che l’uomo non comprenda («trovi») niente (di ciò che sarà) dopo di lui (7,13-14).

L’uomo, riflette Qoelet, non ha il potere di mutare 1’operato di Dioo di raddrizzare ciò che è storto ai suoi occhi (cfr. 1,15). Deve accettare ciò che Dio manda e godere quando glielo concede; quando invece è nella sventura deve riflettere.

Il discorso, per quanto solo accennato, diventa qui profondo in quanto chiama in causa la struttura stessa della creazione. Per capire meglio, leggiamo un paio di passi del Siracide il quale sviluppa, più di Qoelet, la visione della creazione come realtà binaria, strutturata a coppie di bene e di male uno di fronte all’altro:

Come la creta nella mano del vasaio da afferrare (greco: modellare) a piacere, così l’uomo nella mano del suo Creatore da porre davanti a sé come parte (?)(greco: da rendere loro secondo il suo giudizio).Di fronte al male il bene e di fronte alla vita la morte; davanti al buono il malvagio e davanti alla luce le tenebre.Contempla tutta l’opera di Dio:tutte sono a due a due, una di fronte all’altra (Sir 33[30], 14-15). Come sono desiderabili tutte le sue opere e come è delizioso contemplarle!Tutte queste cose vivono e rimangono in eterno per tutti i bisogni, e tutte obbediscono.Tutte sono duplici, una di fronte all’altra e non fece nulla di superfluo (Sir 42,22-24 greco).

L ’ammirazione estasiata di Siracide fa comprendere che questa con­cezione binaria della realtà, con il bene e il male uno di fronte all’altro, non implica affatto una cattiveria costituzionale del creato. Sia il bene che il male hanno una propria funzione nel tempo stabilito da Dio:

Le opere di Dio sono tutte buone,per ogni bisogno a suo tempo egli le provvede.Non dire: Questo è cattivo! Cos’è questo?(greco: Questo è peggio di quest’altro!)perché tutto a suo tempo esercita la sua efficacia (Sir 39,33-34).

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L’uso che Qoelet fa della dottrina della creazione binaria non è certo sereno come quello di Siracide, ma è fondamentalmente lo stesso. Tale dottrina fornisce, anzi, la chiave per capire il suo insegnamento degli opposti che abbiamo delineato. Il motivo per cui l’uomo deve accettare sia il lato positivo che quello negativo dell’esistenza è, in definitiva, che l’opera di Dio è fondamentalmente duplice: le creature sono state crea­te a coppie, una buona e l’altra cattiva, e anche l’intervento divino nel mondo ha un duplice aspetto, buono e cattivo per l’uomo. Sia l’uno che l’altro hanno uno scopo secondo il piano di Dio. Compito dell’uo­mo e sua somma saggezza è accettare il bene quando viene e, quando viene il male, considerare l’opera di Dio cercando di comprendere cosa significhi.

La spiegazione ultima delle tensioni dell’esistenza risiede nel «pro­blema Dio», che Qoelet affronta in modo particolare in 4,17-5,11. Pos­siamo dire, anzi, che a partire da 4,17 alla fine del libro Dio diventa il tema dominante. Egli è effettivamente il problema del mondo e del­l’uomo a motivo della sua imprevedibilità e libertà sovrana. Con lui non si può essere mai sicuri. Occorre perciò essere cauti.

In 4,17 si trova per la prima volta in Qoelet un genere letterario tipi­co del movimento sapienziale detto «istruzione». Come già sappiamo, l’istruzione si compone di un invito a fare o di u n ’ammonizione a non fare qualcosa, a cui segue normalmente la motivazione che spiega e rende accettabile l’insegnamento. Fino a 4,17 non si trovano imperativi nel libro di Qoelet. Il genere letterario usato fino a quel momento, e che continua anche dopo al punto di essere il genere dominante dello scrit­to, possiamo chiamarlo «confessioni».

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Il genere «confessioni» è riconoscibile dai verbi in prima persona sin­golare. Conosciamo già la terminologia che lo caratterizza: «Vidi...» per introdurre un argomento specifico, «Dissi al mio cuore... » per pre­sentare la propria riflessione, «So...», o il semplice «perché» per dare la motivazione. Poiché queste forme verbali si succedono con grande frequenza, lo stile risulta fortemente egocentrico, autorevole e nuovo.

Lo scritto dà grande rilievo all’esperienza propria di Qoelet, espres­so appunto con il genere «confessioni», ma considera anche la sapienza tradizionale dei maestri più antichi. Questa si trova normalmente nei passi che utilizzano i generi tradizionali: l’«istruzione» e anche il «det­to». Il genere nuovo e quelli tradizionali vengono usati per lo più in forma dialettica, per presentare le verità contrapposte dell’esistenza uma­na secondo il modo caratteristico di Qoelet. Il genere confessioni serve a presentare il lato negativo, il genere istruzione e il genere detto intro­ducono quello positivo:

Fa’ attenzione ai tuoi passiquando vai alk casa di Diopoiché è preferibile l’obbedienza («ascoltare»)piuttosto che il sacrifìcio degli stolti(«piuttosto che gli stolti offrano sacrifici»)poiché essi non sanno di fare il male.Non affannarti a parlare («sulla tua bocca») e il tuo cuore non si affretti a pronunciare parole di fronte a Dio perché Dio è nei cieli e tu sulla terra.Perciò siano contate le tue parolepoiché come il sogno viene con molte preoccupazioni,così la voce dello stolto con molte parole.Quando fai un voto a Dionon tardare a compierlo,poiché non c’è compiacimento negli stolti;il voto che fai. compilo.Meglio che tu non faccia un voto che fai un voto e non lo compi.Non lasciare che la tua bocca pecchi contro te stesso e non dire di fronte all’angelo: E uno sbagliol Perché dovrebbe Dio adirarsi per le tue parole e così rovinare l’opera delle tue mani?Poiché nei molti sogni ci sono vanità e molte parole, ma temi Dio (Qo 4,17-5,6).

La nota fondamentale è: attenzione, attenzione a Dio! Vengono con­siderati due argomenti che ricorrono talvolta nei libri sapienziali anti­chi, ma che non sono certo principali: il sacrificio e il voto. Ciò che in­teressa qui non è tanto il sacrificio o il voto in sé come espressione reli­giosa, quanto un modo speciale, possiamo dire sapienziale, di conside­rarli. Che ascoltare o obbedire sia meglio di offrire sacrifici, è dottrina profetica e non solo sapienziale. M a la preoccupazione principale del saggio è inculcare attenzione nei rapporti con Dio: controllare le paro­

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le, non essere precipitosi a fare un voto; meglio non farlo che tardare a mantenerlo o non mantenerlo affatto.

E insegnamento antico dei maestri che bisogna fare attenzione alle parole per non parlare quando bisogna tacere, non rivelare cose a chi non si dovrebbe, non dire parole che potrebbero provocare liti ecc. La precauzione è necessaria soprattutto di fronte a persone importanti che, appunto perché importanti, hanno il potere di rovinare la carriera del­l ’interessato (si ricordi Pro 23,1-3). Per Qoelet il problema non è tanto la carriera o il prestigio nella società ma l ’attività umana in quanto ta­le, con le sue durezze e contraddizioni.

Il motivo del richiamo a fare attenzione è che «Dio è nei cieli e tu sulla terra». Dio è «Altissimo» al di sopra di tutte le autorità umane (5,7), mentre l’uomo è «sotto il cielo» e «sotto il sole». Sono chiara­mente espressioni spaziali destinate a sottolineare la distanza tra il Crea­tore e la creatura, il che equivale al concetto moderno di trascendenza. Qoelet ha fortissimo il senso della trascendenza al punto che alcuni au­tori moderni ritengono che uno dei problemi principali del suo pensie­ro sia la distanza di Dio, l’impossibilità dell’uomo di raggiungerlo e l’as­senza di figure intermedie di mediatori. L ’uomo sarebbe solo sulla ter­ra, solo nel suo duro lavoro sotto il sole, mentre Dio sarebbe lontano e irraggiungibile.

Mi sembra che questa interpretazione non sia esatta. Nonostante l’e­sasperazione che immette nelle sue parole, Qoelet è un saggio secondo Fimpostazione tradizionale. Avverte fortissima la sovranità del Creato­re sulle creature, la sua trascendenza e la separazione netta da esse. Av­verte però in modo altrettanto forte la provvidenza di Dio, che cioè Dio non ha abbandonato il mondo ma continuamente controlla gli eventi e interviene. E altissimo e invisibile ma fortemente presente e attivo. Al punto che la sua presenza e attività, che interferiscono con l’attività dell’uomo, costituiscono il problema della sapienza: riconoscere Dio at­traverso la rivelazione delle creature, problema antico che Qoelet av­verte in modo spasmodico.

Molte volte emerge questo problema nel corso del libro. Ad alcuni Dio concede di godere delle loro fatiche (5,18), mentre ad altri non lo concede, e questo è grande sventura (6,2). Quando Qoelet dice che i giusti sono nelle mani di Dio, la frase non ha il senso rassicurante che ha altrove (soprattutto in Sap 3,1); tu tt’altro:

Sì, a tutto questo volsi il mio cuore, proprio per chiarire tutto questo,cioè che i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio.Sia l’amore che l’odio, l’uomo non lo sa; tutto è davanti a loro (ai giusti).Proprio tutti, tutti hanno un unico destino,il giusto e il malvagioil buono, il puro e l’impuro,chi offre sacrifici e chi non offre sacrifici,come anche il buono e il peccatore,chi fa giuramenti come chi teme di giurare (Qo 9,1-2).

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Conosciamo già queste osservazioni devastanti, ma qui esse investo­no il governo stesso di Dio. L?esperienza di Qoelet dimostra che anche i giusti muoiono e svanisce la loro opera. La loro giustizia non è assicu­razione contro il male; essi, come gli altri uomini, buoni o cattivi che siano, religiosi o no, ricevono da Dio «amore o odio», cioè bene o ma­le. L’uomo non sa a chi né quando Dio manderà l’uno o l’altro. In questo senso i giusti e i saggi, come tutti gli uomini, sono nelle mani di Dio. La fede, anche quella di Qoelet, insegna però che essi non sono alla mercé di un destino crudele o di un Dio geloso e vendicativo. Dio con­cede il bene e anche il male secondo il suo piano misterioso e la sua sovrana libertà.

Ritorniamo alla tensione delle verità opposte che bisogna tenere in­sieme senza mortificare né l’una né l ’altra, anzi traendo profitto da en­trambe: e dal bene per goderne e dal male per trarne insegnamento. Per quanto sia terribile, Dio è il Creatore dell’universo. Come nel caso di Giobbe: egli è il suo Dio, l’unico a cui possa rivolgersi, per quanto sia difficile, addirittura rivoltante, accettare il suo comportamento.

La sua opera è incomprensibile e appare contraddittoria, e tuttavia resta il punto di riferimento dell’attività dell’uomo e della sua vita. No­nostante tutto, egli deve occuparsene perché solo così può trovare la sua «parte». La sua parte che è dono di Dio il quale «risponde» così alla sua fatica (5,19) e mostra di aver gradito la sua opera (9,7).

Una cosa resta al termine di tutto: temi Dio, secondo la dottrina tra­dizionale. Tale invito compare in forma pressante in Qoelet: temi Dio, ricordati del tuo Creatore (12,1). Alla fine del libro, giunto al termine della sua ricerca, il saggio (o qualcuno per lui) riassume la sua carriera e trae il succo del suo insegnamento con queste splendide parole:

Vanità di vanità, disse Qoelet, tutto è vanità.Qoelet oltre che essere un saggio, insegnò anche la sapienza al popolo.Ponderò, ricercò e formulò molti detti.Qoelet cercò di trovare pregevoli detti e scrisse con esattezza parole di verità.Le parole dei saggi sono come pungoli,come chiodi ben piantati sono le sentenze raccolte.Esse furono date dall’unico Pastore.E più di queste cose, figlio mio, fa’ attenzione:a fare libri in quantità non c’è finema studio in quantità e stanchezza della carne.Fine della cosa, tutto è stato sentito:Dio temi e i suoi comandamenti custodisciperché questo è il tutto dell’uomo,perché ogni opera Dio porterà in giudizio,su ogni cosa nascosta, sia buona che cattiva (Qo 12,9-11).

Chi abbia seguito l’interpretazione che abbiamo dato finora, non tro­verà affatto sorprendenti o fuori luogo queste parole. Avverto però che è praticamente opinione comune degli studiosi moderni che esse siano un ’aggiunta posteriore al libro di Qoelet. Lo scopo di tale aggiunta sa­

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rebbe riportare il libro nell’alveo della tradizione sapienziale ortodossa e così favorire o giustificare la sua inserzione nel canone dei libri ispirati.

Sembra che questo giudizio sia condizionato da una certa interpreta­zione che fa del libro di Qoelet uno scritto fortemente deviante dalla spiritualità biblica, blasfemo e quasi pagano. M a Finterpretazione che abbiamo proposto è molto diversa, e la dottrina non è per nulla devian­te. tanto meno blasfema o pagana. D ’altra parte, lo stile, la terminolo­gia e il pensiero della parte finale sono perfettamente coerenti con il re­sto del libro. Sarebbe difficile, anzi, immaginare una conclusione più adatta.

Risuona, infatti, l’annuncio programmatico delFinizio: vanità delle vanità (1,2); m a dopo il lungo e faticoso viaggio di ricerca quelle parole suonano diverse. La fatica dello sperimentare, la partecipazione alla sof­ferenza umana, la positività additata ai figli delFuomo hanno mostrato che nel cosmo non regna il vuoto o il non senso. La verità è duplice, come ricordano non a caso le ultimissime parole del libro. Il timore di Dio è l’unica cosa che resta dopo che tutto è finito e Feco delle parole dette si è spento. E la fine di ogni cosa, mentre il resto (anche scrivere molti libri) è un ripetersi, un inseguire perenne senza fine né riposo e perciò non giova.

Il timore di Dio permette di convivere con la verità duplice dell’esi­stenza, con la creazione a coppie, dove bene e male si trovano uno di fronte all’altro. Non dà una conoscenza superiore del futuro e di ciò che capiterà all’uomo, ma insegna l’unico atteggiamento saggio di fronte al mistero di Dio e del suo operare: godere il bene quando Dio lo conce­de, riflettere in silenzio quando viene il male.

Questa sapienza di Qoelet scaturisce da un senso fortissimo di Dio e della sua libertà sovrana, e da un senso fortissimo delFuomo da lui dipendente in tutto, a lui aperto, che di lui vive e gioisce e anche soffre e muore. Nient’altro ha valore nel mondo.

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Il C a n t ic o d e i c a n t ic i O L’AMORE FORZA

DELLA VITA

I l Cantico possiede un carattere speciale nel quadro della letteratu­ra biblica. Canta l’amore di due giovani senza fare alcun riferi­mento al matrimonio e alla procreazione; quasi l’amore in sé e per

di più non legato, almeno esplicitamente, a Dio (che non viene mai no­minato). Questo carattere singolare ha spinto sia i rabbini che i padri della Chiesa a interpretarlo in senso allegorico, quasi per esorcizzarne l’apparente carattere profano ed erotico.

E possibile comprendere questo carattere speciale in senso letterale nel quadro della fede israelitica, oppure è necessario ricorrere all’inter­pretazione allegorica e intendere l’amore dei due giovani come cifra del­l’amore di Dio per Israele o di Cristo per la Chiesa? Nel corso dei secoli si sono avute lotte vivaci tra i sostenitori delle due posizioni. In partico­lare i sostenitori dell’interpretazione allegorica si sono scagliati contro i sostenitori del senso letterale con accuse pesanti. Senza l’interpreta­zione allegorica, affermano, il Cantico non sarebbe entrato nel canone dei libri ispirati. A sostegno si sottolinea il fatto che il matrimonio viene utilizzato altrove nella Scrittura come immagine del rapporto di Jah ­veh con il suo popolo.

Mi sento un po’ a disagio di fronte a questo argomentare. Da un la­to, è possibile mostrare che un ’interpretazione letterale del Cantico ha senso, e profondo senso religioso, nel quadro della letteratura sapien­ziale; dall’altro, l’idea del matrimonio in quanto tale è assente nel Cantico.

Bisogna dunque rigettare l’interpretazione allegorica, che è tradizio­nale tra ebrei e cristiani? Questa soluzione sarebbe presuntuosa. Non si può affermare a cuor leggero che l’interpretazione moderna, con la sua accentuazione del senso letterale, dica l’ultima parola nella storia dell’esegesi. Del resto una tendenza ermeneutica moderna invita a non assolutizzare, nella convinzione che nessuna interpretazione esaurisca la ricchezza della Scrittura.

Non intendo disprezzare né rifiutare l’interpretazione allegorica che è stata ed è veicolo di fecondi approfondimenti teologici per la vita della Chiesa e per la spiritualità dei credenti, soprattutto religiosi e contem­plativi. Intendo però far emergere la profondità teologica delFinterpre-

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tazione letterale. Il Cantico è esaltazione dell7amore. Solo una certa pau­ra o diffidenza verso questa realtà può far pensare che l’amore tra uo­mo e donna sia necessariamente da intendere in una forma impura o peccaminosa. D ’altra parte, non soddisfa l’opinione che il Cantico ab­bia lo scopo di insegnare la purezza e la santità del matrimonio stabilito da Dio.

Nella prospettiva sapienziale l’uomo è chiamato a contemplare jn a teoria successiva di volti e di voci: dal volto e voce del padre e della madre, a quello del maestro, della Signora Sapienza e infine al volto e alla voce di Dio incarnato. Qualcosa di simile, credo, il Cantico pro­spetta per l’amore: dalla scoperta dell’amore (vita) in se stesso(a) e nel partner nel quadro della vita (amore) che fiorisce nell’universo, fino al­la scoperta dell*Amore (Dio) che è forza di vita che vince la morte. Co­me non c’è differenza essenziale tra sapienza um ana e sapienza divina

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(quando è vera la sapienza umana è scoperta di quella divina), cosi non c’è differenza essenziale tra amore umano e amore divino, tra l’amore come forza della vita che i due giovani sentono in se stessi e scoprono nel- l’ambiente che li circonda, e l’Amore che è Dio, fonte ultima della vita.

«Cantico dei cantici» significa il cantico più alto, sublime. Viene pre­sentato come una composizione unitaria ma non è facile capire la logi­ca eia dinamica dell’insieme. Si identificano canti singoli, poemi diffe­renti, aventi forma letteraria e scopo propri; ma è difficile (i più riten­gono impossibile) vedere un piano complessivo.

Non è il caso, e non servirebbe, discutere le varie opinioni. Conten­tiamoci del fatto che il Cantico si compone di vari poemi ma si presenta come un libro. In questo esso differisce da composizioni extrabibliche affini, soprattutto egiziane. E il caso di accennare a queste poiché le utilizzeremo varie volte nel corso della nostra narrazione del Cantico.

A differenza del Cantico, i canti d ’amore egiziani non costituiscono un libro o una collezione unica, ma sono contenuti in diversi papiri. L’epoca di questi papiri è però abbastanza circoscritta: si colloca tra la XIX (Pap. Harris 500) e la XX dinastia (Canti d ’amore del Cairo; Pap. di Torino 1966; Pap. Chester Beatty I; e altri), in data assoluta tra il 1300 e il 1150 a.C. Si pensa che i testi siano più o meno contem­poranei dei papiri che li contengono; precedono, comunque, la compo­sizione del Cantico.

C’è un motivo per questa datazione? Testi egizi che cantano emozio­ni intime, come l’amore, o che rivelano sentimenti personali verso la di­vinità, furono composti, non a caso, nel periodo che segue l’epoca di el- Amarna (riforma religiosa di Amenofi IV Akhenaton, 1365-1349 a.C.). In effetti, nell’arte di el-Amarna per la prima volta il re viene rappresen­tato non in compagnia degli dèi ma dei suoi familiari, moglie e figlie, mentre giocano, si carezzano e si mostrano in atteggiamento di intimità informale (cfr. disegni n° 11 e 47). Il dio supremo Aton (sole) non è, pe­rò, assente, anzi abbraccia tutto: i suoi raggi partono dal disco solare in alto e si estendono sino alla famiglia regale, quasi a riversare su di essa una pioggia di benedizioni, e terminano in forma di mani aperte nel do­no del calore e della vita. Questo modo familiare di rappresentare la realtà, anche quella suprema che fa capo al re, sotto la luce del dio creatore, ha rinnovato il pensiero e l’arte egiziana. Sono nate composizioni e rappre­sentazioni che si distaccano dalla tradizionale solennità e rigidità.

Non è un mistero che Salomone subì il fascino della civiltà e della potenza egiziana. Nell’organizzare il nuovo stato ebraico si ispirò al mo­dello dell’Egitto, così anche nei suoi grandiosi progetti edilizi, nell’isti­tuire il lavoro obbligatorio per lo stato e forse anche nel dividere il terri­torio in distretti a scopo fiscale. Egli sposò persino una principessa egi­ziana, una « figlia del faraone» (IRe 3,1), per la quale costruì un palaz­zo a Gerusalemme (IRe 7,8; 9,24). Questa principessa ricevette dal fa­raone suo padre la città di Gezer in dote (IR e 9,16).

Il Cantico viene attribuito espressamente a Salomone (Ct 1,1) ma gli

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studiosi moderni ritengono che tale attribuzione sia fittizia (come nel caso di Qoelet). Sarebbe un modo di mettere un componimento tardi­vo sotto l ’autorità del patrono della sapienza biblica. Ci sono però ele­menti che rendono quell’attribuzione almeno possibile. Sappiamo che con affermazioni del genere si va facilmente incontro all’accusa di esse­re fondamentalisti, un ’accusa che nell’epoca illuminata degli studi mo­derni nessuno vorrebbe sentirsi rivolgere. Infatti l’opinione contraria, quella cioè che data il Cantico in epoca abbondantemente postesilica (certamente dopo il VI see. a.C . e con oscillazioni fino alla soglia del­l’era cristiana), viene ritenuta critica. M a è giustificata quell’accusa? Forse non più di quanto sia giustificata la qualifica di critica attribuita all’opinione contraria. Gli argomenti addotti sembrano incerti e debo­li, fondati per lo più su presupposti ideologici e spesso trascurano l’im­portanza delle letterature extrabibliche antiche.

Certamente la datazione ha la sua importanza per l’interpretazione, ma non è il caso di rinunciare a leggere il testo per il fatto che essa è difficile. Leggere il testo nel modo che abbiamo applicato costantemen­te in queste pagine: cercare cioè di individuare le parti, quindi la fun­zione e il senso di ognuna nel complesso.

Dicevamo che il Cantico si compone di vari poemi ma si presenta come un libro. Come dire: è difficile individuare un piano preciso, an­che perché non è visibile un progresso dell’azione, e forse non è neppu­re cosa da attendersi in una composizione del genere. Proviamo comun­que a leggere il Cantico e forse la nostra comprensione si preciserà cam- min facendo.

Del testo possiamo dare una divisione in sei parti (1,2-2,7; 2,8-3,5; 3,6-5,1; 5,2-6,9; 6,10-8,4; 8,5-14), ma non tutti i punti di divisione tra una parte e l’altra sono ugualmente chiari, e neppure è chiara la fun­zione delle singole parti. Una caratteristica comune è che all’inizio del­le varie parti i due innamorati sono separati l’uno dall’altro mentre alla fine sono uniti. Il Cantico però finisce con i due che stanno per separar­si. Questo fatto crea, lungo tutto il libro, una sequenza ininterrotta di cercarsi, trovarsi, godere, perdersi, tornare a cercarsi. Non si preten­derà di trovare un ordine «razionale» in questo circolo perenne che co­stituisce la tensione e il fascino stesso dell’amore.

Oltre al motivo della ricerca, altri due percorrono il Cantico: la lode reciproca dei due innamorati e un ritornello, con un singolare invito rivolto alle «figlie di Gerusalemme», su cui dovremo tornare più avan­ti. Questi e altri elementi, motivi e tecniche letterarie, consentono una lettura complessiva e significativa del Cantico.

Il Cantico inizia nel vivo dell’azione e presenta subito alcuni motivi importanti. Nella prima frase troviamo il passaggio brusco dalla terza persona alla seconda che si spiega come fenomeno emotivo, non infre­quente nei Salmi. Dal desiderio di lui la ragazza passa all’appello diret­to. E presente lui? Forse no, ma l’immaginazione lo fa sentire tale.

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Ct 1,1-2,7

Cantico dei cantici, che è di Salomone.(Lei) Mi baci con i baci della tua bocca perché migliori sono le tue carezze del vino.Per il profumo, i tuoi oli sono buoni, olio di Turak è il tuo nome, per questo le ragazze ti amano.Tirami dietro di te, corriamo!Il re mi ha condotto nelle sue stanze.Siamo lieti e rallegriamoci in te; apprezzeremo le tue carezze più del vino, più dei liquori ti ameranno.Nera io sono e bella, figlie di Gerusalemme,(nera) come le tende di Kedar,(bella) come le cortine di Salomone.Non guardatemi che io sono annerita, che mi ha colpito («guardato») il sole.(E che) i figli di mia madre furono duri con me,mi posero come custode delle vigne(e) la mia propria vigna non ho custodito!Raccontami, o amato deir anima mia,dove pascoli il gregge,dove lo fai riposare a mezzogiorno.Perché infatti dovrei essere come una che si vela (una prostituta) presso i greggi dei tuoi compagni?(Coro) Se non lo sai,0 bellissima tra le donne, esci sulle orme del tuo gregge e pasci le tue caprette presso le dimore dei pastori.(Lui) Alla cavalla dei carri del faraone ti ho assomigliato, o mia cara.Belle sono le tue gote con i monili, il tuo collo con i gioielli.Monili di oro faremo per te con rifiniture d’argento.(Lei) Finché il re è sul suo giaciglio, il mio nardo ha dato il suo profumo.Sacchetto di mirra è il mio diletto per me, tra i miei seni passerà la notte.Un grappolo di cipro è il mio diletto per me tra le vigne di Ain Gedi.(Lui) Ecco tu sei bella, mia cara, ecco tu sei bella,1 tuoi occhi sono colombe.(Lei) Ecco tu sei bello, mio diletto, come sei grazioso!Come il nostro letto è verdeggiante, le colonne della nostra casa sono cedri, le nostre travi sono cipressi.Io sono un anemone di Sharon,

(a) Lei - desiderio dell'incontro

(b) Lei e il coro

(a ’) Lui e lei - gio ia dell'incontro

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un giglio delle valli.(Lui) Come un giglio tra i rovi, così la mia cara tra le ragazze.(Lei) Come un melo tra le piante del bosco, così il mio diletto tra i ragazzi.La sua ombra ho bramato e mi sono seduta e il suo frutto è dolce al mio palato.Egli mi ha condotto alla casa del vino e il suo intento verso di me è l’amore.Preparatemi un letto di frutti,copritemi con pomi.perché malata d’amore io sono.La sua sinistra sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia.Giuratemi, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve della steppa che non sveglierete e non desterete T amore finché voglia.

Ho aggiunto tra parentesi l’indicazione del personaggio che parla (lei, lui, coro), ma non sempre l’attribuzione è sicura. Il testo è un continuo dialogo. Oltre le forme del dialogo a due (io-tu) compaiono forme al plurale (noi): «Siamo lieti e rallegriamoci in te; apprezzeremo le tue carezze più del vino, più dei liquori ti ameranno». Chiaramente sono presenti altre persone. Dalle indicazioni del testo, e anche dai paralleli extrabiblici che presenteremo tra poco, si comprende che sono presenti un gruppo di ragazze e un gruppo di ragazzi, compagne(i) di lui e di lei, che hanno la funzione di coro.

Penso infatti che il Cantico sia un dramma: un tenerissimo rapporto d ’amore sceneggiato, in cui i due innamorati sono in continua comuni­cazione personale, ma intervengono o sono chiamati in causa altri giova­ni. Il tutto avviene in uno scenario vario ma che spesso è la campagna. Per quanto possono, i due lasciano la città, con la famiglia e le conven­zioni sociali in essa vigenti, e fuggono in campagna. I fiori, i frutti, lo sboc­ciare e il crescere costituiscono lo scenario più consono del loro rapporto.

E lei che inizia la comunicazione, non solo nella prima parte che ab­biamo appena riportato ma in tutte le altre (2,8; 3,7; 5,2; 6,11; 8,5). E lei quindi che inizia il movimento della ricerca dell’amato, poiché di questo si tratta al principio di ogni parte. E probabilmente ancora lei che conclude, almeno alcune parti (in tre casi su cinque: 2.7; 3,5; 8,4), esprimendo la gioia dell’unione. E lei, infine, a pronunciare l’ultima battuta del Cantico, che è un invito all’amato a fuggire, certo in vista di una nuova ricerca e di una nuova unione.

Il fatto che sia la ragazza a prendere l’iniziativa merita di essere no­tato, poiché nel contesto sociale di Israele e del mondo antico in gene­rale, molto più che in quello moderno, era del tutto inusuale che la donna prendesse una qualsiasi iniziativa, in particolare una ragazza giovane (com’è il caso del Cantico), meno che mai in questione di corteggia­mento e di amore.

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Il primo scenario dell’incontro è tenero, semplice e sontuoso insie­me. Risuonano molte note che a prima vista sembrano sconnesse ma che servono a creare appunto lo scenario. Si nominano baci e carezze, vino e oli profumati. Vino e olio sono ingredienti del banchetto e segno di sontuosità. Il vino, infatti, era la bevanda della festa e l’olio profu­mato veniva cosparso sui commensali in segno di abbondanza e di gioia (si confronti il salmo 133).

La ragazza vuole essere presa per mano, correre insieme all’amato e questi la conduce nelle sue stanze (o l’ha già condotta? E il problema dei tempi nella poesia ebraica!). Ma chi è il re? di che stanze si tratta? come mai si passa dalla seconda persona («Tirami dietro a te!») alla terza («Il re mi ha condotto... »)? Contentiamoci per ora di semplici ri­sposte; in seguito le cose verranno spiegate meglio.

Il re è titolo dell’innamorato: il suo lui è re per la ragazza, re come Salomone, il più sontuoso dei principi di Israele e il più saggio, quello che aveva fatto, come si direbbe oggi, il «matrimonio del secolo» (e an­che più di una volta!) con principesse straniere. Per lo stile ebraico, poi, il passaggio dalla seconda persona alla terza è possibile, soprattutto in contesti di intensa emozione. Si comprende così che, dopo l’appello di­retto (con il tu), la ragazza si rivolga all’amato con l ’appellativo di re (con la terza persona).

Per non fraintendere l’ambiente dell’incontro dobbiamo leggere la scena iniziale (a) insieme a quella finale del brano che stiamo esami­nando (o’). Nella scena finale si descrive la realizzazione (vera o sogna­ta, è problema che vedremo poi) del desiderio della ragazza che apre il Cantico. Il giaciglio dove sono i giovani è detto «verdeggiante», fatto con rami di piante da frutto; la «casa» ha colonne di cedro e travi di cipresso; all’intorno compare la campagna, anzi un boschetto ombreg­giato con i suoi profumi e i fiori. Fiori e profumi sono reali e insieme sono immagine dei due innamorati. Si nomina anche la «casa del vino» dove i giovani si trovano insieme ad altri ragazzi e ragazze; a questi è rivolta la richiesta di lei di preparare un letto di frutti.

Considerando insieme questi dettagli, si comprende che non si parla qui di una casa di abitazione, o di una stanza di palazzo. Si allude a certe edicole o ritrovi che venivano allestiti in luoghi verdeggianti, en­tro boschetti con fiori, acqua, frutti, vino, dove i ragazzi si ritrovavano per stare insieme e dove naturalmente sbocciavano e si coltivavano gli amori. Questo è l’ambiente degli incontri del Cantico e anche dei canti d’amore egiziani, come vedremo.

Gli incontri non erano rigorosamente a due ma vi prendevano parte altri giovani. Questi, ragazzi e ragazze, potevano essere corteggiatori e amici dei due innamorati; essi costituiscono il «coro» del Cantico. Na­turalmente, per maggiore intimità, i due talvolta corrono per la cam­pagna prendendosi per mano, godono il rigoglio dei frutti, aspirano il profumo dei fiori, si inebriano del miracolo della natura e quasi con­frontano la loro esperienza con la vita che pulsa adì’intorno.

E la ragazza che manifesta per prima il desiderio dell’incontro con l’amato. Durante l’incontro vero e proprio ( a \ nel brano riportato so­

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pra), si trova una sequenza alternata di lodi. Comincia lui paragonan­do lei alla cavalla dei carri del faraone, il che significa: la migliore ca­valla in assoluto.

Bisogna comprendere questo paragone che. come altri, suona strano e può non trasmettere le sensazioni di cui era portatore per il lettore antico. La menzione del carro del faraone evoca qualcosa di esotico e insieme di sontuoso. Come in Israele tutto ciò che era grande era di Salomone, così in Egitto era del faraone; e in un momento storico, che può essere proprio quello di Salomone, in cui l’Egitto era di moda in Israele, una cosa degna del faraone era quanto di meglio si potesse sognare.

La ragazza replica alla lode e così si intreccia uno scambio di apprez­zamenti che esaltano il partner molto al di sopra di compagni(e). E in­tanto, anche come effetto del vino, cresce il desiderio dell’amplesso al punto che lei si confessa malata d’amore.

In mezzo a questa cornice che esprime il desiderio e poi la gioia del­l’incontro, si legge un dialogo della ragazza con il coro delle sue ami­che, le «figlie di Gerusalemme» (b, nel brano citato sopra). Il testo è complicato anche perché è difficile cogliere i collegamenti; ma alla fine, un senso coerente si può trovare.

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La ragazza intende dissipare dubbi che possano sorgere sulla sua per­sona. La sua pelle non è bianca, com’è normalmente quella delle don­ne e in particolare delle ragazze giovani, che stanno in casa e non esco­no che in occasioni eccezionali, ma è scura come quella degli uomini. II suo colorito potrebbe far pensare che ella sia una che va in giro, chis­sà, una girandolona o una poco di buono. No, proclama la ragazza. Il suo colorito ha tutt’altra motivazione. E conseguenza di un rapporto difficile con i figli di sua madre, probabilmente i fratellastri, i quali 11 han­no costretta a vivere all’aria aperta per custodire le vigne. M a in questo modo, nota ella con rimpianto, non ha custodito la sua propria vigna, cioè il suo corpo, la sua bellezza (altre volte la vigna è immagine del corpo della ragazza nel Cantico).

Aver spiegato questo è qualcosa, ma non tutto. La ragazza cerca un modo per incontrare il suo amato senza destare sospetti infamanti per lei. Si rivolge al ragazzo come fosse presente, ma egli probabilmente non è là. Vuole sapere dove egli pascoli il gregge e dove lo faccia ripo­sare nel momento del grande caldo. Se dovesse andare a cercarlo senza sapere dove, i pastori la scamberebbero facilmente per una che va a offrire un momento di gioia a pagamento; così fece Tam ar che si velò da prostituta di professione per ingannare Giuda e avere un figlio (Gn 38.14-15).

Il coro delle ragazze suggerisce la soluzione. E pastore lui? faccia an­che lei la pastora! Seguendo il gregge potrà recarsi a buon diritto nei luoghi dove i pastori si ritrovano, come Rachele (Gn 29,2-10) e come le figlie di Ietro (Es 2,16-17). Così potrà incontrare il suo amato.

Seguire questo consiglio non doveva essere semplice per la ragazza, che era ancora piccola mentre i fratelli erano duri con lei (Ct 8,8-9). M a improvvisamente, come in un sogno, tutto cambia, tutto diventa possibile. Il desiderio dell’inizio diventa realtà: il suo amato è lì e co­mincia a tessere le sue lodi; i due possono godere insieme.

Già nella prima scena del Cantico troviamo perciò gli elementi prin­cipali del dramma: la ricerca dell’amato, la lode reciproca, il giuramento imposto al coro di non svegliare l’amore. Sono elementi che ritornano lungo tutta la composizione, ampliati, modificati, intrecciati con altri.

Faremo d’ora in poi una lettura trasversale del Cantico, inseguendo temi ed espressioni favorite. Leggeremo in parallelo brani del Cantico e delle poesie d ’amore egiziane scelti in base a fenomeni simili, sia ter­minologici che tematici. Il confronto con le poesie egiziane aiuterà a comprendere il carattere speciale del libro biblico, a decifrare il suo fondo ideale e, di conseguenza, a delineare l’orizzonte della rivelazione.

La malattia d ’amore è un fenomeno tipico dell’esperienza giovanile. La terminologia caratteristica si legge sia nella poesia egiziana che in quella biblica. Presenterò i testi in colonne appaiate: a sinistra quelli biblici, a destra quelli egiziani (identificati secondo la numerazione di Fox).

M alattia d’a m o r e

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CANTICO DEI CANTICI

POESIE D ’AM ORE EGIZIANE

(Lei) Giuratemi, figlie di Gerusalemme: se troverete il mio diletto, perché dovreste dirgli

che malata d’amore io sono? (Ct 5,8)

(Lei) Preparatemi un letto di frutti,copritemi con pomi.

perché malata d’amore io sono (Ct 2,5).

(Lui) Io mi sdraierò dentro (casa)

e fingerò di essere malato. Allora i miei vicini entreranno a vedere,e la mia sorella entrerà con essi.

Lei farà vergognare i dottori, perché lei conosce la mia malattia (Fox No. 6).

(Lui) Per sette giorni non ho visto la mia sorella e perciò la malattia è penetrata in me,le mie membra sono divenute pesantie io ho dimenticato il mio stesso corpo.Se venissero da me i migliori medici,il mio cuore non gradirebbe le loro medicine.(Tutti) i maghi non hanno alcuna possibilità,la mia malattia non può essere diagnosticata.E il dirmi: Eccola! che mi farà rivivere;è il suo nome che mi farà alzare; è l’andare e venire dei suoi messaggeri che farà rivivere il mio cuore.Più efficace di ogni medicina è mia «sorella» per me; lei è per me più del Manuale (medico).Il suo mettersi in cammino è il mio amuleto; se la vedo, allora divento sano; se lei apre i suoi occhi, allora il mio corpo rifiorisce; se lei parla, io ridivento forte, se l’abbraccio, lei scaccia la malattia da me.Ma lei è andata via da me da sette giorni (Fox No. 37).

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La somiglianza dei testi è veramente profonda. Nel primo passo bi­blico, la somiglianza riguarda sia la terminologia che la situazione: la malattia di lei dipende dall’assenza di lui. Ci sono però differenze. Nel Cantico, è lei la malata, non lui; inoltre la ragazza non si mette a letto ma corre all'impazzata per la città in cerca di lui (Ct 5,6-7).

I due verbi del secondo testo biblico (Ct 2,5) si riferiscono probabil­mente alla preparazione di un letto (stendere un giaciglio e disporre le coperte). Qui la situazione è diversa: non assenza bensì possesso dell’a- mato(a). Lui, infatti, ha condotto lei in una specie di tenda, o edicola dell’amore (Ct 2,4); la gioia è al culmine, al punto che diventa una ma­lattia.

Gli esegeti intendono spesso il testo del Cantico in senso non solo ero­tico, ma sessuale: i due ragazzi (perché di giovanissimi si tratta; si veda Ct 8,8 per lei) non solo hanno frasi di tenerezza, comunione, gioia del­la presenza reciproca, ma alludono espressamente al sesso e lo fanno più di una volta. La cosa scandalizza parecchi, anche perché non si parla di matrimonio (i due si possono designare «sposo» e «sposa» solo in senso non giuridico), né di procreazione o di desiderio di figli, che po­trebbe rendere accettabile il livello sessuale.

II problema è collocare il tutto in una prospettiva corretta. L ’atmosfe­ra di sogno, fantasia, incantamento di fronte alla scoperta della vita, che si manifesta in qualche passo, costituisce probabilmente il tono dominante del Cantico nel suo complesso. I due giovani sembrano vivere una situa­zione in cui sogno e realtà non hanno confini precisi. Per cui la conoscen­za del mondo, attraverso la scoperta di lei (o lui), si realizza con tu tta la persona, con tutte le facoltà, nella piena coscienza e nell’inconscio.

(Lei) Io dormivo ma il mio cuore era sveglio.La voce del mio diletto insisteva:(Lui) Aprimi, mia sorella, mia amica... (Ct 5,2).

Sogno o realtà? L ’«io» e il «cuore», la coscienza e l ’inconscio, sono ambedue all’opera nell’esperienza dell’amore. Si realizza così il coin- volgimento completo dell’individuo, l’apertura massima dell’obiettivo sul mondo. L ’attività dell’inconscio porta a compimento quella della coscienza; così l’essere umano giunge al fondo della realtà che restereb­be inesplorato alla sola coscienza. In altre parole, la rivelazione divina dell’amore diffuso nell’universo viene recepita, nell’ampiezza massima consentita a una creatura, nel profondo dell’essere, nel cuore: in quella parte che più di ogni altra è delFuomo, perché è il suo io, ma che è parimenti a disposizione di Dio e aperta a lui.

Nell’esegesi del Cantico è necessario tener conto della prospettiva di fondo che abbiamo delineato; se si legge con P occhio dell’«adolescente adulto», alcune interpretazioni si rivelano inadatte. Si comprende, ad esempio, che Vattenzione dei protagonisti non è concentrata morbosa­mente su un livello dell’amore. Certamente il livello sessuale non è esclu­so, ma viene sognato in un contesto speciale, legato alla situazione che i due vivono.

Sono due giovani che non hanno ancora il «permesso» né forse l ’età

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di fidanzarsi ufficialmente, con tutto ciò che la cosa comporta a livello sociale, e tuttavia sentono profondamente la vita che pulsa nella natu­ra, nelle piante, negli animali e in se stessi. Una situazione, la loro, in cui la precarietà costituisce la caratteristica dell’amore, il suo fascino sempre nuovo, e anche la sua malattia: cercarsi, trovarsi, godere, per­dersi, tornare a cercarsi, in un circolo di cui non si vede la fine.

Per questo motivo, è logico (per un adolescente) quel modo illogico (per un adulto) con cui il Cantico inizia (con frasi che indicano deside­rio del possesso) e con cui finisce (con un invito ad allontanarsi):

Cantico dei cantici, che è di Salomone.(Lei) Mi baci con i baci della tua bocca... (Ct 1,1-2).(Lui) O tu (al femminile) che siedi nei giardini,gli amici prestano ascolto alla tua voce: faccela sentire!(Lei) Fuggi, mio diletto.e fatti simile a una gazzellao al piccolo dei capri,sui monti delle spezie! (Ct 8,13-14).

Questa finale del Cantico sembra l’anticlimax, il contrario di quanto si aspetterebbe. Una composizione ordinata, infatti, va verso un climax, un culmine, e perciò molti esegeti sono scontenti. Ma probabilmente hanno ragione quelli che parlano di una «finale aperta». E la logica della ricerca che non ha fine, che ha sempre cose da scoprire.

Per la situazione in cui si trovano, si comprende che i due innamora­ti non si interessino molto della società, della famiglia, del matrimonio. Il mondo esterno compare, sì, ma come contrappunto al loro stato d ’a­nimo (la campagna, le piante, gli ammali, la città, le «figlie di Gerusa­lemme», gli «amici»), oppure costituisce una limitazione del rapporto a due (la famiglia, le guardie, la gente).

Così, il letto dell’amore che lei prega le venga preparato in previsio­ne del possesso (Ct 2,5), può non escludere un repentino cambiamento di situazione e anche la malattia d ’amore per una perdita improvvisa. Come in un altro caso (Ct 5,8), dove la ricerca affannosa segue la venu­ta e la subitanea sparizione dell*amato.

Abbiamo identificato l’io e il cuore, rispettivamente, con la coscien­za e l’inconscio, ma è necessario precisare meglio. Dire che il cuore è organo centrale nell’esperienza degli innamorati non è cosa banale e scontata come sembra, poiché la concezione e funzione del cuore è molto diversa da quella moderna. Per Israele e anche per l ’Egitto, il cuore non è specificamente sede dell’amore ma piuttosto centro della persona e fonte dei sentimenti in generale. L’aspetto più singolare è che il cuo­re si distingue dall’io e sfugge al controllo dell’individuo, mentre è pie­namente sottoposto a Dio. E centro dell’individuo ma anche sede di Dio, suo trono e luogo di rivelazione. Nel cuore avviene l’incontro tra l’io e Dio, tra la libertà della creatura e il governo sovrano del Creatore.

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Questa concezione è quanto di più alto Israele e Egitto abbiano pro­dotto nel campo dell’antropologia religiosa.

Nei canti egiziani, soprattutto, il cuore appare come entità separata dalla persona, la quale gli parla e lo prega:

(Lei) La cosa più bella è accaduta!Il mio cuore [...]come la tua signora della casa ( = tua moglie), mentre il tuo braccio riposa sopra il mio braccio e il tuo amore ( = io) circonda te.Io dico al mio cuore dentro di te ( = me!) nelle preghiere:[Dammi] il mio principe questa notte,(altrimenti) io sono come uno che è nella fossa!Infatti, non sei tu salute e vita?L’avvicinarsi [del tuo volto mi darà] gioia per la tua salute (?), poiché il mio cuore cerca te (Fox No. 13).

La potenza del cuore arriva al punto che esso comanda sulla persona e ne condiziona le reazioni:

(Lei) E uno che corre veloce, il mio cuore, quando penso al tuo amore ( = te).Non mi lascia comportare come la gente, esso salta fuori dal suo posto normale.Non mi lascia vestire la tunica, non posso indossare il mio manto, non posso dipingere i miei occhi, non posso ungermi affatto!Non fermarti finché non arrivi dentro (la casa deiramato)!— egli (il cuore) mi dice ogni volta che penso a lui (l’amato).Non farmi, o mio cuore, follie!Perché vuoi fare pazzie?Siedi, calmati, verrà a te il mio fratello!Dovrò fare molte cose come queste?Non fare che la gente dica di me:Questa donna «è partita» d ’amore!Sta7 saldo ogni volta che pensi a lui!Cuore mio, non correre! (Fox No. 34).

D cuore è qui l’impulso irrefrenabile del desiderio che vorrebbe far correre la ragazza alla casa dell’amato ogni volta che le viene il pensie­ro di lui, senza curarsi delle convenienze e del buon nome. Si può con­frontare un testo simile del Cantico:

(Lei) Al giardino delle noci sono scesa per vedere i frutti del uadi, per vedere se è germogliata la vite, sono sbocciati i melograni.Non conosco la mia anima,tu mi hai posto sui carri del mio popolo nobile! (Ct 6,11-12).

L’espressione «non conosco la mia anima» significa: sono fuori di me. E l’esaltazione che accompagna il possesso dell’ amato, vero o sognato, e che provoca un comportamento fuori della norma. L ’ultima frase (Ct

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6,12). diffìcile e oscura, può essere intesa come espressione simbolica di questa esaltazione e agitazione: stare con 1*amato è per la ragazza come essere posta sul carro dei nobili del popolo. Fa capolino, in questa immagine, la vita della gente di corte, di Salomone e dei suoi dignitari, come ideale massimo di sontuosità e cifra di quello che Finnamorata sperimenta.

Un altro caso di esaltazione d ’amore che fa perdere la coscienza delle convenzioni sociali, l’abbiamo in un testo del Cantico, strano e «illogi­co» come molti altri. Il capitolo 5 si apre con il giovane che racconta la sua venuta al suo «giardino», che è immagine di lei, e il suo godi­mento utilizzando le immagini del mangiare e del bere. Si tratta proba­bilmente di un sogno della ragazza («io dormivo ma il mio cuore era sveglio»: Ct 5,2). Solo così si comprende F«illogicità» dei fatti: lui è fuori e insiste per entrare, bagnato com*è dalla rugiada notturna, m en­tre la ragazza dall’interno gli risponde:

(Lei) Ho deposto la mia tunica, come posso indossarla?Ho lavato i miei piedi, come posso sporcarli di nuovo?II mio diletto stese la sua mano dairapertura e le mie viscere furono in agitazione per lui.Mi sono alzata, io, per aprire al mio diletto e le mie mani stillarono mirra, le mie dita mirra scorrevole sulla superficie della serratura.Ho aperto, io, al mio diletto,ma il mio diletto era andato, partito.La mia anima è uscita a causa di lui.L ’ho cercato ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto.Ho trovato le sentinelle che giravano per la città.Mi hanno battuta, mi hanno ferita; hanno tolto il mio scialle da sopra di me le sentinelle delle mura (Ct 5,3-7).

Lo stato confusionale della ragazza somiglia fortemente alla confes­sione dell’innam orata egiziana citata sopra (Fox No. 34): il suo cuore, per Fagitazione che le provoca, non le consente di vestirsi né di curare la persona. La sua «anim a è uscita a causa di lui»; il sogno le fa vivere una situazione irreale, che è il contrario di quello che lei vorrebbe. E allora, desta, fa quello che una ragazza non dovrebbe fare: esce da so­la. nel cuore della notte, e le sentinelle diventano crudeli con lei: la b a t­tono, la feriscono e le tolgono lo scialle prendendola per una prostituta.

Altrove, in uno stato più calmo, le convenzioni sociali vengono sen­tite come una rem ora, un impedimento doloroso della spontaneità del rapporto d ’am ore:

(Lei) Magari tu fossi mio fratello, che ha succhiato il seno di mia madre.Quando ti troverei per la strada,

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ti bacerei e nessuno mi biasimerebbe.Ti condurrei, ti portereinella casa di mia madre, e tu mi insegneresti.Ti farei bere vino aromatizzato, il succo del mio melograno (Ct 8,1-2).

Benché la situazione non sia proprio identica, l’innamorata egiziana nel canto seguente confessa sentimenti molto simili, specialmente il de­siderio di poter baciare l’amato senza vergogna. Al suo confronto, il ragazzo sembra curarsi di meno della gente:

(Lei) Se tua madre conoscesse il mio cuore, sarebbe entrata (in casa?) per un po\Oh Dorata (Hathor, dea deiramore), poni questo nel suo cuore! Allora mi affretterò verso il mio fratello e lo bacerò di fronte a tutti i suoi compagni, senza aver vergogna della gente.Sarò felice che essi vedano che tu mi conosci e farò feste per la mia dea.Salta il mio cuore al di fuoriper far sì che io veda il mio fratello questa notte.Com’è bello il passare (davanti alla casa di lui)! (Fox No. 36,D-E) (Lui) Io la bacio di fronte a tutti, perché vedano il mio amore.Veramente, è lei che ha rapito il mio cuore; quando mi guarda, io sono ristorato (Fox No. 54).

IL CANTICO DEI CANTICI, IL PIÙ SANTO

Tutte le sacre Scritture rendo­no impure le mani. Rabbi Giu­da dice: Il Cantico dei cantici rende impure le mani ma c’è di­scussione riguardo all’Ecclesia­ste.

Rabbi lose dice: L’Ecclesiaste non rende impure le mani ma c?è discussione riguardo al Cantico dei cantici.

Rabbi Simeone dice: [L’opi­nione] riguardante l’Ecclesiaste è una delle indulgenze della scuo­la di Shammai e una delle seve­rità della scuola di Hillel.

Rabbi Simeone ben Azzai dis­se: Ricevetti una tradizione dai 72 anziani (il grande sinedrio), nel giorno in cui essi elessero Rabbi Eleazaro ben Azaria capo dell’accademia, che il Cantico dei

cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani.

Rabbi Akiba disse: Non sia mai! Nessuno in Israele ha mai discusso sul Cantico dei cantici che esso non rende le mani im­pure. Infatti tutto il mondo non è degno quanto il giorno in cui il Cantico dei cantici fu dato a Israele. Poiché tutte le Scritture sono sante ma il Cantico dei can­tici è il santo dei santi! Perciò se ci fu discussione, ci fu solo ri­guardo all’Ecclesiaste.

Rabbi Iohanan ben Ioshua fi­glio del suocero di Rabbi Akiba disse: In accordo con le parole di Ben Azzai essi discussero e così raggiunsero la decisione [che so­no ambedue ispirati].

{Talmud, Yadaim. Misknak 5)

Il dibattito tra differenti scuole rabbiniche circa la canonicità di certi scritti f u aspro t prolungato. Uno scritto canonico « rende im pur le mani», cioè non è lecito trascriverlo come una qualsiasi composizione.

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Si verifica un sottile gioco di frasi come il gioco dei sentimenti. Da una parte la pazzia d ’amore è causata dal cuore, dall’altra essa è « man­canza di cuore». Lo stolto è infatti, secondo la designazione comune in egiziano e attestata anche nella Bibbia, «colui che non ha cuore». M a gli innamorati sono una classe speciale di « senza cuore», in quanto uno ha rubato il cuore dell’altro col suo abbraccio:

(Lui) Lei è bella di figura quando si muove sulla terra, ha rapito il mio cuore con il suo abbraccio.Fa girare i colli di tutti gli uomini quando la vedono.Felice chiunque l’abbraccia;egli è come il primo degli amatori (Fox No. 31,D-E).(Lei) Il mio fratello mette in agitazione il mio cuore con la sua voce e fa sì che la malattia s’impadronisca di me.Egli è un vicino della casa di mia madre, ma io non posso andare da lui.Fa bene mia madre quando mi comanda così:Non permetterti di vederla (? vederlo)!Ecco, il mio cuore è ribelle quando pensa a lui, perché il suo amore si è impadronito di me.Ecco, egli (l’amato) è uno senza cuore ( = stolto), e io sono proprio come lui!Egli non conosce i miei desideri di abbracciarlo, altrimenti manderebbe a parlare con mia madre.O mio fratello, sì, io sono stabilita per te dalla Dorata tra le donne (Hathor)!Vieni a me perché io veda la tua bellezza!Si rallegrino il padre e la madre,gridi di gioia tutta la gente insieme,gridino di gioia per te, fratello mio! (Fox No. 32).

Nelle poesie d ’amore sia bibliche che egiziane si può parlare di pari­tà dei sessi, benché la terminologia sia moderna. C ’è un abisso, all’in­terno della Bibbia, tra la concezione della donna nel Pentateuco e quel­la dei libri sapienziali, in particolare del Cantico. Nel Pentateuco, in­fatti, la donna è considerata proprietà dell’uomo, insieme alla sua casa, al suo campo e al suo gregge (si legga, ad esempio, Es 20,17).

La novità del Cantico si mostra, tra l’altro, nell’applicare all’uomo una frase che il libro della Genesi dice della donna:

(Dio a Eoa) Verso tuo marito sarà la tua passione ed egli dominerà su di te (Gn 3,16).(Lei) Io sono del mio diletto e verso di me è la sua passione (Ct 7,11).

Una relazione cosciente lega questi due testi e li caratterizza profon­damente. Il testo della Genesi afferma, come maledizione della donna, che essa sarà attratta verso suo marito e che egli la terrà soggetta: è la rottura dell’amore; il Cantico, invece, proclama gioiosamente la mu­

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tua appartenenza: lei appartiene a lui e il desiderio di lui tende irresisti­bilmente verso di lei. La reciprocità è la verità e la forza deH’amore.

L ’espressione di Ct 7,11 è dunque variante della formula speculare,o di appartenenza reciproca:

Il mio diletto è mio e io sono sua (Ct 2,16).

oppure, in ordine inverso:

Io sono del mio diletto e il mio diletto è mio (Ct 6.3).

Nei canti egiziani, spesso un partner echeggia le parole dell’altro; ad esempio:

(Lui) Unica è la (mia) sorella, senza uguale, più bella di tutte le donne (Fox No. 31,A).(Lei) L’amore di lui cattura il cuoredi chiunque cammini per via:un giovane meraviglioso, senza pari.un fratello eccellente di carattere (Fox No. 36.B).

A sua volta, questa dichiarazione di unicità incomparabile richiama la lode di lui nel Cantico:

(Lui) Sessanta sono regine, e ottanta concubine e ragazze senza numero.Unica è lei, la mia colomba, la mia perfetta,unica è lei di sua madre,pura è lei di colei che Tha partorita.La vedono le giovani e la dichiarano beata, le regine e le concubine e la lodano:Chi è questa che occhieggia come la stella del mattino, bella come la luna, pura come il sole,terribile come le (stelle) altissime? (Ct 6.8-10).

Anche il confronto dell’amata con gli astri, che appare alla fine del passo precedente, ha un parallelo nei canti egiziani:

(Lei) Eccola come Sirio che sorgeall’inizio di un anno felice,splendente, eccellente, bianca di pelle,leggiadra negli occhi quando guarda (Fox No. 31.B).

In definitiva, un rapporto profondo lega gl’innamorati con un nodo indissolubile lungo tutte le vicende dell’esistenza. Un testo egiziano ab­bastanza singolare rende esplicito questo aspetto:

(Lei) Noi saremo insieme anche quando verranno i giorni di pace della vecchiaia.Io sarò con te ogni giorno, ponendo [cibo davanti a tecome una serva] davanti al suo signore (Fox No. 20B,B).

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Il confronto del Cantico con i poemi egiziani non è ancora esaurito. U n’espressione caratteristica, già incontrata più volte, è «sorella» e «fra­tello» per designare l’innamorata e l’innamorato. Non è designazione di consanguineità ma si basa su di essa come termine di paragone; in­dica la massima affinità possibile: comunione di origine, condivisione di vita, parità, affezione.

Il contatto della mano, importante nel rapporto d ’amore, viene no­minato nei due testi citati qui di seguito. Il testo egiziano dipinge una situazione di sogno, più che di realtà; infatti, come può lei trovare lui nel letto? Si può immaginare che lei di notte vada girando per le case altrui? E il sogno; un sogno più felice di quello angoscioso dell’innamo­rata del Cantico che nel suo proprio letto cerca l ’amato e non lo trova. La mano nella mano è suggello di vita in comune, tenerezza e fedekà nel testo egiziano; nel Cantico compare invece la mano con l ’abbraccio estasiato:

CANTICO DEI CANTICI

(Lei) Sul mio letto nelle notti ho cercatocolui che ama l’anima mia;

l’ho cercato ma non l’ho trovato (Ct 3,1).

(Lei) La sua sinistra sotto il mio capoe la sua destra mi abbraccia (Ct 2,6; 8,3).

POESIE D ’AM ORE EGIZIANE

(Lei) La voce della colomba parla. Essa dice:L’alba è venuta, qual è la mia (tua?) via?No, o uccello, tu mi disturbi! Ho trovato il mio fratello nel suo letto.il mio cuore è oltremodo felice. Noi diciamo: Non sarò mai lontano,la mano sarà nella mano;

andrò in giro,sarò con te in ogni luogo bello! Egli mi ha posto come la prima tra le belle,non ha distrutto il mio cuore (con il suo rifiuto)(Fox No. 14).(Lei) Piante-saam sono in lui, di fronte alle quali si è esaltati.Io sono la tua sorella preferita.10 sono con te come terra scelta che ho piantato con fiorie ogni specie di erbe odorose e dolci.Un canale è in essa che la tua mano ha scavato. Rinfreschiamoci al vento del nord,in un luogo bello da passeggiare, la tua mano nella mia mano.11 mio corpo è soddisfatto,

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il mio cuore nella gioia quando camminiamo insieme. Succo di melograno è il mio sentire la tua voce,10 vivo al sentirla.Se potessi guardarti con ogni sguardo,sarebbe meglio per me che mangiare e bere (Fox No. 18).(Lui) La mia sorella è venuta e il mio cuore esulta.11 mio braccio è aperto per abbracciarla...(Fox No. 20E).(Lui) Io l’abbraccio e il suo braccio è aperto verso di me...(Fox No. 20F).

Il bacio, indicato come il «profumo del naso», è Tunica cosa che ap­paghi l’innamorata egiziana, per la quale tutto è amaro al suo confron­to; oppure è paragonabile alle cose più dolci per il ragazzo del Cantico.Il bacio sul naso, che era comune gesto di affetto in Egitto, è specificato dalla menzione dei seni e della bocca nel Cantico:

CANTICO DEI CANTICI

(Lui) Io ho detto: Salirò sulla palma e afferrerò i suoi rami.Siano i tuoi seni come i grappoli della vite,il profumo del tuo naso come i pomi,il tuo palato come il vino buono, che scorre per il mio diletto morbidamente,che fluisce dalle mie labbra come vino vecchio (Ct 7,9-10).

POESIE D ’AMORE EGIZIANE

(Lei) Se guardo i dolci,[essi sono amari] come il sale.Il succo di melograno, che era dolce alla mia bocca, è come il fiele degli uccelli.

Il profumo del tuo naso, da solo, è ciò che vivifica il mio cuore.

Ho trovato ciò che Amon mi ha dato in eterno per sempre (Fox No. 12,B-C).

Nel passo del Cantico compare un motivo che si ripete varie volte: paragonare la persona amata, o una parte di essa, con le cose più dolci e inebrianti.

(Lei) Mi baci con i baci della tua bocca,perché migliori sono le tue carezze del vino.Per il profumo, i tuoi oli sono buoni,olio di Turak è il tuo nome,

(Lei) Il tuo amore è desiderabile

come olio con miele,

[come fine vesti] al corpo dei grandi,come indumenti al corpo degli dèi,

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per questo le ragazze ti amano (Ct 1,2-3).

come incenso al naso [...]E come una mandragora nella mano di un uomo; è come datteri che egli mescola alla birra (Fox No. 20B.A).

La continuità del contatto fisico è un desiderio tipico degli innamo­rati, che sognano diversi mezzi capaci di assicurarlo. Un gruppo di canti egiziani esprime sette desideri dell’innamorato (Fox No. 21A-G). for­mulati con schema analogo: «Magari io fossi la sua schiava nubiana...il suo lavandaio...» ecc. Un desiderio comune al Cantico e alle poesie egiziane riguarda l’anello o sigillo:

(Lei) Ponimi come sigillo sul tuo cuore,come sigillo sul tuo braccio!(Ct 8,6).

(Lui) Magari io fossi l’anello che è compagno del suo dito! Vedrei il suo amore ogni giorno[ • ]...........Sarei io che rapirei il suo cuore! (Fox No. 21C).

L ’innamorata egiziana fa eco all’innamorato esprimendo tre deside­ri (Fox No. 38-40). Uno di questi utilizza l’immagine della gazzella per indicare la venuta di lui, cosa che si trova anche nel Cantico:

(Lei) Voce del mio diletto!

Ecco egli viene

saltando sulle montagne,

balzando sulle colline.

È simile il mio diletto a una gazzellao a un piccolo dei capri (Ct 2,8-9a; cfr. 8,14; 2,17).

(Lei) Magari tu venissi alla tuasorella in fretta,come una gazzella che saltasopra i monticon le gambe tremanti eil corpo spossato,poiché il terrore è entrato nellesue membra.I cacciatori la in seguono, i cani le vanno dietro, ma non vedono la sua polvere. Guarda un luogo di riposo come una trappola (?), percorre il fiume come una strada (Fox No. 40,A-B).

La descrizione delle membra degli innamorati è un altro tratto co­mune della letteratura d ’amore egiziana e biblica. E una contemplazio­ne vicendevole che i due si scambiano; la persona amata diventa ii mi­crocosmo di tutto ciò che di bello e desiderabile il mondo offre:

(Lui) Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella!I tuoi occhi sono colombe

al di là del tuo velo;

i tuoi capelli come gregge di capre che sfilano giù dal monte Galaad;

(Lui) Eccola come Sirio che sorge alFinizio di un anno felice, splendente, eccellente, bianca di pelle,leggiadra negli occhi quando guarda.Sono dolci le sue labbra nel parlare, lei non ha parole superflue.

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i tuoi denti come greggedi pecore tosateche sono salite dal bagno,che partoriscono tutte gemellie nessuna è senza piccoli.Come nastro di porpora le tuelabbrae la tua bocca graziosa;

È alta di collo, chiara di petto.

come pezzo di melograno la tua guanciaal di là del tuo velo.

Sono lapislazzuli i suoi capelli,il suo braccio sorpassa l’oro, le sue dita sono come fiori di loto È rilassata di dietro, tirata nel mezzo;le sue cosce recano la sua bellezza.Lei è bella di figura quando si muove sulla terra, ha rapito il mio cuore con il suo abbraccio

Come torre di David il tuo (Fox No. 31 ,B-D).collo,costruita a ricorsi, a cui sono appesi mille scudi, tutte armature di prodi.I tuoi due seni sono come due piccoli,gemelli di gazzella, che pascolano tra fiori di loto (Ct 4,1-5; cfr. 6,4-7; 7,2-6; per lui 5,10-16).

Infine, il motivo del rapire il cuore, già incontrato più volte nei testi egiziani compare anche nel Cantico:

(Lui) Mi hai rapito il cuore, mia sorella sposa, mi hai rapito il cuore con uno solo dei tuoi occhi, can un solo filo della tua collana (Ct 4,9).

Dicevamo che l’ambiente preferito dei canti d ’amore è la campagna, un giardino o un frutteto. Gli innamorati vivono in città, ma fuggono in campagna perché quello è l’ambiente dove sboccia la vita e si rivela la forza divina che è negli esseri; un ambiente che è insieme simbolo, specchio e rifugio del loro rapporto. Con la natura si scoprono in sinto­nia: i giovani egiziani, in particolare, parlano ad essa ed essa parla a loro. Fiori, piante, animali offrono agli innamorati termini e simboli per comprendersi e descriversi.

Molti canti sono ambientati in luoghi verdeggianti, lungo canali di acqua, elemento, quest’ultimo, tipico dell’Egitto, che richiama soprat­tutto il Delta e la zona lacustre del Fayyum. Boschetti di papiro, acqua abbondante, fiori di loto e di ogni specie: questo fu sempre il luogo ideale di divertimento per gli egiziani e anche l’ambiente dove gli innamorati cercavano intimità e nutrivano i sentimenti.

Nel Cantico lei invita lui a uscire insieme alla campagna per vederelo sbocciare dei fiori e partecipare al ritmo della vita che si rinnova (Ct 7,12-13). L ’ambiente del Delta è evocato esplicitamente in questo can­to egiziano:

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(Lei) Sto navigando verso nord sul Canale del Principe.sono entrata in quello di Pre (presso Eliopoli).Il mio cuore desidera andare dove si preparano edicole all’entrata del canale Ity.Mi metterò in cammino in fretta senza fermarmi,poiché il mio cuore si è ricordato di Pre (il dio sole di Eliopoli). Allora io vedrò il mio fratello entrare.Egli si dirigerà verso [...] mentre io sarò con te all’entrata del canale Ity.poiché tu [hai attratto] il mio cuore verso Eliopoli (...)Sono diretta al «Giardino dell’amo re», con le braccia piene di (rami di) persea,i capelli carichi di balsamo.Io sono [una nobildonna],io sono la Signora delle Due Terre ( = la moglie del faraone) quando [sono con te] (Fox No. 8).

Le «edicole» di cui parla il testo precedente, situate presso il canale, come anche il «Giardino dell’amore», designano luoghi di divertimen­to, dove si beveva birra e altre bevande inebrianti, e ritrovi d ’amore.

NON SONO CAPRI MA AGNELLI!

(Rabbi lose disse) Disponi te stesso allo studio della Torah poi­ché essa non viene a te per eredità.

Quando Mosè nostro maestro si accorse che i suoi figli non ave­vano conoscenza della Torah da potergli succedere nella guida del popolo, si avvolse nel suo mantel­lo e si alzò per pregare. Disse: Si­gnore dell’universo, fammi cono­scere chi entrerà e uscirà alla te­sta di questo popolo... Allora il Santo, sia benedetto, gli disse: Mosè, prenditi Giosuè. Il Santo, sia benedetto, disse ancora a Mo­sè: Va’ e nomina per lui un inter­prete affinché egli possa esporre (la Torah) alla tua presenza a ca­po dei notabili di Israele. Allora Mosè disse a Giosuè: Giosuè, il popolo che affido alla tua cura non sono caproni ma capretti. Non ti

affido pecore ma agnelli poiché fi­nora essi non si sono occupati dei comandamenti e così non hanno raggiunto lo stadio di caproni, co­me è detto: Se non lo sai, o bellissi­ma tra le donne, segui le orme del greg­ge e pascola i tuoi capretti accanto alle tende dei pastori (Ct 1,8) (...).

Rabban Iohanan ben Zakkai si voltò verso i suoi discepoli e dis­se: Per tutta la vita ho letto que­sto verso: Se non lo sai, o bellissime tra le donne, segui le orme del gregge? ma non ne comprendevo il signi­ficato fino ad oggi quando mi so­no reso conto del suo significato, cioè che Israele cadrà sotto il do­minio delle nazioni più umili, e non soltanto sotto il dominio delle più umili delle nazioni ma sarà tra il letame del loro gregge.

(Abot de Rabbi Natan 17,3)

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Una descrizione più diffusa di questi luoghi e della vita che vi si condu­ceva si legge in un altro testo egiziano, che riporta il seguente invito ai giovani posto in bocca a una pianta di sicomoro:

Venite, passate il tempo dove sono i giovani, la palude celebra il suo giorno.Un’edicola di festa e una capanna sono sotto di me,i miei principi (i giovani?) gioiscono ed esultano al vederti (...)Hanno portato birra di ogni specie e pani di tutti i tipi, piante numerose di ieri e di oggi e frutti di ogni genere per divertimento.Vieni, passa il giorno in gioia, un giorno, un altro, due giorni, seduta sotto la (mia) ombra.Il suo amico è alla sua destra, lei lo fa inebriare e fa tutto quello che egli dice.La casa della birra è nella confusione mentre la gente si inebria, ma lei resta con il suo fratello (Fox No. 30,C-D).

A questo ambiente, e specificamente all’edicola dell’incontro con vi­no e letto, alludono alcuni testi biblici che abbiamo già letto (Ct 2,4-5; 1.16b-17; 1.4). Edicole poste nei giardini sono note non solo nell’am­biente egiziano ma anche in quello mesopotamico e persiano (sono no­minate in Ester 1,5; 7,7.8).

Il giardino-frutteto è dunque l’ambiente del Cantico e delle poesie d ’a­more egiziane. Assicura la segretezza, l’intimità dell’incontro e lo scena­rio adatto di profumo, freschezza, vita. Il giardino è l’ambiente delFa- more e anche simbolo dell’amata. Le rappresentazioni deliziose di Tu- tankhamon e della sua giovanissima sposa nel folto di un giardino rigo­glioso, quasi fuori del mondo, in un atteggiamento di incantamento l’u ­no per l’altra, sono la migliore illustrazione del Cantico con la sua atm o­sfera di sogno e lo scambio continuo di comunicazione tra gli innamorati.

Per quanto si tratti di un rapporto a due, vengono nominate talvolta le compagne di lei, come nei testi già citati, e anche i compagni di lui, sia nei canti egiziani che nel Cantico:

(Lui) Lei venne di sua volontà a vedermi.Come è grande ciò che mi accadde!Perciò io diventai esaltato, allegro e forte quando dissi: Finalmente, eccola!Ecco, lei è venuta, mentre gli «amatori» stavano curvati per la grandezza del suo amore (Fox No. 35B).

POESIE D ’AMORE EGIZIANE

bevete e inebriatevi di carezze(Ct 5,1).

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Questi passi alludono a dei giovani amici di lui, che sono supposti presenti al dramma con la funzione di «coro», così come le «figlie di Gerusalemme» sono accompagnatrici e «coro» di lei; giovani che in qual­che modo partecipano alla festa e costituiscono la cassa di risonanza dei sentimenti dei due innamorati. Possono essere anche ammiratori di lei, quasi pretendenti, come suggerisce l’epiteto «amatori» del testo egizia­no appena citato, o anche ammiratori di lui (ad essi forse allude un pas­so riportato sopra: «più dei liquori ti ameranno», Ct 1,4).

Il gruppo delle « figlie di Gerusalemme » viene nominato in un testo che descrive il letto di Salomone. Leggiamo per intero questo passo piut­tosto oscuro perché ci permette di approfondire il ruolo di Salomone nel Cantico accennato in precedenza:

Chi è quella che sale dal deserto come colonne di fumo, profumata di mirra e di resina, di ogni genere di polvere di mercante?Ecco il suo letto, di Salomone!Sessanta prodi sono intorno ad esso,tra i prodi di Israele,tutti armati di spada,esperti nella guerra,ognuno con la sua spada sulla coscia,senza paura nelle notti.Una lettiga si fece il re Salomonecon legni del Libano;le sue colonne fece di argento,le sue coperture di oro,i suoi cuscini di porporae il suo interno è rivestito di amoreda parte delle figlie di Gerusalemme.Uscite e guardate, figlie di Sion, il re Salomone con la corona con cui lo incoronò sua madreil giorno del suo matrimonio,il giorno della gioia del suo cuore (Ct 3,6-11).

Uno dei problemi di questo passo è il nesso tra la domanda «Chi è quella che sale...?», che si riferisce alla ragazza (così anche in 8,5; cfr. 6,10), e ciò che segue, che dovrebbe dare la risposta ma che di fatto descrive il letto (o lettiga) di Salomone, mentre della ragazza non si parla più. Questa difficoltà può essere superata ricordando la funzione dei riferimenti a Salomone nel Cantico. Salomone, il patrono della sapien­za biblica, il re famoso per il suo harem e per lo splendore della sua reggia, è il modello naturale degli innamorati; il suo nome e il suo stile sontuoso si applicano al partner maschile del Cantico. Ora, come Saio- mone è cifra dell’innamorato, così la portantina di Salomone su cui ar­rivò la principessa straniera sarà cifra dell’innamorata. La descrizione di Ct 3,7-11 si applica dunque alla ragazza del Cantico, chiamata Su- lammita in 7,1 (nome che è equivalente femminile di Salomone e signi­fica «la perfetta»), e la presenta come la principessa dell’amato. Perciò

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la descrizione della lettiga risponde realmente alla domanda iniziale, che riguarda la ragazza, e il testo è coerente.

Una volta compreso il senso generale del passo, si chiarisce un detta­glio oscuro riguardante le «figlie di Gerusalemme», o «figlie di Sion».Si dice che l’interno della lettiga è «rivestito d ’amore» nel senso, pro­babilmente. che è ricoperto con stoffe tessute e ricamate dalle ragazze di Gerusalemme, tutte naturalmente «innamorate» di Salomone.

La profondità deiresperienza modella la fraseologia. Un esempio lo abbiamo nell’uso della parola «amore». Nei canti egiziani l’espressione «il tuo amore» significa «tu, mio amato», e «l’amore della mia sorella» significa «la mia amata sorella». Ecco un esempio:

(Lei) O fiore delle pìanìt-mekhmekk:il mio cuore è in bilancia (in accordo) con te, e io farò per te ciò che egli (il mio cuore) desidera, quando sono nel tuo abbraccio.E la mia preghiera che (?) ha dipinto il mio occhio; vedere te ha illuminato i miei occhi.Io mi sono avvicinata a te per vedere il tuo amore,o principe del mio cuore!Com’è bella questa mia ora!Fluisce per me un’ora daireternità, da quando giaccio con te.E nel dolore e nella gioia tu hai esaltato il mio cuore!Non [lasciarmi]! (Fox No. 17).

Sotto il fiore che contempla, la giovane vede l’amato; il linguaggio, dal piano letterale passa a quello simbolico. Questo passaggio è feno­meno frequente nelle poesie d ’amore egiziane. Il modo brusco con cui si verifica fa capire fino a che punto i due innamorati si sentano parte della creazione, si specchino in essa e in essa si comprendano l’un l’altro.

Un atteggiamento simile di sintonia con la natura si trova di frequente anche nel Cantico, come quando la campagna fa da contrappunto ai sentimenti:

(Lri) Vieni, mio diletto, usciamo alla campagna, dimoriamo nei casolari, all’alba usciamo alle vigne e vediamo se è germogliata la vite, si sono aperte le gemme, sono sbocciati i melograni.Là ti darò le mie carezze (Ct 7,12-13).

Richiama l’attenzione, nel testo egiziano citato sopra, la designazio­ne d: lui come «il tuo amore»: «Io mi sono avvicinata a te per vedereil tuo amore». Come nel linguaggio ufficiale ci si rivolgeva al re con l’epreto «la tua maestà», così lei si rivolge a lui come «il tuo amore»: amore sta per tu.

L ’amore con la A maiuscola

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La cosa, per quanto suggestiva, passerebbe inosservata se non si tro­vasse nel Cantico u n ’espressione simile, altrettanto singolare:

Giuratemi, figlie di Gerusalemme per le gazzelle e per le cerve della steppa, che non sveglierete e non desterete l’amore finché non voglia (Ct 2,7).

Non c’è accordo su come interpretare questo strano giuramento che l’innamorata impone alle ragazze del suo seguito; è probabile infatti che sia lei, non lui, a parlare al coro delle «figlie di Gerusalemme», come suggeriscono alcuni passi dove questo è esplicito (1,5; 5,8; 5,16).

Cosa significa «l’amore» in quella frase? Di solito s’intende come far l’amore, ma tale interpretazione non è senza problemi: in che senso non si dovrebbero svegliare i due mentre fanno l ’amore? L ’interpretazione comune intende svegliare come disturbare.

Alcuni dettagli, però, suggeriscono un’interpretazione differente. In­nanzitutto il termine «amore» (<ahabà) viene usato in modo generale, sen­za alcuna specificazione. La ragazza dice «l’amore», non «il mio amo­re» o «il tuo amore», come l’innamorata egiziana, e neppure amore mio, com’è usuale tra gl’innamorati, sia in questo passo che altrove nel Can­tico. Questo fatto significa che il termine «amore» nel Cantico è sem­pre qualcosa di ampio: designa una persona (lui in 2,7 citato sopra, lei in 7,7), ma non si esaurisce in essa.

Per di più, «amore» acquista una dimensione che oltrepassa ogni li­mite umano nel passo più famoso del Cantico:

(Lei) Ponimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, dura come lo sheol è la gelosia;i suoi dardi sono dardi di fuoco, fiamme di Dio.Acque profonde non possono estinguere l’amore né i torrenti lo portano via.Se uno vendesse tutta la ricchezza della sua casa per l’amore, verrebbe certo disprezzato (Ct 8,6-7).

Fermiamoci un attimo sulFultima frase. Se uno offrisse tutto quello che ha in cambio dell’amore, la sua proposta sarebbe rifiutata con di­sprezzo. E inutile chiedersi da chi sarebbe rifiutata; è un modo per dire che l’amore non è in vendita e che nessuno può sperare di acquistarlo con le ricchezze. Questa espressione esalta la preziosità delFamore in un modo che richiama i passi di Proverbi che esortano a vendere tutto per acquistare la sapienza, e soprattutto l’affermazione di Giobbe che con nessun tesoro può essere comprata la sapienza. Questa convergen­za tra amore e sapienza è significativa e importante. Sono due realtà divine seminate nel mondo, due veri tesori tra molti altri falsi, due ri­velazioni che interpellano l’uomo tramite le creature.

Tutti riconoscono che il passo citato sopra costituisce il culmine del Cantico: niente di più vero; non molti però apprezzano il senso di quel­le frasi straordinarie e la loro coerenza nell’insieme del Cantico. L’a­

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more (con il suo parallelo la gelosia) è sentito come la forza della vita, potente come la morte e lo sheol (il luogo dove tutti i morti si raduna­no); è una fiamma che nessuna forza della natura, neppure le acque del caos primordiale, riescono a spegnere (le acque che tutto avvolge­vano prima che Dio le separasse dalla terra e le contenesse nei mari). L’amore è la forza divina che sorregge il mondo.

Notiamo la formulazione esatta deirespressione: «forte come la morte è l’amore, dura come lo sheol è la gelosia», non più della morte e più dello sheol come forse ci attenderemmo. Apparentemente il poeta non vede l’amore come la forza che vince la morte ma che la contrasta. La morte ha un potere inoppugnabile, così l’amore; sono le due forze che si affrontano nello scenario del mondo. Il potere della morte sembra assicurato in modo automatico dal momento che tutti gli esseri sono ad esso soggetti. M a non è certo che l’autore sacro concepisse la morte esclusivamente come rovina fisica.

Quale conclusione trarre da queste considerazioni? C ’è il rischio di forzare le frasi oltre le reali possibilità espressive. Sembra, comunque, che l’uomo sia visto come soggetto alle due forze supreme: la morte e l’amore. Qualora egli accolga la rivelazione dell’amore, la sua vita non è più in balia della morte perché l ’amore è altrettanto forte e in qualche modo assicurerà la sua vita.

Gli innamorati egiziani, come quelli di ogni epoca e razza, hanno avuto certamente u n ’esperienza analoga a quella espressa nel Cantico, anche se non l ’hanno formulata con la medesima intensità e chiarezza. Ognuno che ama sperimenta, infatti, che ciò che sente è immortale, che lo pone nell’eternità. Non c’è distinzione essenziale tra l’amore for­za primaria del mondo (e perciò amore con la A maiuscola, Dio), e l’a­more umano in tutte le sue diverse realizzazioni, diverse solo perché variano i partner. Forse si può scoprire traccia di questa esperienza pro­fonda in una frase di un testo egiziano citato sopra, dove si dice: «Flui­sce per me u n ’ora dall’eternità, da quando giaccio con te» (Fox No. 17), ma questa traduzione, per quanto la più ovvia dal punto di vista grammaticale, non è corrente tra gli specialisti.

L ’ordine che Dio ha creato è questo Amore che pervade l’universo;il disordine consiste nel separare l’amore umano dall’Amore; quando questo accade, non esiste più l’amore, subentra l’egoismo. Si sperimenta, così, la verità di ciò che G. von Rad scrisse sulla peculiarità della sa­pienza biblica (ma lo stesso vale, in diversa misura, per ogni esperienza umana del mondo alla luce della fede):

La sua grandezza (di Israele) consiste forse in questo, nel non aver se­parato la fede dalla conoscenza: le esperienze del mondo erano per lui esperienze di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo (G. von Rad, La sapienza in Israele, Torino 1975, 65).

Si comprende anche con quanta verità il Cantico sia uno dei libri sa­pienziali.

Possiamo ora tirare le fila di ciò che abbiamo esposto e comprendere l’ingiunzione di non svegliare l ’amore. E necessario combinare insie­

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me l’idea che il Cantico è sogno (nel senso profondo spiegato sopra) e che «amore» è realtà onnicomprensiva, che include lui e lei senza esau­rirsi in essi. Il senso deir ingiunzione, allora, può essere così formulato: non svegliare lui (lei) che, nel sogno, realizza l’esperienza ultima del- TAmore; non far cessare questa conoscenza totale, integrata, del cuore (o inconscio) e dell’io dell* innamorato^) finché lui (lei) lo voglia e fin­ché TAmore intenda rivelarsi.

L ’ingiunzione di Ct 2,7 costituisce un ritornello che si ripete in 3,5 e 8,4. Se si accetta la proposta che essa abbia un senso coerente con il passo che viene indicato come la «summa» del Cantico (8,5-7), allora non si può non riconoscere l’importanza di quel ritornello perla composizione e per Tinterpretazione del libro biblico nel suo complesso. Non si potrà dire, ad esempio, che Ct 8,5-7 sia una parte aggiunta da un redattore poste­riore (e che quindi non faccia fede sul senso originario) allo scopo di faci­litare l’accettazione del Cantico nel canone dei libri ispirati.

Il lettore è in grado, a questo punto, di valutare quanto siano profon­de le somiglianze tra il Cantico e i canti d ’amore egiziani. Il confronto permette di individuare l ’ambiente del libro sacro e fornisce valide chiavi di lettura. I testi acquistano profondità di campo, l’orizzonte si allarga, si scoprono prospettive nuove, le parole assumono risonanze insospettate.

Si riesce anche a mettere a fuoco il fondo ideale del Cantico. L’amo­re, forza primordiale ed energia divina che regge l’universo, i due in-

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namorati lo sperimentano attraverso il rapporto a due vissuto nello sfon­do della vitalità del creato in un giardino-frutteto.

Testi del genere sono stati scritti per essere goduti. Lo stile ampio e sontuoso del Cantico, le sue immagini splendide e preziose, i termini ricercati, la musica dei suoni e del ritmo, le evocazioni e le suggestioni non sono lì per caso: intendono comunicare un messaggio di godimen­to, di meraviglia di fronte alla bellezza, alla bontà, alla vita. Secondo la prospettiva sapienziale che gli è propria, il Cantico mostra a suo mo­do la rivelazione di Dio nel creato, colta attraverso l’occhio limpido e avido di una coppia di adolescenti che si svegliano alla vita e incontra­no una forza che tutto avvolge e pervade. Quale forma di rivelazione si può immaginare più convincente e profonda della bellezza e delFa- more diffusi nel mondo?

Giunti alla fine, vediamo sotto altra luce il dilemma accennato alFi- nizio tra interpretazione letterale e interpretazione allegorica del Can­tico. Probabilmente non è un dilemma e l’interpretazione cosiddetta al­legorica non è poi così lontana da quella letterale, almeno in questo ca­so. Se è vero che l’amore è una realtà capace di differenti realizzazioni, da quella della coppia a quella di Dio, anche l’interpretazione antica, allegorica del Cantico rientra nell’ambito del testo ed è quindi legitti­ma. Bisogna evitare di affermare Funa o l’altra interpretazione in mo­do esclusivo.

Su questa base, possiamo permetterci un’incursione nel Nuovo Te­stamento senza timore che sia indebita. Il messaggio del Cantico per­mette infatti di comprendere meglio la dottrina paolina che vede il rap­porto della coppia come mistero del rapporto di Cristo e della Chiesa e quest’ultimo come modello del primo. A suo modo, Paolo sviluppa una dottrina molto antica.

BENEDETTO SEI TU CREATORE DELL’UOMO

Tu che hai creato il frutto del­la vite, che hai creato tutte le co­se per la tua gloria, benedetto sei tu Creatore dell’uomo.

Benedetto tu che hai creato l’uomo a tua immagine, secondo la tua somiglianza, e hai prepa­rato per lui dal tuo proprio esse­re una struttura perenne. Bene­detto tu creatore dell’uomo. Pos­sa Sion, che era sterile, gioire ed esultare mentre i suoi figli sono radunati dentro di essa nella gioia. Benedetto tu che rendi Sion gioiosa per mezzo dei tuoi figli.

Fa’ che questi fratelli si ralle­

grino grandemente come in an­tico rallegrasti la tua creatura nel giardino di Eden. Benedetto tu che rendi felici lo sposo e la spo­sa. Benedetto tu che hai creato gioia e felicità, sposo e sposa, al­legria, piacere, esultanza, amo­re, fratellanza, pace e amicizia. Si odano presto nelle città di Giu­da e nelle vie di Gerusalemme la voce della gioia e dell’allegrezza, la voce dello sposo e la voce della sposa dai loro giacigli e dei gio­vani dai loro festini con canti. Be­nedetto tu che fai rallegrare lo sposo con la sposa.

(Kallak Rabbati 1,1)

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Voi uomini, amate le mogli come anche Cristo amò la Chiesa... Così anche gli uomini devono amare le proprie mogli come i propri corpi... poiché siamo membra del suo corpo (di Cristo). Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si congiungerà alla sua moglie e i due saranno una carne sola. Questo mistero è grande, ma io parlo in rapporto a Cristo e alla Chiesa. Perciò anche voi, ciascuno per la sua parte, ami la propria moglie così come ama se stesso; la moglie poi deve rispettare il marito (Ef 5,22-33).

Si giustifica anche un passaggio di natura teologica: l’applicazione del Cantico alla situazione dell’anima consacrata. Infatti ogni amore, quando è vero, è forma dell’Amore a pieno diritto.

Se le cose stanno davvero così, si domanderà qualcuno, se scopo del Cantico è mostrare un rapporto «irenico» tra amore umano e amore divino, era proprio necessario utilizzare un linguaggio erotico spesso così dettagliato? Mi sembra che la risposta possa essere semplice. L ’a­more umano come è, nelle sue varie forme, con le gioie e inquietudini che gli sono proprie, è stato assunto come luogo della rivelazione del- 1*Amore. Al tempo della composizione del Cantico le forme dell’amore avevano raggiunto lo stato di genere letterario, soprattutto nella poesia egiziana, con terminologia, situazioni e atteggiamenti caratteristici. L’autore sacro si è inserito coscientemente in una tradizione letteraria collaudata e se ne è servito per trasmettere il suo messaggio che è rive­lazione di Dio tramite le creature.

Lo stadio dell’amore scelto nel Cantico come luogo della rivelazione è lo stadio giovanile, che è il più forte, puro e anche il più ricettivo e aperto alla scoperta e alla meraviglia. In definitiva, tramite questo sta­dio della vita giovanile, Dio ha scelto di comunicare agli uomini di ogni tempo il suo messaggio, messo per scritto da un autore umano che ave­va una forte capacità letteraria, sensibilità e apertura agli stimoli del­l’ambiente.

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La ricerca DELLA SAPIENZA

L a sapienza è una pluralità di volti. È come un orizzonte che si apre su un altro orizzonte, senza discontinuità e senza fine. Ogni volto della sapienza rimanda oltre, a un altro volto da scoprire,

fino al volto irraggiungibile di Dio. Questo punto finale, mai raggiun­to. della sapienza è costantemente presente come stimolo e insieme co­me correttivo. Occorre sempre «cercare la sapienza», «comprarla», per­ché c’è sempre un volto e un orizzonte da raggiungere. Andare oltre assicura la bontà della sapienza; fermarsi la rovinerebbe. Sarebbe «es­sere saggi ai propri occhi», o ritenere «diritte le proprie vie»; in altre parole: fare i propri calcoli senza tener conto di Dio.

Non essere saggio ai tuoi occhi,temi Jahveh e allontanati dal male (Pro 3,7).La via dell’iniquo è diritta ai suoi occhi, mentre il saggio ascolta il consiglio (Pro 12,15).Ogni via dell’uomo è diritta ai suoi occhi, ma chi saggia i cuori è Jahveh (Pro 21,2).

Iniziamo un nuovo itinerario attraverso i testi alla ricerca della sa­pienza. Sarà un cammino lungo e impegnativo; lungo perché attraver­sa i secoli, e impegnativo perché richiede orecchie e cuore per ascoltare e custodire gli echi delle parole dette. Infatti la ricerca della sapienza biblica, con i suoi molteplici volti e orizzonti, chiama in causa vari li­bri: Proverbi, Giobbe, Siracide, il libro della Sapienza, il libro di Ba- ruc e anche scritti apocrifi.

Seguiremo una traccia, un filo prezioso che corre lungo tutto il movi­mento sapienziale, alla ricerca del volto della sapienza, della sua figura elusiva e presente, divina e umana, diffusa nelle creature, personificata e infine incarnata. E il filone più ricco, che giunge sino a Gesù di Naza­ret. Maestro di sapienza secondo la tradizione antica e lui stesso Sa­pienza incarnata.

Prendiamo come punto di partenza il capitolo 28 di Giobbe, il famo­so ninno alla sapienza». Benché venga generalmente lodato per la sua bellezza, questo poema didattico presenta, secondo parecchi autori, in­congruenze e glosse. Anzi, esso è ritenuto quasi da tutti un’aggiunta

L a sap ienza da dove v ie n e ?

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! della sapienzaI (V D . 1-11)

(a) luogo

(b) limitazione

(c) attività

II (vv. 12-19) (a) luogo

(b) limitazione

(c) attività

III (vv. 20-28) (a) luogo

(b) limitazione

posteriore, senza relazione con il resto del libro. Questi problemi na­scono dalle difficoltà oggettive che il poema pone dal punto di vista te­stuale, della composizione e delFinterpretazione. M a, come al solito, mettiamoci all’ascolto del testo con l’apertura di chi vuole imparare.

Gb 28Certo c’è per l’argento un luogo e un posto per l’oro dove si raffina.Il ferro dall’argilla si estrae e dalla pietra fusa, il rame.Limite pone all’oscurità,sino ad ogni confine lui esplorapietra di caligine e tenebra profonda.Apre wadi lontano dall’abitato,che sono dimenticati dai passanti,che sono aridi e conducono lontano dagli uomini.La terra, da essa nasce il pane,ma il sottosuolo è scompigliato come da fuoco.Sede di lapislazzuli sono le sue pietre e le sue argille sono oro per lui.Non lo conosce l’avvoltoio, il sentiero né lo scorge occhio di falco; non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone.Contro la selce dirige la mano, rovescia dalla radice le montagne.Nelle rocce canali scava e ogni cosa preziosa vede il suo occhio.Le sorgenti dei fiumi ispeziona e le cose oscure porta alla luce.

Ma la sapienza, da dove giunge, e dov’è la sede delFintelligenza?Nessun, mortale conosce la sua dimora, né si trova nella terra dei viventi.L’abisso dice: — Non è in me! — e il mare dice: — Non è con me!Non si danno lingotti per essa,né si pesa argento come suo prezzo;non la si ripaga con oro di Ofir,né con onice preziosa o zaffiro;non si paragona con essa oro o vetro.né suo scambio è alcun oggetto d’oro fino;coralli e cristallo non si possono menzionare,né l’acquisto della sapienza si fa con le perle;non si paragona con essa il topazio di Cush,né con oro puro si ripaga.

Ma la sapienza, da dove proviene e qual è la sede delFintelligenza?E occulta persino agli occhi di ogni animale e agli uccelli del cielo è nascosta.Distruzione e Morte dicono:

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— Solo con le orecchie abbiamo udito notizia di lei!Solo Dio sa la via ad essae lui solo conosce la sua abitazione,poiché lui solo fin le estremità della terra guardae tutto ciò che è sotto il cielo vede.Quando stabilì per il vento un pesoe Facqua ponderò con la misura,quando egli stabilì per la pioggia un canalee una via per l’uragano,allora la vide e la contò,la vagliò e anche la scrutò.E disse all’uomo:— Ecco, il timore del Signore è sapienza e allontanarsi dal male, intelligenza!

Il testo offre indicazioni sufficienti per cogliere il movimento del bra­no. Il ritornello dei vv. 12 e 20 identifica tre parti. La cosa è talmente ovvia che gli studiosi talvolta ne diffidano, a torto però. Infatti le tre parti identificate dal ritornello sono parallele in quanto presentano tre motivi nel medesimo ordine: luogo, limitazione, attività. Troviamo pri­ma un accenno a un luogo: un posto per l’oro (v. lb), il posto dell’intel­ligenza (v. 12b e v. 20b); quindi una limitazione per tutti gli esseri viven­ti: il sentiero non lo conosce l ’avvoltoio (vv. 7-9), nessun mortale cono­sce la sua dimora (vv. 13-14), essa è occulta persino agli occhi di ogni animale (w . 21-22); e infine la descrizione di un ’attività: l’uomo con il suo lavoro riesce a impadronirsi dei metalli nascosti (attività tecnica, positiva: vv. 9-11), ma con tutti i tesori l’uomo non può procurarsi la sapienza (attività commerciale, negativa: vv. 15-19), solo Dio ha cono­sciuto la sapienza quando ha ordinato l’universo intero (attività crea­trice, positiva: vv. 23-27).

Gb 28 è un poema superbo sulla ricerca dell’uomo. L ’uomo ha capa­cità straordinarie nei confronti delle cose. La sua tecnica riesce a giun­gere dove sembrava arrogante pensare. Ma, la sapienza?

Le tappe del poema sono piuttosto chiare: conquista dei metalli, scam­bi commerciali, ricerca della sapienza. L ’uomo riporta i metalli prezio­si dalle profondità della terra e delle sorgenti mediante l’attività mine­raria. Non si sorrida di queste affermazioni. I fatti di cui parlano i ver­setti 1-11 sono per l’autore delle imprese titaniche, paragonabili, per l’impressione prodotta nella mente dei contemporanei, alle moderne av­venture spaziali. L ’uomo cerca non solo i tesori, cerca anche la sapien­za; però, nonostante i suoi sforzi, non può raggiungerla da sé. Non può scavare fino alle viscere della terra per trovarla, perché essa non è là; non può arrivare ai paesi remoti per comprarla, perché nessun tesoro è sufficiente.

Si va facilmente incontro a fraintendimenti nell’interpretare questo poema di Giobbe. Per molti esso ha un senso agnostico, se non proprio disperato: la sapienza non è alla portata dell’uomo; anzi non è neppure presente nel mondo. Ma, chiaramente, questa idea non si accorda con l’affermazione finale: «Ecco, il timore del Signore è sapienza... » (v. 28).

(c) attività

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Per superare questa antinomia, è opinione comune che il v. 28 sia un’ag­giunta introdotta da un pio redattore che intese in questo modo ricon­durre il poema originario entro Valveo della dottrina tradizionale dei saggi.

Il problema essenziale è il linguaggio con cui si parla della sapienza. Si incontra un primo linguaggio di tipo spaziale: il luogo da cui essa proviene e dove abita, la dimora dove si trova o non si trova, la via ad essa, cioè alla sua abitazione; poi un linguaggio di tipo commercia­le: pagare, scambiare, prezzo, acquisto; e infine un linguaggio legato alla conoscenza: essa è occulta, se ne ha solo una notizia, è vista, conta­ta, vagliata, scrutata. In che relazione stanno tra loro questi tre tipi di linguaggio? Stabilire ciò dà la chiave delPinterpretazione.

Nel poema si nota il passaggio da un tipo all’altro di linguaggio. Ad esempio, dal linguaggio spaziale: l ’uomo non conosce la dimora della sapienza, si passa a quello diretto: la sapienza è nascosta agli animali. La conoscenza del luogo porta alla conoscenza dell’oggetto che vi si trova.

In vari modi si dice perciò la stessa cosa: nessuna creatura ha cono­scenza diretta della sapienza. Non l ’uomo, che non può raggiungerla né comprarla, non Poceano né il mare né gli animali, anche quelli dalla vista più acuta, e neppure le forze della morte, che non possono conte­nerla né vederla, o ne hanno solo notizia per sentito dire e quindi una conoscenza imperfetta. Solo Dio conosce pienamente la sapienza per-

DA GIOVANE IL CANTICO DEI CANTICI, DA MATURO PROVERBI, DA VECCHIO ECCLESIASTE

[Salomone] proclamò tre vol­te «vanità»: Vanità delle vanità, dice Qoelet (Qo 1,1). «Vanità» è uno e «delle vanità» è due, in totale tre. Egli compose tre cantici: «Cantico» è uno, «dei cantici» è due, in tutto tre (...).

Scrisse tre libri: Proverbi, Ec­clesiaste e Cantico dei cantici. Quale compose per primo? Rab­bi Hiyya il Grande e Rabbi Io- natan dettero risposte differenti. Rabbi Hiyya disse: Scrisse prima Proverbi, poi Cantico dei canti­ci, poi Ecclesiaste. Basò la sua opinione su questo testo: Egli pro­nunciò tremila proverbi (1 Re 5,12), questo è il libro di Proverbi; e i suoi cantifurono mille e cinque, que­sto è il Cantico dei cantici. L’Ec­clesiaste lo compose più tardi (...).

Rabbi Hiyya il Grande inse­gnò: Solo nel tempo della vec­chiaia lo Spirito santo riposò su Salomone ed egli compose tre li­bri: Proverbi, Ecclesiaste e Can­tico dei cantici.

Rabbi lonatan disse: Scrisse prima il Cantico dei cantici, poi Proverbi, poi Ecclesiaste. Rabbi lonatan ragiona a partire dalla via del mondo. Quando un uo­mo è giovane compone canti, quando diventa maturo pronun­cia detti sentenziosi, quando di­venta vecchio parla della vanità di tutte le cose.

Rabbi Iannai suocero di Rab­bi Ammi disse: Tutti sono d ’ac­cordo che compose Qoelet per ultimo.(Midrash Rabba, Caniico dà cantici 1,1,10)

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ché è in grado di percorrere tutto il tragitto conoscitivo: sa il luogo dove si trova e la via per arrivarci, l’ha vista personalmente, l’ha esaminata completamente.

In definitiva, il poema di Giobbe afferma che le creature, anche le più potenti, non hanno conoscenza piena della sapienza. Ma non dice nulla del luogo dove la sapienza si trova o non si trova. E perciò certe interpretazioni in chiave agnostica sono escluse. Non si afferma che la sapienza sia inconoscibile e neppure che sia assente dal mondo.

E una questione di limite. La sapienza è presente m a è insieme as­sente, perché non è a disposizione della creatura; è conoscibile ma è inconoscibile nel profondo. Infatti la sapienza è creatura divina, è il piano con cui Dio ha creato. L ’uomo può, sì, conoscere alcuni elementi del disegno che ha guidato il divino architetto ascoltando la voce delle crea­ture, ma nel profondo esso resta a lui nascosto.

Il versetto finale del poema di Giobbe non viene perciò a sproposito, anzi dà risposta a tutte le domande del poema: almeno la risposta che è alla portata dell’uomo. La sapienza adatta per l’uomo è tutta nella frase tradizionale «temere Dio e allontanarsi dal male», di cui abbiamo già mostrato il significato. Senza il timore di Jahveh tutti gli sforzi e tutti i tesori sono assolutamente inutili per raggiungere la sapienza.

La grandiosa presentazione della sapienza nel poema di Giobbe ap­pare molto diversa dalle idee di Proverbi e di Siracide. Per Proverbi, che ha uno scopo chiaramente didattico-formativo, la sapienza è sì du­ra ed esigente ma chiaramente possibile, anzi doverosa per il giovane che vuole vivere la sua vita in pienezza. Per Siracide il raggiungimento della sapienza è addirittura facile:

Come aratore e mietitore avvicinati ad essa (la sapienza) e attendi il suo abbondante prodotto, poiché faticherai un po’ per coltivarla, ma domani mangerai i suoi frutti (Sir 6,19).

Più di una volta Siracide sottolinea la facilità di raggiungere la sapien­za per quelli che lo desiderano e vanno alla sua scuola (6,32-36). Egli la­scia il suo insegnamento alle generazioni future; non ha faticato solo per se stesso, ma per tutti quelli che cercano la sapienza (24,33-34). Chi vor­rà approfittare della sua esperienza, acquisterà tesori senza pagare (51,25-28); soltanto per i ribelli la sapienza è irraggiungibile (15,7-9).

Giobbe pone il problema da un’angolatura diversa, senza la preoc­cupazione di persuadere i giovani. La sapienza è concepita presente nel mondo, come in Proverbi e Siracide; ma il poema di Gb 28 sottolinea il fatto che l’uomo non la può raggiungere da sé nonostante la sua straor­dinaria capacità di dominare il mondo. Anche i maestri, in fondo, ave­vano in mente questo aspetto quando insistevano sulla necessità dell’u ­miltà e dell’ascolto (Pro 15,33; 18,12; 22,4) o della preghiera (Sir 51,13) per raggiungere la sapienza. Ma Giobbe è drastico contro i presunti «maestri», che sono i tre amici che vengono a consolarlo: solo Jahveh conosce la sapienza e per sua bontà la rivela all’uomo come timore di Dio e allontanamento dal male.

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Da un lato, dunque, la sapienza viene proposta come facile da acqui­sire per chi lo voglia (Proverbi e Siracide); dall’altro, essa è nascosta e umanamente irraggiungibile (Giobbe). E però la stessa sapienza rive­lata attraverso l’esperienza. Quest’ultimo aspetto potrà essere compre­so meglio dopo che avremo letto il discorso della Sapienza personificata.

Come dicevamo, il poema di Gb 28 non esclude affatto che la sapien­za sia presente nella creazione; nega soltanto che l’uomo, o qualunque altro essere creato, possa conoscerla da sé. Solo Dio la conosce perfetta­mente, poiché con essa ha creato l’universo, e la rivela all’uomo timo­rato e nemico del male. Il modo di questa rivelazione viene indicato nei testi che leggeremo nelle pagine successive, a cominciare dal capito­lo 8 di Proverbi.

Signora Sapienza dà un saggio di sé già nel capitolo 1 (Pro 1.20-33), in un modo più conciso ma del tutto analogo a quello ampio e solenne del capitolo 8. Là ella pronuncia un «giudizio di condanna» contro quelli che rifiutano di ascoltare e ravvedersi:

Tornate alla mia riprensione!Ecco effonderò il mio spirito, farò conoscere la mia parola a voi.Poiché ho chiamato e mi avete rifiutato,ho steso la mia mano e non c’era ascoltatore,avete disdegnato ogni mio consiglioe la mia riprensione non avete accettato,anch’io nella vostra rovina gioirò,riderò quando verrà il terrore per voi;quando verrà come una tempesta il terrore per voi,

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e la vostra rovina come uragano arriverà, quando verrà su di voi angustia e angoscia.Allora mi chiamerete e non risponderò, mi cercherete e non mi troverete.Per il fatto che hanno odiato la conoscenza e il timore di Jahveh non hanno scelto e non hanno accettato il mio consiglio, hanno disprezzato ogni mia riprensione, mangeranno il frutto della loro via e delle loro deliberazioni si sazie ranno.Poiché l’allontanamento dei semplici li ucciderà e la sicurezza degli stolti li porterà a rovina.Ma chi mi ascolta abiterà in sicurezza, sarà tranquillo da paura di male (Pro 1,23-33).

Chi è questa figura che parla in modo così autorevole, come una pro­fetessa e più di una profetessa? In effetti il «giudizio di condanna» che essa proferisce è analogo nella forma a quello dei profeti. M a mentre i profeti minacciano la rovina a nome di Jahveh: «poiché non avete ascol­tato la parola di Jahveh... », la Sapienza parla a nome proprio, con au­torità divina: «poiché ho chiamato e mi avete rifiutato...».

Il suo poema più lungo si snoda ampio e solenne: Signora Sapienza si autorivela (Pro 8). In questo ella continua una tradizione illustre, ri­calca un genere letterario sperimentato fin da tempi remoti in Egitto e che continua fino all’epoca ellenistica e romana: l’autorivelazione di una divinità. Nella Bibbia questo genere si usa molte volte per Jahveh. Si riconosce dall*espressione caratteristica: «Io s o n o Jahveh».

Pro 8,1-11

Signora Sapienza forse non chiama, e l’intelligenza non alza la sua voce?Alla sommità delle alture, sulla strada, al confluire («alla casa») dei sentieri si pone, accanto alle porte, all’entrata della città, all’ingresso delle entrate grida:Voi, mortali, io chiamo,la mia voce si dirige ai figli dell’uomo (...).

Una solenne apertura presenta la Sapienza nel cuore della città alta, all’arrivo delle vie, presso le porte, dove la gente va e viene, dove si praticano gli affari e si amministra la giustizia. Il discorso della Signora comprende un indirizzo ai «figli dell’uomo» e tre inviti: «comprende­te... comprendete», «ascoltate...», «accettate la mia istruzione...» Gli inviti sono accompagnati da motivazioni che mettono in luce la subli­mità della dottrina e i vantaggi per chi ascolta. Signora Sapienza invita all’ascolto e aggiunge promesse come fa un maestro, con la differenza che lei parla in luogo pubblico, a tutti, e non a un gruppo di discepoli.

Pro 8,12-21

Io sono la sapienza, sono vicina della prudenza, e conoscenza di consigli trovo.

(a) invito

(b) autopresentazione

. . . I O . . .

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(b ’) Jahveh e Sapienza

. . . JAH VEH ...

...IO...

F I G L I DELL ’UOMO...

Timore di Jahveh è odiare il male, vanto e vanteria e via di male.La bocca di perversioni ho in odio.A me appartengono consiglio e vittoria;io sono conoscenza, a me appartiene la forza.Per me i re regnano e i principi legiferano giustizia.Io, quelli che mi amano amo e quelli che mi cercano mi troveranno.Ricchezza e onore è con me, abbondanza totale e giustizia (...).

Signora Sapienza continua su questo tono con solennità, addirittura con ricercatezza nella scelta delle parole e nella tornitura delle frasi. Nes­sun maestro potrebbe proferire le sue parole. Un maestro può certo lo­dare il proprio insegnamento, m a non la propria persona. Signora Sa­pienza può farlo perché in lei insegnamento e persona si identificano.

Pro 8,22-31Jahveh mi ha comprato come inizio della sua via, agli albori della sua attività, da allora.Dall’eternità sono stata versata, da principio, dagli albori della terra.Prima degli abissi sono stata generata, prima delle sorgenti e fonti delle acque; quando ancora i monti non erano stati piantati, prima delle colline sono stata generata.Quando ancora non aveva fatto la terra e i paesi,al principio dei territori dell’universo,quando consolidava il cielo, là io ero,quando fissava un circolo sulla superficie dell’abisso,quando rinforzava il firmamento in alto.quando fortificava le sorgenti degli abissi,quando poneva al mare il suo limite,perché le acque non trasgredissero il suo comando,quando fissava le fondamenta della terra.Allora ero presso di lui, l’architetto, ero tutta delizie giorno dopo giorno, giocando davanti a lui in ogni tempo, giocando sull’universo della sua terra, e le mie delizie sono (ora) con i figli dell’uomo.

Il poema ha raggiunto il suo culmine; tutti i poli dello svolgimento sono stati collegati: Io - Jahveh - Io - figli dell’uomo. E il legame è la sapienza. Come si può ridire questo mirabile quadro d ’insieme? Signo­ra Sapienza ha intessuto legami cosmici tra l’Altissimo e la terra, tra il Creatore e le creature, tra il cielo e la terra. Lei era prima, durante e con: prima dell’universo, durante il creare e con i figli dell’uomo. Non disdegna la creatura dopo aver assistito il Creatore; con entrambi è tut­ta in letizia e in danza. Come u n ’enorme cetra che vibra, un organi­smo cosmico che respira, un’armonia a cui nulla fa difetto.

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Pro 8,32-36E ora, figli, ascoltatemi, e beati quelli che le mie vie custodiscono.Ascoltate la correzione e diventate saggi, e non disdegnatela.Benedetto l’uomo che mi ascolta vegliando alle mie porte giorno dopo giorno, custodendo gli stipiti dei miei ingressi, poiché chi mi trova trova la vita e incontrerà benevolenza da Jahveh.Ma chi pecca contro di me danneggia se stesso, tutti quelli che mi odiano amano la morte.

Il circolo si chiude, il poema ritorna all’inizio. Come abbiamo indi­cato sopra, il disegno è chiaram ente delineato: (a) invito ad ascoltare e vantaggi; (b) autopresentazione e lode della sapienza; (A') rapporto Jahveh-sapienza, fonte ultim a della lode; (a*) conclusione, con rinno­vato invito ad ascoltare e vantaggi che ne derivano. Signora Sapienza parla davvero un linguaggio raffinato e pieno d ’effetto. Non perdiamo di vista che questo discorso così elevato viene fatto all’incrocio delle strade presso le porte della città, ed è rivolto a tutti i passanti, a chiunque ab­bia orecchie e cuore per intendere.

Dopo aver parlato come un maestro e come un profeta, Signora Sa­pienza arriva a promettere vita e beneplacito da parte di Jahveh per quelli che l’ascoltano e minacciare morte per quelli che la respingono. Nessun maestro avrebbe mai osato dire parole simili; e neppure nessun profeta, salvo premettere alle sue parole la formula «Così parla J a h ­veh» che lo qualifica come portavoce autorizzato.

Fermiamoci un momento su questo punto. A differenza del profeta che parla con la formula «Così parla Jahveh», il maestro di sapienza si rivolge al suo uditorio con le parole «Ascolta, figlio mio, la correzio­ne di tuo padre». Sembra una differenza notevole: quanto il profeta è categorico e intransigente, tanto il maestro è modesto e suadente. Nella crisi di autorità che ha investito la cultura moderna, può essere stato questo uno dei motivi per cui la letteratura della sapienza è diventata quasi di moda negli ultimi decenni. Dà l’impressione di essere raziona­le, non dogmatica; cerca di convincere piuttosto che di imporsi, e per­ciò appare meglio accettabile dal mondo moderno.

Questa impressione è però falsa. La sapienza, infatti, nasce sì dall’e­sperienza m a tende a cogliere l’ordine divino della creazione, e perciò dietro al maestro che interpreta questo ordine si nasconde Dio stesso che l ’ha creato. Il linguaggio usato da Signora Sapienza ne è conferma evidente. Non è affatto accomodante, anzi avanza pretese estremamente serie che chiamano in causa vita e morte.

Nessuno s’inganni, perciò: il tono modesto dei maestri di sapienza non rende il loro insegnamento meno esigente di quello dei profeti o dei sacerdoti. E la teologia della creazione non è meno «teologia» di quella delFalleanza. La differenza tra le due non si può ridurre alle eti­chette: um ana e razionale l ’una, teologica e impositiva l’altra. E il me­

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desimo Dio che si rivela in modi differenti: la rivelazione del Sinai e la rivelazione del creato. Per approfondire questo punto, dobbiamo pro­seguire la lettura dei testi sulla Sapienza personificata.

Prima però è necessario porsi una domanda che fa molto discutere: come va intesa la personificazione di Signora Sapienza? E semplice per­sonificazione letteraria di un attributo divino? è una «ipostasi»? Né Tu­na né l’altra. La personificazione letteraria è troppo vaga e sbiadita, l’ipostasi ha un senso teologico troppo preciso. Diciamo piuttosto che è una «personificazione rivelatrice». La sapienza ha un aspetto umano in quanto è indicata come una donna che va incontro agli uomini, par­la un linguaggio umano per bocca dei suoi inviati e attraverso le opere della creazione. Ma ha anche un aspetto divino in quanto parla con Yau­torità di Dio pur essendo distinta da lui. Non è una divinità accanto a Jahveh bensì una sua creatura, ma è la primogenita di ogni sua ope­ra, preesistente alla creazione.

Paralleli extrabiblici esatti di questa concezione non esistono, per quanto la tendenza a personificare idee astratte fosse corrente nell’O- riente antico. Il parallelo migliore sembra la concezione egiziana della

TUTTO CREÒ PER LA SUA GLORIA

Cinque possedimenti il Santo, sia benedetto, espressamente di­chiarò suoi nel suo mondo, che sono: la Torah, un possedimen­to, il santuario, un possedimen­to, il cielo e la terra, un possedi­mento, Àbramo, un possedimen­to, Israele, un possedimento.

La Torah è un possedimento. Da dove lo deriviamo? Perché è scritto: Il Signore mi possedette alVi- nizio della sua via, prima delle sue opere al principio (Pro 8,22).

Il cielo e la terra sono un pos­sedimento. Da dove lo derivia­mo? Perché è scritto: Così dice il Signore: Il cielo è il mio trono e la ter­ra mio sgabello. Dov *è la casa che voi avete costruito per me? e dov Jè il luogo del mio riposo? (Is 66,1). Dice inol­tre: Quanto sono numerose le tue ope­re, Signore! Le hai fatte tutte con sa­pienza, la terra è piena del tuo posse­dimento (Sai 104,24).

Abramo è un possedimento. Da dove lo deriviamo? Perché è scrit­to: Egli lo benedisse e disse: Sia benedetto

Abramo di Dio Altissimo, creatore del cie­lo e delia terra (Gn 14,19).

Israele è un possedimento. Da dove lo deriviamo? Perché è scrit­to: Finché passi il tuo popolo, Signo­re■ finché passi il popolo che tu haifat­to tuo proprio (Es 15,16). Dice an­che: Quanto a tutti i santi che sono sulla terra, sono i nobili in cui è tutto il mio diletto (Sai 16,3).

Il santuario è un possedimen­to. Da dove lo deriviamo? Perché è scritto: Il santuario, o Signore, che le tue mani hanno fondato (Es 15,17). Dice anche: Egli li portò al suo santo confine, alla montagna che la sua de­stra ha posseduto (Sai 78,54).

Tutto quanto il Santo, sia be­nedetto, creò nel suo mondo, nonlo creò se non per la sua gloria, come è detto: Tutto quello che è chiamato con il mio nome, è per la mia gloria che Vho creato, l'ho formato e Vhofatto (Is 43,7). Dice anche: Il Signore regnerà in eterno per sempre (Es 15,18).

(Talmud, Abot 6, Baratta 10-11)

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ma’aty parola che significa verità, ordine, giustizia. La m a’at è spesso una realtà astratta che guida la condotta degli uomini (si dice: agire se­condo ma *at, fare la ma 'at). Di essa vivono e si rallegrano sia gli uomini che gli dèi; ma talvolta essa viene personificata come una divinità fem­minile (cfr. disegni n° 6-26-80).

La differenza essenziale di questa concezione rispetto a quella biblica è una: la ma 'at è una dea. in certo senso è superiore persino al dio su­premo che ha bisogno di lei. Per il resto, la concezione egiziana è vera­mente illuminante. Con la sua visione del dio buono, creatore e provvi­dente, fondatore dell7ordine della nazione e del cosmo, l’Egitto potè dav­vero essere un modello stimolante per Israele che, agli inizi della mo­narchia, si trovò nella necessità di creare una propria teologia creazio- nale, fondata su basi diverse da quella legata alla rivelazione del Sinai.

Alcuni secoli separano il poema della sapienza di Gb 28 e il libro di Siracide che è la prossima tappa del nostro itinerario alla ricerca della sapienza. Quattro o cinque secoli, secondo la datazione che abbiamo suggerito, m a ricordiamo che le opinioni su questo punto sono molto divergenti.

In Siracide sono frequenti lodi della sapienza e inviti a raggiungerla. Ma per il nostro itinerario interessano in particolare due inni abbastan­za ampi, collocati quasi in posizione strategica nel capitolo 1 e nel capi­tolo 24.

Sir 1,1-10

(a) Ogni sapienza è da presso il Signore ed è con lui per sempre.

(b) La sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni del mondo, chi potrà contarli?L’altezza del cielo, l’estensione della terra, l’abisso e la sapienza, chi potrà esplorarli?

(c) Prima fra tutte le cose fu creata la sapienza e la saggia prudenza è da sempre.

(b1) La radice della sapienza a chi è stata rivelata e i suoi segreti chi li ha conosciuti?

(a*) Uno solo è saggio, molto terribile, seduto sul suo trono.Il Signore, lui stesso la creò, la vide e la contò, e la versò su tutte le sue opere, con ogni carne secondo il suo dono, e l’ha concessa a quelli che lo amano.

Le lettere poste accanto al testo sono indicazioni per comprendere la configurazione di questo magnifico inno della sapienza. Agli estremi (a-a *) e al centro (t) del brano il Siracide parla dei rapporti di Dio con la sapienza: per sempre in sua compagnia, esistente prima di ogni cosa, da lui creata-vista-contata, versata su tutte le creature e donata a quelli

L a radice d ella sapienza a ch i fu r iv e la t a ?

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che lo amano. I versetti intermedi (b-b *) identificano alcune grandi opere della creazione (il mare, la pioggia, il tempo, il cielo e la terra) con la radice e i segreti della sapienza; esse costituiscono il piano del Creatore e in questo senso nessuno, tranne lui stesso, li conosce.

Le somiglianze tra questo inno di Siracide e il poema di Gb 28 sono evidenti, tanto che gli autori affermano che il primo sia un midrash del secondo. I punti di contatto sono chiari soprattutto tra Sir 1,7: «la vide e la contò», e Gb 28,27: «la vide... la contò»; e tra Sir 1,6 e Gb 28.23-24 per l ’insistenza che Dio solo è saggio.

M a l’inno di Siracide richiama anche il poema di Pro 8: «ogni sa­pienza. .. è con lui per sempre » (Sir 1,1 ) si collega a « ero presso di lui... ogni giorno... in ogni tempo» (Pro 8,30); «prima di tutte le cose fu creata la sapienza» (Sir 1,4), a «dall’eternità sono stata versata... Prima degli abissi sono stata generata» (Pro 8,23.24).

Perciò l’inno di Sir 1 da un lato concorda con Gb 28 nelPaffermare la perfetta conoscenza della sapienza da parte di Dio (elemento assente in Pro 8), dall’altro ha in comune con Pro 8 l’idea che Dio ha creato la sapienza (elemento assente in Gb 28).

D ’altra parte, l’inizio dell’inno (Sir 1,2-3) richiama da vicino un te­sto profetico di ispirazione sapienziale sulla creazione:

Chi ha misurato con la palma l’acqua e il cielo con il cubito ha scandagliato? e ha contato con il moggio la creta della terra e ha pesato con la bilancia i monti e le colline con la stadera? (Is 40,12).

NelFinno di Siracide queste azioni, impossibili per l’uomo, vengono messe in parallelo con la conoscenza della radice e dei segreti della sa­pienza, cosa ugualmente impossibile per l’uomo. Dio non solo ha crea­to la sapienza e l’ha vista e contata, ma l ’ha anche versata su tut:e le sue opere. Questo «versare» significa creare: creare secondo un piano ben preciso e quindi stabilire l’ordine del mondo. Dio, quando creò, vide e esaminò la sapienza per fare tutto secondo ordine e misura. Questa connessione tra sapienza e creazione nell’inno di Siracide è indicata in modo più chiaro che non in Giobbe e Proverbi.

La sapienza nascosta, cioè i segreti ultimi dell’universo creato da Dio, non è diversa dalla sapienza visibile che si manifesta ugualmente nel­l’universo. E la stessa sapienza che Dio ha versato su tutte le sue opere e che concede a chi lo ama. In modo del tutto naturale perciò Siracide passa dalla sapienza nascosta, nota solo a Dio e versata sulle creature (1,1-10, il brano letto sopra), alla sapienza che è il timore di Jahveh (1,11-30):

Il timore del Signore è gloria e vanto, allegrezza e corona di esultanza.Il timore del Signore rallegrerà il cuoree darà contentezza e felicità e lunghezza di giorni (Sir 1,11-12).

Si ricorderà che nello stesso modo abbiamo interpretato la conclusio­ne del poema di Gb 28 in relazione al resto del poema: un unico tipo

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di sapienza, non due differenti e contrastanti: sapienza divina da una parte, sapienza umana dall’altra.

Queste considerazioni danno spessore e apertura impensabili alla sa­pienza che viene insegnata dai maestri. Non è cosa umana ma divina,o meglio: è cosa divina in forma umana. E solo una fede profonda, quella che i saggi chiamano il timore del Signore, ne apre la conoscenza agli uomini. Una conoscenza che è rivelazione.

Un altro poema del libro di Siracide ci consente di approfondire la figura della Sapienza personificata.

Sir 24,1-8

La sapienza loderà se stessa e in mezzo al suo popolo si vanterà; nell’assemblea dell’Altissimo aprirà la bocca, e dinanzi alla potenza di lui si loderà:Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra.10 nelle altezze ho posto la tendae il mio trono è su una colonna di nube.La volta del cielo ho girato da sola e nelle profondità degli abissi ho passeggiato.Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione ho preso dominio.Fra tutti questi cercai un luogo di riposo, in quale posto stabilirmi.Allora il creatore dell’universo mi ordinò,11 mio creatore fissò la mia tendae mi disse: In Giacobbe poni la tenda e in Israele prendi eredità.

L’introduzione ambienta il discorso della sapienza non in cielo ma nel tempio di Gerusalemme, «neH’assemblea deirAltissimo». Dal tem ­pio terreno, che costituisce il punto finale della sua dimora, la sapienza si riporta all’indietro, al periodo in cui uscì dalla bocca di Dio, sedette come regina in alto, percorse l’universo in segno concreto di dominio, finché, per ordine divino, discese sulla terra e fissò la sua dimora in Israe­le. Si esprime così una concentrazione progressiva: dal cosmo intero a Israele.

Sir 24,9-12

Prima dei secoli, fin dal principio egli mi creò e per l’eternità non verrò mai meno.Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così in Sion mi sono stabilita.Nella città amata ugualmente mi ha fatto riposare e in Gerusalemme è il mio potere.Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità.

introduzione

discesa della sapienza.

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cfr. M i 11,28

cfr. Gv 4,14

sapienza = legge

il maestro di sapienza

Con solennità, la sapienza personificata afferma la sua creazione pri­ma del tempo e la sua durata per sempre. Precisa quindi il luogo: dal tempio celeste, dove ella ha officiato come sacerdotessa davanti a Dio, al tempio di Gerusalemme, la città amata, e al popolo eletto.

AlFultimo versetto del brano, si aggancia una descrizione della cre­scita della sapienza sotto l’immagine di piante diverse: il cedro, il ci­presso. la palma, la rosa di Gerico ecc. (vv. 13-17). U na serie di imma­gini che suggeriscono maestà, profumo, protezione, bellezza.

Troviamo quindi un invito della sapienza stessa ad avvicinarsi a lei, gustarne la dolcezza, mangiarla e berla, ascoltarla. Il linguaggio forte­mente evocativo richiama quello di Gesù Sapienza incarnata:

Sir 24,19-22

Avvicinatevi a me voi che mi desiderate e riempitevi dei miei frutti, infatti la memoria di me è dolce più del miele e la mia eredità più del favo di miele.Quelli che mangiano me avranno ancora fame e quelli che bevono me avranno ancora sete.Chi mi obbedisce non sarà svergognato e quelli che operano per me non peccheranno.

Qui finisce il discorso della Sapienza in prima persona. Nel seguito del poema Siracide identifica la sapienza con la legge di Mosè e ne enu­mera i benefici. La legge è simile ai fiumi del paradiso (Gn 2,10-14): riempie di sapienza Israele e lo rende come una terra paradisiaca.

Siracide riflette poi sulla sua propria professione di maestro di sapien­za: egli è come un canale che irriga il paradiso; un canale che poi cresce fino a diventare fiume e mare.

Sir 24,23-34

Tutte queste cose sono il libro dell’alleanza di Dio altissimo,la legge che ci ordinò Mosècome eredità per le comunità di Giacobbe.Essa è piena, come il Pishon, di sapienza e come il Tigri nei giorni delle messi.Essa è gonfia, come VEufrate, di intelligenza e come il Giordano nei giorni di mietitura.Essa sfolgora, come luce, di istruzione, come il Gihon nei giorni della vendemmia.Non finì il primo (uomo) di conoscerla e così l’ultimo non la scandagliò.Più del mare infatti sono profondi i suoi pensieri e il suo consiglio più del grande abisso.Anch’io come un ruscello dal fiume e come un canale uscii verso il paradiso.Dissi: Innaffierò il mio giardino e inonderò la mia aiola.Ed ecco il ruscello diventò per me un fiume e il mio fiume diventò un mare.

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Ancora istruzione come alba irraggerò e la spargerò fino a lontano.Ancora insegnamento come profezia verserò e lo lascerò per le generazioni eterne.Vedete che non per me solo ho faticato ma per tutti quelli che la ricercano.

Rileviamo solo un elemento di questo bellissimo testo. Dopo aver iden­tificato la Sapienza personificata con la legge di Mosè, Siracide mette in parallelo la funzione della legge e la sua propria funzione come mae­stro di sapienza. La legge è piena di sapienza, intelligenza e istruzione come i quattro fiumi del paradiso. Egli stesso è come un ruscello ali­mentato dal fiume (il fiume della sapienza/legge) che entra nel « paradi­so» o nel «giardino» di Israele, un ruscello che a sua volta diventa un ìlume e poi un mare. Fiume e mare che è la sua istruzione, l’insegna­mento del magnifico libro che egli lascia a beneficio delle generazioni future.

E difficile immaginare un testo capace di esprimere con tanta forza e suggestione la connessione, direi la connaturalità, della sapienza, del­ia legge di Mosè e dell’insegnamento del saggio. Non solo non esiste opposizione alcuna né concorrenza, ma al contrario esiste sviluppo omo­geneo, interscambio reciproco, fusione di scopi e di risultati. Siracide è effettivamente uno che esalta in modo meraviglioso il compito del mae­stro di sapienza nei confronti della duplice rivelazione di Israele (legge e sapienza) e la sua funzione verso il popolo (si legga anche 38,24-39,11).

Per trarre profitto dal nostro itinerario attraverso i testi dobbiamo confrontare l’inno di Siracide con gli altri passi sulla Sapienza personi­ficata. Sir 24 è legato a Pro 8 piuttosto che a Gb 28. Come Proverbi, afferma che la sapienza è stata creata prima di ogni altra cosa, ma il modo è diverso. Per Siracide la sapienza è uscita dalla bocca dell’Altis­simo, come fu la creazione dell’universo: «Dio disse e fu fatto».

Riteniamo un elemento: la sapienza non è creatrice in Siracide, co­me non lo è in Proverbi né in Giobbe. Occorrerà attendere altri testi, e quindi una rivelazione posteriore, per acquisire questa nuova prospet­tiva che arricchirà la figura della sapienza.

Il contributo maggiore di Siracide allo sviluppo della figura della sa­pienza è Tidentificazione con la legge di Mosè. Questa è per Siracide espressione eminente della sapienza, cioè dell’ordine divino creato che i maestri ricercavano. La legge è piena di sapienza come un fiume che diffonde vita paradisiaca.

E un altro fatto che merita di essere ritenuto. Avviene per la prima volta in modo esplicito l’incontro delle due maggiori tradizioni di Israele: quella storico-salvifica basata sulla rivelazione divina a Mosè, e quella sapienziale basata sull’ordine creato da Dio che si manifesta nel mondo.

Con Siracide la Sapienza personificata riceve tratti più espliciti e an­che nuovi rispetto ai testi più antichi: è versata nella creazione, discen­de dal cielo in Israele, invita a mangiare e bere, si identifica con la leg­ge di Mosè.

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Nella lunga traiettoria sapienziale che stiamo inseguendo, incontria­mo un testo attribuito a Baruc, segretario del profeta Geremia, ma che viene ritenuto più o meno contemporaneo di Siracide (si parla di pseu- depigrafia, o attribuzione di un testo a un personaggio famoso del pas­sato). Il libretto di Baruc si compone di diverse parenesi, presentate co­me esortazioni rivolte a Israele che si trova in esilio. Tra di esse, una riguarda la sapienza (3,9-4,4).

E un poema sulla sapienza che utilizza abbondantemente temi della tradizione precedente m a apporta anche elementi propri. Esaminando­lo attentamente si scoprono due parti a svolgimento parallelo al punto che si possono leggere affrontate. Pongo dei segnali (•) lungo le due co­lonne per dare i punti di riferimento e di contatto tra le due parti.

Bar 3,9-23

• Ascolta, Israele,i comandamenti di vita, porgi l’orecchio per conoscere la prudenza.Che dunque, Israele, perché sei nella terra dei nemici, ti sei invecchiato in terra straniera,ti sei contaminato con i morti,

sei annoverato con quelli che vanno verso l’ade?Hai abbandonato la fonte della sapienza.Avessi camminato secondo la via di Dio,avresti abitato in pace il mondo.

• Impara dov’è la prudenza, dov’è la forza,dov’è l’intelligenza per conoscere insieme, dov’è longevità e vita,

dov’è la luce degli occhi e la pace.Chi ha trovato il suo luogo e chi è entrato nei suoi tesori?• Dove sono i capi delle nazioni

e i signori delle belve che sono sopra la terra? (...)Sono spariti e nell'ade sono scesi

e altri sono sorti al loro posto.

Bar 3,24-4,4

• O Israele, come è grande la casa di Dioe largo il luogo del suo dominio:

grande e non ha fine,

alto e smisurato.

Là nacquero i giganti famosi che erano dall’inizio, che furono di grande statura, esperti nella guerra.Non essi scelse Dio,

né la via della conoscenza dette loro.Perirono per non avere prudenza, perirono per la loro stoltezza.• Chi è salito fino al cielo e l’ha presae l’ha fatta scendere dalle nubi?

Chi è passato al di là del mare e l’ha trovatae la riporterà a prezzo di oro puro?Non c’è chi conosca la sua via né chi consideri il suo sentiero.• Ma Colui che sa tutto la conosce,l’ha scrutata con la sua intelligenza.Colui che ha preparato la terra per il tempo eterno, l’ha riempita di animali quadrupedi;Colui che invia la luce ed essa va.

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• Nuove generazioni hanno visto la luce e hanno abitato sulla terra,ma via della sapienza non Thanno conosciuta, né hanno compreso i suoi sentieri né Thanno accolta, i loro figli dalla loro strada sono andati lontano.Né fu ascoltata in Canaan né apparve in Tèman.Neppure i figli di Agar che ricercano T intelligenza sulla terra,i mercanti di Merra e di Teman,

i narratori di miti e ricercatoridelTintelligenza:la via della sapienza non Thannoconosciutané hanno ricordato i suoi sentieri.

Tha chiamata ed essa gli haobbedito con tremore,gli astri hanno brillato nelle lorovigiliee hanno gioito,li ha chiamati e hanno detto:Eccoci,hanno brillato con gioia per Colui che li ha fatti:• Lui è il Dio nostro,

non può essere considerato nessun altro di fronte a lui.Ha scrutato tutta la via della conoscenzae Tha data a Giacobbe suo servo

e a Israele amato da lui.Dopo questo sulla terra apparve e tra gli uomini è vissuta.

Questo è il libro dei decreti di Dioe la legge che rimane per i secoli.

Tutti quelli che la mantengono vanno alla vita, ma quelli che la lasciano moriranno.Ritorna, Giacobbe, e accettala, cammina allo splendore dinanzi alla sua luce.Non dare a un altro la tua gloria, né i tuoi privilegi a una nazione straniera.Beati siamo noi, Israele, perché ciò che piace a Dio a noi è noto.

Più che un poema, il testo di Baruc è un discorso penitenziale che invita Israele a riconoscere la causa della sua rovina nelTaver abbando­nato i comandamenti della vita e la fonte della sapienza. La sapienza è nascosta ai popoli stranieri, compresi i loro capi potenti e ricchi, com­preso il popolo dei giganti esperti nella guerra: tutti sono periti per man­canza di sapienza, perché Dio non Tha rivelata ad essi.

Baruc riecheggia chiaramente il linguaggio di Giobbe sulla sapienza nascosta e irraggiungibile. La prospettiva è però radicalmente diversa. Agli Israeliti esiliati Baruc non presenta il mistero della sapienza al mo­do delTantico poeta: ciò sarebbe controproducente. Per lui, Israele sa

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dov’è la sapienza perché Dio, l ’unico che la conosca pienamente, gliela ha donata dandogli la legge di Mosè (le due vengono identificate come in Siracide). Questa è la sua gloria e il suo privilegio tra i popoli. Israele si trova in esilio proprio perché ha abbandonato la sapienza; ora deve imparare di nuovo dove si trova, nella pratica.

Caratteristica di Baruc è un’espressione un po’ misteriosa: «dopo que­sto sulla terra apparve, e tra gli uomini è vissuta». La traduzione italia­na, con il participio femminile, dice subito chi è il soggetto: la sapienza; ma di per sé nel greco il soggetto potrebbe essere Dio stesso: lui che scende sulla terra e vive tra gli uomini. Forse nessuno avrebbe pensato a tale possibilità (che però nel testo di Baruc non è probabile) se non si cono­scesse una serie di testi apocrifi che sottolineano a tal punto la presenza di Dio in Israele, e tra gli uomini, da presentarla talvolta come presenza in forma umana. Ne cito due:

Dopo questo si alzerà per voi il Signore stesso, luce di giustizia (...) e voi vedrete Dio, sotto forma di un uomo che il Signore avrà scelto in Ge­rusalemme a causa del suo nome (Testamento di Zàbulon, IX.8).

Allora anche noi risusciteremo, ciascuno nella nostra tribù, adorando il Re dei cieli, che appare sulla terra sotto la forma di un uomo umile, e tutti quelli che avranno creduto in lui sulla terra si rallegreranno con lui... E il Signore giudicherà innanzitutto Israele per Vingiustizia com­messa contro di lui poiché, quando Dio venne nella carne come liberato­re, essi non credettero in lui (Testamento di Beniamino, X,7-8).

Gli studiosi pensano per lo più che questi accenni a una presenza di Dio in forma umana sulla terra siano interpolazioni cristiane, ma qual­cuno fa notare che possono essere idee giudaiche formulate sul modello della sapienza biblica. In effetti, essi sembrano sviluppi del modo come la sapienza personificata viene delineata nei testi biblici. La discesa del­la Sapienza sulla terra, il dono della legge e la presenza di Dio nel tem­pio, nei giusti e nel Messia, sono realtà considerate in qualche modo coincidenti nella tradizione del periodo ellenistico, da Baruc ai testi giu­daici contemporanei e posteriori. Così la traiettoria della rivelazione che stiamo delineando, punta decisamente, e in modo misterioso, verso la Sapienza non solo personificata e presente tra gli uomini, ma incarnata.

Nel libro della Sapienza scopriamo una mirabile fusione di tradizio­ne e di cultura contemporanea (II-I see. a.C.). L’autore alessandrino (poi­ché in Alessandria d ’Egitto il libro fu verosimilmente composto) non solo è profondo conoscitore della sapienza antica, come Siracide e Ba­ruc, ma è anche familiare con il linguaggio e il pensiero filosofico-religioso ellenistico.

Per comodità, delineiamo l ’apporto del libro della Sapienza alla traiet­toria che stiamo seguendo, raccogliendo testi sotto due temi: Sapienza e Dio, Sapienza e creato.

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(Sapienza e Dio)E infatti emanazione della potenza di Dio, effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente.E infatti riflesso della luce perenne, specchio senza macchia dell’attività di Dio e icona della sua bontà (Sap 7,25-26).

Manifesta nobiltà avendo comunione di vita con Dio, e il Signore di tutto l’ha amata.E iniziata infatti alla scienza di Dio e discernitrice delle sue opere (Sap 8,3-4).

Dio dei Padri e Signore di misericordia, che hai fatto tutto con la tua parola e con la tua sapienza hai formato l’uomo perché sia signore di tutte le creature uscite da te, governi il mondo in santità e giustizia e con rettitudine faccia il giudizio, dammi la sapienza assistente dei tuoi troni e non rigettarmi dal numero dei tuoi figli (...).Con te è la sapienza, la quale conosce le tue opere, era presente quando creavi il mondo e conosce ciò che è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi comandi (Sap 9,1-4).

(Sapienza e creato)Quanto è nascosto e manifesto ho conosciuto, poiché mi ha istruito la sapienza artefice di tutto (...).Pur essendo una tutto può, rimanendo in se stessa tutto rinnova e lungo le generazioni entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti.Niente infatti Dio ama se non colui che abita con la sapienza.Essa è infatti più leggiadra del sole e più di ogni costellazione di astri.Paragonata alla luce è trovata superiore; a questa infatti succede la notte,ma sulla sapienza non prevale la malvagità (Sap 7,21.27-30).

Rispetto ai testi più antichi, il libro della Sapienza esplicita il rappor­to Dio-Sapienza. Essa non è solo primogenita (Pro 8), uscita dalla boc­ca di Dio (Sir 24), ma è sua immagine; non è solo conosciuta dal C rea­tore, e da lui soltanto (Gb 28), ma conosce il creato. Il libro della Sa­pienza esplicita anche il rapporto Sapienza-mondo. Non dice solo che Dio ha creato la sapienza, come Proverbi e altri testi più antichi, ma che la sapienza stessa è artefice. Ecco un arricchimento importante del­la rivelazione.

Un altro aspetto molto sviluppato è il governo della sapienza sul mon­do. La sapienza «amministra tutto in modo eccellente» (8,1) come una perfetta padrona di casa. Il rapporto tra la sapienza e il re viene trattato a lungo (nei capitoli 6-9). Leggiamo alcuni versetti della preghiera mes­sa in bocca a Salomone per chiedere a Dio la sapienza:

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(Sapienza e re)Mandala dai cieli sand e dal trono della tua gloria inviala, perché insieme con me fatichi e io sappia cosa è gradito a te.Essa infatti conosce e comprende tutto e mi guiderà con prudenza nelle mie azioni e mi custodirà con la sua gloria.Così saranno accette le mie opere, giudicherò il tuo popolo con giustizia e sarò degno dei troni di mio padre.Quale uomo infatti conoscerà il piano di Dioo chi comprenderà cosa vuole il Signore? (Sap 9,10-13).

La sapienza viene presentata, inoltre, come la guida della storia sa­cra dal tempo di Adamo alle peregrinazioni di Israele nel deserto. Infat­ti, per un buon tratto del libro della Sapienza, da 10,1 a 11.3, la sapienza è il soggetto, l ’agente della storia sacra, mentre dopo, da 11,4 in poi, la guida degli avvenimenti è assunta direttamente da Dio. Questo aspetto è assente nella sapienza antica dove, come sappiamo, la storia sacra non viene mai trattata.

Il libro della Sapienza mostra in modo mirabile l’incontro delle due maggiori correnti dell’Antico Testamento, quella delFalleanza e quella della sapienza. Non solo la legge si identifica con la sapienza (Sir 24 e Baruc), ma la sapienza stessa fu agente divino lungo la storia del popolo:

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(Sapienza guida della storia sacra)Lei il primogenito, padre del mondo protesse quando era solo appena creato e lo liberò dalla sua caduta.Gli dette forza per dominare tutto,mentre un ingiusto che si allontanò da lei nella sua collera, perì per furore fratricida.Essendo stata sommersa la terra a causa di lui, di nuovo la salvò la sapienza pilotando il giusto con un povero legno... (Sap 10,1-4).

Teniamo a mente questo aspetto della sapienza come guida e agente della storia sacra poiché ritorna nella tradizione evangelica in un passo denominato « Il detto sulla sapienza » (si veda più avanti in questo ca­pitolo).

Infine, la sapienza è fonte di ogni bene per l’uomo: ricchezza, onore in vita e dopo morte, «incorruttibilità» (6,19) e «immortalità» (8,17). L’i­dea che la sapienza sia bene sommo e fonte di ogni cosa desiderabile è comune della tradizione; è notevole però l’aggiunta dell’incorruttibi­lità e immortalità.

Così esplicitamente i testi antichi, scritti in ebraico, non avevano mai parlato e forse non potevano parlare. Dicevano sì che la sapienza assi­cura vita e beneplacito da parte di Dio (Pro 8,35), ma l’ebraico non ha un termine esplicito, come ha invece il greco (la lingua del libro della Sapienza), per esprimere il concetto di immortalità. Per questo motivo non sono riusciti a esprimere in termini inequivocabili la fede in una sorte beata riservata ai saggi.

Il lettore moderno, che aspetterebbe una visione precisa e netta, resta deluso. Molti esegeti, in effetti, ritengono che la fede nell’immortalità non compaia nella Bibbia se non in epoca molto tardiva (III-II see. a.C.). Ma, attenzione: la visione biblica non è quella della filosofia ellenistica, né il linguaggio biblico è quello greco. E una visione e un linguaggio globale, che non distingue nettamente ma si compiace di una visione unitaria. Questo mondo non è separato nettamente dal mondo futuro, né la vita terrena da quella eterna, né il corpo dall’anima. Chi pretende divisioni nette rischia di vivisezionare.

La sapienza, e il pensiero biblico in generale, propongono un ideale capace di assicurare una vita serena e felice in equilibrio con la società e con Dio, una vita che non è limitata a questa terra ma è ampia quanto il dominio di Dio e per sua natura è aperta all’eternità.

Prima di proseguire il nostro itinerario alla ricerca della sapienza nei testi apocrifi, è necessario fare una sosta per porci alcune domande. L’i­dea che abbiamo affermato più volte, circa l’unità della sapienza, riflet­te una certa interpretazione dei testi biblici che non è affatto comune né pacificamente accettata. Ritengo però che sia profondamente vera.

Dicevamo all’inizio della difficoltà di fare unità nell’ambito del mon­do dei saggi. Avendo presenti i testi esaminati finora possiamo chieder­ci: la sapienza insegnata dai maestri, quella che Dio ha esaminato nel

La r iv e la z io n e del creato

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momento della creazione, quella che egli rivela all’uomo come timore del Signore e allontanarsi dal male, e infine quella che parla come una signora sono tipi diversi e inconciliabili, o al contrario si riducono a un tipo unico? La sapienza è umana o divina? Dio è geloso della sua sa­pienza, e per questo la nasconde all’uomo, come per molti studiosi in­segna il libro di Giobbe, oppure Dio, tramite Signora Sapienza, parla e invita l’uomo senza alcuna restrizione?

Sono, questi, problemi decisivi per l ’interpretazione della sapienza biblica. Se infatti la sapienza umana è diversa dalla sapienza divina, si deve concludere che l’uomo, escluso dai segreti di Dio, viene invitato ad appropriarsi di quello che è alla sua portata, ad acquisire una sa­pienza pratica di sua costruzione, che può essere secondo i casi furbe­ria. opportunismo, umanesimo eudemonistico, scaltrezza ed altro an­cora. Questa sapienza è in qualche modo suo dominio, un campo in cui Dio non entra, e neppure i profeti e i sacerdoti.

Questa interpretazione, sotto forme e sfumature diverse, viene soste­nuta da parecchi autori moderni. La sapienza biblica, si dice, era in origine solo umana, addirittura profana; più tardi, nel periodo succes­sivo all’esilio, fu «battezzata» o «jahvizzata», cioè ricondotta nell’alveo della fede di Israele. I detti antichi, che non nominavano Dio, vengono modificati con l’inserzione qua e là del nome di Jahveh; talvolta vengo­no aggiunti dei detti interi per modificare l’orientamento dei testi in senso religioso; soprattutto viene introdotto, in vari punti, quello che è il mot­to della sapienza religiosa tardiva: Principio della sapienza è il timore di Jahveh.

Vari motivi, oltre l’obiettiva difficoltà di intendere testi così dispara­ti, sono all’origine di questa interpretazione. Alcuni sono nient’altro che dei preconcetti, idee radicate nella mente degli specialisti da una lunga tradizione di esegesi detta storico-critica, ma che in realtà ha ben poco di storico e meno ancora di critico. Un’esegesi che si fonda su principi spesso non enunciati ma profondi, che riguardano lo sviluppo delle idee e il formarsi della letteratura biblica. Semplificando, possiamo esporli nel modo seguente: il detto profano precede quello religioso; il detto breve precede quello lungo; una teologia ottimistica precede una teologia pes­simistica o critica; e inoltre, c’è sviluppo anche temporale tra le due ca­tegorie. Ad esempio, nel caso del libro di Proverbi, i capitoli 10-22,16 e 25-29 che contengono detti brevi e per lo più «profani» (nel senso che non nominano Dio), vengono considerati antichi e testimoni della sa­pienza originaria preesilica; invece i capitoli 1-9 e 22,17-24,34 che pre­sentano composizioni lunghe e più esplicitamente religiose, vengono con­siderati recenti e testimoni di una cosiddetta «reinterpretazione jahvi- stica» della sapienza antica. Più in generale, si ritiene che Giobbe, con la sua teologia problematica e contestatrice, sia postesilico in quanto rap­presenta una critica della sapienza ottimistica di Proverbi.

Non è il caso, certo, di discutere questi principi; del resto sono, ap­punto, dei principi senza motivazione, sorti in tempi recenti e perciò legati alle filosofie dell’epoca, e per di più in un periodo in cui non si conoscevano ancora testi extrabiblici contemporanei e anteriori che po­

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tessero servire da confronto per quelli biblici. Purtroppo, anche oggi che si conosce una grande quantità di questa letteratura, i pregiudizi non sono caduti del tutto. Buona parte degli interpreti non prevede neppure la possibilità che idee differenti possano essere contemporanee. Ma per­ché si dovrebbe ammettere una successione lineare di esse? Cosa ne ver­rebbe se giudicassimo il nostro tempo con questi principi?

Abbiamo affermato più volte senza equivoci che la sapienza è qual­cosa di profondamente omogeneo. Nonostante le voci e i volti differen­ti, la sapienza è unica, ed è la sapienza divina; non ce n’è un’altra. La sapienza umana di quelli che ritengono di essere saggi ai propri occhi è falsa e porta alla morte.

Collocando come in un mosaico i vari elementi che i testi ci offrono, è possibile tracciare un quadro coerente. La sapienza, prima di essere qualcosa che l’uomo trae dall’uso delle creature, è rivelazione delle crea­ture stesse, le quali formano come un organismo vivente, una persona, Signora Sapienza, che si rivela; e, dietro di lei, è Dio stesso che si rivela. In questa rivelazione del creato, come in ogni rivelazione, l’iniziativa non è dell’uomo ma di colui che si rivela:

Se si cerca di comprendere, a partire dai principi interni d ’Israele, l’i­dea di una sapienza che invita ad ascoltarla, si giunge a questa conclusio­ne: capita qualcosa di affatto straordinario alla ragione che si apre alla conoscenza del mondo. Essa incontra qualcosa che le sta di fronte, è anzi superata dalla voce delFordine primordiale, poiché questa voce già si ri­volge agli uomini; essa è già partita loro incontro e parla loro dal luogo che la ragione cerca senza mai raggiungere da sé (Gb 28). Poiché il mi­stero del mondo va incontro all’uomo e cerca di farsi ascoltare, questa sapienza deve e può essere amata dall’uomo (...). Così, anche in Israele, si è elaborato un notevole ritratto ideale dell’uomo che conosce e che cer­ca. Quasi con ebbrezza si dipinge il destino dell’uomo che s’impegna nel mondo, quando mette nella sapienza la fiducia che essa gli richiede, ed ascolta il linguaggio che usa per rivolgersi a lui (G. von Rad, La sapienza in Israele, 154-155, con qualche modifica in base all’originale).

Questa interpretazione del materiale biblico è forse quanto di più pro­fondo sia dato leggere negli scrittori moderni. Base della sapienza bibli­ca è questa rivelazione del creato, una voce, anzi un concerto di voci che si rincorrono nell’universo, si levano da punti lontani, si incontrano e si fondono in modo mirabile. Signora Sapienza, l’armonia, la media­trice, colei che stabilisce i contatti tra poli lontani, è lei che unifica e accorda i suoni e le voci, invisibile e presente, perché è lei il senso di tutto, il piano perfetto dell’universo.

I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani racconta il firmamento.Un giorno all’altro pronuncia parola e una notte all’altra esprime conoscenza.Non c’è parola e non ci sono detti senza che si senta la loro voce.In tutta la terra è uscito il loro suono (?) e alla fine dell’universo le loro parole (Sai 19,2-4).

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Il saggio, il timorato di Dio come san Francesco d’Assisi, è capace di intendere questo concerto cosmico, di comprendere il messaggio del­la creazione:

Per trarre da ogni cosa incitamento ad amare Dio, esultava per tutte quante le opere delle mani del Signore, e da quello spettacolo di gioia risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere.

Contemplava, nelle cose belle, il Bellissimo e, seguendo le orme im­presse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto. Di tutte le cose face­va una scala per salire ad afferrare Colui che è tutto desiderabile isan Bonaventura, Leggenda maggiore, IX; FF 1162).

Una vera rivelazione, dunque, quella che parte dalle creature; voce di Dio nelle creature e voce delle creature che rimanda a Dio. E le crea­ture sono vive e hanno voce perché possiedono sapienza, perché la sa­pienza di Dio è stata versata in ciascuna di esse. Sono capaci di parlare all’uomo e l’uomo è capace di conoscerle perché in lui è versata la me­desima sapienza. La sapienza è, in forma eminente, armonia, collega­mento cosmico. E legame verticale che unisce il Creatore alle creature; infatti, come opera di Dio e sua compagna nella creazione, è mediatrice tra Dio e l’uomo, scende sulla terra ed è versata in ogni creatura. E an­che legame orizzontale che unisce le creature tra loro, le vivifica e stabi­lisce rapporti. Le creature annunciano alFuomo la sapienza che le abi­ta, rivelano il piano divino secondo cui sono state create e in fondo rive­lano Dio. E un circolo ininterrotto di vita, di conoscenza e di lode: da Dio alla sapienza alle creature; dalle creature alla sapienza a Dio. In questo senso il cosmo è voce e scala verso Dio.

Dovremmo ancora approfondire i contorni e i contenuti di questa ri­velazione del creato, precisare l’immagine di Dio che ne deriva, la par­ticolare via alla salvezza, o soteriologia, e l’etica che essa propone. Per far questo, dovremmo tener conto delle peculiarità della sapienza rispetto

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all’immagine di Dio, alla soteriologia e alFetica che propone la rivela­zione del Sinai, senza esasperare le differenze ma anche senza vanifi­carle. E lo stesso Dio di Israele, Jahveh, che si manifesta, interpella, pro­mette, invita; ma lo fa in modo diverso: rivelandosi attraverso la sua si­gnoria sul creato o attraverso la sua signoria sulla storia. Creato e storia sono luoghi salvifici; ambedue, per vie diverse, conducono a conoscere, lodare e amare l’unico Signore.

È ora di riprendere la nostra ricerca per seguire la traiettoria della sapienza nei testi apocrifi. Questi, di per sé, esulano dal nostro interesse diretto; li trattiamo, però, perché mostrano il punto d ’arrivo della traiet­toria e apportano qualche elemento utile per il Nuovo Testamento.

Sono per lo più testi destinati agli adepti di diversi movimenti religio­si sorti tra il II e il I see. a.C., verso la fine del periodo ellenistico e nel periodo romano. Secondo gli studiosi, furono composti in ambienti mar­ginali del giudaismo che erano in lotta aperta con la corrente farisaica dominante. La comunità di Qumran, anch’essa un’entità giudaica m ar­ginale, ebbe un ruolo notevole nella raccolta delle tradizioni e nella loro fissazione per iscritto. Lo dimostrano i frammenti dei libri apocrifi tro­vati nelfinsediamento sulla riva del M ar Morto e le somiglianze con gli scritti della comunità essena.

Mentre il giudaismo si disinteressò degli scritti apocrifi, questi furo­no importanti per la Chiesa primitiva; ricordiamo che la Lettera di Giuda (vv. 14-15) cita il libro di Enoc e che alcune Chiese cristiane orientali li tradussero e li utilizzarono (qualche apocrifo viene ritenuto da esse canonico), contribuendo così alla loro conservazione e trasmissione.

Molti libri apocrifi sono di genere apocalittico, espongono cioè la ri­velazione dei misteri dell’universo a personaggi di spicco della storia bi­blica come Enoc, Esdra, Baruc, e si interessano della determinazione divina dei tempi, per cui la storia futura viene presentata come prede- terminata da Dio nei minimi dettagli. L’attribuzione di tali scritti a per­sonaggi del passato è fittizia (pseudepigrafia) e la storia passata viene raccontata come profezia posta nella loro bocca.

Senza dilungarci su un argomento complesso, ricordiamo che i libri apocrifi vengono studiati dagli specialisti per illuminare il genere apo­calittico nel Nuovo Testamento. Basti accennare che la figura del Figlio deiruomo, così importante nella tradizione evangelica, dopo la profezia di Daniele viene illustrata a lungo in un testo apocrifo: il libro di Enoc.

Capocalittica appare legata strettamente alla sapienza biblica. A grandi linee possiamo dire che, cessata la profezia, la sapienza proseguì la sua strada come guida di Israele e ad essa si associò ben presto, e in modo esuberante, l’apocalittica. Le somiglianze tra questi due movimenti so­no soprattutto due: la conoscenza dei misteri e la determinazione della storia. Ambedue sono idee sapienziali trasformate.

La conoscenza delFuniverso è argomento primario delFinsegnamen-

II m itodella sapienza

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to dei saggi biblici. Essi inculcano la necessità di conoscere le creature, gli uomini, gli avvenimenti, in una parola l’ordine del mondo, allo sco­po di conoscere, tramite loro, Dio stesso. E punto fermo della tradizio­ne biblica, però, che la sapienza, nel suo profondo o nella sua radice, è assolutamente nascosta ad ogni creatura; Dio rivela all’uomo quello che è alla sua portata, il succo di tutto e il segreto della vita: temere il Signore e allontanarsi dal male. O ra, l ’apocalittica modifica la posi­zione biblica in quanto suppone che a certi personaggi del passato Dio abbia rivelato tutti i segreti della sapienza, l ’intero ordinamento dell’u­niverso (si leggano, ad esempio, le descrizioni astronomiche di I Enoc 72-82).

Come già sappiamo, in epoca tardiva (Siracide, Baruc) la storia sa­cra è diventata campo della ricerca del saggio. Lo scopo era trarre da essa insegnamento, come la sapienza antica traeva insegnamento dal­l’esperienza del mondo. L’apocalittica, anche in questo caso, modifica la sapienza facendo appello alla prescienza divina: Dio tutto prevede, conosce in anticipo i minimi dettagli della storia biblica e universale e li rivela a personaggi speciali (Enoc, Mosè, Esdra, Baruc).

Queste considerazioni sono sufficienti per introdurci alla lettura di alcuni testi che mostrano il punto d ’arrivo della traiettoria della figura della sapienza. Cominciamo con il testo più famoso:

La Sapienza non trovò un posto dove abitare.La sua sede era nei cieli; la Sapienza la lasciò per abitare tra i figli degliuomini,ma non trovò un posto.Ritornò alla propria sede e si pose tra gli angeli.La violenza uscì dai propri serbatoi, trovò quello che non cercavae prese dimora in mezzo a lorocome pioggia sul deserto, come rugiada su terra assetata (I Enoc 42).

Questo breve passo viene ritenuto u n ’aggiunta poiché non ha rap­porto chiaro con il contesto (che descrive i segreti del cielo). Veramen­te, in base a ciò che abbiamo detto sul rapporto tra sapienza e segreti dell’universo, un certo collegamento dovrebbe essere inteso dall’auto- re. A noi interessa, comunque, notare che questo è il testo classico del cosiddetto «mito della sapienza» nei suoi elementi fondamentali: abita­zione in cielo, discesa sulla terra, vana ricerca di una sede, risalita al cielo.

Nel passo citato di I Enoc la sapienza viene intesa come fedeltà alla legge; il suo opposto è perciò la «violenza» o la «ingiustizia», cioè l’in­fedeltà alla legge, che prende il sopravvento dopo la partenza della sa­pienza. Alcuni elementi del mito si ritrovano anche altrove: ad esempio in I Enoc 5,8 e 91,10 si parla del ritorno finale della Sapienza (donata agli eletti risuscitati); e i capitoli 38 e seguenti del medesimo scritto an­nunciano il ritorno del «Figlio dell’uomo», o dell’«Eletto», come giudi­ce escatologico pieno di sapienza.

In un altro libro apocrifo, dove si annunciano i segni della fine e del giudizio escatologico, leggiamo il seguente brano sulla sapienza:

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Allora r intelligenza si nasconderà e la saggezza si ritirerà nella sua dimora. Molti la cercheranno e non la troveranno.E l’ingiustizia e l’incontinenza si moltiplicheranno sulla terra.Una nazione domanderà all’altra e dirà:La giustizia — che fa ciò che è giusto — è passata attraverso di te?Ed essa risponderà: No!In quel tempo gli uomini spereranno ma non otterranno nulla, lavoreranno ma non raggiungeranno nulla (IV Esdra 5,10-12).

Come in I Enoc 42, la sapienza scompare dalla terra e 1’ingiustizia prende il sopravvento. Il passo seguente, tratto dal II Baruc (o Apoca­lisse siriaca di Baruc), è molto simile:

Non si troveranno molti saggi in quel tempo e gli intelligenti saranno poco numerosi, e anche quelli che sapranno preferiranno tacere (...).Molti diranno a molti altri in quel tempo:Dove si è nascosta l’abbondanza dell’intelligenza,dove si è ritirata l’abbondanza della sapienza? (II Baruc 48,33.36).

Il cosiddetto «mito gnostico della sapienza» viene dunque formulato per la prima volta compiutamente in questi scritti apocrifi, mentre non esiste come tale nei testi biblici. I suoi sostenitori (soprattutto R. Bult- mann) lo espressero nel modo seguente:

La Sapienza preesistente, la compagna di Dio nella creazione, cerca dimora sulla terra tra gli uomini; ma cerca invano, la sua predicazione viene rigettata. Essa viene nella sua proprietà, ma i suoi non l’accolgo­no. Allora ritorna al mondo celeste e resta là nascosta. Gli uomini la cer­cano, ma nessuno riesce più a trovarla: solo Dio conosce la via ad essa (cfr. F. Christ, Jesus Sophia, Zurich 1970, 16-17).

Bultmann e continuatori erano interessati a questa forma del mito ritenendo di poter individuare in essa lo sfondo storico-religioso del Pro­logo del vangelo di Giovanni. Al momento attuale, però, è difficile tro­vare studiosi che sostengano una tale posizione.

Non si può dire che i testi biblici siano la fonte diretta del mito della sapienza; esso anzi presenta elementi estranei al mondo giudaico. In particolare, la concezione della sapienza è molto diversa. Nei libri apo­crifi essa lascia la terra, mentre il suo opposto, l’ingiustizia, prende il sopravvento. Nei testi biblici invece la sapienza minaccia di non lasciarsi trovare da quelli che la rifiutano; ma non si dice mai che essa scompaia dalla terra. Forse negli apocrifi la sapienza è legata alla sorte dei giusti sulla terra; nei testi biblici invece essa personifica l’ordine della crea­zione e gode quindi della stabilità divina.

Puntualizziamo, infine, l’apporto degli apocrifi al Nuovo Testamen­to. Esso consiste essenzialmente nella concezione della risalita al cielo della sapienza rifiutata sulla terra e del suo ritorno alla fine dei tempi quasi incarnata nella figura del Figlio dell’uomo giudice escatologico. Sotto questo profilo, gli apocrifi non solo completano la traiettoria della sapienza personificata, ma contribuiscono a « umanizzare » la sua figura.

Liberata da elementi estranei, gnostici o eccessivamente apocalittici,

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la figura della sapienza ha raggiunto ormai il suo culmine; è diventata il calco perfetto che la Provvidenza si è venuta preparando, attraverso secoli di riflessione, per rappresentare agli uomini il mistero del Figlio di Dio incarnato, ucciso e risorto. Si può dire, anzi, che persino gli ele­menti gnostici, o la coloritura gnostica degli elementi giudaici, hanno svolto un ruolo provvidenziale: hanno contribuito a rendere accessibile il mistero cristiano anche fuori delFambiente giudaico, nel grande mondo di cultura ellenistico-romana.

Giungiamo al punto in cui la traiettoria della sapienza si conclude, a ll’arrivo del nostro itinerario di ricerca attraverso i testi. E il punto in cui ha termine la teoria degli orizzonti successivi che ha segnato l ’iti­nerario secolare della sapienza e in cui la molteplicità dei volti si com-

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pone in unità. Siamo giunti all’orizzonte ultimo, abbiamo di fronte il volto a cui tutti gli altri tendevano. Per un dono ineffabile di bontà, il volto invisibile di Dio diventa visibile e l’orizzonte dell’infinito si di­segna sulla terra degli uomini.

E il momento di raccogliere, quasi di fretta, i fili d ’oro che abbiamo inseguito nel nostro cammino. La sapienza, piano della creazione, fu la prima opera di Dio; con la sapienza egli ha creato il mondo; così essa è stata versata in tutte le creature. Questa sapienza di Dio presente nel mondo è una persona: una donna che parla a tutti, invita al suo ban­chetto, promette e minaccia.

Questo schema cosmico (Sapienza presso Dio, presente nella crea­zione, discesa tra gli uomini) è stato assunto dagli scrittori del Nuovo Testamento per esprimere il mistero ineffabile del Figlio di Dio che di­venta uomo. Preesistente e mediatore della creazione, prende carne e così diventa la Sapienza di Dio in persona; fa conoscere agli uomini il piano completo della creazione e della redenzione e rivela il Padre in se stesso Figlio.

Gesù perfeziona gli antichi modi di rivelazione che abbiamo incon­trato nel nostro itinerario di ricerca; non li abolisce, ma al contrario li porta a compimento nella sua persona. Pochi accenni saranno suffi­cienti per mostrarlo.

La rivelazione tramite l’osservazione del creato e l’esperienza della vita si esprime in alcuni insegnamenti spiccioli, quasi di tono «profa­no», negli inviti a prendere esempio dalle creature, nelle parabole trat­te dalla vita quotidiana. Il compimento si manifesta nella rivelazione del Padre che si accompagna alla rivelazione delle creature.

Sii conciliante con il tuo avversario prima che puoi, quando ancora sei con lui nella via, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice al funzionario e tu sia gettato in prigione. In verità ti dico, non uscirai di là finché non abbia reso fino all’ultimo spicciolo (Mt 5,25-26).

Guardate gli uccelli del cielo, come non seminano né mietono né rac­colgono nei magazzini, e il Padre vostro celeste li nutre (...).

Considerate i gigli del campo come crescono: non lavorano e non fila­no; vi dico però che neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestiva come uno di essi (...).

Non preoccupatevi per il domani, infatti il domani si preoccuperà di se stesso. Basta al giorno il suo affanno.

Non giudicate perché non siate giudicati; infatti con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con cui misurate sarà misurato per voi (Mt 6,26.28.34; 7,1-2).

La rivelazione tramite la legge mosaica viene portata a compimento dalla rivelazione di Gesù stesso:

Avete sentito che fu detto: Non ucciderai; chi poi ucciderà sarà sogget­to al giudizio. Io però dì dico che chiunque si adiri con il suo fratello sarà soggetto a giudizio (...) (Mt 5,21-22; altre volte nel seguito del capitolo 5).

Anche la rivelazione tramite la sua persona è un aspetto chiaramente attestato, benché non frequente. Se ricerchiamo nei vangeli l’invito espresso mediante l’imperativo «imparate» (mathete), troviamo una si­

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tuazione interessante: Gesù invita a imparare da se stesso, come anche dalla Scrittura e persino dalla pianta del fico.

Venite a me, tutti voi che siete affaticati e oppressi, e io vi farò riposa­re. Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me, poiché sono mite e umile di cuore (Mt 11,28-29).

Andando, poi, imparate (dalla Scrittura) cosa significa: Misericordia vo­glio e non sacrificio (Os 6.6) (Mt 9,13).

Dal fico imparate la parabola... (Mt 24,32).

Si rivela così, anche nei vangeli, quella omogeneità della sapienza nelle sue varie forme e canali, che abbiamo incontrato nella sapienza dell’An­tico Testamento.

I vangeli sinottici presentano Gesù come Maestro di sapienza sul mo­dello degli antichi saggi di Israele, anzi come la Sapienza in persona. La cristologia più antica, della cosiddetta fonte comune di Luca e Mat­teo (detta Q), è formulata secondo il modello sapienziale.

La «fonte Q» è un documento ipotetico, una raccolta di detti di cui si sarebbero serviti i due evangelisti per scrivere il loro vangelo. Essa comprende sei discorsi che, secondo la rielaborazione di Luca, sono i seguenti: discorso inaugurale della montagna (Le 6,20-49): istruzione sul discepolato e sulla missione (9,57-62; 10,2-16; 10,21-24); istruzione sulla preghiera (11,2-4; 11,9-13): discorsi sulle preoccupazioni riguar­danti la missione (12,2-12) e su quelle riguardanti la vita di ogni giorno (13,24-14,34). Comprende anche alcuni discorsi di giudizio di Giovan­ni Battista e di Gesù polemici contro «questa generazione» (cioè Israele che non accetta Gesù): Le 10,12-15; 12,8-10; 13,26-30; 13,34-35; 14,16-24; e anche la storia della tentazione di Gesù alPinizio di tutto (Le 4,1-13).

In questa fonte Q si manifesta una concentrazione notevole di ele­menti della sapienza antica, come ad esempio la cosiddetta « istruzione sapienziale», ripresa dagli antichi maestri di Israele, con invito ad ascol­tare. insegnamento vero e proprio accompagnato da esortazioni e mo­tivazioni, e conclusione con promesse e minacce.

L'etica della sapienza tradizionale si basava sull’ordine del mondo ricercato dai maestri precedenti, insegnato nella famiglia e nella scuo­la, e imparato per osservazione ed esperienza propria. L’etica di Gesù Maestro secondo la fonte Q, senza smentire questo fondamento tradi­zionale, si basa sulle esigenze del Regno di Dio, le quali talvolta rove­sciano persino le regole della famiglia e della società.

Sono presenti anche elementi profetici, come annunci del giudizio im­minente su chi non crede. Questo elemento non è estraneo ma si com­bina con quello didattico. Ricordiamo infatti lo sviluppo della sapienza biblica che abbiamo delineato: Sapienza di Dio effusa nel mondo con la creazione, rivelata alFuomo in vario modo, identificata con la legge di Mosè, scende dal cielo sulla terra e abita tra gli uomini; non accolta, risale al cielo e tornerà per giudicare alla fine dei tempi nella figura del

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Figlio dell*uomo. Questa evoluzione della sapienza lungo circa mille anni ci fa comprendere che Gesù viene presentato con vesti diverse ma non contrapposte: come Maestro di sapienza, come Sapienza in persona fatta uomo, che si rivela agli uomini, e come Figlio dell’uomo che giudica.

Passiamo in rassegna qualche passo della fonte comune di Luca e M at­teo che esplicitamente contiene elementi delF antica sapienza. Presen­tiamo i due testi affrontati perché meglio si mostri l’affinità dei due evan­gelisti pur nella rielaborazione personale della fonte. Poiché sono testi molto noti, brevi annotazioni saranno sufficienti a mostrarne l’antico sfondo sapienziale.

La parola di giustificazione

Le 7,31-35A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili?Sono simili a bambini seduti in piazza che gridano gli uni agli altri:Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!E venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e dite: Ha un demonio.E venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori.Ma alla Sapienza è stata resa giustiziada tutti i suoi figli.

Mt 11,16-19A chi dunque paragonerò questa generazione?

È simile a bambini che stando nelle piazze gridano agli altri:

Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete fatto cordoglio! Venne infatti Giovanni che non mangia e non beve,

e dicono: Ha un demonio.E venuto il Figlio delFuomo che mangia e beve,e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori.Ma alla Sapienza è stata resagiustiziadalle sue opere.

Il brano finisce con una differenza notevole: in Luca la Sapienza è giustificata «da tutti i suoi figli», in Matteo «dalle sue opere». I figli della Sapienza sono il popolo e i pubblicani che si sono fatti battezzare da Giovanni (Le 7,29). M atteo, invece, identifica le «opere» della Sa­pienza con le «opere» di Gesù, cioè i miracoli, di cui parla l’inizio del brano (11,2). Matteo intende dire: Gesù viene giustificato agli occhi del Battista mediante le opere che compie: «Andando, riferite a Giovanni quello che ascoltate e vedete: i ciechi vedono e gli zoppi camminano... » (Mt 11,4-5); così la Sapienza, cioè il piano divino della salvezza, viene giustificata (rivelata) mediante le sue stesse opere, che sono le opere fatte da Gesù Sapienza.

Un altro elemento sapienziale si mostra nella parabola dei bambini seduti in piazza. Un quadretto della vita quotidiana diventa segno per

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«questa generazione», cioè per quelli che non accolgono il Battista e Gesù. Come i bambini suonano musica allegra e gli altri non danzano,o intonano il canto funebre e gli altri non fanno lamento, così i farisei e gli scribi non rispondono come dovrebbero agli inviti di Giovanni e di Gesù. Il primo invita alla penitenza per la conversione ed essi lo con­siderano un indemoniato, uno che non ha diritto di vivere nel consor­zio umano: il secondo invita alla gioia della salvezza ed essi lo conside­rano «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori».

Richiama l’attenzione l’accusa «mangione e beone», che è tipicamente sapienziale (Pro 23,10-11; Sir 18,33-19,1). Secondo Deuteronomio, il figlio, dichiarato «mangione e beone» dai genitori, deve essere lapidato (Dt 21,20). E dunque un ’accusa gravissima, simile a quella rivolta al Battista: ambedue hanno un comportamento contrario alla vita ordi­nata della società religiosa di Israele. Per i farisei e gli scribi Gesù è uno stolto, uno che non accetta l’ordine stabilito. La verità è però esat­tamente il rovescio: non Giovanni e Gesù sono fuori dell’ordine, ma piuttosto i loro accusatori. Questi non sanno riconoscere il momento della salvezza escatologica, che si presenta prima come momento di con­versione preparatoria e poi come momento di gioia messianica. Non accettando Giovanni e Gesù, i capi di Israele si autoescludono dalla sal­vezza, dal nuovo ordine che Dio sta realizzando sulla terra.

Il grido di giubilo

L ’espressione «queste cose» indica in Matteo il mistero della salvez­za rifiutato dalle città del lago di Galilea (Corazin, Betsaida, Cafarnao: 11,20-24): in Luca invece si riferisce al successo dei 72 discepoli (10,17-20). Il senso di fondo è però identico. Dio si è compiaciuto di tenere nascosto il suo mistero «ai sapienti e agli intelligenti», di cui so­no segno le città che più hanno visto i miracoli di Gesù; lo ha rivelato invece ai «piccoli», rappresentati dai discepoli. Il mistero di Dio si rea­lizza nel Figlio: a lui è stato dato ogni potere, come alla Sapienza del- l’Antico Testamento e al Figlio dell’uomo (Dn 7,13-14; I Enoc 38ss);

Le 10,21-2210 ti rendo lode, Padre,Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dottie ai sapientie le hai rivelate ai piccoli.Sì, Padre, perché così a te è piaciuto.Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è11 Figlio se non il Padre,né chi è il Padre se non il Figlio

e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

M t 11,25-27Io ti rendo lode, Padre,Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dottie ai sapientie le hai rivelate ai piccoli.Sì, Padre, perché così a te è piaciuto.Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, né il Padre alcuno Io conosce se non il Figlioe colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

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lui solo conosce il Padre ed è da lui conosciuto, come la Sapienza (Gb 28,23.27; Sap 8,3-4; 9,9); a chi vuole egli rivela la conoscenza del Pa­dre e di se stesso, cioè si autorivela come la Sapienza (Pro l,20ss: 8, lss).

Benché non compaia il termine esplicito, Gesù viene chiaramente in­dicato come Sapienza. E presentato anche come Figlio, cioè come « Fi­glio dell*uomo», che con piena autorità porta la rivelazione del mistero di Dio agli uomini da lui scelti.

Il segno d i Giona

Le 11,29-32

Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno,ma non le sarà dato alcun segno fuorché il segno di Giona.

Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nini ve,

così sarà anche il Figlio dell’uomo per questa generazione.

(1) Una regina del sud sorgerà nel giudizio con gli uomini di questa generazione e li condannerà;perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone.Ed ecco, più di Salomone c’è qui.

(2) Uomini di Ninice si alzeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno; perché essi si convertirono alla predicazione di Giona.

Ed ecco, più di Giona c’è qui.

Per «questa generazione», cioè per i capi religiosi del popolo, Gesù è l’unico segno dato da Dio. E insieme predicatore di penitenza come Giona e maestro di sapienza come Salomone; anzi, egli è più dell’uno e dell’altro. Sia nel caso dei Niniviti che in quello della regina del sud,i pagani vengono messi in buona luce, a differenza della generazione incredula degli Israeliti. Ora, Giona è uno dei pochi profeti che fu ascol­tato (i Niniviti credettero alla sua predicazione di penitenza), e Saio- mone era il patrono tradizionale della sapienza biblica e il più sapiente dei re. Si comprende la forza polemica di queste argomentazioni.

Mt 12,39-42Una generazione malvagia e adultera cerca un segno

ma non le sarà dato alcun segno fuorché il segno di Giona profeta.Come infatti Giona stava nel ventre del pesce tre giorni e tre notti,così sarà il Figlio dell’uomo nel cuore della terra tre giorni e tre notti.

(2) Uomini di Ninive si alzeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno;

perché essi si convertirono alla predicazione di Giona.

Ed ecco, più di Giona c’è qui.

(1) Una regina del sud sorgerà nel giudizio con questa generazione e la condannerà;

perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone.Ed ecco, più di Salomone c’è qui.

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Il detto della Sapienza

Le 11,49-51

Per questo la Sapienza di Dio ha detto:Manderò a loro profeti e apostoli

e di essi ne uccideranno e perseguiteranno;

perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti,versato fin dall’inizio del mondo,dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria,

che morì tra l’altare e il tempio.

Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto ;i questa generazione.

M t 23,34-36

Per questo

ecco io mando a voi profeti, saggi e scribi.Di essi ne ucciderete e crocifiggerete, e di essi ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e perseguiterete di città in città, perché venga su di voi tutto il sangue giusto

sparso sulla terra,

dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria figlio di Berechia,che uccideste tra il santuario e l’altare.In verità vi dico, tutte queste cose verranno su questa generazione.

Il brano è ritenuto rielaborazione di un detto giudaico pronunciato dalla Sapienza preesistente. Il tenore originario si mostra meglio in Lu­ca: «la Sapienza di Dio ha detto: M anderò...» (al futuro!), mentre in Matteo si legge l’applicazione diretta a Gesù: «ecco io m ando...» (al presente!). La Sapienza si presenta come guida della storia sacra, una prospettiva che abbiamo rilevato nel libro della Sapienza (Sap 10-11).

E un detto di giudizio di Gesù Sapienza contro Israele che rifiuta i suoi messaggeri. I «profeti e apostoli», oppure i «profeti, saggi e scri­bi», designano sia gli inviati dell’Antico Testamento che quelli cristia-

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ni. Il detto rivela in Gesù una sovrana coscienza di sé simile a quella di Signora Sapienza che promette e minaccia a suo proprio nome attri­buendosi autorità divina.

Il detto su Gerusalemme

Le 13,34-35

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che furono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina i suoi pulcini sotto le ali

e non avete voluto!Ecco, la vostra casa sta per essere abbandonata!Vi dico infatti che non mi vedretefinché non venga il tempo in cui direte:Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

Mt 23,37-39

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che furono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali e non avete voluto!Ecco, la vostra casa sta per essere abbandonata!Vi dico infatti che non mi vedrete da ora finché non direte:

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

È forse anche questo un detto originariamente giudaico pronunciato dalla Sapienza. Infatti un’espressione come «quante volte ho voluto rac­cogliere i tuoi figli...» si spiega bene in bocca a Gesù Sapienza preesi­stente, non altrettanto in riferimento alla sua vita terrena.

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L’espressione «come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali» non ha paralleli esatti. L ’immagine sottesa richiama alla mente alcuni passi anticotestamentari: lo Spirito di Dio che aleggia come un uccello sull’a­bisso (Gn 1,2); Dio che come aquila sorveglia la sua nidiata, la proteg­ge e la prende sulle ali (Dt 32,11); la Sapienza che «ha posto il nido tra gli uomini» (Sir 1,13).

Troviamo ancora una «parola di giudizio» su Israele che uccide gli inviati di Dio, o gli inviati della Sapienza (si ricordi il «detto della Sa­pienza»). La «casa» che sta per essere abbandonata è il tempio, ma for­se anche la città e il popolo (detto «casa di Israele»). A causa del rifiuto di Gerusalemme, Dio, la Sapienza, o Gesù stesso, abbandona il tem­pio, la città e il popolo, che perciò diventeranno cose vuote, destinate alla rovina.

La morte di Gesù sembra indicata qui come il risalire al cielo della Sapienza rifiutata, secondo lo sviluppo della tradizione sapienziale che abbiamo rilevato negli apocrifi. Ma il Signore tornerà come Sapienza e Figlio delPuomo giudice escatologico: «Vi dico infatti che non mi ve­drete finché non venga il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Gesù è dunque la Sapienza preesistente, che lungo tutta la storia sacra ha richiamato Israele. A motivo del rifiuto, l’abbandona alla rovina; ma ritornerà come giudice (parusia).

Raccogliamo i dati emersi dalla lettura di questi cinque detti sinottici (logia). Gesù è non solo un Maestro di sapienza, ma la Sapienza in per­sona. Viene tra il popolo, sta con tutti, anche con i pubblicani e i pec­catori, abita in Gerusalemme come «presenza» di Dio (skekinah), viene rifiutato da «questa generazione», cioè dalle guide religiose di Israele,i suoi messaggeri vengono uccisi, è però giustificato da alcuni eletti chelo ascoltano, annuncia il giudizio, si allontana (cioè muore) ma tornerà come giudice. Questa cristologia sapienziale è la più antica interpreta­zione del mistero di Gesù, anteriore ai Sinottici, se è vero che è conte­nuta nella fonte comune di Luca e Matteo (fonte Q).

Per completare l’esposizione, passerò in rassegna gli sviluppi della traiettoria della Sapienza nel vangelo di Giovanni e nelle Lettere di Paolo. Mi contenterò di cenni fugaci che riassumono i risultati di innumere­voli studi specialistici. Mi permetterò, infine, un’incursione rapida nella teologia relativamente moderna che applica a M aria madre di Gesù il modello della Sapienza biblica.

Normalmente gli autori moderni non ammettono più, come nel pas­sato, che il Cristo di Giovanni sia spiegabile in base al mito gnostico del cosiddetto «uomo primordiale» che si sviluppò sulla linea del «mito della sapienza» dei libri apocrifi dell’Antico Testamento. Appare sem­pre più chiaramente che il mistero di Gesù viene presentato da Giovan­ni con le categorie dell’Antico Testamento e della tradizione giudaica basata sull’Antico Testamento, in particolare la speculazione biblica sulla Sapienza personificata e quella targumica sulla Parola di Dio (memra) ugualmente personificata.

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Benché Gesù non venga mai detto Sapienza né sapiente, come nei Sinottici, la cristologia di Giovanni appare essenzialmente sapienziale. La presentazione di Gesù come incarnazione della «Parola» ( logos), ti­pica del quarto vangelo, non è spiegabile in base all’uso ellenistico del termine logos (filosofia stoica) né ellenistico-giudaico (Filone), ma in ba­se all’Antico Testamento.

Certo, il prologo del vangelo di Giovanni si collega al libro della Ge­nesi mediante l’espressione «in principio... » e il contrasto luce-tenebre; si collega anche all’Esodo mediante l’espressione «porre la tenda» (Es 25) e i richiami a Mosè e alla legge. M a l’ossatura del prologo ricalca la vicenda della sapienza personificata (Pro 8. Sir 1 e 24): Gesù Parola è creatore e mediatore della creazione (Gv 1,1-3), si fa carne (1,14), è rivelatore del Padre (1,18). Come la Sapienza, egli è preesistente, pri­mogenito. artefice della creazione, discende dal cielo e «pone la sua ten­da» fra gli uomini, è portatore della gloria e della grazia, va in cerca degli uomini (5,14; 9,35) e grida in pubblico (7,28.37; 12,44; cfr. Pro 1.20; 8,1-3), chiama i suoi discepoli «figlioli» (13,33) e «amici» (15,15), dà un cibo e una bevanda che arrecano la vita (Gv 6; cfr. Pro 9,2-5; Sir 24,18-20), i suoi nemici lo cercheranno ma non lo troveranno (Gv 7,34; 8,21; cfr. Pro 1,28).

Il Cristo di Giovanni è essenzialmente il Rivelatore trascendente. E in questo mondo ma non è di questo mondo, è disceso dal cielo per por­tare la « grazia e verità » del Padre a quelli che lo riconoscono nella sua realtà profonda. Parla autorevolmente in prima persona dicendo: «Io sono». Questa espressione si trova usata in modo assoluto: «se non cre­dete che Io sono» (8,24). oppure: «allora conoscerete che Io sono» (8,28), il che significa: Io sono Jahveh; ed è usata anche con predicato nomi­nale: Io sono il pane della vita, la luce del mondo, la porta, il buon pa­store, la risurrezione e la vita, la via-verità-vita, la vera vite. Anche in questi tratti Gesù è la Sapienza personificata che parla in prim a perso­na, si rende presente tra gli uomini e parla come Dio.

Anche il linguaggio della «conoscenza», così tipico del quarto vange­lo, è modellato sulla tradizione della Sapienza. Nel cosiddetto «logion giovanneo» di Matteo leggiamo: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e il Padre nessuno lo conosce se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (M t 11,27). Tale conoscenza reciproca ri­chiama la figura della Sapienza, che è conosciuta solo da Dio (Gb 28) e lei sola conosce Dio (Sap 9).

Infine la morte, risurrezione e ascensione del logos rifiutato si com­prende sulla linea degli apocrifi che presentano la risalita al cielo della Sapienza.

In Giovanni Gesù logos è dunque presentato con i tratti della Sapien­za personificata dell’Antico Testamento in modo più esteso e coerente che nei Sinottici. La cristologia giovannea è veramente tutta sapienzia­le. L?identificazione di Gesù con la Sapienza, che è solo accennata nei Sinottici, diventa in Giovanni chiara e totale. Rileggendo il quarto van­gelo da questa prospettiva, ci accorgiamo come la traiettoria sapienzia­le costituisca l’approccio più suggestivo e profondo al mistero della In­

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carnazione. Naturalmente Gesù logos sorpassa la Sapienza personifica­ta nel senso che egli è Dio, non solo una creatura con tratti divini.

Il linguaggio della Sapienza in riferimento a Cristo è molto impor­tante anche in san Paolo che opera in ambiente ellenistico in cui la sa­pienza (ma quale sapienza?) è un ideale primario. Contro la pretesa «sapienza» dei Corinzi, Paolo traccia il ritratto di Cristo Sapienza di Dio: in lui si compie il disegno divino che porta a perfezione la storia sacra dell’Antico Testamento, specialmente l’Esodo e la Pasqua (lC or1,1 Oss ecc.).

Contro i predicatori giudaizzanti, l’Apostolo mostra la superiorità della rivelazione di Gesù su quella di Mosè descrivendola secondo il modello della Sapienza rivelatrice, immagine perfetta di Dio (2Cor 3-4).

Contro i Colossesi che esagerano il ruolo degli angeli, sottolinea il ruolo di Gesù Salvatore universale. Come la Sapienza, egli è il princi­pio della perfetta coesione cosmica e il Principe universale (Col 1,15-20: 2,2-3). Infine, Gesù Sapienza unifica nella Chiesa l’umanità e l’universo:

A me, il più piccolo di tutti i santi, è stata data questa grazia: evangelizzare alle genti la ricchezza insondabile del Cristo e illuminare a tutti quale sia l’economia del mistero rivelato dai secoli in Dio che tutto ha creato,affinché sia fatta conoscere ora ai principati e alle potestà nei cieli per mezzo della chiesa la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che ha realizzato in Cristo Gesù Signore nostro, nel quale abbiamo l’ardire e l’accesso in (piena) fiducia per mezzo della sua fede (Ef 3,8-11).

Questo testo è sufficiente a dare u n ’idea della complessità e dell’am ­piezza cosmica dello sviluppo teologico paolino. L’Apostolo approfon­disce più di ogni altro la riflessione mostrando che Gesù Sapienza porta a compimento il piano divino, o «il mistero», come lui lo chiama. Gesù è l’immagine perfetta del Padre ed è il Signore della Chiesa in cui il cosmo viene restaurato e redento («ricapitolato»). In lui si esprime com­piutamente il Dio creatore e salvatore dell’Antico Testamento.

In Gesù, infatti, si riconciliano e si fondono perfettamente le due cor­renti principali dell’Antico Testamento, quelle che abbiamo indicato come salvezza e creazione. Salvezza sta per la corrente dominante, che troviamo nel Pentateuco, nei libri storici, nei Profeti e nei Salmi, che pone F accento su Dio salvatore del suo popolo, sul patto del Sinai e sul­la legge. Creazione sta per la corrente rappresentata dai libri sapienzia­li, che si basa sulla fede in Dio creatore, che tutto ha fatto con sapienza e misura, che ha stabilito un ordine sovrano a cui l’uomo deve sotto­mettersi. In Gesù le due correnti si fondono fino al punto inaudito che il salvatore e creatore si fa creatura.

Da quel momento il creato è più che mai rivelazione di Dio sapiente; dal momento che Dio si è fatto carne, il piano divino comprende sia l’una che l’altra: sia la salvezza che la creazione, sia la rivelazione del Sinai che la rivelazione dell’ordine della natura. La creazione è spec­chio del Padre e del mistero del Cristo, il Cristo è specchio della crea­zione e immagine perfetta della realtà redenta. Ecco perché gli esseri

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dell'universo, i fatti della vita, l’esperienza um ana sono davvero capaci di trasmettere Vinsegnamento di Gesù e anche di rivelare la sua natura profonda. Lui è la Sapienza divina fatta persona, ed è anche la nuova legge; è il primogenito della nuova creazione che egli stesso ha instau­rato con il suo sacrificio.

Accanto a Gesù primogenito della nuova creazione, discretamente si colloca sua Madre. D i fronte al dispiegarsi del mistero del suo Figlio, Maria si comporta com e il sapiente biblico di fronte alle opere di Dio: ascolta e conserva nel cuore.

Dopo aver visto (i pastori) raccontarono della cosa che era stata an­nunciata loro riguardo a ques.o bambino.

E tutti quelli che sentirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori.

Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose riflettendo nel suo cuore (Le 2.17-19).

Discese con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso.E la Madre di lui custodiva tutte le cose nel suo cuore (Le 2,51).

Lo scopo del conservare e meditare è senza dubbio comprendere quale doveva essere il suo atteggiam ento verso il Figlio in base al piano d ivi­no. Perciò M aria diventa, secondo lo Spirito, fratello, sorella e M adre del suo Figlio secondo la carne (M e 3,33-35; M t 12,48-50; Le 8 ,21).

A partire dal sec. X i testi sulla Sapienza (soprattutto Pro 8 e Sir 24) vengono utilizzati nell’Ufficio e nelle Messe della Vergine per celebra­re in lei la donna ideale. Il m otivo teologico per cui furono attribuiti a lei i titoli che strettamente convengono solo a Gesù, è che la M adre fu vista com e inseparabile dal Figlio nel piano eterno di D io, e quindi anche nella fase precedente la creazione del m ondo. Per questo m otivo la Sofia (Sapienza) venne celebrata come la M adre vergine del Logos (Pa-

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rola), come la Sede della Sapienza. Questa attribuzione a Maria dei lineamenti della sapienza apparve naturale anche perché nell’Antico Te­stamento la Sapienza viene descritta con le sembianze di una donna senza difetti (Pro 8).

Un successivo sviluppo teologico ha visto in Maria Sede della Sapienza l’immagine e il modello della Chiesa, in particolare di coloro che si con­sacrano totalmente al Regno di Dio.

«Il mistero è profondo! », verrebbe da esclamare anche in questo mo­mento. E un mistero che parte da lontano e giunge a sviluppi sorpren­denti, che la fantasia di Dio ha senza dubbio orchestrato. NelPAntico Testamento la Sapienza presentata come una donna ideale aveva, tra l’altro, lo scopo di attirare i giovani a una professione, come quella del maestro di sapienza, che richiedeva un impegno duro e severo. La ri­cerca della sapienza si colora così di femminile, soprattutto in Proverbi e in Siracide. Secondo il piano divino, il giovane può trovare la Sapien­za in una donna saggia (Pro 31,10-31): ma può anche trovare la Sa­pienza in modo talmente esclusivo da prendere lei come sposa (Sir 51,13ss), con esclusione di qualsiasi donna, e quindi scegliere la castità per il Regno (M t 19,10-12; lC or 7,32-34).

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U nità e d iv er sità La proposta r elig io sa

DELLA SAPIENZA

L a nostra narrazione della sapienza biblica è stata per forza di cose selettiva. Il libro di Proverbi ha avuto la parte del leone, e non senza motivo, infatti contiene la summa della sapienza bi­

blica. Molti dicono della sapienza biblica tradizionale; io direi della sa­pienza biblica tout court. E senza dubbio il libro che meglio di ogni altro rispecchia gli interessi, l’orizzonte, il mondo ideale dei saggi di Israele. Comprende forme letterarie differenti, copre larghe aree di esperienze e offre indicazioni esemplari.

Il libro di Proverbi illustra in particolare due generi letterari tipici della sapienza biblica e anche extrabiblica: il detto e l’istruzione. Il det­to è frutto diretto dell’osservazione della realtà e formula l’insegnamento da trarre in forma efficace e concisa. L ’istruzione è posta in bocca al maestro di sapienza e risente dell’ambiente della scuola per i giovani di buona famiglia istituita all’inizio della monarchia per formare am­ministratori, funzionari e scribi. L ’insegnamento del maestro è eco di quello dei genitori, della tribù e degli antichi saggi. Egli è nello stesso tempo trasmettitore e creatore di sapienza.

L’istruzione si trova anche nella bocca della Signora Sapienza, per­sonificazione femminile del piano della creazione, del senso delle crea­ture voluto dal Creatore. Come una dama maestosa ella va incontro agli uomini, specialmente ai giovani e ai semplici, e parla loro per con­trastare l’influsso nefasto della sua esatta controfigura Donna Stoltez­za. In più, rispetto all’istruzione del maestro, quella di Signora Sapien­za ha una lunga autopresentazione laudativa. In nuce questo elemento si trova anche nell’istruzione del maestro ma non nella stessa misura e forma: nessun saggio, e neppure un profeta, oserebbe parlare come Signora Sapienza che promette benevolenza e vita da parte di Dio a chi ascolta le sue parole e minaccia la morte a chi non l’ascolta.

Genitori, maestro, esperienza personale e altrui, Signora Sapienza: tutti quelli che si esprimono nei detti e nelle istruzioni di Proverbi sono voci di un’unica rivelazione e volti di un ’unica presenza. Voci e volti di una realtà insieme presente e nascosta, vicina ed elusiva, facile e ir­raggiungibile. Presente, vicina e facile per chi è docile e ascolta; nasco­sta, elusiva e irraggiungibile per chi è arrogante e non ascolta. In fon­do, sono tutti voce e volto di Colui che all’inizio ha creato la sapienza e con essa ha creato l’universo.

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A Proverbi si ispirano in gran parte i primi tre capitoli del presente volume. Ma se Proverbi è specchio luminoso della sapienza biblica, non è tutta la sapienza biblica.

I maestri di Israele hanno investigato altre aree delPesistenza umana che non compaiono affatto o solo marginalmente in Proverbi: il dolore, l’inutilità del lavoro, l ’amore e la storia sacra. Altri libri della sapienza si interessano in modo speciale di questi problemi, sempre condividen­do alcuni punti di base di Proverbi.

Se la sofferenza può essere intesa come punizione, questa spiegazio­ne non serve per la sofferenza del giusto. Per mettere a fuoco il proble­ma viene delineato il caso di Giobbe, retto e timorato di Dio, eppure colpito dalle più terribili sventure. Il suo caso innesca il problema più vasto del rapporto della creatura con il Creatore. U na soluzione del pro­blema afferma che l’uomo non può essere giusto di fronte a Dio né avan­zare diritti né chiamarlo a rendere conto del suo operato. U n’altra, cheil castigo può essere un intervento di grazia da parte di Dio, mandato per produrre il ravvedimento e la lode nell’uomo. M a nessun ragiona­mento umano, per quanto teologico possa essere, soddisfa colui che sof­fre. La soluzione può venire solo dalla visione di Dio, dalla contempla­zione della sapienza e grandezza di Colui che ha fatto le potenze dell’u­niverso e domina tutti gli esseri, anche quelli che sfuggono al controllo dell*uomo. Solo questo permette di accettare la sofferenza inspiegabile e di convivere con essa convinti che ha un senso nel superiore piano di Dio.

La meditazione sull’inutilità della fatica umana, di cui non resta trac­cia e da cui non viene vantaggio alcuno a chi la compie, porta l ’uomo sull’orlo della disperazione. Lo conduce al punto in cui sapienza e stol­tezza confinano l’una con l’altra e si toccano pericolosamente. Il saggio non riesce ad abbracciare la prima e liberarsi del tutto della seconda. La sua soluzione è tenere insieme gli opposti, in un equilibrio che risul­ta però doloroso e angosciante. La sapienza ha vantaggi sulla stoltezza ma è insufficiente a liberare dalla morte. Il lavoro, inteso come ricerca­re le opere di Dio nella creazione, è compito dell’uomo sulla terra, ma è anch’esso vanità e inseguire vento. Cosa resta per l’uomo? La rispo­sta ultima di Qoelet suona: godere della gioia quando Dio la concede e riflettere quando manda sofferenza. Una soluzione spesso fraintesa come edonismo o opportunismo mentre è posizione di saggia equidi­stanza nello sforzo spasmodico di cogliere il momento dalla mano di Dio.

Con sorpresa e persino scandalo da parte di alcuni, la rivelazione di Dio nel creato sceglie come intermediario l’amore di due adolescenti che si aprono alla vita attraverso la scoperta reciproca, nel quadro della campagna dove sbocciano piante e fiori. Mediante l’amore dei due. si manifesta Dio che è Amore e forza della vita.

Da Proverbi, passando per Giobbe fino a Siracide, Baruc, Sapienza di Salomone e alcuni scritti apocrifi, corre un filone prezioso, forse il più prezioso della teologia della sapienza anticotestamentaria. Esso si prolunga per secoli, circa un millennio, si accresce e si arricchisce fino al punto di arrivo e culmine: Gesù di Nazaret Maestro di sapienza e

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Sapienza incarnata, voce e volto del Dio invisibile, mediatore perfetto tra Creatore e creatura, armonia compiuta dell’universo, l’unico in grado di riconciliare cielo e terra essendo Dio creatore e redentore e insieme creatura e Figlio obbediente.

La traiettoria della sapienza che i testi permettono di delineare è sta­ta la preparazione misteriosa delPincarnazione del Figlio eterno di Dio: sapienza preesistente, compagna del Creatore, artefice e mediatrice della creazione, incarnata nelle creature e nei precetti della legge di Mosè; che è vissuta tra gli uomini, li invita ad ascoltare la sua parola e a en­trare nella sua casa per partecipare al suo banchetto; non ascoltata, ri­torna in cielo da dove tornerà come giudice escatologico. Per dire la realtà indicibile dell’incarnazione, gli autori del Nuovo Testamento han­no utilizzato proprio il linguaggio della sapienza. L’hanno assunto co­me modello per narrare la traiettoria del Figlio dal seno del Padre alla terra, e di nuovo al cielo per tornare alla fine dei tempi come Figlio del­l’uomo giudice escatologico.

Ancora oggi quel linguaggio e quella traiettoria sono un modello va­lido di penetrazione sacramentale della realtà e possono nutrire la fede dei credenti.

Anche la storia sacra, con le grandi realtà dell’elezione, delF alleanza e del patto, in epoca tarda diventa materia di riflessione del saggio. Per merito di Siracide, Baruc e della Sapienza di Salomone, quella che era una separazione imbarazzante viene superata e anzi perfettamente ri­solta. In effetti non finisce di meravigliare la constatazione che Prover­bi, Giobbe, Qoelet e il Cantico dei cantici non nominano affatto le grandi realtà della storia sacra di Israele. Queste non solo non vengono nomi­nate, ma non sono neppure implicitamente incluse nelForizzonte idea­le di quei libri sacri poiché non sono necessarie per la loro interpre­tazione.

Quando Siracide e Baruc affermano che la sapienza è la legge di M o­sè, non intendono sconfessare il passato ma arricchirlo. Da allora in poi la sapienza include la legge accanto all’ordine della creazione come for­ma di rivelazione e modello di vita. E il medesimo Dio che ha creato Funiverso e ha redento il popolo di Israele. Anche questo filone della sapienza conduce direttamente alla persona di Gesù, incarnazione per­fetta di Dio che porta a compimento sia la creazione che la redenzione. Al punto che la creazione viene redenta e la redenzione comporta una nuova creazione.

Questa interpretazione globale e integrata della sapienza biblica non viene accettata da molti. Per la maggior parte degli esegeti, Proverbi è troppo ottimista fino ad essere dogmatico e dimentico della realtà; così pure Siracide, Baruc e la Sapienza di Salomone. Giobbe sarebbe invece troppo problematico e persino blasfemo, mentre Qoelet risulterebbe trop­po devastante nelle sue affermazioni e il Cantico dei cantici troppo erotico.

Per rispondere a queste obiezioni, non possiamo far altro che richia­mare alcune idee emerse nel corso della nostra esposizione. Proverbi è certo ottimista, e dobbiamo dire che nel suo orizzonte ideale c’è soli­do motivo per esserlo, poiché Dio, con la sua sapienza e provvidenza,

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è presente nel mondo. È lui che l’uomo incontra nelle diverse esperien­ze dell’esistenza; lui, il suo creatore provvidente, non il caso o altre po­tenze di cui debba aver paura. Proverbi è ottimista anche per il suo orien­tamento pedagogico di inculcare ai giovani in modo avvincente la dura via della sapienza.

Il dramma di Giobbe, con le sue terribili invettive e gli squarci im­provvisi di fede nonostante tutto, e infine con la contemplazione della sapienza, forza e provvidenza di Dio nell’universo, è quanto di meglio si possa immaginare per venire incontro e nutrire la fede di chi ha l’a­nimo amareggiato, a cui certo non ci si potrebbe rivolgere con il lin­guaggio di Proverbi. La contemplazione di Dio che Giobbe inculca è capace di far superare l’egocentrismo e far vedere il problema dell’uo­mo nella prospettiva di Dio.

Qoelet è una proposta, singolare e robusta, per chi avverte la tre­menda importanza del quotidiano: importanza e insieme vanità; per chi desidera andare al fondo delle cose, in particolare del senso del la­voro dell’uomo sulla terra. La soluzione che Qoelet propone con la ten­sione degli opposti, può aiutare ad apprezzare pienamente la realtà ma­teriale, vista in rapporto con l’attività di Dio nel creato, e insieme a vederne la inquietante relatività, i rischi e le deficienze a cui essa è soggetta.

Il Cantico dei cantici, inteso in senso letterale, non è da rifiutare o da guardare con sospetto a motivo del suo carattere erotico. Il Cantico è certamente erotico, ma il suo scopo è mostrare che l’amore degli ado­lescenti è per ogni uomo forma speciale di rivelazione. Rivelazione di Dio Amore e forza della vita presente nel mondo. Così Finterpretazio­ne allegorica e spirituale si può innestare naturalmente e senza fratture sul senso letterale semplicemente perché base di tutto non è l ’amore dei due ragazzi ma l’Amore di Dio. Amore erotico e amore spirituale nelle sue varie specie non sono forme inconciliabili ma manifestazioni rivela­trici dell’unico Amore per gli uomini.

Lasciamo quindi che ogni libro dica quello che intende dire, non più e non altro. Non pretendiamo completezza e rigore dogmatico. Forse più che altrove, nella sapienza il lettore è chiamato a costruire da sé a poco a poco il mosaico della concezione del mondo, della vita, di Dio che deriva dai singoli insegnamenti.

L ’unità delle diversità si fa sili’interno della casa della sapienza. Ma con quali principi? Con il timore di Dio e con la rivelazione tramiteil creato. Il primo è un principio base di tutti i libri sapienziali eccettoil Cantico; la seconda è idea presente in tutti e fa del Cantico (che nep­pure nomina Dio) un libro sapienziale.

Man mano che si approfondisce, si scopre una consonanza profonda sotto la dissonanza di superficie. Il che non significa che le differenze siano annullate o che non siano serie. Le varie posizioni che si esprimo­no nei libri sapienziali sono legate a situazioni diverse: esperienze quo­tidiane (in Proverbi e Siracide), o invece esperienze forti che non rap­presentano la normalità ma l’emergenza della vita (soprattutto in Giobbe e Qoelet). La dissonanza è data da questa differenza esteriore; il senso

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profondo e la rivelazione che ne vengono per l’uomo costituiscono la consonanza.

La consonanza è, in definitiva, il rapporto uomo-Dio. La dissonanza sono le diverse situazioni in cui tale rapporto si esplica: l ’insegnamento della famiglia o del maestro di sapienza, l’osservazione (rivelazione) del creato, la sofferenza, la frustrazione del lavoro, l’amore delFadolescen­za, la storia sacra. In fondo la sapienza insegna all’uomo a fare dell’e­sperienza del mondo il sacramento dell’incontro con Dio nel timore.

L ’etica che deriva da questa impostazione è fondamentalmente con­vergente ma risente della differenza da cui deriva. E l’etica del timore di Dio ma impone, di volta in volta, atteggiamenti differenti: fare e aste­nersi, cautela che però non deve risolversi in paralisi, misura che non impedisca di godere del momento.

Dire che la sapienza proclama u n ’etica del timore di Dio suona male all’orecchio moderno, ma il lettore che ci ha seguito nell’analisi conosceil senso vero di quella frase. Nel linguaggio biblico timore non si oppone ad amore e un rapporto di timore non è un rapporto di sudditanza per paura della punizione. Solo i patiti della libertà ad ogni costo possono pen­sarlo, salvo poi che la libertà che essi proclamano sia sradicamento del­l ’uomo dalla sua base e dal suo humus, non libertà. La sapienza biblica, con il suo motto del timore di Dio, insegna la somma libertà e la somma dipendenza, la somma creatività e la somma remissività, la somma gran­dezza e la somma piccolezza. Tenere insieme gli estremi è sapienza.

L ’etica della sapienza è l’etica del tempo adatto, un’etica che cono­sce un atteggiamento costante, quello del timore di Dio, ma nessun com­portamento fisso definito una volta per tutte. Il timore di Dio è uno sti­molo a vivere costantemente aperti all5imprevedibile Dio: occhi, orec­chi e cuore, esterno e interno. Siccome Dio è imprevedibile, il compor­tamento dell’uomo non sarà mai univoco. Dovrà sempre adattarsi alla circostanza o, che è lo stesso, alla rivelazione di Dio per quel momento.

E un’etica che impegna tutte le facoltà dell’uomo, ma soprattutto il cuore, scrigno interiore dove l’individuo ritrova se stesso e insieme spe­rimenta la presenza sovrana di Dio, crogiolo di ogni esperienza, sede della rivelazione e luogo dell’incontro. Chi non sa impegnarsi fino al livello del suo cuore, non raggiungerà mai la sapienza perché non in­contrerà mai Dio, per quanto sapienza e Dio siano in ogni cosa, lo cir­condino e quasi lo avvolgano.

Morale del tempo adatto, quella sapienziale, m a non opportunismo, perché il criterio non è il tornaconto dell’uomo ma la volontà di Dio nella situazione. E troppo suggerire che il dibattito sulla «morale della situazione», che si sviluppò in particolare negli anni ’50, può trovare nella teologia sapienziale stimoli per una rinnovata feconda riflessione?

A dispetto delle apparenze, la sapienza è dunque profondamente teo­logica. E non comporta alcuna menomazione il fatto che essa non si richiami alla rivelazione del Sinai. Anche nella fase più antica, la sa­pienza biblica ha una teologia, una morale, una spiritualità e una sote­riologia propria.

A quanto pare, l’importanza della legge, del patto e dell’elezione si

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è imposta in Israele con la riforma detta deuteronomistica nel VII see.a.G. Il fatto di non conoscerla è per la sapienza un segno di antichità: dopo il VII secolo la cosa sarebbe difficilmente comprensibile.

Gli uomini di Ezechia che copiarono e trasmisero i proverbi di Saio- mone (Pro 25.1) non trovarono nella sapienza antica nulla di riprove­vole o di deficiente. In quel tempo, probabilmente, prese l’avvio la ri­forma deuteronomistica, che sulla base del patto e dell’elezione cercò di rifondare la nazione sul piano religioso e sociale. L’occasione storica fu costituita dalPafflusso a Gerusalemme degli Israeliti (cittadini del Re­gno del Nord) dopo la caduta della capitale Samaria (722). Atteggian­dosi a novello Salomone, Ezechia incoraggiò tale afflusso, proclamò una Pasqua comune, costruì un nuovo quartiere a Gerusalemme con Pin­tenzione di radunare il popolo disperso e rifondare la nazione unita.

Nacque così un periodo ricco di speranze, fermenti e attività. Le tra­dizioni del Nord si congiunsero con quelle del Sud. si studiarono e si copiarono le composizioni religiose più antiche e molta parte della let­teratura biblica ricevette forma. Non è un caso che la sapienza biblica sia legata in modo speciale a queste due figure di re: Salomone, inizia­tore del movimento della sapienza e organizzatore dello stato ebraico, ed Ezechia, trasmettitore della letteratura della sapienza e restauratore dello stato e della coscienza nazionale.

La sapienza interpella l’uomo nelle situazioni concrete, piccole o gran­di, dell’esistenza. E una fede che affronta i problemi dell’individuo e della vita sociale non toccati quasi dal resto dell’Antico Testamento. E una morale laica che, senza rifiutare il tempio e il culto, è orientata in senso mondano. Il suo tempio è il mondo, dal mondo viene la volon­tà di Dio che si rivela e va incontro alPuomo. Nel mondo si dispiegail compito dell’uomo: in se stesso, nella famiglia e nella società.

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E len c o d elle f o n t i UTILIZZATE

Christ Y., Jesus Sophia, Zurich 1970.Cohen A., ed., The Minor Tractates of the Talmud, I-II, London 1971. Davies N. de G., The Rock Tombs of El Amarna, IIMV, London 1905-1906. Epstein I., ed., The Babylonian Talmud, London 1935-52.Fox M. V., The Song of Songs and the Ancient Egyptian Love Songs, Madison,

Wisconsin - London 1985.Freedman H. - Simon M., edd., Midrash Rabbah, Song of Songs, London 1939. Gordis R., Koheleth - The Man and His World, New York 1951.Hartley J . E., The Book of Job, Grand Rapids, Michigan 1988.Hayes W. C., The Scepter of Egypt, II, New York 1959.Hornung E., Tal der Kònige, Darmstadt 1983.Kayatz C. B., Studien zu Proverbien 1-9, Neukirchen-Vluyn 1966.Keel O., The Symbolism of the Biblical World, New York 1978.—, Das Hohelied, Zurich 1986.Le monde de la Bible 45 (1986).Leclant J ., ed., Le monde égyptien, Les pharaons, I-III, Paris 1978-1979. Museo Egizio di Torino, Civiltà degli egizi, La vita quotidiana, Milano 1987. Niccacci A., «Proverbi 22,17-23,11», Liber Annuus 29 (1979) 42-72.—, «Giobbe 28», Liber Annuus 31 (1981) 29-58.—, «Cantico dei cantici e canti d ’amore egiziani», Liber Annuus 41 (1991)

61-85.Rad G. von, La sapienza in Israele, Torino 1975.Silverman D. P., Masterpieces of Tutankhamun, New York 1978.

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E len c o d ei te st i GIUDAICI

1. Costruì palazzi, preparò un banchetto (Talmud, Sankedrin 38a) pag. 122. Una parola a suo tempo, com’è buona! ( Talmud, Sankedrin 101 a) » 203. Proverbi, Cantico ed Ecclesiaste (Abot de Rabbi Natan 1,4) » 274. Salmi per la speranza, Proverbi per la sapienza, Giobbe per la puni­

zione ( Talmud, Berakot 57a; 57b) » 645. Preziosi castighi (Mekilta de Rabbi Ishmael, Bahodesh 10,58-86) » 766. Salomone, dov’è la tua sapienza? (Talmud, Shabbat 30a; 30b) » 907. Il Cantico dei cantici, il più santo (Talmud, Yadaim, Mishnah 5) » 1218. Non sono capri ma agnelli! (Abot de Rabbi Natan 17,3) » 1289. Benedetto sei tu creatore dell’uomo (Kallak Rabbati 1,1) » 135

10. Da giovane il Cantico dei cantici, da maturo Proverbi, da vecchio Ec­clesiaste (Midrash Rabba, Cantico dei cantici I, 1,10) » 140

11. Tutto creò per la sua gloria (Talmud, Abot 6, Bardita 10-11) » 146

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In d ic e

Prefazione pag. 5

INVITO ALLA SAPIENZA » 7

LA VIA DELL’ESPERIENZA » 16

Una realtà da classificare 17 Detti da interpretare 21

LA VOCE DEL MAESTRO » 24

Un libretto di formazione 25Sapienza biblica e sapienza egiziana 31Contatti profondi 39Un ideale di vita 41Apertura verso l’esterno 42Una formazione fortemente sociale 43Una sapienza per l'uomo 46Una sapienza da comprare e trovare 48Il timore di Jahveh 52

GIOBBE O IL LIMITE E L’INFINITO » 53

Giobbe, o il mistero del Dio sovrano 55Può essere giusto l’uomo di fronte a Dio? 58Un mediatore tra noi 63Un messaggio di grazia 68La lode di Dio 72La dinamica del dramma 74Una lettura globale 76

QOELET O LA SAPIENZADEGLI OPPOSTI » 85

L'opera dell’uomo 86La grande impresa 88Non essere giusto, non essere malvagio 91L’opera di Dio 93Tutto bello a suo tempo 94Giusti e malvagi 96La gioia, dono di Dio e parte dell’uomo sulla terra 98Il problema Dio 102

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IL CANTICO DEI CANTICI O L’AMORE FORZA DELLA VITA Pag. 107

Una lettura difficile 109 Un saggio di lettura 110 Malattia d'amore 115 Cuore, io e Dio 118 Terminologia d’amore 122 La natura, il luogo dell’amore 127 L’amore con la A maiuscola 131 Un’esperienza modello 134

LA RICERCA DELLA SAPIENZA » 137

La sapienza da dove viene? 137 La rivelazione della Signora Sapienza 142 La radice della sapienza a chi fu rivelata? 147 Ha posto la sua tenda in Giacobbe 149 E apparsa sulla terra ed è vissuta tra gli uomini 152 Tradizione e filosofia ellenistica 154 La rivelazione del creato 157Il mito della sapienza 161Gesù Maestro di sapienza e Sapienza in persona 164 Una cristologia sapienziale 166 Uomo e donna fatti Sapienza 172

UNITA E DIVERSITÀ. LA PROPOSTA RELIGIOSA DELLA SAPIENZA » 177

Elenco delle opere utilizzate Elenco dei testi giudaici »

» 183184

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Sapienza e Stoltezza si contendono le strade della città: preparano un banchetto, invitano, promettono. Due donne, due forze sulla scena della vitaf personificazione di due insegnamenti. Usano un linguaggio simile, promettono generosamente, ma invitano in direzioni opposte. L ’insegna­mento è indicato sotto forma di banchetto, l’ambiente è una casa. La casa della sapienza viene costruita dalla signora stessa; quella della stoltezza è posta nello sheol, il luogo delle ombre, dei morti.

La sapienza interpella l’uomo nelle situazioni concrete, piccole o grandi dell’esistenza. Occorre sempre cercarla, comprarla, andare oltre. La sa­pienza è come un orizzonte che si apre su un altro orizzonte, senza discon­tinuità e senza fine. Fermarsi la rovinerebbe. E nel mondo che Dio si rive­la come sapienza e va incontro all’uomo. Ne deriva una morale laica nel senso positivo del termine.

Da Proverbi, attraverso Giobbe fino a Siracide, Sapienza di Salomone e alcuni scritti apocrifi, corre un filo prezioso, forse il più ricco della teolo­gia della sapienza anticotestamentaria. Corre per secoli, circa un millen­nio, si accresce e arricchisce fino a Gesù di Nazaret, Maestro di sapienza e Sapienza incarnata, voce e volto del Dio invisibile, armonia compiuta dell’universo.