amir khan @romina ciuffa
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AMIR KHANUNA GUERRA DI RELIGIONE DA 76 SECONDIdi Romina CiuffaIl Khan è un nobile, un combattente, un capo tribù. Molti reggenti delle resistenti monarchie non sono conosciuti se non per stravaganze (è il caso delle 5 mogli che re Mswati III nel 2009 inviava dall’affamato Swaziland, uno dei Paesi più poveri dell’Africa, per uno shopping milionario tra Italia, Francia, Dubai e Taiwan) o per determinazione. Amir Iqbal Khan, 23enne inglese di origini pakistane, rientra in questo secondo gruppo: non ha ancora mogli pur essendo musulmano, è un combattente, ed è rimasto tra il lusco e il brusco fin quando, lottando, si è conquistato il proprio cognome. In 76 secondi e 13 anni diviene un Khan. Gli è servito poco più di un minuto, lo scorso 5 dicembre, per indossare una cintura, il titolo mondiale WBA (World Boxing Association) per i pesi medioleggeri, che già teneva nell’armadio di casa da un secondo round il 6 dicembre 2008, quando l’arbitro Mickey Vann dedicava all’irlandese Oisin Fagan un KO tecnico nell’ExCel Arena londinese e lui diveniva, a 22 anni, il terzo tra i più giovani pugili inglesi a detenere un titolo mondiale (dopo Naseem Hamed ed Herbie Hide). L’allenatore Jorge Rubio aveva appena ceduto il passo al Freddie Roach di Manny Pacquiao, Felix Sturm, Guillermo Rigondeaux, Anderson Silva (ma anche di Mickey Rourke, e di Oscar De La Hoya nell’incontro con Floyd Mayweather jr), per la Boxing Writers Association of America “Trainer of the Year” negli anni 2003, 2006 e 2008. Ancora due incontri: Amir va via al quinto round il 14 marzo 2009 lasciando battuto per decisione tecnica il messicano Marco Antonio Barrera, 7 volte campione del mondo in 3 categorie di peso ma una ferita all’occhio che si riapre memore del precedente match; resta invece fino alla fine il 18 luglio seguente contro l’ucraino Andriy Kotelnik sino a che i giudici, unanimemente, gli rimettono una cintura ormai sua. Non la prima: nei British Empire and Commonwealth Games of Boxing il titolo non si muove da casa Khan dal 14 luglio 2007, mentre la cintura WBO (World Boxing Organization) ottenuta da Martin Kristjansen il 5 aprile 2008 la perde. Ecco dove un condottiero cade in battaglia, e circa nello stesso tempo e colpi che basteranno a lui, in un futuro dicembre 2009, per mandare giù Dmitriy Salita. Ma su quel ring come poteva saperlo? Il colombiano Breidis Prescott (ad oggi 21-2-0), più alto di lui, più veloce, in pochi secondi lo atterra e, il tempo che si rialzi, Amir è a terra di nuovo senza cintura. Il 18 luglio 2009 è il momento di passare ai medioleggeri e l’occasione è dedicata a Kotelnik (oggi 31-3-1), ottimo debut nella nuova categoria di peso in un match il cui vincitore è obbligatoriamente destinato all’ultraortodosso Salita. L’allenatore Roach lo segue, fino a guardare la sua meteora Khan apparire nella Metro Radio Arena di New Castle e, velocemente, atterrare la “Stella di David”, ucraino di religione ebraica sempre vissuto a Brooklyn, che vede la terra di Gran Bretagna già al decimo secondo del primo match, quando, nemmeno il tempo di iniziare l’incontro, il musulmano lo avvicina con un diretto sinistro seguito da un veloce gancio destro. Primo conteggio, e Salita è in salita, ma si rialza; un attimo ancora, e finisce in angolo neutro. Chiude prima con un clinch disperato al 35esimo la raffica di colpi di King Khan, e 10 secondi più tardi è ancora giù nell’angolo. Luis Pabon si avvicina e, una volta ancora, riprende i due in questa guerra che è sembrata ai fanatici più una guerra di religione (condotta tra i due nel totale rispetto reciproco), e per l’ennesima volta conta agli occhi dell’americano. Dopo meno di 20 secondi Salita è di nuovo un riccio, un soffio prima di esser gettato sulle corde, dove tentenna, incastrato tra la prima e la seconda. L’arbitro non indugia oltre, vince il musulmano. “Era già finita prima ancora di aver iniziato. Ero in gran forma e ben preparato ma i cori antisemiti mi hanno sopraffatto completamente. Quando cTRANSCRIPT
40 di Romina Ciuffa
KHAn
Il Khan è un nobile, un combattente, un
capo tribù. Molti reggenti delle resistenti
monarchie non sono conosciuti se non
per stravaganze (è il caso delle 5 mogli che
re Mswati III nel 2009 inviava dall’affamato
Swaziland, uno dei Paesi più poveri del-
l’Africa, per uno shopping milionario tra Ita-
lia, Francia, Dubai e Taiwan) o per
determinazione. Amir Iqbal Khan, 23enne
inglese di origini pakistane, rientra in que-
sto secondo gruppo: non ha ancora mogli
pur essendo musulmano, è un combat-
tente, ed è rimasto tra il lusco e il brusco fin
quando, lottando, si è conquistato il proprio
cognome. In 76 secondi e 13 anni diviene
un Khan. Gli è servito poco più di un mi-
nuto, lo scorso 5 dicembre, per indossare
una cintura, il titolo mondiale WBA (World
Boxing Association) per i pesi medioleggeri,
che già teneva nell’armadio di casa da un
secondo round il 6 dicembre 2008, quando
l’arbitro Mickey Vann dedicava all’irlandese
Oisin Fagan un KO tecnico nell’ExCel Arena
londinese e lui diveniva, a 22 anni, il terzo
tra i più giovani pugili inglesi a detenere un
titolo mondiale (dopo Naseem Hamed ed
Herbie Hide). L’allenatore Jorge Rubio
aveva appena ceduto il passo al Freddie
Roach di Manny Pacquiao, Felix Sturm,
Guillermo Rigondeaux, Anderson Silva (ma
anche di Mickey Rourke, e di Oscar De La
Hoya nell’incontro con Floyd Mayweather
jr), per la Boxing Writers Association of
America “Trainer of the Year” negli anni
2003, 2006 e 2008.
Ancora due incontri: Amir va via al quinto
round il 14 marzo 2009 lasciando battuto
per decisione tecnica il messicano Marco
Antonio Barrera, 7 volte campione del
mondo in 3 categorie di peso ma una ferita
all’occhio che si riapre memore del prece-
dente match; resta invece fino alla fine il 18
luglio seguente contro l’ucraino Andriy Ko-
telnik sino a che i giudici, unanimemente,
gli rimettono una cintura ormai sua. Non la
prima: nei British Empire and Commonwe-
alth Games of Boxing il titolo non si muove
da casa Khan dal 14 luglio 2007, mentre la
cintura WBO (World Boxing Organization)
ottenuta da Martin Kristjansen il 5 aprile
2008 la perde. Ecco dove un condottiero
cade in battaglia, e circa nello stesso
tempo e colpi che basteranno a lui, in un
futuro dicembre 2009, per mandare giù
Dmitriy Salita. Ma su quel ring come poteva
saperlo? Il colombiano Breidis Prescott (ad
oggi 21-2-0), più alto di lui, più veloce, in
pochi secondi lo atterra e, il tempo che si
rialzi, Amir è a terra di nuovo senza cintura.
Il 18 luglio 2009 è il momento di passare ai
medioleggeri e l’occasione è dedicata a
Kotelnik (oggi 31-3-1), ottimo debut nella
nuova categoria di peso in un match il cui
vincitore è obbligatoriamente destinato al-
l’ultraortodosso Salita. L’allenatore Roach
lo segue, fino a guardare la sua meteora
Khan apparire nella Metro Radio Arena di
New Castle e, velocemente, atterrare la
“Stella di David”, ucraino di religione
ebraica sempre vissuto a Brooklyn, che
vede la terra di Gran Bretagna già al de-
cimo secondo del primo match, quando,
nemmeno il tempo di iniziare l’incontro, il
musulmano lo avvicina con un diretto sini-
stro seguito da un veloce gancio destro.
Primo conteggio, e Salita è in salita, ma si
rialza; un attimo ancora, e finisce in angolo
neutro. Chiude prima con un clinch dispe-
rato al 35esimo la raffica di colpi di King
Khan, e 10 secondi più tardi è ancora giù
nell’angolo. Luis Pabon si avvicina e, una
volta ancora, riprende i due in questa
guerra che è sembrata ai fanatici più una
guerra di religione (condotta tra i due nel
totale rispetto reciproco), e per l’ennesima
volta conta agli occhi dell’americano. Dopo
meno di 20 secondi Salita è di nuovo un
riccio, un soffio prima di esser gettato sulle
corde, dove tentenna, incastrato tra la
prima e la seconda. L’arbitro non indugia
oltre, vince il musulmano. “Era già finita
prima ancora di aver iniziato. Ero in gran
forma e ben preparato ma i cori antisemiti
mi hanno sopraffatto completamente.
Quando combatti in trasferta ti aspetti sem-
pre che il pubblico sia in favore dell’avver-
sario, ma non pensavo che sarebbero stati
così di parte”, dichiara Salita in un’intervista
in esclusiva per il sito ebraico JC.com.
Lui che si era fatto fotografare, nelle imma-
gini pre-match insieme all’inglese, con il ti-
pico zuccotto di feltro, ricavato dal coniglio,
e la palandrana nera, subisce oggi la sua
prima sconfitta (30-1-1), con 16 KO all’at-
tivo e un solo pareggio ai punti, il 18 marzo
2006, con il messicano Ramon Montano.
Sul ring di Newcastle è entrato sfoggiando
una stella di David cucita sull’accappatoio
(“Star of David” è anche il suo sopran-
nome), scortato da alcuni rabbini sotto una
bandiera di Israele, nonostante il pugile
rappresenti a tutti gli effetti gli Stati Uniti e
si alleni a Brooklyn.
Contro di lui - perché americano in Gran
Bretagna, non perché ebreo su ring musul-
mano - tutta l’Arena; con lui, 200 chabad-
nik, seguaci di Chabad-Lubavitch,
movimento chassidico ultraortodosso che
si regge su saggezza, comprensione e co-
noscenza (Dio desidera anche la mente, e
senza la mente il cuore è inutile), ed ha il
proprio centro principale nel quartiere di
Crown Heights a Brooklyn. Forse una scon-
fitta per il Kosher Kid sul ring (è il titolo di
una serie televisiva che lo vede protagoni-
sta), ma il premio di consolazione c’è in
questa “Holy War”, mentre si alzano le po-
lemiche: lo Stato di Israele, restio a mante-
nere nel proprio territorio palestinesi
autoctoni o ad accettare quelli di loro che
risiedono anche da poco all’estero, lo invita
insistentemente, da quel fatidico 5 dicem-
bre, a trasferirsi in Israele, dove il pugile si è
recato subito dopo l’incontro; e Claudia
Katz, responsabile del dipartimento per gli
atleti del Ministero dell’Assimilazione israe-
liano, gli garantisce le medesime conces-
sioni conferite agli atleti olimpionici. Sarà
stato un match propiziatorio, lui il capro
espiatorio da immolare, o il trittico sag-
gezza-comprensione-conoscenza stimolato
dalla sofferenza; Kosher Dmitriy sembra es-
sersi guadgnato anch’egli un regno. Dei
cieli o di Israele per il momento.
Intanto il capo tribù di Bolton - che dal
canto suo dichiara quello d’origine un
Paese sicuro (“Il mondo deve supportare lo
sport in Pakistan e non lasciarlo solo per ti-
more dei conflitti: non è un luogo perico-
loso”) - dopo Salita, ha davanti una
discesa: il 17 gennaio rompe il contratto
che lo lega a Frank Warren, che gli propo-
neva di lasciare il titolo non ritenendolo in
grado di affrontare duri impegni, in favore
dell’americana Golden Boy Promotion di
Oscar De La Hoya, come dire che si appre-
sta a divenire un re Mida in terra americana,
terra di conquista per un combattente euro-
peo, e ben vigilata dal Chico de Oro, suo
nuovo promoter. L’attende l’argentino Mar-
cos René Maidana (27-1-0), soprannomi-
nato El Chino, fresco dei due K.O. registrati
sull’americano Victor Ortíz lo scorso 27 giu-
gno (al sesto round) e sul panamense Wil-
liam Gonzàlez il 21 novembre (al terzo
round). Sarà, per re Amir, il primo incontro
fuori casa, senza la sua tribù che lo propizia
di riti e tifo. Sarà, se tutto va come previsto,
il classico match di Las Vegas, per il reg-
gente di uno Stato sovrano sconosciuto e
lontano, il re di un ring a Bolton, nel Lanca-
shire. Sarà l’entrata nel circuito internazio-
nale, milionario, irreversibile della boxe.
Saranno cinture da riportare in Europa e un
jetlag da contrastare.
UNA GUERRA DI RELIGIONE DA 76 SECONDI
40 di Romina Ciuffa
KHAn
Il Khan è un nobile, un combattente, un
capo tribù. Molti reggenti delle resistenti
monarchie non sono conosciuti se non
per stravaganze (è il caso delle 5 mogli che
re Mswati III nel 2009 inviava dall’affamato
Swaziland, uno dei Paesi più poveri del-
l’Africa, per uno shopping milionario tra Ita-
lia, Francia, Dubai e Taiwan) o per
determinazione. Amir Iqbal Khan, 23enne
inglese di origini pakistane, rientra in que-
sto secondo gruppo: non ha ancora mogli
pur essendo musulmano, è un combat-
tente, ed è rimasto tra il lusco e il brusco fin
quando, lottando, si è conquistato il proprio
cognome. In 76 secondi e 13 anni diviene
un Khan. Gli è servito poco più di un mi-
nuto, lo scorso 5 dicembre, per indossare
una cintura, il titolo mondiale WBA (World
Boxing Association) per i pesi medioleggeri,
che già teneva nell’armadio di casa da un
secondo round il 6 dicembre 2008, quando
l’arbitro Mickey Vann dedicava all’irlandese
Oisin Fagan un KO tecnico nell’ExCel Arena
londinese e lui diveniva, a 22 anni, il terzo
tra i più giovani pugili inglesi a detenere un
titolo mondiale (dopo Naseem Hamed ed
Herbie Hide). L’allenatore Jorge Rubio
aveva appena ceduto il passo al Freddie
Roach di Manny Pacquiao, Felix Sturm,
Guillermo Rigondeaux, Anderson Silva (ma
anche di Mickey Rourke, e di Oscar De La
Hoya nell’incontro con Floyd Mayweather
jr), per la Boxing Writers Association of
America “Trainer of the Year” negli anni
2003, 2006 e 2008.
Ancora due incontri: Amir va via al quinto
round il 14 marzo 2009 lasciando battuto
per decisione tecnica il messicano Marco
Antonio Barrera, 7 volte campione del
mondo in 3 categorie di peso ma una ferita
all’occhio che si riapre memore del prece-
dente match; resta invece fino alla fine il 18
luglio seguente contro l’ucraino Andriy Ko-
telnik sino a che i giudici, unanimemente,
gli rimettono una cintura ormai sua. Non la
prima: nei British Empire and Commonwe-
alth Games of Boxing il titolo non si muove
da casa Khan dal 14 luglio 2007, mentre la
cintura WBO (World Boxing Organization)
ottenuta da Martin Kristjansen il 5 aprile
2008 la perde. Ecco dove un condottiero
cade in battaglia, e circa nello stesso
tempo e colpi che basteranno a lui, in un
futuro dicembre 2009, per mandare giù
Dmitriy Salita. Ma su quel ring come poteva
saperlo? Il colombiano Breidis Prescott (ad
oggi 21-2-0), più alto di lui, più veloce, in
pochi secondi lo atterra e, il tempo che si
rialzi, Amir è a terra di nuovo senza cintura.
Il 18 luglio 2009 è il momento di passare ai
medioleggeri e l’occasione è dedicata a
Kotelnik (oggi 31-3-1), ottimo debut nella
nuova categoria di peso in un match il cui
vincitore è obbligatoriamente destinato al-
l’ultraortodosso Salita. L’allenatore Roach
lo segue, fino a guardare la sua meteora
Khan apparire nella Metro Radio Arena di
New Castle e, velocemente, atterrare la
“Stella di David”, ucraino di religione
ebraica sempre vissuto a Brooklyn, che
vede la terra di Gran Bretagna già al de-
cimo secondo del primo match, quando,
nemmeno il tempo di iniziare l’incontro, il
musulmano lo avvicina con un diretto sini-
stro seguito da un veloce gancio destro.
Primo conteggio, e Salita è in salita, ma si
rialza; un attimo ancora, e finisce in angolo
neutro. Chiude prima con un clinch dispe-
rato al 35esimo la raffica di colpi di King
Khan, e 10 secondi più tardi è ancora giù
nell’angolo. Luis Pabon si avvicina e, una
volta ancora, riprende i due in questa
guerra che è sembrata ai fanatici più una
guerra di religione (condotta tra i due nel
totale rispetto reciproco), e per l’ennesima
volta conta agli occhi dell’americano. Dopo
meno di 20 secondi Salita è di nuovo un
riccio, un soffio prima di esser gettato sulle
corde, dove tentenna, incastrato tra la
prima e la seconda. L’arbitro non indugia
oltre, vince il musulmano. “Era già finita
prima ancora di aver iniziato. Ero in gran
forma e ben preparato ma i cori antisemiti
mi hanno sopraffatto completamente.
Quando combatti in trasferta ti aspetti sem-
pre che il pubblico sia in favore dell’avver-
sario, ma non pensavo che sarebbero stati
così di parte”, dichiara Salita in un’intervista
in esclusiva per il sito ebraico JC.com.
Lui che si era fatto fotografare, nelle imma-
gini pre-match insieme all’inglese, con il ti-
pico zuccotto di feltro, ricavato dal coniglio,
e la palandrana nera, subisce oggi la sua
prima sconfitta (30-1-1), con 16 KO all’at-
tivo e un solo pareggio ai punti, il 18 marzo
2006, con il messicano Ramon Montano.
Sul ring di Newcastle è entrato sfoggiando
una stella di David cucita sull’accappatoio
(“Star of David” è anche il suo sopran-
nome), scortato da alcuni rabbini sotto una
bandiera di Israele, nonostante il pugile
rappresenti a tutti gli effetti gli Stati Uniti e
si alleni a Brooklyn.
Contro di lui - perché americano in Gran
Bretagna, non perché ebreo su ring musul-
mano - tutta l’Arena; con lui, 200 chabad-
nik, seguaci di Chabad-Lubavitch,
movimento chassidico ultraortodosso che
si regge su saggezza, comprensione e co-
noscenza (Dio desidera anche la mente, e
senza la mente il cuore è inutile), ed ha il
proprio centro principale nel quartiere di
Crown Heights a Brooklyn. Forse una scon-
fitta per il Kosher Kid sul ring (è il titolo di
una serie televisiva che lo vede protagoni-
sta), ma il premio di consolazione c’è in
questa “Holy War”, mentre si alzano le po-
lemiche: lo Stato di Israele, restio a mante-
nere nel proprio territorio palestinesi
autoctoni o ad accettare quelli di loro che
risiedono anche da poco all’estero, lo invita
insistentemente, da quel fatidico 5 dicem-
bre, a trasferirsi in Israele, dove il pugile si è
recato subito dopo l’incontro; e Claudia
Katz, responsabile del dipartimento per gli
atleti del Ministero dell’Assimilazione israe-
liano, gli garantisce le medesime conces-
sioni conferite agli atleti olimpionici. Sarà
stato un match propiziatorio, lui il capro
espiatorio da immolare, o il trittico sag-
gezza-comprensione-conoscenza stimolato
dalla sofferenza; Kosher Dmitriy sembra es-
sersi guadgnato anch’egli un regno. Dei
cieli o di Israele per il momento.
Intanto il capo tribù di Bolton - che dal
canto suo dichiara quello d’origine un
Paese sicuro (“Il mondo deve supportare lo
sport in Pakistan e non lasciarlo solo per ti-
more dei conflitti: non è un luogo perico-
loso”) - dopo Salita, ha davanti una
discesa: il 17 gennaio rompe il contratto
che lo lega a Frank Warren, che gli propo-
neva di lasciare il titolo non ritenendolo in
grado di affrontare duri impegni, in favore
dell’americana Golden Boy Promotion di
Oscar De La Hoya, come dire che si appre-
sta a divenire un re Mida in terra americana,
terra di conquista per un combattente euro-
peo, e ben vigilata dal Chico de Oro, suo
nuovo promoter. L’attende l’argentino Mar-
cos René Maidana (27-1-0), soprannomi-
nato El Chino, fresco dei due K.O. registrati
sull’americano Victor Ortíz lo scorso 27 giu-
gno (al sesto round) e sul panamense Wil-
liam Gonzàlez il 21 novembre (al terzo
round). Sarà, per re Amir, il primo incontro
fuori casa, senza la sua tribù che lo propizia
di riti e tifo. Sarà, se tutto va come previsto,
il classico match di Las Vegas, per il reg-
gente di uno Stato sovrano sconosciuto e
lontano, il re di un ring a Bolton, nel Lanca-
shire. Sarà l’entrata nel circuito internazio-
nale, milionario, irreversibile della boxe.
Saranno cinture da riportare in Europa e un
jetlag da contrastare.
UNA GUERRA DI RELIGIONE DA 76 SECONDI
42
L’unico ad aver battuto Maidana, per deci-
sione non unanime il 7 febbraio del 2009, è
proprio quel Kotelnik (31-3-1), lo stesso che
avrebbe dovuto nel novembre 2008 scon-
trarsi con Salita ma, per una ferita, ebbe a
rinunciare: e lo stesso contro cui Amir inau-
gurava il peso light-welterweight in un
match rimandato dall’altro di tre settimane
per “mal di denti”. Presagio?
Ma non è facile immaginare, da una cross-
examination delle tabelle di Khan e Mai-
dana, chi prevarrà in questo scontro
obbligato: Maidana ha tecnica e potenza,
ricorda Ricardo “Mochuelo” Torres, è ag-
gressivo; Khan, che a 11 anni iniziò a bo-
xare per aver visto gli incontri di
Muhammed Alì, non ha in dote molta ma-
scella ma può rimpiazzarla perfezionando la
difesa, ha velocità nelle mani, accuratezza,
disciplina, resta tuttavia arduo vederlo din-
nanzi a un picchiatore, lui che ha difficoltà a
ricevere colpi sul volto e non ama, per abi-
tudine, la forte pressione. Sarà necessario
lo stesso Khan presente davanti a Kotelnik,
serviranno dei secondi decisi nel lanciare il
ragazzo all’interno della gabbia con l’arte-
fice di 25 K.O., e ci sarà anche il bisogno di
un Freddy Roach più convinto di quello che
avrebbe preferito il suo Amleto davanti a
una boxe diversa da quella di Maidana.
Quest’ultimo, come l’altro, è sotto l’egida
della Golden Boy in co-promozione con la
tedesca Universum, e ciò consente di im-
maginare il profetico match come reale
anche a quanto afferma Richard Schaefer,
amministratore delegato della Golden Boy,
che ha ottenuto un’estensione per fissare i
termini dell’accordo e decidere, con il
nuovo pupillo Khan, sui dettagli, senza
escludere un’asta finale né l’opzione di un
primo incontro americano “undercard” - il
primo nome, Paul Malignaggi del promoter
Lou DiBella, le altre ipotesi Juan Diaz e
Nate Campbell della stessa Golden Boy -
prima di arrivare al pugile argentino (e una
data già fissata: il 17 aprile, giorno più
giorno meno, o altra da determinarsi per un
ring che è obbligato). Se il problema è la di-
fesa, Khan ha dimostrato, sin da giovane,
di poter crescere e arrivare là dove il cap-
pello non arriva: dopo aver vinto le Olim-
piadi in categoria Junior, il Senior European
Championships e il Junior World Cham-
pionships, in tutti e tre i casi definito il mi-
glior pugile in tutte le divisioni di peso, il
giovanissimo piccolo Lord si trova davanti
un maturo 33enne, Mario Kindelan, che lo
sconfigge nel Senior World Championship e
una seconda volta, la finale dei pesi leggeri
delle Olimpiadi di Atene del 2004, per 30 a
23. Ma alla terza occasione, in casa, a Bol-
ton, i punti (19 a 13) sono per il diciottenne
Khan, in procinto di divenire professionista,
che ottiene vittoria, infine, sul cubano me-
daglia d’oro ad Atene (imbattuto da 42 in-
contri su 290 vinti), per “essersi allenato 10
volte tanto”.
Prima dell’incontro Khan-Maidana rileggerei
un romanzo di Leonard Wibberley, “The
Mouse That Roared”, o rivedrei il film che
ne fu tratto dal regista Jack Arnold, inter-
pretato da Peter Sellers in più ruoli. In esso
un piccolissimo Stato europeo, il Ducato di
Gran Fenwick - difficilmente individuabile
anche sulle cartine, una manciata di abi-
tanti che si dedicano esclusivamente alla
produzione di un famoso vino - entra in una
grave crisi economica per colpa di un’imita-
zione lanciata da un industriale vinicolo
della California. Per superarla, dichiara
guerra agli Usa al solo scopo di perderla e
ottenere sovvenzioni dai vincitori.
Pochi maldestri e improvvisati soldati sono
inviati, in nave, a far finta di conquistare
l’America senza averne la benché minima
intenzione, anzi, con l’obiettivo opposto.
Ma s’impossessano casualmente della
bomba Q e gli Stati Uniti s’arrendono.
Lo scapestrato Gran Ducato di Fenwick
vince la guerra contro la più grande po-
tenza mondiale; Amir Khan è, con il solo
scettro del suo ring nelle mani e un accento
british, pronto a dichiararla mentre si avvi-
cina a questo Nuovo Mondo come un
Khan.
L’artista “si da con il suo corpo” di-
ceva Paul Valéry. “È prestando il suo
corpo al mondo che il pittore tra-
sforma il mondo in pittura” .
Wainer Vaccari però non si accontenta
dell’agonismo particolare del fare arte. Il
suo modo di esserci come artista, l’indivi-
dualità del proprio rappresentare, com-
prende necessariamente un approdo
corporale, un prendere ad oggetto storie di
sangue, di corpi, di un’umanità che nelle
proprie affezioni e nella conoscenza di que-
ste si vuole leggendaria.
“Ricordo io e mio fratello maggiore, negli
anni sessanta, curvi sulla radio ad ascoltare
gli interminabili, leggendari, combattimenti
tra Duilio Loi e Carlos Ortiz.
Il dover essere costretti, non vedendola, a
immaginare l’azione, le dinamiche del com-
battimento, ci portava a sentire le gesta dei
pugili come fossero gesta d’eroi, a pensare
gli incontri in una dimensione altra, come
spazio del mito.
Quelle radiocronache rimanevano in noi
come momenti di musica e di poesia,
d’emozione pura”.
Sono storie - quelle che predilige - che col-
piscono al cuore, che fanno riflettere. L’arti-
sta modenese da tempo offre loro lo spazio
ideale. Offre il palcoscenico che serve.
Nella convinzione che è il corpo a darci la
misura di noi, che sono le sue gesta a so-
pravvivere come tracce e a renderci con
massima evidenza consapevoli, capaci di
affondi in caverne che non si sapeva così
come in sogni che “mai si era osati so-
gnare” . Perché in definitiva il pugilato è
“una delle belle arti” ed è da questo con-
cetto che Wainer Vaccari trae il proprio atti-
vante fabrile. È da questo voler pensare
ancora una volta l’ideale neoclassico - e
pensarlo forte, quasi come fosse nuovo,
altro - che trae la forza di creare un’opera
davvero originale. Perché quell’idea è cosa
attuale. È urgenza non reminescenza. Wai-
ner è stato tra i primi a capire che il pensare
così oggi, non costituisce un recupero ma
una necessità.
“Confidenza per confidenza, preferisco i
pugili agli intellettuali”
Wainer ama la compagnia di tutti coloro
che combattono, che accettano il confronto
su di un ring. Perché le loro sono sempre
storie di pancia che colpiscono duro. Come
fa la vita. Storie di sofferenza e di supera-
menti, di onore e di gloria. Tutto ciò vale la
pena partecipare e restituire in sogni fatti di
colore.
Per Wainer il colore è fondamentale. Oltre
ad essere il corpo della pittura, materia e fi-
sicità esso stesso, è l’elemento senza il
quale la lotta non può essere rappresen-
tata. Il bianco e nero d’un disegno non ren-
derebbe altrettanto. E senza il segnare
cromatico, senza il formare corposo, non
c’è possibilità d’espressione per lui. Perché
l’emozione della lotta, della vittoria, il
dramma della sconfitta sono restituibili sol-
tanto attraverso la scelta irruenta e la tra-
slitterazione sinestetica d’un variare
cromatico.
Dal suo corpo a corpo fauve con la tela in-
fatti, con gli “strumenti” della pittura, dalla
scelta ossessiva dell’oggetto della rappre-
sentazione, si capisce la sua grande voglia
di confronto, il suo gusto per il combatti-
mento, la propria necessità di allertarsi
mettendosi in guardia e di contrastare at-
taccando – creando. Che è poi il solo modo
per tutti noi di esserci davvero. Sconvolti,
stupefatti, impauriti pure disponibili a mu-
tare. A rischiare tutto. Anche di perdere.
Perché in fondo è proprio vero: “l’uomo è
molte cose ma non è ragionevole” .
Il pugilato come
di Gabriele Tinti 43
> INTERVISTA
Mike Tyson
una guerra di religione da 76 secondi
AMIR KHAN
sconfitto con onore
da ZBIK
DELLA ROSA
F.P.I.entra nel cuore dell’AIBA
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4. L’Italia e la FPI entrano nelcuore dell’AIBAdi Alfredo Bruno
8. Della Rosa sconfitto con onore da Zbikdi Marco Zonta Intervista di Federica Pessot
11. Sosnowsky troppo giovane per Vidozdi Gilbert Roch
12. Mike Tysondi Emanuele del GrecoFat Mike di Gabriele Tinti
14. Successo di partecipazione al Corso Regionale del Laziodi Michelangelo Anile
15. Stage di Aggiornamento per Arbitri, Giudici e Tecnici Federalidi Massimo Scioti
16. Gym Boxe: la “boxe in action”di Federica Pessot
18. Per Erittu e Cosseddu vittorie che contanodi Giuseppe Giallara
20. Zamora e Bundu vincono a Latinadi Stefano Fantogini
22. A colloquio con Rossano: erede di Cammarelledi Mario Salomone
24. Verso Londra 2012…di Michela Pellegrini
26. “Mettiamo KO il cancro” con Synergiesdi Michela Pellegrini
28. Un film italiano alla Gleason’sGym di New Yorkdi Luca De Franco
30. Ad Aarhus non passa… lo stranierodi Manfredo Guerrera
32. Il poster di Boxe Ring
34. Classifiche Mondiali, Europee, Italiane
38. Incontro alla Cecchignola con le atlete in ritirodi Alfredo Bruno
40. Amir Khan una guerra di religione da 76 secondidi Romina Ciuffa
43. La boxe come artedi Gabriele Tinti
44. Gennaio1970: Arcari sul tetto del mondodi Gianni Virgadaula
46. La Campania secondo Enrico Apadi Adriano Cisternino
48. I Conti Cavini chiudono il 2009 a Grossetodi Aldo Ferrubon
49. Signani è il nuovo campionedi Francesco Ventura
50. A Fuscaldo Branco e Spada non perdonanodi Emanuele del Greco
51. La boxe italiana in lutto per Aldo Garofalo
52. News
53. Italia Ring
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ANNO LXIV NUMERO 1
Gennaio / Febbraio 2010Registrato presso il Tribunale Civile di Roma al n.10997/66 in data 18/05/1966Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27/2/2004, n. 46) art. 1, comma 2, DCB Roma
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Hanno collaborato:
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