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Linee generali per la gestione del paziente intossicato
C.Locatelli, V. Petrolini, D. Lonati, A. Giampreti, S. Vecchio, S. Bigi, L. Manzo
Centro Antiveleni di Pavia e Centro Nazionale di Informazione Tossicologica, Servizio di Tossicologia, IRCCS
Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia e Dipartimento di Medicina Interna e
Terapia Medica, Università degli Studi di Pavia – www.cavpavia.it
OBIETTIVI DEL CAPITOLO
• Conoscere i principi fondamentali per il primo approccio diagnostico-terapeutico al paziente
con intossicazione acuta
• Inquadrare alcuni fra i quadri di intossicazione pura più comuni
• Conoscere l’impiego di alcuni antidoti
CASO CLINICO Una signora di 31 anni giunge alle 24.00 in pronto soccorso (PS) riferendo di avere assunto 2 ore
prima a scopo anticonservativo 80 compresse di un farmaco contenente solfato ferroso idrato (525
mg). La paziente è vigile, orientata nel tempo e nello spazio, completamente asintomatica con
addome trattabile e non dolente, ma è poco collaborante con il personale sanitario. I parametri
vitali e l’esame obiettivo sono nella norma anche se le condizioni generali sono scadenti e la
paziente è decisamente sottopeso.
All’anamnesi patologica risulta solo un disagio sociale per il quale è seguita da qualche mese
senza terapia farmacologica specifica. Riferisce di aver assunto le compresse in seguito a litigio
con il fidanzato.
Viene praticata subito una lavanda gastrica con acqua dopo aspirazione di abbondante quantità di
liquido bruno dallo stomaco. Gli esami ematochimici rivelano solo lieve leucocitosi. La radiografia
dell’addome dimostra presenza di numerose (circa 80) compresse radiopache; radiografia del
torace, emogasanalisi arteriosa ed ECG risultano invece nella norma. Si concorda con il
laboratorio l'esecuzione immediata della sideremia sebbene non faccia parte degli esami
normalmente disponibili in urgenza: essa risulta 295 µg/dL (valori normali 50-175 µg/dL). Viene
iniziata somministrazione di gastroprotettori e infusione di soluzione fisiologica (150 mL/ora)
tramite accesso venoso periferico.
Due ore dopo l’accesso in PS le condizioni generali sono stabili e i parametri vitali nella norma:
compare tuttavia lieve agitazione psico-motoria.
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La radiografia dell’addome di controllo eseguita dopo la gastrolusi evidenzia permanenza nello
stomaco di un numero ancora elevato di compresse (più di 60). Si decide quindi di eseguire una
gastroscopia per tentare di rimuovere le compresse e per valutare il danno d’organo. All’esame si
osservano iperemia della mucosa esofagea e iperemia con disepitelizzazione ed edema delle
pliche gastriche del tratto prossimale del corpo. Al tentativo di esplorazione dell’antro, che risulta
contenere abbondante liquido bruno misto a frammenti di compresse di colore rosso parzialmente
digerite, si osservano aree iperemiche e aree di disepitelizzazione, diffuso stillicidio ematico ed
estese aree di colore grigio-nerastro per evidenti fenomeni di necrosi. Non si procede oltre l’antro
sotto-angolare per l’evidente rischio di lesionare la parete del viscere.
A distanza di 8 ore dall’ingestione lo stato di agitazione psico-motoria della paziente peggiora, i
valori pressori si riducono (90/60 mmHg), compaiono tachicardia e acidosi metabolica (pH 7.27,
HCO3- 19 mmol/L, Cl- 122 mEq/L, gap anionico non aumentato); la sideremia risulta in lieve
riduzione (237 µg/dL). Un accesso venoso centrale consente di aumentare l’infusione di liquidi e di
monitorare la pressione venosa centrale, che si mantiene normale: viene iniziata la
somministrazione di bicarbonato di sodio e.v.
In considerazione dello scarso successo terapeutico della gastrolusi e dell’esame endoscopico,
viene iniziata la decontaminazione gastroenterica mediante irrigazione intestinale continua (via
sondino naso-gastrico) con soluzione di polietilenglicole-4000 (PEG-4000). Per il peggioramento
dello stato di agitazione viene iniziata sedazione con midazolam in infusione continua a 0,1
mg/kg/ora.
L’irrigazione intestinale viene continuata per 8 ore (totale: 10 litri di PEG-4000) fino all’evacuazione
di liquido limpido.
La paziente viene ricoverata in medicina d’urgenza con controllo programmato della sideremia
ogni 4 ore al fine di valutare l’eventuale indicazione a somministrare l’antidoto specifico
(desferossamina). Tale trattamento non risulterà necessario, stante l'efficacia del lavaggio
intestinale nella decontaminazione completa della paziente. Durante i due giorni di degenza
vengono mantenute la sedazione con benzodiazepine, l’infusione endovenosa di liquidi e la
gastroprotezione con dosi elevate di inibitori della pompa protonica: la sideremia rientra nella
norma poche ore dopo l'avvenuta decontaminazione intestinale.
A 48 ore dall’ingestione i parametri vitali sono nella norma e l’acidosi metabolica si è risolta (pH
7.34, HCO3- 22.7 mmol/l, Cl- 119 mEq/L). Gli esami ematochimici documentano lieve
anemizzazione, verosimilmente da stillicidio ematico dal tratto gastroenterico; i parametri
emocoagulativi e gli indici di necrosi epatica risultano nella norma. La valutazione psichiatrica
indica però la necessità di un trattamento specifico e il giorno successivo la paziente viene
trasferita in reparto di psichiatria.
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INTRODUZIONE
Le intossicazioni acute sono un vastissimo insieme di patologie di diversa gravità determinate da
esposizioni per vie e con modalità diverse a un enorme numero di agenti causali (agenti tossici o
veleni). I quadri clinici che ne conseguono sono ogni volta diversi e risultano spesso di difficile
inquadramento diagnostico e terapeutico.
Questo tipo di patologia interessa tutto il settore dell’urgenza, dal soccorso territoriale ai servizi di
pronto soccorso-medicina d’urgenza e alle rianimazioni. Non è però infrequente che in alcuni
ospedali, oppure in relazione a specifici aspetti organizzativi, pazienti intossicati vengano ricoverati
e trattati in reparti di medicina e chirurgia generale o in degenze specialistiche (es. unità
coronarica) per necessità di assistenza e monitoraggio particolari.
Benché vi siano ancora controversie su alcuni aspetti della gestione del paziente intossicato (es.
disponibilità e necessità di indagini di tossicologia analitica in urgenza, impiego di alcuni antidoti), i
principi, i processi e le procedure che caratterizzano l’approccio terapeutico nella fase acuta sono
oggi chiaramente stabiliti e oggetto di consenso nella comunità scientifica. Essi dovrebbero quindi
essere patrimonio, per lo meno nelle linee generali, di tutti i medici che operano nei servizi che più
frequentemente si trovano affrontare urgenze ed emergenze tossicologiche, quali il 118, il pronto
soccorso/medicina d'urgenza, la rianimazione e la pediatria.
In tutti i casi la consulenza fornita dagli specialisti dei centri antiveleni (CAV) risulta essenziale per
minimizzare gli errori e impostare i percorsi diagnostico-terapeutici più idonei.
ELEMENTI DI EPIDEMIOLOGIA DELLE INTOSSICAZIONI ACUTE
L'intossicazione acuta rappresenta un evento di sempre più frequente riscontro per chi opera nei
servizi d'urgenza territoriali e ospedalieri, dato che l’incidenza media annua delle intossicazioni
acute è, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, approssimativamente di 1 caso ogni 100
abitanti. Benché sia difficile accertare dati precisi di prevalenza, la patologia acuta da tossici
esogeni (escludendo quella relativa alle reazioni avverse a farmaci) rappresenta in Italia in media
circa il 3-4% di tutti gli accessi ai pronto soccorso (PS). Non è noto quanti di questi pazienti
vengano ricoverati: le diagnosi principali di dimissione relative a intossicazioni/avvelenamenti e
abuso di alcol/altre sostanze sono circa 100.000/anno. I dati delle Schede di Dimissione
Ospedaliere - SDO (comunque imprecisi in quanto codificano prevalentemente i sintomi e non le
cause) non includono però le prestazioni per intossicazioni acute fornite nei servizi d’urgenza e
non seguite da ricovero (stimabili in circa 500.000/anno) e quelle ambulatoriali (per problematiche
post-acute e croniche).
Non più del 3% dei pazienti ricoverati per intossicazione viene inoltre ammesso in reparti di
rianimazione: anche questo dato, però, risente dei differenti livelli organizzativi dei dipartimenti
d'emergenza e ancor più della disponibilità di reparti di medicina d'urgenza, di osservazione breve
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intensiva e delle relative possibilità di monitoraggio.
I Centri Antiveleni (CAV) italiani forniscono consulenza specialistica per più di 150.000 casi/anno:
ai CAV non vengono però segnalati circa il 70% dei casi di sovradosaggio da farmaci, la maggior
parte dei casi di decesso extraospedaliero da intossicazione, così come i casi di overdose da
alcune sostanze d'abuso i cui effetti sono ampiamente noti ai medici d'urgenza (es. alcool, eroina).
La mortalità generale dei pazienti con intossicazioni acute, calcolata su dati dei CAV statunitensi,
risulta inferiore allo 0,5%; se si considera, tuttavia, che solo il 22% delle consulenze dei CAV in
questo Paese ha necessitato di osservazione/ricovero ospedaliero, la mortalità sui casi di
effettiva/probabile intossicazione sale al 2,5% circa. Quando invece la mortalità viene stratificata
per tipi di tossico, essa può superare il 10% come avviene ad esempio nel caso delle
intossicazioni da alcuni tipi di veleni cardiotossici e da Amanita phaloides.
Questi dati, nel loro insieme, indicano l'elevata frequenza della patologia da sostanze chimiche, la
quale comprende una gamma di situazioni cliniche quanto mai eterogenee, dall’ingestione
accidentale al tentato omicidio, dalla banale esposizione a un prodotto con tossicità irrilevante fino
all’intossicazione grave che pone in pericolo la vita del paziente.
Dietro ad ogni intossicazione si cela una complessità gestionale che richiede, per essere
fronteggiata in modo ottimale ed evitare approcci diagnostico-terapeutici inadeguati, competenze
tossicologiche specialistiche (fornite dai Centri Antiveleni) unitamente a una formazione specifica
in tossicologia clinica per i medici che operano nell'area dell'urgenza-emergenza. Ciò anche in
ragione del fatto che in Italia non sono diffusi sul territorio nazionale reparti di cura e servizi
diagnostici specifici per la tossicologia clinica, e i pazienti intossicati vengono per lo più ricoverati
presso reparti e ospedali che spesso non sono dotati di specifiche competenze (es. mancanza di
strutture analitiche).
LA PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE INTOSSICATO
Nella gestione del paziente intossicato esistono quattro momenti fondamentali: (i) la diagnosi, (ii) il
trattamento d'urgenza, (iii) il trattamento nella fase post-acuta e (iv) il follow-up a lungo termine per
il monitoraggio e trattamento di eventuali sequele tardive. In ciascuna di queste fasi occorre
considerare gli aspetti peculiari di questa patologia al fine di effettuare l'intervento più efficace e
sicuro: a tale riguardo la consulenza dei CAV risulta essenziale, anche in relazione al fatto che (a)
a una frequenza elevata dell'evento "intossicazione" corrispondono in realtà moltissimi quadri
clinici assai diversi fra loro per variabilità degli agenti e modalità di avvelenamento, (b) le
intossicazioni acute sono solo in una piccola percentuale "pure" e cioè causate da una sola
sostanza/farmaco (la maggior parte delle quali è accidentale), (c) le sostanze/farmaci dotati di
potenziale tossicità con i quali l'uomo può venire in contatto sono in incessante aumento, (d) le
conoscenze tossicologiche sono in continua evoluzione, (e) le possibilità di determinazioni
analitiche specifiche in urgenza sono estremamente limitate nel nostro Paese, (f) la disponibilità di
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trattamento antidotico efficace e sicuro esiste solo per un limitato numero di sostanze.
DIAGNOSI
La diagnosi in tossicologia clinica si basa in un primo momento, come in tutti i campi della
medicina, dal confronto tra anamnesi e il quadro clinico presentato dall'intossicato. L'enorme
variabilità di sostanze chimiche e di miscele delle stesse con cui l'uomo può venire a contatto per
vie diverse, tuttavia, implica che ogni intossicazione acuta possa configurare un'evenienza insolita
o addirittura unica, senza precedenti.
Anamnesi Nella patologia da tossici esogeni non è sempre possibile ottenere dal paziente un'anamnesi
veritiera (es. per comportamento autolesivo o alterazioni dello stato di coscienza) se non nel caso
delle esposizioni accidentali: anche in questi casi, tuttavia, la non perfetta conoscenza del prodotto
in causa può essere un elemento critico. Il processo diagnostico richiede spesso, pertanto, che la
raccolta di informazioni avvenga attraverso (o per confronto con) domande specifiche poste a
familiari, amici, conoscenti, o a coloro che hanno potuto raccogliere importanti dati circostanziali
(es. soccorritori), oltre che, talvolta, al medico curante.
L'identificazione esatta dei prodotti in causa è essenziale: benché esistano in commercio centinaia
di migliaia di prodotti chimici, i CAV possono essere in grado di identificarne rapidamente la
composizione e definire quindi il miglior approccio diagnostico-terapeutico. Nel caso di “agente non
noto” l'identificazione delle sostanze in causa può essere fatta attraverso la valutazione esperta di
segni/sintomi indicativi di specifici veleni.
Per poter valutare la potenziale gravità dell’intossicazione, occorre cercare di stabilire la quantità
massima che può essere stata assunta (nelle intossicazioni intenzionali è preferibile sovrastimare
questa quantità): ciò può ad esempio fornire indicazione alle manovre di decontaminazione
gastrointestinale anche in caso di assunzioni accidentali.
In alcuni casi esistono dosi tossiche ben conosciute (es. paracetamolo, acido acetilsalicilico,
glicole etilenico, metanolo, boro), ma sfortunatamente nella maggior parte dei casi la dose tossica
non è nota: in queste circostanze si può considerare potenzialmente pericolosa, se pur con molta
approssimazione, una dose di farmaco che supera di tre volte la dose terapeutica, mentre nel caso
di sostanze non medicamentose qualunque dose assunta deve essere valutata in virtù della
pericolosità intrinseca della sostanza (se nota) o comunque essere considerata potenzialmente
pericolosa.
La conoscenza delle modalità (singola o ripetuta) e del tempo intercorso dall'assunzione delle
sostanze è molto importante: l'intervallo fra esposizione e comparsa di segni e sintomi è variabile e
caratteristico per singole sostanze.
Il quadro clinico e gli esami tossicologici devono essere sempre interpretati in base alla "storia
dell'intossicazione" e quindi al tempo intercorso. Oltre che a fini diagnostici e prognostici, la
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conoscenza del tempo intercorso è essenziale anche a fini terapeutici: questo dato può infatti
condizionare sostanzialmente la scelta della metodica di decontaminazione, di un trattamento
antidotico specifico o l'applicazione di una tecnica di depurazione extracorporea.
Altri aspetti anamnestici hanno grande rilevanza. La via d'esposizione condiziona l'assorbimento
dei veleni, la comparsa di tossicità in tempi più o meno lunghi e la scelta delle relative tecniche di
decontaminazione. L'anamnesi patologica remota (comprese le terapie in corso, storie d'abuso,
ecc.) può mettere in evidenza fattori di rischio aggiuntivi o controindicazioni ad alcuni trattamenti.
Segni/sintomi L'esame del paziente deve essere accurato e mirato alla ricerca di segni/sintomi che concordino
con l'anamnesi relativa agli agenti in causa o che consentano, in assenza di dati anamnestici certi,
di indirizzare verso diagnosi specifiche. Ciò risulta talora possibile poiché la patologia tossica è
caratterizzata da (i) un rapporto logico tra causa ed effetti che è molto più stretto e costante
rispetto ad altre patologie, e da (ii) un tempo di latenza fra esposizione e comparsa dei sintomi
caratteristico per ogni sostanza. Così, ad esempio, la diagnosi può risultare non difficile nelle
intossicazioni pure da sostanze o farmaci che causano caratteristiche disfunzioni autonomiche (es.
sindrome anticolinergica centrale, sindrome colinergica).
Occorre tuttavia considerare che nelle patologie da tossici i segni/sintomi presenti a un dato
momento possono repentinamente cambiare in seguito ad assorbimento di ulteriori quantità della
stessa sostanza (es. formulazioni di farmaci a lento rilascio) o di sostanze diverse (intossicazioni
miste), oppure per lento metabolismo del composto primario a molecole con effetti più potenti o
differenti (es. metanolo, glicole etilenico).
Oltre ai segni e sintomi che caratterizzano alcune sindromi tipiche (tabella 1), altri elementi
possono indirizzare la diagnosi, quali, ad esempio, un odore caratteristico dell'espirato, la
presenza di lesioni da caustici, il tipo di anomalie elettrocardiografiche o radiografiche (es.
“pacchetti" di sostanze d'abuso nel tratto gastrointestinale), particolari quadri biochimico-metabolici
(es. acidosi metabolica, gap anionico), il colore delle urine o dell'aspirato gastrico, oppure segni di
venopuntura.
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Tabella 1. Principali "sindromi tipiche"
sindrome esempi di agenti segni/sintomi caratteristici anticolinergica periferica e centrale
• farmaci (atropina e derivati, carbamazepina, antidepressivi triciclici)
• piante (Atropa belladonna, Datura stramonium, Hyoscyamus niger, “stramoni” utilizzati nell’abuso, ecc.)
• funghi (Amanita muscaria e pantherina)
• periferici: tachicardia, midriasi, cute calda e arrossata, mucose secche, riduzione della peristalsi, ritenzione urinaria, ipertermia
• centrali: agitazione e delirio (accompagnato da stato mentale fluttuante, confusione, allucinazioni visive, alterazioni comportamentali) tremori, mioclonie, coma
colinergica o muscarinica • insetticidi (esteri organofosforici, carbamati)
• agenti nervini • farmaci: fisostigmina, farmaci
usati nell'Alzheimer (donepezil, galantamina, rivastigmina, taurina) e nella miastenia gravis (es. neostigmina), agonisti dell'acetilcolina (betanecolo, carbacolo, pilocarpina)
• funghi (genere Inocybe e Clitocybe)
• bradicardia, miosi, sudorazione profusa, scialorrea, broncorrea, lacrimazione, vomito, diarrea, iperperistalsi
metaemoglobinemia • anilina • nitriti e nitrati
• cianosi senza dispnea, sangue color cioccolato, insufficienza cerebrale, ipotensione (nitriti)
simpaticomimetica beta-agonisti diretti (adrenalina, noradrenalina, isoproterenolo, albuterolo, clenbuterolo, terbutalina) alfa-agonisti diretti (adrenalina, alcaloidi dell'ergotamina, fenilefrina) simpaticomimetici indiretti (amfetamine, cocaina, fenfluramina, MAO-inibitori, metifenidato, fendimetrazina, tiramina) simpaticomimetici ad azione mista (dopamina, efedrina, pseudoefedrina, fenilpronalamina) piante (Ephedra, Ma huang)
• gli effetti sono dipendenti dalla selettività recettoriale alfa o beta: tachicardia seguita da bradicardia, (solo bradicardia per fenilefrina), aritmie, ipertensione, midriasi, ipertermia, sudorazione, convulsioni, psicosi
• nota: i segni/sintomi possono essere confusi da complicanze quali emorragie cerebrali o ischemie e vasocostrizione distrettuali
oppioide • morfinici naturali e di sintesi insufficienza respiratoria (bradipnea, apnea), miosi puntiforme, depressione centrale fino al coma
morso di vipera • vipere italiane segni di morso (1 o 2 puntini a distanza di 0,5-1 cm), edema duro bluastro e dolente, alterazioni della coagulazione
Analisi tossicologiche La diagnosi tossicologica è completa e corretta solo quando, oltre a natura della sostanza, via di
contatto, intervallo fra esposizione e comparsa dei sintomi, presenza di fattori individuali di rischio,
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è possibile conoscere anche la quantità di veleno assorbita. Si tratta di un aspetto diagnostico
peculiare, specifico di questa patologia, che ha particolare rilevanza soprattutto nella valutazione
delle intossicazioni per ingestione di veleni lesionali. In questi casi la quantificazione della dose
assorbita consente la conferma del sospetto diagnostico, la corretta applicazione di terapie
antidotiche e di tecniche di depurazione extracorporea, la formulazione di una prognosi corretta e
la previsione dell'entità e della durata dell'effetto massimale, indipendentemente dai segni e
sintomi al momento presenti.
Nella diagnosi delle intossicazioni acute possono essere utilmente impiegati, in una prima fase e
con l'indicazione e l'interpretazione specifica del singolo caso, alcuni esami di routine della
normale biochimica clinica. Gli esami diagnostici specifici sono invece i test analitico-tossicologici:
la diagnostica tossicologica approfondita è tuttavia oggi ancora poco disponibile nella maggior
parte dei DEA se non dove sono presenti reparti di cura di tossicologia clinica e Centri Antiveleni.
I test di tossicologia analitica possono essere di tipo qualitativo, semiquantitativo o quantitativo;
ogni metodica ha campi di applicazione e tempi di risposta diversi, affidabilità e accuratezza
variabili, e richiede competenze analitiche più o meno specifiche con notevole differenza anche nei
costi.
Requisito fondamentale dei test di tossicologia analitica è la capacità di fornire in tempo reale e
con elevato livello di affidabilità il risultato analitico concernente il più vasto spettro possibile di
sostanze. Ciò è reso complesso da alcune difficoltà, fra le quali il numero elevato di sostanze
potenzialmente causa di intossicazione, la loro diversificata struttura chimica, la continua
immissione nel mercato di nuove molecole, le interferenze dovute a co-assunzioni di molecole
diverse, l'ampio intervallo delle dosi efficaci e delle concentrazioni raggiungibili nei liquidi biologici.
A questi aspetti si aggiunge, sul piano gestionale e organizzativo, l'imprevedibilità e irregolarità
numerica e temporale con cui i casi si presentano, nonché le possibili implicazioni medico-legali ad
essi sottese.
Il più diffuso e semplice test di tossicologia analitica è rappresentato dallo screening su urine di
alcune sostanze d'abuso e farmaci: ad alcuni vantaggi quali il costo limitato e la facilità di
esecuzione, corrispondono numerosi limiti legati ad esempio alla scarsa sensibilità (falsi negativi)
per molecole appartenenti alla stessa categoria di farmaci, alla specificità limitata (falsi positivi) ad
esempio per reattività crociata tra farmaci, e alla matrice utilizzata. Nell'urina inoltre (i) la positività
per i farmaci può risultare correlata alla semplice assunzione di dosi terapeutiche, (ii) il cut-off può
non consentire di rilevare concentrazioni tossiche di alcune molecole appartenenti alla categoria
testata, (iii) le concentrazioni del tossico eliminato sono influenzate dalla diuresi e dalla clearance
renale, (iv) alcune sostanze (es. sostanze d’abuso) permangono positive nelle urine per giorni
dopo l'assunzione, anche quando non sono più causa di effetti tossici clinicamente rilevabili.
In alcuni casi il dato analitico qualitativo può essere il primo esame di screening che, in caso di
positività, deve poi essere seguito da un'analisi quantitativa specifica per la valutazione del grado
di tossicità (es. paraquat). In altri casi solo il test quantitativo ha utilità diagnostica: si tratta di veleni
(in genere lesionali) per i quali è nota una correlazione dose-effetto la cui conoscenza ha evidenti
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implicazioni terapeutiche, come nel caso di paracetamolo, salicilici, digossina, teofillina,
carbamazepina, fenobarbitale, antidepressivi triciclici, metanolo, glicole etilenico, litio, boro, ferro e
vari altri metalli.
Al fine di evitare errori di interpretazione che possono avere conseguenze rilevanti, la disponibilità
del dato analitico, sia qualitativo che quantitativo, non può tuttavia essere disgiunta dalla sua
valutazione esperta. Numerosi fattori, infatti, quali modalità e tempo intercorso dall'assunzione,
interferenze metabolico-cinetiche (es. metaboliti attivi) e tossico-dinamiche, nonché le terapie
messe in atto, ne condizionano il significato.
Gli ospedali italiani dotati di laboratori in grado di assicurare analisi tossicologiche quantitative in
urgenza sono pochissimi. Una recente indagine condotta dal CAV di Pavia su 193 strutture
sanitarie italiane che hanno partecipato a un progetto di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità
("Miglioramento della prevenzione e della gestione delle intossicazioni acute: razionalizzazione
della presenza sul territorio degli antidoti", 2003) indica che un servizio di tossicologia e/o centro
antiveleni è presente nel 3,1% degli ospedali, che il 48,7% dispone di un laboratorio in grado di
effettuare alcune analisi tossicologiche (prevalentemente esami di tipo qualitativo, oltre a
monitoraggio di alcuni farmaci, carbossiemoglobina, ed etanolo), ma che solo il 36,8% ne dispone
in urgenza (Locatelli et al, 2006).
Una migliore disponibilità e organizzazione dei servizi di tossicologia analitica in urgenza sarebbe
senza dubbio auspicabile nel nostro Paese, specie per ciò che riguarda analisi di veleni lesionali
(es. glicoli, metalli, solventi) e delle nuove sostanze d'abuso. Considerando l'impegno di risorse, le
caratteristiche della struttura, il bacino d’utenza, le realtà territoriali, occorrerebbe che a fianco di
analisi tossicologiche disponibili in ogni struttura per l'urgenza (es. alcolemia, carbossiemoglobina,
metaemoglobina, esami qualitativi per ricerca di comuni sostanze d'abuso, benzodiazepine,
barbiturici, antidepressivi triciclici), a livello provinciale e/o regionale fossero disponibili in urgenza
esami più specifici fra i quali digossinemia, salicilemia, paracetamolemia, teofillinemia, litiemia,
sideremia e determinazione di glicole etilenico. In laboratori più centralizzati dovrebbero invece
essere disponibili esami ancora più specifici (es. nuove sostanze d’abuso, metanolo, colchicina,
paraquat, solventi, metalli), oppure esami su matrici diverse (es. tessuto adiposo).
Diagnostica strumentale Nella diagnosi delle intossicazioni acute possono essere utilmente impiegate, con indicazioni e
interpretazioni specifiche relative agli agenti causali, le usuali tecniche elettrofisiologiche e di
diagnostica per immagini.
L'elettrocardiogramma a 12 derivazioni e il monitoraggio ECGrafico sono tecniche semplici,
sempre disponibili e non invasive, che risultano spesso indicate dato che alterazioni cardiache
possono conseguire ad assunzione di farmaci e altre sostanze non primariamente cardiotossiche
(es. neuropsicofarmaci). Nella maggioranza dei casi si tratta di valutare e monitorare la presenza
di aritmie e/o disturbi della conduzione e della ripolarizzazione: QRS e QT sono i principali
parametri, ad esempio, da sottoporre a monitoraggio nelle intossicazioni dai principali
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antidepressivi e neurolettici.
La radiografia diretta dell'addome trova indicazione nella rilevazione di sostanze e compresse
radiopachi quali solventi clorurati e medicamenti a base di ferro.
L'esofagogastroduodenoscopia trova specifiche indicazioni, oltre che nella valutazione diagnostica
delle ingestioni di caustici/corrosivi, anche per la valutazione dell'avvenuto svuotamento gastrico in
caso di ingestione di veleni solidi a tossicità lesionale elevata, facilitando o completando
eventualmente la decontaminazione (Francon et al, 1987).
IL TRATTAMENTO D'URGENZA
Le sostanze chimiche diventano veleni quando, attraverso un'idonea via di contatto, riescono a
superare le barriere naturali dell'organismo e a raggiungere gli organi o tessuti bersaglio a una
concentrazione o dose in grado di determinare effetti dannosi, la cui comparsa può essere
immediata o tardiva. In quest'ultimo caso il primo intervento medico può essere effettuato sulla
base della sola anamnesi e prima della comparsa di qualunque sintomo o segno.
Fatte salve le manovre aspecifiche e generali di supporto delle funzioni vitali, il trattamento
d'urgenza del paziente intossicato si può avvalere, quando indicati, di due interventi specifici: (a) la
decontaminazione per evitare l'assorbimento del veleno e (b) il trattamento antidotico specifico. A
questi può essere associato, in un secondo momento, un trattamento di depurazione finalizzato a
promuovere l'eliminazione del veleno già assorbito. In alcuni casi è possibile utilizzare tecniche
atte a rimuovere il veleno prima che venga assorbito e somministrare prontamente alcuni antidoti
che consentono di diminuire drasticamente il carico tossico intervenendo sull'assorbimento, e
trasformare una potenziale intossicazione in un evento privo di conseguenze clinicamente
significative.
Decontaminazione gastrointestinale Ognuna delle tecniche di decontaminazione gastrointestinale ha precise indicazioni e
controindicazioni che non possono essere generalizzate, ma che devono essere considerate di
volta in volta in relazione ai dati anamnestici, alle condizioni cliniche e alle caratteristiche
tossicocinetiche e di pericolosità delle sostanze assunte.
L'intervento di decontaminazione dal tossico ha una delle sue massime possibilità e indicazioni
nelle intossicazioni per ingestione attraverso alcune manovre che, se effettuate nel minor tempo
possibile, possono limitare o prevenire l'assorbimento di sostanze ancora presenti nel tratto
gastrointestinale. A tale scopo possono essere utilizzate diverse tecniche, quali l'induzione del
vomito e la lavanda gastrica per l'evacuazione del tratto gastroenterico superiore, la catarsi e il
lavaggio intestinale per l'evacuazione di quello inferiore. La somministrazione di adsorbenti (es.
carbone vegetale attivato) trova impiego da sola o in associazione a tali manovre. Le indicazioni
all'uso dell'una o dell'altra tecnica variano in base a numerosi fattori, quali la natura della sostanza
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assunta, l'intervallo di tempo intercorso dall'assunzione, le condizioni cliniche dell'intossicato.
Indicazioni ed efficacia di tali manovre sono diventate, soprattutto negli anni ‘90, oggetto di
dibattito. Alcuni studi su pazienti con intossicazioni da farmaci, su volontari sani e su animali di
laboratorio, hanno indagato l'efficacia dei trattamenti di decontaminazione del tratto
gastrointestinale (induzione del vomito con ipecacuana e lavanda gastrica con o senza
somministrazione di carbone attivato), in genere per comparazione con la sola somministrazione di
carbone attivato. Una puntualizzazione su tali aspetti è molto importante anche per le possibili
implicazioni medico-legali. Infatti, alla carente dimostrazione di efficacia e ai possibili effetti
collaterali delle procedure impiegate per lo svuotamento gastrico, si contrappone l’evidenza che il
mancato impiego di tali tecniche può essere causa di intossicazioni gravi o letali (Kumar et al,
2009).
Il concetto che lo svuotamento gastrico sia perentorio in tutti i casi di sovradosaggio di farmaci per
ingestione è stato giustamente criticato negli ultimi 15 anni. Un approccio più razionale, basato
sulla conoscenza di alcuni fondamentali parametri tossicologici e tossicocinetici (es. dose tossica,
velocità di assorbimento, effetti), unitamente a una precisa e corretta valutazione dell'attendibilità
dell'anamnesi e della concordanza di sintomi e segni presentati dal paziente, consente un impiego
più mirato della lavanda gastrica e dell'induzione del vomito, così come della somministrazione di
carbone attivato.
In effetti, i reali benefici terapeutici dell'applicazione dei metodi di decontaminazione del tratto
gastroenterico sono ancora in buona misura mal definiti. Gli studi su volontari vengono effettuati in
condizioni troppo distanti dalla realtà dell'intossicazione acuta: vengono utilizzate, ad esempio,
dosi assorbite/assorbibili non tossiche, la cinetica del farmaco e i tempi fra l'ingestione e il
trattamento sono differenti dalle reali condizioni di intossicazione, e non sono studiabili situazioni
comuni quali l'ingestione di sostanze o miscele molto tossiche. Solo gli studi clinici su pazienti
intossicati possono chiarire quale sia (i) la quantità di tossico che è possibile sottrarre
all'organismo, specie per le sostanze non medicinali, (ii) il vantaggio di una tecnica nei confronti di
un'altra in termini di sicurezza, tempo impiegato e costi, (iii) il reale beneficio clinico per il paziente,
e (iv) l'intervallo temporale per un'azione efficace in varie condizioni cliniche. Nessuno studio
clinico ad elevato valore statistico, tuttavia, è riuscito fino ad ora a indagare in modo preciso questi
fattori.
Di fatto, nessuna manovra di decontaminazione dovrebbe essere utilizzata senza che esistano
validi presupposti clinici e tossicologici per la sua applicazione. Per contro, l'evidenza statistica
della loro efficacia non deve essere il solo parametro che ne giustifichi l'impiego, tenuto anche
conto della scarsa morbilità di tali trattamenti rispetto agli effetti dei tossici per i quali essi vengono
impiegati.
Allo stato attuale delle conoscenze è opportuno ritenere che i mezzi e i farmaci necessari per
effettuare la lavanda gastrica, l’induzione del vomito e la somministrazione di carbone attivato,
debbano essere disponibili in ogni pronto soccorso. In tutti i casi di ingestione di farmaci o
sostanze non medicamentose potenzialmente grave o letale, le metodiche atte a impedire
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l'assorbimento del veleno devono essere utilizzate il più precocemente possibile per cercare di
ottenere l'effetto massimale. L’efficacia del trattamento probabilmente diminuisce se sono
trascorse più di 1-4 ore dall'ingestione, ma non di meno è giustificata un'astensione dai trattamenti
di decontaminazione anche diverse ore dopo l'ingestione, specie nel caso di intossicazioni da
farmaci molto pericolosi, da sostanze non medicamentose, da veleni lesionali, e/o quando non
sono disponibili trattamenti antidotici efficaci. Esiste infatti evidenza che il mancato impiego di tali
tecniche può essere causa di intossicazioni gravi o letali (Danel e Baud, 1995).
1. Induzione del vomito L'induzione del vomito ha alcune precise indicazioni e controindicazioni; in alcuni casi può essere
più indicata della lavanda gastrica (es. stomaco pieno per pasto recente; ingestione di tossici solidi
insolubili in acqua), anche se nella pratica il suo impiego è certamente meno frequente e quasi
sempre limitato ai pazienti pediatrici (AACT-EAPCCT, 2004a).
Può essere ottenuta meccanicamente mediante stimolazione della base della lingua, oppure
farmacologicamente per somministrazione di sciroppo di ipecacuana che, attraverso l'azione di
due principali alcaloidi (emetina e cefalina) agisce a livello periferico (azione irritante locale) e
centrale (attivazione del centro del vomito). Il farmaco produce emesi nel 80-100% dei pazienti
entro 5-10 minuti dalla somministrazione; l'effetto può non comparire se sono stati assunti farmaci
ad azione antiemetica che ne bloccano l'effetto centrale.
L'induzione del vomito con ipecacuana è efficace nell'allontanare il tossico se effettuata entro un
tempo relativamente breve dall'ingestione (circa 1 ora): in questo caso la procedura consente di
eliminare mediamente il 30-40% del contenuto gastrico (e quindi del tossico presente). Quantità
superiori possono essere eliminate per somministrazioni più precoci dell'emetico: studi su animali
e sull'uomo hanno evidenziato un'eliminazione massima del tossico pari a circa il 60% se l'emesi
viene indotta immediatamente dopo l'ingestione. L'induzione del vomito è raramente efficace dopo
3-4 ore dall'ingestione, tranne nel caso di sostanze che rallentano lo svuotamento gastrico o che
formano agglomerati di compresse nello stomaco (es. aspirina).
La procedura è controindicata in caso di ingestione di sostanze convulsivanti o depressori del
sistema nervoso centrale, caustici/corrosivi, derivati del petrolio o solventi, schiumogeni, corpi
estranei, materiali taglienti; è altresì controindicata nei pazienti che possono avere grave danno dal
vomito ripetuto (es. recente intervento all’apparato gastrointestinale, età avanzata, gravidanza al
3° trimestre, grave ipertensione, grave enfisema polmonare, cirrosi epatica e diatesi emorragica,
età inferiore a 6 mesi) (Prevaldi e Petrolini, 2007).
La posologia dello sciroppo di ipecacuana al 7,5%, che dovrebbe essere sempre disponibile in tutti
i servizi di pronto soccorso, varia secondo l'età e viene fatta seguire da assunzione di 100 ml
d'acqua nell'adulto e 30 ml nel bambino.
I principali effetti collaterali sono il vomito protratto per più di 3 ore (1-5% dei casi), diarrea (16-
26%), dolori addominali, irritabilità, e sonnolenza. La persistenza di vomito può ritardare la
somministrazione di altri antidoti (es. carbone vegetale attivato). Negli anni ’80 sono stati descritti
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singoli casi di ernia diaframmatica, gastriti emorragiche, sindrome di Mallory-Weiss, emorragia
cerebrale, retropneumoperitoneo e pneumomediastino.
Alcuni studi degli anni ’80 su gruppi di pazienti non hanno mostrato alcun "vantaggio clinico"
derivante dall'uso di sciroppo di ipecacuana (da solo o seguito da carbone attivato) rispetto alla
somministrazione del solo carbone attivato. Similmente, due studi su volontari sani hanno mostrato
una maggiore efficacia nella prevenzione dell'assorbimento da parte del carbone attivato da solo
rispetto alla somministrazione di ipecacuana o di ipecacuana seguito da carbone attivato. In base
a tali dati, alcuni Autori consigliano la somministrazione di carbone attivato (con o senza catartico),
senza induzione del vomito, nella maggior parte delle intossicazioni da farmaci; l'ipecacuana
avrebbe ancora un ruolo solamente nei bambini che arrivano all'osservazione in pronto soccorso
rapidamente dopo l'ingestione.
2. Lavanda gastrica La maggior parte delle sostanze ingerite può essere rimossa con la lavanda gastrica. La tecnica è
più invasiva dell'induzione del vomito con ipecacuana, ma presenta scarsi e solo lievi effetti
collaterali se effettuata con attenzione e in modo corretto (Amigo et al, 2004). Farmaci a rilascio
prolungato o gastroresistenti (quando ancora interi), frammenti di bacche vegetali o di canfora e
naftalina sono scarsamente rimovibili.
L'intervallo di tempo trascorso dall'ingestione entro il quale può essere indicato effettuare una
lavanda gastrica efficace non è definibile a priori: esso dipende, ad esempio, dalle caratteristiche
chimico-fisiche della sostanza (o della miscela di sostanze) ingerita, dalla forma farmaceutica,
dallo stato di ripienezza dello stomaco, dalle caratteristiche individuali del paziente. Tale intervallo
utile è probabilmente inferiore a 1 ora per sostanze allo stato liquido, assunte a stomaco vuoto e
rapidamente assorbibili (AACT-EAPCCT, 2004b), ma può essere di molto maggiore (anche più di
24 ore) in caso di assunzione di alcuni veleni (es. tallio, antidepressivi triciclici, salicilici, funghi,
farmaci a rilascio prolungato) e in alcune situazioni cliniche (es. coma, shock) che determinano
diminuzione della normale peristalsi. In tabella 2 vengono elencate alcune condizioni che
aumentano l’appropriatezza della lavanda gastrica: si tratta di principi generali che devono essere
considerati in relazione al singolo caso.
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Tabella 2. Fattori che aumentano l’appropriatezza della lavanda gastrica ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
• ingestione recente (1-3 ore) • sostanze a tossicità non nota • veleni con effetti lesionali su organi, sistemi, apparati (es aspirina, paracetamolo, Amanita
phalloides, colchicina, pesticidi, fenoli) • ingestione di dosi tossiche di agenti con elevato livello di pericolosità (es. antidepressivi,
calcio-antagonisti, beta-bloccanti, digitale, teofillina, antineoplastici, neurolettici, clorochina) • sostanze che aderiscono alla parete gastrica o che formano agglomerati poco solubili • sostanze non adsorbibili al carbone vegetale attivato (es. alcoli, glicoli, ferro, litio, metalli,
cianuri) • ingestione di una quantità di sostanza che supera la capacità adsorbente del carbone
attivato (es. quantitativi di farmaci che superano la dose di 100 mg/kg – includendo principio attivo e coformulanti - specie se le formulazioni sono a rilascio prolungato)
• assenza o incompleta efficacia della terapia antidotica (es. colchicina, paraquat, Amanita phalloides, glifosate)
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La quantità totale di acqua (o soluzione salina) tiepida necessaria per effettuare una lavanda
gastrica varia da un minimo di 2 litri a circa 20 litri per alcune intossicazioni. Attraverso una sonda
di grosso calibro vengono somministrati volumi di 200 ml alla volta nell'adulto, ai quali talvolta
possono essere aggiunti antidoti specifici per il tipo di veleno ingerito; il liquido di volta in volta
instillato viene rimosso per suzione, e il lavaggio deve essere continuato fino a comparsa di liquido
chiaro, inodore, senza frammenti delle sostanze ingerite (Prevaldi e Petrolini, 2007).
Procedura per l’esecuzione della lavanda gastrica
1. Prima della lavanda
• rapida raccolta anamnestica al fine di valutare indicazioni, controindicazioni e fattori di
rischio per complicanze (es. varici esofagee)
• posizionamento di un accesso venoso, monitoraggio ECG, pulsossimetria (quando indicati)
• protezione delle vie aeree, quando indicato (es. paziente incosciente)
• se il paziente è molto agitato o ansioso si può somministrare una benzodiazepina a basse
dosi
2. Esecuzione
Posizione del paziente. Il paziente cosciente e collaborante deve essere posto in decubito laterale
sinistro, possibilmente su un lettino inclinato con il capo declive rispetto al corpo. Tale postura
riduce il rischio di aspirazione (anche in caso di vomito), consente di aspirare più facilmente il
contenuto gastrico che si viene a raccogliere lungo la grande curvatura dello stomaco e riduce il
passaggio del liquido attraverso il piloro. Se tale postura non è possibile, la lavanda gastrica
dovrebbe essere eseguita, se non vi sono controindicazioni, in posizione supina piuttosto che con
il paziente semiseduto.
Sonde. Le sonde da lavanda gastrica sono in materiale trasparente e possiedono alcuni orifizi
laterali di grandi dimensioni nella parte terminale, i quali dovrebbero essere di larghezza uguale o
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superiore al diametro del lume della sonda. Deve essere utilizzata la sonda con il calibro più
grosso possibile: sonde con diametro superiore a 1 cm. consentono di recuperare più facilmente il
materiale solido e hanno minor possibilità di inginocchiarsi. Nell’adulto sono indicate sonde con
calibro da 30 a 50 French (da 10 a 16 mm) con lunghezza di circa 120 cm.
Qualora il contenuto gastrico da rimuovere sia liquido e non vi sia presenza di cibo, è possibile
utilizzare sonde o sondini di calibro inferiore (0,5 cm).
Posizionamento della sonda - Le sonde di diametro maggiore di 36 French dovrebbero essere
introdotte sempre per via orogastrica per evitare lesioni alla mucosa e ai turbinati. Questa via è
generalmente meglio tollerata e può essere facilitata dall’utilizzo di un bloccamorso. I sondini
possono essere introdotti per via naso-gastrica.
Aspirazione - Una volta verificata la corretta posizione dell’estremità della sonda nello stomaco
(gorgoglio di una bolla d'aria), si aspira il contenuto gastrico. L’aspirazione deve precedere
l’immissione di liquido e deve proseguire fino a quando fuoriesce materiale, ritraendo e spingendo
ogni tanto di qualche centimetro la sonda. In alcuni casi è indicata la sola aspirazione del
contenuto gastrico (caustici/corrosivi) senza esecuzione di lavanda gastrica. Se indicato, si
dovrebbe conservare un campione del contenuto gastrico aspirato per eventuali analisi
successive.
Lavaggio - Una volta completata l’aspirazione del contenuto gastrico, si inizia il lavaggio dello
stomaco. Devono essere introdotti e rimossi volumi fissi di liquido di circa 200 ml nell’adulto, di
circa 100 ml nei bambini di età compresa tra 5 e 12 anni e di 20-50 ml in quelli più piccoli. Una
quantità maggiore di liquido stimolerebbe il passaggio del contenuto gastrico attraverso il piloro,
mentre una quantità minore sarebbe meno efficace.
Esistono in commercio diversi kit per l’effettuazione della lavanda gastrica. Possono essere
utilizzate normali sonde e schizzettoni, oppure un raccordo a Y clampando alternativamente il
ramo afferente e quello efferente; alcune procedure prevedono che la sonda venga spostata
alternativamente da una posizione superiore (in) a una inferiore (out) al livello dello stomaco del
paziente. I volumi di liquido immessi e drenati dovrebbero defluire liberamente per gravità: se ciò
non avviene, la sonda è malposizionata, piegata, o ostruita da materiale solido. Il recupero del
liquido immesso può essere facilitato esercitando un lieve massaggio sullo stomaco, oppure
aspirando attivamente con uno schizzettone se residui solidi ostruiscono parzialmente il lume della
sonda.
Tipo di liquido - Nell’adulto la lavanda gastrica può essere eseguita con acqua potabile a
temperatura ambiente. Nel bambino è indicato usare soluzione fisiologica (per i possibili rischi di
iposodiemia) che dovrebbe essere riscaldata a circa 35-40°C.
Quantificazione del lavaggio - La lavanda deve essere proseguita fino a quando fuoriesce liquido
chiaro e limpido, privo di residui solidi. Non esiste una quantità definita di liquido che deve essere
utilizzata: in presenza di alimenti nello stomaco e comunque in caso di ingestione di sostanze
solide e/o molto pericolose si dovrebbero utilizzare non meno di 10-20 litri nell’adulto. Al termine
della lavanda gastrica la quantità di liquidi introdotti è, il più delle volte, superiore a quella rimossa.
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Per questo motivo è necessario verificare il bilancio tra liquidi introdotti e rimossi al fine di calibrare
le successive terapie.
Addizione di antidoti (eventuale) - In rari e selezionati casi, è possibile aggiungere al liquido di
lavanda eventuali antidoti di volta in volta indicati. Questi possono essere somministrati, secondo
specifiche indicazioni, prima, nelle fasi iniziali, nelle fasi finali, o durante tutta la lavanda gastrica. Il
carbone vegetale attivato deve essere somministrato sempre alla fine della lavanda gastrica per
poter controllare l’aspetto del liquido rimosso.
Rimozione della sonda - Al termine della lavanda, la sonda deve essere rimossa dopo essere stata
chiusa o pinzata per evitare aspirazione di liquido. Se vi è indicazione diagnostico-terapeutica a
mantenere un sondaggio gastrico, è consigliabile sostituire la sonda (se è stata utilizzata una
sonda di grosso calibro) con un sondino più adeguato, per via naso-gastrica. Se compare vomito
durante la gastrolusi occorre rimuovere la sonda per consentire al paziente di proteggere le vie
aeree con i normali meccanismi.
Efficacia della lavanda gastrica
L'efficacia clinica della lavanda gastrica, similmente a quanto descritto per l'induzione del vomito
con ipecacuana, risulta ancora scientificamente poco valutabile. Essa è comunque indicata per
rimuovere sostanze liquide o farmaci (specie se solidi) in caso di sovradosaggio massivo,
soprattutto in pazienti con alterazioni dello stato di coscienza, nonché in caso di ingestione di
sostanze non adsorbibili dal carbone e di ingestione di veleni lesionali.
Negli ultimi 15 anni alcuni Autori hanno tentato di valutare l'efficacia della lavanda gastrica e di altri
metodi di decontaminazione gastrointestinale da tossici. Al riguardo, esistono pochi studi clinici,
alcuni studi sperimentali su animali di laboratorio e studi su volontari sani.
L'impiego della lavanda gastrica non ha mostrato alcun "vantaggio clinico" in studi non
randomizzati su pazienti intossicati rispetto alla sola somministrazione di carbone attivato; essa
risulta inoltre in grado di rimuovere solo una piccola frazione del farmaco ingerito in pazienti
intossicati da antidepressivi triciclici. A sostegno di una scarsa efficacia concorrono anche la
dimostrazione della presenza a livello gastrico di materiale solido residuo in un'elevata percentuale
di pazienti (88%) e della progressione intestinale del contenuto gastrico dopo lavanda gastrica;
tale ultimo effetto può tuttavia essere evitato o minimizzato attraverso l'impiego di una tecnica
corretta. Anche alcuni studi su volontari sani hanno concluso con una valutazione di scarsa
efficacia della lavanda gastrica nella prevenzione dell'assorbimento.
Risultati contrari sono descritti da altri studi nei quali, in una percentuale dei pazienti, la lavanda
gastrica si è dimostrata efficace nel rimuovere significative quantità di farmaci quali paracetamolo,
salicilati, antidepressivi triciclici, barbiturici e vari altri farmaci.
L'efficacia della lavanda gastrica, da sola o con somministrazione di carbone attivato, diminuisce
con l'aumentare del tempo trascorso dall'ingestione, quando cioè sono già avvenuti in misura
copiosa la progressione post-pilorica e/o l’assorbimento del veleno. Per farmaci a rapido
assorbimento la lavanda gastrica, associata a somministrazione di carbone vegetale attivato,
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risulta più efficace del carbone da solo entro un'ora dall'ingestione con una diminuzione
progressiva dell’efficacia dopo 2 e 4 ore. Per contro la lavanda gastrica si e dimostrata efficace nel
determinare una significativa asportazione di molti veleni (es. ecstasy, aspirina, venlafaxina,
funghi) a distanza di 4-12 e più ore dall'ingestione, come nel caso di farmaci ad assorbimento
rallentato per caratteristica della stessa molecola o per formulazione: ciò è risultato determinante
per salvare la vita del paziente.
Non è nota la percentuale dei casi di intossicazione acuta nei quali viene oggi praticata la lavanda
gastrica. Negli ultimi anni, ma specialmente dopo una Conferenza di Consenso tenutasi nel 1992
in Francia si è assistito a una netta diminuzione della pratica della lavanda gastrica passando da
più del 70% dei casi nel 1987 a meno del 40% nel 1995. Studi francesi indicano che essa viene
effettuata nel 38% dei casi di intossicazione da farmaci negli adulti, mentre la somministrazione di
carbone attivato viene prescritta solo nel 18,5% dei casi. La riduzione della somministrazione di
adsorbenti, e in particolare di carbone attivato, a meno del 20% dei casi (rispetto a più del 40% agli
inizi degli anni 1990) non ha fatto registrare un aumento del tasso di ospedalizzazione in reparti di
rianimazione, né la durata media dei ricoveri.
Controindicazione assoluta alla lavanda gastrica è la perforazione (in atto o potenziale) del tratto
gastroenterico, come si può verificare nelle ingestioni massive di sostanze caustiche/corrosive;
specifici trattamenti e/o manovre consentono di effettuare la lavanda gastrica in situazioni cliniche
specifiche (es. insufficienza cerebrale, convulsioni, paziente scoagulato, diatesi emorragica) o in
caso di ingestione di particolari veleni (es. solventi, tensioattivi) nei quali occorre particolare
attenzione e l’utilizzo di procedure ad hoc.
Le complicanze potenziali della lavanda gastrica (danno meccanico, perforazione esofagea,
emorragia gastrica, lievi alterazioni dell'ossigenazione e della frequenza cardiaca, polmoniti da
aspirazione, intossicazione da acqua) sono, nella pratica clinica, estremamente rare e non
costituiscono un fattore limitante all'impiego della procedura.
3. Carbone vegetale attivato (CVA) È ottenuto da carbone di legno trattato ad alta temperatura e con acidi forti: questa procedura
modifica le proprietà fisiche del carbone con la formazione di miriadi di micropori che gli
conferiscono una superficie disponibile per l’adsorbimento di circa 1000-2000 metri quadrati per
grammo di sostanza. Il risultato è una polvere nera leggera inodore e insapore, con forte potere
adsorbente attraverso i pori. Viene somministrato per via orale e non viene assorbito
dall’organismo, ma rimane nel lume gastro-enterico dove svolge la sua azione.
È un adsorbente aspecifico di molte sostanze, ma non tutte, la cui precoce somministrazione può
prevenire l’assorbimento dei veleni presenti nello stomaco e nell’intestino (AACT-EAPCCT,
2004c). Lega rapidamente le molecole non ionizzate, facilmente disponibili per l’adsorbimento (es.
farmaci “sciolti”) con un rapporto antidoto/tossico di 10/1. Poiché l’azione del CVA è aspecifica,
occorre considerare il carico ponderale totale delle sostanze assunte (principio attivo + eccipienti +
coformulanti). Antidoto sicuro e privo di effetti collaterali, ha nell’ingestione di caustici la sola
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controindicazione.
Ha tre principali limiti:
• non adsorbe i veleni in forma solida, non sciolti (es. compresse di farmaci, bacche)
• non adsorbe molte sostanze in base alle loro caratteristiche fisico-chimiche (es. molecole
ionizzate, acidi e basi forti, alcooli, glicoli, ferro, litio e metalli in genere)
• ma specialmente ha un grande limite “ponderale” poiché la dose massima somministrabile
(1 g/kg) è in grado di adsorbire solo 100 mg/kg della miscela di principi attivi, coformulanti e
co-ingesti presente nel tratto gastroenterico.
L'indicazione del CVA è impedire l’assorbimento dal tratto gastroenterico. Esso può anche
promuovere l’eliminazione intestinale di sostanze il cui assorbimento sia già avvenuto e che siano
caratterizzate da ricircolo entero-epatico o entero-enterico: questo processo viene definito “dialisi
gastrointestinale”.
Controindicazioni all'uso del CVA sono
• compromissione dei riflessi di protezione delle vie aeree (a meno che il paziente non sia
intubato)
• ingestione di sostanze caustiche/corrosive: in questo caso il CVA oltre a non produrre
alcun beneficio può indurre vomito, rendere difficile la visualizzazione endoscopica della
mucosa, e peggiorare la situazione in caso di perforazione per dispersione nel mediastino,
in peritoneo, o nello spazio pleurico (vi sono eccezioni correlate alla potenza del veleno)
• occlusione intestinale
• perforazione intestinale.
Per le sostanze che vengono scarsamente adsorbite dal CVA (es. alcoli, glicoli, metalli, litio), la
somministrazione del CVA non è controindicata, ma inutile.
Il CVA viene somministrato per os o per sonda/sondino in sospensione acquosa (rapporto minimo
CVA/acqua = 1:4); è meglio evitare l’utilizzo di bevande differenti perché possono ridurne
l’efficacia. Esso può essere somministrato in singola dose o in dosi multiple.
CVA in singola dose
È indicato in tutti i casi di ingestione di sostanza tossica adsorbibile al CVA quando si stima che
una quantità significativa di sostanza sia ancora presente nel tratto gastrointestinale. La dose
standard empirica è di 0,5-1 grammo/Kg peso. Il CVA può essere somministrato insieme al
purgante salino in quanto non lo adsorbe.
Le rare complicanze della somministrazione di CVA sono costipazione e vomito. Errori nella
procedura di somministrazione di CVA possono causare aspirazione nelle vie aeree con
conseguente polmonite, bronchiolite o ostruzione nelle vie respiratorie. Fattori di rischio per
l'aspirazione sono la somministrazione di quantitativi elevati in breve tempo, la somministrazione a
paziente che diviene obnubilato e quella di dosi multiple in paziente occluso.
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CVA in dosi multiple e dialisi gastrointestinale
La somministrazione di dosi multiple di CVA (dosi di 0,3-0,5 g/kg ogni 4-6-8 ore per un periodo di
12-24 ore) consente di prolungare l’effetto adsorbente nel tempo, nonché di adsorbire sostanze
presenti nelle porzioni più distali del tratto gastrointestinale, farmaci a rilascio prolungato e
formulazioni gastroprotette.
La dialisi gastrointestinale (2,5-5 g/ora per un periodo di 24-96 ore secondo la cinetica del tossico)
promuove l’eliminazione di sostanze interrompendo il ricircolo entero-epatico ed entero-enterico: il
CVA lega ed evita il riassorbimento della sostanza escreta nel lume intestinale attraverso la bile o i
villi. Questa tecnica ha dimostrato di aumentare la clearance complessiva corporea di numerosi
farmaci e tossine fra cui carbamazepina, dapsone, digossina, tallio, fenobarbitale, chinidina,
teofillina, amanitina.
4. Catarsi e lavaggio intestinale Lo scopo è diminuire il tempo di transito intestinale del veleno, rimuovendolo dai siti di
assorbimento. I catartici accelerano l’eliminazione del complesso carbone-tossico per via rettale.
Vengono utilizzati catartici osmotici che agiscono aumentando la ritenzione di liquido nell’intestino:
il più utilizzato è il solfato di magnesio (15-30 g nell'adulto, 250 mg/kg nel bambino), anche se in
alcuni casi possono essere utilizzati altri catartici salini (solfato di sodio, citrato di magnesio) o
saccaridici (sorbitolo, mannitolo). Per la catarsi può essere utilizzato anche il polietilenglicole-4000
(PEG-4000) a dosi inferiori a quelle che si utilizzano per il lavaggio intestinale.
La catarsi viene impiegata nelle ingestioni di sostanze allo stato solido e che hanno assorbimento
particolarmente lento o che rallentano la peristalsi: può essere utilizzata in associazione al CVA.
Non vi è indicazione all’uso di catartici in caso di ingestione di tossici in forma liquida e/o
rapidamente assorbibili. Il rischio di squilibrio emodinamico è più elevato nelle età estreme, dove la
somministrazione di catartico deve essere effettuata solo in caso di effettiva necessità.
Le controindicazioni sono l'ingestione di caustici e corrosivi, di sostanze con forte effetto irritante
sulla mucosa enterica, e l'occlusione o la perforazione intestinale.
Il lavaggio intestinale si ottiene somministrando (come nella preparazione intestinale a esami o
interventi) una miscela osmoticamente bilanciata di PEG-4000 in soluzione elettrolitica (1500-2000
mL/ora nell'adulto di età maggiore di 12 anni), fino a ottenere un lavaggio rapido e completo
dell'intestino con espulsione dei tossici presenti nel lume: sono raramente necessari trattamenti
per più di 6 ore. L'effetto è più rapido ed efficace rispetto alla catarsi salina, ma la procedura
richiede un impegno maggiore ed è meno tollerata dal paziente. La soluzione impiegata è
isosmotica, e pertanto non provoca spostamento di liquidi o sbilanci elettrolitici: i dati ad oggi
disponibili suggeriscono che gli ingenti volumi necessari per rimuovere meccanicamente pillole,
ovuli di droga o altre sostanze attraverso il tratto intestinale, non provochino effetti avversi
nemmeno in caso di gravidanza o nei bambini. Il paziente cooperante può bere la soluzione,
anche se il notevole volume e il sapore possono limitarne la compliance: è consigliabile
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somministrare il preparato attraverso un sondino naso-gastrico pre-riscaldando la soluzione a 37°
per evitare ipotermia.
Può essere indicato per decontaminare da veleni lesionali, potenti, e da sostanze non adsorbibili al
CVA (es. ferro, litio, metalli in genere), sostanze non rimovibili con la gastrolusi perché di
dimensioni superiori al lume della sonda (es. vegetali in foglia o bacca, farmaci che tendono a
formare farmacobezoari come aspirina, carbamazepina, antidepressivi, ovuli di droga), farmaci in
formulazioni a rilascio prolungato (AACT-EAPCCT, 2004d).
Le controindicazioni sono le stesse della catarsi salina: è consigliabile cautela in caso di instabilità
emodinamica, età estreme e recente intervento chirurgico sul tratto gastroenterico. Se il paziente
presenta alterazioni del sistema nervoso centrale in atto o potenziali, le vie aeree dovrebbero
essere protette prima di iniziare la procedura.
Nausea, vomito e crampi addominali sono le principali complicanze del trattamento, durante il
quale è utile la somministrazione di antiemetici.
IL TRATTAMENTO NELLA FASE POST-ACUTA
La corretta gestione del paziente intossicato in fase post-acuta prevede la prosecuzione dei
trattamenti (specifici e/o sintomatici) e del monitoraggio delle funzioni alterate dal tossico, nonché
l’impiego di accertamenti diagnostici definitivi.
Il quadro clinico in questa fase può evolvere verso la completa restitutio ad integrum oppure con
complicanze e aggravamenti a volte improvvisi. La temporanea assenza di segni o sintomi dopo la
fase acuta non è necessariamente predittiva di una buona prognosi, dato che diverse
intossicazioni sono caratterizzate da un periodo di latenza piuttosto lungo oppure da periodi di
remissione dei sintomi di presentazione prima di un aggravamento (es. intossicazione da funghi
epatotossici).
In questa fase è possibile utilizzare al meglio strumenti diagnostici e analitici che non sempre sono
facilmente disponibili nelle prime fasi della gestione del paziente (es. dati analitici di tipo
quantitativo). Particolari indagini sono inoltre indicate solo a una certa distanza di tempo
dall'esposizione (es. SPECT cerebrale e scintigrafia miocardica nell’intossicazione da monossido
di carbonio).
In caso di indisponibilità di dati analitici specifici, il paziente intossicato deve essere considerato ad
alto rischio e necessita di un attento monitoraggio.
La scelta del livello di assistenza e monitoraggio clinico (intensivo, sub-intensivo, medico) di cui
necessitano i pazienti in questa fase non può essere effettuata solo sulla base delle condizioni
cliniche presenti al momento del primo soccorso, ma deve prendere in considerazione nel modo
più accurato la possibile evoluzione a medio e lungo termine dell'intossicazione. La disponibilità di
competenze tossicologiche può consentire in questa fase una più corretta valutazione del singolo
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caso: si può ad esempio stabilire quale sia il momento più opportuno per un trasferimento reparto
psichiatrico senza esporre a gravi rischi il paziente.
SEQUELE E VALUTAZIONE SPECIALISTICA
Sequele tardive sono possibili come conseguenza dell'esposizione acuta a numerose sostanze
chimiche, specie per quelle che determinano danni lesionali a carico di organi o tessuti bersaglio
(es. monossido di carbonio, morsi di vipera, intossicazioni da funghi e metalli). All'assistenza
massimale che viene prestata nella fase acuta dell'intossicazione, tuttavia, fa raramente seguito
l’adeguato follow-up necessario per una corretta valutazione delle possibili sequele dell'evento:
proprio a causa di questa rilevazione sporadica sono oggi ancora poco note le possibili sequele di
molte intossicazioni.
Il rilevamento delle sequele tardive, e conseguentemente il loro trattamento, è invece possibile
attraverso un adeguato follow-up. Questo è in genere difficoltoso se i pazienti vengono dimessi dai
reparti di cura e rinviati al curante senza specifiche indicazioni, mentre risulta facilmente
effettuabile se il paziente viene indirizzato alla valutazione dello specialista presso il Centro
Antiveleni. Presso alcuni di questi servizi possono infatti essere presi in carico pazienti in regime di
ricovero, di day-hospital o ambulatoriale al fine di concludere il percorso diagnostico-terapeutico
secondo processi ed esami (anche analitici) non facilmente disponibili in altre realtà del SSN.
Il riconoscimento e la corretta valutazione delle possibili sequele tardive consente anche di
valutare in modo più preciso l'efficacia e la sicurezza dei trattamenti impostati nella fase acuta.
ANTIDOTI
Gli antidoti sono sostanze che, con meccanismo specifico o aspecifico, consentono il
miglioramento della prognosi quoad vitam o quoad functionem dell’intossicazione. Essi hanno
quindi un ruolo determinante per la gestione del paziente intossicato anche quando vengono
utilizzati nel contesto di un trattamento plurifarmacologico e unitamente alla terapia di supporto e
alle manovre di decontaminazione. Alcuni antidoti vengono comunemente utilizzati nella pratica
clinica e i loro effetti terapeutici e collaterali sono ampiamente conosciuti; altri sono di raro utilizzo,
e la loro esistenza e disponibilità è spesso misconosciuta, nonostante in alcuni casi siano veri e
propri farmaci salvavita.
In relazione al meccanismo d’azione, l’antidoto è un farmaco in grado di modificare la cinetica e la
dinamica dell’agente tossico attraverso modalità diverse (tabella 3)
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Tabella 3. Modalità di azione degli antidoti
1. Azione sulla cinetica del veleno Esempi di antidoti
a prevenzione dell’assorbimento e riduzione della biodisponibilità del tossico
ipecacuana, carbone vegetale attivato, catartici, calcio, terra di follatore
b rallentamento/inibizione della formazione di metaboliti tossici
alcool etilico, fomepizolo
c accelerazione dell’eliminazione del tossico riducendone il riassorbimento
bicarbonato di sodio, blu di prussia, ammonio cloruro
d modificando la distribuzione del tossico nell’organismo
agenti alcalinizzanti e acidificianti
e legando il tossico rendendolo inattivo Idrossocobalamina, chelanti dei metalli, frammenti anticopali, antitossine, protamina
f accelerando la formazione di metaboliti non tossici N-acetilcisteina, sodio tiosolfato, acido folico
2. Azione sulla dinamica del veleno
a spiazzamento del veleno dal recettore quando il legame con il bersaglio è reversibile
naloxone, flumazenil
b contrasto dell’effetto del tossico a livello recettoriale
atropina, fisostigmina
c riattivazione del bersaglio modificato dal tossico blu di metilene, pralidossima d ripristino della funzione attraverso il by-pass
dell’effetto del veleno glucagone
e apporto di componenti fisiologiche depletate dal tossico
vitamina B6, calcio, N-acetilcisteina, vitamina K
f modificando il legame del tossico con i bersagli bicarbonato di sodio g favorendo la formazione di composti meno lesivi o
inerti simeticone, sodio tiosolfato, calcio, frammenti anticorpali
L’indicazione all’uso di antidoti può essere basata, a seconda della sostanza implicata, del quadro
clinico e del profilo di sicurezza dell’antidoto stesso, (i) sul solo dato anamnestico, (ii) sul dato
anamnestico in associazione al quadro clinico, oppure (iii) può richiedere l’impiego di esami
tossicologici che documentino la gravità dell’intossicazione.
L’efficacia clinica di alcuni antidoti è immediata e risolutiva del quadro sintomatologico: ne sono
esempi naloxone e flumazenil, i quali agiscono come antagonisti competitivi specifici sui recettori
rispettivamente degli oppioidi e delle benzodiazepine. Per tale selettività d’azione, associata alla
sicurezza d’impiego, questi due antidoti possono essere utilizzati anche in situazioni particolari
quali la diagnosi differenziale ex adjuvantibus nell’insufficienza cerebrale da causa non nota. Per
contro, esistono antidoti in grado di contrastare solo alcuni degli effetti tossici di un particolare
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xenobiotico; quindi se la dose del veleno è elevata, è probabile che l’uso dell’antidoto non sia
pienamente efficace, come può verificarsi nel caso dei chelanti, dei frammenti anticorpali (Fab) o
della pralidossima.
Esistono poi quadri di avvelenamento nei quali possono essere impiegati, contemporaneamente o
in sequenza, più antidoti differenti la cui efficacia clinica e i tempi di risposta possono variare
considerevolmente, come nel caso dell’impiego dell’idrossocobalamina e del sodio tiosolfato
nell’intossicazione da cianuri.
Numerosi antidoti sono di importanza fondamentale e rappresentano l’unico mezzo terapeutico in
grado di modificare drasticamente il decorso clinico e la prognosi nelle intossicazioni di una certa
gravità. Tra questi possono essere considerati “salvavita”, ad esempio, i Fab-antidigitale,
l’ossigeno, l’idrossicobalamina, il glucagone e l’atropina.
Dal punto di vista operativo gli antidoti sono stati classificati in base all’efficacia e all’urgenza
d’impiego (Risoluzione CEE 90/C 329/03 e documenti dell’International Programme on Chemical
Safety - IPCS). In base all’efficacia, gli antidoti sono stati classificati come
1. antidoti di efficacia ben documentata (es. riduzione della mortalità negli esperimenti su animali
e riduzione della mortalità o di gravi complicanze nell’uomo)
2. antidoti largamente usati ma non universalmente accettati come efficaci a causa
dell’insufficienza di dati (e che quindi necessitano di ulteriori indagini circa l’efficacia o le
indicazioni)
3. antidoti di dubbia utilità.
Tale valutazione necessita tuttavia di essere integrata con considerazioni di carattere temporale, in
quanto l’efficacia clinica di un antidoto dipende strettamente dal tempo entro il quale esso viene
utilizzato. Ne è esempio l’impiego del naloxone: il farmaco mantiene la sua capacità di spiazzare
l’oppioide dal recettore, ma se per effetto del tossico è insorto un danno anossico cerebrale, il suo
impiego tardivo può consentire una ripresa dell’attività respiratoria senza che a questa corrisponda
una restituito ad integrum della funzione cerebrale. Similmente, gli antidoti che inibiscono la
formazione di metaboliti tossici sono clinicamente utili se impiegati prima che il tossico venga
metabolizzato. Infatti, solo l’impiego precoce dell’etanolo o del fomepizolo nelle intossicazioni da
glicole etilenico e metanolo è in grado di prevenire l’insorgenza del danno d’organo causato dai
metaboliti di tali xenobiotici.
Il corretto utilizzo della terapia antidotica nella gestione del paziente con intossicazione acuta
richiede quindi di conoscere sia l’efficacia dell’antidoto che il momento corretto di impiego.
Entrambi questi fattori condizionano e devono guidare le scelte per l’approvvigionamento e la
disponibilità degli antidoti nei servizi d’urgenza del sistema sanitario nazionale (SSN). Per tale
motivo gli antidoti sono classificati, in termini di urgenza d’impiego, come:
A. antidoti che devono essere immediatamente disponibili (entro 30 minuti)
B. antidoti disponibili entro 2 ore
C. antidoti disponibili entro 6 ore
La preparazione ad affrontare situazioni di emergenza è una responsabilità di tutte le strutture
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deputate al trattamento dei pazienti in fase acuta, e la disponibilità di antidoti è parte di questa
responsabilità. La mancanza di antidoti essenziali può avere effetti drammatici per il paziente
intossicato, sia in termini di sopravvivenza che di sequele permanenti. Ne sono esempi
l’insufficienza respiratoria dovuta all’intossicazione da esteri organofosforici, scarsamente
responsiva alle terapie tradizionali non antidotiche, la cecità che può seguire un’intossicazione da
metanolo o il danno cerebrale da cianuri.
È però noto come la scarsa disponibilità e/o l’insufficiente quantità di antidoti siano un problema
comune nei servizi d’urgenza, e non solo in Italia. Negli ultimi quindici anni, infatti, numerosi studi
condotti in Europa, Stati Uniti, Canada e in altri Paesi hanno documentato che molti antidoti non
sono disponibili negli ospedali dotati di dipartimenti d’emergenza. Anzi, le scorte di antidoti nelle
strutture sanitarie risultano il più delle volte insufficienti anche per il trattamento di un singolo
paziente, e gli antidoti di più raro utilizzo (es. per il trattamento delle intossicazioni da prodotti
industriali) risultano poi spesso del tutto assenti. Sono state formulate diverse ipotesi per
comprendere i meccanismi alla base del mancato approvvigionamento di antidoti, fra cui
prevalgono scarsa conoscenza e scarsa familiarità con questi farmaci da parte di medici e
farmacisti ospedalieri, e il costo talora elevato a fronte di un impiego raro.
Un ulteriore aspetto da considerare è che non vi sono documenti di riferimento per la dotazione
antidotica delle strutture ospedaliere. Dal 1997 le linee guida della Joint Commission on
Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO), ad esempio, indicano che gli ospedali devono
disporre di adeguate scorte di antidoti, ma non indicano le modalità per realizzarne lo stoccaggio.
È compito dello staff medico dell’ospedale e del direttore della farmacia determinare quali siano gli
antidoti di cui approvvigionarsi.
Molti CAV e alcuni testi di riferimento forniscono indicazioni per lo stoccaggio e
l’approvvigionamento di antidoti, ma non esistono linee guida applicabili alle singole realtà
operative dei servizi d’urgenza operativi sul territorio. Un'indagine su scala nazionale relativa alla
disponibilità di antidoti negli ospedali del SSN ha consentito di evidenziare rilevanti carenze nella
disponibilità di antidoti nei servizi d'urgenza degli ospedali del nostro Paese (Locatelli et al, 2006).
Gli antidoti più difficili da reperire risultano i frammenti anticorpali specifici, quelli di più recente
introduzione e più costosi, e quelli per intossicazioni da composti industriali (es. cianuro).
Quand’anche presenti, la “quantità” di antidoti disponibile nei PS risulta spesso inadeguata per il
trattamento di un solo paziente per 24 ore. Sulla base dei risultati dello studio e al fine di rendere
accessibile a tutte le strutture sanitarie del SSN l’informazione su tipologia e quantità di antidoti
presenti sul territorio nazionale, regionale e provinciale (specie per quelli di impiego più raro e
costo elevato), il Centro Antiveleni di Pavia - Centro Nazionale di Informazione Tossicologica ha
realizzato e reso disponibile all’interno del proprio sto (www.cavpavia.it) un apposito database
consultabile gratuitamente on-line, la Banca dati nazionale degli antidoti (BaNdA). Essa riporta gli
antidoti disponibili (tipo e quantità) in ogni singola struttura sanitaria del territorio nazionale che
intenda condividere tali dati e i riferimenti necessari per il rapido reperimento degli antidoti.
La disponibilità di queste informazioni in rete può (a) contribuire a migliorare la corretta
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acquisizione e stoccaggio di antidoti presso ogni servizio secondo criteri che tengano conto della
disponibilità già presente sul territorio, delle caratteristiche operative delle singole strutture e delle
peculiarità geografiche locali, (b) consentire un utilizzo più appropriato delle risorse senza cadere
nell’errata e colpevole carenza di farmaci che, per quanto di raro impiego, sono salvavita, e (c)
contribuire a migliorare l’appropriatezza delle cure fornite attraverso la corretta disponibilità di
antidoti.
LA CONSULENZA DEL CENTRO ANTIVELENI
I Centri Antiveleni sono nati dall’esigenza, codificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, di
rendere disponibili, per chiunque ne abbia bisogno e con operatività 24/24 ore, servizi di
consultazione medica telefonica che rispondano a richieste di informazione concernenti
problematiche tossicologiche. Le modalità operative dei CAV, basate sullo scambio di informazioni
per telefono senza la possibilità di intervenire direttamente sul soggetto intossicato, rappresentano
un esempio unico in ambito sanitario e la prima forma pienamente operante di telemedicina. A
partire dal 1953, anno in cui è ufficialmente sorto negli USA il primo CAV, numerosi centri sono
stati creati pressoché in tutti i paesi sviluppati.
Il contatto telefonico con il CAV è il metodo d’elezione per ottenere informazioni sulla tossicità delle
sostanze e per ricevere indicazioni circa il trattamento dell’intossicazione. I CAV infatti sono
riconosciuti dall’Unione Europea (Risoluzione CEE 1990) come servizi sanitari specialistici di
pubblica utilità “... incaricati di fornire pareri e consigli specialistici in materia di diagnosi, prognosi,
trattamento ed eventualmente prevenzione delle intossicazioni nell’uomo”.
In Italia il 28 febbraio 2008 è stato sancito uno specifico “Accordo tra Governo e Regioni/Province
autonome concernente la definizione di attività e i requisiti basilari di funzionamento dei Centri
Antiveleni” (Rep. Atti n. 56/ESR). Esso definisce e fissa ruoli e funzioni (Tabella 4) di questi servizi
fondamentali per la salute pubblica che “svolgono funzioni specifiche, non riconducibili ad altre
strutture operative” ed essenziali per i Servizi Sanitari Nazionale e Regionali.
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Tabella 4. Sintesi di funzioni e ruoli identificati per i CAV dall’Accordo Stato-Regioni 2008.
1. consulenza tossicologica specialistica, in urgenza e non, agli operatori sanitari delle Aziende Ospedaliere, delle ASL, ai medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, per la gestione dei pazienti con problematiche tossicologiche
2. consulenza tossicologica specialistica per via telefonica alla popolazione in relazione al grado di pericolosità dell’esposizione, alla possibilità di trattamento domiciliare o all’eventuale necessità di ricovero
3. attività clinica specialistica al fine di assicurare la gestione diretta dei pazienti con intossicazione acuta presso il PS e il DEA dell’ospedale in cui è operativo il CAV o presso il proprio reparto
4. attività di consulenza presso altri reparti dell’ospedale e visite specialistiche ambulatoriali 5. identificazione delle necessità di tossicologia analitica clinica a livello nazionale, ai fini di
una razionalizzazione delle risorse esistenti e di una loro migliore disponibilità 6. reperimento, implementazione e continuo aggiornamento di banche dati tossicologiche e di
banche dati relative a tutti i prodotti commercializzati in Italia (farmaci, prodotti per uso domestico, prodotti per uso agricolo, prodotti industriali, ecc.)
7. elaborazione statistico-epidemiologica dei dati relativi alle intossicazioni 8. partecipazione alle attività di sorveglianza, vigilanza e allerta, in collaborazione con il
Ministero della Salute, le Regioni e altri Enti istituzionalmente competenti 9. monitoraggio del fabbisogno e valutazione di efficacia e sicurezza degli antidoti 10. attività di collaborazione, fatte salve le competenze dei livelli istituzionali,
nell’approvvigionamento, gestione e fornitura in urgenza degli antidoti di difficile reperimento
11. supporto tossicologico per la gestione delle urgenze ed emergenze sanitarie derivanti da incidenti chimici, convenzionali e non, ivi comprese le problematiche terroristiche, anche a supporto della Protezione Civile
12. partecipazione a gruppi di lavoro per l’elaborazione dei piani per le emergenze chimiche-industriali in stretto collegamento con gli Organismi ed Enti competenti in materia di Protezione Civile
13. supporto, collaborazione e consulenza nei confronti dei Dipartimenti di Prevenzione e dei Dipartimenti Veterinari delle ASL, dei Laboratori di Sanità Pubblica, degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e dei Dipartimenti Provinciali delle ARPA/APPA per gli aspetti di competenza
14. attività di formazione e aggiornamento in tossicologia clinica rivolta agli operatori sanitari dei Servizi Sanitari Regionali e Nazionale
15. attività didattica rivolta a studenti di discipline sanitarie, nonché attività didattica per la prevenzione e il primo soccorso rivolta al pubblico (sia adulto che in età scolare)
16. attività di ricerca clinica e, ove possibile, preclinica, con particolare riferimento agli aspetti di diagnosi, di trattamento e di prevenzione
17. realizzazione, mantenimento e continuo miglioramento (funzionale, tecnologico, scientifico) di un sistema nazionale in grado di funzionare come una rete integrata sia nei servizi d’urgenza sia in quelli della prevenzione, sia a livello regionale, nazionale ed europeo.
L’attività medico-specialistica presso i CAV deve essere svolta da uno staff di medici tossicologi
esclusivamente dedicato, debitamente formato e continuamente addestrato. L’elevata
specializzazione e le peculiarità funzionali dei CAV richiedono l’organizzazione di strutture
complesse la cui operatività si svolga in modo autonomo, ma sinergico, con altri servizi
eventualmente coinvolti nel percorso assistenziale, sia all’interno della struttura ospedaliera ove il
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CAV ha sede che sul territorio.
La consultazione del centro antiveleni da parte del medico di pronto soccorso appare del tutto
naturale se si considerano l’eterogeneità delle sostanze potenzialmente causa di intossicazione -
si stima che possano essere più di 11.000.000 - e la difficoltà di trasferire nella pratica clinica
informazioni talora aneddotiche e spesso contraddittorie circa le modalità di conduzione dell’iter
diagnostico-terapeutico. I tentativi di diffusione di strumenti informatici di consultazione per
l’emergenza tossicologica affidati al pronto soccorso si sono dimostrati inefficaci, in quanto le
banche dati si sono rivelate ridondanti di informazioni per la gestione dei casi più semplici e
inutilizzabili nei pazienti con presentazione difficile o atipica.
Il ricorso alla consultazione del CAV non è sistematico né costante, ed è fortemente influenzato sia
dall’esperienza individuale sia dal tipo di intossicazione che il medico di pronto soccorso si trova a
fronteggiare. Complessivamente, il CAV è consultato per circa un terzo dei pazienti con sospetta
intossicazione acuta; per contro, problematiche quali le informazioni sul farmaco, le reazioni
avverse da farmaci o gli effetti di esposizioni croniche o prolungate vengono discusse solo di rado
con il tossicologo, nonostante la gestione di tali situazioni rientri appieno nelle competenze
specialistiche di un CAV dedicato alla gestione dei casi complessi.
Il rapporto che si viene a stabilire tra pronto soccorso e centro antiveleni è fortemente condizionato
dalla qualità del servizio reso dal CAV. Il medico d’urgenza necessita di una consulenza medica a
tutti gli effetti, per quanto effettuata per via telefonica, il cui contenuto clinico ed esperienziale sia
evidente e pienamente adattato al paziente in esame (valutazione tailor-made). L’interazione e la
stretta collaborazione clinica tra CAV e PS rappresentano la strategia vincente per ottimizzare
l’impiego delle risorse e assicurare l’appropriatezza delle cure, anche se il percorso gestionale del
paziente intossicato guidato da specialisti possa talvolta apparire più difficoltoso e complesso
rispetto a quanto effettuato d’abitudine. Nella valutazione del singolo problema clinico occorre
necessariamente tenere conto da un lato delle peculiarità del contesto specifico, che comprendono
le caratteristiche organizzative del singolo ospedale, la possibilità di effettuare accertamenti
tossicologici in urgenza e la disponibilità di antidoti, dall’altro delle necessità imprescindibili per la
corretta gestione del paziente.
I motivi di interazione fra pronto soccorso/medicina d'urgenza e CAV non sono rappresentati
esclusivamente dalle telefonate per la “gestione della prima ora”. La prosecuzione della co-
gestione del paziente durante tutto il percorso diagnostico-terapeutico amplia i contenuti della
collaborazione tra medico d’urgenza
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