credoinunsolodio · mi!hanno!detto! “il!terzo ... laggiù!in!fondoun!tavolo.! ......
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credoinunsolodio Sul palcoscenico sta solo un’attrice. Ma sopra di lei devono essere messi tre proiettori di colore diverso, che la inondino ogni volta di tre colori molto riconoscibili e differenti. Ogni volta che si accenderà su di lei un colore, l’attrice diventerà uno dei tre personaggi.
EDEN GOLAN, insegnante di storia ebraica,
israeliana, 50 anni
SHIRIN AKHRAS, studentessa islamica, palestinese, 20 anni
MINA WILKINSON, militare americana,
40 anni
Il 29 marzo del 2002 alle 14:04: ancora non lo so ma mancano un anno, 10 giorni e 8 ore a quello sparo nel bar di Rishon-‐Lezion a Tel Aviv. E’ gum’at: venerdì. Il mio nome è Shirin Akhras, studio Storia della Palestina. Università Islamica di Gaza. L’insegna del negozio di mio padre
3 è sempre più sporca: “Batterie per auto”. Si è cotta per il sole, per il vento, per la pioggia fitta come aghi di questa zona industriale di Erez dove i camion fanno avanti e indietro tutto il giorno. Fisso l’insegna di mio padre. Chissà perché. Sarà forse che nei giorni importanti
-‐ quelli diversi da tutti gli altri – perfino lo sguardo ti cambia e ti fa notare cose che di solito
-‐ nei giorni normali, quelli tutti uguali – nemmeno ci fai caso. Oggi è uno di quei giorni, lo so. Sono mesi che l’ho segnato sul mio diario. Cerchiata la data, con pennarello verde. Da una settimana faccio il conto alla rovescia: meno sette, meno sei, meno cinque, quattro, tre, due, uno: oggi. Ci sono. Entro da mio padre, come ogni giorno prima di uscire: lo saluto. “sabah al-khayr!” “sabah al-khayr!” Buona giornata, senza guardarmi. Poi alza gli occhi, distrattamente, e appena vede come sono vestita inarca un sopracciglio: capiterà una volta ogni sei mesi che io mi vesta così, all’occidentale. Non è da me, lo so.
4 Gli faccio cenno che per me è tardi, apro la porta e me ne vado. Da qui all’Università Islamica di Gaza la strada non è lunga: la faccio ogni giorno, prima a piedi, poi l’autobus, stretti incastrati tutti con la mia borsa piena di libri: ben chiusa. Perché mi vergogno, davanti alle altre, di poter studiare. Figlia che studia uguale famiglia benestante. Famiglia benestante uguale compromesso. Compromesso uguale tutto l’opposto di me. La fermata dell’autobus a cui scendo ogni mattina è la dodicesima da casa. Stamattina però no. Stamattina è quasi al capolinea. Dall’altra parte: in fondo alle case, mi hanno detto “il terzo capannone industriale, dopo l’angolo, a sinistra, c’è un muro di calce grigia con su una scritta Fahya Abdel Hadi”. Ecco: è lì. E’ lì che vado al mio primo incontro per diventare martire, martire di Al-‐Qassam.
Il 29 marzo del 2002 alle 14:04: ancora non lo so ma mancano un anno, 10 giorni e 8 ore a quello sparo nel bar di Rishon-‐Lezion
5 a Tel Aviv. Il mio nome è Eden Golan. Insegno storia ebraica. O meglio: insegno la storia di tutti, ebrei e non. Per millenni è la stessa. Ma io la insegno col punto di vista degli ebrei. Ogni volta che parto in aereo, quando decolliamo dalla pista, mentre i palazzi diventano piccolissimi e le città stanno dentro una mano, ogni volta penso a questo: al mio mestiere. Perché là sotto, piccoli come formiche, minuscoli, dentro le teste più piccole di capocchie di spilli, facciamo la guerra dei punti di vista. Visto dal basso è un dramma: ci stai nel mezzo. Visto dall’alto in fondo è buffo. Una commedia? Una farsa? Fatto sta: io ne faccio parte.
Il 29 marzo del 2002 alle 14:04: ancora non lo so ma mancano un anno, 10 giorni e 8 ore a quello sparo nel bar di Rishon-‐Lezion a Tel Aviv. Mi chiamo Mina Wilkinson, americana donna e soldato. Reparti di appoggio. Aiuto d’oltreoceano. Più o meno dichiarati. Fatto sta: ci siamo.
6 Sono sei ore che siamo qui fuori, con i mitra puntati, le radiotrasmittenti accese. Sei ore. Asserragliati, stretti, fra il blu delle sirene della polizia e il verde metallo dei mezzi corazzati. Sissignore. Anche noi. Anch’io. Credo che anche a casa mia, oltre l’oceano, a Minneapolis, sia da poco passata Pasqua. Credo. Penso. Mi sembra. Più o meno Pasqua cade sempre adesso, anche se ogni anno cambia giorno, potrebbero fissare un giorno sempre quello, sarebbe più facile da ricordare, come Natale che è sempre lì a dicembre e ci puoi rimettere l’orologio. Non capisco perché non si mettono d’accordo per trovare un giorno fisso anche per Pasqua, se no come si fa a pretendere che uno oltre al lavoro la famiglia e il resto si ricordi pure di calcolare quando è Pasqua. E poi Pasqua comunque è meno bella di Natale. Non ci sono feste né decorazioni, e le vacanze durano di meno. Fatto sta: eccoci qui. Schierati, tutto intorno
7 a quella catapecchia di cemento grigio nel villaggio di Kafrkasim, sulla strada per Rosh Ha’ayn. Un cubo di calcestruzzo, con piantata sul tetto un’antenna. I profughi quel cubo lo chiamano casa e ci abitano perfino. Ora lì dentro c’è un palestinese di 40 anni che si è preso due ostaggi ebrei e minaccia da sei ore di fargli saltare il cervello. Lo farà? Non lo farà? Per ora grida e basta, da sei ore, urla che busserà in Paradiso con i teschi dei sionisti.
“Le radici del sionismo” Titolo della tesi di una mia allieva. Che ho riempito di correzioni. Perché non sono integralista, non voglio esserlo. Insegno storia ebraica, certo. Proprio per questo non sono integralista. Se c’è un antidoto all’integralismo – lo dico sempre-‐ è proprio la storia: ti insegna a stare in ascolto. Sempre. Io mi sforzo di farlo. E se una tesi è di parte, la correggo. Ricevo decine di studenti a settimana. Ho il mio ufficio, al terzo piano, corridoio C. “Professoressa Golan”: sta scritto sulla porta. Oggi però imbiancano tutto il Dipartimento: proibito l’ingresso. La mia allieva che si deve laureare
8 mi ha scongiurato di incontrarla. E ho fissato a un bar. E’ yom shishi: venerdì. La mia allieva ancora non si vede. Ma non sto in pensiero. Aspetto, seduta su una sedia scomoda di ferro grigio al tavolino del bar davanti al magazzino Supersol di Kiryat Hayovel, periferia di Gerusalemme. C’è chi dice che qui ogni ritardo non è mai casuale: significa sempre, significa qualcosa. Io non ci faccio caso. Mi sforzo, ecco, di non farci caso. Solo per curiosità scruto la strada, fino laggiù, fino in fondo: se la mia allieva arriva in autobus scenderà alla fermata qui davanti. Fuori da questo bar seduti sul ciglio della strada a un tavolino tre ebrei russi giocano a scacchi: concentratissimi, isolati dal resto del mondo, da me che li guardo, dai clacson, da tutto. Non fa freddo oggi. Ho tolto perfino il cappotto e la mia sciarpa di lino leggera: li ho appoggiati sullo schienale della sedia.
9 Le macchine scorrono, avanti e indietro, vomitate come lava da un vulcano, ininterrotte, in fila, dallo svincolo della circonvallazione che come un anello stringe la città, tutto intorno, come una collana sul collo di una donna, collana tutta fatta di blindati, di carri armati, di autoblindo. E clacson. L’aria è secca, dà quasi noia alla gola. La porta di vetro del supermarket si apre e si chiude, senza interruzione, dall’altra parte della strada, come un imbuto, sotto gli occhi stanchi di una guardia giurata. La porta quasi mi ipnotizza: apre e chiude, chiude e apre, di continuo, come una bocca. La gente è tanta, mi dico, proprio tanta. Sarà che fino a ieri era tutto chiuso per Pasqua. Entrano senza niente, escono pieni di sacchetti con la scritta Supersol. Vecchie, bambini, ragazzine con le trecce, ragazzi con le trecce pure loro, le peies, lungo gli orecchi, giù, come gli elfi. Escono, entrano. Una folla. E fra nemmeno quattr’ore chiuderà di nuovo, per Shabbat, come tutti i venerdì al tramonto: suoneranno le sirene, in tutta Gerusalemme, per ricordare a ognuno che è Shabbat: ci chiuderemo in casa e buonanotte.
10 Io seduta dall’altra parte della strada aspetto un’allieva che non ritarda mai. “Che ore sono?” chiedo agli ebrei russi ma sono troppo presi dagli scacchi e nemmeno mi sentono. “hasha’a shtàim ve’èser” “sono le due e dieci” mi risponde però una voce d’uomo, mentre mi passa accanto. E’ la guardia giurata del Supersol, in divisa verde col cappello azzurro, che nel frattempo ha attraversato la strada ed è venuto qui al bar a comprarsi liter màim, un litro d’acqua. Appuntata sul petto la targhetta con il nome: “Haim Smadar”. L’appuntamento era per un quarto alle due. Venticinque minuti che sto qui ferma. E quando mi annoio mi viene sempre fame. Cerco in borsa e tiro fuori una delle mie matzot, le gallette senza lievito che si mangiano alla Pasqua ebraica. Mi dico: non dovrei comprarle, mi fanno ingrassare, le matzot. Ma sono buone, le mie preferite. E poi non è Pasqua senza matzot. Da dentro il bar si sente forte e chiaro il notiziario radio. Un arabo che a Gaza ha pugnalato due dei nostri, e uno di Hamas che è saltato in aria mentre preparava la sua bomba. “un incidente sul lavoro, né più né meno” bofonchia uno degli ebrei russi che stavolta si distrae eccome dagli scacchi. “Anzi, meglio: uno di loro in meno.”
11 gli dice il barista e continua a lavare i bicchieri. Io non intervengo. Addento una matza, per distrarmi.
Cammino. Una radio accesa dentro uno scantinato dice di uno dei nostri a Gaza che ha pugnalato due dei loro. E di uno di Hamas che è saltato in aria mentre preparava la sua bomba. C’è un rapporto stretto profondo fra il martire e il suo esplosivo. Questo lo so già. Mi riguarda. Cammino. Non c’è anima viva in questo posto, solo palazzi mezzi sventrati e depositi industriali. Strano posto per incontrare una candidata martire. Svolto l’angolo. Avvisto il muro, riconosco la scritta. C’è solo una porta, al terzo capannone. Lamiera verde. Su un lato l’insegna “na’ibat”: “rappresentanze”. Busso. Uno zip elettrico e la serratura scatta. Entro.
12 C’è molta luce qui dentro. Neon accesi corrono sul soffitto. E lo spazio è enorme. Laggiù in fondo un tavolo. Ci stanno seduti intorno, in tre. E davanti, nel mezzo, una sedia. E’ lì che devo andare, immagino. Nessuno parla. Mi faccio avanti. E sto per sedermi, quando escono fuori a salutarmi Ayat e Wafa, le mie due amiche dell’Università che mi hanno fatto conoscere l’Organizzazione. Ayat è una ragazza alta, gli occhi potenti e scuri, una voce limpida che le diventa straordinaria quando legge a voce alta i versetti del Corano. Wafa è più piccola. Sta spesso zitta, ma non le sfugge nulla. Ha una cicatrice sul viso, sulla guancia destra, come la lettera gayn lasciata come un marchio. Mi siedo. I tre mi fissano. “Il fatto che tu sia stata ammessa al colloquio non vuol dire che sarai reclutata.” “Sono qui per dimostrare che valgo.” “Quali sono i 5 comandamenti dello Shahid?” “Servire la causa, vendicare chi ci hanno tolto, operare nel nome di Allah,
13 cambiare la situazione senza attendere, non chinare la testa a chi ci occupa.” “Al-Qassam è una brigata speciale: non ci permettiamo errori. E chi ci ha parlato di te dice che sei determinata.” “Sono dieci mesi che chiedo di incontrarvi.” “Hai risposto correttamente a tutti i nostri moduli. Le tue motivazioni sono state ritenute convincenti. E chi ti ha osservata conferma che hai un modo di vita coerente. Ma non basta. Per essere reclutata come eroina devi convincerci che il tuo animo è pronto. Non la tua testa, non la tua volontà: è il tuo animo che deve darci la prova di essere forte. Perché tu non rinunci a causa sua.” “D’accordo. Che devo fare?” “Le prove sono due, per tutti. Se le superi, sarai ammessa al martirio per le Brigate Al-Qassam.” “Accetto.” “E noi accettiamo di sperimentarti. Fra due mesi, il 29 maggio, fatti trovare al check-point del valico di Erez, ingresso nord della striscia di Gaza. Vedrai una ragazza zoppicare. Sarà vestita di giallo con un velo marrone. Si avvicinerà ai soldati, chiederà di passare il valico senza farsi perquisire, loro glielo negheranno, lei farà polemiche loro chiameranno i superiori. Quando vedrai intorno a lei
14 una folla di almeno 6 persone, chiama questo numero cellulare che è collegato all’innesco. E così sarai tu che la farai saltare. Uno di noi sarà lì fra la folla a controllare: se non avrai coraggio saremo comunque noi a farla esplodere ma tu sarai fuori.” La mia amica Ayat si avvicina, mi dà un numero di telefono scritto su un biglietto. Devo annotarlo sul mio telefono, lo faccio subito: 45.61.37.02 Già preparato. Pronto. Sorrido ad Ayat, mentre Wafa mi stringe forte le mani. Dopo un anno e oltre ora sto per entrare nell’Organizzazione, a tutti gli effetti. E dalla porta principale.
Negli Stati Uniti, a casa, una volta ho assistito a un sequestro. Con gli ostaggi, sì, due ragazzi. Stavano dentro una banca. O forse no, era un ufficio postale. I sequestri da noi si fanno dove stanno i soldi. Banca. Ufficio postale. Qui no. Da qui, dove sto, dove mi hanno messo, li posso vedere tutti e tre:
15 il palestinese con la kefiah al collo e i due ebrei con la faccia schiacciata contro il vetro della finestra, dietro le tendine. Li tiene lì, come in vetrina, con un fucile puntato sopra la testa. Fino a qui niente di strano: ieri l’altro è successo a Balata, fuori Nablus: la stessa storia con tre ostaggi nel reparto vini di un supermercato, -‐sempre quello scelgono, il reparto vini, perché l’Islam non permette l’alcol -‐ comunque lì è andata liscia: a un certo punto le teste di cuoio hanno fatto irruzione, sangue a fiotti in mezzo al vino, rosso con rosso, mimetizzato, due passate di straccio, tolti i vetri, cadavere nel celophan e tutti a casa. Sistemato. Ma qui oggi fuori da questo cubo-‐casa di Kafrkasim c’è di mezzo di sicuro il “contrattempo”. Il contrattempo, sissignore. Perché se hanno chiamato anche noi americani, -‐ come dicono loro “gli occidentali” -‐ allora vuol dire che c’è “the hitch”. “The hitch”: Vuol dire più o meno “il contrattempo”. Ma dietro la parola c’è tutta un’altra cosa. E chi come me sta buttato qui da qualche anno ormai l’ha capito che vuol dire. L’ha capito piuttosto bene. Il contrattempo scatta ogni volta
16 che fra i due – gli arabi e gli israeliani – non si sa chi ha cominciato. Non si sa chi ha colpa. Non si sa chi è la vittima e chi ha aggredito. Insomma, quando il dio di questi e il dio di quelli combinano un gran casino e c’è rischio che salti tutto in aria: allora chiamano noi. Gli occidentali. Noi. Venuti dall’altra parte del pianeta terra fino quaggiù in questa parte impazzita di mondo dove appena ti giri c’è un dio diverso che grida “proprietà privata” e l’altro che risponde “prima io”. Sissignore. Mi guardo intorno. La polizia israeliana ha fretta di chiudere: fra poco scatta la sirena di Shabbat. Perché qui in questa parte di mondo dio si mette pure a suonare le sirene, oltre a comandare coi megafoni i digiuni. Dove sta questa volta il contrattempo? La nostra funzione qui è sentire tutti e due, farci un’idea, capire. E poi decidere che fare. Non perché sia giusto. Il comandamento è sempre “quello che conviene”. Per questo agli addestramenti -‐prima di buttarci in questa parte di mondo -‐
17 ci dicono che il trucco è sempre lo stesso: “non solidarizzare mai troppo” “schierarsi fuori ma non schierarsi dentro”. Sissignore. Qui ora per esempio siamo di principio contro l’Islam, ma quando stavamo nella merda laggiù in Bosnia -‐ sui camion verde ramarro a Sarajevo -‐ battevamo pacche sulla spalla ai mujaidin, tutti insieme contro lo stronzo serbo. Conveniva. Sissignore. Conviene. La polizia israeliana sta tutta concentrata, in un angolo, alla destra del cubo grigio. Quelli dello Shin Beth ci dicono che il palestinese è un filoterrorista, pericoloso, affiliato alle Brigate dei Martiri di Al-‐Aqsa. Ha esplosivo in casa – dentro il cubo – per far saltare in aria uno dei loro dentro l’ospedale Bikur Holim. Che aspettiamo? Abbiamo i tiratori pronti e il gruppo d’assalto: dateci il via e gli piantiamo una scarica di colpi dritto in fronte, liberiamo gli ostaggi e via tutti a casa che fra poco è Shabbat. I palestinesi, parenti, amici del sequestratore dentro il cubo stanno dalla parte opposta, una folla, rumorosissima, arrabbiata, sissignore, come quando uno dei loro si fa saltare e scendono per strada secondo gli usi
18 a regalare praline e caffè. La loro versione è molto diversa. Ci dicono che il palestinese è un uomo tranquillo, non fa parte di Hamas né della Jihad. Esplosivo in casa? Neanche per sogno: Azim – così si chiama – è un laico, non un fondamentalista, fa il fornaio, è solo che gli hanno fatto perdere la testa. Perché gli sono entrati in casa, la sesta volta, come fanno gli israeliani nei villaggi profughi: hanno buttato giù la porta, con la scusa dei controlli, gli hanno strappato il materasso, squarciato il divanetto, hanno fracassato a terra tutti i piatti per cercare fra gli scaffali in cucina e quando è tornata a casa sua moglie Latifa le hanno messo una mano fra le cosce: Azim ha perso la testa, dicono, ha afferrato il fucile di suo padre, va capito, dicono, va capito. Sissignore. Eccolo qui, il contrattempo. The hitch. Noi occidentali buttati qui dall’altra parte del pianeta per fare da pacieri fra un dio e l’altro, fra Hamas, Mossad, Shin Beth e Jihad, alla fine stiamo qui solo per questo: per prenderci la responsabilità. Metterci la firma. Sissignore. Pesare la bilancia, dov’è che più conviene. Tanto a che serve?
19 In qualunque modo vada a finire, oggi, qui, -‐ dentro quel cubo grigio chiamato casa -‐ ci sarà comunque domani qualcuno che vendicherà l’affronto. In Jaffa Road qualcuno si farà saltare per il dio offeso di Aziz. O a Betlemme qualche ragazza araba sarà violentata e sfregiata da finti agenti del Mossad. Sbadiglio. Che palle. Sissignore. Lo stomaco mi si muove: ho fame. Ecco, sì, penso a cosa mangerò stasera mentre i nostri danno il via libera all’azione. Il boato dell’intervento, il fracasso dei vetri, la luce dei mitra. In trenta secondi Aziz è già morto. Liberi gli ostaggi. Applausi di qualcuno, maledizioni di altri. La folla che urla. Bandiere bruciate. Conveniva dar ragione agli israeliani. Il notiziario dirà: “pericoloso terrorista ucciso a Kafrkasim.” E anche oggi è andata.
20 “Pericoloso terrorista ucciso a Kafrkasim” dice il notiziario mentre la mia allieva ancora non si vede. “Pericoloso terrorista ucciso a Kafrkasim” lo dice con un certo sollievo, come se il primo comandamento fosse sempre “La Sicurezza”. E un terrorista in meno fa star meglio. Sarò stupida. Sarò diversa. Ma questa fissazione della Sicurezza non è la mia. L’autobus intanto sfiata e richiude gli sportelli, si riassesta, sbuffa, riparte. Delle donne che ha scaricato giù, due attraversano la strada verso il Supersol. L’altra, una ragazza col velo in testa, entra dentro il mio bar. Passando mi sfiora il cappotto e fa cadere la sciarpa a terra. Si ferma. Si inchina. La raccoglie. Me la porge. Ha un naso piccolissimo, un po’ a punta. E le labbra disegnate, sembra una bambina, forse lo è: una di quelle che recitano poesie sulla tv palestinese, le bambine modello dell’Unrwa, la scuola dei profughi. Ecco: una ragazzina palestinese si è fermata a raccogliermi la sciarpa: una ragione in più per non odiarli. Fisso la reclame appesa fuori dal Supersol: pacchetti di matzot in svendita, come sempre dopo Pesach.
21 Ci penso un momento, dico “Ma sì: perché no? Compriamole.” Quando la mia allieva arriverà, la vedrò dalle vetrate del Supersol: e poi se ho aspettato io, aspetterà anche lei. Ho deciso, sto per alzarmi ma è in quel momento che qualcosa mi urta, da dietro le spalle, mi giro di scatto: una ragazza, diciassette anni al massimo, si sta allacciando le scarpe da ginnastica. Appeso a una spalla porta uno zaino, mi ci vuole un secondo per capire che mi ha colpito per sbaglio, con quello: si rialza, salta in piedi, si gira, trova il mio sguardo, poi fa “Che c’è da guardare?” con gli occhi enormi dilatati sgranati aperti -‐ sì: presuntuosi -‐ come un punto di domanda, come due mitragliatrici, due fanali d’automobile o d’autoblindo, di quelli che scorrono anche adesso davanti a noi, giù, dalla circonvallazione, sfilando dall’uscita Jerushalaim ma’arav: Gerusalemme Ovest. Le dico “Quando ti muovi fa’ più attenzione”. Lei scrolla le spalle, fa una smorfia come dandomi di scema, si fruga in tasca, tira fuori un biglietto, la lista della spesa, poi attraversa la strada, verso il Supersol. La seguo con lo sguardo,
22 mentre prende un carrello, ci mette dentro lo zaino, rilegge la lista sul biglietto. Anche la bambina col velo in testa, -‐quella educata-‐ attraversa la strada verso il Supersol, io raccolgo il cappotto, ripiego la sciarpa di lino leggero, sto per seguirla quando da un autobus che sfiata sento chiamarmi “Professoressa Golan! Scusi il ritardo!” Con la coda dell’occhio dall’altra parte della strada vedo la guardia giurata che lascia passare la maleducata con lo zaino e ferma la bambina con il naso a punta: penso “avrei fatto il contrario!” Mi giro alla mia allieva, le dic… L’esplosione è potentissima. Ci butta a terra, tutte e due, fra i vetri del Supersol che schizzano fino qui, le macchine inchiodano, i carrelli con la spesa buttati per strada, come proiettili, catapultati, le sirene delle auto in sosta, le grida, il silenzio, nel fumo il cadavere a terra sfatto buttato della guardia giurata con la targhetta “Haim Smadar”, il corpo aperto in mezzo bucato
23 della ragazza con lo zaino. Quello della bambina col naso a punta non c’è più. E’ saltato in aria, non c’è più. E’ scomparso, volatilizzato zero nulla niente dissolto in cento mille pezzi appena ha tirato la sua cordicella collegata a dieci chili di tritolo: non esiste più, è come i sassi della strada, come i pezzi minuscoli dei vetri, come le pedine degli scacchi sparpagliate sull’asfalto fino ai miei piedi e ancora più in là. Tossisco. La polvere in gola. Apro gli occhi, lentamente: ci sono. Faccio l’appello di tutto il mio corpo. Esisto. Sopravvivo. Continuo. Rinasco. Chi scampa a un attentato resta vivo
24 ma con la morte fissa in testa. E quella morte che qualcuno non ha dato a te rimane sospesa, come un debito, di cui dovrai prima o poi liberarti. Queste parole mi girano in testa. Le ho sentite giorni fa, in televisione, da una donna dopo una bomba a Nablus. E’ il 29 marzo del 2002: ancora non lo so ma alla mia morte nel bar di Rishon-‐Lezion a Tel Aviv mancano un anno, 10 giorni e 8 ore .
Ci siamo. Ripeto. A memoria. Dentro di me. Ancora. 45.61.37.02 45.61.37.02 Il telefono stretto in mano. Il dito già sul 4, pronto. 45.61.37.02 Ieri ho passato il pomeriggio a riepilogare tutto. La mia amica Wafa sempre con me. Ayat ci ha raggiunte più tardi: perché ha un figlio piccolo, Ayat. Abbiamo simulato perfino la scena.
25 Mi hanno detto “Pensare è una cosa, Shirin, fare è un’altra: vogliamo vedere come ti comporti: fa’ tutto come fosse vero.” E ho fatto ogni cosa. Compreso il numero sul cellulare. Le dita. I tasti. Come fosse vero. 45.61.37.02 Come fosse vero. Wafa mi ha detto: “qui ci sarà il botto: preparati al contraccolpo”. Sono preparata. Anche al contraccolpo. Sono preparata ai vetri, alla polvere, al sangue. Ayat sorride: è fiera di me. Appena tutto sarà finito, la chiamerò per dirle “l’ho fatto”. 45.61.37.02 L’aria stamattina è gialla. Sembra che non sia aria: sabbia. Respiro la sabbia? E sia. Deglutisco, butto giù: sabbia. 45.61.37.02 Com’è che le mosche, così piccole, fanno un rumore che mi sembra enorme? Quando volano vicino agli orecchi, diventano elicotteri. Loro: minuscole. Eppure gigantesche. Ne scaccio una. Poi un’altra. Mi fisso il dorso della mano. Trema. E non vorrei tremasse. Va bene, che mi importa?
26 Tremi pure. L’importante è che faccia il suo. Che al momento non si tiri indietro, come dice Wafa. Andremo a mangiare insieme stasera. 45.61.37.02 Tengo gli occhi fissi sugli autobus, quando arrivano al valico. Aprono le portiere, scaricano gente. Via. Aprono le portiere, scaricano gente. Via. Prima o poi scenderà chi aspetto. Una ragazza zoppa. Abito giallo. Velo marrone. E’ tutto quel che so. 45.61.37.02 Mi sforzo di sorridere. Perché mi sembra che tutti guardino me? Fingo spensieratezza. Cosa fa una persona spensierata? Imito gli altri, le altre, intorno a me. Metto a posto i capelli sulla fronte, sotto il velo. La mia mano trema. Perché sembra che tutti guardino le mie mani? Le metto in tasca. Il telefono stretto. Un autista di taxi, seduto sul cofano, sfoglia il giornale. “Ebrei estremisti devastano cimitero” Questo è l’unico posto al mondo dove neanche i morti risposano in pace. “Polizia israeliana copre i pestaggi” “Razzi israeliani sulla Striscia” Neanche a farlo apposta: se fossi indecisa, se dovessi esitare
27 -‐ se la mia mano trema -‐
ecco una lista di buone ragioni. Rileggo da capo i titoli in prima pagina: “Ebrei estremisti devastano cimitero” 45.61.37.02 “Polizia israeliana copre i pestaggi” 45.61.37.02 “Razzi israeliani sulla Striscia” 45.61.37.02 Ieri pomeriggio io, Wafa e Ayat non avevamo proprio pensato che lì sul posto potesse esserci un aiuto così forte: elenco di ragioni, come un calcio nel sedere per far quel numero sul cellulare e sia quel che sia. L’autista di taxi sbadiglia. Gli squilla il cellulare. Identico al mio. Non sa che fra pochi minuti davanti ai suoi occhi salterà fuori un’altra notizia per il giornale di domani. Qui la storia si fa in diretta. Basta fare un numero di telefono: 45.61.37.02. Non smette di sbadigliare, l’autista. Nemmeno quando arriva sgommando un suo collega, su un taxi vecchio, l’autoradio accesa, a tutto volume, con su una predica dell’imam Marwan: “cosa risponderai se ti chiederanno cos’hai fatto, tu,
28 contro la sciagura di Ramallah?” Dallo sportello posteriore del taxi spunta fuori una macchia di stoffa gialla. E il velo, sì, è marrone. “cosa risponderai se ti chiederanno cos’hai fatto, tu, contro la sciagura di Ramallah?” Stringo il telefono nella tasca. Potrei quasi spezzarlo, tanto lo stringo forte. “cosa risponderai se ti chiederanno cos’hai fatto, tu, contro la sciagura di Ramallah?” La figura gialla si allontana dal taxi: si allontana lentamente, si allontana zoppicando. Tiro fuori il telefono dalla tasca. Il mio dito è sul tasto 4. Fisso la macchia gialla, che ora viene dalla mia parte, verso il check-‐point di Erez. “cosa risponderai se ti chiederanno cos’hai fatto, tu, contro la sciagura di Ramallah?” quando passa davanti a me, marrone e gialla, zoppicando, non posso fare a meno di fissarle le mani: le sue non tremano. Immobili. Perfette. E’ poco più che una bambina. Insignificante. Come le mosche, penso: come le mosche nel mio orecchio, così lei fra poco farà un rumore immenso, più che dieci, venti, cento elicotteri. Passa oltre.
29 Si ferma al check-‐point. Sento le voci. I militari insistono. Accorre un altro, poi un altro. Il mio dito è sul numero 4, un altro dito già pronto sul 5, ecco, ora, è il mio momento: 45.61.37… qui mi fermo la mia mano è bloccata non mi risponde più non è più mia sta ferma in aria come un fermo immagine di un film, mi mordo un polso coi denti, non succede niente: è immobile non è più mia ho fallito non è più mia ho fallito non ce la faccio non ce l’ho fatta ho fallito ho… Qui mi sveglio. Sudata, fradicia. Non è ancora giorno. La mia amica Ayat ieri mi ha detto “l’attesa è peggiore che farlo.” Aveva ragione. L’attesa, sì. Fra poche ore avrò la mia prova.
30 45.61.37.02 Ragazza gialla, velo marrone. Zoppicherà. Guardo la sveglia: le 4:21.
Sudata, fradicia, come mi fossi appena fatta un bagno in vasca. Con le mani indago il resto del letto: è diventato un lago. Io ci sto a galla. Apro gli occhi, nel buio della mia camera, fisso la radiosveglia sul comodino: le 4 e 21. Solita scena. Solita ora, minuto più, minuto meno. Solito lago, e io ci sto a galla. Mi hanno detto che è normale. Chi scampa a un attentato resta vivo ma con la morte fissa in testa. Quello che non mi hanno detto è che la morte bussa soprattutto di notte, appena chiudi gli occhi, appena abbassi il controllo, appena la Natura vuole che tu dica “riposo, mi fido: buonanotte.” Ecco Appunto: no.
31 Da quando mi sono rialzata in piedi, là per strada, fra la polvere e i vetri del supermarket, è come se la morte mi stesse a fianco. Sempre. E non la morte a cui sono scampata. Dico la morte loro. Quella che se potessi… Vendetta? Scambio. Ma che sto dicendo? Quant’è vero che di notte, quando ti svegli di soprassalto, viene a galla una parte di te che non sapevi… Voglio la loro morte, io? Cerco questo? Cerco vendetta? Io? Io che faccio parte dei comitati “per il dialogo”? Io che ho sempre pensato “dobbiamo trovare una via”? Io? Vabbene. Confesso. Che ci posso fare? Non voglio vendetta, voglio sicurezza. Ecco, sì, è questo: sicurezza. Ora che sono uscita viva per un pelo, non voglio che succeda ancora. Sicurezza. Solo sicurezza. Me li sento intorno, dappertutto. In questo momento, anche. Sopra il soffitto. Che c’entra il dialogo se noi usiamo la testa e loro il tritolo? Ma che diavolo sto dicendo? Come se noi non buttassimo i razzi. Un momento: i razzi servono a punire.
32 Per sicurezza. Ecco: sicurezza. Non è quello che chiedo? Non è quello che voglio? Ma che sto dicendo? All’improvviso mi vanno bene i razzi? Non ho sempre detto che “due errori non fanno una verità”? Ora a un tratto non più? Mi rigiro nel letto. So che sparissero tutti, ora, adesso, mi sentirei contenta. Morte? Morte. Sono impazzita? Cerco un antidoto, non ci riesco. Ho scritto decine di libri, articoli, saggi. Ho motivato in mille modi che abbiamo le stesse radici. Noi e loro. Noi e tutti. Stessa creazione. Stessi profeti. Stessa città, stessa terra. Stessa aria. Eppure… Eppure sono viva per miracolo. Eccomi. Allora? Con gli occhi spalancati dentro un lago di sudore. Io qui, nel mio letto, con un terrore matto di dirmi che forse… forse… e se i miei libri fossero carta straccia? Se fossero teorie? Se fossero solo discorsi, sì, dico: se fossero solo parole?
33 L’esplosivo non chiacchiera, lui. Il tritolo non conosce i profeti e la storia. Scoppia. E basta. Gliene frega al tritolo se le radici sono le stesse? Mi rigiro nel letto. Magari la testa fosse come un televisore, che si spegne e basta. Mi rigiro nel letto. Perché ora mi sento indifesa? Vorrei qualcuno mi dicesse che da domani ci sarà un muro. Enorme. Altissimo. Lo voglio insuperabile. Un muro fra noi e loro. Noi coi nostri. Di qua. Loro coi loro. Di là. Solo così potrei fare i miei bei discorsi: stesse radici, certo. Stessi profeti. Ma nel mezzo comunque c’è il muro. Mi rigiro nel letto. Il guanciale è un tormento. In fin dei conti questa storia del muro non è quello che vogliono loro? Diamoglielo e basta. Uno stato, un confine, una… Già, certo. E chi lo decide? Loro? Solo perchè hanno il tritolo? Se abbassassero un po’ la testa… Chi sta parlando dentro di me? Non sono i miei pensieri, non è la mia testa, questa. Se solo potessi dormire, riprendere sonno… Domani mattina, con la luce,
34 vedrò le cose in un modo diverso. Domani mattina, con la luce, porterò fuori il cane, tutto sarà tranquillo, domani mattina, con la luce, comprerò al bar due dolcetti caldi, domani mattina, con la luce, sfoglierò il mio giornale e… chi altro si sarà fatto saltare? Non saremo mai al sicuro -‐non sarò mai più io al sicuro – finché uno solo di loro… Basta. Mi alzo. Le 4:30. Un’altra notte in bianco.
Ecco: l’ennesima. “Kamikaze al check-point del valico di Erez: otto le vittime, veri i feriti. Ieri mattina una ragazza di età non definita si è fatta esplodere con un congegno probabilmente azionato da un cellulare. Vestiva di giallo, è stata vista zoppicare. Attentato rivendicato in serata dalle Brigate Al-Qassam.” Ormai neanche ti sorprendono, questi titoli di giornale che tutti i giorni sono un bollettino di guerra, cento volte peggio che in guerra aperta.
35 Noi occidentali di stanza qui in Medio Oriente li leggiamo con la coda dell’occhio, fra gli articoli di sport e le previsioni del tempo. Impossibile capire cosa giri in quelle teste strane -‐dico io: contorte – per farsi saltare in aria magari col sorriso in faccia. E i parenti, fratelli, sorelle, giù tutti a festeggiare. Posti strani, questi. Dove la malattia sta dentro le teste, giù giù, infilata, che se la prendono fra loro come bestie ma poi alla fine tutti uguali sono. Hanno questa cosa della legge. Ma non la legge vera, no. Quell’altra. La religiosa. Non lavorano il sabato, perché così è legge. Non lavorano per le feste, perché pure questo non si può. Tutto così. Non mangiano questo, non bevono quello, non dicono questo, non osano quello. Perfino barbe, capelli, cappelli: tutto regolato. E’ un labirinto. Da impazzire. Questi e quelli, tutti e due: uguali. Oggi siamo di sorveglianza – assegnati – a un posto di blocco. Il contrattempo ha a che fare con le ambulanze. Ci hanno detto di fermarle.
36 Tutte. Nessuna esclusa. Perquisirle. Antiterrorismo. Le ambulanze? Le ambulanze. Pare che il trucco sia questo: quelle che vanno a farsi saltare in aria si imbottiscono di esplosivo e si infilano su un’ambulanza. Accendono le sirene, corrono verso i posti di blocco, si accostano un attimo, dicono “abbiamo una donna che sta per partorire”. Tu guardi dentro, vedi in effetti una ragazza che si lamenta, non insisti. Avanti. Via di qui. E loro se ne vanno. In qualche pub, a farsi esplodere. L’ultimo è stato ieri. Da stamattina, ordine: fermare le ambulanze, controllarle a fondo. Nessuna esclusa. C’è chi deve partorire? Aspetterà. Noi siamo qui per rinforzo. E non solo, visto che da un po’ si fanno saltare sempre vicino alle ambasciate. Perché poi è così che finisce, che nella guerra fra il dio di questi e di quelli ci finiamo in mezzo noi, noi che abbiamo giusto un cappellano militare e nemmeno i Dieci Comandamenti
37 te li saprei dire a memoria. Guardo gli israeliani fermare le ambulanze. Fanno scendere tutti, uno per uno, perfino la barella di chi magari ha l’infarto. Li guardo aprire le valigie dei farmaci, le bombole d’ossigeno, i defibrillatori. Dalle mie parti, dove sono nata, la chiesa è poco più che una stanza, e non l’ho mai vista piena. Il pastore era un tizio coi capelli rossi, che poi non si è più visto, dicono bevesse, ha dato fuori di testa e l’hanno sostituito. Solo quando ci sono le elezioni, allora sì che la chiesa si riempie. Fanno i comitati. I gruppi di pressione. Come se scattasse la molla, sotto il sedere, come se questo dio suonasse il campanello, all’improvviso, lui che è troppo preso con le ambulanze e i posti di blocco per guardare anche laggiù che succede, laggiù dove i preti si danno alla bottiglia perché la chiesa è mezza vuota. Guardo gli israeliani aprire il cofano dell’ambulanza, mentre il medico palestinese batte un pugno sulla carrozzeria, che il paziente ha l’intestino perforato e grida come una bestia. L’ufficiale non si smuove d’un passo.
38 L’ambulanza va rivoltata come una tasca. Il paziente grida. Il medico di più. L’ufficiale allora ha un lampo. Ferma un’auto, la prima che passa. Alla guida due giovani, con giubbotti di marca e la scritta King Bowling. “Dov’è che andate?” “A una festa”. “Prima all’ospedale: scaricate questo sacco”. Il paziente viene spinto sul sedile di dietro. La macchina va via. Lui urla a non finire. Se non è vero, penso, è un grande attore. Ma per dio farebbe questo e altro. Quando ho comprato il frigorifero, il centro commerciale mi ha chiesto se volevo lo sconto: ti fanno lo sconto se rispondi a un questionario. Ti fanno un pacco di domande. Venti pagine. Poi usano le risposte per mandarti pubblicità. Mi ricordo che a un certo punto, tipo a pagina diciotto, c’era scritto “optionals”, e sotto “ti ritieni credente? Se sì barrare la casella della propria religione.” Misi la X a “cristianesimo”. E da quel giorno mi arrivano a casa i depliant con le offerte alimentari: Quaresima, Avvento e feste varie. Ora che ci penso, forse mi tocca uno sconto alla cassa. Quando torno, mi dovrò informare.
39
Mi trucco gli occhi. Davanti allo specchio. Ciglia. Sopracciglia. Le labbra. Ho scelto il vestito più bello, quello del matrimonio di Ayat. Le scarpe sono eleganti, quelle più care che ho. Le comprammo insieme, io e Wafa, un anno fa. Guardo l’orologio: le 18:33. Manca un’ora e ventisette alla mia seconda prova. Ciglia. Sopracciglia. Mi dipingo guance e labbra. Nella lettera con tutte le regole -‐ me l’hanno lasciata in fermo posta -‐ c’è scritto “presentarsi in abito elegante”. Perché la seconda prova sta dentro il salone di un pub alla moda, nel bel mezzo di una festa. Devo entrare, vedere che tutto sia pronto, e soprattutto che ci siano già appostati nel tavolo in mezzo i due ragazzi -‐ giubbotti di marca con su scritto King Bowling -‐ che devo far saltare, appena esco fuori. Stavolta niente telefono: ho con me una scatoletta con sopra un tasto. Sembra un giocattolo. Per guidare i trenini. Mi hanno scritto di azionare il comando da duecento metri. Vuol dire che la botta sarà tremenda. Fortissima.
40 Verrà giù tutto il locale. La seconda prova è sempre più difficile: solo se la supero, crederanno in me.
Mi trucco gli occhi. Davanti allo specchio. Le 18:33: fra poco mi verranno a prendere. La cena di Channukkah con i colleghi è un’abitudine a cui non rinuncio. Non l’ho mai fatto, non lo farò adesso, anche se da mesi non esco più per il terrore di un altro Supersol… Hanno scelto un locale moderno, dall’altra parte della città. Non so dove sia, e un po’ mi preoccupa. Da quando ci fu la guerra di Yom Kippur, è tradizione fare attentati nei giorni di festa. Mi dico: è un rischio. Ma cosa non lo è? Se non voglio vivere separata dal mondo dovrò pur provare a mettere il naso fuori, Il mio sacchetto con i regali è pronto: qualche libro, un profumo, un portafogli. Spero di aver pensato a tutti. Ogni anno mi dimentico qualcuno. Vada come vada: non è un delitto. Accelero il trucco. Ciglia. Sopracciglia.
41
L’ultima volta che mi sono dipinta il viso fu per la laurea di Wafa, che ora fa il tirocinio come dottoressa. Anche stasera la chiamerò per dirle “l’ho fatto”. Ad Ayat lo dirò domani, quando la andrò a trovare: suo figlio la sera dorme, non voglio disturbare. Ecco. Fatto. Col trucco ho finito. Mi fermo il velo sotto il viso. L’abito è pronto. Le scarpe belle ma strette. Nella borsetta a lustrini ho già infilato -‐ nella trousse del trucco -‐ la scatoletta col pulsante. 19:02. Ancora cinquantotto minuti. Esco per strada. Ho deciso: andrò a piedi. Non è lontano, da qui ce la faccio. Il traffico stasera sembra impazzito. Sarà perché è giorno di festa, la loro festa. Non la nostra. Sono tutti in auto. Eleganti. Si direbbe “ognuno stasera va a una festa”. Per una volta siamo uguali perché stasera a una festa ci vado anch’io.
Il traffico stasera sembra impazzito. Chiusi dentro questa macchina, una berlina nuova di zecca con l’odore tipico delle auto nuove,
42 facciamo venti metri in mezz’ora. Il collega che mi è passato a prendere insegna letteratura ed è un guerrafondaio. Di solito ci litigo a male parole: se c’è uno spettacolo che non sopporto è quello delle frasi fatte, preconfezionate – senza testa -‐ in bocca a chi la testa in realtà ce l’avrebbe. Ytzach è uno che in frasi fatte eccelle. Scrive libri con intuizioni geniali, è capace di sfoderare teorie sorprendenti. Ma in questo campo dà il peggio di se. Anche stasera. Incastrati in questa coda senza fine. Espone tutto il suo repertorio. I coloni hanno sempre ragione. I palestinesi provocano e basta. Non abbiamo niente di cui pentirci. Cerco di reagire, lo faccio sempre. Ma ogni volta che ci provo mi rimbomba in testa il boato del supermarket. Subito. Come un’eco. E non parlo. Sto zitta, stasera. Ci sono volte nella vita in cui ti fai schifo, ma accetti di farti schifo. Questa è una. Lui vomita fiumi di parole. Come le macchine intorno a noi, sui viali. Ascolto. Non ribatto. Chi tace acconsente. Lui stesso è stupito. Vorrei uscire di qui. Che ore sono? Il display sul cruscotto dice “19:17”.
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19:17. Ho quarantatre minuti. Il pub sta dietro l’angolo, un isolato verso il centro. Mi siedo sul ferro di una panchina, davanti a un mega-‐manifesto di pubblicità. Crema di bellezza. Antirughe. A caratteri cubitali sta scritto: “giovani per sempre”. Rimango lì seduta. Con ai piedi le mie scarpe strette. Truccata. Elegante. Risplendo di lustrini. E così mi vedo ad un tratto riflessa dentro i vetri di un pullman che si ferma, in coda, proprio davanti: eccomi qui incorniciata io, venti anni, agghindata come una modella, con dietro la scritta “giovani per sempre” e in borsa una scatoletta che farà scintille. Mi alzo. Se faccio due volte il giro dell’isolato dovrei riempire il tempo che mi manca. Perfetto. Vado. Passo davanti al pub. Sulla porta un ragazzo cerca di convincere un altro “ci divertiamo, dai, entra”. Non sento la risposta: non posso fermarmi, vestita così darei nell’occhio. Alzo il viso: stasera mi colpiscono i manifesti.
44 Ce n’è uno di una marca di orologi “Senza lusso vivere non è vivere”; uno con una bell’auto “Tutto quello che voglio”; un altro gigantesco con un telefono “tutte le tue risposte” e uno di un’assicurazione: “non voglio regole”
Le 19:48. Cercare parcheggio stasera è un inferno. Il locale che ci aspetta l’abbiamo appena superato, sulla destra. Pieno di gente giovane sul marciapiedi. Sembra rumoroso: musica, luci. Chiedo a Ytzach perché l’hanno scelto. Mi dice che la colpa non è sua. Sono gli altri che volevano un posto moderno, non il solito ristorante da insegnanti snob, dove tutto è chic e chi sta a capotavola assaggia il vino per tutti. Stare a capotavola è un’impresa, dice ridendo: sembra di essere a una tesi di laurea, tu il candidato, gli altri la commissione.
19:48. Fuori dal pub il rumore è assordante. La porta di vetro si apre e si chiude, continuamente, fra fiumi di gente, tacchi alti, scollature, abiti da sera, riempiendo la strada di fumo da concerto e squarci di musica a go-‐go. Penso a quei due ragazzi, i candidati. Li chiamiamo così: i candidati.
45 Magari sono appena entrati al pub, con i loro giubbotti di marca con su scritto King Bowling… Penso a chi li sta vedendo adesso uguali a tutti così come un giorno vedranno me uguale a tutti: mimetizzata. Nell’ingorgo dei clacson Passa un furgone con un pannello pubblicitario. Dice “Cosa sei disposto a perdere?” E rimane fermo per un bel po’, davanti ai miei occhi, incastrato al semaforo.
Abbiamo lasciato l’auto su un divieto di sosta. O meglio: è il posto riservato di una ditta. Ytzach dice che tanto è festa: non darà noia. In realtà faccio caso che il cognome della ditta è arabo-‐israeliano. Per loro non è festa. Tant’è: voglio scendere. E’ quasi un’ora che respiro deodorante d’auto. L’insegna del locale dice “moHoratàim”. Nome curioso: “Dopodomani”. Spingo la porta. Entriamo.
Dentro il locale si cammina a stento, scivolando fra la folla, chi balla, chi ride, chi aspetta il suo tavolo. Mi faccio strada. Nel tavolo centrale vedo due giovani di spalle,
46 come stabilito. Mi avvicino, urtando ragazze in minigonna e camerieri coi vassoi. I giovani che cerco hanno in testa un cappello alla moda, e sopra i giubbotti leggo “King Bowling”. Passo il loro tavolo, fingo di cercare un bagno, quanto mi basta per allontanarmi di qualche passo e guardarli per un attimo in faccia: voglio vedere lo sguardo che avrò io, la prossima volta, quando sarò al loro posto, la prossima volta, quando… ed è qui, che sotto quei cappelli alla moda -‐ sopra i giubbotti King Bowling -‐ trovo gli occhi di Wafa e di Ayat. Mi si annebbia la vista. La mia gola all’improvviso è pietra. La saliva calce. Sono Wafa e Ayat. Il mio pulsante è per loro. Per Wafa e per Ayat. Wafa e Ayat. Le candidate. Wafa e Ayat.
Cerchiamo il nostro tavolo. La musica rimbomba, me la sento dentro il petto,
47 come fosse aria compressa che mi sale su fino in mezzo alla gola. a soffocarmi… Come un automa saluto i colleghi, estranea a me stessa abbraccio persone, estranea a me stessa faccio gli auguri, estranea a me stessa, se non voglio vivere separata dal mondo dovrò pur provare a mettere il naso fuori, devo restare, devo sedermi, sarà una bella serata, devo restare, devo sedermi, è la mia prova. Wafa e Ayat,
ecco la mia seconda prova. Le gocce di sudore mi scendono sulla fronte gelide come cubetti di ghiaccio, mi manca l’aria: fisso il rettangolo dell’uscita e fuggo, correndo, fuggo spalanco la porta, fuggo e… Mi trovo davanti un gigantesco manifesto di pubblicità. “La felicità io so cos’è”…
48 Mi fermo. Respiro. “La felicità io so cos’è” Duecento metri per premere il pulsante. “La felicità io so cos’è” Cammino. Dieci passi. Venti. Trenta. Wafa e Ayat. “La felicità io so cos’è” Cinquanta passi. Settanta. Cento. La seconda prova. Wafa e Ayat. “La felicità io so cos’è” Il traffico impazzito. “La felicità io so cos’è” Chiudo gli occhi. Prendo tutta l’aria che posso. “La felicità io so cos’è” Allah Akhbar. Premo il pulsante. Fino in fondo.
La rete americana qui si prende, ma è disturbata. Basta e avanza per sentirmi un po’ più là e un po’ meno qua. Film, cartoons, notiziari, sport. La finale dei Rangers, che è una regola sacra, scritta. La felicità. E lì davvero ti senti a casa. Stasera in televisione non c’è niente.
49 E per giunta il canale stelle e strisce fa le bizze: ronzio continuo, a tratti salta. Cambio canale: impossibile seguirlo. La rete israeliana, il primo canale, trasmette un talk show. Sui diritti umani. Qui sono all’avanguardia. Se ne vantano. L’unico paese di tutto il Medio Oriente dove gli omosessuali si possono sposare. Un tizio in giacca e cravatta dice “siamo d’esempio”. Se lo dicesse dove sono nata, i religiosi sarebbero già in piazza. Il tizio aggiunge che in Israele l’aborto è proibito. Se lo dicesse dove sono nata, i religiosi gli farebbero una statua. Cambio canale. Telefilm. Giovani in divisa. Qui il servizio militare dura il triplo. E lo fanno anche le donne. Tutte. Interruzione della trasmissione. Notiziario. Due ragazze si sono fatte saltare in un pub. Era pieno zeppo, serata di festa. Decine le vittime. Non mi interessa. Cambio canale.
Ho superato la mia prova. Chiudo la porta di casa dietro le mie spalle. Mi appoggio alla parete: sorrido. Ho salutato il mio collega, che mi ha riaccompagnato.
50 Ci abbiamo messo più di due ore: c’è stato un attentato dentro un pub, mezza città è bloccata. Il televisore ha dato la notizia mentre eravamo seduti a cena. E da lì non si è parlato d’altro. Qui l’argomento è come una calamita: attira tutto, non puoi resistere, non c’è spazio per altro. Non è niente di nuovo, ci sono abituata. La grande novità stasera per me è un’altra. Per la prima volta io so che ho annuito. Un piccolo movimento del viso. Ho abbassato il mento. Un istante. Poi su. Impercettibile. Piccolissimo. Ma l’ho fatto. Senza volerlo. O forse no. Forse volendo. Io ho annuito. Quando Ytzach ha detto “se fossi un medico non li vorrei curare”, o altra roba del genere, che non so, io ho annuito. C’era il televisore pieno di morti. Le sirene. I vetri. Come al Supersol. Io ci sono stata, a terra fra i vetri. Sarà per questo che ho annuito? Non lo so, l’ho fatto.
51 Questo basta. L’ho fatto.
8 aprile 2003. Una serata piovosa. La segnalazione che arriva d’urgenza dice che l’intervento ha codice rosso. Quando il pericolo è massimo c’è sempre codice rosso. Significa intervenire. Immediatamente. I servizi d’altra parte fanno come chi pesca con la lenza in mare. L’esca è per un pesce solo, l’amo è per un pesce solo. Ma nel mare ce ne sono milioni. Uno abboccherà. Uno solo. Così è per quelli che si fanno saltare. Fra cento, mille, ce n’è qualcuno che fa un errore. E noi andiamo a prenderlo. Noi. Precipitandoci. Spesso appena un attimo, un attimo prima. La segnalazione dice che oggi ore 22:00 una ragazza vent’anni con uno zaino arancione in spalla si farà saltare in un bar all’aperto in Rishon Lezion. Saltiamo sui furgoni. Tiratori scelti.
52 Armi in pugno. Subito. Intervenire. Andiamo.
8 aprile 2003. Una serata piovosa. Bevo il mio tè nel bicchiere di plastica. Lentamente. Un sorso dopo l’altro. Lentamente. Gustando fino in fondo. Mi è sempre piaciuto il tè freddo. Ne conto le gocce, allineate sulle labbra. Una, due, tre. La pioggia fa la condensa sui pannelli di plastica di questo bar all’aperto, davanti al cartello “Rishon Lezion”. La tettoia arrugginita gocciola, sui tavoli ci sono piccole pozze. La lista dei gelati. Una palma avvolta in luci intermittenti, rosse e blu, frizzano, rosse e blu, mi ipnotizzano, rosse e blu, sempre uguali, rosse e blu.
8 aprile 2003. Una serata piovosa.
53 Dal finestrino del taxi Le case di cemento grigio scorrono come un film. Passano. Tutte uguali. Perfettamente in fila. Come le avessero tirate su i bambini, senza genio, senza inventare. In fila. Linearmente. Case. Non c’è nessun brivido, in queste strade che vanno verso il mare, soprattutto dopo che il sole va giù e i lampioni qui hanno quel colore azzurro, quasi neon, opaco, da ospedale. Ho dato all’autista l’indirizzo: Rishon Lezion. E’ lì che devo andare. Ho appuntamento con un collega di quaggiù. Mi hanno invitata per domani, terrò una conferenza sul tema “la nostra identità”. So bene -‐lo so eccome – che qui identità non vuol dire “chi siamo” ma “chi non sono loro”. Non m’importa: ho accettato. D’istinto. Senza domande. Il taxista si ferma. Il numero civico è giusto. Un bar all’aperto. Una palma è avvolta di luci intermittenti,
54 rosse e blu. Nel buio staccano. I tavoli sono coperti da una tettoia. La pioggia ci batte sopra. Andrà benissimo per fare due parole. Mi metto sulla testa il mio scialle a fiori: mi protegge dalla pioggia, dal taxi al bar. Pago l’autista, e scendo di corsa.
Il velo a fiori di una donna all’ingresso mi attira l’attenzione. Poi capisco: non è un velo. Si sta solo coprendo dalla pioggia, non è una dei nostri, e infatti il velo è già diventato uno scialle. Entra, si pulisce le scarpe bagnate. Siede due tavolini lontana da me. Chiede un tè. Ma non nel bicchiere di plastica. Lei lo chiede in tazza. O in vetro. Buffo come i dettagli a volte parlino. Lo stesso tè. Io nella plastica, lei nel vetro. La stessa stoffa. Per me un velo, per lei scialle. La donna si pettina i capelli. Perché mi sembra che il mondo sia solo loro, anche quando si pettinano i capelli? Non riesco a non guardarla.
Una ragazza palestinese, seduta due tavoli distante da me non smette di fissarmi da quando sono entrata. Beve un tè in un bicchiere di plastica, fissando il mio tè che ho chiesto in tazza,
55 come fosse un affronto o di più. Perché mi sembra che il mondo sia solo loro, anche quando bevono il tè in un bar? Cambio di posto. Dalla tettoia del bar continuano a cadere gocce: dal ferro arrugginito cadono, sopra la mia testa. Ma non mi sposto per questo. E’ che quegli occhi addosso mi danno fastidio. Mi siedo qui, ecco: le darò le spalle.
Intervento d’urgenza, corriamo sulle jeep a tutto gas, è la prima volta che corriamo a bloccare un’aspirante martire pronta a fare la volontà di Dio. Quindi, penso, corriamo a bloccare la mano di Dio. Reparti d’azione, tiratori scelti, armi in pugno, tutti contro una ragazza con lo zaino arancione, tutti contro la volontà di Dio. Svoltiamo in zona Rishon Lezion. Fra poco ci siamo.
La donna ebrea ora mi dà le spalle. Si è alzata e ha cambiato posto. Così non mi vede: non esisto. Facile chiudere gli occhi, dare le spalle. Basta cambiare posto, e non esistiamo.
Lo sguardo della ragazza dietro le mie spalle
56 è fisso ancora su di me: la vedo riflessa nel vetro del bar, e anche se non la vedessi, la sentirei: attaccata come colla sul mio scialle a fiori così simile al suo velo. Dalla tettoia del bar continuano a cadere gocce: dal ferro arrugginito cadono, sopra la mia testa. Mi proteggo come posso, con una mano. La ragazza mi fissa ancora. Faccia come vuole, continui: la ignoro.
Pronti all’intervento. In fondo alla strada una palma avvolta di luci intermittenti rosse e blu frizza dentro la pioggia. Ci avviciniamo.
La pioggia batte sopra la tettoia, tre persone vengono sotto a proteggersi. E sono talmente fradice che passando mi bagnano il velo.
Tre persone sono appena entrate. Ne hanno presa, di pioggia. Nessuno dei tre è il collega che aspetto.
Il locale dev’essere di certo quello. Tre persone sono appena entrate, a rifugiarsi dalla pioggia.
57
Due sono vecchi, la terza è una ragazza. Una ragazza come me, poco più alta. Con un velo grigio.
Accostiamo. Tiratori pronti.
La ragazza si siede al tavolo davanti al mio. Ha uno zaino arancione in spalla. Lo toglie, lo appoggia sul tavolo. Fra me e lei.
La ragazza ha uno zaino arancione in spalla. Lo ha tolto, ed ora è sul tavolo. Fra me e lei.
Dalla tettoia del bar continuano a cadere gocce: dal ferro arrugginito cadono, sopra la mia testa. Mi tolgo dalla schiena lo scialle, lo metto in testa: mi proteggerà.
Lo zaino arancione da qui si vede: è sopra un tavolo. Tre donne sono sedute intorno. Una ha in testa un velo a fiori. L’altra un velo grigio. La terza un velo a fiori.
La ragazza ha uno zaino arancione in spalla. Lo ha tolto, ed ora è sul tavolo.
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