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Quaderno di Teoria, n. 22 – ottobre 2010
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Cultura economica ed Ecclesiastici nella Sicilia borbonica della transizione: 1750-1845 di SALVATORE DRAGO Fellow Centro Studi e Ricerche Tocqueville-Acton § 1. Introduzione. Il presente lavoro intende analizzare un aspetto precipuo della storia della Chiesa cattolica e
soprattutto del suo contributo per la formazione di principi politici, sociali ed economici
dal carattere moderno. Più esattamente, si tratta di fare chiarezza su un singolare binomio i
cui termini, da una anacronistica impostazione storiografica spalleggiata da pesanti luoghi
comuni, sono sempre stati considerati antitetici: Chiesa ed economia, clero e cultura
economica. Mentre la Chiesa ha sempre rappresentato un fatto conservativo in sé, un
pensiero tradizionalista-conservatore per antonomasia, ed una resistenza ideologica anti-
progressista, l’economia, al contrario, ha raffigurato, soprattutto a partire dalla nascita e
dall’affermazione delle teorie capitalistiche cinquecentesche, la rincorsa costante al
progresso, alla prosperità delle Nazioni, all’accumulo delle ricchezze ed allo sviluppo
tecnologico industriale, tralasciando, alle volte, importanti valori tradizionali di cui la
Chiesa, appunto, si faceva interprete. Gli aspetti religiosi, d’altronde, intrecciati
profondamente con le vicende e le conseguenze politiche, economiche e sociali dal
Cinquecento al Settecento, sono stati centrali per la formazione di una coscienza e di
un’appartenenza europea. L’avvio della frattura della Riforma protestante avviata da M.
Lutero nel 1517, la formulazione della Professio fidei tridentinae del 1564 per opera di Pio IV
(1559-1565) a conclusione del Concilio di Trento apertosi nel 1545 con la diffusione di
Cattolicesimo tradizionale ma rinnovato e la relativa suddivisione tra un’Europa protestante
ed un’altra cattolica, hanno delineato profonde conseguenze nelle appartenenze e nelle
identità non solo religiose, ma anche politiche, economiche, sociali e morali1. Una prova
testimoniata, tra l’altro, dalla prima e non indifferente esclusione del nunzio apostolico dalle
trattative di pace di Vestfalia nel 1648 in seguito alla cessazione della Guerra europea dei
Trent’anni, che avrebbe raffigurato una timida diffusione del pensiero e del processo della 1 Cfr. Church and Society in Catholic Europe of Eighteenth Century, a cura di W. J. Callahan – D. Higgs, Cambridge University Press, Cambridge 1979 e I religiosi a corte. Teologia, politica e diplomazia in Antico regime, a cura di F. Rurale, Bulzoni, Roma 1998.
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secolarizzazione moderna. Una dialettica, quindi, fra Chiesa ed economia, che proprio a
partire dall’Illuminismo ha acquistato forma ed evoluzione, dagli esiti in certi casi
inaspettati2. Tale aspetto, inoltre, se proiettato all’interno della Sicilia nel suo graduale
passaggio dall’ancien règime alla modernità, tramite il fondante filtro della cultura dei Lumi,
acquista delle peculiarità di primaria importanza per tre ordini di motivi. In Sicilia, il rapporto assolutistico tra trono ed altare, Stato e Chiesa, politica e religione, era
particolarmente complesso ed intrigato a causa della Legazia Apostolica. Concessa dal Papa
della prima crociata Urbano II (1088-1099) al Conte normanno Ruggero nel 1097 con la
bolla pontificia Quia propter prudentiam tuam, e rinnovava dal Pontefice Adriano IV (1154-
1159) nel patto stipulato nel 1156 con il Re normanno Guglielmo I, il documento, che
spostava l’amministrazione degli affari ecclesiastici all’interno di un “Tribunale della
Monarchia” gestito direttamente dal Re di Sicilia, se dava un ampio margine di
indipendenza all’episcopato siciliano di fronte al centralismo della Curia romana, rendeva
l’azione pastorale degli ecclesiastici siciliani privo di qualsiasi riconoscimento ufficiale3.
Nell’Isola, tra Sette ed Ottocento, inoltre, non solo non vi era stata alcuna rivoluzione
agraria ed industriale in grado di porla all’interno del competitivo processo europeo che in
2 Riguardo la valutazione del binomio “ideologico” e storico tra Chiesa ed economia, si rinvia a L. Guerci, Le monarchie assolute, Parte seconda, Permanenze e mutamenti nell’Europa del Settecento, Cap. VIII, «Le strutture ecclesiastiche e la vita religiosa», Utet, Torino 1986, pp. 181-212. «Età dell’Illuminismo, della ragione trionfante che fuga le tenebre della superstizione, annienta il soprannaturale stesso, traccia le linee semplici e maestose di un nuovo ordine terreno. […] E’ un complesso intrecciarsi di problemi al cui chiarimento non ha certo giovato l’animus polemico con cui spesso sono stati affrontati. Contro gli schematismi occorre sottolineare che il Settecento non è, dal punto di vista religioso, né un periodo di uniforme e inglorioso grigiore né un periodo in cui la cacciata di Dio celebri gioiosamente i suoi fasti. Di fronte alla ridefinizione della Chiesa che viene imposta dall’esterno (e talvolta dall’interno) il papato assunse atteggiamenti vittimistici, rifugiandosi nell’autocommiserazione, nel vagheggiamento di un passato di grandezza nella querula deprecazione di ciò che veniva vissuto come opera nefasta del Maligno». (pp. 182-183). Cfr., inoltre, P. E. Taviani, Utilità, economia e morale, Le Monnier, Firenze 1970; Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, a cura di M. Bendiscioli, Mursia, Milano 1976; Il cattolicesimo dalla “riforma cattolica” all’assolutismo illuminato, in Storia del Cristianesimo. L’età moderna, a cura di G. Filoramo – D. Menozzi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 153-290; A. Sindoni, Ecclesiastici e Illuminismo nella Sicilia del Settecento, in Chiesa, laicità e vita civile. Studi in onore di Guido Verucci, a cura di L. Ceci – L. Demofonti, Carocci, Roma 2005, pp. 47-54 e Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di G. Gregorini, Vita e Pensiero, Milano 2010. 3 L’abolizione della Legazia Apostolica, avvenuta soltanto nel 1871 in seguito alla “Legge delle Guarentigie” nel periodo post-unitario, nel corso dei secoli era stata proposta, tra gli altri, dal Cardinale C. Baronio nello scritto Tractatus de Monarchia Siciliae inserito negli Annales ecclesiastici pubblicati tra il 1588 ed il 1607; dal teologo francese E. Du Pin autore nel 1716 della Difesa della monarchia di Sicilia contro i tentativi della Curia romana; e dallo storico P. Giannone in Sull’Apostolica Legazia del 1725. Cfr. M. Tedeschi, Strutture ecclesiastiche e vita religiosa, in Storia della Sicilia, a cura di R. Romeo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1978, Vol. V, pp. 57-68.
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quegli anni andava formandosi in Inghilterra, in Olanda ed in Francia, ma, in conseguenza
di tale ritardo strutturale, la nascita di un autonomo pensiero economico aveva intrapreso
un percorso tortuoso e tutt’altro che semplice, costituito da resistenze ideologiche baronali,
refrattarietà alle innovazioni e da una cultura fortemente tradizionalistica. Infine, la Sicilia,
pur se inclusa all’interno di un valido circuito commerciale mediterraneo, crocevia tra
Oriente ed Occidente, a partire dalle Guerre di Successione europee e dalla pace di Vienna
al termine di quella Polacca con la formazione del Regno Borbonico nel 1734-35, nella
persona di Carlo III, figlio del re di Spagna Filippo V, era ancora periferica rispetto agli altri
Stati dell’Europa del tempo, tanto per lo sviluppo commerciale, quanto per la formazione
di validi modelli alternativi per la crescita di una moderna dottrina economica4.
§ 2. Aspetti Storiografici. Dal punto di vista storiografico, risulta inevitabile una premessa. L’interesse maturato negli
ultimi anni in Italia per gli studi di storia socio-religiosa e delle strutture ecclesiastiche, si
pone in stretta relazione con i risultati acquisiti nel campo della storia economica,
raggiungendo così un carattere interdisciplinare. Le prospettive tradizionali della storia
ecclesiastico-religiosa, che privilegiavano lo studio delle questioni dottrinarie e della Chiesa,
vengono così ad essere rovesciate a vantaggio di una diversa visione. Ne deriva un
importante nesso tra la storia del fenomeno religioso e dell’organizzazione ecclesiastica con
un’indagine socio-economica, da cui scaturiscono risultati di grande interesse, non solo per
la storia religiosa, ma anche per gli altri settori. In tal senso, facendo tesoro dell’esperienza
delle “Annales”, la vita religiosa può essere osservata nella complessità dei nessi che la
legano alle condizioni socio-economiche e culturali. Nel processo di rinnovamento
storiografico che ha favorito la dislocazione della storia ecclesiastica da un piano settoriale e
specialistico verso una prospettiva storica più ampia, l’apporto ed il legame con i fenomeni
4 Sugli “innesti” geo-politici e le loro conseguenze economiche nella Sicilia durante le Guerre di Successione settecentesche ed il relativo primo periodo borbonico, cfr. G. Falzone, Carlo III e la Sicilia: 1734-1759, Palumbo, Palermo 1947; Id., Il Regno di Carlo di Borbone in Sicilia: 1734-1759, Patron, Bologna 1964; D. Carpanetto, Le guerre di Successione ed i nuovi equilibri europei, in La Storia, a cura di N. Tranfaglia – M. Firpo, Utet, Torino 1992, Vol. V, pp. 501-526; A. Bulgarelli Lukacs, Alla ricerca del contribuente. Fisco, catasto, gruppi di potere, ceti emergenti nel Regno di Napoli del XVIII secolo, Esi, Napoli 2004 e C. Capra, L’Italia nel Settecento, in Storia moderna (1492-1848), Le Monnier, Firenze 2005, pp. 256-265.
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economici risulta infatti determinante5. Gli studi di F. Bolgiani e G. Spini, ad esempio,
hanno messo in risalto il rapporto tra la cultura italiana e l’azione riformistica del Settecento
con il problema storico del trapasso dell’Italia dall’età della Controriforma a quella dei
Lumi, e le questioni attinenti allo sviluppo economico attraverso l’analisi del mondo
ecclesiastico e religioso6. Sulla stessa linea metodologica si muovono pure gli studi di G. De
Rosa e R. De Maio, che hanno opportunamente affrontato il legame tra la tradizione
religiosa romana ed il ruolo del clero locale del Mezzogiorno con il diffondersi della nuova
cultura laica e razionalistica nel Settecento napoletano7. Ma le riflessioni sul complicato
rapporto tra Chiesa e principi moderni-liberali illuministici e democratici, hanno trovato un
valido contributo anche negli esiti delle ricerche di D. Menozzi e di V. E. Giuntella. Mentre
il primo ha analizzato la prudenza e l’ambiguità dell’atteggiamento assunto dalla Chiesa e
dal clero di fronte alle trasformazioni politiche ed economiche del periodo riformistico e
napoleonico, il secondo, invece, ha puntato l’attenzione sulla fisionomia dei cosiddetti
cattolici illuminati e cattolici liberali, vale a dire di coloro che partendo da una sincera
convinzione religiosa e senza tralasciare il loro retroterra teologico, avevano cercato di
stabilire un rapporto positivo tra cattolicesimo e modelli democratici8. In tale ambito, L.
5 Si rinvia a Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d’Europa: XV-XVIII secolo, a cura di C. Nubola – A. Turchini, Il Mulino, Bologna 1999. 6 F. Bolgiani, Il XII Congresso Internazionale di Scienze Storiche a Vienna e gli studi di storia religiosa, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», II, 1966, pp. 160-173; G. Spini, Gli studi storico-religiosi sui secoli XVIII-XX, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, Giannini, Napoli 1950; Id., Risorgimento e protestanti, Esi, Napoli 1956; Id., Per un dibattito sulla storia religiosa, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», V, 1969, pp. 601-622; B. Plongeron – J. Godel, 1945-1970. Un quart de siècle d’historie religiose. A propos de la gènèration des secondes lumieres, in « Annales historique de la Rèvolution francaise », III, 1972, pp. 198-220 e Nuovi percorsi della storia economica, a cura di G. Gregorini, Vita & Pensiero, Milano 2009. 7 G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Guida, Napoli 1971; Id., Permanenze ecclesiastiche e santità nella storia sociale e religiosa della Basilicata dal XVIII al XIX secolo, in Società, strutture ecclesiastiche e pietà in Basilicata nell’età moderna e contemporanea, Atti del Convegno di Storia sociale e religiosa, Potenza 1975; R. De Maio, Le origini del seminario di Napoli, Esi, Napoli 1958 e Id., Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna, Esi, Napoli 1971. 8 Cfr. D. Menozzi, Chiesa, poveri, società nell’età moderna e contemporanea, Queriniana, Roma 1980; Id., Cristianesimo e Rivoluzione francese, Queriniana, Roma 1983; Id., La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993; Id., Sacro cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Carocci, Roma 2001; V. E. Giuntella, Il Cattolicesimo democratico nel triennio giacobino, in Cattolicesimo e Lumi nel Settecento italiano, a cura di M. Rosa, Herder, Roma 1981, pp. 267-294. Si rimanda, inoltre, a S. Giombi, La Rivoluzione francese ed il cattolicesimo in Italia, in «Rivista di Storia e letteratura religiosa», XXVII, 3, 1991, pp. 497-517; C. Tosi, Repubblica e religione. Studi recenti sul rapporto tra politica e religione nella prima Repubblica Cisalpina (1796-1799), in «Rivista di Storia e letteratura religiosa», XXXI, 2, 1995, pp. 293-319 e D. Menozzi, Sacro cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Carocci, Roma 2001.
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Guerci ha posto l’accento sulle figure dell’episcopato che tra Sette ed Ottocento erano
animate di vedere realizzata, sulla scorta del riformismo illuministico e della legislazione
napoleonica, un’auspicata riforma interna della Chiesa e di tutte le sue istituzioni9.
L’attenzione verso la storia delle varie istituzioni ecclesiastiche nel loro costante e variabile
rapporto con il potere politico generale e particolare degli Stati pre-unitari e
successivamente del Governo italiano a partire dall’Unità del 1861, nel corso degli ultimi
decenni, ha contribuito alla formazione di una storiografia tendente a risaltare gli apporti
non univoci delle autorità ecclesiastiche nell’ambito della società civile. Partendo dalle
considerazioni relative al riformismo ecclesiastico settecentesco inerente la graduale
scomparsa del potere censorio dell’Inquisizione, un riassetto delle competenze e della
diffusione sul territorio degli Ordini religiosi e la creazione di un nuovo volto di tutta la
struttura religiosa, dalla Chiesa universale di Roma alle sue diramazioni locali,
maggiormente avvalorato in seguito ai postumi della Rivoluzione francese del 1789 e dalle
riforme napoleoniche, i diversi studi di M. Rosa, ad esempio, i più significativi in tale
settore, hanno avuto il merito di evidenziare il compito delle istituzioni ecclesiastiche, nella
sua duplice articolazione di alto clero episcopale e di basso clero parrocchiale, anche come
strumenti e canali di diffusione di orientamenti politici e socio-economici10. In questa
9 L. Guerci, Le monarchie assolute. Parte seconda, Permanenze e mutamenti nell’Europa del Settecento, cit., e Id., ”Mente, cuore, coraggio, virtù repubblicana”. Educare il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Tirrenia, Torino 1992. Circa altri importanti lavori sul rapporto e sull’influenza della Chiesa e delle strutture ecclesiastiche con la realtà politica e socio-economica dell’Italia tra ‘700 ed ‘800, si rimanda a: D. Cantinori, Vincenzo Russo, il circolo costituzionale di Roma nel 1798 e la questione della tolleranza religiosa, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa», serie II, vol. XI, 4, 1942, pp. 179-200; R. Aubert, Un demi-siècle de revus d’historie ecclèsiastique, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XIV, 1960, pp. 174-186; G. Alberigo, Nuove frontiere nella storia della Chiesa?, in «Concilium», VI, 1970, pp. 1256-1276; Società, Chiesa e vita religiosa nell’ancien règime, a cura di C. Russo, Guida, Napoli 1976; Religione e ateismo nella società secolarizzata, a cura di R. Caporale – A. Grumelli, Il Mulino, Bologna 1972; L. Convito – B. Pellegrino, L’organizzazione ecclesiastica degli Abruzzi, Molise e della Basilicata nell’età post-tridentina, Sansoni, Firenze 1973; M. Caffiero, La politica della santità. Nascita di un culto nell’età dei Lumi, Laterza, Roma-Bari 1996; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1999; N. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna: secoli XV-XVIII, Carocci, Roma 1998; M. Caffiero, Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Istituto Editoriali e Poligrafici, Roma 2000; B. Bocchini Camaiani, Ernesto Calducci. La Chiesa e la modernità, Laterza, Roma-Bari 2002; U. Dovere, Chiesa e Denaro. Possesso, uso, immagine, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; Alla scuola di Mario Romani. Un trentennio di attività dell’Istituto di storia economica e sociale e dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia (1975-2004), a cura di S. Zaninelli, Vita e Pensiero, Milano 2004; M. Caffiero, La Repubblica nella città del Papa. Roma 1798, Donzelli, Roma 2005 e V. Criscuolo, Albori di democrazia nell’Italia in Rivoluzione (1792-1802), Franco Angeli, Milano 2006. 10 M. Rosa, Per la storia della vita religiosa e della Chiesa in Italia tra il ‘500 ed il ‘600, in «Quaderni storici», V, 15, 1970, pp. 731-750; Le istituzioni ecclesiastiche italiane tra Sei e Settecento, in Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, De Donato, Bari 1976; Clero e società nell’Italia moderna e Clero e società
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direzione, inoltre, si pone il poderoso lavoro curato da A. Sindoni e da M. Tosti che offre
un variegato panorama del ruolo e dei principi del cattolicesimo sociale italiano tra
Ottocento e Novecento, attraverso la ricostruzione bibliografica degli studi e dell’attività
parlamentare di A. Monticone, uno dei maggiori interpreti italiani del settore11. Infine,
nell’ambito del rapporto tra Cattolicesimo e principi economico-sociali, un ruolo
preponderante è costituito dalla storiografia sulle confraternite. Nate per impulso del
fervore pastorale dei vari Ordini religiosi, come i Cappuccini, i Teatini ed i Gesuiti, per
coadiuvare la Chiesa nella diffusione popolare degli elementi dottrinari del Cristianesimo,
nel corso dell’evoluzione dei secoli, soprattutto a partire dall’età moderna, la loro
importanza era ascrivibile nel riadattamento delle loro modalità di intervento ed obiettivi in
base alle nuove esigenze politiche, sociali ed economiche in cui si trovavano ad operare12.
§ 3. Coordinate strutturali tra Stato e Chiesa. In un periodo in cui la diffusione di opere come quelle di C. Pilati, Di una riforma dell’Italia
del 1767 e di C. Amidei La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti dell’anno successivo,
avevano fortemente agevolato la circolazione di idee illuministiche tendenti a concepire la
cultura come perenne critica e continua elaborazione di proposte e modelli per una società
nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992; Id., Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Marsilio, Venezia 1999 e Id., Clero cattolico e società europea nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 2006. 11 Vita religiosa, problemi sociali e impegno civile dei cattolici italiani, a cura di A. Sindoni – M. Tosti, Studium, Roma 2009. 12 «Si è passati così dalla fase legata agli studi sulla riforma cattolica tridentina alla riconsiderazione dell’istituto confraternale in chiave socio-religiosa, vale a dire con l’interesse rivolto ad una delle forme in cui si andò strutturando, nell’età moderna, l’associazionismo del laicato cattolico, con un tipo di aggregazione sociale che dall’originaria istanza religiosa passò ad assumere compiti ed impegni che andavano al di là dell’impulso iniziale per rispondere ad esigenze e bisogni di larghi strati sociali in termini di solidarismo cristiano: dalla beneficenza all’assistenza, dalla acculturazione religiosa alla manutenzione delle Chiese». (A. Cestaro, Il fenomeno confraternale nel Mezzogiorno: aspetti e problemi, in V. Paglia, La sociabilità religiosa nel Mezzogiorno: le confraternite laicali, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 37-38, 1990, p. 17). Su questa tematica, inoltre, cfr. G. De Rosa, Tempo storico e tempo religioso. Saggi e note di storia sociale e religiosa, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1987; Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, a cura di V. Zamagni, Il Mulino, Bologna 2000; E. Novi Chavarria, Il governo delle anime. Azione pastorale, predicazioni e missioni nel Mezzogiorno d’Italia secoli XVI-XVIII, Editoriale scientifica, Napoli 2001; G. M. Viscardi, Tra Europa e “Indie quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno (secoli XV-XIX), Edizioni di storia e letteratura, Roma 2004 e Istituzioni, assistenza e religiosità nella società del Mezzogiorno d’Italia tra XVIII e XIX secolo, a cura di G. Da Molin, 2 Voll., Cacucci, Bari 2009.
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più giusta13, la conclusione delle Guerre di Successione e quella dei Sette anni, con i trattati
di pace di Aquisgrana, Parigi e Hubertsburg, rispettivamente nel 1748 e nel 1763, pur
assegnando all’Europa un periodo di convivenza pacifica, aveva fatto accumulare ai
Governi un forte debito finanziario impossibilitato ad essere ripianato con politiche
economiche tradizionali, come vendita delle regalie e creazione di nuove imposte, ma con
una pesante svolta “di rottura” delle politiche fiscali che avrebbero dovuto coinvolgere, in
primo luogo, anche il ruolo economico privilegiato della Chiesa. A partire da tali necessità
contingenti, la Chiesa, in quanto istituzione spirituale e temporale-politica, diventava
oggetto di un costante riformismo tendente ad eliminarne i privilegi, ridurre il numero dei
chierici, tassare i loro beni, limitare le immunità fiscali e personali, e soprattutto confiscare,
censire e ridistribuire i vasti latifondi, anche quelli appartenenti agli organi collegiali. Nel
Settecento illuministico, quindi, sulla scia delle correnti giansenistiche, la volontà di imporre
la giurisdizione secolare e laica su quella ecclesiastica che aveva caratterizzato la politica
delle monarchie assolute, e l’attacco illuministico alla religione cristiana rivelata,
avvaloravano una cultura laica ed una politica governativa a-cristiana, colpendo
direttamente il ruolo del potere temporale della Chiesa in quanto istituzione e facendo
sorgere un pensiero giurisdinazionalistico che assegnava allo Stato molte delle prerogative
che un tempo appartenevano alla Chiesa, come l’istruzione ed il controllo sociale sul
territorio. Erano gli elementi basilari della secolarizzazione che, facendo leva sulla notevole
riduzione degli Ordini religiosi e quindi sul potere e sui privilegi della Chiesa centralizzata di
Roma in modo particolare negli anni rivoluzionari francesi e all’interno della nuova politica
“laica” napoleonica diffusasi in tutta Europa, nel corso dell’Ottocento avrebbero definito
un compito della Chiesa basato sul graduale abbandono della sua struttura gerarchica ed
autoritaria e centrata, pertanto, su una visione “orizzontale” in cui tutta l’organizzazione
ecclesiastica sparsa sul territorio, anche i fedeli, avrebbe avuto un proficuo e responsabile
compito nella vita ecclesiale e sociale. Si trattava di elementi che accomunavano le direttive
di tutti i sovrani illuminati dell’Europa del tempo, Federico II di Prussia, gli ortodossi
Pietro il Grande e Caterina II di Russia, Maria Teresa ed il figlio Giuseppe II d’Austria, i
Lorenesi in Toscana ed i Borboni di Spagna e Napoli, Carlo III e Ferdinando IV. La
13 Su queste opere ed il loro influsso nell’Italia dell’Illuminismo, cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, Vol. II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti: 1758-1774, Einaudi, Torino 1976, pp. 237-325; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento italiano, Jovine, Napoli 1982 e M. Majone, Illuministi e Risorgimenti. Metodi e storiografia del pensiero, Edup, Roma 2003.
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campagna per la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti, avviata in Portogallo ed in Francia
nel 1759 e nel 1764 e che porterà il Pontefice Clemente XIV (1769-1774) a sopprimere
ufficialmente l’ordine nel 1773, rappresenta sicuramente l’episodio più evidente della lotta
degli Stati e del riformismo illuministico contro lo strapotere assolutistico della Chiesa14.
Inoltre, anche la cesura della Rivoluzione francese del 1789, con tutte le sue conseguenze
ascrivibili alla Costituzione civile del clero approvata dall’Assemblea Nazionale francese nel
1790 che avrebbe trasformato tutte le autorità ecclesiastiche in funzionari statali,
nonostante il successivo Concordato del 1801 tra Napoleone ed il Papa Pio VII (1800-
1823) relativo alla restaurazione della Chiesa cattolica contro quella “gallicana” e
costituzionale, avrebbe colpito inevitabilmente la Curia romana nel suo patrimonio
dottrinale e nella sua organizzazione religiosa e politico-economica15. Di fronte a questa
realtà, che aveva generato tra l’altro la formazione di due fazioni ideologiche, i regalisti,
fautori del potere regio, ed i curialisti, sostenitori del potere papale, la Chiesa aveva reagito
abbandonando la linea della moderazione di stampo muratoriana – rappresentata dallo
strumento concordatario tra Stato e Chiesa, avvenuto tra la Spagna, il Regno di Napoli e la
Lombardia austriaca, ed i pontificati di Clemente XII (1730-1740) e di Benedetto XIV
(1740-1758), rispettivamente nel 1737, nel 1741 e nel 1757 – per intraprendere, piuttosto,
una posizione di chiusura e di lotta, culminando nell’enciclica di Papa Clemente XIII (1758-
14 In tutta l’Europa cattolica, nonostante la soppressione del 1773, i vari settori della Compagnia di Gesù terranno vivo il loro spirito gesuitico in molti dibattiti politico-religiosi fino alla ricostituzione della confraternita stessa nel 1814. Circa l’importanza dell’Ordine dei Gesuiti e della Chiesa post-conciliare per la storia politica e culturale dell’Europa moderna, cfr. La “Ratio Studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di G. P. Bulzoni, Roma 1981; J. Lortz, Storia della Chiesa in prospettiva di storia delle idee, Vol. II, Evo moderno, Edizioni Paoline, Milano 1987; A. Woodrow, I Gesuiti. Una storia di poteri, Newton & Compton, Roma 1991; F. De Giorgi, Le Congregazioni religiose dell’Ottocento nei processi di modernizzazione delle strutture sociali, in Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, a cura di L. Pazzaglia, Queriniana, Roma 1994, pp. 123-149; A. Trampus, I Gesuiti e l’Illuminismo. Politica e religione in Austria e nell’Europa centrale (1773-1798), Olschki, Firenze 2000; P. Broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Europa e America (secoli XVI-XVII), Carocci, Roma 2004 e N. Guasti, Tra mercantilismo e riformismo illuministico: i Gesuiti spagnoli espulsi e il pensiero economico iberico nell’Italia del Settecento, in «Il pensiero economico italiano», XIII, 2, 2005, pp. 11-49. 15 Nel contesto della realtà rivoluzionaria francese e dell’impero napoleonico, la Chiesa cattolica era stata sempre vicina ai nemici tradizionali della Francia, come gli Asburgo d’Austria ed i Borbone di Spagna. Inoltre, la prigionia del Pontefice Pio VII a Savona ed a Fontainebleau, dal 1809 al 1814, aveva creato la figura del Papa prigioniero come simbolo della resistenza europea contro la tirannia francese e dare pertanto alla figura del pontefice quel prestigio religioso e morale che sarà alla base delle definizione della infallibilità religiosa del Papa durante il Concilio Vaticano I del 1870.
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1769), “Christianae reipublicae salus” del 1766, in cui si riscontrava una rigida presa di
posizione contro i “philosophes”, la cultura dei Lumi ed il relativo progresso economico16.
Tuttavia, di fronte a tale situazione, non vi erano soltanto degli orientamenti inflessibili ed
intransigenti da parte della Santa Sede e dei curialisti. Dagli anni Settanta del XVIII secolo,
il controllo della Chiesa centralizzata di Roma verso gli ecclesiastici residenti in quegli Stati
dove maggiore era stato l’influsso illuministico andava assumendo forme più deboli ed
elusive. In considerazione di tale motivo, quindi, erano molti i vescovi, gli appartenenti
all’alto ed al basso clero, ed alla varietà delle figure dell’episcopato, che, pur non
abbandonando la forza della loro fede cattolica, si dimostravano comunque molto
lungimiranti e trovavano nella poliedrica corrente illuministica e nelle relative riforme un
valido punto di forza per un miglioramento metodologico e contenutistico
dell’insegnamento religioso e liturgico. In pratica, le personalità ecclesiastiche, non
potevano ignorare del tutto i cambiamenti strutturali del loro tempo. Sotto l’influsso di un
nuovo clima spirituale, formato dalla proficua unione tra tradizione cattolica e modernità
dei Lumi, andava prendendo sempre più consistenza il ruolo del cosiddetto “terzo partito”,
formato dai cattolici illuminati, i quali, ponendosi al centro tra i curialisti oltranzisti ed i
giansenisti, non assumevano atteggiamenti riottosi verso il progresso e la modernizzazione
socio-economica. Infatti, mentre i cattolici intransigenti non concepivano altro ordine
sociale diverso da quello dell’ancien règime, fondato sul privilegio, sul rigore del cattolicesimo
come unico fondamento dello Stato e sulla subordinazione dei diritti politici, civili ed
economici al potere temporale della Chiesa, gli ecclesiastici illuminati, invece, facevano
dell’unione della fede tradizionale con il nuovo clima sorto dall’Illuminismo, dal riformismo
e dalla Rivoluzione francese un inedito punto di partenza per ridisegnare i rapporti tra
religione, società, politica ed economia, in nome di un graduale quanto necessario
superamento del ruolo anacronistico della Chiesa controriformistica e della conseguente
costruzione di nuovi principi moderni17. Una parte dei rappresentanti della Chiesa, quindi,
16 Sull’enciclica di Clemente XIII e sulle vicende del rapporto tra la Chiesa e la società tra ‘700 ed ‘800, cfr. E. Bartocci, Chiesa e società industriale. Da Benedetto XIV a Leone XIII, Franco Angeli, Milano 1985; Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. Mozzarelli, Carocci, Roma 2003 e A servizio dello sviluppo. L’azione economico-sociale delle Congregazioni religiose in Italia tra Otto e Novecento, a cura di M. Taccolini, Franco Angeli, Milano 2004. 17 Sul “terzo partito” sociale, costituito da cattolici illuminati, cfr. L. Guerci, Le monarchie assolute, Parte seconda, Permanenze e mutamenti nell’Europa del Settecento, cit., pp. 201-203; M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, cit., e L. La Rosa, Scenari della catechesi moderna: secc. XVI-XIX, Intilla, Messina 2005.
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totalmente influenzata dalla cultura riformistica settecentesca e dalle teorie giansenistiche-
gallicane, si avviava con estrema consapevolezza verso elaborazioni di dottrine, concetti e
catechesi aperti alle istanze liberistiche. Si prospettava in tal modo una nuova politica
religioso-culturale tendente a stemperare le forme più arcaiche del cattolicesimo tridentino
e trovare, all’interno di un eclettismo moderato, le vie di un’alleanza tra religione e
riformismo laico. Andava sviluppandosi, in tal senso, una nuova forma di laicizzazione
culturale, che investiva non solo la tradizione religiosa, ma anche il popolo, pronto a
recepire il nuovo messaggio ed influenzato anche dall’emergere della classe borghese che
favoriva la consapevolezza della necessità di una differente cultura, laica e razionale, contro
quella basata interamente sul messaggio ultramondano della Chiesa. Come punto di
riferimento, riguardo gli ecclesiastici illuminati, ad esempio, spiccavano F. Fènelon, vescovo
di Cambrai oppositore dell’assolutismo di Luigi XIV ed esponente di un movimento di
riforma cattolico; l’abate J. A. Nollet, considerato il migliore docente di fisica di tutta Parigi;
e l’abate G. B. Mably, autore di opere di filosofia laica e di politica morale che avrebbero
avuto grossa risonanza nel preparare la Rivoluzione18. Ma non solo, altro esempio illustre è
rappresentato da Barnaba Chiaramonti, che prima di salire al soglio pontificio col nome di
Pio VII, dal 1800 al 1823, era stato uno dei più illustri sottoscrittori dell’opera illuministica
e riformistica per antonomasia, l’Encyclopèdie, uscita in 28 volumi tra il 1751 ed il 1772 e
curata da D. Diderot e J. D’Alambert. Inoltre fra i collaboratori a tale lavoro avevano
aderito non pochi esponenti del mondo clericale19.
Insomma, la nuova opinione pubblica settecentesca illuministica, che rappresentava un
processo di socializzazione della cultura senza precedenti, era composta, quindi, non solo
dalla nobiltà aperta alla nuova cultura moderna dell’anti-privilegio, da rappresentanti della
borghesia, delle professioni, del commercio e dell’industria, ma anche e soprattutto da una
varietà di personalità appartenenti al clero, sia che fosse alto, basso, regolare e secolare. Si
trattava di una varietà di individui provenienti da contesti socio-professionali diversi e poco
comunicanti nella società fortemente gerarchizzata d’antico regime ormai in tramonto, ma
che sotto l’influsso della cultura dei Lumi si sentiva esponente di progetti e di aspettative
18 Cfr. I. Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 44 e segg. 19 Si veda G. Martina, Il Clero italiano e la sua azione pastorale verso la metà dell’Ottocento, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX, Einaudi, Torino 1970, pp. 761-807; Id., La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo e del totalitarismo, Vol. III, L’età del liberalismo, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 218-225; P. Chaunu, La civiltà dell’Europa dei Lumi, Il Mulino, Bologna 1987 e P. Quintili, Illuminismo ed Enciclopedia. Diderot, D’Alembert, Carocci, Roma 2003.
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comuni: come il rifiuto del principio di autorità della Chiesa, il rigetto della tradizione e del
dogmatismo, la fede nella capacità della ragione, l’interesse per la tecnica e l’economia, ed il
desiderio di modernizzare e razionalizzare il ruolo dello Stato, della Chiesa e della società
civile. Tutti questi importanti mutamenti sociali del Settecento, facevano sì che l’ideale di
società tradizionale prospettata dalla Chiesa non trovasse più alcuna concreta rispondenza
con una realtà in cui la ragione, la tecnica e l’economia assumevano valori sempre più
assoluti. A fronte delle condanne ecclesiastiche per ogni volontà di arricchimento, andava
quindi costituendosi un nuovo sistema di pensiero che esaltava, in nome della ragione e
della giustizia sociale, l’utilità del commercio, della ricchezza pubblica, e della funzionalità
del profitto, i temi, cioè, dell’ideologia capitalistica che nel Settecento europeo era ad una
svolta decisiva. Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, quindi, gli appartenenti al
cosiddetto terzo stato cattolico illuministico, costituito da vescovi, arcivescovi, abati, prelati,
frati o semplici parroci, formavano una nuova coscienza pastorale che diventava uno dei
veicoli culturali fondanti della società del XVIII secolo e consapevole, inoltre, della sua
funzione per una valida opera di svecchiamento ed ammodernamento della vita politico-
economica.
Se l’Illuminismo aveva creato un ridimensionamento del potere temporale della Chiesa e
del suo ruolo sulla realtà socio-politica, il Settecento riformatore deve necessariamente
essere assunto come inevitabile punto di partenza anche per altri importanti fattori: la
fondazione di una nuova posizione etica dell’uomo e del suo inevitabile legame con
l’economia, e l’improrogabile intervento, in tale settore, da parte della Chiesa e del clero20.
La maturazione del sistema capitalistico, raggiunto nel corso del XVIII secolo, aveva
fornito le condizioni oggettive adatte perché l’attività economica venisse colta nelle sue
caratteristiche specifiche. Se nel periodo pre-moderno, all’interno del sistema feudale, la
20 Riguardo la problematica relativa alla nascita della scienza economica ed a tutte le sue implicazioni strutturali nel corso dei secoli, cfr. D. Winch, Le origini dell’economia come scienza: 1750-1870, in Storia economica d’Europa, a cura di C. Cipolla, Vol. III, La Rivoluzione industriale, Utet, Torino 1979, pp. 461-525; M. Romani, Storia economica dell’Italia nel secolo XIX: 1815-1882, Il Mulino, Bologna 1982; R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, Giappichelli, Torino 1991; G. Ricuperati, Le categorie di periodizzazione e il Settecento. Per un’introduzione storiografica, in «Studi settecenteschi», 2, 1994, pp. 9-106; C. Cipolla, Introduzione allo studio della storia economica, Il Mulino, Bologna 2000; R. Cameron – L. Neal, Storia economica del mondo. Dalla preistoria ad oggi, Il Mulino, Bologna 2002; D. Parisi, Introduzione storica all’economia politica, Il Mulino, Bologna 2002; V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Il Mulino, Bologna 2005; F. Boldizzoni, L’Idea di capitale in Occidente, Marsilio, Venezia 2008 e L. Bruni – A. Smerilli, Benedetta economia. Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economia europea, Città Nuova, Roma 2008.
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produzione commerciale era stata solo uno strumento per fornire i beni necessari alla classe
proprietaria-dirigente, che si realizzava in attività del tutto estranee al processo economico,
con l’avvento del capitalismo, la classe dirigente-borghese poneva l’attività economica al
centro dei suoi interessi e considerava la produzione come un mezzo mediante il quale il
capitale stesso si potesse moltiplicare indefinitamente. La raggiunta autonomia del processo
economico era pertanto la condizione reale preliminare per avviare una riflessione
sistematica ed autonoma sull’economia21.
Di fronte ad un cambiamento strutturale del genere, gli ecclesiastici riformisti non
potevano rimanere inermi, anzi, avevano fatto proprio dell’economia il terreno delle loro
maggiori riflessioni ed il centro nevralgico della loro spinta riformistica, per il bene della
società e del benessere pubblico. Nasceva in loro, quindi, l’esigenza e la convinzione che il
moderno sistema economico nazionale ed europeo potesse essere orientato anche in senso
cristiano. Di fronte ai problemi dello sviluppo e dell’espansione del mercato, l’interesse
della Chiesa diveniva crescente e sistematico. Infatti, la dedizione della Chiesa per
l’economia e per tutti gli aspetti ad essa connessi, non era un fatto nuovo22. Le ragioni di
tale “spigliatezza” da parte del clero nell’affrontare questioni economiche vanno ricercate
nel fatto che l’economia, in quanto elemento di reciprocità tra individui, mercati ed
istituzioni, rientrava, prima dell’indipendenza disciplinare settecentesca prima accennata,
nella sfera dell’etica e più esattamente della teologia. L’economia ed il commercio si
incanalavano quindi nella dottrina del bene comune. Non a caso, uno dei prodromi della
cultura economica occidentale scaturisce da uno dei “padri spirituali” della Chiesa, come T.
d’Aquino. Nella sua Summa Theologica, scritta tra gli anni Sessanta e Settanta del Duecento,
anziché arroccarsi su posizioni di chiusura dentro un sapere troppo scolastico-aristotelico,
aveva elaborato una prima presentazione organica dei principi teologi, sociali ed economici.
21 Sull’affermazione dell’economia come modello imperante della storia mondiale a partire dall’età moderna, si rinvia a C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Il Mulino, Bologna 1974; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia mondiale, Il Mulino, Bologna 1995 e P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Mondadori, Milano 1995. 22 Cfr. AA.VV., «Quaderni storici», 105, 3, 2000, numero monografico su Etiche economiche. «Nella teologia scolastica l’etica economica era una delle etiche speciali, quella che argomentava la disciplina del comportamento cristiano in un campo particolare della vita sociale. L’espressione “etica economica”, è usata per categorizzare fenomeni storici che non possono essere confusi con quei fatti che chiamiamo invece dottrine economiche o pensiero economico». (p. 573). Si veda, inoltre, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, in Storia d’Italia, Annali, IX, a cura di G. Chittolini – G. Miccoli, Einaudi, Torino, 1986, pp. 881-928; G. Manzone, Il Mercato. Teorie economiche e Dottrina Sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2001 e I cattolici, l’economia, il mercato, a cura di P. Barucci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
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L’economia tomistica, infatti, che sarebbe rimasta il costante referente fino al Cinquecento,
riguardava i valori dei prezzi, la natura della moneta, gli aspetti legati al mercato, la
giustificazione della proprietà privata, l’organizzazione delle attività produttive e la
definizione dei guadagni leciti ed illeciti. Nella teologia scolastica, in pratica, l’etica
economica era stata una delle etiche speciali, quella che argomentava la disciplina del
comportamento cristiano in un campo particolare della vita sociale23.
L’economia intesa come etica particolare della dottrina cattolica, elaborata dal pensiero
cristiano antico e pre-moderno, poneva quindi la Chiesa, in pieno XVIII secolo, ad
incanalarsi verso una necessaria elaborazione dottrinale sul piano economico e sociale. Si
trattava di una riflessione che poteva assumere toni ambivalenti: una costante
preoccupazione ed una resistenza del clero ai progressi commerciali, oppure, una
inderogabile apertura verso lo sviluppo tecnologico e la nuova cultura economica anti-
assolutistica. Emblematico, a questo proposito, è la posizione di Prospero Lambertini,
eletto al soglio pontificio col nome di Benedetto XIV dal 1740 al 1758. Uomo di grande
cultura, il Papa illuminato, che in quel tempo intratteneva corrispondenze con personaggi
quali F. M. Voltaire e Federico II di Prussia, avvertiva come il prestigio della Chiesa non
potesse essere ulteriormente compromesso da altre ingerenze giurisdinazionalistiche. E
sulla base di tale consapevolezza, aveva frenato l’invadenza dei Gesuiti, aveva autorizzato
l’insegnamento delle discipline scientifiche sperimentali ed aveva ridotto l’indice dei libri
proibiti ed il numero delle feste di precetto. Insomma, per rappresentare un precipuo ruolo
all’interno della nuova società riformata, si avvertiva, da parte del Papa, una necessaria
revisione profonda della Chiesa e dei suoi tradizionali rapporti con le istituzioni proprie
della società ed andare incontro alle profonde trasformazioni in atto nei sistemi
capitalistici24. Ma a tali posizioni liberali, pur sempre entro certi limiti, ne corrispondevano,
23 Sul ruolo di Tommaso D’Aquino (1225-1274) per la formazione del pensiero economico medievale pre-moderno, si rinvia a K. Pribram, Storia del pensiero economico, Vol. I, Nascita di una disciplina: 1200-1800, Einaudi, Torino 1988. «Con la Summa theologica San Tommaso fornì la più sistematica presentazione organica dei principi teologici, morali, sociologici ed economici sviluppati dagli scolastici sotto l’influsso del metodo aristotelico». (Cap. I, “L’economia tomistica”, pp. 5-39: 7) e Clero, economia e contabilità in Europa tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di F. Landi, Carocci, Roma 2007. 24 Sul “Papa illuminato” Benedetto XIV e l’avvio della Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, si rinvia a C. Rendina, I Papi. Storia e segreti, Newton & Compton, Roma 1983, pp. 729-735; E. Bartocci, Chiesa e società industriale. Da Benedetto XIV a Leone XIII, cit.; S. Trinchese, Sviluppi missionari ed orientamenti sociali. Chiesa e Stato nel magistero di Leone XIII, in Storia dell’Italia religiosa, Vol. III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa – T. Gregory – A. Vauchez, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 61-86; Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Pazzaglia,
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a volte, altre più intransigenti. Nell’enciclica “Quam gravitur” del 1766, reagendo contro gli
editti del 1762 e del 1764 con i quali in Francia si era ridotto il potere politico-religioso di
Roma e si era imposta la subordinazione al potere regio delle gerarchie ecclesiastiche
francesi, Clemente XIII denunciava tutta la sua preoccupazione nei confronti della
ridimensione del potere della Chiesa. L’esclusione dalla vita pubblica veniva in pratica
avvertita come una sorte di mutilazione, e si riteneva insopportabile la subordinazione al
potere politico laico. Ancor più incisiva, del resto, sarebbe stata la rottura di Papa Pio VI
(1775-1799) con tutti gli indirizzi di conciliazione di apertura verso le istanze del mondo
moderno e della cultura razionalistica. In tal senso, i rapporti con il Regno borbonico si
rendeva molto difficile e quasi inceppato dalla posizione del Pontefice un’altra volta
imperniata su un orientamento intransigente, anti-giansenistica e curialistica. Sulla stessa
linea, inoltre, si poneva anche l’enciclica “Diu Satis” del 1801 di Papa Pio VII in cui
l’intolleranza e le espressioni anti-liberistiche trovavano ampia riconferma. In seguito, nel
1832, con l’enciclica “Mirari vos” di Gregorio XVI (1831-1846) venivano condannati tutti
gli elementi costitutivi del mondo moderno, attraverso l’esercizio della perfezione e
l’immutabilità del magistero della Chiesa nel tempo. In questo piccolo percorso, come si
evince, si passa da posizioni di apertura di Benedetto XIV a quelle di fermezza dei Pontefici
successivi, raffiguranti il chiaro segnale che se non era possibile vedere realizzati capisaldi
moderni e liberali tanto nei confronti della società del tempo quanto all’interno della
propria catechesi da parte della Chiesa, era però auspicabile scorgere spiragli di apertura
nelle figure dei singoli ecclesiastici, che facevano del razionalismo illuministico, delle
riforme strutturali e dei cambiamenti economici agro-industriali e commerciali del Sette-
Ottocento il punto di forza del loro pensiero ed un’occasione per un inevitabile
ammodernamento della catechesi25. Nel complesso dei mutamenti all’interno di alcune
posizioni della Chiesa sette-ottocentesca, pertanto, era possibile il fiorire, pur senza
accantonare le giuste riaffermazioni dei propri dogmi, di alcune istanze cattoliche
razionalistiche e riformatrici che rispondevano a questioni sociali molto sentite nella società
europea del periodo. Un attento filone di una storiografia attuale parla a questo proposito
dell’attivazione, negli anni riformistici del Settecento europeo, di un processo di Aufklärung
del pensiero cattolico, imperniato su una reazione anti-gesuitica, su un graduale
Guarini, Brescia 1999 e Da Perugia alla Chiesa universale. L’itinerario pastorale di Gioacchino Pecci, a cura di M. Tosti, Perugia 2006. 25 Cfr. J. Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Mursia, Milano 1976.
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allontanamento dalle posizioni della Chiesa assolutistica e su un ritorno ad un originario
Cristianesimo, lontano dalle imposizioni controriformistiche del Concilio di Trento ed in
parte distinto dal filone delle Lumières laiche e razionalistiche animate primariamente da una
forte spinta anti-ecclesiastica ed anti-religiosa. Si trattava di un atteggiamento di apertura da
parte della Chiesa soprattutto in seguito ad una possibile mediazione con gli Stati attenti a
ridefinire i loro compiti all’interno del Congresso di Vienna del 1815, ed all’emergere del
principio di identità nazionale che andava diffondendosi nelle Nazioni europee26.
§ 4. Gli Ecclesiastici-economisti siciliani e la loro Cultura economica. Contro un paradigma ricorrente che ha tradizionalmente letto la Sicilia settecentesca come
una regione “sequestrata” ed avulsa ad ogni rinnovamento culturale illuministico, una de-
costruzione di tali schemi obsoleti e nuovi strumenti analitici hanno piuttosto messo in
risalto una validità non secondaria dell’Illuminismo isolano. Anche se nelle sue linee
generali il Settecento siciliano presenta, nella sostanza, le stesse caratteristiche di quello
europeo ed italiano, vi è da dire, inoltre, che la via intrapresa dalla Sicilia nel passaggio dalla
cultura scolastica a quella illuministica, e quindi dal feudalesimo al capitalismo, presenta
delle peculiarità proprie non ascrivibili a nessun’altra realtà del tempo27. La linearità del
percorso illuministico si era infatti dovuto scontrare con delle forti resistenze ideologiche e
strutturali: come il baronaggio, chiuso in una mentalità tradizionale e non interessato al
cambiamento; la Chiesa e tutto il suo pensiero anti-liberale; e la massa popolare incapace di
cogliere in esso un’asse portante della loro rivendicazione sociale. Erano tutti elementi che
formulavano una sorta di “daltonismo culturale”28. Molti temi sul rinnovamento
istituzionale, giuridico, sociale ed economico dibattuti da una pubblicistica tradizionale nata
dall’influenza con il moto di ammodernamento culturale in atto in Europa era comunque
un punto di forza dell’Illuminismo siciliano. A livello culturale, quindi, si facevano sentire
gli stimoli e le spinte di un progetto riformatore, tanto che l’adesione degli illuministi
siciliani all’empirismo, la corrente di derivazione inglese respingente ogni forma di
astrattismo, segnava un elemento preponderante. Tale consenso rispecchiava il carattere
26 Sugli assetti europei politici, socio-economici e religiosi tra Cinquecento ed Ottocento, si rinvia a A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna 2001. 27 F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Vol. I, I caratteri originari e gli anni della unificazione italiana, Sellerio, Palermo 1984, pp. 69-77 e A. Li Vecchi, Economia e politica nella Sicilia Borbonica, Sigma, Palermo 1999. 28 G. Falzone, La cultura siciliana alla fine del secolo XVIII, Palumbo, Palermo 1965, p. 7.
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distintivo dei vari programmi economico-sociali che mettevano al centro delle analisi e delle
proposte il complesso di disagi materiali e morali della società siciliana. Ma non si può
parlare della diffusione dell’Illuminismo in Sicilia e della nascita della relativa cultura
economica, senza trascurare l’influenza che nell’isola aveva avuto il pensiero del padre
dell’Illuminismo italiano, L. A. Muratori. Gli scritti dell’ecclesiastico modenese, in primo
luogo Delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti di Lamino Pritaneo del 1715 e Della
regolata devozione dei cristiani del 1745, pur non mettendo in dubbio i valori della fede e del
culto, ne analizzava le forme per renderle più coerenti con una forte carica interiore e con
delle valenze filo-gianseniste e razionalistiche. Si trattava di una nuova organizzazione del
sapere che legava insieme la tradizione del cattolicesimo con la mutata cultura del
Settecento riformistico29. Un legame, quello tra il Muratori e la Sicilia, avvalorato anche
dalla collaborazione scientifica del pensatore italiano con l’Accademia del Buon Gusto di
Palermo e soprattutto con quella Peloritana dei Pericolanti, che aveva instaurato un
gemellaggio culturale con l’Accademia dei Dissonanti di Modena30. L’influenza delle opere
dei grandi riformatori stranieri sull’intellettualità siciliana era un fatto evidente. I riferimenti
più comuni erano F. Voltaire, J. Rousseau, E. B. Condillac, C. Montesquieu, D. Diderot, J.
D’Alambert, ma anche gli anteriori Locke ed Hume. La letteratura illuministica siciliana, in
corrispondenza di tale legame con quella europea, si snodava in due filoni: uno
giurisdizionalistco, e l’altro economico. Vincenzo Gaglio, con il suo Saggio sul diritto della
natura, delle genti e della politica del 1759; Tommaso Natale, con le Riflessioni politiche intorno
all’efficacia e necessità delle pene delle leggi minacciate del 1758; Agostino Pepi, con il suo lavoro
Dell’inegualità naturale fra gli uomini del 1771; e Nicolò Spedalieri, con l’opera Dei diritti
dell’uomo del 1791, erano tra i maggiori rappresentanti del primo filone. Mentre per quanto
riguarda quello economico, non pochi erano gli esponenti, come Vincenzo Emanuele
Sergio, Gian Agostino De Cosmi, Pietro Lanza, Paolo Balsamo, Gaetano La Loggia,
29 Sulla figura dell’illuminista modenese L. A. Muratori, cfr. C. Continisio, Il governo delle passioni. Prudenza, giustizia e carità nel pensiero politico di Ludovico Antonio Muratori, Olschki, Firenze 1999; A. Sindoni, Storiografia cattolica e concezione cristiana del tempo storico. Da Ludovico A. Muratori al Novecento, in Tempo sacro e tempo profano. Visione laica e visione cristiana del tempo e della storia, a cura di L. De Salvo – A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 161-182 e B. Anglani, “Il dissetto delle carte”. Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Franco Angeli, Milano 2004. 30 Cfr. A. Saitta, Accademie messinesi, Il Fondaco, Messina 1964, p. 24.
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Saverio Scrofani ed altri31. La Sicilia era considerata come parte integrante dello sviluppo
economico del Regno borbonico, anche perché un autonomo ed autoctono progresso
commerciale rientrava tra i compiti propedeutici del Governo napoletano. Non solo in
funzione di una graduale emancipazione del Paese dallo sfruttamento delle altre Nazioni
straniere in cerca di nuovi mercati in cui collocare i loro prodotti con costi competitivi, ma
anche in quella riguardante la giusta valorizzazione naturale, anche a fini fiscali, delle risorse
materiali, capitalistiche ed umane non adeguatamente stimolate. D’altronde, a questa prima
e timida volontà politica del neo-Governo borbonico, corrispondeva una maggiore
consapevolezza da parte dell’intellettualità siciliana più progressista che poneva lo sviluppo
economico-sociale dell’intero Mezzogiorno al centro delle sue analisi e proposte diramate
in due probabili filoni di intervento politico-istituzionale: il modello anglo-olandese per il
commercio estero, e quello francese per la manifattura nazionale.
Sulla scorta delle altre Nazioni europee, dove l’azione delle riforme sembrava fosse nata
dall’innesto tra correnti culturali riformistiche e potere assolutistico, anche in Sicilia il
movimento riformistico andava emergendo e maturando all’ombra del Sovrano. Con la
formazione del Regno Borbonico nella persona di Carlo III, nel 1734-35, in seguito agli
accordi diplomatici al termine della Guerra di Successione Polacca, si erano gettate le solide
basi di una costante azione di ammodernamento dell’apparato statale, sia nei confronti
dell’organizzazione istituzionale, sia in riferimento alle condizioni economiche e sociali
della Sicilia del tempo. Il riformismo carolino, figlio diretto dell’Illuminismo nascente in
Europa, infatti, diventa un costante punto di riferimento tanto per capire il ruolo
dell’intellettualità isolana impegnata nella creazione e nella diffusione di idee liberali, tra cui
gli ecclesiastici, quanto per il cambiamento delle più significative sembianze delle
contingenze strutturali politiche ed economiche. La costituzione della Giunta per gli Affari
di Sicilia; l’istituzione della Deputazione di Salute Pubblica, in occasione della pestilenza del
1743; la creazione della Giunta frumentaria; le disposizioni per una nuova numerazione dei
“riveli” e la dura lotta contro il baronaggio tradizionalista, ad esempio, erano stati i punti
più notevoli della politica interna riformistica del neo-sovrano borbonico. Ma non solo,
l’aspetto più lungimirante, infatti, riguardava la linea della politica economica. La struttura
economico-commerciale della Sicilia del Settecento, a causa di diversi fattori tra loro
31 Su tali autori, cfr. Illuministi italiani, Tomo VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo – G. Torcellan – F. Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1980.
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concatenati, come l’apertura di nuove vie commerciali, il conseguente decadimento delle vie
marittime, la strozzatura del commercio provocata da privilegi aristocratici, le immunità
fiscali religiose, la confusione amministrativa relativa a dazi e protezionismi, e la quasi
inesistenza di catasti moderni, avevano formato nel corso degli anni un grosso ostacolo alla
floridezza ed alla concorrenza nazionale ed europea del mercato siciliano. Il tutto, inoltre,
aggravato dalla presenza ingombrante del Tribunale del Sant’Ufficio che nel corso dei
secoli, a partire dalla sua fondazione nel 1487, era riuscito a sopraffare l’intero organismo
politico-amministrativo, a vigilare sull’ordinaria giustizia civile e ad accumulare imponenti
ricchezze del tutto estraniate dagli ordinari investimenti capitalistici del mercato32. Problemi
che erano stati affrontati per la prima volta in maniera organica proprio da Carlo III con
l’emanazione di provvedimenti acuti, come l’istituzione nel 1739 del Supremo Magistrato
del Commercio; la creazione della Giunta frumentaria e della Giunta dei contrabbandi, che
regolavano le questioni annonarie; la pubblicazione delle “Istruzioni sui Capitoli del
Consolato ed Arte della seta” che orientavano la produzione e la commercializzazione della
seta e degli altri tessuti pregiati provenienti principalmente dagli opifici messinesi33; ed
infine, i trattati commerciali stipulati con la Porta Ottomana nel 1740 e quello con la
Reggenza di Tripoli l’anno successivo, in cui si stabilivano, con una lungimirante
diplomazia mediterranea, reciprocità negli scambi commerciali di terra e di mare34. Si
trattava di interventi ineluttabili anche per contrastare i deflussi delle entrate fiscali in
seguito all’epidemia del 1764 e del terremoto messano-calabro del 1783, e centrati non solo
sull’attenzione al grande quadro dei movimenti commerciali mondiali presenti sul
32 I diciotto donativi annuali, di cui tredici ordinari e cinque straordinari, approvati regolarmente dalla Deputazione del Regno che la Sicilia pagava al Governo centrale napoletano, erano anche fonte di forte iniquità. Mentre i baroni non contribuivano per nulla al pagamento delle entrate fiscali, tanto è vero che i loto possedimenti non risultavano registrati nei Censimenti od enumerazioni di anime, di fuochi e di beni stipulato nel 1748, gli ecclesiastici erano soggetti al pagamento solo di otto donativi e solo dopo previa autorizzazione dello Stato Pontificio. Cfr. I Zilli, Carlo di Borbone e la rinascita del Regno di Napoli. Le finanze pubbliche: 1734-1742, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990 e F. Renda, L’Inquisizione in Sicilia. I fatti. Le persone, Sellerio, Palermo 1997. 33 Sulle disposizioni regolatrici della lavorazione della seta e delle manifatture tessili negli opicifi messinesi, allora in grande espansione, si rimanda anche ai documenti Capitoli del Consolato dell’arte della seta di questa nobile, fedelissima ed esemplare città di Messina. Concessi per privilegio dell’invittissimo Carlo V, confirmati, in parte riformati, e d’alcuni di nuovo prescritti d’ordine dell’eccellentissimo signore Gioacchino Fernandez, Messina 1727 e Consolato dell’arte della seta. Bando del Consolato dell’arte della seta che ordina il disarmo di tutti i telai in possesso dei drappieri entro otto giorni e stabilisce che il pagamento dei lavoranti debba avvenire a giornata, Messina 1735. (Biblioteca Universitaria Regionale di Messina). 34 Cfr. G. Falzone, La Sicilia e il Meridione nella politica mediterranea di Carlo di Borbone, in «Annali del Mezzogiorno», 2, 1962, pp. 39-65 e M. Fusaro, Reti commerciali e traffici globali in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2008.
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Mediterraneo al centro delle rivalità anglo-francesi, ma anche sull’introduzione di un
moderno apparato burocratico e di un giusto sistema economico-tributario, ancora
totalmente aggrovigliato dall’avidità e dall’immunità del baronaggio e di un anacronistico
Parlamento, divenuto soltanto il depositario di medievali franchigie isolane.
Un caposaldo fondante nella formazione della cultura economica siciliana, tramite il
decisivo filtro della classe ecclesiastica, inoltre, è rappresentato dal Concordato del 1741 tra
il Regno borbonico e la Santa Sede, e dall’espulsione dei Gesuiti nel 1767, attuata da
Ferdinando IV e dal suo primo ministro B. Tanucci35. Il provvedimento – che seguiva
quelli già in atto in Portogallo ed in Francia nel 1759 e nel 1764 – tendeva non solo a
colpire la potenza della classe religiosa, ma anche annullarne tutti i suoi effetti sul piano
sociale, come quello dell’istruzione che ora assumeva contorni laici. Ma dietro a tale forte
ridimensionamento della Chiesa e dell’ordine nel campo politico, il provvedimento, quanto
di meglio la cultura illuministica potesse offrire, celava anche una forte finalità economica.
Secondo la “Descrizione delle anime e dei beni” risalente al 1747-48, infatti, quasi tutta la
proprietà terriera siciliana, fino alla prima metà del Settecento, era stata sotto la totale
appartenenza del baronaggio e della Chiesa – che poteva pure essere rappresentata da
Ordini religiosi, congregazioni o singoli proprietari clericali – venendo quindi a formare
tante unità feudali sulle quali gravavano privilegi, inalienabilità ed emarginazione
capitalistica. Con la soppressione della Compagnia, infatti, circa 40.000 ettari di terreno
erano passati sotto il diretto controllo dello Stato che successivamente li avrebbe ceduti in
vendita o in enfiteusi. Con tale prima operazione di eversione dell’asse ecclesiastico e di
distribuzione a censo perpetuo ai contadini ed ai borghesi – che verrà ripresa intorno al
1789 dal viceré F. Caramanico con la censuazione dei demani comunali regolata dalle
“Istruzioni prudenziali” scritte da T. Natale, delegato al Tribunale del Real Patrimonio – si
andava a realizzare, forse in maniera anche inconsapevole, uno dei cardini fondamentali
35 Per la stipulazione del Concordato, avente anche un significato economico, gli accordi erano suddivisi tra posizioni moderate ed estremistiche. Queste ultime, da parte del Governo borbonico, erano raffigurate da Montealegre, Contegna e Ventura; mentre, per lo Stato Pontificio, dalle posizioni degli Ordini religiosi, in particolare i Gesuiti, con l’istituzione delle Curie generalizie. La conclusione era stata raggiunta fra i cardinali Corradini, Valenti e Aldrovandi da parte romana, e da Acquaviva e Galiani da parte napoletana. Cfr. G. Galasso, Dal Concordato alla crisi della politica riformatrice, in Storia del Regno di Napoli, Vol. IV, Utet, Torino 2010, pp. 129-166.
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della politica progettuale genovesiana36. Tale disposizione, infatti, formava la base
ideologica della cultura economica siciliana borbonica, in quanto colpiva una Compagnia
religiosa che nel tempo aveva accumulato grandi ricchezze, commerciando in Europa le
derrate e le manifatture coloniali delle missioni sudamericane, costituendo banchi,
intessendo proficue attività speculative, ed ottenendo privilegi ed esenzioni fiscali, che nel
corso del Settecento consentivano agli aderenti Gesuiti di operare una forte concorrenza
nei confronti della nascente borghesia commerciale. La cospicua proprietà fondiaria della
Compagnia, inoltre, poteva perfettamente adeguarsi a delle innovative politiche agrarie
derivanti dalla cultura agronomica e riformistica del periodo. Le trasformazioni della
proprietà feudale ed ecclesiastica in chiave borghese, quindi, erano assunti come temi vitali
all’interno delle teorie economiche di sviluppo e dei dibattiti riformistici da parte di molti
intellettuali progressisti. Si capisce bene, allora, che tale fattore anti-gesuitico, consolidando
la tradizione “giannoniana”, apriva ai riformatori un inaspettato quanto efficace punto di
confronto tra la vecchia impostazione culturale e quella nuova più liberale e borghese. La
valenza anti-gesuitica comportava quindi la mobilitazione di forze intellettuali nuove,
orientate a realizzare l’acquisizione dei valori dell’individualismo moderno, dello Stato
amministrativo laico e del libero scambio37. D’altronde, non si poteva elaborare un progetto
unitario riformatore economico con la presenza del controllo e del monopolio della Chiesa
controriformistica sulla società, e l’assenza di nuovi ceti intellettuali capaci di leggere tra la
fitta maglia del passaggio al moderno. Ora, infatti, entravano a far parte della vita culturale
siciliana diversi gruppi ecclesiastici impegnati nel sociale, come i Teatini, i Domenicani ed i
Benedettini, che, sulla scorta di una politica anti-gesuitica e gallicana, fronteggiavano i
Gesuiti sul piano teologico e civile, e si assicuravano posizioni chiave nella vita pubblica
dell’isola38. D’altronde, era proprio il basso clero, tramite la presenza capillare dei vari
36 Si veda M. Condorelli, Momenti del riformismo ecclesiastico nella Sicilia borbonica (1767-1850). Il problema della manomorta, Edizioni Parallelo, Reggio Calabria 1971 e G. Canciullo, Terra e potere. Gli usi civici nella Sicilia dell’Ottocento, Maimone, Catania 2002. 37 «Le entrate della Chiesa erano rendite fondiarie provenienti dalle cosiddette manomorte. Quelle dei collegi della Compagnia erano invece frutto di una intensa e oculata attività economica, che non si limitava a percepire la rendita dei beni immobiliari posseduti, ma quasi sempre ne curava la gestione diretta e, nel caso dei fondi rustici e delle masserie, specie in Sicilia, ne organizzava la cultura con metodi che non è azzardato definire moderni o aperti alla modernità propri dell’azienda agraria capitalistica». (F. Renda, L’espulsione dei Gesuiti dalle Due Sicilie, Palermo 1993, p. 79). 38 Cfr. M. Tedeschi, Strutture ecclesiastiche e vita religiosa, in Storia della Sicilia, a cura di R. Romeo, cit., Vol. VII, pp. 57-68; A. Barzazi, Settecento monastico italiano. Ordini regolari, Chiesa e società tra XVII e XVIII secolo, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXX, 1994, pp. 141-173; S. Nanni,
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Ordini religiosi nel territorio, ad avere una funzione di mediazione e di promozione sociale
nei confronti della civiltà39. Questo primo aspetto della cultura economica, che derivava
dall’espulsione gesuitica, eliminava i tanti privilegi del clero, tra cui quello della riscossione
delle decime, che potevano derivare dai prodotti del suolo e dai proventi dell’industria, ed i
vari privilegi ed immunità, come il pagamento ridotto dei donativi che il Parlamento
siciliano richiedeva alle varie città40.
In sintesi, una prima formulazione della cultura economica che emergeva dall’Illuminismo
anti-gesuitico e gallicano nella Sicilia della transizione, trovava di fronte a sé, come una
sorta di dialettica ideologica, due forze che contrastavano la sua formazione e diffusione: la
Chiesa ed il baronaggio. Infatti, mentre da un lato tali due forze lottavano per conservare e
garantire i loro privilegi che la nuova cultura economica liberale voleva eliminare, dall’altro
lato, in maniera inaspettata, era sempre da questi due elementi che sarebbero venuti gli
stimoli più interessanti per una prima formulazione della cultura economica stessa41. Dato
che la classe ecclesiastica siciliana era di gran lunga più numerosa, in contrasto con la
vecchia e sterile aristocrazia, e detentrice, insieme al baronaggio, del monopolio inerente il
possesso latifondistico ed il commercio terriero, ben si comprende, allora, che ogni
progetto di riforma, soprattutto dal carattere economico, dovesse necessariamente passare
Devozioni e pietà popolare fra Seicento e Settecento. Il ruolo delle Congregazioni e degli Ordini religiosi, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 1995, pp. 35-52 e Identità italiana e Cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. Mozzarelli, Carocci, Roma 2003. 39 «La presenza di un determinato Ordine religioso, piuttosto che un altro, comportava un certo tipo di devozioni, una propria tradizione culturale. Gli Ordini religiosi avevano avuto un enorme sviluppo nell’isola sotto gli spagnoli, in specie nell’epoca della Controriforma, ed agli inizi dell’Ottocento erano ancora largamente presenti e operanti soprattutto nei settori della beneficenza dell’assistenza e dell’istruzione. (…) I vari Ordini mendicanti – francescani – costituivano un punto di riferimento importante presso le popolazioni rurali e nei centri minori». (A. Sindoni, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno: secoli XVII-XX, Historica, Reggio Calabria 1984, p. 21). Sul legame tra la religiosità e le varianti sociali territoriali, si rinvia, inoltre, a Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno moderno, a cura di B. Pellegrino – F. Gaudioso, Congedo, Galatina 1987. 40 Il riformismo borbonico in materia ecclesiastica, dall’avvento di Carlo III nel 1734 alla fine del XVIII secolo, comprendeva anche altri punti, come il divieto dei ricorsi a Roma in materia giurisdizionale (1778-1784), la dichiarazione di patrimonio regio di molti monasteri certosini (1780), la proibizione da parte dei vescovi di riscuotere decime od altre prestazioni (1780) e la dipendenza dal Governo delle congregazioni secolari (1785). Cfr. G. Galasso, L’avvio di un nuovo riformismo e l’apogeo del giurisdizionalismo, in Storia del Regno di Napoli, cit., Vol. IV, pp. 493-525. 41 Secondo una vasta interpretazione storiografica, il riformismo illuministico borbonico era caratterizzato, in primo luogo, da un vigoroso impegno nei confronti della ristrutturazione della Chiesa in chiave giurisdinazionalistica e relativamente debole, pertanto, sul piano feudale, sul quale la resistenza dei baroni e degli aristocratici era più forte nella gestione del potere politico locale e nazionale. Cfr. Elites e potere in Sicilia dal Medioevo ad oggi, a cura di F. Benigno – C. Torrisi, Donzelli, Roma 1995.
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attraverso essa. Ecco allora che un folto gruppo di ecclesiastici colti esercitava la ferma
volontà di introdurre nuove riforme, uniti dal comune denominatore di avversione e di
critica al tradizionalismo della tarda scolastica ed alla refrattarietà della curia romana verso
la modernità economica. Si trattava, in pratica, di appartenenti al clero pletorico che
facevano del loro dinamismo e della loro apertura alle posizioni anti-assolutistiche un filo di
congiunzione tra la classe ecclesiastica, la borghesia e l’intera società rurale, uniti nello
scopo di arginare i privilegi anacronistici della Chiesa controriformistica. Per tutto il
Settecento e nei primi decenni di quello successivo, infatti, l’organizzazione ecclesiastica era
l’unico veicolo della cultura tanto da potere formare degli stili di pensiero determinanti per
lo sviluppo della società siciliana. E l’azione avviata dai vescovi e dagli ecclesiastici
illuminati va infatti letta come un momento di trasformazione del sapere, profondamente
religioso e posto al crocevia tra la tradizione cattolica e l’innovazione illuministica, tra senso
religioso e libertà individuali. L’indipendenza ecclesiastico-religiosa, dunque, che si
consolidava in una regione fortemente caratterizzata dalle Chiese ricettizie in cui parte del
clero era favorevole nel perdere la propria assoluta dipendenza da Roma per assumere il
limpido ruolo di “pastore”, proiettava quindi il suo compito in funzione del popolo e della
“pubblica felicità”, che erano, e non casualmente, tra i due caratteri costitutivi della cultura
economica illuministico-genovesiana.
Quindi, le istituzioni diocesane, la peculiarità dello Stato borbonico siciliano, le oscillazioni
e le ambiguità del secolo dei Lumi, erano tutti elementi che evidenziavano come al
consolidarsi delle strutture istituzionali dei Governi si affiancassero una schiera di
ecclesiastici dalle tendenze giansenistiche, eruditi illuminati, ed intellettuali cattolici
riformisti, la cui azione teologica e dottrinaria era indirizzata anche verso fattori di natura
giurisdizionale ed economica. Tra questi autori, S. Ventimiglia, nato a Palermo nel 1720 e
vescovo di Catania dal 1757 al 1771, dalla formazione gesuitica, è un esempio emblematico.
Nominato nel 1754 presidente dell’Accademia del Buon Gusto di Palermo, dove
confluivano varie tendenze religiose e culturali, l’anno successivo, alla presenza del viceré
G. Fogliani, esponeva una sorta di programma di rinnovamento culturale, inteso anche
come una esortazione ai governanti affinché si facessero sostenitori delle arti e soprattutto
delle scienze. In tal senso, si faceva promotore di un riformismo culturale nel quadro di un
moderato regalismo illuminato, coadiuvato anche dal ruolo della responsabilità pastorale.
Sulla scia di tali considerazioni, nel 1764, in seguito ad una riforma nel piano degli studi
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seminariali, fondava a Catania il primo nucleo della moderna Università dove avrebbe
chiamato ad insegnare varie personalità riformiste dell’epoca: come T. Natale, L. Gambino
e G. A. De Cosmi. Eletto membro della Giunta dei Deputati regi sulla pubblica istruzione e
Supremo inquisitore del Tribunale del Sant’Ufficio, nel suo Compendio della dottrina cristiana
disposto in lingua siciliana, il Ventimiglia utilizzava il potere di cui disponeva per finalizzarlo a
dare posizioni ed orientamenti pratici. Infatti, in qualità di profondo conoscitore dei disagi
sociali, il vescovo catanese promuoveva molte generose dedizioni alla classe contadina ed
operaia, anche perché consapevole della loro importanza per lo sviluppo economico
siciliano. Attraverso un piano organico di assistenza e di creazione di Istituti idonei, cercava
in tal senso di fronteggiare i disagi degli strati popolari svantaggiati. Era presente un
impegno ed un disegno organico di una riforma sociale immediata, attraverso cui intendeva
gettare le basi di un modo alternativo di vivere e di sentire i rapporti tra i ceti sociali.
Iniziative sociali, riforme religiose, attività culturali, opere assistenziali e progetti di una
generale riforma illuministica, facevano prospettare l’opera del Ventimiglia – anche
attraverso la diffusione della sua Epistola ad Clerum populum Diocesis Cathaneaeis del 1757 –
come un importante proposito tendente alla formulazione di una nuova società fondata
sull’illuminata ragione e vissuta nello spirito di un cristianesimo evangelico, inteso come
centro e motore di un libero e graduale sviluppo di tutti i ceti civili impegnati nel circuito
produttivo42.
Tanto nei riguardi dell’atteggiamento di gran parte dell’aristocrazia feudale proprietaria
terriera, quanto nella considerazione delle condizioni di vita dei ceti popolari, e perfino
nella prospettiva di un’ascesa sociale che ad una parte di questi potesse e dovesse aprirsi
anche attraverso un nuovo tipo di istruzione e di educazione, erano diretti i punti
riformatori del prelato siciliano C. Santacolomba. Nato a Palermo nel 1725 ed eletto
vescovo di S. Lucia del Mela – nel messinese, allora Val Demone – dal 1780 al 1800, la sua
era una voce siciliana molto apprezzata negli ambienti innovatori filo-giansenisti, anti-
gesuitici ed illuministici del tempo, anche perché tendeva a conciliare, su una base sociale
più avanzata di quella del riformismo moderato, una riforma religiosa con quella delle
42 Sul vescovo S. Ventimiglia, si rimanda a S. F. Romano, Intellettuali, riformatori e popolo nel Settecento siciliano. Clero ribelle, contadini affamati e artigiani in rivolta e le origini dell’idea moderna di nazione siciliana, Pacini, Pisa 1983; A. Longhitano, Dal modello illuminato del vescovo Ventimiglia (1757-1771) alla normalizzazione ecclesiastica del vescovo Deodato (1773-1813), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX, a cura di G. Zito, Società editrice internazionale, Torino 1995, pp. 41-58 e L. Lorenzini – L. La Rosa, Catechismi e cultura nella Sicilia del Settecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.
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istituzioni sociali e civili. I presupposti teologici del regalismo del Santacolomba rientravano
nel quadro delle teorie regalistiche europee ed esposte con un linguaggio ardito ed enfatico
e con una notevole apertura alle questioni sociali, che accrescevano la suggestione
persuasiva e formativa della sua opera di predicatore. Il fine consapevole della sua
predicazione non era soltanto l’elevamento spirituale e la divulgazione dottrinale, quanto
principalmente di ottenere, anche attraverso il consenso del Governo, una trasformazione
del costume, della mentalità e possibilmente dei rapporti tra i diversi ceti della società civile.
Il consenso sentito dai sudditi nei riguardi del Sovrano, quindi, poteva e doveva restaurarsi,
secondo il vescovo, difendendo le funzioni e l’utilità socio-economica che assolvevano per
il progresso della società civile. Nella sua opera L’educazione della gioventù civile del 1775,
riforma della Chiesa e riforma dello Stato, così come il politico-economico ed il sacerdotale,
rispecchiavano due ambiti della stessa istituzione. Voleva pertanto sostituire la
conciliazione tra patriottismo locale e umanitarismo cristiano, che aveva caratterizzato il
primo riformismo moderato, con il suo nuovo pensiero regalistico-politico e socio-
economico di una religione “depurata” anti-assolutistica43. In una celebre omelia, pubblicata
a Siracusa nel 1788 col titolo Nei solenni funerali di Marco Trifirò vecchio contadino, recitata in
occasione dei funerali di tale contadino, ed ascoltata da esponenti del clero, nobili
proprietari terrieri ed esponenti governativi, il Santacolomba si era proposto di ribattere
l’argomento circa la concordia tra pratica di vita cristiana e condizione di vita socio-politica,
da attuarsi nella giusta condotta di una sana economia. Mediante una proficua unione tra
principi cristiani e società civile, veniva rivendicata la necessità del riconoscimento del ruolo
civile di quest’ultima per un progresso equilibrato. Una considerazione civile del suo
compito borghese all’interno della società, che molto spesso mancava totalmente ai ceti
nobiliari ed ecclesiastici che peccavano di una scarsa responsabilità verso le classi
produttive e lavoratrici. Ma tale equilibrio poteva essere mantenuto, e questo era il secondo
punto del riformismo del Santacolomba, mediante la promozione di alcuni assiomi di
cultura economica: miglioramento dell’agricoltura, il concetto di ricchezza nazionale intesa
come progresso socio-economico, e contratti di affitto latifondistico più proficui. In tal
modo, l’abate di S. Lucia del Mela si spingeva verso un nuovo ordine regolato da giusti
43 Sull’operato del vescovo C. Santacolomba, cfr. E. Di Carlo, Una avversario della dottrina del contratto sociale. C. Santacolomba: un contributo allo studio della cultura siciliana del ‘700, in «Archivio storico messinese», 6, 1981, pp. 45-64; S. F. Romano, Intellettuali, riformatori e popolo nel Settecento siciliano, cit., pp. 339-408 e A. Sindoni, Ecclesiastici e Illuminismo nella Sicilia del Settecento, cit., pp. 48-49.
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rapporti di produzione, in cui al centro stava l’incremento delle forze produttive e
l’orientamento di uno sviluppo manifatturiero. Scriveva:
“Tante fabbriche incominciate, tante opere pie strangolate sul nascere, tante leggi che guardano il
bene pubblico pensate, disposte e pubblicate; ma non eseguite, son testimoni frequenti del genio
siciliano”44.
Non bisogna infatti dimenticare che il Santacolomba era stato il primo, in quel tempo di
crisi e di reazione seguita alla rivolta del 1773, a fornire una visione d’insieme della società
siciliana. Un quadro che dava una giusta rivendicazione alla funzione positiva dei ceti
popolari, tanto da porne in atto la necessità di una loro adeguata istruzione, non solo di
stampo teologico-religioso, ma ruotante soprattutto sulla valorizzazione delle discipline
giuridiche ed economiche. In conclusione, i punti essenziali della sua visione anti-feudale
della società siciliana erano i seguenti: rifiuto del parassitismo dei ceti nobiliari ed
ecclesiastici; difesa del valore del lavoro, contadino e manifatturiero; rivendicazione del
ruolo di tutti i ceti sociali; e miglioramento delle condizioni di vita dei diseredati contadini.
Da queste considerazioni, ben si comprende come il contributo apportato dal
Santacolomba alla cultura siciliana del riformismo illuministico fosse stato notevole, anche
perché incanalato verso un ricco repertorio di idee aperte alle più avvedute politiche
economiche europee del tempo45.
Sulla stessa linea riformistica, si ponevano pure altri due ecclesiastici: G. Di Giovanni e F.
Testa. Divenuto vescovo di Siracusa e poi di Monreale, rispettivamente nel 1748 e nel 1754,
il Testa, dopo aver abbracciato l’opera riformistica muratoriana di Carlo III di Borbone, si
era messo a capo di un vasto disegno di rinnovamento culturale e disciplinare nei curriculae
dei seminari vescovili e nelle scuole ad essi legate, improntando uno studio anti-gesuitico e
strettamente scientifico ed economico. Il tutto, senza tralasciare la tradizione storica
siciliana, come egli stesso affermava nei Capitula Regni Siciliane, opera pubblicata a Palermo
nel 1741. Il Di Giovanni, rettore del seminario dei chierici nella diocesi di Palermo,
all’interno dei due scritti L’ebraismo in Sicilia e la Storia dei seminari chiericati, del 1748 e del
44 C. Santacolomba, L’educazione della gioventù civile proposta ai figlioli del Real Conservatorio del Buon Pastore, Palermo, Repetti, Palermo 1775, p. 40. 45 Cfr. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Arianna editrice, Bologna 2001. Sulle rivalità economico-politiche nella Sicilia del ‘700, cfr. S. Laudani, “Quegli strani accadimenti”. La ricolta palermitana del 1773, Viella, Roma 2005.
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1749, interpretava una dura lotta contro l’egemonia culturale gesuitica aprendo importanti
spiragli anti-curialistici a favore delle discipline scientifiche e soprattutto economiche46.
Da questo punto di vista, la seconda generazione dei muratoriani siciliani, legata ai temi
della “pietas” e della “pubblica felicità”, produceva importanti riflessioni orientate verso un
impegno sociale con una forte accentuazione delle responsabilità dei nobili proprietari
terrieri e dei capitalisti verso il volgo. Non è da sottovalutare, in tal senso, un altro
ecclesiastico illuminato, strettamente legato all’opera dei precedenti: F. Emanuele
Cangiamila. Addottorato a Catania in Diritto civile e canonico nel 1717 ed ordinato
sacerdote nel 1724, aveva svolto gran parte della sua attività a Palermo, partecipando
attivamente anche ai lavori dell’Accademia del Buon Gusto. Dal 1740, abbandonando
qualunque suggestione quietistica e gesuitica, disegnava un modello di sacerdozio
interamente centrato sul servizio della carità sociale. Tale nuova prospettiva era evidenziata
nei quattro libri della Embriologia sacra del 1745. Anche se il tema centrale, e per la verità
molto spinoso, era quello concernente le questioni di medicina ginecologica e pediatrica, il
testo offriva comunque una verifica sapiente intorno alla definizione delle nuove teorie
mediche, del ruolo del sacerdozio e della possibilità di una nuova diffusione culturale anti-
curialistica e liberale. Secondo la sua visione, quindi, il sacerdote avrebbe dovuto assumere
non solo un compito presbiteriale, ma anche e soprattutto un ruolo sociale e comunitario,
in primo luogo in qualità di operatore sanitario. Per inciso, non si trattava di un elemento
banale, ma di un primo timido germe di un’idea che sarebbe stata alla base di molte culture
economiche, riponendo proprio nel parroco la figura di mediatore tra i governi locali, i
proprietari terrieri ed i contadini47.
Altro ecclesiastico importante per la formazione culturale economica siciliana è I. Bianchi.
Proveniente da Cremona, dove era nato nel 1731, nel 1756 era entrato nell’Ordine dei
camaldolesi e dopo aver collaborato per alcuni anni negli ambienti fiorentini e veneziani,
nel 1769 era stato chiamato dall’arcivescovo di Monreale F. Testa ad insegnare presso il
seminario. Grazie alla sua esperienza, infatti, il Bianchi proponeva la conciliazione
dell’Illuminismo enciclopedista con i principi di un cristianesimo rinnovato. Stabilendo un
primo diretto contatto tra il pensiero riformatore italiano con l’ambiente siciliano, nel 1770,
46 Su tali autori, cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Lo Bianco, Palermo 1859, pp. 120-136 e S. F. Romano, Intellettuali, riformatori e popolo nel Settecento siciliano, cit., pp. 215-238. 47 Su F. E. Cangiamila, si veda G. Bentivegna, Dal riformismo muratoriano alla filosofia del Risorgimento. Contributi alla storia intellettuale della Sicilia, Guida, Napoli 1999, pp. 59-69.
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all’Accademia degli “Ereini” di Palermo prospettava ulteriori spunti razionalistici ispirati
all’insegnamento di J. J. Rousseau. Uno dei suoi punti di forza era proprio l’economia.
Nelle sue opere, Meditazioni sui vari punti di felicità pubblica e privata del 1772, Discorso
preliminare sul commercio di Sicilia del 1774, e Ricerche sull’antichità e vantaggi delle scuole normali del
1789, era evidente una polemica contro il lusso e l’ozio, esortando il Governo borbonico a
politiche economiche più industriose. Si voleva trovare in tal modo una nuova via per un
incremento commerciale tramite la valorizzazione dell’agricoltura e degli investimenti
capitalistici su di essa. Era un riformismo politico-economico centrato pure sul ruolo della
pubblica e laica istruzione, interamente ripreso da A. Genovesi ed uno degli elementi
fondanti della cultura economica siciliana prospettata dagli ecclesiastici48.
Erano presenti, pertanto, vari fermenti culturali, tutti centrati sul ruolo determinante della
Chiesa e del clero verso la realtà sociale, non in qualità di istituzioni assolutistiche-
controriformistiche, piuttosto come “luoghi” dai quali venivano fuori ecclesiastici che
vedevano nell’Illuminismo un terreno ideologico su cui fondare un nuovo rapporto con la
società civile. Tale era il caso, per esempio, di altri ecclesiastici illuminati: come l’abate G. E.
Di Blasi, autore di una Storia civile del Regno di Sicilia del 1790; S. Di Blasi, antiquario e
storico; G. Di Blasi, arcivescovo di Messina dal 1764 al 1767 e promotore, sulla scorta del
Ventimiglia, di un piano di riforma degli studi seminariali in senso scientifico ed
economico; ed il loro nipote, F. P. Di Blasi, che nella Dissertazione sopra l’egualità e la
disuguaglianza degli uomini del 1778 e nel Saggio sopra la legislazione del 1790, si pronunciava, in
base alle idee rousseiane, sulla necessità del riconoscimento civile di tutte le classi sociali e
sulla priorità di una nuova politica economica fondata su una tassazione anti-nobiliare e
popolare49. Ma non solo, altri centri siciliani riformistici erano, ad esempio, Girgenti, cui a
capo della Diocesi si erano succeduti dopo L. Gioeni, A. Lucchesi Palli, fondatore della
biblioteca Lucchesiana di Agrigento; A. Lanza principe di Trabia; G. Gioeni, che dopo aver
girato tra le maggiori capitali europee avrebbe fondato presso la Reale Accademia di
Palermo la prima cattedra di Etica e giurisprudenza naturale; ed il canonico palermitano D.
Schiavo, autore di un saggio dal titolo Sopra la necessità ed i vantaggi delle leggi accademiche del
48 Riguardo I. Bianchi, cfr. F. Venturi, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», Roma, Treccani, 1987, Vol. 10, pp. 132-139 e S. F. Romano, Intellettuali, riformatori e popolo nel Settecento siciliano, cit., pp. 215-228. 49 Cfr. M. C. Calabrese, Introduzione a F. P. Di Blasi, Opuscoli, Lussografica, Caltanissetta 1994 e A. Sindoni, Ecclesiastici e Illuminismo nella Sicilia del Settecento, cit., pp. 51-53.
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175550. Ma il diffondersi di un riformismo religioso-economico, riguardava pure ulteriori e
minori ecclesiastici. Don P. Mineo, nella sua nativa Agira, nel catanese, era uno dei più
ferventi divulgatori della cultura anti-gesuitica gallicana e giansenista, interpretata in chiave
europea di rinnovamento giuridico ed economico. Facente parte della schiera di ecclesiastici
illuminati “regalisti” – era stato amico e collaboratore del vescovo catanese riformista S.
Ventimiglia – e pertanto sostenitore della politica borbonica di riduzione dei compiti
politici e sociali della Chiesa, sotto la spinta di gravi emergenze economiche, interpretava la
definizione di un nuovo progetto educativo, laico e religioso, diretto ai differenti ceti
sociali, espresso nel suo scritto Monarchia Universale dei Papi, pubblicata a Napoli nel 1789. In
quegli anni, inoltre, spinto dalle contingenti necessità di rinnovamento culturale, fondava
nel suo paese una biblioteca, diretta ai giovani da istruire secondo il modello laico e
scientifico, e pertanto ricca di tanti volumi di carattere economico ed agrario, col fine di
fare della conoscenza e dell’istruzione le basi per uno svecchiamento delle strutture socio-
economiche della Sicilia51. Era in vigore un riformismo religioso – avvalorato dai vescovi,
dapprima all’interno dei loro seminari e successivamente anche finalizzato verso la società
civile – che, quasi come un moto circolare, avrebbe riguardato anche i parroci più periferici.
Era il caso, per esempio, di Don A. Barcellona, promotore, nel suo oratorio, di una ricca
biblioteca in cui i testi di teologia e filosofia erano opportunamente accompagnati da quelli
di scienze naturali, di chimica e di economia. Tale “fonte novella dei Lumi”, dice D. Scinà
nel suo Prospetto della storia letteraria di Sicilia degli anni venti del XIX secolo, era infatti il
chiaro segnale di un rinnovamento culturale di fonte ecclesiastica dal carattere anti-
gesuitico, anti-curislistico ed illuministico, per il bene del progresso civile ed economico52.
Per inciso, si trattava di ecclesiastici illuminati che avrebbero offerto la loro collaborazione
riformistica anche all’interno del periodico “Notizie dei Letterati”, che fondato nel 1772 e
50 Su Giuseppe Gioeni (Palermo 1717 – Firenze 1798) e Domenico Schiavo (Palermo 1718 – 1773), si veda L. Lorenzini – L. La Rosa, Catechismi e cultura nella Sicilia del Settecento, cit., pp. 52-54. 51 Don Pietro Mineo (1734-1799), aveva fatto della cultura razionale-scientifica e della diffusione di idee illuministiche il punto di forza del suo pensiero giansenistico e moderno. Tra i libri presenti nella sua biblioteca, vi erano: L’Agricoltura di Clemente Africo; la Doctrina agraria di Francesco Grisalini e Delle cose dè contadini di Francesco Moraggi. «In questo retroterra culturale e religioso, fertile intreccio di istanze illuministiche, di non poche iniziative editoriali e di attese di rigenerazione della vita religiosa, P. Mineo porta a compimento un lungo processo di maturazione personale e dietro il consiglio e l’incoraggiamento del Ventimiglia, intraprende la vita ecclesiastica». (L. Foti, Pietro Mineo. Un prete siciliano tra regalismo borbonico e filogiansenismo [1734-1799], in Agira tra XVI e XIX secolo. Studi e ricerche su una comunità di Sicilia, a cura di R. L. Foti – L. Scalisi, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2004, Vol. II, pp. 7-118: 29). 52 D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia, cit., p. 113.
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diretto da due benedettini, S. Di Blasi ed I. Bianchi, rappresentava la prima manifestazione
organica intellettuale anti-curialista e razionalistica. La comune tendenza del giornale – che
accoglieva saggi ed articoli di religione, politica ed economia – era individuabile nella
costante ricerca di una conciliazione tra la tradizione ed il moderno, tra la Chiesa e
l’economia e tutti i significati che si celavano dietro tali termini. Il fine era infatti quello di
proporre una società basata sul ruolo religioso-sociale della Chiesa e sulla fiducia nel
progresso commerciale, da realizzare, quindi, con l’applicazione delle moderne dottrine
economiche di derivazione europea53. Il riformismo religioso, costituito da elementi
strutturali governativi come l’espulsione dei Gesuiti, la distribuzione dei loro terreni in
affitto all’interno di un mercato più borghese, l’eliminazione delle esenzioni e dei privilegi
clericali, e il superamento della presenza assolutistica della Chiesa sulla realtà,
determinavano quindi le prime fondanti avvisaglie della cultura economica siciliana. Ma ciò
avveniva anche tramite il primo timido approccio da parte di vescovi e religiosi alla
disciplina economica. Si trattava di ecclesiastici che non scrivevano per puro senso di
erudizione, ma sotto lo stimolo di urgenti problemi sociali ed economici da valutare e da
risolvere, nell’interesse della popolazione siciliana che viveva tra le anacronistiche
strozzature istituzionali.
Per cogliere le implicazioni ideologiche della cultura economica siciliana, nel suo trapasso
dal feudalesimo al capitalismo, attraverso il costante filtro del ruolo degli ecclesiastici, punto
di riferimento inderogabile sono G. A. De Cosmi e P. Balsamo. L’attività del De Cosmi,
nato a Casteltermini nel 1726 ed esponente, nel 1738, come convittore nel seminario dei
chierici di Girgenti e nel collegio domenicano dei SS. Agostino e Tommaso, era stata
particolarmente ricca in qualità di ecclesiastico: nel 1749, per volontà di L. Gioeni, vescovo
di Agrigento, veniva nominato maestro di retorica al seminario; nel 1762, aveva ricoperto la
carica di direttore spirituale e di riformatore educativo presso il seminario della diocesi di
Catania retta in quegli anni dal vescovo illuminato S. Ventimiglia; nel 1768 canonico alla
cattedrale etnea, e nel 1788 direttore generale delle scuole normali laiche, che avrebbero
preso il posto dell’istruzione gesuitica54. L’influsso della corrente illuministica portava il De
53 Cfr. S. F. Romano, Intellettuali, riformatori e popolo nel Settecento siciliano, cit., pp. 215-238. Circa il ruolo delle Riviste scientifiche per la divulgazione della scienza economica e relative politiche di intervento, si rinvia a Le Riviste di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, a cura di M. Augello – M. E. L. Guidi, Franco Angeli, Milano 1996. 54 Sulla biografia ed il pensiero di G. A. De Cosmi, cfr. B. M. Biscione, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 33, pp. 571-575; F. Catalano, G. A. De Cosmi e l’Illuminismo, in
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Cosmi alla formazione di un pensiero anti-gesuitico dedito principalmente a prospettare
una serie di riforme rivolte al sociale ed all’economia. La sua veste di economista è
ravvisabile nello scritto Commentario alle Riflessioni del marchese D. Caracciolo con una digressione
sulla pubblica educazione, del 1786, la cui tesi di fondo, come suggerisce il titolo, consisteva nel
riallacciarsi alle teorie espresse da D. Caracciolo, viceré di Sicilia dal 1781 al 1786 ed autore,
l’anno precedente, delle note Riflessioni su l’economia e l’estrazione dè frumenti della Sicilia, scritte
in occasione della carestia del 1784-85 che aveva gettato la Sicilia e l’intero Mezzogiorno in
una grave crisi granaria55. Pur riconoscendo al Caracciolo il merito socio-economico di
molte sue riforme in Sicilia, come l’abolizione, nel 1782, del Sant’Ufficio; l’avvio di un
progetto catastale con l’abolizione di ogni esenzione tributaria legata alla creazione di
un’unica imposta per ogni possidente; la lotta alle prerogative fiscali del baronaggio;
l’instaurazione di una giusta equità tributaria; la soppressione di molti dazi di diritti privativi
che inceppavano il libero commercio; l’istituzione, nel 1781, di un decreto che avviava una
preliminare politica economica basata sul liberismo fisiocratico; e la stimolazione delle classi
del ceto medio mature per assumersi la responsabilità dello sviluppo commerciale dell’isola,
in contrasto con l’incapacità oziosa della nobiltà affaristica aristocratica, le tesi di fondo del
De Cosmi erano accompagnate, da buon pedagogista quale egli era, dal concetto della
pubblica educazione: una “acculturalizzazione” del popolo preliminare alla ricezione dei
principi politici ed economici europei. L’educazione diveniva in tal modo un mezzo per
potere realizzare sul campo tali capisaldi, ed un fine tendente ad un generale livellamento
della Sicilia con l’Europa economica. Il connubio tra pubblica istruzione ed economia –
espresso anche nella sua opera Piano di riforma dell’Università di Catania – era sicuramente
«Rivista pedagogica», XVIII, 1925, pp. 634-662; F. Cangemi, Le scuole di mutuo insegnamento in Sicilia, in «Nuovi quaderni del Meridione», 1, 1963, pp. 432 e segg; Illuministi italiani. Riformatori delle antiche Repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo – G. Torcellan – F. Venturi, cit., pp. 1079-1098; G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del 700, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992, pp. 195-216 e S. Drago, L’Idea economica di Europa negli illuministi della Sicilia del Settecento: rapporti e convergenze di politiche economiche euro-mediterranee, in L’Idèe d’Europe au XVIII siècle. Actes du Sèminaire international sur le dix-huitième siècle, a cura di L. Piccardo, Honorè Champion, Paris 2009. 55 D. Caracciolo, Riflessioni sull’economia e l’estrazione dè frumenti della Sicilia. Fatte in occasione della carestia dell’indizione III 1784-1785, Napoli 1785. Il testo intero è riportato nella Collezione di P. Custodi, Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XL, Bizzarri, Roma 1960, pp. 205-258. Su D. Caracciolo, viceré di Sicilia dal 1781 al 1786, cfr., inoltre, A. Scibilia, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 19, pp. 337-347; F. Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia, Società editrice per la storia patria, Palermo 1995; G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del 700, cit., pp. 177-194 e S. Laudani, Un Ministro napoletano a Londra. Domenico Caracciolo e le sue Memorie, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2000.
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l’aspetto più originale della politica riformistica del De Cosmi, in quanto si trattava della
necessità di diffondere i punti centrali della scienza economica, dell’agronomia e delle
moderne tecniche di conduzione agro-manifatturiera a tutti i ceti sociali, direttamente ed
indirettamente coinvolti nella produzione e nel commercio. Fino al riformismo Caracciolo-
De Cosmi, erano esistiti nell’isola diversi fattori economici anti-progressisti, come il divieto
di esportazione del grano; l’obbligo, da parte dei proprietari terrieri, di depositare i grani
raccolti nei caricatoi; il prelievo di una quota fissa del raccolto da parte delle
amministrazioni locali; e l’esistenza di esosi dazi, non solo sul grano raccolto, ma anche su
quello riservato alla circolazione interna ed all’esportazione. L’ecclesiastico agrigentino, in
conseguenza di tale quadro strutturale, delineava le linee del proprio pensiero economico
cercando di interpretare e valutare le esigenze locali in relazione ad un più vasto piano
organico che tenesse conto delle maggiori coordinate europee. Strettamente influenzato
dalle teorie del Genovesi e dall’empirismo lockiano, ascrivibili nella sua denuncia contro
una presenza eccessiva di chierici e religiosi ed una consequenziale mancanza di persone
dotte in fisica, scienze naturali ed economia, considerate materie fondamentali per il
progresso dell’isola a livello europeo, l’azione riformatrice del De Cosmi era infatti centrata
sulla “laicità” della conduzione economica e della sua relativa legislazione regolatrice, senza
pesanti interferenze né da parte della Chiesa, né, di conseguenza, della classe aristocratico-
baronale, tendenzialmente refrattarie a cambiamenti strutturali economici in senso anti-
feudale.
“E’ necessario che le materie di pubblica economia si rendano più adatte alla comune intelligenza,
perciò merita di essere sradicata quella malvagia e disumana politica che fomenta l’ignoranza
nazionale e la mancanza dè Lumi del popolo”56.
Vi era in lui la consapevolezza del ruolo egemone giocato a livello europeo dalla borghesia,
incline, sul modello di Inghilterra ed Olanda, alla formulazione di cardini commerciali
liberistici ed anti-vincolistici. Inoltre, la valorizzazione dell’agricoltura avrebbe aumentato
56 G. A. De Cosmi, Commentario alle Riflessioni del marchese D. Caracciolo con una digressione sulla pubblica educazione, Palermo 1786. La citazione è tratta da Illuministi italiani. Riformatori delle antiche Repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo – G. Torcellan – F. Venturi, cit., p. 1083. Sulla questione economico-sociale legata ai problemi annonari, cfr. I. Fazio, La politica del grano. Annona e controllo del territorio in Sicilia nel Settecento, Franco Angeli, Milano 1993 e Id., “Sterilissima di frumenti”. L’annona della città di Messina in età moderna (XV-XIX secolo), Lussografica, Caltanissetta 2005.
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quantitativamente e qualitativamente la produzione dei principali prodotti isolani, come
olio, agrumi, grano, barbabietole ed altro, che, in un nuovo equilibrato circolo di import-
export, avrebbero potuto essere scambiati con i prodotti manufatti esteri ad un prezzo
competitivo ma non maggiore rispetto a quelle nazionali. In tal seno, il Commentario
rappresentava un programma lucido e coerente che, sul modello scientifico, illuministico e
liberale di J. Locke e A. Smith, avvalorava l’avvento di una società e di un’economia euro-
siciliane libere dalle anacronistiche tradizioni e dagli ostacoli giuridico-feudali. Si trattava di
forti cambiamenti strutturali, che anticipavano l’ufficiale diffusione delle teorie neo-
mercantilistiche, fisiocratiche e liberistiche nella Sicilia stretta ancora tra le maglie del
baronaggio, rese ancora più determinanti per il fatto di essere state diffuse dal pensiero di
un ecclesiastico, che, in maniera molto lungimirante, riteneva fosse possibile uscire dai
problemi isolani, caratterizzati anche dall’epidemia del 1763-64, dal terremoto del 1783 e
dalla carestia del 1784-85, attraverso un valido percorso illuministico ed anti-assolutistico
clericale57.
Sulla stessa direzione, si poneva pura la riflessione dell’abate P. Balsamo. Nato a Termini
Imprese nel 1764, educato al seminario arcivescovile di Palermo e titolare, dal 1785, della
cattedra di Agricoltura presso la Reale Accademia del capoluogo siciliano, dopo aver
intrapreso una serie di viaggi di istruzione in Toscana, Inghilterra, Francia e Olanda, tra il
1787 ed il 1791, durante i quali aveva appreso i metodi agrari più progrediti e le teorie
economiche più consone per uno sviluppo socio-commerciale libero e competitivo58, grazie
all’influenza del pensiero di molti accademici “georgofili” toscani e di A. Young, agronomo
inglese, centrava le sue teorie economiche attorno ad un fulcro: favorire la grande
agricoltura legata all’avvio delle manifatture agrarie con metodi capitalistici, resa totalmente 57 Prima del riformismo in senso liberistico tentato da D. Caracciolo e da G. A. De Cosmi, in Sicilia vi erano già state delle disposizioni, seppur deboli, nella stessa direzione: Istruzioni, capitoli ed ordinazioni disposte da S. E. l’eccellentissimo signore fr. D. Gioacchino Fernandez Portocarrero per il Governo economico di questa nobile, fedelissima ed esemplare città di Messina, Messina 1727; Bando di abolizione di alcune gabelle, Messina 1734; Istruzioni per l’amministrazione delle gabelle patrimoniali della nobile, ed esemplare città di Messina conceduta al Senato della medesima, e quattro deputati aggregati, formate d’ordine della maestà Re nostro signore Carlo III di Borbone, Messina 1735; Il simbolo Il simbolo della perfezione manifestato nel ternario delle provvidenze per il Governo economico della nobile, fedelissima ed esemplare città di Messina capitale del Regno per il Regolamento dell’annona, patrimonio della città e Peculio Frumentario, Messina 1753; Bando per il regolamento delle gabelle sul vino, 1734; Bando per l’amministrazione del peculio frumentario, 1739 e Bando per i negozianti di prima sfera e dei mercanti drappieri e panieri, 1798. (Biblioteca Universitaria Regionale di Messina). 58 Su P. Balsamo, cfr. F. Brancato, in Ad vocem, «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 5, pp. 616-621; A. Petino, Saggi sulle origini del pensiero meridionalistica. Da Serra a Galanti, Balsamo, Scrofani e Symonds, Istituto di Storia Economica, Catania 1958, pp. 97-144 e R. Salvo, “Di Agricoltura”. Un inedito di Paolo Balsamo, in «Il pensiero economico italiano», II, 1, 1994, pp. 183-197.
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libera dai vincoli feudali ed avvalorata, pertanto, dall’introduzione di macchinari moderni
tecnologici. Risale invece al 1804, anno in cui il Balsamo succedeva alla cattedra di
“economia rustica e di agricoltura” di Palermo che era stata di V. E. Sergio, una nota
Memoria intitolata Sopra li più importanti punti dell’Economia rurale siciliana, il cui intento era
legato alla necessità di diffondere i principi modernizzatori di agronomia, non solo tra gli
studenti, ma anche e soprattutto tra i proprietari latifondisti ed i contadini59. Veniva in tal
modo riconfermato il cardine del coinvolgimento sociale e dell’istruzione-educazione del
popolo come veicoli rilevanti di assestamento di una moderna e competitiva cultura
economica. Nelle Memorie economiche ed agrarie riguardanti il Regno di Sicilia del 1803, nel
Giornale di viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica del 1809 e nel Corso
completo di agricoltura teorico-pratica, pubblicato postumo, l’abate, richiamandosi ai principi del
liberismo, affermava la necessità di abolire privilegi fiscali nobiliari-ecclesiastici, incentivare
investimenti capitalistici sui vasti terreni, introdurre macchine più moderne per la
lavorazione nei campi e soprattutto migliorare le condizioni di vita degli agricoltori tramite
affitti più selezionati.
Il clero, dunque, costituiva un’entità sociale piuttosto notevole, che per la sua struttura
organizzativa e per educazione mentale incline alla cultura dei Lumi, esercitava una
notevole potenza per la cultura, l’economia e la politica della Sicilia, tanto da infiltrarsi,
nell’ambito dell’ascesa sociale dei gruppi cittadini, all’interno di istituzioni culturali formate
da una equilibrata unione tra i rappresentanti dei vari ceti cittadini60. Tale era il caso delle
Accademie, che sulla scorta del riformismo illuministico, rispondevano all’esigenza primaria
di far circolare il più ampiamente possibile i temi delle dottrine economiche moderne, le
nuove conoscenze tecniche-agricole ed altri argomenti legati al raggiungimento della
“pubblica felicità” di muratoriana ispirazione. L’idea, in tale contesto, consisteva
nell’utilizzare la forma della circolazione culturale, col fine di modificare la mentalità
“feudaleggiante” dei governanti, dei proprietari terrieri e dei contadini. In tale direzione, i
maggiori ecclesiastici del tempo avevano trovato libera espressione di pensiero in centri
accademici determinanti per lo sviluppo della cultura economica e sociale dell’isola. Come
59 Sull’opera di V. E. Sergio, cfr. S. Drago, Centro europeo e periferia mediterranea: l’Idea economica di Sicilia negli economisti-illuministi del Settecento siciliano tra vincoli tradizionali ed opportunità fisiocratiche-liberistiche, in «Incontri Mediterranei», 16, 2007, pp. 218-250 e A. Di Gregorio, V. E. Sergio: una versione siciliana del mercantilismo, in «Mediterranea. Ricerche storiche», 13, 2008, pp. 317-350. 60 Circa il rapporto tra il clero e la sua attività economica, si rinvia a F. Landi, Storia economica del clero in Europa. Secoli XV-XIX, Carocci, Roma 2005.
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nel caso, ad esempio, dell’Accademia del Buon Gusto, fondata a Palermo nel 1718 e più
volte rimodernata negli studi e nelle finalità nel corso degli anni, che perseguiva un triplice
obiettivo: l’erudizione sacra e profana, lo studio della metafisica e della filosofia, ed il
diffondersi delle conoscenze scientifiche ed economiche61. Il punto di forza del consesso,
infatti, consisteva nella promozione dei dibattiti di natura agro-manifatturiera ed
economica. Anche Messina, inoltre, possedeva in quello stesso periodo “arcadi” in grado di
andare incontro alle esigenze economiche. L’Accademia Peloritana dei Pericolanti, istituita
nel 1729 sotto gli auspici dell’allora governo austriaco e diretta da un ecclesiastico, Don A.
Minatolo Gran Croce, era la realizzazione pratica dell’idea, formulata per la prima volta da
Don P. Guerriera, di riunire i migliori ingegni di Messina col nobile fine di cooperare
all’incremento degli studi letterari e scientifici62. Altro punto di aggregazione culturale tra
ecclesiastici e studiosi laici era raffigurato dall’Accademia Gioenia di Catania, costituita nel
1822 dalla volontà di economisti come C. Maravigna, S. Scuderi, A. Longo, ed ecclesiastici
come i Canonici G. Alessi e G. Barnaba La Via, nel 1822. Obiettivo del consesso –
suddiviso in due sezioni di storia naturale e di scienze fisiche – consisteva nel promuovere i
progressi delle scienze naturali ed offrire corsi di formazione professionale tecnico-
economica a giovani allievi avviati alla carriera scientifica ed economica63.
All’interno di tali Accademie, quindi, gli ecclesiastici giocavano un ruolo molto importante
nella promozione e nella circolazione di idee economiche liberali e moderne, soprattutto
quando loro stessi si ponevano a capo in qualità di responsabili. Così era accaduto
nell’Accademia degli Agricoltori Oretei, sorta a Palermo nel 1753 – a pochi mesi di distanza
della fondazione di quella dei Geogofili di Firenze – per iniziativa del sacerdote M. Di
Napoli. Tra i tanti sottoscrittori a tale iniziativa, la prima che si poneva come obiettivo
principale lo studio e la diffusione di assiomi economici ed agro-manifatturieri, vi erano i
61 Sulla vita culturale e scientifica della palermitana Accademia del Buon Gusto, cfr. S. Di Falco – A. Li Donni, Temi di economia politica nell’Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo dal 1830 alla fine del secolo, in Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle Società economico-agrarie alle associazioni di economisti, a cura di M. Augello – M. E. L. Guidi, Franco Angeli, Milano 2000, Vol. I, pp. 421-442. 62 Si veda M. Mauceri, Messina nel Settecento, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 1994 (rist. anastatica); A. Saitta, Accademie messinesi, cit. e S. Calleri, Messina moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 1991, pp. 317-364. 63 C. Spoto, L’Accademia Gioenia di scienze naturali in Catania e il “Giornale del Gabinetto letterario”. Scienze ed economia (1834-1868), in Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle Società economico-agrarie alle associazioni di economisti, a cura di M. Augello – M. E. L. Guidi, Vol. I, cit., pp. 395-420.
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maggiori esponenti dell’intellettualità appartenente alla cosiddetta seconda generazione
post-muratoriana. Accanto a nobili ed eruditi, si trovavano, soprattutto, molti ecclesiastici:
il fondatore Don M. Di Napoli, gli abati G. Natale, G. Costa e A. Leanti, che in quegli anni
era pure presidente dell’Accademia del Buon Gusto, ed i sacerdoti B. Ajuto, di origine
trapanese, e G. A. De Espinosa. Il fine della dotta riunione era quello di affrontare e
risolvere problemi concreti di tecniche agricole e di economia agraria, assumendo come
punti di riferimento culturale modelli ideologici fino ad allora estranei al classico sapere
accademico e sociale. Le Memorie di Don M. Di Napoli, Selva e condotta d’altro discorso
accademico per dimostrare i difetti del mietere usati universalmente nelle campagne e grave danno che da ciò
proviene e Discorso meccanico-politico colla descrizione di un carro di nuova invenzione per asciugare il
grano e tirare la paglia, del 1753, mettevano in risalto, per l’economia capitalistica isolana, il
ruolo primario dell’agricoltura e la necessità dell’investimento, su di essa, delle nuove
scoperte scientifiche e tecnologiche. Facendo tesoro dei dibattiti economici europei, il Di
Napoli univa alla consapevolezza delle carenze strutturali della Sicilia, un nuovo
programma dal carattere liberale e razionale. Nei suoi discorsi accademici, principalmente
rivolti ai proprietari terrieri perché incentivassero sui latifondi investimenti capitalistici,
erano chiari alcuni punti fermi: come la diffusione della cultura agronomica anche tra i
contadini affittuari, la costituzione di manifatture “di comodo” e l’introduzione di nuove
colture64. Tale intervento diretto alla formazione della cultura economica siciliana, poneva
l’ecclesiastico palermitano all’interno di un ambito riformistico che riguardava tutta Italia,
come quello inerente l’attività dell’abate veneziano G. Ortes, sulle osservazioni della nuova
concezione di distribuzione delle ricchezze, rintracciabili negli scritti Errori popolari intorno
all’economia nazionale e Dell’economia nazionale del 1771 e del 177465.
Come si evince da tale quadro molto articolato, la cultura economica siciliana, fin dalla sua
prima formazione autonoma dal carattere scientifico, a partire dall’Illuminismo, era nella
maggior parte dei casi espressa dalla classe ecclesiastica. Il clero illuminato, altamente
64 Sull’Accademia degli Agricoltori Oretei di Palermo, si veda M. Verga, L’Accademia degli Agricoltori Oretei (1753) di Palermo e le “macchine meccaniche” di Mariano Di Napoli, in Id., La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento, Olschki, Firenze 1993, pp. 149-182. 65 Cfr. G. Gullino, Collaborazione economica e divulgazione scientifica nel Settecento veneto: Girolamo Silvestri ed il “Giornale d’Italia”, in Girolamo Silvestri: 1728-1788. Cultura e società a Rovigo nel secolo dei Lumi, Atti del Convegno, 22-23 Ottobre 1993, pp. 113-125; E. Morato, L’economia nazionale di G. M. Ortes nei rapporti tra Stato e Chiesa, Giuffrè, Milano 1998 e T. Maccabelli – E. Morato, Il “bisognevole” e il “superfluo”: occupazione e distribuzione della ricchezza in Gianmaria Ortes, «Quaderni storici», 105, 3, 2000, pp. 731-766.
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influenzato dal pensiero razionalistico, faceva dell’economia il fulcro fondante delle sue
riflessioni, tanto per un ammodernamento strutturale dell’episcopato, ormai impossibilitato
a resistere ai cambiamenti socio-economici in corso, quanto per trovare una necessaria linea
di collegamento con la società civile, bisognosa di cancellare antichi privilegi ed organismi
feudali66. La cultura economica espressa da questa prima schiera di ecclesiastici, dando la
preminenza a determinate finalità, come la realizzazione della “pubblica felicità”, l’aumento
della produzione agricola per far fronte alla crescita del flusso demografico, ed il
miglioramento delle condizioni di vita delle classi sociali più svantaggiate, da realizzare
tramite il riconoscimento della responsabilità da parte dei proprietari terrieri e dei
governanti locali e nazionali, aveva pertanto la caratteristica di manifestarsi come una
cultura economica “etica”, ruotante sul riconoscimento della reciprocità di tutte le parti
sociali direttamente ed indirettamente coinvolte nel ciclo produttivo67. Riformismo
illuministico ed ecclesiastici aperti alle moderne istanze, quindi, presentavano orientamenti
di pensiero e proposte politico-interventistiche che, pur provenendo dal “partito degli
intellettuali”di ispirazione cattolica, non tralasciavano i caratteri più realistici. Se un valido
processo di laicizzazione ero circoscritto solo in alcune frange sociali chiuse nella loro
ristrettezza, la fede religiosa e la cattolicità di un vasto gruppo di ecclesiastici-economisti,
come visto, non solo raffigurava la facies ufficiale dal punto etico e politico, ma anche una
66 Tra gli altri ecclesiastici siciliani impegnati in ambito sociale, vi erano anche G. A. Delbecchi, dell’Ordine degli Scolopi che con l’ausilio del teatino G. Cottone aveva fondato a Palermo nel 1737 una scuola per giovani di umile estrazione; G. T. Ghezzi, che nel 1740 aveva istituito a Messina un collegio per la “gioventù civile”; G. Malberti, cultore di scienze matematiche ed economiche ed autore de Le ombre illustrate; e F. Murena, insegnate presso il Seminario di Monreale dal 1748. Tali autori, del resto, costituiranno per certi versi la base ideologica delle riflessioni cattolico-sociali del palermitano V. D’Ondes Reggio (1811-1885). Cfr. A. Sindoni, Vito D’Ondes Reggio. Lo Stato liberale, la Chiesa, il Mezzogiorno, Studium, Roma 1990 e C. Donati, Chiesa italiana e vescovi d’Italia dal XVI al XVIII secolo. Tra interpretazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXX, 2004, pp. 375-389. 67 Sul concetto storiografico di “Reciprocità”, in ambito economico, cfr. L. Bruni – V. Pelligra, Economia come impegno civile. Relazionalità, ben-essere ed economia di comunione, Città Nuova, Roma 2002; Le risorse immateriali. I fattori culturali dello sviluppo economico, a cura di M. Marini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; L. Bruni – Z. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004; Forme della Reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, a cura di L. Alici, Il Mulino, Bologna 2004; L. Bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Mondadori, Milano 2006; V. Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, Il Mulino, Bologna 2007; S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2007 e L. Bruni, L’ethos del mercato, Mondadori, Milano 2010.
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sentita e diffusa appartenenza ed una ricca riserva ideologica che accomunava parte della
classe dirigente, dell’intellettualità e della classe popolare68.
Dunque, se la cultura economica settecentesca si manteneva fondamentalmente all’interno
dell’ideologia basata sul bene pubblico, sul fine sociale e su una visione moralistica e
paternalistica dei problemi economici, col passare del secolo, invece, il rivelarsi di ulteriori
equilibri geo-politici poneva il dibattito economico isolano entro nuovi paradigmi strutturali
ed ideologici69. Il nuovo inserimento della Sicilia al Regno borbonico di Napoli in seguito al
Congresso di Vienna del 1815 ed al termine del relativo protettorato inglese, poneva l’isola
al centro dell’impegno politico napoletano tramite l’introduzione di una serie di riforme
amministrative, giudiziarie, tributarie e sociali già attuate nella parte continentale del Regno
nel decennio francese napoleonico-muratiano (1806-1815). Era l’apertura di una nuova fase
della storia della Sicilia per certi versi caratterizzata dall’unione tra la sicilianità e gli influssi
europei, inglesi prima e francesi dopo70. La Rivoluzione industriale avviata in Inghilterra alla
fine del XVIII secolo, in primo luogo, aveva portato dei cambiamenti nella concezione
dell’economia e nei fattori produttivi cui anche la lontana Sicilia, non poteva sottovalutare:
come la necessità di un mercato nazionale ed internazionale; l’utilizzo di nuove fonti di
energia; innovazioni tecniche; l’importanza degli investimenti finanziari, pubblici e privati;
ed il ruolo di una stabilità politica moderna71. Inoltre, nonostante l’abolizione ufficiale della
68 Cfr. R. Salvo, La storiografia sul pensiero economico in Sicilia dalla seconda metà del Settecento al 1848, in «Il pensiero economico italiano», I, 1, 1993, pp. 57-98 e F. Di Battista, L’odierna storiografia sugli economisti napoletani dell’Ottocento, in «Il pensiero economico italiano», I, 1, 1993, pp. 125-160. 69 Sul ruolo delle Accademie per la divulgazione del pensiero economico nell’Italia moderna, cfr. A. Balletti, L’Economia politica nelle Accademie e né Congressi degli scienziati (1750-1850), Forni, Bologna 1940; M. Rinaldi, La cultura delle Accademie. Immaginario urbano e scienze della natura tra Cinquecento e Seicento, Unicopli, Milano 2005; M. Torrini, Le Accademie scientifiche italiane tra XVII e XVIII secolo. Questioni di metodo storiografico, in Le passioni dello storico. Studi in onore di G. Giarrizzo, a cura di A. Coco, Edizioni Prisma, Catania 2000, pp. 617-637 e S. Drago, Le Accademie agrarie nella Sicilia del Settecento. Prospettive di ricerca ed orientamenti storiografici, in «Rassegna Siciliana di Storia e Cultura», 29, 2006, pp. 55-110. 70 Circa gli influssi degli ideali della Rivoluzione francese del 1789 in Sicilia, si rimanda a L’albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di B. Bongiovanni – L Guerci, Einaudi, Torino 1989; F. Furet – M. Ozouf, The Transformation of Political Culture: 1799-1848, Bergamon Press, Oxford 1989; A. Sindoni, Riflessi della Rivoluzione francese in Sicilia, in Aa. Vv., La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese, Celup, Roma 1991 e A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino, Bologna 1997. 71 Si rinvia a V. Castronovo, L’Industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1980; T. Kemp, L’industrializzazione in Europa nell’800, Il Mulino, Bologna 1988; G. Pescosolido, L’economia e la vita materiale, in Storia d’Italia. Le premesse dell’Unità, a cura di G. Sabbatucci – V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 3-118; P. Bini, L’Industrializzazione in Italia. Teorie economiche e ideologie dello sviluppo, in «Il pensiero economico italiano», III, 2, 1995, pp. 1-54; T. S. Ashton, La Rivoluzione
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feudalità e dei diritti privativi ad essa connessi con la Costituzione del 1812 dalla quale
prendeva avvio un vasto processo di privatizzazione di molti latifondi feudali ed
ecclesiastici, l’economia siciliana, soprattutto quella agricola, era entrata all’interno di un
quadro caratterizzato da una crisi economica interciclica che aveva colpito quasi tutta
l’Europa produttiva72. La fine delle guerre napoleoniche, la necessità di rinvigorire le casse
statali e la generale crisi di sovrapproduzione in cui l’offerta superava di gran lunga la
domanda solvibile, si accompagnavano in Sicilia da altri fattori: deficienza di un mercato
interno, che nel periodo dell’occupazione inglese, dal 1806 al 1815, era stato ovviamente
florido; relativa depressione dei prezzi delle derrate; generale disoccupazione contadina; ed
affievolirsi della libera iniziativa capitalistica. Per non parlare, inoltre, dell’inasprirsi dei
conflitti tra borghesia nascente, aristocrazia in calo e contadini ancora emarginati nel
processo di distribuzione di molti terreni allodiali; e della mancanza di una forte marineria
mercantile e di buone vie di comunicazione tra le zone interne estensive e le coste da cui
venivano esportati i prodotti. In seguito a tali elementi, la Sicilia, che non poteva
ovviamente permettersi di rimanere ai margini dello sviluppo capitalistico e della
competitività internazionale, cominciava ad elaborare una cultura economica che, a
differenza di quella circoscritta prodotta nel Settecento, era aperta alle istanze più
innovative provenienti dall’Europa e centrata sul compito della complementarietà del ruolo
economico che avrebbe potuto svolgere l’isola nel contesto di un allargato mercato
internazionale competitivo ma contrastato da una realtà economico-istituzionale ancora
piena di contraddizioni73. Nel 1838, infatti, P. Calà Ulloa, procuratore generale del Re
presso il Tribunale di Trapani, scriveva al Ministro della Giustizia N. Parisio:
industriale: 1760-1830, Laterza, Roma-Bari 1998; V. Zamagni, Dalla Rivoluzione industriale all’integrazione europea, Il Mulino, Bologna 1999 e Agricoltura come manifattura. Istruzione agraria, professionalizzazione e sviluppo agricolo nell’Ottocento, a cura di G. Biagioli e R. Pazzagli, Olschki, Firenze 2004. 72 Dopo la Costituzione siciliana del 1812 e l’abolizione formale della feudalità, il rapporto della proprietà fondiaria era costituita per il 12% come bene feudale ed il restante 88% come bene individuale di pieno diritto. Si veda A. Romano, Introduzione alla Costituzione di Sicilia stabilita nel generale straordinario Parlamento del 1812, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. XIX-LXIII. 73 Cfr. A. Petino, Società ed economia in Sicilia nell’età del Risorgimento, Cedam, Padova 1952; O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1977; Id., L’economia della Sicilia. Aspetti storici, Il Saggiatore, Milano 1992 e S. Laudani, Agricoltura e commercio tra Sette e Ottocento, in Storia della Sicilia, a cura di F. Benigno – G. Giarrizzo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 78-95.
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«Non può, Signore Eccellentissimo, recarsi in dubbio che la Sicilia non sia stata per lungo tempo
negletta, ma abbandonata del tutto. Scarsa di popolazione, senza strade, senza commercio, senza
industria, colle prepotenze del patriziato e le insolenze della plebe, la Sicilia resta tutt’ora come un
anacronismo nella civiltà europea. (…) Il commercio si riduce al semplice cabotaggio con Napoli,
ed a poche importazioni straniere. L’agricoltura è abbandonata del tutto. Si scorrono spazi
vastissimi di terra vergine, preda di erbe parassitarie. Il popolo che poltrisce nell’ignoranza
sdegnerebbe di apprendere nuovi ritrovati dell’agronomia. (…) Un fatto poi di natura tale che
avrebbe dovuto ferir gli occhi di tutti, par che qui sia generalmente ignorato: il molto numerario
sparso nel decennio degli inglesi nella Sicilia, colpa alla povertà ed all’abietto stato in cui l’isola è
caduta. (…) A tutto ciò aggiunga lo stato delle leggi per lungo tempo barbare ed incomposte»74.
Si trattava di elementi contraddittori che in parte derivavano dai postumi della rivoluzione
siciliana del 1820. Sulla scorta di quanto era avvenuto in Europa per la difesa di molte
libertà “pubbliche” e sociali, le insurrezioni siciliane, in modo particolare quelle diffusasi nei
centri minori, erano il frutto di una inevitabile lacerazione che sconvolgeva l’ordine civile
costituito e di una interpretazione della Costituzione di Cadice spagnola in parte concessa ai
siciliani come un forte principio cui appigliarsi contro il potere assolutistico degli sterili
feudatari75. Si trattava di un complesso quadro altalenante costituito, tra l’altro, da leggi e
disposizioni centrate sull’anti-protezionismo e sulla valorizzazione della libera proprietà
borghese capitalistica: come l’abrogazione del maggiorascato e del fedecommesso del 1818
che rendevano i vasti latifondi ex-gesuitici indivisibili, la distribuzione di ampi terreni ai
creditori soggiogatari del 1824, una nuova censuazione dei beni ecclesiastici e demaniali del
1838, e la limitazione dei dazi di esportazione e di importazione con una nuova
regolamentazione del libero cabotaggio tra la Sicilia e Napoli del 1824 e del 1846. Ma non
solo, a tali fattori economici, vanno aggiunti quelli religiosi che, in linea con il secolo
precedente, anche nel XIX, si intrecciavano con molteplici aspetti della realtà siciliana. In
un periodo di totale ridimensionamento giurisdinazionalistico del ruolo della Chiesa sulla
società, avvalorato da un nuovo Concordato del 1818 tra il Regno borbonico di Ferdinando
I e la Santa Sede di Papa Pio VII, caratterizzato da un nuovo tentativo di accostamento tra
74 Cfr. P. Calà Ulloa, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, Trapani 1838, in E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1961, pp. 232-233. 75 Sui disagi sociali e politici nella Sicilia degli anni Venti dell’Ottocento, stretta dalle “imposizioni” del Congresso di Vienna del 1815, cfr. F. Renda, Risorgimento e classi popolari in Sicilia: 1820-1821, Feltrinelli, Milano 1968.
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una linea razionalistica-secolarizzata, soprattutto negli affari politici ed economici, ed una
linea moderatamente cattolica, l’Ottocento religioso siciliano era caratterizzato, tra le altre
cose, dall’istituzione di tredici nuove diocesi, tra le quali a Piazza Armerina, Caltagirone,
Noto, Caltanissetta, Trapani ed Acireale, la prime due sorte tra il 1817 ed il 1818, mentre le
altre nel 184476. Nel contesto socio-economico siciliano appena descritto, non si trattava
solamente di un fenomeno religioso ascrivibile alla sola fede, piuttosto, diventava un filtro
fondamentale per l’intero processo di modernizzazione e di incivilimento della classi sociali
più garantite da una maggiore presenza ecclesiastico-istituzionale nel territorio. Non
casualmente, l’impatto delle frange più progressiste del cattolicesimo siciliano con gli ideali
ed i principi razionalistici e riformistici di derivazione illuministica, in modo più incisivo e
meno “sotterraneo”, nell’Ottocento dava luogo ad una serie di idee-forza di ispirazione
neo-guelfa capaci di smuovere e coinvolgere profondamente le classi politiche e sociali più
inclini al rinnovamento. L’incontro tra il fenomeno ecclesiastico e la cultura economica
avveniva, ed in maniera molto proficua, all’interno delle Società economiche. Molti dei suoi
membri societari appartenevano al clero, che, per inciso, a differenza del Settecento in cui
le riflessioni economiche riguardavano principalmente i vescovi ed i rappresentanti
ecclesiastici molto affermati sul campo nazionale ed estero (De Cosmi, Balsamo),
raffigurava ora una variegata forma episcopale, e quindi più vicina alle esigenze del
territorio e della società.
Nate con il decreto del 9 Novembre 1831 ed attive, pur con qualche discontinuità, fino alla
vigilia dello Stato unitario, le Società economiche, che rappresentavano il punto di arrivo di
un lungo riformismo agrario borbonico illuministico sette-ottocentesco legato
all’esperienza costituzionale del 1812, al protettorato inglese, all’eversione dell’asse
ecclesiastico, alla riforma del 1824 relativa alla distribuzione terriera ai creditori
soggiogatari, all’abolizione degli usi civici ed alla problematica della trasformazione dei vasti
feudi in allodii liberi, cercavano di coniugare le diverse articolazioni socio-economiche 76 Tra i punti stabiliti dal Concordato, composto da trentacinque articoli ed alla cui redazione avevano partecipato l’arcivescovo di Salerno G. Pinto, l’arcivescovo di Sorrento P. Tramaglia, il giurista R. Sarno ed il magistrato G. B. Vecchioni, vi erano il riconoscimento del Cattolicesimo come religione di Stato, la costituzione di nuove diocesi sul territorio ed il ripristino di molti Ordini religiosi. Cfr. G. Galasso, Il Governo della Restaurazione: Concordato, Codici e magistratura, amministrazione e istruzione, in Storia del Regno di Napoli, Vol. V, cit., pp. 109-137. Sul ruolo delle diocesi siciliane nel corso del XIX secolo anche nel contesto della soppressione di molti ordini religiosi nel periodo post-unitario, si rinvia a A. Sindoni, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno. Secoli XVII-XX, cit. e R. Pazzelli, La soppressione degli ordini religiosi al tempo dell’Unità d’Italia, in «Analecta Tertii Ordinis Regularis sancti Francisci», 36, 2005, pp. 669-688.
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regionali con gli impulsi economico-culturali provenienti dall’Europa77. In questo senso, le
Società si configuravano come cassa di risonanza della politica, della collettività e
dell’economia, oltre che come sedi di discussioni e dibattiti che risentivano degli echi del
pensiero europeo, ma pur sempre filtrato dalla specificità del caso siciliano. La caratteristica
principale dei consessi, in quanto organi governativi espressione di una nuova forma di
Stato più garante dei rapporti fra le varie classi sociali contro la prevaricante invadenza del
baronaggio al tramonto, distribuiti per ogni nuova provincia nate con la precedente riforma
amministrativa del 1817, consisteva nell’essere una vera e propria associazione diretta alla
promozione ed alla diffusione della cultura economica e di conoscenze agro-tecniche
sperimentali78. Si trattava, pertanto, di una peculiare progettualità teorica che poneva
l’attenzione sul graduale quanto necessario passaggio da un’economia locale e da una
cultura economica cameralista-assolutistica, ad un’economia capitalistica più competitiva e
ad una relativa cultura economica ricca di tanti fermenti moderni e liberali. Per il governo
borbonico impersonato da Ferdinando II di Borbone (1830-1859), la funzione burocratico-
amministrativa principale di queste nuove istituzioni – divise in due ambiti di intervento tra
economia rurale ed economia civile centri di promozione di vasti dibattiti riguardanti la
rimozione degli ostacoli allo sviluppo economico, la diffusione di tecniche agronomiche, il
confronto di politiche strategiche europee e la stimolazione delle attività manifatturiere –
riguardava principalmente la raccolta di dati e di notizie statistiche sulle realtà provinciali, la
pianificazione di una serie di interventi mirati alla soluzione di determinati problemi
77 Sull’istituzione delle Società economiche in Sicilia, cfr. Archivio di Stato di Napoli, Ministero Agricoltura, Industria e Commercio, fascicolo n. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845; Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle Due Sicilie, semestre II, 1831, pp. 131-161. Per gli studi critici, si rinvia a R. De Lorenzo, Società economiche e istruzione agraria nell’Ottocento meridionale, Franco Angeli, Milano 1998; P. Travagliante, Aspetti e tendenze del riformismo borbonico. Le Società economiche siciliane, in Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle Società economico-agrarie alle associazioni di economisti, a cura di M. Augello – M. E. L. Guidi, Vol. I, cit., pp. 461-491; A. Cardini, Le Società economiche e la “scienza allo Stato”, in «Società e storia», 99, 2003, pp. 159-165 e S. Drago, L’ultimo tentativo di modernizzazione nella Sicilia borbonica: le Società economiche di Catania e Messina (1831-1861), in «Rassegna siciliana di storia e cultura», 21, 2004, pp. 67-118. 78 Sulla nuova geografia territoriale siciliana in seguito alla riforma politico-amministrativa del 1817, che aveva superato la precedente ripartizione isolana nelle tre Valli di Mazzara, Demone e Noto, cfr. Città capovalli nell’Ottocento borbonico, a cura di C. Torrisi, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1995 ed E. Iachello, La geografia politico-amministrativa della Sicilia nella prima metà del XIX secolo, in Le mappe della storia. Proposte per una cartografia del Mezzogiorno e della Sicilia in età moderna, a cura di G. Giarrizzo – E. Iachello, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 71-84. Mentre, circa le nuove strutture ed i compiti dello Stato all’interno del Regno borbonico tra il Settecento illuministico e l’Ottocento liberale, si rinvia a Risorgimento, democrazia e Mezzogiorno d’Italia, a cura di R. De Lorenzo,Franco Angeli, Milano 2003.
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contingenti, e la promozione di direttive utili su nuove tecniche colturali79. I membri della
classe ecclesiastica, pertanto, all’interno dell’attività societaria i cui soci erano suddivisi in
ordinari, onorari e corrispondenti, erano legati agli esponenti della nobiltà, della borghesia,
dei letterati e degli economisti da comuni interessi di natura economica. Quindi, data la
presenza provinciale delle varie Società, il campanilismo e la spicciola rivalità cittadina,
attraverso il coinvolgimento di tali elites culturali, venivano superati per far posto,
piuttosto, ad una nuova opinione pubblica, intesa come mezzo di collegamento con la
classe produttivo-contadina80.
La cultura economica prodotta entro tali Società, pertanto, tramite il non secondario ruolo
dei soci ecclesiastici, a differenza di quella prospettata dai cattolici illuminati che fin dai suoi
esordi aveva avuto delle forti valenze etiche e sociali, era eterogenea e formata da tanti
elementi complementari. Da Messina, il Monsignore G. Grano (1754), nel 1789 giudice
ecclesiastico della Regia Udienza, nel 1791 delegato della Regia Monarchia e nel 1815
membro per la compilazione dei codici del Regno di Sicilia, eletto presedente della Società
economica nel 1836, opportunamente annotava nella sua Orazione parenetica:
“per buona parte il tempo dei disordini non è più, dopo lunghi e miserandi sconvolgimenti la calma
sorride all’Europa. E ciò era per noi tanto più facile in quanto quella scuola di ragione universale è
seguita in Europa dal Vico e resa accessibile ai dotti dal Genovesi”81.
Il primo elemento costitutivo della cultura economica siciliana era infatti rappresentato dal
giusto riconoscimento nei confronti di A. Genovesi, che aveva fatto della sua esperienza
ecclesiastica, era stato ordinato sacerdote nel 1737, il fulcro fondante di tutto il pensiero
economico meridionale. Il punto centrale dell’intero pensiero genovesiano, ovviamente,
79 Cfr. G. Oldrini, Economia e filosofia nella Napoli di Ferdinando II, in «Studi storici», 2, 1970, pp. 199-228. 80 Le Società economiche, sorte nei vari Stati italiani tra il 1802 ed il 1812, avevano alla propria base un retroterra ideologico costituito dalla valenza delle Accademie agrarie sorte nel Settecento, dalla nuova legislazione economico-civile dello Stato francese napoleonico e dalla formazione di una nuova concezione della monarchia amministrativa inerente nuovi disegni geo-politici di controllo “governativo” sul territorio. Si veda B. Salvemini, L’innovazione precaria. Spazi, mercati e società nel Mezzogiorno tra Sette e Ottocento, Donzelli, Roma 1995. 81 G. Grano, Parenesi letta da Gaetano Grano presidente della Società economica di Messina nella solenne distribuzione dè premi il dì 4 Luglio 1836, Capra, Messina 1836, p. 7. (Il manoscritto è custodito presso la Biblioteca Universitaria Regionale di Messina, Fondo “Messano-Calabro”). Sulla biografia di G. Grano, si veda M. Canto, Dizionario biografico degli uomini illustri messinesi, Lodigraf, Lodi 1991, pp. 371-372.
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ruotava attorno alla grossa influenza che avevano avuto in Sicilia le sue Lezioni di commercio
ossia di economia civile, pubblicate a più riprese tra il 1765 ed il 1770. In tal senso, la cultura
economica siciliana che andava formandosi su tali lezioni, rivendicava l’autenticità di un
sapere che corrispondesse alle esigenze del progresso economico e civile, contro
l’astrattezza delle controversie metafisiche. Il contenuto antifeudale del programma
genovesiano, espresso inoltre all’interno del Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze
del 1754, conteneva una grossa polemica contro il monopolio fondiario feudale ed
ecclesiastico; l’attacco ai privilegi nobiliari e clericali; la richiesta di un nuovo indirizzo della
politica economica e finanziaria; la promozione di affitti terrieri ai contadini; la creazione di
Accademie agrarie; l’incentivazione alla formazione di nuove classi borghesi produttive; e il
costante ma sottile ruolo dello Stato e della Chiesa anti-assolutistica per lo sviluppo
economico-sociale, coinvolgente pure le classi meno abbienti82. Come già detto, se parte dei
principi del Genovesi sarebbero stati realizzati in Sicilia e nel Mezzogiorno negli anni
successivi alla sua formulazione, il pensiero genovesiano, comunque, rimarrà un termine
costante della cultura economica siciliana ottocentesca, soprattutto quello relativo al fattore
trainante delle classi produttive e contadine per il bene del commercio nazionale. L’abate
cassinese G. Barnaba La Via, presidente della Società economica di Caltanissetta a partire
dal 1838, ed autore di un’opera Agricoltura teorico-pratica per la Sicilia, scriveva nella sua
Prolusione alla seduta generale della Società economica di Caltanissetta:
“Noi eravamo ancora lontani di avere uniforme legislazione con una nazione, da cui non siam divisi
che per un brevissimo tratto di mare, una nazione presso cui fiorirono in ogni età le scienze e le
lettere e la quale diede all’Europa il Genovesi ed il Galiani”.83
82 Sulla biografia ed il pensiero dell’abate A. Genovesi, cfr. M. L. Perna, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 53, pp. 148-153; R. Villari, Antonio Genovesi e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in «Studi storici», 1, 1970, pp. 26-52; M. De Luca, Sviluppo del Mezzogiorno ed economisti napoletani del Settecento, in «Annali del Mezzogiorno», 1, 1977, pp. 45-104; F. Di Battista, Dalla tradizione genovesiana agli economisti liberali. Saggi di una storia del pensiero economico meridionale, Cacucci, Bari 1990; A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, Laterza, Roma-Bari 2001. (Cap. IV, “Dal corpo politico alle tavole economiche”, pp. 86-126) e Genovesi economista nel 250° anniversario dell’istituzione della cattedra di “Commercio e Meccanica”, a cura di B. Jossa – R. Catalano – E. Zagari, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2007. 83 G. Barnaba La Via, Prolusione alla seduta generale della Società economica della Valle di Caltanissetta letta dal presidente di quella Valle il dì 30 Maggio 1835, in «Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia», IV, 1835, p. 87. Sempre dell’accademico La Via, cfr. Descrizione geologica e mineralogica dei contorni di Caltanissetta, Li Pomi, Caltanissetta 1832 e Sulla propagazione dei boschi in Sicilia letta nell’adunanza della Società economica di Caltanissetta del Maggio 1835, in «Giornale di scienze, lettere e arti per la Sicilia», 1835, pp. 302-311. Sul pensatore siciliano, si rinvia a A. Di Gregorio, Gregorio Barnaba La Via: un
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L’abate F. Galiani, considerato l’altro nome di riferimento della cultura economica
societaria della Sicilia, veniva principalmente valutato per il suo contributo, sostenuto
all’interno degli scritti Della moneta del 1751 e nei Dialoghi sul commercio dei grani del 1770,
relativo alla teoria della specificità produttivo-commerciale delle regioni e degli Stati per la
formulazione di politiche economiche adeguate84.
Il ruolo strategico del Mediterraneo, la naturale fertilità cerealicola e il fatto di essere
“madre fecondissima di ingegni sublimi”, come sosteneva Monsignor G. Grano, facevano
della Sicilia un luogo privilegiato da incentivare economicamente con delle opportune
politiche economiche adeguate alle condizioni morfologiche e sociali del tempo. La
respinta di concezioni economiche troppo astratte ed universali non era espressione di una
forma di “ateorismo”, piuttosto era intesa come una costante ricerca di tutte le opportunità
di accrescimento economico-sociale delle realtà locali. Di conseguenza, all’interno dei
dibattiti delle Società, il senso dell’economia politica seguiva una direzione evolutiva che,
partendo dalle grandi concezioni di respiro europeo, finiva per diventare lo strumento
principale attraverso cui si cercava di elaborare un sapere capace di collegare i principi
economici teorici con la realtà storico-empirica, accessibile, tra le altre cose, anche agli strati
più bassi della società. La cultura economica societaria, in primo luogo, prospettava una
politica di intervento nascente dalle particolari condizioni socio-economiche dell’isola, in
cui il referente comparativo con le altre Nazioni straniere, più che una sterile imitazione che
non avrebbe portato nessun profitto, doveva essere lo stimolo-guida per un progresso
autoctono siciliano. La totale emulazione nei confronti dell’Inghilterra industriale era da
soppiantare con lo sviluppo di nuove forme di adattamento con le risorse e le materie
prime offerti dal suolo siciliano. Dalla condotta agraria inglese, si dovevano tenere presenti
le sue peculiari caratteristiche basate sulla specializzazione colturale, sull’integrazione di una
buona pratica pastorizia, sulla capillare rete di comunicazione viaria, e soprattutto ecclesiastico prestato alla scienza. Profilo biografico, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», XCIII, I-III, 1997, pp. 197-230. Mentre, sulla storia di Caltanissetta tra Sette ed Ottocento, cfr. A. Sindoni, Dal riformismo assolutistico al cattolicesimo sociale, 2 Voll., Studium, Roma 1984. 84 Sull’abate napoletano F. Galiani, si rimanda a S. De Majo, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 51, pp. 456-465; L. Einaudi, Galiani economista, in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Queriniana, Roma 1953, pp. 267-305; R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, cit., pp. 72-79; N. Giocoli, La teoria dell’interesse di F. Galiani e l’ipotesi di Bernoulli: una grande occasione perduta?, in «Il pensiero economico italiano», V, 1, 1997, pp. 7-37; P. Amodio, Il disincanto della ragione e l’assolutezza del bonheur. Studio sull’abate Galiani, Guida, Napoli 1997 e R. Molesti, Studi sul pensiero economico moderno, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 11-22.
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sull’evoluzione dei provvedimenti governativi in materia economica, come l’abolizione di
molte norme tradizionali di stampo mercantilistico ed altre limitazioni e dazi che gravavano
sugli scambi commerciali con l’estero. Erano questi assiomi britannici a diventare, nei
progetti e nei dibattiti delle Società, i nuovi elementi dinamici della Sicilia agraria che
avrebbero posto la realtà territoriale siciliana nel giusto ambito competitivo.
Dopo gli elementi derivanti dal Genovesi e dal Galiani e la promozione di politiche
economiche strutturali inerenti la specificità morfologica e sociale della Sicilia, un terzo
elemento della cultura economica siciliana, filtrata sempre attraverso il ceto ecclesiastico,
era costituito dalla velata tendenza neo-mercantilistica. Si trattava di un senso di
riconoscimento verso una parte della teoria economia elaborata dal controllore della
Finanze J. P. Colbert, nella Francia di Luigi XIV, dal 1663 al 1683, “colui che secondò il
movimento del suo secolo”, diceva il Monsignore G. Grano da Messina85. Nonostante la
teoria mercantilistica – che aveva il suo corrispondente nella dottrina del gallicanesimo
elaborata dal vescovo J. Bossuet (1627-1704) – fosse stata già nei primi anni del Settecento
totalmente superata, all’interno di alcuni progetti societari veniva considerata ancora attuale
e comunque in grado di offrire alcuni spunti di chiara riflessione economica. Dalla pratica
mercantilistica si coglievano solo certi aspetti, certamente non secondari, relativi alla
centralità del potenziale demografico per la crescita dello Stato; all’incentivazione delle
esportazioni mediante facilitazioni e premi concessi ai produttori; alla limitazione delle
importazioni con pesanti dazi; alla centralità di un mercato interno in fase di crescita; al
ruolo delle professionalità specializzate; ed alla creazione di nuove manifatture alcune delle
quali gestite direttamente dallo Stato. Parte di tali fattori, infatti, erano alla base di alcuni
provvedimenti realizzati tanto dal Governo borbonico quanto dalla libera iniziativa privata
nella Sicilia ottocentesca, come quella manifatturiera serica, enologica e zolfifera. Però, sulla
scia di molte rivalutazioni e di influenze straniere, si andava comprendendo che senza
un’accurata revisione dei rapporti rurali di produzione l’intero processo innovativo avrebbe
85 G. Grano, Parenesi letta da G. Grano presidente della Società economica di Messina, cit., p. 11. Altra importante Memoria, utile per la ricostruzione delle vicende del consesso messinese, è quella di P. Cumbo, Per la solenne inaugurazione della Società economica di Messina. Orazione parenetica del cavaliere P. Cumbo, Pappalardo, Messina 1833. (Biblioteca Universitaria Regionale di Messina. Fondo “Messano-Calabro”). Su P. Cumbo, cfr. M. Canto, Dizionario biografico degli uomini illustri messinesi, cit., pp. 37-38. Sulla teoria mercantilistica, cfr. E. F. Heckscher, Mercantilism, 2 Voll., G. Allen and Unwin, London 1955; Il mercantilismo, a cura di G. Gioli, Le Monnier, Firenze 1978; E. Zagari, Mercantilismo e fisiocrazia. La teoria e il dibattito, Esi, Napoli 1984 e M. A. Romani, Mercantilismo e sviluppo dei traffici, in La Storia, Vol. III, L’età moderna. I quadri generali, cit., pp. 235-269.
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potuto retrocedere. La questione si dimostrava complessa ma di cruciale importanza: solo
dall’accrescimento della proprietà borghese e da una impostazione capitalistica
dell’agricoltura si sarebbero avuti i progressi economici per l’equilibrio modernizzatore
degli Stati. Era la premessa della formulazione fisiocratica86.
Dalla Società economica di Caltanissetta, il canonico G. Barnaba La Via sosteneva che
“l’agricoltura è la principale sorgente della ricchezza nazionale”, ma lo stesso monito si
levava anche dagli altri consessi87. La cultura economica, per avviare la Sicilia lungo le
direttrici di un commercio internazionale, prospettava una valorizzazione ed una
modernizzazione del settore primario agricolo, non solo perché l’isola deteneva molte
materie prime, ma anche perché notevole era l’influenza della dottrina fisiocratica francese.
La cultura economia siciliana, in ambito societario, era totalmente imbevuta delle nozioni
elaborate dal fondatore della scuola fisiocratica francese, F. Quesnay (1694-1774), che nel
suo Tableau èconomique del 1758 e negli articoli su Grani, Fattori ed Industria, scritti per
L’Encyclopèdie tra il 1756 ed il 1757, aveva chiaramente fondato il concetto delle vaste
potenzialità di sviluppo insite all’agricoltura, libera dai vincoli feudali, moderna, trasformata
in “grande agricoltura”e ruotante attorno al modello della fattoria inglese, come punto di
riferimento della lavorazione e trasformazione delle derrate agricole verso un’accelerazione
manifatturiera. Collegandosi in pieno al riformismo economico-ecclesiastico, dalla scuola
fisiocratica si apprendeva pure il principio della necessità della proprietà privata, soprattutto
quella legata ai grandi fondi ex-gesuitici e demaniali, in parte immessi sul mercato alla fine
del XVIII secolo ma che rappresentavano ancora, insieme ai vasti latifondi nobiliari, una
inesauribile fonte di ricchezza nazionale. Inoltre, l’aumento demografico della Sicilia e
l’apertura dei mercati europei potevano realizzare nell’isola pure il cosiddetto “buon
prezzo” dei prodotti agricoli: vale a dire un prezzo sufficiente tanto per coprire i costi
86 Cfr. M. Mallio, Riflessioni presentate alla Nazione francese dal signor Necker in difesa di Luigi XVI. Per la prima volta dal francese in italiano tradotte dal peloritano accademico detto il Sagace, Messina 1793. (Biblioteca Universitaria Regionale di Messina). Sulla scuola economica fisiocratica si rimanda a B. F. Hoselitz, Il capitalismo agrario come ordine naturale delle cose: Francoise Quesnay, in L’economia classica. Origini e sviluppo: 1750-1848, a cura di R. Faucci – E. Pesciarelli, Feltrinelli, Milano 1976; F. Ranchetti, La formazione della scienza economica. Quesnay, Smith, Say, Loescher, Torino 1977; Il dibattito sulla fisiocrazia a cura di G. Candela – M. Palazzi, La Nuova Italia, Firenze 1979; M. E. L. Guidi, Interessi agricoli e nascita dell’economia agraria: iniziative e discussioni, in «Il pensiero economico italiano», III; 2, 1995, pp. 55-96 e M. Overton, Il rinnovamento dell’agricoltura, in Storia dell’economia mondiale, Vol. III, L’età della Rivoluzione industriale, a cura di V. Castronovo, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 87-103. 87 G. Barnaba La Via, Prolusione alla seduta generale della Società economica della Valle di Caltanissetta, in «Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia», cit., p. 92.
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iniziali di produzione quanto per favorire il finanziamento degli investimenti produttivi. Era
una teoria che ben si adattava alla Sicilia, mediante una stimolazione dei suoi prodotti
agricoli tipici – come grano, agrumi, vino, oliveti, gelsi, lino, canapa e seta – l’introduzione
di altre colture specializzate e miglioramenti tecnici nella pratica agraria. Si trattava, in
pratica, di adottare nuovi metodi nella conduzione e nella varietà della produzione, al fine
di raggiungere guadagni più lauti su un mercato in espansione. Da Messina, il Monsignore
G. Grano, avvalorava un concetto di agricoltura inteso come scienza, nel senso che aveva
bisogno di principi generali dai quali attingere delle regole e delle pratiche; come arte, vale a
dire che bisognava tenere conto, nell’apportare dei progressi, della varietà paesaggistica
legata al suolo; ed infine come mestiere, cioè doveva essere esercitata da uomini laboriosi e
pazienti. Per l’ecclesiastico, infatti, le potenzialità da sviluppare erano quelle legate alla
produzione delle varie derrate locali, tramite l’istituzione di catechismi agrari recitati dai
parroci di provincia, e la pubblicazione di memorie ed opuscoli di argomento agronomico.
In pratica, lo spirito commerciale degli ecclesiastici siciliani societari, ruotando attorno alle
teorie dei predecessori De Cosmi e Balsamo, mirava pure alla formulazione di una nuova
legislazione, connessa con una politica economica mirante all’affermazione delle garanzie e
dei diritti dei contadini e delle proprietà. In tale direzione, il connubio tra la “scienza dei
campi” con la “scienza del diritto”, finalizzato ad uno sviluppo completo della realtà socio-
economica, che secondo l’insegnamento del Santacolomba avrebbe potuto realizzarsi
tramite un auto-riconoscimento dei vari ceti sociali e della loro rispettiva responsabilità per
il progresso finanziario, si allineava perfettamente alla teoria elaborata dal Quesnay circa la
suddivisione di tre classi civili per lo sviluppo commerciale: la classe produttiva degli
agricoltori, quella sterile dei manifatturieri, e quella dei proprietari terrieri. La prima
realizzava l’economia tramite l’apertura dei mercati dei prodotti agricoli; la seconda lavorava
le derrate agricole; mentre sulla terza avrebbe dovuto gravare buona parte del peso della
tassazione. Lungo tale direzione, la cultura economica dagli influssi fisiocratici, in Sicilia,
poneva in atto non solo una preliminare suddivisione del territorio, tra zone interne dalla
coltura estensiva cerealicola e zone costiere dalla coltura agraria e leguminosa, ma anche
una costante lotta contro l’assenteismo e la negligenza dei proprietari terrieri, eliminando
loro le esenzioni fiscali terriere ed insegnando, piuttosto, la necessità di un maggiore
investimento sui terreni88.
88 Sulle teorie generali, si rinvia a M. Bandini, Cento anni di storia agraria italiana, Cinque lune, Roma
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Ma lo sviluppo del settore agricolo, inoltre, doveva essere completato da quello delle
manifatture di prima necessità. In tale direzione, il maggiore sostenitore era il canonico I.
Avolio, presidente della Società economica di Siracusa dal 1832. Quasi tutti i progetti
societari erano infatti indirizzati a trovare politiche economiche ancorate alla particolare
situazione di ogni provincia ed identificare i settori del progresso nazionale, oltre che
nell’agricoltura, anche nelle manifatture e nel commercio. Si prospettava un’agricoltura
moderna e razionale, delle manifatture perfezionate nelle tecniche, ed un commercio
alleggerito dai pesanti dazi ed avviato verso un libero circuito di import-export dei prodotti
isolani. In tale direzione, la dicotomia tra “agriculturismo” ed “industrialismo”, che
rispecchiava una querelle delle politiche economiche del tempo, veniva assunta non come
una contrapposizione esclusiva di uno dei due termini, piuttosto come unica fonte
principale per uno sviluppo completo di tutte le potenzialità isolane89. La cultura economica
prospettata dagli ecclesiastici, pertanto, era una cultura economica di equilibrio e di
comparazione: equilibrio tra agricoltura, industria e commercio, ma anche tra interessi dei
proprietari terrieri, della classe governativa locale e dei contadini lavoratori; e comparazione
tra lo sviluppo della Sicilia agraria-manifatturiera con gli Stati europei più avanzati, cui il
mercato in espansione, non poteva farne a meno.
Lo sviluppo tardivo della struttura commerciale siciliana, inoltre, faceva prospettare la
necessità di una politica premialistica e di incoraggiamento, mediante la vigile concessione
di favori fiscali per l’apertura di manifatture ex-novo. A partire da questo aspetto, legato
soprattutto a quello relativo alla difficoltà di trovare capitali disponibili, un primo approccio
in tal senso derivava da uno dei cardini principali della cultura economica di allora: la
liberalizzazione del commercio dei grani. Le teorie del giusto prezzo delle derrate granarie e
del ruolo dello Stato in qualità di supervisore di improvvisi sbalzi dei prezzi, elaborati dal
Caracciolo e dal De Cosmi, ponevano un’attenta riflessione sulla necessità del liberismo
economico su tutti gli altri generi produttivi. La teoria liberistica prospettata dagli
1957; G. Felloni, Profilo di storia economica dell’Europa. Dal Medioevo all’età contemporanea, Giappichelli, Torino 1997; G. Chaussinand Nogaret, La disintegrazione dell’Ancien Règime, in Storia dell’economia mondiale, Vol. III, L’età della Rivoluzione industriale, a cura di V. Castronovo, cit., pp. 51-67; Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Firenze 1992 e Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, a cura di P. Bevilacqua – G. Corona, Donzelli, Roma 2000. 89 I. Avolio, Discorso di apertura della Società economica della Valle di Siracusa recitato dal presidente della medesima Canonico Ignazio Avolio nella Sala dell’Intendenza il dì 2 Ottobre 1832, Pappalardo, Siracusa 1833. (Biblioteca Universitaria Regionale di Palermo. “Fondi Antichi”). Si veda, inoltre, I moti del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni Trenta, a cura di S. Russo, Ediprint, Caltanissetta 1987.
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ecclesiastici, proveniva in Sicilia attraverso la diffusione dell’opera di J. Turgot (1727-1781)
Riflessioni sulla formazione e la distribuzione della ricchezza del 1766, e soprattutto tramite la
ricezione dello scritto Saggio sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, elaborato in
cinque libri dall’economista scozzese A. Smith e pubblicato nel 177690. La teoria degli
interessi individuali e collettivi economici che secondo il pensiero del Smith si sarebbero
potuti realizzare in maniera complementare solo se inseriti all’interno di un libero mercato
concorrenziale, veniva ripresa e corretta dagli ecclesiastici societari all’interno del contesto
siciliano, in cui i rendimenti tra proprietari terrieri e contadini, tra sviluppo agricolo ed
industriale avrebbero potuto trovare compimento secondo modalità liberistiche. Si trattava,
seguendo la linea smithiana, di liberalizzare il mercato interno siciliano da dazi, gabelle e
decime, che in parte erano state abolite, e trovare la giusta applicazione dell’avvio
manifatturiero, opportunamente centralizzato sulla pratica della suddivisione del lavoro.
Solo in tal modo, infatti, si potevano realizzare specializzazione tecnica, aumento dei
prodotti e relativo allargamento dei mercati. Quest’ultimo fattore avrebbe creato un giusto
collegamento anche con l’aumento del reddito dei lavoratori impegnati nelle manifatture e
dei capitalisti, pronti, di conseguenza, ad ulteriori investimenti imprenditoriali. La Sicilia,
nell’ottica dei progetti riformistici degli ecclesiastici-economisti, si addiceva perfettamente
alla realizzazione degli assiomi smithiani. Se tramite la politica economica borbonica attuata
tra il 1824 ed il 1845 relativa all’abrogazione dei dazi di esportazione e quelli di
importazione che aveva aperto una nuova fase degli scambi isolani con Napoli e con
l’estero era stato realizzato un primo tratto liberistico, la totale apertura dei mercati
regionali, nazionali ed internazionali dei prodotti agricoli e di quelli manifatturieri avrebbe
creato, oltre che un maggiore profitto derivante da un controllo naturale dei prezzi, una
sana e proficua competizione non solo tra i proprietari di manifatture, ma anche tra i
capitalisti stranieri costantemente in ricerca di nuove materie prime e di ulteriori sbocchi dei
prodotti. L’intero impianto teorico e concettuale del liberismo siciliano, si inseriva
all’interno dell’alveo del progresso fisiocratico, vigilato, nei primi anni della sua
90 Cfr. M. Herland, En marge d’un bicentenarie. Valeur et prix chez Turgot, in «Reveue èconomique», 3, 1982, pp. 462-445; E. Pesciarelli, La Jurisprudence economica di Adam Smith prima della pubblicazione della “Ricchezza delle Nazioni”, Giappichelli, Torino 1988; A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, cit., pp. 86-168 e G. Gattei, Il difficile equilibrio. Studi di storia del pensiero economico moderno, Giappichelli, Torino 1994 ed E. Ferrari, Adam Smith. Fortuna e critiche, Montedit, Milano 2010. Sul quadro generale del pensiero economico italiano moderno, si veda Il pensiero economico italiano: 1850-1950, a cura di M. Finoia, Cappelli, Bologna 1980 e H. Bartoli, Historie de la pensée économique en Italie, Publications de la Sorbonne, Paris 2003.
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applicazione, da una politica governativa protettrice. L’estrema divergenza tra liberismo e
protezionismo, secondo la visione della cultura economica di quegli anni, infatti, sarebbe
stata auto-distruttiva per le possibilità produttive della Sicilia. La generale e più diffusa fede
liberistica degli ecclesiastici, infatti, cedeva il passo anche ad un’attenta visione del ruolo
dello Stato al quale veniva riconosciuto il compito di sostenere le manifatture con
concessioni di vario genere. Secondo tale visione, quindi, l’aspetto liberistico del
commercio agricolo-manifatturiero siciliano, dava alla cultura economica un senso di
equilibrata completezza, in cui, di fronte ai mercati concorrenziali internazionali, nessuna
via allo sviluppo capitalistico era preclusa91. Seguendo tale linea interpretativa, gli
ecclesiastici, rendendosi conto che una rivoluzione industriale ed agraria dallo stile inglese
non fosse possibile, difendevano il semi-liberismo come uno strumento di difesa e di
conservazione delle manifatture nascenti e dell’economia isolana. Infatti, lo sviluppo
auspicato era fortemente autarchico, tale da non provocare delle rotture traumatiche degli
equilibri interni e soprattutto da non porlo in maniera diretta sul campo delle grandi sfide
concorrenziali con gli altri Paesi europei più avanzati. In ogni caso, comunque, tale cultura
economica si esprimeva in un mutamento interno dell’organizzazione giuridico-sociale del
mondo rurale, nel segno dell’assoluto prevalere dell’appropriazione e dell’utilizzazione
capitalistica dei terreni, e dell’affermarsi dell’efficienza della grande coltura, con
l’introduzione di nuove tecniche agronomiche. In tale direzione, se in precedenza le
questioni legate all’annona erano regolate solamente sull’approvvigionamento del mercato
interno, tra Sette ed Ottocento, la nuova cultura economica prospettava come le possibilità
produttive non potessero prescindere dalla libertà degli scambi delle derrate primarie, dalla
soppressione di ogni dazio e dalla riduzione al minimo del controllo statale, al fine
dell’inserimento del commercio siciliano in ambito europeo e mediterraneo92.
La cultura economica siciliana, quindi, pur svelando, nella complessità delle diverse
situazioni, strutture più o meno aperte all’accoglimento degli stimoli derivanti dalle 91 Per un punto di riferimento fondamentale, nel contesto di un quadro economico-sociale e politico della Sicilia in età moderna, cfr. G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro – G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Vol. XVI, a cura di G. Galasso, Utet, Torino 1989. 92 Sul compito dello Stato per lo sviluppo economico, si rinvia a Il ruolo dello Stato nel pensiero degli economisti, a cura di R. Finzi, Il Mulino, Bologna 1977; R. Giuffrida, Aspetti storici dell’economia siciliana nell’Ottocento, Telestar, Palermo 1973; M. Grillo, Protezionismo e liberismo. Momenti del dibattito sull’economia siciliana del primo Ottocento, Cuecm, Catania 2000; Id., L’isola al bivio. Cultura e politica nella Sicilia borbonica (1820-1840), Del Prisma, Catania 2000 e G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari 2007.
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modifiche in corso negli altri ambienti europei, appariva in ogni caso fedele ad un concetto
di autonomo sviluppo commerciale di graduale crescita e non privo di indicazioni
esemplari, come la mediterraneità dell’agricoltura isolana legata alla fertilità del suolo ed ai
suoi prodotti locali. Si trattava di un fattore che sarebbe stato portato avanti, tra i tanti
ecclesiastici-economisti in questione, anche da G. Alessi. Il sacerdote di Enna – insegnante
di diritto canonico all’Università di Catania, fondatore di un importante Gabinetto di
mineralogia, socio dell’Accademia Gioenia, della Società economica di Catania e pertanto
attivo promotore della cultura scientifica ed economica della Sicilia Sette-Ottocentesca –
nei suoi scritti Discorso sulla ricerca e sullo scavo delle miniere metalliche in Sicilia del 1837 e Sui
mezzi di ovviare alla pubblica miseria negli anni di sterilità e di penuria del 1847, avvalorava
l’esigenza di rinnovamento economico legato comunque al consolidamento del nuovo
assetto borghese ed alla stimolazione degli elementi indigeni mediterranei93. Ne era ben
consapevole, inoltre, l’abate palermitano V. Natale, che, totalmente influenzato dalle idee
genovesiane e dalla fiducia nel riformismo moderato borbonico, nella sua opera Della
prosperità della Sicilia e delle sue cause nell’epoca greca del 1834, intendeva il progresso come un
processo unitario di promozione di tutte le variabili possibili: economia, società, politica,
cultura e religione. Il suo contributo alla cultura economica siciliana, consisteva nel
prospettare una politica economica in cui le istituzioni dello Stato e della Chiesa, intesi
come elementi di controllo sul territorio e di stabilità sociale, avrebbero potuto sostenere
un’incentivazione commerciale ascrivibile al neo-mercatilismo ed al semi-liberismo
controllato, ma senza trascurare le influenze circa i concetti del mercato e della rendita
fondiaria analizzati rispettivamente da A. Smith e da D. Ricardo94. Dai Principi di economia
politica e dell’imposta dell’economista inglese, pubblicato nel 1817, il Natale, e con lui molti
altri ecclesiastici-economisti societari, aveva infatti adeguato la teoria dei costi comparati –
che consisteva nell’importanza che ogni Paese si specializzasse nella produzione di pochi
93 Sul Canonico G. Alessi, cfr. A. Scibilia, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., Vol. 2, pp. 242-243; G. Libertini, L’Università di Catania dal 1805 al 1865, in Storia dell’Università di Catania, Cuecm, Catania 1934, pp. 316-320 e L’Accademia Gioenia. 180 anni di cultura scientifica (1824-2004). Protagonisti, luoghi e vicende di un circolo di dotti, a cura di M. Alberghina, Maimone, Catania 2005. 94 V. Natale, Della prosperità della Sicilia e delle sue cause nell’epoca greca, in «Giornale del Gabinetto letterario dell’Accademia Gioenia», Tomo II, 6, 1834, pp. 80-107. Con quest’opera, il Natale apriva una disputa culturale con un altro illuminista della Sicilia del tempo, Domenico Scinà, autore di un saggio dal titolo I popoli che abitarono la Sicilia prima delle colonie elleniche, non furono scienziati, come si pretende dai nostri scrittori, ma giunsero di mano in mano allo stato di civiltà sociale, «Effemeridi scientifiche letterarie per la Sicilia», Tomo II, 5, 1832, pp. 94-123. Su tale argomento cfr. M. Grillo, L’isola al bivio. Cultura e politica nella Sicilia borbonica (1820-1840), cit., pp. 63-96.
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prodotti nazionali e nella sua commercializzazione con altri Stati posti in uguali condizioni
strutturali economico-sociali – con la realtà siciliana, qualificata nei prodotti agricoli, e da
inquadrare in un necessario movimento di esportazione verso gli altri Stati italiani e
stranieri ed in parità di guadagno finanziario reciproco95. Si trattava di un giusto e razionale
equilibrio, ben espresso anche da Monsignore G. Grano da Messina: “Credete forse che il
vigilante straniero venga ancora a fare acquisto di generi grezzi e immetterli lavorati di
nuovo? Miei, soci, io credo di no”96. Tramite una corretta legislazione e la stimolazione di
politiche economiche fisiocratiche, dedite all’incentivazione manifatturiera ed inquadrate in
uno schema di semi-liberismo concorrenziale, la Sicilia, secondo l’ecclesiastico, avrebbe
potuto produrre ed esportare molte materie prime e manufatti regionali, senza essere invasa
da prodotti stranieri.
Come si evince da tale aspetto, i vari assiomi di economia politica che avevano trovato
ampia realizzazione nell’Europa moderna – vale a dire quelli genovesiani, neo-
mercantilistici, fisiocratici, semi-protezionistici e liberistici – andavano a coniugare la parte
costitutiva dei progetti degli ecclesiastici operanti all’interno delle Società economiche
siciliane, riproposti con una valenza peculiare. Mediante un rapporto dialettico in cui una
dottrina non precludeva l’altra, venivano piuttosto tutte “adottate” ed incanalate all’interno
di un quadro unitario che fosse più ricco possibile di potenzialità formative. In tal senso, la
contrapposizione tra ipotesi di sviluppo fisiocratiche e quelle industrialistiche, letta nella sua
complementarietà, tendeva ad investire istanze e teorie di ispirazione europea proiettate
all’interno delle possibilità di sviluppo siciliane. Tale era l’opinione, per esempio, anche di
ecclesiastici cosiddetti “minori” rispetto alle figure che avevano avuto un ruolo di primo
piano all’interno dei consessi. L’abate G. Russo, nel suo studio Sulle leggi fondamentali 95 Si rimanda a L. Porta, Introduzione a D. Ricardo, Principi di economia e dell’imposta, Utet, Torino 1986, pp. 9-102 e F. R. Mahieu, Ricardo, Il Mulino, Bologna 2001. 96 «Una volontà in voi nasce, ed una gara animi i vostri petti per non ricadere in quella lentezza in cui eravamo, e da generosi cerchiamo di collocarci a livello di quelle Nazioni, che oggi signoreggiano le altre, e che agghiacciate in tempo della loro rudezza non sono pervenute a questo incivilimento, che mediante questo volere, per cui la nostra nobile istituzione si riguardi, e si consideri non con occhio indifferente, ma come cosa più che salutare e che potrà produrre nell’avvenire immensi vantaggi». (G. Grano, Parenesi letta da G. Grano presidente della Società economica di Messina, cit., pp. 9-10). Sullo sviluppo economico della Sicilia del XIX secolo, cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1950; A. Cancila, Impresa, redditi e mercato nella Sicilia moderna, Laterza, Roma-Bari 1980; R. Battaglia, Sicilia e Gran Bretagna: le relazioni commerciali dalla Restaurazione all’Unità, Giuffrè, Milano 1983; M. D’Angelo, Mercanti inglesi in Sicilia: 1806-1815. Rapporti commerciali tra Sicilia e Gran Bretagna nel periodo del blocco continentale, Giuffrè, Milano 1988; S. Laudani, La Sicilia della seta. Economia, società e politica, Donzelli, Roma 1996 e S. Vinciguerra, L’isola costruita. Stato, economia e trasformazioni del territorio nella Sicilia borbonica, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002.
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annonarie dei primi anni del XIX secolo, riprendendo le idee rousseiane, avvalorava una
logica commerciale interamente centrata sul ruolo dei diritti: diritti primari ed assoluti, che
erano quelli legati alla proprietà ed ai consumatori, e diritti secondari. Ma per realizzare tale
“giustizia” economico-sociale ed avviare una conseguente modificazione degli apparati
latifondistici in senso liberistico, bisognava attuare una serie di provvedimenti, come
un’ulteriore censuazione di fondi, l’accrescimento del numero dei proprietari terrieri e la
bonifica di nuovi campi per una razionale specializzazione colturale97. Sulla stessa linea, si
poneva pure F. Ventura, che nella sua Memoria intorno ai corpi ecclesiastici e loro beni diretta al
supremo parlamento di Sicilia del 1813, considerando l’aspirazione alla proprietà come il
fondamento stesso della società civile e come condizione preliminare di ogni progresso
economico, concedeva sia allo Stato che alla Chiesa dei compiti precipui. Il primo avrebbe
dovuto incentivare la distribuzione ed il libero possesso dei fondi terrieri, mentre la Chiesa,
secondo un’ottica giurisdinazionalistica, avrebbe dovuto ridimensionare il potere temporale
ed aprirsi alle istanze di modernizzazione economico-liberale.
«Se Gesù Cristo avesse giudicato opportuno per la sua Chiesa che i suoi ministri possedessero fondi
per alimentarsi, e che le loro virtù ed il loro ministero avessero potuto comporsi con le sollecitudini
di un’amministrazione temporale, avrebbe chiamato all’apostolato i maggiori gran proprietari. (…)
Egli però li scelse poveri. (…) La triste esperienza di quindici secoli pienamente ci istruisce che nel
cuore degli ecclesiastici non può comporsi la sollecitudine dell’altare con le cure
dell’amministrazione dei beni temporali»98.
97 G. Russo, Sulle leggi fondamentali annonarie, Palermo 1832. A proposito delle sue teorie economiche, si legge: «Secondo il Russo, prima di introdurre la libertà assoluta di commercio, bisognava attuare una serie di provvedimenti che riguardavano la decadenza delle manifatture; la miseria estrema dei giornalieri e bracciali; il prezzo sempre crescente di case e di ogni altro progetto del genere. Egli si dichiarava convinto che, per conseguire l’effettiva libertà del commercio dei grani, bisognava accrescere il numero dei proprietari terrieri, procedendo all’abolizione dei fidecommessi, all’espropriazione e conseguente censuazione di tutti i fondi di quei proprietari terrieri che entro un anno non avessero stabilito la loro residenza in Sicilia». (Cit da F. Renda, La Sicilia nel 1812, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1964, p. 383). 98 F. Ventura, Memoria intorno ai corpi ecclesiastici e loro beni diretta al supremo parlamento di Sicilia, Adorno, Palermo 1813, p. 11. «Il Ventura considerava l’aspirazione alla proprietà terriera come il fondamento stesso della società civile e come condizione preliminare di ogni progresso economico, e quindi affermava come tesi di scienza politica che fosse interesse dello Stato che i cittadini possedessero la terra con il diritto di commerciarla, giacchè la dove si accumulava la grande proprietà, cresceva in proporzione la moltitudine degli oziosi e dei vagabondi». (Cit. da F. Renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 388). Cfr., inoltre, F. Renda, Risorgimento e classi popolari in Sicilia: 1820-1821, Feltrinelli, Milano 1968 e Id., Società e politica nella Sicilia del Settecento, in La Sicilia nel Settecento, a cura di G. Resta, Regione siciliana, Palermo 1980, pp. 9-39.
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Altri ecclesiastici membri societari che si erano cimentati in questioni economiche verso
una liberalizzazione della società siciliana in senso moderno, erano il Teatino P. Cultrera e
l’abate S. Li Volsi. Quest’ultimo, nativo di Caltanissetta, primo titolare di una cattedra di
agricoltura istituita nel capoluogo nisseno, tramite le sue opere, Dello studio dell’agricoltura:
orazione inaugurale per l’apertura della scuola agraria e Corso elementare di agricoltura scientifica
distribuito in otto memorie degli anni Trenta del XIX secolo, ricopriva nella Sicilia del tempo un
ruolo importante per la diffusione delle scienze naturali e della cultura economica liberale.
Un percorso modernizzatore lungo il quale si ponevano pure G. Piazzi, il Canonico D.
Privitera, il Canonico G. Sardo, il Cassinese F. La Valle, il Cardinale G. Triogona e P.
Ninfo99.
§ 5. Influssi europei e cesura del 1845. In un periodo in cui andavano delineandosi negli Stati europei nuove identità
nazionalistiche, antecedente la rivolta socio-borghese del 1848, sia la cultura economica che
il relativo sviluppo socio-commerciale della Sicilia sette-ottocentesca, rispecchiavano il
prodotto di una pluralità di fattori di origine endogena ed esogena, che però non si erano
dispiegati in modo sincronico e con uguale intensità, ma in maniera diversificata ed a volte
con efficacia diversa. Nell’ottica degli ecclesiastici-economisti, dunque, l’influenza di
assiomi economici moderni stranieri, dava vita ad una sentita esigenza di rinnovamento,
tramite il fiorire di proposte ed analisi il cui elemento comune risiedeva in una costante
preoccupazione di consolidare il dominio dell’assetto capitalistico-borghese dei rapporti
produttivi e commerciali, conservando, al tempo stesso, elementi strutturali morfologici-
paesaggistici della mediterraneità isolana100. La stimolazione di tale ultimo fattore,
d’altronde, costituiva il perno principale di molti trattati commerciali stipulati negli anni
1838-1845 tra il Regno borbonico e le maggiori potenze europee come Inghilterra, Francia,
Spagna, Russia, Prussia, Stati Uniti, Danimarca ed Austria, che raffiguravano, tra l’altro, con
la riduzione del 10% di buona parte delle merci importate nei porti meridionali, un graduale 99 Sugli ecclesiastici impegnati nella riflessione economico-sociale ed agraria, si veda L’Accademia Gioenia. 180 anni di cultura scientifica (1824-2004). Protagonisti, luoghi e vicende di un circolo di dotti, a cura di M. Alberghina, cit. e Preti sociali e pastori d’anime, a cura di C. Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1994. 100 Circa le discussioni preparatorie e le eventuali politiche di intervento in materia economica nella Sicilia pre-unitaria, cfr. P. Travagliante, Verso il ’61. Cultura economica e dibattito politico nella Sicilia degli anni Quaranta e Cinquanta, Franco Angeli, Milano 2010.
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temperamento del protezionismo borbonico-siciliano ed il relativo sostegno alla
manifatture autoctone101. Come sosteneva G. Grano: “mezzo efficace per lo progressivo
sviluppo di entrambi i rami di economia sarebbe quello di far tesoro dei risultamenti dè
principi dei dotti stranieri”102.
I riferimenti ai “principi dei dotti stranieri” si aprivano con la Political arithmetick pubblicata
postuma nel 1690 dall’inglese W. Petty, da cui veniva ripreso il concetto che vedeva nel
passaggio dal feudalesimo al capitalismo il ruolo necessario delle istituzioni politiche, per
garantire la proprietà privata dei mezzi di produzione e la possibilità di venderli ed
acquistarli. Era un principio, in effetti, che ben si addiceva alla realtà siciliana in cui il ruolo
del Governo borbonico avrebbe dovuto essere, secondo i progetti economici societari,
garante e stimolo delle privative agrarie e manifatturiere103. La contraddittorietà delle
strutture istituzionali e socio-politiche siciliane, ben si addiceva agli assiomi descritti in La
favola delle api ovvero vizi privati e pubblici benefici del 1714 dell’economista olandese B.
Mandeville, da cui veniva studiata la teoria relativa all’unione tra i “vizi privati” degli
individui con le “pubbliche virtù”. Per Mandeville, infatti, gli egoismi degli individui, se
controllati e gestiti da una corretta amministrazione politica, potevano essere trasformati in
“pubbliche virtù”, tramite una equilibrata attività commerciale all’interno della società
moderna mercantile. Soltanto in tale complementarietà, unita all’educazione ed alla morale
del buon comportamento, infatti, si sarebbe potuto realizzare un progresso economico e
sociale. Ed in Sicilia, gli egoismi ed i vizi della classe aristocratica ben si potevano conciliare
con gli interessi degli affittuari e dei contadini: le richieste dei beni di lusso, infatti,
101 Sulle relazioni commerciali europee tra Ottocento e Novecento, si rinvia a G. Formigoni, Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, Il Mulino, Bologna 2000. Circa il ruolo dei porti e delle vie marittime per lo sviluppo economico del Mezzogiorno tra età moderna e contemporanea, cfr. Luci del Mediterraneo. I fari di Calabria e Sicilia, a cura di F. Fatta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002. 102 G. Grano, Parenesi letta da G. Grano presidente della Società economica di Messina, cit., p. 9. 103 «W. Petty [1623-1687] è comunemente ricordato come il fondatore dell’aritmetica politica. Questa va intesa non tanto come un ramo della statistica, ma piuttosto come l’estensione al campo delle scienze sociali delle nuove idee, e, più in generale, della nuova concezione del mondo che si andavano affermando nel campo delle scienze della natura. Con essa, infatti, Petty tenta di introdurre il metodo quantitativo nell’analisi dei fenomeni sociali, per permetterne una trattazione più rigorosa. […] Lo sviluppo dei nuovi metodi di analisi è accompagnato da una critica radicale alla cultura tradizionale dominata dall’aristotelismo». (A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, cit., pp. 61-85: 63). Cfr., inoltre, A. Aspromourgos, An early attempt at some mathematical economics: William Patty’s 1687 algebra letter, together with a previously undisclosed fragment, in «Journal of the History of Economic Thought», 21, 1999, pp. 399-411.
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avrebbero incentivato un non indifferente movimento produttivo e commerciale104. Nei
confronti dell’economista irlandese R. Cantillon e del suo scritto Saggio sulla natura del
commercio in generale, elaborato tra il 1728 ed il 1734, il debito di riconoscimento era iscritto
nel principio relativo allo sviluppo socio-economico della società tramite la suddivisione
dell’attività commerciale in base al settore, suddiviso in agricoltura, artigianato e
commercio; alle classi sociali, divise in contadini, artigiani, commercianti e nobiltà; ed alla
localizzazione del suolo, frazionato tra campagna, villaggio e città. Ed infatti, anche nelle
proposte degli ecclesiastici era ben presente l’idea del potenziamento economico siciliano
da realizzare in maniera graduale passando in modo equilibrato da un settore ad un altro105.
La tesi popolazionistica, relativa alla necessità di tenere relativamente alto il trend
demografico siciliano, inoltre, non derivava soltanto dal pensiero del Genovesi, ma anche
da R. Malthus, sacerdote anglicano di Cambridge, autore di un Saggio sul principio della
popolazione del 1798. La sua teoria sul connubio tra popolazione e necessità di trovare nuove
risorse agricole ed aumento della relativa produzione manifatturiera, aveva incontrato in
Sicilia una certa corrispondenza, non solo tramite la messa a coltura dei vasti fondi ex-
gesuitici e demaniali, ma anche con notevoli aumenti dei manufatti rurali106. Infine, un
riscontro notevole, tra gli ecclesiastici siciliani, si era avuta anche nei confronti della famosa
“legge di Say”, elaborata dall’economista francese J. B. Say nel suo Trattato di economia politica
104 «Mandeville [1670-1733] contrappone una società tradizionale, di piccole dimensioni, in cui il compito di ciascuno è sotto gli occhi di tutti, a una società mercantile, basata sulla divisione del lavoro e quindi necessariamente più ampia: anzi, dato che la divisione del lavoro favorisce il progresso tecnico, è tanto più ricca quanto è più ampia». (Ivi, pp. 98-101: 100). Cfr. A. Branchi, Introduzione a Mandeville, Laterza, Roma-Bari 2004 e M. Simonazzi, Le favole della filosofia. Saggio su Bernard Mandeville, Franco Angeli, Milano 2008. 105 «La prima parte del Saggio di Cantillon [1697-1734] è la più interessante: quella che mostra come egli costituisca un elemento cruciale sulla strada che da Petty porta a Quesnay ed a Smith. […] Nella nostra interpretazione Cantillon prosegue la strada iniziata da Petty di costruzione della base concettuale utilizzata dagli economisti successivi, in primo luogo Quesnay, nei loro sistemi analitici». (Ivi, pp. 101-108: 103). Si rinvia, inoltre, a A. Brewer, Richard Cantillon pioneer of economic theory, Routledge, London 1992. 106 «Il pamphlet del Malthus [1766-1834] ebbe un ruolo specifico, e quindi una risonanza maggiore della letteratura precedente sull’argomento, portando al centro dell’attenzione non semplicemente il nesso tra crescita della popolazione e dei mezzi di sussistenza, ma anche e soprattutto le implicazioni di questo nesso per la scelta strategica se perseguire o meno obiettivi di cambiamento, anche radicale, delle istituzioni politiche». (Ivi, pp. 172-178: 176). Sul pensiero economico di R. Malthus, inoltre, cfr. G. Di Taranto, Popolazione e malthusianesimo nei dibattiti di fine secolo, in «Il pensiero economico italiano», III, 2, 1995, pp. 167-189 e T. Maccabelli, Il progresso della ricchezza. Economia, politica e religione in T. R.. Malthus, Giuffrè, Milano 1997. Riguardo le tesi popolazionistiche in Sicilia, si veda D. Ligresti, Dinamiche demografiche nella Sicilia moderna (1505-1806), Franco Angeli, Milano 2002.
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del 1803, consistente nella teoria secondo la quale sarebbe l’offerta a creare la domanda.
Secondo le proposte degli ecclesiastici elaborate all’interno delle Società economiche,
infatti, un livello medio-alto della produzione agraria e manifatturiera isolana, tramite la
realizzazione dei principi da loro elaborati, avrebbe accresciuto anche la domanda tramite il
ruolo determinante non solo del mercato interno in espansione demografica, ma anche con
quello estero più concorrenziale107.
Se tali impatti dottrinari stranieri, per la verità molto numerosi e proficui, che
rappresentavano un allineamento delle riflessioni degli ecclesiastici siciliani con le teorie
moderne di derivazione europea, erano i fattori esogeni prima annunciati, gli elementi
endogeni, al contrario, erano quasi tutti ascrivibili all’interno della stessa realtà socio-
strutturale siciliana riformistica. La cultura economia, infatti, era anche il frutto di
importanti contingenze che proprio durante il Settecento illuministico avevano trovato
un’alternativa e moderna evoluzione. Si trattava, per inciso, del ruolo della nuova
aristocrazia proprietaria terriera, tendente ad aperture liberistiche; della classe borghese
affaristica capace di cogliere ogni opportunità produttiva; del ceto di braccianti e contadini
che cominciava a sentire il peso della sua responsabilità per la crescita economica; ed infine,
del nuovo Stato amministrativo, inteso come il centro di organizzazione e promozione del
processo evolutivo socio-commerciale, garante di rapporti equilibrati fra le varie classi
sociali e portatore di una sempre più diffusa aspirazione anti-baronale. Da ciò, quindi,
emergeva una cultura economica che non era né utopica né limitante, ma realistica, eclettica
e tendente ad elaborazioni interpretative e normative armonicamente pensate per
l’attuazione del bene comune e del benessere socio-economico, che configuravano, del
resto, il fine delle dottrine economiche settecentesche rielaborate attraverso il filtro dei
cambiamenti del secolo successivo. Emerge, in tal senso, una cultura economica le cui
connotazioni fondamentali, improntate, tra l’altro, da un sano paternalismo e premialismo,
erano orientate, ma senza rivoluzionare del tutto il piano socio-politico esistente, a dare
risposte ai problemi più urgenti della realtà isolana: come il rallentamento del suo
commercio a causa della mancata valorizzazione delle rotte mercantili atlantiche; l’esistenza
107 Sul pensiero economico di J. B. Say [1767-1832], cfr. R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, cit., pp. 113-128 e A. Di Gregorio, La fortuna di J. B. Say in Sicilia nella prima metà del XIX secolo, in «Il pensiero economico italiano», XIII, 1, 2005, pp. 147-164. Sull’influenza degli economisti stranieri e delle loro relative teorie economiche in Italia tra età moderna e contemporanea, si rinvia a Le frontiere dell’economia politica. Gli economisti stranieri in Italia: dai mercantilisti a Keynes, a cura di R. Faucci, Polistampa, Firenze 2003.
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di vasti latifondi incolti, impaludati e monocolturali estensivi; la forte concorrenza e la
supremazia economica degli Stati dell’Europa del centro-Nord; l’inesistenza di un modello
produttivo alternativo; la refrattarietà culturale del baronaggio; e la debole circolazione, tra
tutti gli strati della società, di opuscoli dal carattere agronomico108.
Per concludere tale variegato quadro, vi è da dire, che se l’Illuminismo era stato il punto di
avvio della formazione e della diffusione della cultura economica siciliana, anche da parte
degli ecclesiastici, il 1845 rappresenta, invece, un momento di svolta nel dibattito, per
diversi ordini di motivi. Dalle Relazioni inviate dalle Società economiche siciliane al
Governo centrale napoletano, risalenti al 1845, è infatti possibile vedere attentamente la
realizzazione, sul territorio, delle proposte e dei progetti presentati negli anni; vale a dire, la
trasformazione della teorica cultura economica in pratica politica economica. In base a tali
Relazioni – che raffigurano il resoconto di poco più di un decennio di attività – è
riscontrabile un effettivo cambiamento ed un progresso dell’attività agro-manifatturiera:
dalla granicoltura estensiva si era passati pure all’agrumicoltura ed alla coltivazione di una
ricca varietà di legumi ed altri alberi da frutto; si erano avute specializzazioni pastorali;
erano stati introdotti nuovi strumenti tecnici di coltivazione provenienti dalla Toscana e
dall’estero; e soprattutto, contro le resistenze strutturali, si erano impiantate manifatture
agrarie109. Già alla fine del XVIII secolo era stata potenziata la manifattura serica,
concentrata soprattutto a Palermo, presso l’Albergo dei Poveri, ed a Messina; notevole
consistenza avevano raggiunto pure le manifatture della produzione di essenze di agrumi,
presso Messina e Catania, raggiungendo le 150000 casse di esportazione l’anno solo dalla
città del Peloro; ma il settore maggiorente in espansione era stato quello enologico, grazie
alle sue 53000 botti di esportazione l’anno, dirette verso il mercato inglese ed americano, in
sostituzione del vino francese e spagnolo. Inoltre, se l’industria zolfifera aveva raggiunto
108 Sullo sviluppo economico degli Stati italiani in relazione alle difficoltà strutturali e politiche, cfr. M. Aymard, La transizione dal feudalesimo al capitalismo, in Storia d’Italia. Annali I. Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino 1978. 109 Le questioni, di ordine economico e politico, su cui avevano fatto luce gli studi ed i progetti delle Società economiche, erano le seguenti: riportare una descrizione delle varie pratiche agricole utilizzate nelle province; offrire un ragguaglio delle produzioni agrarie; elencare tutte le Memorie lette e dibattute nelle Società; esporre gli esperimenti agro-manifatturieri effettuati; ed enunciare gli effettivi progressi realizzati nei settori agricoli ed industriali. Sugli aspetti congiunturali della crescita dell’economia italiana, pre e post Unità, in rapporto agli altri Paesi europei, cfr. G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico: 1750-1913, Laterza, Roma-Bari 1998; E. De Simone, Storia economica. Dalla Rivoluzione industriale alla Rivoluzione informatica, Franco Angeli, Milano 2006 e G. Pescosolido, L’economia siciliana nell’unificazione italiana, in «Mediterranea. Ricerche storiche», VII, 19, 2010, pp. 217-234.
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negli anni Trenta la voce commerciale più attiva della Sicilia, la produzione di sigari, di
sommaco, del sale e del pesce in scatola completava la variegata produzione isolana in un
circuito abbastanza equilibrato110.
All’interno di tale contesto, è lecito affermare che una parte del merito fosse ascrivibile al
ruolo degli ecclesiastici. Come visto, anche se la loro pubblicistica, alle volte, era frutto di
una intellettualità di provincia, rimaneva comunque l’unica e forte testimonianza dei livelli
di coscienza di un sistema in fase di trasformazione, in grado di fornire un chiarimento sui
termini, sul significato di un dibattito e sui rapporti produttivo-commerciali negli anni di un
travagliato e asfittico processo di ricambio sociale ed ammodernamento economico. Un
lato provinciale dei dibattiti economici, però, che spesso veniva soppiantato da aspetti di
risonanza nazionale. Nel 1845, infatti, in occasione del settimo Congresso degli scienziati
italiani, svoltosi a Napoli, tra vari scienziati ed economisti siciliani presenti, figuravano pure
alcuni esponenti della classe ecclesiastica: come il canonico G. Barnaba La Via, che aveva
letto una Memoria sul miglioramento della coltura delle vigne in Sicilia; il canonico G. Geremia,
autore di un saggio sulle bonifiche dei terreni; V. Cordaro, promotore di uno studio sulle
politiche liberistiche annonarie; e molti altri ecclesiastici111. La presenza di ecclesiastici in un
Congresso scientifico di specialisti, era non solo il segno di un grosso mutamento
intellettuale, ma indicava anche l’importanza della transizione verso la modernità allora in
atto, in nome di una compartecipazione laico-religiosa. Infine, il 1845, rappresenta un
momento di cesura per la cultura economica siciliana, a causa di una certa ripetitività delle
tematiche e delle questioni affrontate che avrebbe portato alla professionalizzazione
dell’economia ed al raggiungimento di diversi ed ampi canoni di scientificità, orientati verso
una pluralità di approcci in cui il fattore religioso – che significava una ripresa dei temi della 110 Cfr. O. Cancila, I dazi sull’esportazione dei cereali e il commercio dei grani nel Regno di Sicilia, in «Nuovi quaderni del Meridione», 28, 1969, pp. 410 e segg; Id., Le mete dei cereali e del vino a Palermo dal 1407 al 1822, in Studi dedicati a Carmelo Trasselli, a cura di G. Motta, Rubbettino, Soveria Mannelli 1983, pp. 160 e segg; R. Giuffrida, Tentativi industriali in Sicilia nel primo Ottocento, in «Economia e credito», 1, 1970, pp. 35-50; S. Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: le vicende degli agrumi siciliani, in «Meridiana», 1, 1987, pp. 81-112; O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1995 e O. Cancila, La terra di Cerere, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001. Per una visione europea dello sviluppo economico sette-ottocentesco, si veda R. Mathias, La crescita dell’economia-mondo, in Storia dell’economia mondiale, Vol. III, Dalle scoperte geografiche alla crescita degli scambi, a cura di V. Castronovo, cit., pp. 1-18. 111 Sul VII Congresso degli scienziati italiani ed il ruolo degli economisti siciliani, cfr. C. Spoto, L’Accademia Gioenia di scienze naturali in Catania ed il “Giornale del Gabinetto letterario”. Scienza ed economia politica (1834-1868), in Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle Società economico-agrarie alle associazioni di economisti, a cura di M. Augello – M. E. L. Guidi, Vol. I, cit., pp. 395-420 e 397-398.
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cultura economia settecentesca relativi all’educazione civile, alla pubblica felicità ed allo
sviluppo equilibrato – resisteva ancora come un assioma determinate non secondario. Da
questo periodo in poi, il nuovo punto di riferimento sarà costituito dalla dottrina
economica elaborata da F. Ferrara, uno dei principali economisti risorgimentali,
modernista, liberista e non casualmente con una formazione giovanile ecclesiastica112.
Per concludere questa variegata parabola evolutiva della cultura economica siciliana tra
Illuminismo e 1845, avvalorata dal fondamentale ruolo degli ecclesiastici anti-assolutistici
illuminati, vi è da dire che essa non solo era incanalata lungo un’ottica comparativistica, che
andava dalla dimensione locale-regionale a quella europea, senza trascurare il fondamentale
compito di una più equa e civile evoluzione sociale, ma portava anche a compimento, pur
tra non poche difficoltà ideologiche e strutturali, un’etica cattolica non avulsa dallo spirito
del capitalismo113. Si tratta, pertanto, di un lungo percorso che approderà nell’Enciclica
Rerum Novarum del 1891 di Leone XIII (1878-1903), espressione di un primo ed ufficiale
riconoscimento “cattolico” del liberismo economico, improntato, nell’ottica della
problematica del proletariato industriale europeo, sulla validità della libera iniziativa anti-
socialistica, sulla prosperità economico-sociale, sul ruolo dello Stato garante dei rapporti
civili e sull’ineluttabilità delle “intermedie” strutture sociali di promozione economica114.
112 Su F. Ferrara, cfr. R. Faucci, Ad vocem, in «Dizionario biografico degli italiani», Vol. 10, cit., pp. 474-484; A. Li Donni, Profili di economisti siciliani, Celup, Palermo 1983; Id., Francesco Ferrara precursore del marginalismo, in Francesco Ferrara ed il suo tempo, Bancaria Edizioni, Roma 1990 e R. Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, L’Epos, Palermo 1995. 113 Cfr. M. Novak, L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999; F. Felice, Capitalismo e Cristianesimo. Il personalismo economico di Michael Novak, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 e Ora et Labora. Le comunità religiose nella società contemporanea, a cura di A. Vaccaio – C. Stroppa, Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2003. 114 Sul rapporto tra Chiesa, pensiero cattolico e sviluppo economico capitalistico dal Cinquecento fino agli aspetti contemporanei, si vedano il classico A. Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, Vita e Pensiero, Milano 1934; M. F. Sciacca, La Chiesa e la civiltà moderna, Marzorati, Milano 1969; I cattolici nel mondo contemporaneo, a cura di M. Guasco – E. Guerriero – F. Traniello, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991; Il discorso della Chiesa sulla società, a cura di C. Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992; J. Y. Calvez, La Chiesa di fronte al liberalismo economico, Edizioni lavoro, Roma 1994; G. Manzone, Il Mercato. Teorie economiche e dottrina sociale della Chiesa, cit.; Dottrina sociale della Chiesa e ordine economico, a cura di A. F. Utz, Edizioni Dehoniane, Bologna 1993; F. Volpi, Lezioni di economia dello sviluppo, Franco Angeli, Milano 2003; A. M. Baggio, Etica ed economia. Verso un paradigma di fraternità, Città Nuova, Roma 2005; A. Spampinato, L’economia senza etica è diseconomia. L’etica dell’economia nel pensiero di Don Luigi Sturzo, Il Sole 24 Ore, Milano 2005; F. Felice, L’economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008 e Etica e capitale. Un’altra economia è davvero possibile?, a cura di D. Tettamanzi, Rizzoli, Milano 2009; Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, a cura di F. Forte – F. Felice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010 e Humanism and Religion in the History of Economic Thought, a cura di D. F. Parisi – S. Solari, Franco Angeli, Milano 2010.
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CHI SIAMO Il Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche nasce dalla collaborazione tra la Fondazione Novae Terrae ed il Centro Cattolico Liberale al fine di favorire l’incontro tra studiosi dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storico inglese Lord Acton, nonché di cultori ed accademici interessati alle tematiche filosofiche, storiografiche, epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche e culturali, avendo come riferimento la prospettiva antropologica ed i principi della Dottrina Sociale della Chiesa. PERCHÈ TOCQUEVILLE E LORD ACTON Il riferimento a Tocqueville e Lord Acton non è casuale. Entrambi intellettuali cattolici, hanno perseguito per tutta la vita la possibilità di avviare un fecondo confronto con quella componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo, utilitarismo e materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni con quelle tipiche del pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana. MISSION Il Centro, oltre ad offrire uno spazio dove poter raccogliere e divulgare documentazione sulla vita, il pensiero e le opere di Tocqueville e Lord Acton, vuole favorire e promuovere una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi della concorrenza, dello sviluppo economico, dell'ambiente e dell'energia, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, della fiscalità e dei conti pubblici, dell'informazione e dei media, dell'innovazione scientifica e tecnologica, della scuola e dell'università, del welfare e delle riforme politico-istituzionali. Oltre all'attività di ricerca ed approfondimento, al fine di promuovere l'aggiornamento della cultura italiana e l'elaborazione di public policies, il Centro organizza seminari, conferenze e corsi di formazione politica, favorendo l'incontro tra il mondo accademico, quello professionale-imprenditoriale e quello politico-istituzionale.
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