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DOLEO ERGO SUM
( l‟iter poetico di S. Quasimodo da “Nuove poesie” a “La vita non è sogno” )*
In “NUOVE POESIE” i temi legati alla terra natale – mito di una primitiva innocenza – ai
ricordi dell‟infanzia e al senso tragico della fugacità del tempo, già presenti nelle precedenti
raccolte ( “Acque e terre”; “Oboe sommerso”; “Erato e Apòllion”), ritornano in forme tradizionali e
con una più fluente musicalità a delineare un “nuovo” iter poetico sostenuto da una profonda
nostalgia e dall‟amore che Quasimodo nutre per la sua terra di Sicilia, sentimenti che in quelle
sillogi rimangono velati all‟interno del più vasto sentimento per la “stagione felice” dell‟uomo,
universalmente sognata, che la fatica del ricordare, non confortata dall‟esperienza, rende
irrevocabilmente “patria perduta”. Siamo qui, dunque, lontani dal nóstos omerico, da quell‟ “antica
voce” che è l‟odissea del Canto: quell‟ “0boe sommerso” del quale è possibile cogliere soltanto
“risonanze effimere” nella profondità della “liquida” notte.(1)
La Sicilia non è l‟ “Isola di Ulisse”: metafora del Canto e modello sul quale il nostro Poeta
confronta la condizione dell‟uomo contemporaneo. La Sicilia è l‟ «isola», foscolianamente
irraggiungibile, la «terra materna» che dal Poeta potrà ricevere solo il dono del «canto». Tuttavia, in
Quasimodo, la lacerante separazione dalla terra d‟origine si carica di un dolore, le cui ragioni vanno
oltre la condizione dell‟ «esule». Perché il dolore non è solo lontananza. Esso ha nella Sicilia la sua
connotazione geografica ed è segnato sensibilmente dal trascorso storico-sociale di quella terra.
Così il dolore ha radici “ataviche” e vi corrisponde un senso profondo di allontanamento, di
abbandono. Perché la Sicilia è terra d‟ «esilio» che “esilia” e, dunque, (è) «isola». Essa, tuttavia,
non è mai dal Poeta rinnegata, anzi è sempre cercata, perdutamente amata. Solo la memoria
concede dei ritorni. Simile a una gazza, essa ruba all‟oblio attimi d‟infanzia e nel ricordo il Poeta
s‟illude di cogliere il “segno vero della vita” perché vivere è ricordare e ricordare è ri-vivere
( secondo la lezione platonica ) ed è uscire dal sogno e sottrarsi alla fascinazione del mito. Ma
quegli attimi presto ridiventano ombre, “remoti simulacri”. La gazza-memoria, allora, torna a
ripiegarsi sull‟oblio stendendo la sua ala “nera” sulle dorate distese dei ricordi (gli “aranci” ).(2)
Non è una memoria mitica, né sempre proustiana. In essa affiora ciò che semplicemente il Poeta
ama ricordare. In primo piano è il paesaggio siciliano evocato quasi sempre insieme con le
percezioni sensoriali, e non attraverso di esse; animato dal vento, dalla pioggia, da cavalli in corsa,
dal volo degli uccelli, dal “murmure degli ulivi saraceni”, dal “sibilo dei pioppi”, da voci di
fanciulli, dall‟odore di zagare, dal marranzano del carraio, dal “corno dei pastori”. (3) A volte è il
paesaggio lombardo ad evocare quello siciliano, soprattutto la sera quando, col riposo, si è più
inclini al raccoglimento. Con lo spuntar del giorno quel paesaggio familiare sarà più lontano della
luna. E questa lontananza è il disagio del Poeta che da esule cerca di stabilire un contatto con la sua
terra che, in qualche modo, egli ritrova nel paesaggio lombardo. (4)
Tradotta in suoni, in immagini, in odori, con un movimento contrario a quello proustiano, la
Sicilia si fa presenza evanescente. Nell‟ “antico corno dei pastori” il fiato è un debole richiamo e
“il soffio di vento” che si libera dall‟incerta terra è un‟eco subito spenta. Nessuna voce della sua
terra giunge chiara al Poeta perché “pastore d’aria” è il sogno che la custodisce. Nessuna
corrispondenza, dunque, può stabilirsi tra la terra sognata e il Poeta che ne è lontano.(5)
In questa raccolta il tenue motivo della nostalgia ( che non è quella „romantica‟) si lega
inevitabilmente al sogno del ritorno, purtroppo impossibile, senza però quel doloroso senso di
sradicamento che domina in “Acque e terre” e, in parte, in “Oboe sommerso”. Inoltre, il tanto
desiderato ritorno non è sempre e necessariamente un ritrovare il tempo dell‟infanzia. Questa
ricerca, di segno proustiano, è sviluppata ampiamente nelle precedenti raccolte e mai in maniera
isolata, ma sempre in concomitanza o in stretto legame con altri temi.
Ciò che rende «nuove» le poesie di questa silloge è l‟uso di un linguaggio meno assoluto, meno
cosmico, in cui la parola, al di là delle percezioni, è essa stessa epifanica, essa stessa memoria. E
qui mi pare che l‟ermetismo linguistico ceda a quella parola altamente “percettiva” che tende
quanto più possibile ad aprirsi, ad appercepirsi, a identificarsi col mondo dell‟infanzia del Poeta per
restituirglielo dentro la voce del Canto che rimane, ancora, «sommerso».
Un mondo così “ritrovato” è effimero e non può annunciare nulla di nuovo. Tutto sembra
inghiottire l‟oblio e il Poeta si ritrova a enumerare solo “i mali dei giorni decifrati”, quel tempo
senza gioia e senza mistero, inesorabilmente presente. Tuttavia, egli attende con pazienza che “il
fiore magro” lasci i rami, che cioè il tempo infruttuoso svanisca e sia soppiantato in modo
“irrevocabile” da un tempo migliore.(6) Ma questa attesa è presto vanificata in “GIORNO DOPO
GIORNO”.
Il titolo di questa nuova raccolta già prelude alla fatica del vivere in un mondo in cui il dolore è
“cibo cotidiano” per tutti gli uomini e non soggettivamente vissuto o invocato dal Poeta in un
impeto di espiazione.(7) Finalmente gli uomini, dunque. E in primo piano. Sulla scena di un mondo
reale devastato dalla guerra, la cui tragica esperienza segnò una svolta nella vita e nella poesia di
Salvatore Quasimodo. Il Poeta esce da una visione estatica ed estetica di un mondo ancora dotato di
senso, sia pure nella sua verità imperscrutabile, per entrare fisicamente in un mondo che per la sua
cruda oggettività si sottrae ad ogni mitica rappresentazione.
Ritroviamo, in questa silloge, i temi dominanti del dolore e della morte, ma con un‟altra valenza.
Non più trasfigurati dal sogno o dal mito, essi non hanno più un terreno su cui radicarsi. Le loro
antiche radici sono spezzate. Realtà palpabili, visibili, appartengono a un abisso più profondo
perché ha un volto preciso, riconoscibile, un volto “umano troppo umano”, segnato da una violenza
atavica che “impone” il silenzio dei poeti in un‟epoca, quella contemporanea, su cui pende il tempo
della notte del mondo, che è il tempo della “povertà”: quello “storico” della fuga degli dei, secondo
Hölderlin; quello “antropologico” “della pietra e della fionda”, secondo la visione quasimodiana:
un tempo, quest‟ultimo, non scisso dall‟altro, perché anch‟esso caratterizzato dalla mancanza,
dall‟assenza di Dio. Nella poesia “Alle fronde dei salici” la sofferta decisione dei “nuovi” aedi di
appendere, per voto, le cetre ai piangenti alberi, è l‟amara coscienza di quella “povertà” estrema,
della caduta degli dei e dell‟uomo, unitamente a un grande bisogno di riscatto da quell‟immane
violenza che tanto somiglia a un sacrificale rito d‟immolazione. E in quel lieve oscillare delle cetre
“al triste vento”si coglie l‟attesa profonda del tempo della “ricchezza”. Si noti, inoltre, il climax
ascendente che percorre la poesia dal 2° al 7° verso, con i momenti di maggiore intensità nei tre
enjambement ai versi 4, 5, 6 e, soprattutto, nella sinestesia del 5° verso ( “l’urlo nero”). Questa
tensione tragica che caratterizza le poesie più significative della raccolta (“Uomo del mio tempo”,
“Milano, agosto 1943”) sottende la risoluta protesta del Poeta contro la guerra, contro ogni forma
di violenza. E dunque, la necessità di “ridare” la voce ai poeti, perché ai poeti spetta di compiere la
“svolta”, perché essi sono più vicini all‟ «essere», e il dolore che dimora nel canto può aiutarci a
risalire dall‟abisso, a scambiare il tempo della “povertà” con la ricca stagione dell‟ «essere»,
universale e divino.
In “Giorno dopo giorno”, l‟irruzione dell‟uomo sulla scena del mondo sconvolto dalla guerra,
apre alla comunicazione il linguaggio del nostro Poeta segnando la fine della stagione ermetica,
peraltro già annunciata nelle “Nuove poesie”. La ricerca della parola “pura” che aveva ispirato le
prime raccolte, ora “naufraga” di fronte alla più grande tragedia umana e tuttavia, anche se il Canto
resta «sommerso», anche se quella “parola” è solo un respiro del cosmo, essa parla in segreto nella
grande voce che appartiene al dolore il quale, aprendo la coscienza del mondo, pone quest‟ultimo in
ascolto del Canto, in sua profonda e devota attesa.
Dentro un linguaggio fortemente emotivo, quanto comunicativo, il canto si fa etico, esige di rifare
«l‟uomo», come lo stesso Quasimodo ebbe a sottolineare in un articolo comparso su “La Fiera
letteraria” nel giugno del 1947. Una poesia, dunque, civile, etica, afferma il proprio diritto di
cittadinanza, «hic et nunc», in un luogo reale, in un tempo “esatto” che è il presente senza memoria,
perché il passato è storia contemporanea. Ciò non sfugge al Poeta che leva alto il suo grido di
denuncia contro la “ferinità” dell‟uomo, la quale stabilisce quell‟unità temporale, senza soluzione di
continuità.
“ Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo.”
In quest‟atmosfera di umana miseria, in cui gli uomini sono degradati a “mostri della terra” senza
pietà e senza “croce”, in tanta desolazione e distruzione (8) il Poeta ha pause di pacata riflessione,
ritrova delicati, lirici momenti là dove familiari percezioni sensoriali sembrano annunciare
timidamente il ritorno alla “normalità” della vita. Difficile, certo, è dimenticare (ricordare, anzi, può
essere un monito per gli uomini-lupi) e il Poeta s‟illude di avere vissuto un sogno (9), ma… “LA
VITA NON È SOGNO”.
La certezza della vita è nel dolore, nel pianto che non ha pausa. Doleo ergo sum è l‟aforisma che
costituisce il nucleo della presente raccolta e, forse, dell‟intero iter poetico di Salvatore Quasimodo.
I temi del dolore, della solitudine, della fugacità del tempo, della morte, condensati ma ben
definiti nella poesia “Ed è subito sera”, ritornano qui, in una meditazione più profonda, nella poesia
“Thànatos Athànatos”. In “Ed è subito sera” la morte è la sola certezza, il punto fermo che in
“Thànatos Athànatos” il Poeta tende a rimuovere cercando di stabilire un dialogo con la divinità. E
qui, a differenza che in quell‟altra lirica, l‟incomunicabilità non è più una condizione che riguarda
esclusivamente il rapporto tra gli uomini, ma coinvolge la divinità stessa. La ricerca di Dio, di
sapore pascaliano, di un Dio nascosto che giustifichi l‟esistenza e che non lasci ancora inevase le
domande dell‟uomo, s‟innesta nel dolore che apre la via alla ricerca. La certezza che “la vita non è
sogno” ha radici nel dolore perché il dolore è “vero” e questa verità può fare da guida all‟uomo, può
“imporre” al “Dio del silenzio” di manifestarsi.
“La vita non è sogno. Vero l’uomo/ e il suo pianto geloso del silenzio/ Dio del silenzio, apri la
solitudine.”
La raccolta si chiude con la delicatissima “Lettera alla madre”. Nel colloquio a distanza con la
madre che vive ancora in Sicilia è il tema dell‟infanzia che ritorna con un carico di memoria che
appartiene alle cose. Il richiamo è proustiano, ma è Joyce presente in quell‟orologio della cucina
che tanto ricorda l‟orologio della Dogana che a un tratto si rivela a Stephen Dedalus per quello che
è: un‟epifania. “L’orologio in cucina che batte sopra il muro” è in Quasimodo, pulsa dentro le sue
vene, nel suo cuore. Esso vive e nel suo battito respira tutta l‟infanzia del Poeta. La morte, allora, la
“gentile morte” non può, non deve toccarlo, non deve guastare quei suoi “fiori dipinti” perché le
cose solo in vita hanno resurrezione. Perché attraverso le cose, il dolore, sostanza della vita, si
traduce in linguaggio. E così trasfigurato, questo “pane cotidiano” si fa canto radioso per la nostra
resurrezione.
“Ah, gentile morte,/ non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,/ tutta la mia infanzia
è passata sullo smalto/ del suo quadrante, su quei fiori dipinti”
(1) “Isola di Ulisse” vv.1-4, in Salvatore Quasimodo “Tutte le poesie”, Oscar Mondadori, pag.105
(2) “Ride la gazza, nera sugli aranci”. Ivi, pag. 119 (3) “Strada di Agrigentum”, “La dolce collina”. Ivi, pp.120, 121
(4) “Ora che sale il giorno”. Ivi, pag.124
(5) “Che vuoi, pastore d’aria”. Ivi, pag.122 (6) “Già vola il fiore magro”. Ivi, pag.142
(7) “Avidamente allargo la mia mano”. Ivi, pag. 44
(8) “Giorno dopo giorno”. Ivi, pag. 151 (9) “O miei dolci animali”. Ivi, pag. 156
(10) “Thànatos Athànatos”. Ivi, pag. 178
* (pubblicato su “L‟Ottagono Letterario”, ventennale 1983 – 2003)
“L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda *
“L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda sono testi affini per l‟unicità del tema e per il
modo in cui esso è rappresentato nella sua fenomenologia.
Questo tema è l‟Evento della poesia che subito si annuncia. Essa è la stella che brilla nel titolo
nerudiano e che scintilla, con la sua decisa presenza, nel primo verso (“Fu a quell’età…Venne la
poesia” ). Ed è l‟infinito sospeso sul «colle» solitario e depositario dell‟oceanica luce insieme con
la «siepe». La quale, anche se impedisce alla vista di cogliere l‟estremo orizzonte, tuttavia, proprio
per questo, è cara al poeta: per la sconfinata visione che nel pensiero gli desta.
Il «colle» e la «siepe» sono entrambi l‟occasione e il pre-testo necessari per confrontare la realtà
fisica con l‟idea dell‟assoluto, per dipanare l‟invisibile oltre il visibile, con l‟aiuto della scrittura
poetica. Essi costituiscono, dunque, la scena naturale dove si apre l‟altra scena: quella che Leopardi
immagina e nella quale ha “inizio” e “fine” lo spettacolo dell‟infinito.
“Sempre caro (…) fu quest’ermo colle” al poeta, perché familiare rifugio della sua anima
solitaria, luogo della meditazione e dell‟accoglienza che sempre ha assecondato e realizzato, con
l‟ausilio della «siepe» il suo desiderio “dell‟ultimo orizzonte”. Dunque, l‟Evento portentoso di cui
“L’infinito” ci parla è già accaduto su quel «colle», ma soltanto nel testo, hic et nunc, assume il
carattere di una rivelazione: accade cioè veramente. Il «colle» e la «siepe» sono, rispettivamente,
l‟elevazione e l‟ostacolo necessario all‟ascesa, all‟ascesi. E dunque, si configurano come anima e
corpo nella lotta che vede opposti il sentimento della visione e il senso della vista: lo sconfinamento
possibile e il limite da valicare.
Questa lotta, comune ai due poeti, che accompagna l‟Evento al suo esito finale, è il “sogno” che
addormenta i sensi e che “rischiara” con le sue rêveries il palpitante mistero. Ed è questo mistero
l‟Ereignis (1) che desta la coscienza e la prepara al prodigio consegnandosi ad essa interamente,
come Erlebnis (2) . L‟Evento, allora, è questo «vissuto» che si rinnova e che si distende nel testo, il
quale lo ac-coglie nel suo lento apparire.
Così “L’infinito” e “La poesia” si espongono alla nostra comprensione. E se il «vissuto» si
concede a noi testualmente, allora anche per noi accade l‟Evento. L‟interpretazione, infatti, rende
“manifesta” quella verità poetica che all‟inizio si annuncia nei due testi, ma che subito dopo
impegna nella lotta i due poeti ritraendosi, nella moratoria dei sensi, là dove maggior luce giunge a
rischiararla, a liberarla – al di qua (o al di là) della «siepe», al di qua (o al di là) degli «occhi» e
dell‟assenza della parola: nella finzione del pensiero (“io nel pensier mi fingo”) e nella solitudine
progressiva e intenzionale della coscienza (“e mi andai facendo solo”).
È un medesimo pensiero quello che si costruisce le prime immagini dell‟infinito (“interminati /
spazi”, “sovrumani / silenzi”, “profondissima quiete”) e quello che, chiudendosi in volontaria
solitudine, traduce il fuoco dell‟esaltazione poetica nel lucore del primo verso (“scrissi la prima
linea vaga”).
(1) ted. : evento, avvenimento. Ereignis ha valore di “esperienza vissuta” e, in quanto tale, rimanda al suo analogo Erlebnis, che ha i significati di
esperienza e di evento. Qui, l‟Ereignis è l‟Evento della poesia come epoché e rivelazione. Il termine italiano, più generico, è usato con la maiuscola e
con lo stesso valore semantico dei due termini tedeschi. (2) ted. : esperienza, evento (vedi nota 1)
2
In questa esperienza creativa, dove la realtà è sospesa, un medesimo sentimento, un “muto”
sentire s‟impadronisce dei due poeti di fronte a una grandezza ineffabile, di fronte a qualcosa di
smisurato che si annuncia, che si manifesta appena, restando mistero incomprensibile, indicibile. È
questa epoché (3) dell‟essere che nel poeta recanatese genera quello sgomento, per la verità inatteso
e in contrasto con quel luogo familiare e rassicurante dove la mente, spaziando, sembra trovare
riposo.
Questo timor panico che Leopardi riesce appena a contenere, a controllare di fronte a una realtà
altra che si apre in una dimensione che scardina e cancella i nessi referenziali e per cui egli si sente
“trasumanare”, equivale allo smarrimento dei sensi e dell‟anima che Neruda avverte di fronte alla
verità che accende in lui la passione e che lo fa angelo senz‟ali votato al difficile volo nel cielo di
quella verità che è l‟infinito, la poesia stessa, verso la quale il poeta cileno, con la “pura sapienza /
di chi non sa nulla” si dis-pone con atteggiamento socratico. Ed ecco che la poesia, fino lì senza
corpo, senza volto, che in assenza della parola fa sentire la sua voce e presenza e che, in un climax
ascendente, cerca il poeta e lo chiama a percorrere i “sentieri interrotti”(4) della sua impenetrabile e
oscura foresta ( i “rami della notte”) fino a toccarlo con inequivocabile realismo, ecco che la
poesia, finalmente sognata dalla parola – unico nesso che può nutrirsi dei suoi bagliori e rifletterli,
sviluppando così la capacità euristica della finzione – si fa “pura sapienza”, immagine pura della
verità come alethéia, come non-nascondimento, o disvelamento, dell‟essere/infinito.
In mancanza della parola rivelatrice, anima del pensiero dell‟assoluto, in Leopardi è il «vento» il
referente che dà «voce» all‟ “infinito silenzio”, il quale è comparato e assimilato a quel soffio vitale,
che scioglie nella sensazione uditiva la tensione emotiva del poeta ridestandolo alla dimensione
temporale dove, tra passato e presente, si rac-coglie e trasmuta la distesa abissale.
Il tempo è la cartina di tornasole che dà al poeta la “misura” esatta dell‟infinito: eternità, spazio
senza tempo e, tuttavia, unico futuro possibile. E il futuro non figura nel testo, non è preso in
considerazione dal poeta, perché esso è la sezione assoluta, l‟a-venire dell‟infinito. Ed è l‟Evento
epocale (5) che pende sull‟abisso, già vissuto e anticipato nell‟esperienza del timor panico, a partire
dalla quale si mette in gioco il destino del poeta (e dell‟uomo), che è poi il destino dell‟ “io” e della
ragione.
Un‟estrema ratio d‟improvviso balena negli ultimi versi e si leva come il canto del cigno. Questa
ragione è l‟ “ultimo orizzonte” della conoscenza, dove s-confina la verità che si annuncia
nell‟immagine-azione, la quale non cela, fin dall‟inizio, l‟intenzionalità della coscienza (“Ma
sedendo e mirando (…) io nel pensier mi fingo”).
Questo pensiero noetico che agisce nella veglia della coscienza trova dentro di sé la propria
determinazione, il potere di decidere del proprio destino: di “sciogliersi” nel «mare» della
Soggettività che è l‟ “oggettivazione” dell‟infinito e di cui l‟ “io” individuale del poeta, il suo “io
narrante” è appagato spettatore. Il “naufragio”, allora, non è uno scendere “nel gorgo muti”. (6) Al
contrario, è l‟immersione nella voce universale del canto, la presa della coscienza come
autorivelazione.
(3) gr.: “sospensione”. Qui, il termine è usato nel senso heideggeriano, riferito all‟essere che si rivela nascondendosi in modo sempre diverso nelle
varie <<epoche>> della storia della metafisica. (4) titolo italiano dell‟opera “Holzwege”, di M. Heidegger.
(5) da epoché.
(6) l‟immagine è tratta da un verso della poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, di C. Pavese.
3
Ed ecco che nel poeta recanatese quel sentimento “muto”, quel timor panico si trasforma in
panismo e così si chiarisce e si placa trovando il proprio superamento nel tymos panico, che è
l‟emozione incontenibile della coscienza di fronte alla propria dimensione cosmica.
L‟immagine del poeta, che “sedendo e mirando” contempla la “profondissima quiete”, ritorna
nell‟ «io» spettatore che placidamente assiste alla propria immersione nell‟infinita distesa del
Pensiero universale. E qui, in Leopardi, come in Neruda, il “naufragio” è l‟approdo alla verità
disvelata, la quale rende l‟ «io» dei due poeti tanto più vigile quanto più esso s‟immerge in quel
«mare», o in quell‟ «abisso», che è il cosmo della coscienza.
L‟universo che «d‟improvviso» si spalanca allo sguardo del poeta cileno e che, a fronte del suo
spazio infinito e misterioso, fa di lui un “essere minimo”, un «io» individuale e s-perduto nel
“grande vuoto/costellato” è la stessa scena immaginata dal Recanatese e allo stesso modo vissuta
nel grande “teatro” del mondo interiore. Comune ai due poeti è quell‟ “io narrante”, quello stato
vigile della coscienza che si fa canto e respiro del cosmo, che li fa partecipi e ben disposti al
«naufragio» (“mi sentii parte pura/dell’abisso”; “e il naufragar m’è dolce in questo mare”).
La visione dell‟universo, o dell‟infinito è, infatti, uno spettacolo godibile che fa «ebbro» Neruda
e rende «dolce» a Leopardi l‟immersione. E questa contemplazione è l‟Ereignis “vissuto” e
annunciato che accade nella verità del canto. È il futuro. L‟in-finito, inalveato, che tracima dentro il
confine dell‟interiorità. Qui si placa, nei due poeti, la febbre della passione e della ricerca. Qui la
spannung si scioglie, definitivamente, nel sentimento aletimico. (7) Così l‟ „io narrante‟, che è
insieme autore, attore e spettatore, si fa sguardo „onnisciente‟ che di sé fa colmo l‟«abisso», che è
poesia e infinito: volto autentico dell‟ «io» nel grande «mare» dell‟Atman.
Di questa Anima del mondo, qui espressa, per dettato d‟interpretazione, nella voce della filosofia
indiana, c‟è più di un‟eco nel testo di Neruda, dove è palese la ricerca dell‟identità spirituale, il
cammino di un‟anima verso la luce della rivelazione. Aleggia nei suoi versi lo spirito di Siddharta,
ben visibile nella brama di verità e di assoluto che solleva il poeta alla scrittura di quella “prima
linea vaga” che è già uni-verso: fusione di “poesia” e cosmo, immensità stellare che d‟improvviso
si svela e nella quale l‟ «io» del poeta, gioiosamente, si abbandona e si dissolve (“rotolai con le
stelle, / si sciolse il mio cuore nel vento”).
Questo panismo è esperienza identica a quella di Leopardi. Nei due poeti, profonda è la
somiglianza degli ultimi versi che esprimono, con voce analoga, la felice immersione nella totalità
dell‟Infinito che in sé com-prende e unisce Poesia Cosmo Coscienza. Ritroviamo nell‟ultimo verso
di Neruda quel «vento» che in Leopardi è il soffio rigeneratore che dà voce e dimensione
“temporale” all‟ “infinito silenzio”; che scioglie la paurosa immagine della “profondissima quiete”
nella calma distesa del pensiero riflettente e cosciente della propria universalità. In Neruda il
«vento» è l‟analogo del «mare». È l‟aeriforme distesa spirituale, il respiro della poesia che nel
lucore della “prima linea vaga” è già parola ritrovata, appena pronunciata: l‟Om (8) impercettibile,
che dall‟ “infinito silenzio” sorge e cor-risponde al cuore del poeta, il quale, nella luce dell‟aurorale
Parola, si affida, interamente, alla grande Anima del mondo.
(7) da alethéia (verità) + tymos (emozione): il neologismo è mio e definisce la grande emozione di fronte alla verità che si disvela.
(8) sillaba mistica nelle religioni induista e buddista: simbolo della coscienza del Tutto e dell‟assoluto.
4
Questo Ereignis misterioso e abissale, che nel canto si concede ai due poeti con modalità identica,
è voce remota dell‟essere che nei due testi si annuncia, fin dal primo verso, in quel «fu» che è
“esperienza vissuta” e raccontata con scansione temporale diversa.
In Leopardi l‟infinito è uno stato felice della coscienza infelice. C‟è infatti nel testo un
“ottimismo” così grande, a fronte del proverbiale ed esasperato pessimismo del poeta, che non può
scadere tout court nel pensiero del «nulla». Ciò perché l‟infinito nientifica il «nulla» che, se come
principio, ha tutte le aperture dell‟ andata, come fine, tutte le azzera nel ritorno. Diversamente,
l‟infinito è l‟Aperto che non conosce il “buco nero” del «nulla». A meno che il poeta non abbia
concepito un «nulla» “religioso” e così perfetto da custodire dentro di sé l‟in-finito e, così, anche la
sua “finitezza”. Ma questo «nulla» non è già l‟ invisibile spazio che confina e che tiene le vie
“segrete” dell‟interiorità? Non è forse esperienza del “perfetto” «nulla» l‟infinito che ac-cade e si
alloga nel chiuso della coscienza, nella “finzione” del pensiero? Molto, allora, ha di umano quel
“religioso” «nulla», già pensiero dell‟infinito o dell‟essere, che supera il divino per quel grado “in
più” di perfezione che il finito, nella sua unione con l‟infinito, gli conferisce.
Nel testo leopardiano, l‟epifania generata dal «colle» e dalla «siepe» è quel “di più” di
perfezione che consente alla vista di varcare il (proprio) limite e s-confinare nella visione, dietro le
“quinte” dell‟occhio.
Nel “teatro” dell‟interiorità, dove l‟ „io narrante‟ si fa spettatore, si apre la scena dell‟in-finito
che si rap-presenta alla coscienza come dato “visibile” e finito. Così, “in questa immensità”
r-accolta, lo spazio e il tempo sono aboliti e trasformati (per) in-canto, nella calma “liquida”
presenza della Coscienza o spirito assoluto, dove scivola dolcemente e si dissolve, con l‟ultima
veglia dell‟ “io”, il “cigno” della ragione.
È questa un‟esperienza remota e rinnovata che, perciò, fa “sempre caro” il ricordo dei luoghi
della scena reale: il «colle» e la «siepe». Si tratta, dunque, di un Evento ricorrente, di un pensiero
unico, fisso, come stella nel cielo dell‟infinito, di un tempo che dura e che vanifica, nel rapido
passaggio dal passato al presente, ogni memoria nostalgica o, semplicemente, il pensiero
rammemorante.
In Neruda, la poesia è un ricordo netto, ben definito nel tempo, nonostante l‟apparente vaghezza
(“fu a quell’età”). Essa è l‟incontro improvviso e inatteso che segna e “sconvolge” e che, tuttavia,
esalta l‟età felice e sprovveduta della giovinezza. È l‟Evento che traccia il cammino: “destinatore” e
custode del mondo segreto e inesplorato del poeta, il quale, d‟improvviso, è chiamato a seguire la
propria vocazione, a cor-rispondere alla poesia, a farsi eco della sua voce e sua cassa di risonanza.
Ad essere, lui, fuori di ogni dubbio, il suo „eletto‟ (“Venne la poesia / a cercarmi”).
L‟incipit è subito voce annunciante: l‟impromptu dell‟anima, sorpresa dalla palpabile ma
invisibile presenza della poesia che si annuncia, tuttavia, come mistero. È il ricordo im-preciso,
sospeso nell‟atto del nominare (“Fu a quell’età… Venne la poesia”) ed è la visitazione che si coglie
nella personificazione (“a cercarmi”) che la cesura e l‟enjambement rendono figura folgorante, la
quale suscita la “visione” sacra dell‟Angelo dell‟Annunciazione.
Sacralità e mistero percorrono tutti i versi che compongono questo testo della memoria che è
puro Andenken, (9) il quale lascia di nuovo accadere l‟Ereignis, o Erlebnis, che si ri-presenta attuale
e in perfetta identità col Ricordo stesso.
(9) ted.: Ricordo, memoria (pensiero rammemorante).
5
Qui, in questo pensiero rammemorante e al tempo stesso attuale, il sacro è il mistero già
“svelato”. È la luce abissale che nell‟annuncio dell‟angelo visitatore fa pellegrino il poeta, errante
nella parola, la cui assenza gli ostacola il volo (“ali perdute”) nel cielo della poesia. E questa
parola mancante, (che) (s)profonda nel silenzio, è la «siepe» da oltrepassare, è lo stesso silenzio
abissale, in cui chiama la voce dell‟angelo e che, ad un tratto, libera la parola nel dono del verso.
E questa parola, fin lì senza spessore e senza sguardo, si fa nuova all‟ascolto e sale in vetta
all‟abisso. Qui, per lei, si spalanca la vista. Qui, l‟angelo della poesia, donatore di grazia, si
mostra… e svela, come in uno specchio, l‟ <<universo>>. E il poeta, che ora vede il «mistero»
faccia a faccia, «rotola», simile a corpo celeste, in quell‟ «abisso» dentro la sua coscienza.
La poesia che visitando viene a questa „eletta‟ dimora, all‟interno della quale realizza la
comunione col mondo e con la sua anima assoluta, è l‟aleph che racchiude in sé l‟in-finito; è il
microcosmo che riflette il firmamento: il “grande vuoto / costellato” che è insieme Poesia Cosmo
Coscienza, di cui trabocca e si sente «parte» quell‟ “io” individuale (“essere minimo”), puro, pieno
di grazia (“Ed io, essere minimo, / ebbro del grande vuoto/ costellato (…) mi sentii parte pura/
dell’abisso”).
Questa esperienza del sacro, come fusione di finito e infinito, è identica in Leopardi. In entrambi
i poeti, lo spazio sconfinato è, “paradossalmente”, un‟ enclave dentro il confine più ristretto della
coscienza individuale, dove l‟infinito, allogandosi, trova la propria “finitezza” come essere in-
finito (finito dentro). In questa realtà poetica i due spazi ( infinito e coscienza) coincidono
s-confinando e identificandosi col più vasto Pensiero noetico o noosfera. (10)
In Leopardi, a differenza che in Neruda, il „sacro‟ Evento è frutto dell‟intenzionalità della
coscienza, assecondata e sollecitata dalla «siepe». La ricerca dell‟infinito non è mediata
dall‟intervento dell‟angelo della poesia. Non c‟è visitazione nel testo, e anche se ogni opera è una
visita ricevuta, lì, semplicemente, non è dichiarata né raccontata.
Ciò che Leopardi racconta è un‟esperienza che si rinnova: un richiamo del cuore più che della
memoria, un ri-cordo, “privo” di memoria e, quindi, un tempo presente, confermato dalla
reiterazione dell‟Evento, nel quale il passato è vanificato. In Neruda, invece, l‟Erlebnis è una vera
rimembranza: l‟ “esperienza vissuta” una sola volta e che si fa “racconto”, memoria poetica che si
distende nel “favoloso” passato e lo custodisce (“Fu a quell’età”).
Ma è il silenzio il vero custode di questo tempo della memoria e della durata. Esso domina sui
testi, su tutti i versi, e parla con la voce aurorale del canto. E ciò che alla fine resta di questa voce è
ancora, e sopra ogni cosa, Silenzio: “L’infinito” della Poesia, “La poesia” dell‟Infinito.
(10) in Teilhard de Chardin: “cervello planetario”, mente in cui tutti i pensieri individuali sono immersi.
* (pubblicato sui “Quaderni di Arenaria”, uno - nuova serie, a cura di Lucio Zinna, gennaio 2007 e sulla rivista
“della Soaltà” pS 4, giugno 2006)
LA POESIA
Fu a quell‟età… Venne la poesia
a cercarmi. Non so, non so da dove
uscì, dall‟inverno o dal fiume.
Non so come né quando,
no, non eran voci, non eran
parole, né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
d‟improvviso tra gli altri,
tra fuochi violenti
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.
Io non sapevo che dire,
la mia bocca
non sapeva
nominare,
i miei occhi erano ciechi,
qualcosa batteva nella mia anima,
febbre o ali perdute,
e mi andai facendo solo,
decifrando quella scottatura,
scrissi la prima linea vaga,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura sapienza
di chi non sa nulla,
e vidi d‟improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
l‟ombra perforata
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l‟universo.
Ed io, essere minimo
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell‟abisso,
rotolai con le stelle,
si sciolse il mio cuore nel vento. (Pablo Neruda)
* * *
Passio Pòiesis
Ogni opera è una visita ricevuta. L‟ospite è il poeta, il quale accoglie, con
meraviglia, l‟inaspettato visitatore. Poi la sorpresa si cangia in attesa e sulla soglia,
puntuale, arriva l‟angelo. La Poesia è l‟ospite alato che fa del poeta un eletto che essa
accoglie, a sua volta, nella propria dimora. Ed ecco!…Negli umbratili occhi del poeta
si accende la luce del mistero che fa di lui un fedele viandante.
La Poesia lo chiama al Golgota della scrittura, attraverso la quale si rinnova il
sacrificio. Egli è il sacer-dote che in sé custo-disce il dono della creazione, che lo fa
pastore e maestro, vocato a ripercorrere nella passione dell‟opera la via della croce.
Amore e angoscia è la passione che segna il cammino di questo s-offerente messia,
che nel nome della Bellezza promette l‟impossibile canto per il mondo. Inascoltata
resta la voce del poeta che non porta mai a compimento la sacra opera. Emulo del
Cristo, egli è l‟unto della Poesia, la quale si esprime nella molteplicità e nella
diversità degli spiriti particolari attraverso quel figlio ideale che è figura del
Salvatore. Così la Poesia s‟incarna in molti eletti. Ed è lo Spirito che dà voce ai
nuovi apostoli, i quali parlano da poeti.
Una è la Poesia. Uno è il Poeta. Una è l‟Opera. Insieme formano l‟Unità perfetta
che trascende la mondana e imperfetta “trinità” della poesia, del poeta e dell‟ opera.
In questa mondanità, dov‟è scissa e trasfigurata, l‟Unità trova la sua espressione
in quelle figure della creazione particolari e moltiplicate all‟infinito. Con questa
frammentazione, in cui la Poesia si fa pòiesis (arte), il Poeta poietès (artista), l‟Opera
poièin (produzione artistica) ha inizio il calvarte:
la passio pòiesis verso l‟Unità
perduta. Il poeta è il cireneo che con-divide la croce. Egli è la figura e la
prefigurazione del Cristo, il quale è da lui sostituito avanti e dopo la propria venuta.
Perché, da sempre, inconsapevoli epigoni sono i poeti: e del Dio sconosciuto, ancora
non manifesto, e del Maestro, ovvero del Dio rivelato. Appellativo, o secondo
“nome” dell‟uomo che la Poesia elegge, il poeta unisce in sé, più del semplice
individuo, le due nature del Cristo. Per questo i poeti hanno una voce in più per la
salvezza del mondo. Tuttavia, la loro voce parla un messaggio d‟amore rivolto
esclusivamente alla Poesia anche quando è la vita, nei suoi molteplici aspetti e nelle
sue varie forme, l‟oggetto privilegiato del canto. Alla Bellezza è affidata la salvezza
del mondo. Ma i poeti eletti che giungono a contemplarla non adempiono alla loro
missione perché la Bellezza si esaurisce in gloria e in letteratura restando così lettera
morta, opera incompiuta. Inoltre, a differenza del Cristo, il cui messaggio d‟amore e
di redenzione è per tutti gli uomini ed è per sempre consegnato alla verità della storia,
sacer + fictio: fare qualcosa di sacro, opera sacra.
calvario + arte: neologismo dell’autore.
il poeta, affidando quel messaggio alla Bellezza, lo rende elitario ed epocale,
perché quella visione sublime nella quale si dis-vela la presenza divina, si concede
solo a chi sa contemplarla e in modo sempre sfuggente.
L‟amore che lega il poeta alla Poesia non è un rapporto di fede religiosa. Per
questo esistono poeti “maledetti” e miscredenti, e tuttavia grandi. La Bellezza non
distingue tra i suoi eletti e benché li governi, lascia loro libero arbitrio e libertà di
espressione. Come la Natura non cessa di essere bella quando mostra il suo aspetto
terrifico, così la Bellezza non muta se sceglie cattivi poeti a rappresentarla. Integro
rimane l‟amore per la Poesia anche se questa difetta in espressione. Il suo spirito
aleggia nelle grandi, come nelle piccole e insignificanti opere. Ma vuoto resta il suo
sepolcro. (Anche se divina è l‟opera e sommo il suo poeta).
“Tutto è compiuto” nell‟atto solenne della Crocifissione. Tutto è da compiere
nel sacrificio della scrittura. La parola del poeta, questa parola – figlia del figlio
“incarnato” della Poesia – quando giunge col suo poeta al calvario dopo il lungo,
faticoso cammino dei segni, rimane crocifissa nell‟opera, “muore” senza
resurrezione. E quando muore il poeta, la Poesia gli sopravvive e l‟opera così resta
per sempre incompiuta. Non c‟è salvezza senza ritorno. E se pure il poeta “vive”
nell‟opera, se gli è concesso più di un respiro nelle interpretazioni, egli, tuttavia, non
si ricongiunge con la Poesia perché questa è l’altrove, e l‟opera, benché ne canti
l‟amore, è solo il suo solenne e sempre rinnovato cenotafio.
(pubblicato sulla rivista “della Soaltà”, pS 2, giugno 2005)
da epoché: gr.: “sospensione dell’assenso”. Qui il termine è usato nel significato che Heidegger attribuisce all’essere , in
riferimento, cioè, al suo differire la propria manifestazione rivelandosi (e, insieme, nascondendosi) nell’ente, in modo sempre diverso nelle varie <<epoche>> della storia della metafisica. La Bellezza, ovvero la Poesia, qui è assimilata all’essere.
In principio fu la fiaba
La parola bambina
“In media” non sta più la “virtus” ma il “virtu-ale”. In questo “gioco linguistico”, in cui
“media” assume anche l‟accezione di “mezzi di comunicazione di massa”, il virtuale rappresenta il
“borderline”: la linea di confine tra il reale e l‟ “irreale”, dove la mente sconfina e si perde.
È possibile che le radici di questo smarrimento abbiano come terreno fertile l‟infanzia: ”luogo” ,
freudianamente, originario dei conflitti e delle lacerazioni che segnano l‟intera esistenza
dell‟individuo. È possibile che le delusioni e le angosce non adeguatamente contenute, durante
l‟infanzia, da una madre poco disponibile e poco responsiva nei confronti del bambino, possano
trovare una via di sublimazione in quei modelli illusivi telematici diffusi,a livello di massa, dalle
tecnologie audio-visive ed elettroniche che, sempre più sofisticate e tentacolari, sembrano costellare
la “modernità”, ovvero, il postmoderno.
Oggi, le nuove tecnologie sostituiscono e soppiantano sempre più la fantasia. La macchina
sempre più “perfetta”, sempre più “umanizzata”, è la nuova “mente” in grado di elaborare giochi
virtuali senza identità, senza volto e con delle regole che non lasciano spazio alla libera
immaginazione.
Al tempo del gioco e della culla, in cui il bambino è il grande “conversatore”, il “dadaista” ante
litteram, ed è il sognatore per eccellenza: - attore e spettatore dei propri sogni, abile mago e creatore
di un mondo “a sua immagine e somiglianza”, nonché navigatore ed esploratore, con tutti i sensi,
della realtà a lui prossima e contigua – si va sostituendo sempre più il tempo dei video-games e
delle “chat”, della navigazione “on-line”.
Il nuovo “dadaismo” è lo sproloquio della TV, la “babele” dei network e delle “chat” dove il
gustoso esercizio della parola “in fasce” è un soliloquio remoto, l‟espressività perduta e sepolta nei
siti della chiacchiera delirante che equivale a un nuovo “balbettio” che sconfina in “mutismo”,
nell‟alessitimia1 tecnologica. Il rischio di una patologia da “gioco” è il paradosso di questo tempo
separato dall‟infanzia, dalla parola “bambina”, dalla “culla” : civiltà di questa parola, insieme con la
quale crescono i sentimenti e le emozioni.
In un mondo globalizzato, il rischio di un‟epidemia da gioco elettronico, di “dadaismo”
televisivo e virtuale, il rischio di una “videmia”2 è, purtroppo, concreto, specie per i soggetti più
giovani e, in generale, per la “digit generation”, nata e cresciuta senza gli anticorpi di una cultura
legata alla tradizione e a ben altri valori.
Chi, infatti, può dirsi protetto, immune dalla “peste” del virtuale, in una società nella quale
l‟industria del divertimento, con la sua fabbrica delle illusioni, lascia sempre meno spazio alla
creatività?
Di fronte alla proliferazione incontenibile delle immagini, in cui le cose si smaterializzano, i
nostri sogni o fantasie, che nelle cose trovano appiglio e “consistenza”, si dissolvono a loro volta, e
la loro perdita è il lutto che non riusciamo più ad elaborare. Lo sguardo “bambino”, il “sogno” del
grande “contemplatore” sarà l‟abisso incolmabile, l‟oblio profondo per le generazioni a venire. E il
desiderio delle cose smarrite e dissolte nelle immagini, insieme con i sogni infantili, crescerà perché
il corpo si protenderà a cercare un nuovo contatto, una nuova “materialità”.
La macchina, il computer, sarà sempre più la sua protesi hi-tech che realizzerà la nuova
“conoscenza” di tipo “copulativo”, la quale porterà il soggetto all‟ erotismo tecnologico, ad “unirsi”
con l‟attraente metallo. Questo matrimonio fra la carne e la macchina, fra il corpo e la rete
telematica porterà l‟ “io” a naufragare, con tutti i sensi, nel mare della virtualità che è il mare delle
ombre, vuote e senza oggetto, scambiate per vite reali.
Icaro è qui. Fuori dal mito, ripete il suo volo con le «ali» meccaniche della «virtù», senza cielo e
senza coscienza, nel vuoto del cyberspazio. L‟uomo torna nella “caverna”, sostituita dalla “rete”,
dove egli è di nuovo ingannato, illuso, imprigionato.
Quando la realtà sarà satura di ombre e i volti saranno dissipati, quando il virtuale sarà la nuova
realtà, sarà in grado il cyborg, l‟ “homo technologicus”, di guardare la propria ombra e
attraversarla? Ci sarà ancora, in qualche punto remoto della “caverna”, uno sguardo bambino in
grado di vedere il “re nudo” e di lasciare, perciò, brillare il volto dietro la maschera svelando così
l‟inganno ai “prigionieri” ? E in questo auspicabile “dejà vu” sarà possibile il ritorno al passato, alla
“virtù” del reale?
Basterà questo andenken, questo pensiero rammemorante, per uscire dal “cavernoso” rifugio,
per liberare la scena dalle illusioni della rete e riconciliarsi con la vita e col mondo in modo
risolutivo, senza miti, mode omologanti e senza moratorie? Ritroverà l‟uomo-cyborg il tempo del
gioco e della parola “bambina”: antidoti naturali contro i video-games e gli artifici di un linguaggio
informatizzato, reificato?
Solo chi impara a non distogliere lo sguardo dalla “culla” sarà in grado, ad ogni passo, di
stupirsi, di ritrovarsi, in ogni tempo, con le sue emozioni e con i suoi sogni, quelli veri, che
aderiscono alle cose, come alle parole.
Non ci sarà moratoria per il giovane “dio” che incontra il Fanciullo. La sua vita non conoscerà
vie di fuga, perché sempre gli sarà resa nella sua intera pienezza. Perché «la vita di ciascuno può
essere ricostruita in base al numero di volte in cui ci siamo sorpresi o stupiti»3.
1 Dal greco a (mancanza) lexis (parola) thymos (emozione): difficoltà ad esprimere i propri sentimenti, le proprie emozioni.
2 Epidemia da video, peste delle immagini (neologismo dell‟autore del presente saggio). 3 Duccio Demetrio, Iter, Scuola, cultura, Società, settembre – dicembre 1998, Treccani.
Il grande miscuglio
I bambini non sono più quelli di una volta. Ai bambini di oggi, figli della civiltà delle immagini,
cresciuti nel «villaggio globale», non appartiene più il tempo della fantasia e delle fiabe. Allo
stupore dell‟orecchio incantato dalla voce sicura e narrante presso il focolare domestico, si è
sostituito lo stupore dell‟occhio incatenato alla “malefica” rete di Internet, in siti poco sicuri e senza
dimora.
Altre fate, altri orchi popolano questo mondo labirintico e tentacolare. Altri boschi invitano ad
infrangere regole e divieti e ad arrischiarsi in pericolose avventure. Sono i media le nuove “fate” e i
nuovi “destinatori”. Essi sono i mezzi cui si affidano soprattutto i bambini e i giovani adulti e dai
quali dipende il loro destino di “eroi” vulnerabili.
Capovolgendo i termini della questione, non si è lontani dal vero se, contro il luo- go comune
della “TV specchio dei tempi”, si afferma esattamente il contrario: cioè che la società attuale è lo
specchio della TV e, in quanto tale, è “l‟effetto speciale” per eccellenza.
Se «la fiaba ha qualche legame con il mondo dei culti, con la religione»4, con gli usi e i riti di
iniziazione praticati presso i popoli primitivi, oggi la realtà virtuale è legata al culto delle immagini,
alla “religione” del «villaggio globale», rappresentativo delle nuove forze che “governano” la nostra
quotidianità e che attraggono e conquistano la mente dei giovani mostrando un qualche potere
sovrumano.
Queste forze, queste “divinità” un tempo catodiche, oggi digitali, mettono alla prova i nostri
“eroi” in carne ed ossa ingannandoli con le loro false virtù. Non si tratta delle prove difficili delle
fiabe, ma, per lo più, di mode e modelli da imitare, ma con i quali non tutti possono competere. C‟è,
tuttavia, una prova che è la più temibile e ricorsiva, ed è la crisi di astinenza che la dice lunga
sull‟azione dopante dei media.
Sembrano dunque lontani i tempi, in cui ai bambini si somministravano insieme fiabe e cibo per
distoglierli dai capricci e allontanarne i digiuni, o si raccontavano storie fantastiche per “sedare” le
innocue paure dell‟infanzia o semplicemente per cullare i loro sogni, per soddisfare la loro fame di
fantasia, per destare il loro stupore nutrendoli di emozioni. Oggi la “droga” virtuale sostituisce la
passione per la fiaba e dà l‟illusione di vincere i disagi e la noia, di riempire il vuoto della solitudine
e dell‟abbandono, della troppa abbondanza o del troppo consumismo.
Nelle fiabe, la partenza dell‟eroe era un cammino avventuroso che si concludeva felicemente,
spesso con le nozze. Oggi, invece, la sua partenza è la logazione, è la stretta del mouse nella tana
della mano. L‟ ”eroe” della nuova “fiaba” sconfina e si perde nelle maglie della labirintica “rete”
che lo incanta e lo conduce nel mare delle “mille e una illusione”, verso un cammino che non è mai
concluso e che si protrae nel tempo della dipendenza dove le “nozze” con la “rete” sono la “cattura”
inevitabile di questo “eroe” senza “eros”, ovvero, dalla “sessualità neutra”.5
In questa “fiaba” tecnologica sono trasportati e introdotti i bambini, da quando al libro e al
focolare sono stati sostituiti lo schermo ed il sito; da quando ai giochi e al mondo incantato delle
fiabe si sono sostituiti i video-games, i giocattoli mutanti, l‟infoverso: l‟universo informatico che
trasforma l‟infanzia in un mondo a rischio dove, insieme con le sane regole della famiglia e della
società, vanno cambiando gli usi, i costumi, le tradizioni; dove proliferano, sotto mentite spoglie,
altre fate, altri orchi, altri eroi. In questo camuffamento generale, il mondo virtuale “smaschera” il
mondo reale evidenziandone e duplicandone, al tempo stesso, i vizi, le devianze, le aberrazioni e,
miscelando immaginazione e intelligenza artificiale, asseconda e realizza il desiderio di onniscienza
dei suoi giovani “eroi”. E così, con il loro delirio di onnipotenza, questi “indomiti” entrano nella
nuova “fiaba” per uscirne sconfitti nella realtà.
La dissipazione dell‟infanzia, al di là delle cause indagate e individuate dalle scienze umane,
oggi è il frutto dei “riti” di iniziazione telematica; e il peggio è che questi “riti”, ormai
istituzionalizzati, si avviano ad essere diffusi e praticati nella scuola.
Si è lontani, dunque, dalle pratiche primitive, dai riti magici ispiratori delle fiabe, i quali
educavano al coraggio e all‟indipendenza fortificando il corpo e lo spirito dei fanciulli con una serie
di prove difficili. L‟iniziazione supertecnologica maschera le debolezze e genera dipendenza,
perché le “prove” cui sono sottoposti oggi i ragazzi mancano di esperienza di vita, di sana
competizione e promuovono, invece, il confronto tra corpo e macchina, tra mente e intelligenza
artificiale, fino a spingere a forme di feticismo, a correre il rischio di una strana e pericolosa
“metamorfosi”: quella che il filosofo Mario Perniola contrappone alla mitologia classica e
<<considera all‟altezza dei tempi: il diventare cosa. Una trasformazione che impone di abolire la
distanza che separa l‟uomo dalla cosa, accettando di fondersi, di fare all‟amore con le cose>>.6
Esempio di questo “matrimonio”, di questa ibridazione fra carne e macchina è la figura del
cyborg: il nuovo “eroe” della “fiaba” mediatica che non ha bisogno di aiutanti, di mezzi magici,
perché fornito di “effetti speciali” che gli assicurano il successo e lo innalzano all‟Olimpo degli dei
tecnologici. La tecnologia si avvia così a diventare la nuova mitologia. Essa genera i nuovi “eroi”, i
nuovi “dei”, non più antro- pomorfi, ma postantropi,7 cioè post-umani o, per usare l‟efficace
espressione di Alexander Chislenko, infomorfi: ibridi, <<entità che non sarà più possibile
distinguere in base alle origini, artificiali o naturali>>.8
La tecnologia con i suoi “effetti speciali” crea dei modelli che superano la realtà al punto di
“falsificarla”, di farne cioè un “prodotto” inferiore, non autentico. E quei modelli ben fatti e
attraenti sono la “misura” da raggiungere e da indossare. Essi veicolano il futuro nel tempo del
postmoderno, dove la moda non è il costume del momento o di ritorno, ma il corpo che, facendosi
maquillage, tatuaggio, “ingegneria genetica”, veste l‟uomo, il quale tende così a con-fondersi con la
cosa, a reificarsi.
Dopo Nietzsche si attendeva l‟uomo nuovo, l‟Übermensch, generato dalla “morte di Dio”,
amante della vita fino a volere lo sradicamento del tempo nell‟ eterno ritorno. Ora che la “morte di
Dio” è stata proclamata, ora che al Dio degli uomini si è ostituito il grande feticcio della tecnica,
bisogna aspettare e rassegnarsi alla venuta del cyborg amante della morte, “feto” del Feticcio,
generato dal «sex appeal dell‟ inorganico»?9
In Walter Benjamin, « la moda presenta il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce
(…) Essa è in conflitto con l‟organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico (…). Il
feticcio, che è alla base del “sex appeal dell‟inorganico” è la sua forza vitale. Il culto della merce lo
mette al proprio servizio».10
Se il grande miscuglio di organico e inorganico attrae i bambini e i giovani adulti, se il
consumismo tecnologico soddisfa la pretesa di “giochi” e “giocattoli” che superino in modo
esagerato e sproporzionato la fantasia e le reali esigenze di puro svago e divertimento dei bambini,
allora si è davvero lontani dal mondo dell‟infanzia, dove i giochi erano spesso frutto della fantasia e
dell‟immaginazione; dove i giocattoli facevano da supporto e da stimolo alla capacità di inventarli e
di costruirli anche manualmente.
Affinché si preservi il mondo dell‟infanzia e l‟uomo non si disperda nel bambino “allevato”
dalla “rete”, è necessario procedere a una “nuova” umanizzazione dell‟ uomo. Bisogna tornare al
mito e alla favola, dove gli dei e gli animali antropomorfi rivelano una natura umana che la “favola”
virtuale oggi tende a dissipare nell‟ultima metamorfosi dell‟uomo, “eroe” forgiato a immagine e
somiglianza di un dio minore, chiuso nella sua torre di metallo dove l‟umana natura è mortificata e
dimenticata.
Se «Terminator è una macchina che indossa un corpo umano»11, l‟uomo assomiglia sempre più
a una macchina che finirà per annientarlo. Quando il confine tra macchina e uomo diverrà
impercettibile, il processo di autodistruzione avviato dalla tecnica avrà il suo innaturale
compimento.
Allora, sarà quell‟ “angelo S-terminator”, figlio dell‟uomo e del grande Totem tecnologico, a
segnare, con indelebile marchio, l‟umana natura.
Se, dunque, la fiaba cede la virtù dei suoi eroi agli “eroi” del virtuale; se la realtà si perde nella
peggiore fantascienza, allora c‟è una ragione e una morale da recuperare al più presto e da opporre
al dilagante disconoscimento delle esigenze e del valore della natura umana. C‟è una difficile
scommessa da vincere in nome del sentimento, delle emozioni, dell‟intelletto. Una scommessa tutta
da giocare in casa, in famiglia, presso il focolare domestico dove, in principio, fu la fiaba.
Contro lo strapotere della TV, del computer, del virtuale, famiglia, scuola e società devono
riconquistare il potere e la virtù di “istruire”; devono fare in modo che il processo educativo diventi
il loro programma a reti unificate, il grande software della comunicazione, opponendosi fortemente
alla dispersione dell‟ “io” nelle molteplici forme dell‟apparire e ad un “sapere” globalizzato,
omologato, che è “alfabetizzazione tecnologica”, colonizzazione dell‟ “io” ad opera, soprattutto, di
Internet e della sua ragnatela multimediale. Oggi il problema non è più di lottare contro
l‟analfabetismo strumentale, ma di esercitare un controllo sull‟alfabetizzazione informatica
contrapponendole, affinché essa non dilaghi irreparabilmente, l‟universale alfabeto dello spirito o
dell‟interiorità.
«In fondo non si tratta tanto di insegnare all‟adulto una determinata arte, una determinata
scienza, ma di istruirlo in una disciplina più vasta, in cui stoltamente noi lo supponiamo già erudito:
la vita stessa»12.
4 V. Propp, (1977). Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, pag.22
5 La definizione è di Donna Haraway, in Manifesto cyborg, Feltrinelli Milano, 1995. Concerne “Il rapporto fra essere umani e tecnica (…)
rapporto erotico di apertura nei confronti del mondo che supera la relazione sessuale fra generi”. 6 C. Formenti, (2002), Incantati dalla rete, Raffaello Cortina ed. Milano, pag.122
7 Neologismo dell‟autore
8 C. Formenti, op. cit. pag. 93 9 M. Perniola, (1994), Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi Torino. Lo stesso concetto è già in W. Benjamin, (1986), Angelus Novus,
Einaudi, Torino, pag. 146 10 W. Benjamin, op. cit. pag. 146
11 C. Formenti, op. cit. pag 128
12 A. Lorenzetto, (1963), Alfabeto e analfabetismo, Armando, Roma, pag. 133.
(pubblicato su “della Soaltà” pS 3)
MEDIA-MENTE
«In media» non sta più la «virtus», ma il «virtu-ale».
In questo “gioco linguistico”, in cui «media» assume anche l‟accezione di “mezzi di comunicazione
di massa”, il «virtuale» è il “border-line” in cui la mente sconfina e si perde.
Ė possibile che le radici di questo smarrimento abbiano come terreno fertile l‟infanzia, se è
vero che essa è, freudianamente, il luogo originario dei conflitti e delle lacerazioni che segnano
l‟intera esistenza dell‟individuo. Ad essa perciò si ritorna, ogni volta che si vogliono indagare le
cause di una nevrosi. Tra le cause ci sono, inevitabilmente, i rapporti parentali, in primo luogo
quello con la madre. Il “risarcimento” del dolore inferto dalla precarietà e dall‟inadeguatezza del
rapporto materno segue vie diverse. Tuttavia, il percorso di “liberazione” o di sublimazione del
trauma infantile non è mai lineare e vi si alternano momenti di “serenità” e di crisi. La via più
battuta oggi è quella della “modernità” (ovvero, del postmoderno) costellata dei modelli illusivi
telematici diffusi, a livello di massa, dalle tecnologie audiovisive ed elettroniche sempre più
sofisticate e tentacolari. Queste modificano profondamente l‟esperienza del reale, falsificano con la
realtà i legami sociali e storici fino ad esplodere dentro le coscienze più deboli, nella mente dei
giovani, inquinata dalle nuove droghe della civiltà delle immagini, e finiscono così per
“colonizzare” l‟inconscio e gettare quei soggetti in una condizione di «solitudine multipla» che il
sociologo Aldo Bonomi sintetizza efficacemente nel concetto di uomo glocale.
Nell‟era informatica, infatti, l‟uomo è condannato alla solitudine e alla mancanza di esperienze
reali e tuttavia, grazie al sistema di comunicazioni in cui è immerso, è a contatto con tutto il mondo.
Falsa illusione, falsa libertà, dunque, quella che si sottomette ai condizionamenti della “moda” del
postmoderno e che scava un vuoto più profondo nella coscienza ferita dall‟assenza delle figure di
contenimento infantile, soprattutto dalla perdita dell‟immagine della madre, che le immagini virtuali
non possono compensare.
Nei soggetti affettivamente traumatizzati, con difficoltà relazionale accompagnata da ansia
comunicativa, lo “sconfinamento” nei luoghi estremi del virtuale è difficilmente controllabile e può
essere certamente sintomatico del mancato contenimento delle emozioni, delle paure e inquietudini
entro i confini del Sé. Tuttavia, se l‟alienazione del reale nel virtuale assume le forme e le
caratteristiche dell‟alienazione mentale, è un problema oggi discernere le cause dei disagi, delle
nevrosi, delle patologie che affliggono i nostri giovani perché esse non sono più ascrivibili, in
modo esclusivo e diretto, alla discuria delle figure parentali. Ciò perché nella società multimediale
l‟infanzia è affidata sempre più al «video-caregiver», alle “figure” di intrattenimento piuttosto che a
quelle di contenimento.
Se, infatti, il mondo “incanalato” e mostrato nei suoi aspetti più negativi attraverso i canali
mediatici, soprattutto televisivi, nonché ampliato e falsificato attraverso le vie telematiche (Internet,
personal computer, cyberspazio) è diventato la più grande “scuola” frequentata, la più grande
famiglia allargata, presente e accogliente, allora esso è il luogo originario dei conflitti dell‟infanzia,
la loro causa scatenante. Perché il mondo, così sezionato, è il grande “comunicatore”, la grande
attrazione che ha nei media, soprattutto nella TV, i suoi esperti “contenitori”. E la televisione, per
dirla con Sartori, «sostituisce la baby sitter», ed essa «non è soltanto strumento di comunicazione, è
anche, al tempo stesso, paidèia, uno strumento “antropogenetico”, un medium che genera un nuovo
ànthropos, un nuovo tipo di essere umano».(1) Ciò significa che la società sta cambiando, che
cambierà e che le nuove generazioni saranno sempre più costituite da «video-bambini» allevati da
«ex video-bambini» e perciò incapaci «di reggere all‟urto della realtà». Allora è opinabile la nascita
di una nuova psicologia perché non si può escludere che si formi una nuova psiche, o che si stia già
formando. Del resto, «l‟animale multimediale è già descritto e iscritto nei trattati sulla schizofrenia
(…) il video-bambino (…) quello multimedializzato di domani, della seconda ondata, sarà un io
disintegrato, un io “decostruito” che andrà a popolare le cliniche psichiatriche».(2)
Per queste ragioni psicologi e psichiatri sono chiamati a occuparsi delle aberrazioni, delle
turbe psichiche di quei soggetti più fragili, emotivamente instabili, che nella solitudine della
navigazione on-line annegano qualsiasi altra attività subendo sempre più il fascino dell‟onnipotenza
dei nuovi strumenti comunicativi. E illudendosi di soddisfare i loro desideri frustrati, di
compensare le loro depotenziate capacità relazionali con un irrefrenabile bisogno di “chattare”
finiscono, per abuso di “contatti”, per cadere in depressione o in trance dissociativa, o per
scambiare la loro dipendenza con una sorta di delirio di onnipotenza.
Il rischio psicopatologico connesso ad Internet è oggi ancora un‟ipotesi da valutare. Il
fenomeno, infatti, è nuovo e resta per larga parte inesplorato. Il problema, allora, è di farne uno
studio oggettivo per la prevenzione del rischio e il trattamento delle patologie senza abbandonarsi a
facili allarmismi e a tentativi di demonizzazione. Ciò affinché la partita tra l‟uomo e il computer, tra
la mente e i media on-line si giochi a carte scoperte. Affinché, dopo la lontana stagione del
luddismo(3), non sia la macchina una seria minaccia per l‟uomo.
«Non sono le macchine che noi costruiamo ad opprimerci, ma l‟assenza di spiritualità, di
anima, la meccanizzazione del nostro intimo».(4) Questa affermazione di Lippert ci fa comprendere
come il problema della dipendenza da Internet resti aperto circa le cause che lo determinano. Cause
che sono state finora attribuite, ipoteticamente, alla macchina e/o all‟ambiente familiare. Anche se
in Lippert c‟è una chiara presa di posizione in direzione della spiritualità, alla cui dissipazione egli
attribuisce la condanna dell‟uomo alla “cattività” tecnologica, tuttavia c‟è da obiettare che essendo
la spiritualità un aspetto inscindibile della natura umana, cioè qualcosa di «dato», la sua “assenza”,
allora, deve avere una causa determinante, così come la sua “presenza” presuppone dei fattori in
grado di alimentarla. Il discorso, allora, torna all‟ambiente familiare e alla macchina “progressista”
che possono, in positivo o in negativo, “influenzare” la salute mentale dell‟uomo, elevando o
abbassando i “gradi” dello spirito.
Il problema, dunque, è un serpente che si morde la coda. La “Nuova Atlantide” di Bacone
(siamo nel 1627) inaugurava l‟illusione moderna di una felicità umana affidata al progresso
tecnologico, senza implicare una trasformazione dei rapporti sociali e umani esistenti. Oggi «la TV
è la catena che tiene in chiave di schiavitù l‟umanità. Le chiavi ce l‟ha la moderna elite
dell‟informazione e i mass-media devono ricordare ai giovani che c‟è ancora qualcosa dietro
l‟apparenza» (H.G. Gadamer).
E dietro l‟«apparenza» c‟è l‟essere, la spiritualità nell‟uomo, il suo mondo interiore. Dietro il
«virtuale» c‟è l‟uomo con i suoi problemi, di fronte a Dio, alla natura e alla morte; di fronte al
mondo della tecnica e a quello degli animali. L‟uomo è il problema e la sua soluzione. Egli
costituisce il nesso logico tra tutte le discipline, e la sua (ri)scoperta va oltre la psicologia e ogni
altra scienza, fino al loro azzeramento. Egli è il grande assente e tutti i problemi nascono da quest‟
“uomo”, si dibattono nel vuoto della sua “assenza”. Quando Lazzaro verrà fuori, la virtù senza
l‟«ale» prenderà il volo in Media-mente, ossia nella grande Rete mentale, e l‟uomo entrerà «a far
parte di una vita interpersonale che è una “superpersona”, cioè una persona più alta e perfetta».(5)
(1) G. Sartori, ”Homo videns”, ed. Laterza, pag.14
(2 ) Ivi, pag.145
(3 ) da Ned Ludd, un operaio che nel 1779 per protestare contro l‟introduzione delle macchine nell‟industria, viste come causa di
disoccupazione, avrebbe distrutto un telaio meccanico
(4) P. Lippert, “Dal finito all‟infinito”, ed. Paoline, pag. 45
(5) G. Marcel, in N. Abbagnano, “La saggezza della filosofia”, ed. CDE, Milano pag. 164
TUTTE LE VOCI DEL CANTO
(le “mille e una voce”) *
Una è la voce dell‟ “io”. Mille sono le voci che ne esprimono il canto.
La poesia moltiplica la nostra esistenza. Esperiamo, per mezzo di essa, la pluralità del nostro “io”.
Perché la poesia è l‟espressione multiforme dello Spirito, unico e indivisibile.
Col suo stellario di parole ci eleviamo alla noosfera (1), rallegriamo nel vederci nella luce di
tante esistenze.
L‟«ecceità»(2) che ci spoglia della natura communis ci chiude nella torre d‟avorio
dell‟individualità, fa cioè di ognuno di noi un individuo, unico e irripetibile. Contro questo “nobile”
“distintivo” che frantuma e isola le esistenze relegandole, con l‟avallo di una “dote naturale”, in una
solitudine estrema per l‟assenza di contatti autentici , ha pieno valore la “categoria” dell‟affinità, di
cui dà prova la poesia in tutte le sue manifestazioni. L‟affinità ci sottrae all‟«ecceità» che ci
estrania, restituendoci alla ricchezza della pluralità e alla comunic-azione, che è agire in comunione
con l‟«alterità».
E questo ci fa singolari. Perché la vera singolarità, quella che fa di ogni individuo un essere
eccezionale, è l‟appartenenza alla Regola dell‟ Intero. L‟ «ecceità» va “compresa” entro questa
Regola, fuori della quale essa è un triste “marchio”, o una “marca”, che impoverisce, che fa
perdere in umanità. Povera cosa, povera esistenza quella che fa “eccezione” alla Regola escludendo
da sé ogni altra esistenza!
L‟ “io” prende sempre il posto dell‟ «alterità». Dice solo se stesso espropriando da sé quel «tu»
ogni volta che lo pronuncia. Così tiene saldo lo scettro e ci inganna col suo potere “singolare”,
“regale”. Piuttosto che al «noi», è all‟ “io” che si confà il pluralis maiestatis. Solo questo “io”,
spogliato del proprio ego(centr)ismo e, così, spodestato, ha il diritto di occupare il posto del re.
Bisogna che il «tu» scompaia, per rivivere, nella palingenesi dell‟ “io”, dove l‟illusoria singolarità
è smascherata in ragione del vero egoismo, solo dal quale può scaturire il vero altruismo: l‟amore
del prossimo, secondo l‟insegnamento di Gesù. Amare l‟altro è aprirsi alla pluralità dell “io”, rac-
cogliersi in questa alterità universale. Nel «Noi» onnicomprensivo batte il cuore dell‟ Io maestoso.
“Ritrovare gli altri dentro di sé. Ritrovarsi negli altri”. È questa la legge dello Spirito. E la
poesia è lo spirito di questa Legge. È il suo dettato e la sua pratica.
La poesia scopre e “realizza” l‟affinità che essa stessa genera, e questa “singolare” pluralità
parla in ogni creatura umana col divino soffio della Creazione. Così ogni opera è un canto che
“riproduce” il Creato, un canto corale espresso da tutte le voci dell‟ Io.
All‟ “io” individuale diamo un volto, il nostro volto, e lo identifichiamo col nostro essere
corporeo. Dimentichiamo che, in quanto sostanza spirituale, può solo cor-rispondere e confrontarsi
con gli altri “io” particolari, all‟interno della totalità che li com-prende e che è l‟Io unico e
indivisibile. Ogni sostanza spirituale è, perciò, distinta dall‟altra ma non è mai separata dall‟ Io che
ha il Volto dello Spirito universale.
La nuova razionalità è la coscienza di questa Unità. È con questa coscienza che la Ragione si
fa etica. La Ragione che assume questo punto di vista riflette con sguardo soale. (3)
(1) in Teilhard de Chardin: “cervello planetario”, mente in cui tutti i pensieri individuali sono immersi.
(2) in Duns Scoto: perfezione che si realizza in ogni ente quando passa dalla condizione di natura specifica a quella di natura individuale, dalla
specie universale all‟individuo unico e irripetibile. (3)da soaltà (neologismo dell‟autore): realtà interiore che include, come sua parte costitutiva, il “sogno” del pensiero noetico.
* (pubblicato sulla rivista “della Soaltà” paeSaggi, giugno 2006)
Il ritorno di Orfeo
Lo sguardo
Euridice, smarrita, sogna il volto del suo giovane sposo. Il suo desiderio di fuga è un‟ombra lunga sul
mondo, un ricordo sotterraneo, nella notte profonda. Nei suoi occhi si perde lo sguardo di Orfeo, e già
un nuovo canto sorge nel cuore della driade.
(“A casa, a casa…riportami a casa, Orfeo!...Promettimi l‟alba, promettimi che sarai cieco per
me…per amore! Se tu r-esisti, allora io esisto e avrai un regno nel mio cuore. Insieme ascolteremo
l‟amato canto senza ignorarne il rischio!”).
Il sogno di Euridice si versa negli occhi di Orfeo. Egli, allora, sprofonda nell‟ombra invincibile della
ninfa, che si distoglie da lui per non perdersi una seconda volta nel suo sguardo. Dalla notte perenne
esce un dolce suono di lira, e un canto mesto e soave si sparge per l‟immobile aere. Una farfalla di
luce ora schiude le labbra di Euridice a un sorriso impercettibile, associato a un ricordo esile e vago.
Lo spettro inconsolabile di Orfeo aleggia tutt‟intorno con quel purissimo canto fiaccato dalla
promessa ingenuamente tradita.
Orfeo osa di nuovo guardare, nel pieno possesso della vista, il volto proibito dell‟umbratile sposa! Il
sacro fanciullo, figlio di Calliope, vuole trarre alla luce l‟altra faccia del canto: la verità in cui si è
trasfigurata Euridice, che nel proprio nome unisce: bene bontà giustizia. Il giovane tracio dimentica
che la verità non si lascia possedere dai sensi. Perciò l‟incauto cantore non resiste alla sotterranea
bellezza della ninfa e la perde, nuovamente, con uno sguardo.
La buona visione, seppure offesa dalla luce degli occhi, vi resta impressa, e Orfeo che vede la bontà
solo di quest‟Amore, è destinato ancora a perire, dilaniato dalle nuove Baccanti. Perché la verità è il
sogno che agli occhi non è concesso di guardare!
Ora quel musico leva per sempre il suo canto nell‟Elisio, dove il suo spirito magno si espande oltre gli
antichi confini, ma nell‟eterna stagione non gode della visione rotonda.
“Sì. Vedere è morire!” – è il sussurro impercettibile di Euridice, tra lo stupore e il disappunto. E la
verità, che alletta e si sospende nelle sue epocali manifestazioni, torna a naufragare nella rinnovata
promessa dell‟alba che declina.
Oltre il mito
Nell‟Elisio, ove è eterna primavera, Orfeo si nutre del canto che, con messe copiosa, fiorisce a bella
vista. Lontano dai suoi occhi indiscreti cresce l‟albero della visione. Il suo frutto rotondo è il volto
della verità che al citaredo è proibito di guardare, avendo negli Inferi perduto Euridice e trasgredito
l‟ordine di Ade, mancando alla propria promessa.
Nella rotonda visione si compenetrano, in una sintesi perfetta, la luce e le tenebre, il visibile e
l‟invisibile, il finito e l‟infinito, l‟essere e il non-essere, la vita e la morte…
La bellezza del canto più non consola Orfeo che non può contemplare quell‟assoluta certezza, la
piena armonia degli opposti. Egli, allora, vuole risuscitare la sua sposa, vuole farsi perdonare per
averla sacrificata per amore dell‟assoluto sapere che ora gli viene negato. Certo di riuscire nella
difficile impresa rinnova la promessa al dio del sottosuolo e lo implora di metterlo alla prova.
L‟audace domanda trova consenziente il Signore delle tenebre. Se Orfeo riporterà a casa la sua ninfa,
vivrà con lei fino a che lo vorranno gli dei della luce. E quando, dopo la seconda morte, saranno
entrambi restituiti al dio Ade, nei campi arati dal canto egli sarà un giovane frutto rotondo accanto ad
Euridice, e insieme nutriranno della loro arborea visione gli spiriti magni e daranno sollievo alle tristi
ombre e, inoltre, i loro frutti oculati apriranno la nuova e buona vista nel mondo. Se invece il grande
musico fallirà la sua prova, allora, con Euridice, perderà anche il canto ed egli sarà un frutto cavo nel
giardino d‟inverno, invaso da una penosa disarmonia che toccherà i cinque sensi. E ciò durerà finché
nel mondo un novello Orfeo, avendo sentore di tanto strazio, non sovvertirà il mito salvando Euridice
e aprendo gli occhi del mondo.
La bella driade già conosce le nobili intenzioni dello sposo, la sua fermezza d‟animo, il suo fervore
impaziente, ed è presa da un misterioso tremore che non lascia presagire nulla di buono. Il canto di
Orfeo la raggiunge con un corteo di piante e di fiere ammaliate, ed ella ascolta l‟antica promessa con
parole rinnovate. (“Sono venuto per portarti con me…Per farmi perdonare…Per salvarti!...Come vedi,
sono cieco e…resisto alla verità!”).
La felicità della ninfa riceve per la seconda volta il morso del serpente, che parla in suo nome e con
la sua voce. (“No. Qui sto bene!...Se io tornassi sulla terra, mio dolce sposo, vanirei…perché a nessun
mortale è concesso di vedermi. Se davvero vuoi salvarmi, senza perdere il mio viso, guardami! E
questa volta mi avrai per sempre con te. Perché guardare Euridice è mangiare dell‟albero della
visione. Guardami, Orfeo, e coglierai sul mio volto il frutto rotondo!”).
La voce suadente della donna/serpente mette in bocca ad Orfeo il gusto della visione che apre gli
occhi del giovane tracio all‟irresistibile contemplazione. Ed ecco!...Lo sguardo di Orfeo vede
nell‟ombra di Euridice la verità immortale e, nel medesimo istante, esso spegne gli occhi del mondo
confermando, inesorabilmente, sulla terra, la scomparsa della verità e la conseguente fuga del canto.
Perché il canto è la verità sotterranea che non si concede interamente ai mortali. Così essa resta
consegnata al volere di Ade che, col servigio del famigerato serpente, gela il povero Orfeo, il quale
nella cavità dell‟infruttuoso giardino si contempla nel volto di Adamo, dove ritrova Eva ed Euridice.
E così patisce più forte il tormento degli occhi per la nuova caduta dell‟uomo!
(pubblicato su “della Soaltà”, pS 6)
Le Cose: il sogno, l’uso, l’oblio, la resurrezione
Tutto nasce dal sogno. A partire da esso si edifica la realtà: la natura seconda o artificiale, il
mondo delle cose. Ogni cosa, prima di essere tale, è un sogno che si rappresenta nel teatro
dell‟interiorità; in altre parole, è immagine, visione, idea, pensiero, soggetto, sostanza, spirito. La
cosa sognata poi acquista una veste, un corpo; s‟incarna divenendo oggetto, forma sensibile, realtà
visibile che, in quanto unisce in sé il sogno, è una soaltà: un‟esternazione di questo sogno che,
tuttavia, resta celato nel corpo dell‟oggetto. Ogni cosa, dunque, ha una duplice natura essendo
costituita dalla natura fisica (dalla materia prima impiegata per la sua costruzione: legno, pietra,
ferro ecc.) e dalla natura umana (pensiero, idea…). Di queste due nature vediamo solo quella
materiale che chiamiamo realtà e non cogliamo quella spirituale e cioè il sogno, che è l‟origine delle
cose, la loro anima, che, in quanto tale, resta invisibile ai nostri occhi troppo superficiali per vedere
in profondità, per andare oltre la semplice apparenza. Questa vista così corta determina l‟oblio del
sogno che è anche l‟oblio delle cose, della cui importanza ci ricordiamo solo quando ci mancano.
Esse spariscono dietro il loro uso quotidiano, e spesso improprio, sprofondando nella notte in cui
sono nate…
Ed ecco! Al tocco della mezzanotte il prodigio tocca in profondità il cuore delle Cose. Un lucore
improvviso, un‟energia nuova le sorprende nella loro intima natura destandole dal profondissimo
sonno disabitato dai sogni. Come per incanto, queste risvegliate Presenze ora parlano a somiglianza
del silenzio e proferiscono suoni impercettibili elevandosi al di sopra della loro considerevole massa
che gremisce i luoghi del mondo. Al di là dell‟oblio si apre in loro la soglia della coscienza e ora
vedono dentro la notte. Vedono. Bramando, anelando il mistero della luce, sollevate un poco dalle
fatiche mondane, affidano al canto la loro vita di dormienti. Accorate rivolgono una preghiera
all‟uomo, al loro dio sconosciuto, affinché le lasci sognare, affinché il sogno le liberi dalla scorza.
Povere cieche! Nonostante la loro sapienza, mai vedranno la luce reale né quel dio verso il quale
provano un sentimento d‟amore e di odio, perché è un dio creatore e distruttore, un dio che sfrutta e
dimentica le sue creature che pure lo servono fedelmente, alle quali egli non ha dato occhi e
nemmeno braccia e né gambe negando col movimento ogni possibilità di fuga! Immobili sognatrici,
condannate a sentire la vita, a coglierne il respiro e il rumore, a subire sulla propria “pelle” l‟uso
irragionevole e sconsiderato, ad avvertire la bellezza partecipata loro, segretamente, dalla Divina
Natura di cui sono fatte. E per questo, soprattutto, infelici…per non poterne godere con gli occhi.
Anime morte, nature morte. Capolavori che mostrano la bella natura e ne rivelano lo spirito vitale, e
tuttavia morte e sepolte nel buco nero dell‟uso, nell‟assoluta immobilità e nell‟oblio in cui navigano
in cerca della luce che hanno ricevuto e che si accende invisibilmente, impercettibilmente, in
qualche atomo segreto della loro materia, ma che l‟uomo, loro dio, non sa cogliere a causa della sua
cecità.
Per loro, abitatrici del sogno nel corpo della materia, il mondo è il vaso di Pandora che trattiene
la speranza, ed è un‟enorme Cosa che contiene l‟oscuro Caos che tutto invade con tutti i mali che
non sono venuti fuori per/dal Caso. Ed è la realtà un immenso e allettante teatro d‟illusioni, il velo
di Maia che fa ciechi i vedenti e lascia a chi non ha occhi la consolazione dello sguardo. Da tempo
immemore le Cose si sono rassegnate alla cecità che consente una visione migliore e le ripara, al
tempo stesso, dagli orrori del mondo, del quale hanno appreso tutto lo scibile attraverso la preistoria
e la storia e, soprattutto, grazie al loro fratello Computer che in tempi recenti le ha reso dotte e
sapienti con la sua Rete informatica. Tuttavia, a toglierle dal sonno dell‟incoscienza è il sogno che
accende quel lucore dentro la loro interminabile notte. Ora esse vedono, senza occhi, il loro dio, al
quale credono con fede sicura convertendo in certezza ogni dubbio circa la sua esistenza. E vedono
la loro schiavitù restando umili e servili verso questo sommo artefice che però hanno smesso di
amare, perché molto le mortifica l‟essere trattate da merce. L‟uomo non ha occhi per la loro natura
soale che in sé unisce le due realtà: quella umana del sogno che le concepisce e quella divina della
natura da cui il loro artefice trae la materia prima con la quale veste il sogno dando loro un corpo
reale.
Sogno e realtà, spirito e materia sono la loro anima e il loro corpo, per cui attendono la
resurrezione! La quale può avvenire solo se il loro artefice le restituisce alla bontà e alla bellezza
del sogno liberandole dall‟oblio che le degrada e le condanna alla sparizione. Nelle mani del loro
dio non si sentono più custodite e amate. Usurate e mercificate, non sono più le nobili Cose che
servono all’uomo ma piuttosto oggetti anonimi e passivi che lo servono. Molte di loro, inoltre,
sono dei cattivi sogni nei quali la bontà è scissa dalla bellezza e sostituita, per il peggiore degli usi,
dall‟odio e dalla violenza che servono la devastazione e la morte. Belli e mortali sono così il
pugnale, la spada, la pistola, il cannone, il bombardiere, le bombe “intelligenti”, la bomba
atomica…A questi loro sfortunati e mortiferi simili, molte Cose si sentono brutalmente accomunate
quando, fuori dal benefico uso per cui sono state create, delinquono nelle mani dell‟uomo che le usa
come strumenti di offesa. Così accade, ad esempio, quando l‟amica sedia che serve alla stanchezza,
ovvero al riposo delle membra, è usata come corpo contundente e mortale contro qualcuno.
Cosicché essa perde la bontà della sua funzione originaria e subisce l‟abuso dell‟atto violento.
In balìa degli dei, le consola lo sguardo che fa del loro sonno una veglia. Magico sguardo il cui
sogno è già vita, realtà che precede l‟ex-sistenza nel mondo. Qui, dopo la stagione dell‟oro, dopo la
primavera eterna in cui con i fruttuosi semi cresceva il buon seme dell‟ozio che molceva gli animi
degli dei, ancora non usi alla guerra, fu una rovinosa caduta nei sogni sempre più malvagi, un
crescere e un precipitare nelle messi abbondanti dell‟odio e della violenza che ora spengono nelle
Cose, insieme col pallido gusto della vita, anche l‟amore e la gioia di servire alle necessità degli
umani.
Un terribile destino attende gli uomini, una metamorfosi irreversibile, una nuova caduta in una
tragica materialità che abolirà la distanza tra il loro corpo di carne e l‟attraente metallo delle
macchine e che finirà per alienarli, reificarli. Meglio, allora, è per le Cose accontentarsi di esistere
nella cecità totale dei sensi, come l‟aria, l‟acqua, la terra, il fuoco che non vivono e danno vita;
come i mari, i monti, il cielo, le stelle che non vivono anch‟essi e dispensano doni e godimento agli
dei irriconoscenti e ingrati. Anche senza vita è bello esserci!...sapendo di essere utili, di piacere
almeno a qualcuno, sì da offrirgli con generosità i servigi alleviandogli le fatiche, dandogli giusti
guadagni senza sperperi né lucro. Sì. La Bellezza e la Bontà pagano ancora in questo mondo
labirintico e tentacolare popolato di nuove fate e di nuovi orchi nei boschi informatici e virtuali.
Bellezza e Bontà sono la Luce e la Legge della Creazione, virtù inseparabili dei sogni positivi,
dai quali nascono le Cose che servono alla vita dell‟uomo e ne soddisfano i bisogni necessari.
Servire la vita è godere ogni volta dello spettacolo del Creato. È rispettare la Natura restando fedeli
custodi del sogno!
(pubblicato su “della Soaltà”, pS 8)
Dolce stil novo: echi d’amor corrente
tra letteratura e vita
L‟amore ha uno stile. Suoi “stilemi” sono dolcezza e turbamento, che sono gli stati dell‟animo
che l‟amore produce in chi “s’apprende”e che costituiscono la sua prima espressione. Sono emozioni
visibili nella fase dell‟innamoramento, moti impercettibili che si disegnano nei volti degli
innamorati, toccati e benedetti dai raggi dell‟amore, sì che i loro sembianti appaiono trasfigurati.
Messaggeri del sentimento nascente soni i dolci sguardi (prima solitari e furtivi, poi palesi e reciproci,
ma non ancora dichiarati!) attraverso i quali l‟amore si annuncia e si rivela. Così gli occhi si nutrono
dell‟amorosa visione e gli innamorati stupiscono e restano ammutoliti di fronte a cotanto miracolo,
rapiti nel contemplare il volto amato.
L‟ “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” e che trova così dolce riparo in quella sede naturale
ov‟esso ispira l‟aura del Paradiso, dona “per li occhi” beatitudine e salute, sì che la persona tutta si
trasfigura e gode in contemplazione. Lo sguardo che innamora e sul quale affiora l‟amore di cui si
nutre, fa levitare il corpo rendendo tutt’anima colui che riceve il suo tocco miracoloso. Così, dolce e
radioso è a Dante lo sguardo di Beatrice che schiude e imprime il viso della beata donna nell‟anima
del Poeta, il quale si nutre dell‟amorosa visione, nel tempo rinnovata. In grazia dell‟Amore, Beatrice è
angelo “venuto da cielo in terra” ad incarnare quell‟Altezza divina che ispirò la Commedia. E il
Canto che la volle Personaggio fu la promessa dell‟eternità, grazie alla quale ella conserva il suo
nome nel mondo.
La Poesia perdonò quegli amanti, cui restituì il diritto all‟amore che era stato offeso nella “bella
persona” di Francesca dall‟abietto Gianciotto, il quale, spinto dalla politica e non dal cuore, volle
legarsi a lei, anche per vincere sul proprio aspetto deforme. L‟ Inferno, che accoglie e p-unisce quelle
“colombe”, infiamma il loro amore giusto ed onesto, perché casto fu il bacio né li avvinse lussuria,
ove, solo per umano decreto, sono locate. Quest‟amore dolce e turbato, che il “vento” impetuoso
alimenta e che divampa come una fiamma nel canto che lo conserva, è il medesimo sentimento
terreno che sarebbe durato inalterato se non l‟avesse spento in modo scellerato quel «rustico
uomo» che “Caina attende”.
È questo forte spirto d‟amore che sosta gentilmente per desiderio del Poeta, il quale, accogliendo i
dolci pensieri e la pietà delle inseparabili anime, sospira e si commuove fino alle lacrime e allo
svenimento. Non ha colpe la Poesia, che con il “libro Galeotto” addolcisce gli sguardi e li contamina
con l‟amore, di cui essa è la prima radice. Non c‟è libidine ove “il disiato riso” è “baciato da cotanto
amante”, né in Paolo che bacia la bocca di Francesca “tutto tremante”. Perché il tremore è la levità e il
candore, è la gioia incontenibile che tracima nel bacio, in cui Paolo assapora la propria estasi; perché i
sensi non hanno dominio sull‟amore che disarma Lancillotto e lo investe cavaliere della visione
rotonda alla quale si accostano gli sguardi ispirati dei nostri amanti che, “sedendo” intorno al desco
iridato, suggellano con la levità di un bacio la loro appartenenza all‟Amore e al suo sodalizio
universale.
Dolcezza e turbamento, dunque, conferiscono all‟amore quello stile particolare che rinnova, in
ogni tempo, il canto dei poeti; che fa sognare e tremare Romeo e Giulietta in modo assai simile a
Paolo e Francesca; che rapisce e sgomenta Aschenbach*, sedotto dalla bellezza di Tadzio e
dall‟eufonia del suo nome. La mirabile visione del giovane “Feace”, la divina perfezione del suo
volto, la grazia incomparabile del suo portamento, producono su Aschenbach, esteta e decadente, gli
identici effetti del “Dolce stil novo”. Perché l‟amore è la corrente che ad ogni epoca “s’apprende”
ispirando con il suo stile dolcezza e turbamento in chiunque soltanto oda o pronunci il nome della
persona amata!...Epifania del nome, che inscrive e suggella indelebilmente nella nostra anima il volto
amato! Miracolo dello sguardo che, nella lontananza, contempla quel volto che affiora nel dolce
sussurro del nome! Chi potrebbe mai strappare Dulcinea dal cuore dell‟Hidalgo? Chi potrebbe
offuscare lo sguardo di Orfeo negli occhi di Euridice, la quale trova la morte in quello sguardo
eccessivo e impaziente?...Romeo potrebbe forse rinnegare il proprio nome senza estirparlo dal cuore
di Giulietta? E Ofelia, è forse affogata negli occhi di Amleto? Nel nome è la purezza di Perceval che
in Parsifal si fa delicata dolcezza. Al semplice, al puro cavaliere del Santo Graal non è tuttavia
concessa la sacra Coppa, perché promessa e conquistata da Galaad: l‟eletto per eccellenza, il compiuto
cavaliere di Dio, già designato, destinato dal nome, che suona come un casto e soave respiro!...Il
nome è salvezza se lo culla l‟amore; se, toccato dalla grazia, si apre al volo dell‟Angelo e mostra in
piena luce il volto amato.
Potenza del sentimento che nobilita i sensi, che riduce la distanza tra l‟anima e il corpo, tra lo
spirito e la materia rinnovandone il legame! Miracolo dell‟Amore, che infonde il proprio stile
all‟oggetto del desiderio e lo trasfigura dandogli le sembianze dell‟Angelo! Se lo sguardo necessita di
un corpo, di una forma, affinché l‟anima esulti e s‟innalzi, lo sguardo puro e profondo, non
contaminato dai sensi, è capace di contemplare l‟immateriale Bellezza senza la mediazione del corpo.
Simile al poeta, nell‟atto puro della creazione, è l‟innamorato, di fronte alla pura visione del volto
amato. La loro anima conosce l‟estasi senza uscir fuori di sé, riposando piuttosto in sé stessa. Perché
l‟estasi è la siesta, il celeste e necessario anagramma in cui l‟anima gode dell‟incorporea
Magnificenza nella dolce posa della contemplazione. Ed è questo il nuovo legame: tra l‟anima e la
mirabile visione, tra lo spirito e la Bellezza. Purezza dell‟anima che si fa liquida immagine, riflesso di
un volto straniero. Non di sé s‟innamora Narciso ma di quell‟«io» sconosciuto che lo se-duce con
l‟immateriale Bellezza che è la virtù e l‟essenza stessa dell‟anima. L‟anima, che rispecchia sé stessa,
“annega” Narciso che la contempla. Perché chi vede l‟essere immortale deve rinunciare alla vita, per
ricongiungersi con la sorgente!
Esiti simili ritroviamo in Leopardi, al quale è dolce il naufragio nel liquido specchio dell‟infinito,
dove contempla l‟Anima del mondo con la quale la sua anima si con-fonde; in Neruda, che sostituisce
all‟infinito la Poesia, la quale è, essa stessa, infinito, “universo”, col quale l‟ “essere minimo” del
poeta si congiunge naturificandosi **, tra un tripudio di stelle, e sciogliendosi dolcemente fino al
dissolvimento panico; in Siddharta, per il quale il naufragio delle singole coscienze, sottoposte al
karman e al samsara, è l‟approdo al sospirato nirvana, dentro l‟universale respiro dell‟Atman.
Sì. C‟è dolcezza e turbamento, non solo di fronte all‟angelico volto, visitato dall‟amore, che attrae
lo sguardo innamorato suscitandovi la propria immagine con la sola scia del nome, ma anche di fronte
al mistero della creazione, al suo spazio sconfinato, nel quale sprofondiamo contemplandovi, come in
uno specchio, gli abissi della nostra anima. Qui, quei sentimenti sono rinnovati, in uno stile che rivela
ancora una volta il miracolo dell‟amore che con il suo volto segreto volge all‟assoluto, a una Bellezza
divina, tutta interiore. Potenza, dunque, dello stile che, con dolcezza e turbamento, esalta la vita e
ingentilisce gli uomini rinnovandone il cuore e la vista; che li dispone all‟ascolto del canto nel
semplice dono di un nome; che li fa attori e spettatori della rotonda visione e li innalza fino al
cielo…Perché il Paradiso è perduto solo negli occhi incapaci di coglierlo nello splendore della natura
e della creazione umana.
* Personaggio di Morte a Venezia, di T. Mann
**da naturificazione, neologismo dell‟autore del presente saggio e figura retorica, opposta a personificazione
(pubblicato su “della Soaltà” pS 9, dicembre 2008)
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