dottorato di ricerca in «sociologia, teoria e metodologia ... · mass media - che rimandano...
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
Dottorato di Ricerca in «Sociologia, Teoria e Metodologia del Servizio Sociale»
X ciclo
Tesi di Dottorato di GIULIO GERBINO { b f'.
Tutore PROF. EMANUELE SGROI C~ Università degli Studi di Palermo , · ~, ,
Co-tutore PROF. GIACOMO MULÈ ~:x~ f"h/) cM Università degli Studi di Pal~~o ~·· -~
Coordinatore PROF. GIULIANO GIORIO / n. . / Università degli Studi di Triest( '-'--X---'>--r> ( ~·~
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1 - FORME DI SOLIDARIETÀ E CRISI DI INTEGRAZIONE POLITICA DELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE CONTEMPORANEA
I.O. Premessa
I. I. Verso una sociologia della globalizzazione? I.I.I. Globalizzazione e teoria sistemica: Niklas Luhmann l. I.2. Globalizzazione come occidentalizzazione? 1.1.3. Globalizzazione e multiculturalismo l.I.4. Multiculturalismo e cultura comune
1.2. Particolarismo e universalismo I .2. I. Gli universalismi differenziati 1.2.2. Particolarismi, universalismi, identità, solidarietà
1.3. Aspetti attuali della differenziazione sociale I.3.1. Alcuni spunti dai 'classici' 1.3.2. L'analisi neofunzionalista della differenziazione sociale
I.4. La fiducia come problema e come risorsa relazionale I .4. I. Cercando una definizione 1.4.2. Confidare e fiducia 1.4.3. Modelli difiducia 1.4.4. Solidarietà sociale e fiducia
1.5. L'associazione come problema sociologico
1. 6. Bene comune e beni comuni
I. 7. Altruismo e prosocialità
1.8. Forme di regolazione sociale
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10 Il 13 16 19
22 25 28
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53 53 60 65 72
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CAPITOLO 2 - LA FILOSOFIA POLITICA CONTEMPORANEA E IL PROBLEMA DELLA CRISI DELLA CITTADINANZA MODERNA 125
2. O. Premessa
2. I. Alcune definizioni filosofiche classiche
2.2. Prospettive della filosofia politica contemporanea 2.2.1. L'utilitarismo 2.2.2. Il liberalismo 2.2.3. Il liberismo 2.2. 4. Il marxismo
2.2.4.1. Il comunismo va oltre la giustizia 2.2.4.2. Giustizia e proprietà privata
2.2.5.11 comunitarismo 2.2.5.1. Doveri verso la struttura culturale 2.2.5.2. Neutralità e deliberazioni collettive 2.2.5.3. Legittimità politica
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130 134 138 156 161 162 163 165 170 170 171
2.2.6. llfemminismo 2.2.6.1. Uguaglianza sessuale e discriminazione 2.2.6.2. Pubblico e privato 2.2.6.3. Un'etica della cura 2.2.6.3 .1. Le capacità morali 2.2.6.3 .2. Il '"agionamento morale 2.2.6.3.3. I concetti morali
CAPITOLO 3 - LA CITIADINANZA OLTRE LE APORIE DELLA MODERNITÀ
3. O. Premessa
3.1. Cittadinanza e progetto dell 'Jlluminismo
3.2. Cittadinanza versus disuguaglianza sociale 3.2.1. Critiche a Marshall: Giddens, Barba/et, Held 3.2.3. La cittadinanza repubblicana: Zolo e Habermas 3.2.4. Cittadinanza tra appartenenza e diritti 3.2.5. La 'terza via' di M Walzer
3.3. Cittadinanza statalistica versus cittadinanza societaria
3.4. Società civile e cittadinanza
3.5. La cittadinanza liberal
3.6. Cittadinanza e disuguaglianze ascritte
3. 7. La cittadinanza come relazione sociale 3. 7.1. La relazione tra cittadinanza e democrazia nella modernità 3. 7.2. Alcuni orientamenti teorici post-moderni
CAPITOLO 4 - SOLIDARIETÀ SOCIALE, AUTONOMIE SOCIALI E CITIADINANZA NELLA DIMENSIONE COMUNITARIA
4. O. Premessa
4.1. Comunità e società: una problematica attuale? 4.1.1. Il concetto di comunità in alcune opere sociologiche 'classiche' 4.1.2. Declino e ripresa del concetto di comunità
4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft: una rivisitazione
4.3. La Gemeinschaft come supporto della Gesellschaft
4. 4. Leggere la società come 'rete ' 4.4. /.Sviluppi del contributo parsonsiano 4.4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft in chiave di complessità
4. 5. Il paradigma di rete per una lettura relazionale della società
4.6. Le reti sociali informali 4.6.1. L'analisi di rete
4. 7. Dalla coppia Gemeinschaft-Gesellschaft alla sociologia relazionale
4.8. Gemeinschaft-Gesellschaft: dibattito sociologico e dibattito filosofico-politico
4.9. Politica sociale e community care
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
177 178 181 182 183 184 184
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191
192
200 203 208 213 217
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264 264 270 273
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298
311
328
2
INTRODUZIONE
Solidarietà e cittadinanza sono termini chiave del dibattito sociologico classico e
contemporaneo: si tratta di concetti che hanno attraversato le tormentate fasi
storiche dell'Ottocento e del Novecento, oltre che i multiformi sviluppi della teoria
sociale e politica. Le società della tarda modernità, ad elevata differenziazione
societaria, presentano problematiche tali da sollecitare una rivisitazione dei
fondamenti del pensiero moderno nel quale si inserisce quella riflessione
sociologica cui si è fatto cenno. Il nostro itinerario di ricerca tenterà di ricavare
spunti e chiavi di lettura per una rinnovata analisi di questi oggetti, con alcune
'incursioni' in territori di per sé estranei alla sociologia (la filosofia politica), ma dai
quali possono provenire indicazioni circa il punto in cui si trova il pensiero sulla e
della modernità.
Il concetto di solidarietà sconta attualmente un carattere di indeterminatezza,
vaghezza, talvolta di ambiguità, secondo gli usi disinvolti o ideologici cui spesso è
sottoposto: esso conserva ancora potenzialità analitiche utili ad una ricognizione
della società occidentale contemporanea percorsa da tensioni, frammentazioni e
ricomposizioni? Quali possono essere, in tal senso, le basi per il ripensamento dei
sistemi di welfare? Si tratta di interrogativi certamente impegnativi, ma, riteniamo,
non eludibili. Nel primo capitolo verranno anche esaminati alcuni fenomeni
sociologicamente riconducibili alla solidarietà sociale: fiducia, associazione, beni
collettivi e bene comune, altruismo, reciprocità. Verranno impiegate criticamente
3
due chiavi di lettura generali, globalizzazione e differenziazione, necessane a
comprendere nelle società ad elevata complessità le ragioni di quella che appare una
debolezza complessiva dell'integrazione sociale e politica, che rende problematiche
la costituzione e la continua innovazione delle basi della solidarietà sociale.
Il secondo capitolo contiene una rapida panoramica sui temi della giustizia sociale e
dell'uguaglianza (elementi cardine della cittadinanza moderna e che rimandano ad
un'idea di solidarietà sociale) secondo alcuni dei filoni della filosofia politica
contemporanea: utilitarismo, liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo,
marxismo, femminismo. Numerosi sono gli spunti stimolanti per l'analisi
sociologica, tuttavia il pensiero filosofico politico contemporaneo rimane ancora
interno alle logiche della modernità e non riesce ad osservare dall'esterno il proprio
oggetto di studio e le sue principali categorie. La nostra attenzione si focalizzerà
sull'esame delle modalità con cui le diverse teorie filosofico-politiche della giustizia
tematizzano una qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra soggetti. Un
quesito importante è se esista - e se sì di che tipo - un fondamento filosofico alla
solidarietà sociale, orizzontale e verticale, intesa normativamente come valore.
Nel terzo capitolo verranno prese in esame le teorie sulla cittadinanza - una delle
dimensioni ed espressioni più significative di integrazione politica e di solidarietà
sociale - valutandole criticamente rispetto alle sfide poste dall'attuale contesto
societario: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare state, ridefinizione della
politica sociale, rapporto società civile-stato. L'analisi della crisi della cittadinanza
4
moderna rinvia sociologicamente ai nodi strutturali della tensione tra modernità e
post-modernità: da lì verranno enucleati elementi in grado di sostenere un'analisi
riflessiva, capace cioè di esaminare dall'esterno il proprio oggetto, e di offrire
elementi utili a rispondere al quesito «se, e se sì, in che senso e in quali modi, la
cittadinanza sia o possa essere quel 'qualcosa' che può funzionare da 'cemento'
politico della società».
Nel quarto capitolo verranno trattati i problemi relativi alla tensione Gemeinschaft-
Gesellschaft. La comunità è stata ritenuta, dalla sociologia classica e
contemporanea, una forma declinante e residuale rispetto al consolidarsi delle
relazioni societarie, nelle società industriali caratterizzate da una crescente
differenziazione sociale. Compiremo, pertanto, una rapida presentazione dell'analisi
sociologica del concetto di comunità a confronto con letture di altro genere
(segnatamente quella filosofico-politica), allo scopo di accertarne l'utilità analitica.
Prendendo spunto da un provocatorio quesito di Martin Bulmer - «è realistico
scommettere sulla comunità» ai fini di programmi per il benessere collettivo? -
tenteremo di mostrare le principali opportunità e i problemi implicati dagli approcci
teorici nei quali è presente il concetto di comunità. Le prospettive teoriche possibili
a partire dal paradigma della società come rete e dall'intervento di rete possono
sostenere un approfondimento relazionale della cittadinanza e delle 'autonomie
sociali' nel quadro di una rinnovata visione delle relazioni tra le diverse sfere civili
in cui si articola la società tardo-moderna.
CAPITOLO 1 FORME DI SOLIDARIETÀ E CRISI DI INTEGRAZIONE POLITICA DELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE CONTEMPORANEA
1. O. Premessa
Il termine solidarietà incrocia frequentemente dibattiti teorici fra studiosi di varie
discipline (sociologia, diritto, teoria politica, economia, psicologia sociale, politica
sociale ... ). Al tempo stesso, esso è presente, in modo crescente, all'attenzione dei
policy makers e dell'opinione pubblica per via della discussione circa i caratteri da
imprimere alla riforma dello stato sociale e di alcuni dei suoi settori
finanziariamente più consistenti (pensioni e sanità). 1 Vi sono anche varie questioni
sociali - la cui punteggiatura è data, spesso, da eventi sottolineati e amplificati dai
mass media - che rimandano all'idea e alla pratica (a idee e a pratiche) di
solidarietà: l'immigrazione straniera dal Sud del mondo e dall'Est europeo, la
presenza di gruppi nomadi, la malattia mentale, la condizione di sieropositivi e
malati di AIDS, le trasformazioni e la diffusione delle povertà, i costi delle
trasformazioni del sistema produttivo e del mercato del lavoro, la questione
ambientale, i conflitti bellici regionali, le carestie e le catastrofi in varie aree del
pianeta. Solidarietà è inoltre termine caro alle molteplici espressioni del terzo
settore (volontariato, cooperazione sociale, impresa sociale, associazionismo
sociale), da esse assunto- come valore fondativo e riferimento, simbolico oltre che
1Per una mappa concettuale, si veda: ITALO DE SANDRE, Solidarietà, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXV, 2, 1994, pp. 247-63; PAOLO NATALE, Forme e finalità dell'azione solidaristica, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà. Riflessioni su prosocialità e volontariati, Milano, Angeli, 1994, pp. 57-76; GIAN PRIMO CELLA, Definire la solidarietà, in «Parolechiave», 2, 1993, pp. 23-
7
pratico, per le motivazioni all'azione. Non si può peraltro trascurare la rilevanza del
riferimento alla solidarietà storicamente documentato nell'esperienza dei movimenti
sindacali e cooperativistici di varia ispirazione (perlopiù socialista e cattolico-
democratica).
È evidente come l'ampia varietà di riferimenti empirici e di approcci e prospettive
alle situazioni accennate sia tale da rendere indeterminato, vago o addirittura
ambiguo il concetto di solidarietà. Esso non può essere - esplicitamente o
implicitamente - ritenuto del tutto equivalente ai concetti di altruismo, generosità,
giustizia sociale o simili.
Si rivela necessaria una riflessione che consenta di verificare se il concetto di
solidarietà mantenga potenzialità analitiche, descrittive ed esplicative utili ad una
ricognizione della società occidentale contemporanea, attraversata da un insieme
inedito di tensioni, frammentazioni e ricomposizioni. Ciò può contribuire a
evidenziare la solidarietà possibile e offrire basi per il ripensamento dei sistemi di
welfare.
Ripercorrere criticamente e agg10mare l'analisi sociologica del concetto e delle
pratiche di solidarietà sociale è un compito alquanto impegnativo, stante l'ampia
portata semantica del concetto, risultante non solo dal dibattito scientifico ma anche
dalle vicende storiche e sociali attraverso le quali esso è transitato, tra Ottocento e
Novecento, come elemento di ideologie e tradizioni culturali e politiche (movimento
operaio e socialista, cattolicesimo sociale, radicalismo laico borghese), come base
dei programmi e delle azioni di partiti operai e movimenti sindacali, come principio
34. Per una ricostruzione storica delle vicende del concetto, cfr. MARIUCCIA SALVATI, Solidarietà: una scheda storica, in «Parolechiave», 2, 1993, pp. 11-22.
8
finalistico sancito in alcune carte costituzionali, come criterio di fondo di politiche
sociali e del lavoro. Tuttavia, pur con la consapevolezza dei rischi di ambiguità e
indeterminatezL:a che tale oggetto può comportare, ciò non esime dal tentare una
ricostruzione sociologica dell'analisi del concetto di solidarietà sociale.
Taluni approcci, riprendendo la lezione durkheimiana, ricordano come sia improprio
accedere ad una sovrapposizione del concetto di solidarietà con quelli di altruismo e
generosità:2 quest'ultima concezione rimanda a relazioni verticali fra gruppi segnati
da differenze, tali da dare luogo a mobilitazione di gruppi più avvantaggiati a favore
di gruppi o soggetti in posizione di svantaggio relativo. In realtà, il concetto di
solidarietà concerne anche i legami orizzontali e la cooperazione di cui sono attori
gruppi caratterizzati da una comunanza di interessi. Il diffondersi di allarme circa la
'crisi di solidarietà' si riferisce alla prima accezione, essendo totalmente fuori luogo
rispetto alla seconda, in ordine alla quale, anzi, si assiste al moltiplicarsi di forme e
contesti che testimoniano la permanenza di azioni e comportamenti solidali di tipo
orizzontale: neocorporativismi e localismi sono solo due tra i possibili esempi di
forme di solidarietà, anche se 'corte' e non certo universalistiche. Il prodotto di tale
ragionamento è che occorre puntare, allo scopo di non compromettere ulteriormente
il livello di integrazione della società, a stimolare relazioni solidali di tipo
orizzontale basate su ciò che può accomunare soggetti e gruppi sociali in un
contesto pluralistico: i diritti nella loro universalità. L'interesse a perseguire e
tutelare i diritti (di cui tutti sono portatori) dovrebbe condurre ad occuparsi di chi
non ne gode pienamente.
2Cfr. GIOVANNI SARPELLON, Solidarietà, altruismo, interesse, in PIERPAOLO DONATI- GIOVANNI B. SGRITIA (a cura di), Cittadinanza e nuove politiche sociali, Milano, Angeli, 1992, pp. 234-38.
9
Da altre prospettive, nel quadro di un'ampia considerazione dell'esperienza italiana
di welfare state, viene argomentata l'obsolescenza delle forme di solidarietà
storicamente realizzatesi, in parte perché occulte o imposte e non chiaramente
esplicitate e sostenute da consenso, in parte perché facenti riferimento ad un
contesto societario profondamente mutato;3 al fallimento dello stato e del mercato
rispetto al soddisfacimento dei bisogni sociali si è accompagnato il crescente ruolo
del terzo settore. Per far fronte al disagio sociale e ai deficit di cittadinanza nelle
loro varie forme, è necessario puntare ad una solidarietà di cittadinanza sulla cui
base rafforzare le solidarietà di tipo comunitario e le risorse del! 'altruismo sociale,
mantenendo un impianto universalistico.
La società occidentale contemporanea vive una forte crisi di integrazione politica.
Con la modernità, hanno iniziato a sfaldarsi I' ancien régime, Io statico ordine
sociale premodemo, i tradizionali legami comunitari: nuove forme di integrazione
sociale si sono sostituite o affiancate alle precedenti o inserite in esse. La sociologia
nasce proprio in quest'epoca, quando si inizia ad avvertire e a problematizzare la
differenziazione e l 'autonomizzazione della società dallo stato. In questo capitolo
verranno esaminati e discussi i più significativi mutamenti attraversati dai fenomeni
sociologicamente riconducibili alla solidarietà sociale: fiducia, associazione, beni
collettivi e bene comune, altruismo, reciprocità. Globalizzazione e differenziazione
sono chiavi di lettura generali, oggi necessarie a comprendere nelle società ad
elevata complessità le ragioni di tale complessiva debolezza, che problematizza e
3Cfr. UGO ASCOLI, We/fare State e solidarietà: quale futuro per l'Italia? in «Parolechiave», Solidarietà. La parola, le interpretazioni, le storie, i luoghi, i modelli, 2, 1993, pp. 103-111.
10
trasforma in profondità la costituzione e la continua innovazione delle basi della
solidarietà sociale.
1.1. Verso una sociologia della globalizzazione?
I processi di globalizzazione, sempre più analizzati nella loro crescente portata e
percepiti nei loro molteplici effetti, imprimono un'accelerazione crescente agli
scambi e alle interdipendenze di tipo economico, politico, culturale all'interno delle
società nazionali e tra di esse; tra i principali fattori di tali processi vi sono le
innovazioni scientifico-tecnologiche, le trasformazioni delle organizzazioni
produttive, i mezzi di comunicazione di massa, i profondi mutamenti nelle relazioni
internazionali di cui sono attori stati e organizzazioni internazionali. Nella teoria
sociologica l'interesse verso le dimensioni globali della socialità è presente già in
autori classici - Comte, Spencer, Marx, Durkheim - ai quali si deve la prima
elaborazione di categorie e modelli analitici che hanno segnato i percorsi della
disciplina, in parallelo alle prospettive offerte dalle teorie dell'azione miranti ad
osservare la società e le sue dinamiche a partire dalle azioni degli individui. Più
recentemente, a partire dagli anni '70 si sono sviluppati alcuni approcci che hanno
tentato di leggere secondo varie ottiche i fenomeni oggi sinteticamente riconducibili
all'espressione globalizzazione: in chiave prevalentemente economica, come nel
caso della teoria del sistema-mondo di I. Wallerstein, o secondo una visione attenta
ai processi culturali, proposta da riviste come «lnternational Sociology» e «Theory,
Culture & Society» e da esponenti come Ronald Robertson, il quale ha lanciato
11
l'idea di dare vita ad una 'sociologia della globalizzazione'. Uno dei tratti comuni
alle due impostazioni consiste nell'esprimere l'esigenza che la teoria sociologica
elabori paradigmi innovativi, non più vincolati da una visione di società come entità
coincidente con la nazione, idea che ha finito con il provocare un restringimento
delle analisi e la difficoltà nel centrare le dimensioni societarie globali e le loro
radici storiche e culturali.4
1.1.1. Globalizzazione e teoria sistemica: Niklas Luhmann
La teoria sistemica nella versione elaborata da Niklas Luhmann concettualizza il
sistema societario come sistema comunicativo auto-poietico auto-referenziale
globale: il sistema esiste grazie alla comunicazione dotata di senso che costruisce e
interconnette le azioni che compongono il sistema stesso: il sistema societario
«racchiude al suo interno tutte le comunicazioni possibili, riproduce tutte le
comunicazioni e costruisce orizzonti dotati di senso per ulteriori comunicazioni», in
quanto «rende possibile la comunicazione tra diversi sistemi sociali».5 Al di fuori
della società come sistema sociale, sostiene Luhmann, non può quindi aversi
4Per una efficace e sintetica presentazione dei due approcci teorici alla globalizzazione qui citati, si veda GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione: sistema-mondo e cultura globale in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXV, 3, 1994, pp. 425-40; le opere cui Bottazzi si riferisce sono: IMMANUEL W ALLERSTEIN, Unthinking Socia/ Sciences: The Limits of Nineteenth-Century Paradigms, Cambridge, Polity Press, 1991; MIKE FEATIIERSTONE (a cura di), G/obal Culture. Nationalism, Globalization and Modernity, London, Sage, 1991; RONALD ROBERTSON, Globalization. Socia/ Theory and Global Culture, London, Sage, 1992. L'articolo di LUIGI BONANATE, Globalizzazione e democrazia, ovvero alla scoperta
_ di un equivoco in «Teoria Politica», 3, 1996, pp. 3-16, offre una serie di considerazioni sul versante politologico e delle relazioni internazionali, con un riferimento di tipo antropologico al rapporto della società occidentale con culture diverse e alla deterritorializzazione dello stato contemporaneo; ci sembra, però, insufficiente il ricorso alla democrazia procedurale come unica via di soluzione alle questioni sollevate dai conflitti tra multiculturalismo e cittadinanza democratica, quando appaiono abbastanza evidenti i limiti mostrati dalla attuale versione di quest'ultima.
5NIKLAS LUHMANN, La società mondiale come sistema sociale, ( ediz. orig. 1982), trad. it. in NICOLÒ ADDARIO - ALESSANDRO CAVALLI (a cura di), Economia, politica e società, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 113-24; il passo citato è a p. 114.
12
comumcaz10ne dotata di senso. Un sistema è articolato in sottosistemi che
scaturiscono da processi di differenziazione, i quali, a loro volta, ingenerano il grado
di complessità del sistema medesimo. La differenziazione che caratterizza il
cambiamento delle società occidentali nella modernità si basa sul criterio delle
funzioni (politica, economica, culturale, scientifica ... ). I confini tra sistemi sociali
non sono più di natura territoriale, ma di comportamento comunicativo. La
differenziazione funzionale fa sì, dunque, che tutti i comportamenti comunicativi
siano inclusi nel sistema societario, il quale altro non può essere che un sistema
globale: «la società moderna è [ ... ] una società mondiale in un duplice senso. Essa
fornisce un mondo per un sistema e integra tutti gli orizzonti del mondo come gli
orizzonti di un unico sistema comunicativo. Il significato fenomenologico [di
mondo] e quello strutturale convergono. Una pluralità di mondi possibili diventa
inconcepibile. Il sistema comunicativo mondiale costituisce un unico mondo che
comprende tutte le possibilità».6 In quest'ottica, il concetto di sistema societario non
necessita del requisito dell'integrazione sociale, né in termini di identità e autostima
comune (come per lo stato nazionale) né in termini di eguaglianza di condizioni di
vita: il sistema sussiste se si ha un adeguato fluire della comunicazione dotata di
senso, in grado di elaborare le differenze tra sistema e ambiente. Più un sistema è
differenziato al proprio interno (e quindi - almeno tendenzialmente - minore è il
grado di integrazione sociale) meglio esso potrà gestire il proprio confine con
l'ambiente. La differenziazione funzionale presuppone eguaglianza (poiché
differenzia solo in base a particolari funzioni e gli individui sono inclusi in un
sottosistema funzionale in virtù di pari opportunità), ma crea diseguaglianza,
6/bidem, p. 116.
13
giacché ali' interno dei sottosistemi funzionali le differenze sono reimpiegate
secondo la funzione e dunque rimarcate. Il processo appena descritto può diventare
distruttivo se arriva ad interrompere la comunicazione dotata di senso. In sintesi, per
Luhmann, ciò si presenta sotto forma di due elementi: « 1) un sistema mondiale
differenziato funzionalmente sembra minare alla base i suoi stessi prerequisiti; e 2)
la pianificazione non può sostituire l'evoluzione - al contrario, essa ci renderebbe
maggiormente dipendenti da sviluppi evolutivi non progettati». 1 Una possibile
alternativa all'evoluzione socio-culturale in un solo sistema è la differenziazione
strutturale nei sottosistemi funzionali, la quale può introdurre in essi processi
evolutivi auto-referenziali innovativi, migliorando la 'capacità adattiva' dell'intero
sistema. Poiché neanche questa ipotesi è in grado di garantire un controllo completo
dell'evoluzione del sistema sociale globale, non rimane, secondo Luhmann, che
potenziare l'auto-osservazione del sistema medesimo, seguendo alcuni attuali
orientamenti epistemologici che incorporano strutture auto-referenziali e che si
ricollegano alla teoria dei sistemi.
1.1. 2. Globalizzazione come occidentalizzazione?
Una quarta prospettiva, elaborata da Serge Latouche, legge la globalizzazione come
processo di occidentalizzazione del pianeta:8 l'Occidente - inteso come entità non
solo geografica (I 'Europa), ma anche religiosa (il cristianesimo), filosofica
(l'illuminismo), razziale (la razza bianca), economica (il capitalismo) - non si
7/bidem, p. 120. 8SERGE LATOUCHE, L'occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e limiti
de/l'uniformazione planetaria, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
14
identifica totalmente ed esclusivamente con l'uno o l'altro dei suoi elementi
storicamente costitutivi, peraltro mutevoli; all'Occidente è possibile imputare il
complesso dei mutamenti avutisi con la modernità. Il carattere ideologico della
nozione di Occidente emerge considerando gli esiti dei processi di differenziazione
in ognuna delle dimensioni in cui tale nozione si articola. L'Occidente possiede «la
credenza, inaudita nella scala del cosmo e delle culture, in un tempo cumulativo e
lineare e l'attribuzione all'uomo di dominare totalmente la natura, da una parte, e la
credenza nella ragione calcolatrice per organizzare la sua azione, dall'altra. Questo
immaginario sociale che svela il programma della modernità così com'è esplicitato
in Newton e in Descartes, ha chiaramente origine nel fondo culturale ebraico, nel
fondo culturale greco e nella loro fusione». 9 Le idee moderne di progresso e di
sviluppo trovano un senso solo all'interno di questo quadro antropologico e
culturale. L'occidentalizzazione ha tra le sue espressioni più incisive la
deculturazione: l'Occidente è un"anticultura', una civiltà che svuota dall'interno le
culture deboli o marginali - sia centrali che periferiche - riempiendole con i
propri codici e imperativi. La specificità dell'Occidente consisterebbe nella sua
autoriflessività, cioè nel fatto che l'Occidente come cultura è in grado di distanziarsi
da sé ed autorappresentarsi, manifestando una superiore vocazione universale al
contatto con altre culture. Tuttavia, esistono culture non occidentali (India, Cina,
Islam) di ampia portata e con 'effetti di seduzione' sulle piccole culture: anch'esse,
però, subiscono in parte il fascino dell'Occidente. Ciò in quanto, osserva Latouche,
la cultura occidentale moderna fonda la sua universalità, in ultima analisi, sulla
competizione individuale e la ricerca della performance: elementi che vengono
9 Ibidem, p. 48.
15
percepiti come dotati di una sembianza di neutralità rispetto ai caratteri
antropologici delle culture. L'Occidente non è universalizzabile come civiltà -
colonialismi e neocolonialismi lo attestano - ma è riproducibile in quanto
macchina tecno-economica, e i casi del Giappone e delle 'tigri' del Sudest asiatico
ne sono dimostrazione, anche se non è possibile prevedere gli esiti
dell'assorbimento della concezione lineare e cumulativa del tempo e della 'sacra'
credenza nella possibilità di dominare la natura. Il processo di occidentalizzazione è
dunque universale - poiché le dimensioni economiche e culturali dell'Occidente si
sono dispiegate in ampiezza spaziale e temporale - e riproducibile nella sua
dimensione tecno-economica. La deculturazione si attua attraverso una gamma di
meccanismi che non comprende soltanto la violenza e la spoliazione, ma anche il
dono: mediante quest'ultimo «l'Occidente acquista il potere e il prestigio che
generano la vera destrutturazione culturale»; 10 di fronte al dono da parte della cultura
occidentale le culture marginali sono disarmate, poiché ne riconoscono la
superiorità tanto del contenuto (la tecnica, l'aiuto umanitario, il messaggio
religioso ... ) quanto della modalità dell'atto: esse si sentono in debito.
L'immaginario delle culture deboli è stravolto dal constatare che il proprio mondo
tradizionale è solo uno dei mondi esistenti, molti dei quali sono radicalmente
diversi. Cade, dunque, il solipsismo culturale che aveva agito da fattore di garanzia
della persistenza delle culture non occidentali. La deculturazione non consiste in un
processo di acculturazione, ma di sostituzione e di interiorizzazione pressoché
completa di una cultura con un'altra: «paradossalmente, l'Occidente è al tempo
stesso la sola 'cultura' che si sia veramente mondializzata con una forza, una
10/bidem, p. 71.
16
profondità e una rapidità inaudite, e la sola 'cultura' dominante che non riesce ad
assimilare veramente non solo gli allogeni ma i suoi propri membri. [ ... ] La sua
universalità è negativa. Il suo prodigioso successo consiste nello scatenamento
mimetico di modi e pratiche deculturanti. Esso universalizza la perdita di senso e la
società del vuoto». 11 L'occidentalizzazione, però, mostra tutti i suoi limiti e i suoi
fallimenti, tanto nella crisi delle strutture istituzionali, economiche e politiche di
molte ex-colonie quanto nella presenza di forme culturali sincretiche e nel
proliferare di particolarismi e fondamentalismi etnici o religiosi. Economia
informale e forme di microsolidarietà nelle bidonvilles delle aree urbane del Sud del
mondo attestano l'esistenza di una vitalità inimmaginabile in contesti asfittici e
ritenuti non in grado di valorizzare le proprie risorse.
1.1.3. Globalizzazione e multiculturalismo
Riprendendo A. J. Toynbee, 12 Franco Cassano13 indica due possibili modalità di
risposta, da parte delle culture deboli, alla deculturazione analizzata da Latouche:
l 'Erodianismo, caratterizzato dall'assunzione della cultura forte come modello e dal
tentativo di imitazione nei confronti di quest'ultima, e lo Zelotismo, che corrisponde
alla posizione di chiusura, al contempo timorosa e aggressiva, nella propria identità.
Si tratta - in entrambi casi - di posizioni di subalternità, che non assumono in
maniera costruttiva il conflitto, ma o lo ignorano, come nel primo caso, o lo
estremizzano rendendo irriducibili e contrapposte le due polarità. Nell'analisi di
11/bidem, p. 88. 12 ARNOLD J. TOYNBEE, Civiltà al paragone, trad. it., Milano, Bornpiani, 1983.
17
Toynbee, le due posizioni hanno referenti empirici nelle vicende di alcune società,
sebbene l 'Erodianismo abbia avuto una diffusione di gran lunga minore dello
Zelotismo. Vi sono, aggiunge Cassano, delle forme intermedie tra le due estreme:
una di esse corrisponde alla cosiddetta prostituzione della cultura subalterna, cioè al
tentativo di mantenerne gli aspetti compatibili con la cultura importata,
distruggendo i riferimenti culturali e morali più significativi senza sostituirli con
altri e dando luogo a patologie sociali su vasta scala (povertà assoluta, devianza,
mercificazione dilagante, economia illegale). Un'altra modalità di risposta alla
deculturazione è l'integralismo, sviluppatosi in paesi che qualche decennio fa
avevano tentato senza successo la strada dell 'Erodianismo. Uno dei punti centrali
dell'argomentazione di Cassano si basa sulla considerazione che «le patologie da
deculturazione [ ... ] non nascono dai limiti intrinseci di alcune culture, ma
dall'inserimento coatto in un modello dominante che impone loro di trasformarsi o
perire». 14 L'integrismo del modello produttivistico è però 'asettico', in quanto
ammantato di razionalità. Occorre allora rimetterlo in discussione dall'interno,
evidenziandone gli aspetti che possono frenare la mercificazione e la
tecnicizzazione della vita sociale. Torna il tema dei 'limiti dello sviluppo' e
l'interrogativo posto all'identità occidentale, al paradigma dell'infinità e a quello
della libertà dell'individuo. La risposta più adeguata della cultura occidentale
all'integralismo, sostiene Cassano, consiste nella decostruzione di se stessa e dei
suoi meccanismi repressivi: «l'atto più universalistico e coerente del nostro
13FRANCO CASSANO, L'integralismo della corsa, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo e democrazia, Roma, Donzelli, 1996, pp. 11-20.
14/bidem, p. 18.
18
universalismo dovrebbe consistere nel riconoscere le proprie patologie e la propria
parzialità». 15
I processi di socializzazione, identificazione, produzione simbolica sono fortemente
collegati, nelle società a modernità avanzata, con il processo di differenziazione
della società: in essa si presentano gruppi - a base diversa: etnica, religiosa,
razziale, nazionale - provvisti di culture o subculture proprie. In certi casi ciò può
anche essere il risultato di consistenti flussi migratori.
Il multiculturalismo, nella visione di Blau16, può essere descritto come l'esito -
virtuoso, auspicato: il che denuncia un certo carattere ideologico di tale nozione -
di significative relazioni comunicative e di scambio fra individui appartenenti a
gruppi diversi, in un clima di reciproco riconoscimento, rispetto, valorizzazione
senza pretese di primogeniture di sorta: «l'obiettivo del multiculturalismo è quello
di incrementare i benefici portati dalla diversificazione a vantaggio di più persone e
della società nel suo insieme, migliorando la comunicazione tra i vari gruppi». 17
Possono tuttavia prodursi delle conseguenze indesiderate: la valorizzazione di ogni
cultura, se non adeguatamente posta in relazione con le altre, può far sorgere
tentazioni etnocentriche. Il paradosso del multiculturalismo consiste, per Blau, nel
fatto che esso lavora per la sua scomparsa: una società sostanzialmente
multiculturale porterà gradualmente all'attenuazione e alla scomparsa delle
differenze culturali, le quali si fonderanno in una sintesi (si potrebbe dire in un
melting pot) in cui i singoli elementi costitutivi originari resteranno indistinguibili.
15 Ibidem, p. 20. 16PETER M. BLAU, I paradossi del multiculturalismo, trad. it., in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVI,
1, 1995, pp. 53-63. 17/bidem, p. 56.
19
In realtà, le condizioni sociali affinché ciò accada non sono di poco conto, se si
considera che, nella quasi totalità dei casi, le differenze culturali sono accompagnate
da pesanti differenze di status. Una strategia di multiculturalità avrà successo
soltanto se anche questa classe di variabili sarà soggetta ad adeguati interventi
perequativi: «in termini astratti, un prerequisito per il successo del multiculturalismo
è l'intersecarsi delle differenze di classe e culturali, non la forte correlazione che si
verifica attualmente». 18
1.1. 4. Multiculturalismo e cultura comune
Il tema del multiculturalismo richiama - simmetricamente, si potrebbe dire - la
problematica della cultura comune, cioè di un insieme più o meno limitato di
elementi comuni ali' interno della cultura della società contemporanea. Mike
F eatherstone 19 si è riproposto di esaminare le condizioni in base alle quali una
cultura comune interagisce ali' interno dei processi di integrazione sociale,
orientando individui e gruppi sociali verso «un superiore e coerente insieme di
valori e di gusti». Egli mette in guardia contro il rischio di confondere due piani che
invece vanno tenuti distinti: l'analisi della cultura comune esistente e la
teorizzazione circa la sua desiderabilità nella società postmoderna, attraversata dal
fenomeno della cultura consumistica di massa.
Esiste, e, se sì, in che termini una cultura comune? Occorre innanzitutto sgombrare
il campo da un'idea di cultura unitaria, aconflittuale e del tutto funzionale ali' ordine
18/bidem, p. 63. 19MIKE FEATHERSTONE, Cultura comune o culture non comuni?, trad. it. in «Studi di sociologia», XXIX, I,
1991, pp. 41-61.
20
sociale: un'idea mitica risalente allo storicismo e al romanticismo tedeschi20 e che ha
inciso, in particolare, nello sviluppo degli studi in antropologia. Tale concezione
contiene una 'visione estetica della cultura', caratterizzata i) da una struttura
unitaria, in cui le parti sono armonicamente integrate fra loro e ii) dalla necessità di
una raffinata sensibilità interpretativa (intuizione artistica) per esprimere e realizzare
il significato intrinseco della cultura stessa. 21 Questo è il concetto di cultura comune
che è possibile ritrovare nella sociologia funzionalista del Novecento, in particolare
nel pensiero di Parsons. Con valenza e denominazione diverse, il concetto è presente
anche negli studi di orientamento marxista, dove la cultura è vista, in chiave
manipolativa, come ideologia dominante (cioè 'falsa coscienza').
F eatherstone si rifa ad alcuni studi22 che hanno mostrato - mediante l'esame dei
casi del feudalesimo, del capitalismo ottocentesco e di quello novecentesco - che
la riproduzione delle società non avviene né per mezzo di una cultura comune né per
mezzo di un'ideologia dominante. Due sono le argomentazioni principali a tale
proposito. Innanzitutto, non è dimostrato che in passato le società occidentali
fossero più integrate di oggi: ad esempio, in età feudale le comunicazioni erano
carenti, gli stati centrali - sebbene fosse largamente dominante l'ideologia della
cristianità- non erano in grado di esercitare una forza integrativa rilevante, i flussi
migratori erano costanti, magia e superstizione permanevano nella cultura degli
strati sociali inferiori. Il mito secondo il quale le società feudali erano state comunità
integrate è derivato da una lettura errata dell'opera tOnniesiana, dall'impostazione di
Durkheim e dalla rilettura parsonsiana di quest'ultimo. Era stato Durkheim, infatti, a
2°Cfr. MARGARET ARCHER, Culture and Agency, Cambridge, Cambridge University Press, 1988. 21Cfr. MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 43.
21
focalizzare l'attenzione sulla coscienza collettiva, a forte impronta religiosa, che
nelle società primitive a bassa differenziazione garantiva un'elevata integrazione
morale e sociale.
Il secondo punto del ragionamento di F eatherstone parte da un quesito: in che modo
ricostruire e mantenere nel tempo un consenso morale, in un contesto
desacralizzato? È possibile creare la «sensazione che la società sia divenuta una
comunità nazionale unitaria»?23 Nelle società moderne ciò è alquanto improbabile in
termini concreti, ma si può considerare il 'potenziale mitico' dell'integrazione
culturale: si tratta della «invenzione delle tradizioni»24 operata da 'specialisti nella
produzione dei simboli', i quali intervengono nei processi di costruzione e
ricostruzione delle rappresentazioni di una comunità. 25
In ordine alla questione relativa alla formazione di una cultura comune,
Featherstone accetta l'idea di Raymond Williams secondo la quale tale cultura deve
assumere positivamente la differenziazione tipica della società complessa e al
contempo favorire la solidarietà, cioè «restituire la diversità senza causare
separazioni».26 Si tratta di un paradosso, poiché tale nozione di cultura comune
richiede di essere sviluppata, non essendo però al tempo stesso programmabile.
Williams ritiene che la cultura di massa non sia un frutto degenerato di una errata
ricerca di una cultura comune: l'espressione 'cultura di massa', a suo avviso, risente
ideologicamente di una elitaria separazione fra cultura della borghesia colta e
cultura popolare.
22N. ABERCROMBIE - S. HILL - B. S. TuR.NER, The Dominant ldeology, London, Allen and Unwin, 1980. 23MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 45. 24E. HOBSBAWN- T. RANGER, The lnvention ofTradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. 25MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 45.
22
Gli approcci al tema della globalizzazione che abbiamo presentato~ se adoperati
congiuntamente e in modo complementare, possono rivelarsi utili a costruire un
quadro di tali dimensioni in cui sia gli aspetti strutturali ed oggettivi, cioè le
interdipendenze di tipo economico, che quelli di tipo socioculturale - le immagini
del mondo come sistema globale e i processi di creolizzazione delle culture
particolari e locali - seppure con dinamiche ed esiti altamente diversificati,
emergano nella loro rilevanza e nelle loro relazioni.
1.2. Particolarismo e universalismo
La problematica appena esaminata si ricollega alle tensioni esistenti fra
particolarismo e universalismo, secondo la definizione parsonsiana delle variabili
strutturali come alternative di orientamento e di azione nella classificazione delle
relazioni sociali, soprattutto di tipo istituzionale. La modernità, in buona sostanza,
ha connotato negativamente il primo elemento - identificato con sistemi di
appartenenza arcaici che mortificavano le potenzialità individuali e cristallizzavano
le relazioni fra ceti - e positivamente il secondo, corrispondente ad una nuova
concezione antropologica e del rapporto stato-individuo basato sulla cittadinanza
comune a tutti i 'consociati'. Le realtà storiche da superare erano quelle della società
feudale, dello stato assoluto o di quello tradizionale, che impedivano alla borghesia
di affermare compiutamente la propria egemonia culturale ed economica.
Particolarismo, dunque, come ostacolo ai processi di modernizzazione della società
26RAYMOND WILLIAMS, Common Culture e Culture is Ordinary, in Resources of hope, London, New Left Books, 1989 citato in MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit.
23
o come uno degli indicatori del carattere premoderno/tradizionale della società,
perché ritenuto una minaccia alle esigenze e alle mete universalistiche o, ancora,
<<Una tipica espressione dell'egoismo sociale, economico e politico, degli interessi di
parte, delle lealtà ristrette».27 Secondo una visione meno modellistica e meno
dualistica, è possibile considerare la dicotomia particolarismo-universalismo m
termini più articolati e complessi, individuando un numero molto ampio di
combinazioni fra i due elementi, disposte lungo un continuum i cui estremi sono
costituiti da sistemi di azione premoderni e da sistemi di azione modernizzati. Sarà
così possibile cogliere taluni particolarismi che sono sorti dalla e nella
modernizzazione o altre manifestazioni che possono divenire «fattore di sostegno
allo sviluppo una volta che siano state inserite in circuiti istituzionali e di potere
appropriati»28 o, ancora, forme di mobilitazione caratterizzate come particolaristiche
nelle loro genesi, poi apertesi a prospettive universalistiche. 29 Già ne Il sistema
sociale Parsons faceva riferimento a tipi di struttura sociale improntati anche a
modelli universalistici di attribuzione o a modelli particolaristici di realizzazione;
questi ultimi, in particolare, sono stati l'oggetto di alcune ricerche, citate
nell'articolo di Mutti, che hanno mostrato come criteri particolaristici appartenenti
alla cultura tradizionale di una società, se filtrati e combinati con criteri realizzativi,
possono favorire i processi di modernizzazione. Mutti va oltre, osservando che «le
relazioni interpersonali particolaristiche costituiscono un lubrificante indispensabile
27ANTONIO Mum, Particolarismo, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVII, 3, 1996, pp. 501-11; p. 501. Vedi anche, per una visione che propone l'idea di un 'universalismo differenziato', MAURO MAGATil, Mutamento sociale e differenziazione de/l'universalismo, in «Studi di sociologia», XXXIV, 1, 1996, pp. 15-35.
28ANTONIO MUTII, Particolarismo ... cit., p. 508. 29GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore, Milano, Feltrinelli, 1991.
24
al funzionamento delle società moderne»,30 e non solamente nelle sfere private
individuali o nei gruppi e nei movimenti sociali ma anche nella sfera economica e in
quella politico-istituzionale della società. Vivere in una società globalizzata, dove le
relazioni sociali sono sottoposte a stretching (stiramento) nello spazio e nel tempo31
genera negli individui 'insicurezza ontologica', che può essere da essi controllata
mediante legami particolaristici che consentano di adottare atti di fiducia basati su
comportamenti dei propri interlocutori caratterizzati da un minimo di prevedibilità,
e perciò rassicuranti. 32 Schematizzando, Mutti individua due forme idealtipiche di
particolarismo che potremmo definire hard e soft. La forma hard, ostile alla
modernizzazione e alternativa all'universalismo, identifica comunità chiuse verso
l'esterno, con confini netti basati sulla dicotomia amico/nemico, basate su tradizioni
sacralizzate e ritenute immodificabili. La fo~a soft di particolarismo, simbiotica
rispetto alla modernità, corrisponde a comunità che, pur rappresentando comunque
un riferimento identitaria significativo per i suoi membri, presentano caratteri di
maggiore articolazione, flessibilità ed apertura, di disponibilità al dialogo e alla
cooperazione con altre, diverse comunità.
30ANTONIO MUTII, Particolarismo ... cit., p. 508. Vedi anche, per aspetti collegati al tema in questione, dello stesso autore, Reti sociali: tra metafore e programmi teorici, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 5-30. Il tema dell'analisi di rete verrà ripreso più avanti.
31L'espressione è di ANTHONY GIDDENS, La costituzione della società. Lineamenti di teoria della strutturazione, trad. it., Milano, Comunità, 1990, come ripresa in PETER DICKENS, Sociologia urbana, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1992.
32Sulla tematica della fiducia e sui meccanismi che legano fiducia interpersonale e fiducia sistemica nelle relazioni sociali, Mutti si riferisce, su un piano microsociologico ai seguenti studi: ERIK H. ERIKSON, Infanzia e società, trad. it., Roma, Armando, 1970; S. M. LIPSET - W. SCHNEIDER, The Confidence Gap, New York, Free Press, 1983.
25
1. 2.1. Gli universalismi differenziati
Il tema degli universalismi - in qualche modo speculare rispetto a quello dei
particolarismi poc'anzi esaminato - conduce a ulteriori riflessioni. Considerare la
differenziazione degli universalismi, ricostruendoli a partire dai soggetti più che
dalle istituzioni, consente, secondo Turnaturi,33 di assumere la problematicità
dell'orizzonte della vita quotidiana della persona, dimensione caratterizzata dalla
presenza contraddittoria e dinamica di un 'pluralismo di universalismi'; questo
approccio intende offrire elementi utili alla costruzione di uno scenario in cui
universalismo equivalga a riconoscimento e rispetto delle differenze, le quali non
vanno considerate, dunque, come realtà statiche o da sottoporre ad omologazione.
Cogliere una sorta di differenziazione del! 'universalismo comporta «reintrodurre
elementi di disuguaglianza nella forzata eguaglianza, di tener conto di percorsi,
processi, pathos, emozioni, dell'individuo nella sua interezza». 34 Nella società
contemporanea l'universalismo assume, per vari ordini di motivi, il carattere della
paradossalità: in molti casi il particolarismo presenta le proprie ragioni in nome
dell'universalismo, «si nutre vampirescamente di universalismo».35 Ci sembra di
potere affermare che questa analisi non è totalmente condivisibile, nel senso che è
forse eccessivo pensare ad un universalismo quasi totalmente 'strumentalizzato' dai
particolarismi hard e svuotato dei suoi contenuti propriamente universalistici - una
visione che potrebbe essere ritenuta frutto di una indebita sovrapposizione del
concetto di universalismo a quello collegato, ma diverso, di globalizzazione. È pur
33GABRIELLA TuRNATURI, I soggetti dell'universalismo, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXV, 3, 1994, pp. 361-83.
34/bidem, p. 3 71.
26
vero, tuttavia, che taluni fenomeni sociali contemporanei possono essere ricondotti a
un «duplice processo di universalizzazione del particolarismo e di
particolarizzazione dell'universalismo» :36 i particolarismi hard e soft crescono, si
differenziano e acquistano in maggiore misura riconoscimento e visibilità sociale e
culturale, anche come risposta o reazione a stati di 'insicurezza ontologica' o per le
altre dinamiche già ricordate (universalizzazione del particolarismo), ma si ha,
anche se non in ragione direttamente proporzionale alla crescita dei particolarismi,
la particolarizzazione dell'universalismo come «conseguenza della generalizzazione
dell'idea di essere tutti partecipi, pur nel particolare, di un'essenza umana
universale».37 Vale comunque la constatazione che sempre più difficilmente, in un
contesto tendenzialmente globalizzante, i particolarismi si costituiscono in assenza
di universalismo - e in ciò consistono gli effetti globalizzanti che scaturiscono dai
processi di comunicazione - determinando una situazione inedita: «l'insorgere dei
particolarismi, dei nazionalismi, dei localismi nei nostri giorni si differenzia da
quello ottocentesco proprio perché nasce dalla mancanza di senso, dalla perdita
dell'identità, oltre che da reali discriminazioni, nasce dalla voglia di
differenziazione, di scissione dalla globalità, dall'esigenza di poter narrare la propria
esperienza a sé e agli altri. La crisi dell'universalismo nasce, paradossalmente, da un
eccesso di universalismo, da un eccesso di comunicazione puramente formale, dalla
perdita di senso della propria esperienza e della possibilità di una sua narrazione e
condivisione»;38 tale crisi si ha quando l'universalismo assume i caratteri del
35 Ibidem, p. 362. 36RONALD ROBERTSON, Globalization ... cit., in GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione ...
cit., p. 434. 37GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione ... cit., p. 435. 38GABRIELLA TuRNATURI, I soggetti de/l'universalismo ... cit., p. 365.
27
livellamento che omologa esperienze e differenze. Altro fattore di paradossalità
dell'universalismo, prosegue Turnaturi, è dato da una frequente confusione dei
diritti della persona con quelli del cittadino. 39 Tuttavia, se da un punto di vista
analitico tale distinzione è necessaria, porre in quest'ottica le questioni relative ai
diritti delle minoranze culturali nelle società occidentali contemporanee non evita il
sorgere di conflitti circa tali diritti, ma soltanto ne sposta il terreno da quello dei
diritti - perlopiù sociali - di cittadinanza a quello dei diritti umani, rinviando ai
problemi della loro costituzionalizzazione formale e materiale e della loro
implementazione a livello di policies. Su queste problematiche avremo modo di
ritornare; per il momento ci limitiamo a concordare con la constatazione che «oggi
la cittadinanza dei nostri ricchi paesi rappresenta l'ultimo privilegio di status,
l'ultimo fattore di esclusione e discriminazione anziché - come fu all'origine dello
stato nazionale - di inclusione e parificazione, l'ultimo relitto premoderno delle
differenziazioni personali, l'ultima contraddizione irrisolta con l'affermata
universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali»40• Questa osservazione ci pare
utile, in quanto riteniamo si possa esprimere, a partire da essa, una duplice necessità:
i) chiarire i nessi tra le dimensioni giuridiche e quelle sociologiche del concetto e
delle pratiche della cittadinanza moderna e contemporanea, e ii) evidenziare la
complessità della dinamica particolarismo-universalismo - soprattutto con
riferimento alle prospettive di società multiculturali - irriducibile in logiche di
livello sottosistemico (economico, politico o giuridico) poste come reciprocamente
esclusive. In sintesi, ridefinire e differenziare l'universalismo a partire dalle persone
39Tale posizione prende spunto da alcune note di LUIGI FERRAJOLI, Cittadinanza e diritti fondamentali, in «Teoria politica», IX, 3, 1993, pp. 63-76.
28
segnala sicuramente un certo disagio verso la tradizionale formulazione del concetto
e delle pratiche - soprattutto culturali, politiche e giuridiche - ad esso connesse e
rimanda, inoltre, ad approcci al tema della giustizia - come quello proposto da
Amartya Sen, 41 che chiama in causa la dimensione della scelta e le sue componenti
emotive oltre che razionali - imperniati sul riconoscimento pieno delle differenze e
delle capacità individuali, ma nello stesso tempo attenti a non legittimare
particolarismi hard.
1.2.2. Particolarismi, universalismi, identità, solidarietà
Franco Crespi42 si propone di ricercare nuove basi della solidarietà nella società
contemporanea, attraversata dalle dinamiche della globalizzazione e della
differenziazione e dalle conseguenti tensioni fra universalismo e particolarismo: «se
è vero [ ... ] che la solidarietà non è sempre una condizione necessaria per il
funzionamento del sistema sociale, è anche vero che la forma democratica non può
che essere basata su regole universalmente condivise».43 La globalizzazione ha
migliorato notevolmente le condizioni di vita in taluni paesi, mentre in altri ha fatto
sorgere nuove aspettative, diverse da quelle tradizionali. Consumismo e
competitività sembrano essere diventati tratti assunti a modello per molte società e a
ciò si è accompagnata anche una certa omogeneizzazione di alcuni stili di vita,
soprattutto giovanili. Tuttavia, a tali trasformazioni culturali non ha corrisposto la
40/bidem, p. 74. 41AMARTYA K. SEN, La diseguaglianza: un riesame critico, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994. Per un breve
esame di questa posizione, cfr. infra, capitolo 2. 42FRANCO CRESPI, Mutamento sociale, identità e crisi della solidarietà, in FRANCO CRESPI - ROBERTO
SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 3-9. 43/bidem, p. 3.
29
diffusione del modello liberaldemocratico: economia di mercato e democrazia
rappresentativa non vanno di pari passo, e i casi delle 'tigri' asiatiche e della Cina lo
confermano. La crescita economica e un più elevato benessere hanno offerto spazi
più ampi allo sviluppo e all'espressione delle differenze culturali. La crescita delle
interdipendenze economiche e la fine dell'ordine mondiale basato sulla
contrapposizione politico-ideologica fra due blocchi hanno determinato fattori critici
per i sistemi politici dei vari paesi, con una elevata variabilità legata ai singoli casi.
Le istituzioni politiche tradizionali devono fare i conti con l'erosione dei propri
fondamenti; prendono piede forme di separatismo sulla base di un'identità etnica,
religiosa, nazionale e di fondamentalismo. Crespi individua un elemento
problematico nel «fatto ( ... ] che il giusto principio del riconoscimento dei diritti
particolari sta un po' dovunque configurandosi come conflitto di identità anziché
come conflitto di interessi: ciò porta a opposizioni che, di per sé, tendono a
presentarsi come inconciliabili e non suscettibili di compromesso, impedendo di
affrontare in modo pragmatico le contraddizioni». 44 Già K. Marx aveva tentato senza
successo di fondare la solidarietà sociale sui rapporti economici reali e quindi nella
società civile; in seguito anche É. Durkheim, che individuava la base della
solidarietà sociale nella solidarietà organica risultante dalla divisione del lavoro in
una società modernizzante ad elevata specializzazione funzionale, aveva dovuto
riconoscere la necessità di un riferimento a principi generali di tipo etico-religioso.
Le interdipendenze economiche agite nel contesto della globalizzazione e i connessi
valori e modelli di vita e di relazione non sono in grado di offrire adeguati
riferimenti alle identità individuali e collettive e al senso di appartenenza. Si spiega
44/bidem, p. 6.
30
perciò l'attuale tendenza a cercare nuove forme di identità e di appartenenza
richiamandosi a (non sempre reali) tradizioni religiose, etniche, nazionalistiche. Si
pone dunque un dilemma di non facile soluzione, che vede opposte le forme di
appartenenza particolaristiche, ormai troppo 'corte' rispetto alle esigenze di
integrazione e di solidarietà sociale, e quelle sovranazionali, eccessivamente
universalistiche e non in grado di sostenere un'identità culturale. Crespi ritiene che
«occorre da un lato riconoscere il bisogno insopprimibile di identità e, dall'altro,
mostrare che le definizioni delle identità sono riduttive rispetto alla complessità
della situazione esistenziale nella quale ci troviamo».45 Riconoscere la priorità
dell'esistenza rispetto ad ogni conoscenza - in opposizione ad uno dei tratti più
marcati del modello culturale dell'Occidente - è un passaggio necessario che si
ricollega al ritenere parziale ogni interpretazione della realtà e a ricercare il senso
ultimo della vita, anche se questo è inattingibile nella sua globalità: «questo
significa che mentre possiamo riconoscere tutta l'importanza della richiesta di senso
contenuta nella ricerca dell'identità, possiamo anche riconoscere che le definizioni
dell'identità non esauriscono mai l'intera realtà degli individui e delle collettività». 46
Quanto detto aiuta a ridimensionare il riferimento alle identità particolari e a
mantenere di più i conflitti entro l'ambito degli interessi, per definizione negoziabili
e ben più manipolabili attraverso procedure e strumenti razionali. «L'attenzione
all'esistenza, come situazione comune caratterizzata dalle dimensioni affettive, dal
desiderio, dall'angoscia -e dalle gioie, dalla consapevolezza della morte, ma anche
come condizione comune di non sapere riguardo al senso ultimo della vita, sembra
45/bidem, p. 7; tali considerazioni sono estesamente sviluppate nel volume, dello stesso autore, Imparare ad esistere. Nuovi fondamenti della solidarietà sociale, Roma, Donzelli, 1994.
31
costituire l'unico possibile riferimento universalmente condiviso in una cultura che
è essenzialmente relativistica».47 All'atteggiamento ironico verso le pretese di
validità universali proposto da R. Rorty e dalla cultura postmoderna occorre
aggiungere la consapevolezza della irriducibilità dell'esistenza a un conflitto tra
diverse identità. Nell'attuale orizzonte, la democrazia «deve cercare il suo
fondamento in un concetto assai meno determinato di solidarietà, che consenta al
tempo stesso di ridefinire delle regole universalmente condivise, senza pretendere di
imporre valori assoluti rispetto alle identità particolari».48
Su un piano che tocca argomentazioni anche di tipo filosofico-politico, sembra
emergere con sempre maggiore evidenza la correlazione fra crisi dell'universalismo
e tenuta delle democrazie occidentali, che vedono aumentare le difficoltà nel
comporre le istanze universalistiche con una crescita delle espressioni delle identità
particolaristiche, spesso in aperta polemica con i valori fondanti delle prime.
L'universalismo, ricorda Francesco Pardi, 49 è affermato in una piccola minoranza di
società, e perciò non è possibile darlo per scontato. La modernità attribuisce
all'universalismo il carattere di regola super partes, irrecusabile rispetto a soggetti
diversi per identità culturale e per interesse economico. Ciò in base a due
presupposti: la differenziazione sociale, che dà luogo a interessi diversificati e
potenzialmente confliggenti, e il manifestarsi di relazioni di 'indifferenza' tra
fondamenti valoriali anch'essi diversificati e potenzialmente confliggenti. In tal
modo l'universalismo è in grado di rendere possibile la coesistenza o, più spesso, di
46FRANCO CRESPI, Mutamento sociale ... cit., p. 8. 471bidem. 481bidem, p. 9. 49FRANCESCO PARDI, Indifferenza e universalismo procedurale, in FRANCO CRESPI- ROBERTO SEGATORI (a
cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 21-34.
32
regolare i conflitti fra valori e interessi: «non l'integrazione perfetta, ma
l'indifferenza come tecnica per la regolazione dell'insuperabile imperfezione sociale
pare essere lo scopo realisticamente concepito di ogni idea di universalismo. In altre
parole l'universalismo deve creare le condizioni per la formazione di una unitas
multiplex, di un sistema ove la molteplicità delle componenti non generi sempre e
necessariamente il conflitto e la guerra».50 L'universalismo cui Pardi si riferisce è
dunque di carattere procedurale e agisce in base ad un meccanismo simbolico -
definito modalizzazione - che dovrebbe creare indifferenza fra diverse istanze
valoriali e di interesse, 'tecnicizzando' le situazioni conflittuali. L'universalismo,
attraverso l'abbandono di ogni particolarismo, ha fatto sì che «col divenire
ugualmente validi ed egualmente riconosciuti, tutti i valori sono nello stesso
momento divenuti egualmente relativi, avendo essi perduto la funzione di
integrazione primaria delle società».51 Una società universalistica riconosce validità
ad ogni 'pretesa di validità', consente la comunicazione morale tra tutti i valori,
tranne quelli che affermano di volerne bandire qualche altro. Rimane in piedi la
questione di cosa possa garantire l'integrazione della società. A giudizio di Pardi, i
valori tendono ad assomigliare sempre di più agli interessi; in un ordinamento
universalistico le chiusure sono accettate sulla base degli interessi e non dei valori:
si tratta di chiusure organizzative ( closure) che possono essere superate mediante la
comunicazione e lo scambio. Gli ordinamenti non universalistici sono caratterizzati
da chiusure ontologiche (closedness) che comportano il mantenimento dell'identità.
L'universalismo procedurale si presenta nell'Occidente sotto tre forme: razionalista,
50/bidem, p. 23. 51/bidem, p. 24.
33
relativista (privilegia l'esperienza vissuta), tecnocratico (privilegia il criterio del
successo). La prima forma corrisponde al massimo di proceduralismo e non entra
affatto nel merito dei valori, ma si esprime totalmente nella ricerca di condizioni che
consentano di formulare regole super partes. Tale impostazione ritiene che i diversi
valori siano 'traducibili' attraverso le regole irrecusabili. L'unico elemento richiesto
a tutti i 'giocatori' è un 'meta-gioco' che «funga da ponte tra tutti i giochi giocabili e
quindi tra tutti i significati emergenti dalle differenti comunità».52 Per adoperare la
terminologia di Karl-Otto Apel, si tratta, per i soggetti in gioco, di riconoscere la
loro comune appartenenza ad un' «ideale comunità di comunicazione» con la regola
irrecusabile. L'universalismo relativista muove dal presupposto che le diversità fra
culture siano tali da non consentire una benché minima traducibilità dei valori. Le
regole di interpretazione dei significati non sono universali, ma hanno valore
soltanto all'interno di una certa cultura. L'universalismo può essere conseguito
attraverso la comunicazione, lo scambio di senso a partire da un vago sentimento di
appartenenza al genere umano. Proprio perché la 'traduzione' è per definizione
imperfetta, la consapevolezza di ciò motiverebbe a ricercare intese e punti di
contatto. Anche gli universalisti tecnocratici ritengono che le diversità tra culture
non siano traducibili, ma non si rassegnano alla risposta dell'ermeneutica e
dell'appello alla comune umanità. In questa visione, le differenze non sono altro che
equivalenti funzionali, che possono essere manipolati mediante strumenti tecnici
propri dei vari sottosistemi: politici, economici, scientifici, eccetera.
52lbidem, p. 27.
34
Cecilia Cristofori53 ritiene inadeguate - in modo condivisibile, a nostro avviso - le
proposte avanzate da Pardi e Crespi in ordine all'universalismo necessario per i
conflitti fra culture occidentali e culture altre. La forma procedurale indicata da
Pardi, attraverso il tentativo di sterilizzare e tecnicizzare quanto più possibile i
conflitti, ha il limite di rimanere troppo utopica e di non fare i conti con la sfiducia
esistente verso questo tipo di soluzioni. Lo spostamento dei conflitti dal terreno
delle identità a quello degli interessi, come argomentato da Crespi, ha anch'esso un
carattere utopico; in esso, inoltre, è carente la considerazione della complessa natura
dell'identità, strettamente connessa all'opacità dell'esistenza, più volte evidenziata e
approfondita dallo stesso Crespi. Identità e interessi, secondo Cristofori, sono nella
realtà molto difficili da separare, e tale separazione può avvenire solo a posteriori,
quando cioè il conflitto si sia dispiegato nell'insieme delle sue dimensioni: identità,
interesse, valore, riconoscimento. Se per conflitto si intende «una sorta di
cortocircuito» fra le dimensioni di cui sopra, è possibile analizzarne i casi concreti,
comprenderne le ragioni in gioco, ipotizzarne soluzioni prima che degeneri a
irriducibile scontro di identità, quando cioè sia del tutto assente il loro reciproco
riconoscimento come condizione per l'interazione e un'eventuale negoziazione.
Questa impostazione può essere applicabile nella sfera sociale come in quella
politica all'interno delle dinamiche di cittadinanza e di inclusione-esclusione, nelle
relazioni fra popoli e fra stati. Seguendo T. Adorno e W. Benjamin, vanno
sottolineate anche le potenzialità positive del conflitto culturale, come spinta al
mutamento sociale. Taluni studi antropologici propongono la cifra del sincretismo
53CECILIA CRISTOFORI, Gli universali dell'interazione, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 39-46.
35
come altro esito possibile della globalizzazione rispetto a quelli della acculturazione
e della omologazione: «questo approccio è di sicuro interesse perché evidenzia le
forme di produzione dell'innovazione culturale senza passare sotto silenzio i
caratteri del dominio in cui consistono i processi di omologazione [ ... ]. La denuncia
e l'attenzione critica che i concetti di acculturazione e omologazione riuscivano a
garantire debbono, infatti, poter essere trasferiti in queste modalità interpretative,
pena la loro riduzione alla tensione conciliativa e ottimistica dei processi spontanei
di osmosi sociale, in una riedizione sofisticata e modernizzata»54•
Il tema universalismo/particolarismo ha più volte incrociato, nel corso del nostro
percorso di ricerca, la dimensione dell'identità. Ambrogio Santambrogio55 parte
dall'idea che valori e interessi, lungi dall'essere riferimenti alternativi, siano
elementi presenti nella costituzione e nella definizione di identità: «valori, intesi in
senso lato come elementi culturali di riferimento all'interno delle identità, e
interessi, intesi in riferimento alla sfera dei beni materiali nell'accezione più ampia e
non strettamente economica, sono [ ... ] dimensioni complementari per la definizione
di un'identità».56 La sua argomentazione si sviluppa in sei punti. 1) La dialettica tra
valori ed interessi, tutta interna alle identità, va fatta emergere nella sua portata:
sono riduttive sia le posizioni che indicano nel conflitto fra valori divergenti la vera
radice dei conflitti di identità sia quelle per le quali il conflitto di fondo è tra diversi
interessi generali 'mascherati' da riferimenti simbolici e valoriali. Ad esempio, nella
cultura occidentale l'interesse allo sviluppo economico è presentato come interesse
54lbidem, p. 46. 55AMBROGIO SANTAMBROGIO, Identità, valori, interessi, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura
di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 112-119. 561bidem, p. 113.
36
'generale' e accompagnato da elementi simbolici e valoriali particolari. Anche i
valori non sono di per se stessi universalistici, possono aversi 'valori particolari', e
hanno una concretezza più solida di quella generalmente loro attribuita. Non a caso,
osserva Santambrogio, tre delle quattro forme weberiane idealtipiche di agire
sociale fanno riferimento in qualche modo alla dimensione simbolica. In ogni caso,
va ricordato che non può darsi per scontato il sopravvento della dimensione dei
valori né di quella degli interessi; risulta parimenti falsante ogni enfasi
sull'universalismo di una delle due dimensioni. 2) Se l'imperialismo culturale va
rifiutato, mentre l'interesse allo sviluppo economico può essere fatto proprio da
chiunque, «è forse ugualmente pericolosa la situazione in cui l'Occidente,
destrutturati e relativizzati i propri valori, si offre con la pura e semplice potenza
tecnica e tecnologica del proprio modello di sviluppo. Questa neutralizzazione nega
alla radice la possibilità di un confronto tra culture diverse, proprio perché una delle
posizioni, quella dei paesi sviluppati, cosciente dei propri sensi di colpa, neppure si
mette in gioco. L'effetto di tale ritrarsi potrebbe essere, da una parte, un buco nero
che tutto inghiotte, dominato dalla logica tecnica e impersonale dei mercati e dello
sviluppo ad ogni costo. E, dall'altra, un relativismo paralizzante, che porta
l'Occidente a non difendere più i propn valori, perché tutte le culture sono
egualmente valide».57 Gli interessi vanno dunque 'smascherati' al pan delle
ideologie, per ottenere un 'effetto di chiarificazione' e porre m luce i 'valori
impliciti agli interessi', sì da potere instaurare un reale confronto tra le parti. 3)
L'universalismo si trova dunque stretto tra due riduzionismi: quello basato sulla
relativizzazione dei valori (che dà luogo ad un universalismo solo procedurale) e
57/bidem, p. 116.
37
quello basato sulla relativizzazione degli interessi (si avrebbe un universalismo
ontologico). I conflitti non hanno un'unica modalità di svolgimento, cioè quella che
vede contrapposti valori o interessi: differenziando questo oggetto di analisi,
possono esservi conflitti tra valori e interessi all'interno della medesima identità o
fra diverse identità. L'identità, dunque, è composta da elementi eterogenei e
potenzialmente conflittuali. 4) Crespi58 ritiene che i conflitti fra identità non siano
negoziabili, a differenza di quelli fra interessi. Ma, se si accede ad una accezione
complessa di identità come composta tanto da valori quanto da interessi, il conflitto
fra identità ne chiama in causa tutte le dimensioni, in un intreccio spesso non
districabile. Operare la distinzione e la separazione fra gli aspetti di identità e quelli
di interesse in questione nel conflitto può rappresentare una possibile strategia per
disinnescarne la sterilità o la distruttività e avviarne una negoziazione.
Santambrogio non concorda con il presupposto di Crespi circa la non mediabilità dei
valori nelle identità: come potrebbe essere possibile una società pluralista? Rawls
indica una soluzione in positivo nella costituzione della politica come sfera
autonoma dalle concezioni morali, religiose, filosofiche degli individui; Crespi, dal
canto suo, propone una soluzione in negativo basata sul riconoscimento comune
dell'esistenza umana come condizione contraddittoria, che non consente a nessuno
di assolutizzare la propria identità. 5) L'assolutizzazione dei valori può condurre
all'intolleranza, alla violenza, alla riduzione all'omologazione o al silenzio del
diverso. Anche il relativismo ha i suoi rischi, perché si rimane ancorati alla fatticità
e la prassi stessa tende all'irrazionalità. 6) Ritenere che interesse ed egoismo siano
sempre collegati è errato, possono esservi interessi che vanno a beneficio di soggetti
58Cfr. FRANCO CRESPI, Mutamento sociale ... cit.
38
diversi dall'io che li esprime. Nella società complessa le identità chiedono che sia
rispettato il diritto alla pari dignità, ad un pari riconoscimento come degne di essere
riconosciute: «accettare, anche senza necessariamente condividere, diventa il
presupposto stesso per una qualsiasi forma di condivisione».59
Ad analoghe considerazioni era pervenuto il filosofo statunitense Michael Walzer, il
quale aveva sostenuto che i particolarismi costituiscono un aspetto ineliminabile
della vita sociale e dei rapporti fra società o - all'interno di una nazione - fra
culture o etnie diverse, e diventano 'pericolosi' solo se le identità si percepiscono
minacciate.60 Un efficace antidoto contro la radicalizzazione delle identità
particolaristiche è dato dalla differenziazione e pluralizzazione delle identità:
«quando le identità si moltiplicano, le passioni si dividono», 61 e la forza della
minaccia viene attenuata o spenta. W alzer ritiene che non esista una struttura
politica ideale in grado di favorire questo processo di articolazione interna delle
identità, essendo ogni soluzione frutto di negoziazione e, dunque, per definizione
provvisoria e soggetta a superamento.
1. 3. Aspetti attuali della differenziazione sociale
Modernità e differenziazione sociale sono concetti che, nella tradizione come anche
nella recente produzione sociologica, hanno camminato in coppia: operare una
rivisitazione di entrambi può offrire elementi utili alla comprensione delle
condizioni critiche in cutversano solidarietà sociale -e integrazione politica. Le righe
che seguono hanno lo scopo di focalizzare l'attenzione sul secondo concetto: su
59 AMBROGIO SANTAMBROGIO, Identità ... cit., p. 119. 60MICHAEL W ALZER, La rinascita della tribù, trad. it. in «Micromega», 5, 1991, pp. 99-111.
39
quello di modernità c1 soffermeremo in altra parte del nostro itinerario di
riflessione. 62 Di quale tipo sono le relazioni fra i processi di differenziazione e la
solidarietà nella società contemporanea? In particolare, la crisi di solidarietà sociale
o, perlomeno, delle forme di solidarietà sociale tipiche della modernità, in quale
rapporto sta con la differenziazione?
Accanto alla accresciuta percezione dei fenomeni descritti dal concetto di
globalizzazione, viene parallelamente e sempre di più evidenziata, nell'ambito della
teoria sociologica, la portata dei processi di differenziazione sociale: sinteticamente
esprimibile, questa, in termini di aumento della complessità dei sistemi sociali, dal
punto di vista delle loro articolazioni e relazioni interne e delle relazioni di ogni
sistema con il proprio ambiente. Le definizioni sono variegate e hanno condotto, e
conducono, a diversi risultati analitici:63 il concetto di differenziazione sociale -
come quello di solidarietà sociale - è coevo alla nascita della sociologia; potremmo
dire, anzi, che i due concetti hanno rappresentato due fra i principali strumenti che la
teoria sociologica ha costruito per leggere e problematizzare la società nella
modernità. Volendo circoscrivere il campo di una panoramica teorica sui temi della
differenziazione ad alcuni significativi contributi, faremo rapidi riferimenti a
Spencer e Durkheim, per poi dedicare un approfondimento alle posizioni elaborate
61/bidem, p. 110. 62Cfr. infra, capitolo 3. 63«Processo attraverso il quale le parti (comunque definite) di una popolazione e di una collettività, sia questa
una società, un'associazione, un'organizzazione, un gruppo, ovvero un sistema sociale acquisiscono gradatamente una identità distinta in termini di funzione, attività, struttura, cultura, autorità, potere, o altre caratteristiche socialmente significative e rilevanti. In sintesi, differenziazione significa diventar differenti alla luce di categorie sociali e per cause sociali»: questa la defmizione sintetica del concetto data da LUCIANO GALLINO, Dizionario di Sociologia, Torino, Tea/Utet, 1993, p. 224, il quale prosegue passando in rassegna vari autori classici e contemporanei, i significati da essi elaborati, gli usi più diffusi, le diverse dimensioni del concetto.
40
da Simmel, Parsons, Alexander e, nell'ambito della sociologia italiana
contemporanea, da Donati.
1.3.1. Alcuni spunti dai 'classici'
Herbert Spencer ha introdotto, all'interno della definizione di differenziazione
sociale, la nozione dell'aumento della complessità della società, che si dispiega con
la dinamica dell'evoluzione: in senso orizzontale ciò corrisponde al coagularsi nella
società delle sfere politica, economica, del diritto, religiosa, culturale come sistemi
distinti ma fra loro interdipendenti; in senso verticale, la differenziazione indica la
formazione di una sempre più ampia pluralità di livelli di status, relativamente alle
sue tre componenti costitutive - ricchezza, potere, prestigio - e alle loro possibili
combinazioni. Il grado di differenziazione di una società- e la divisione del lavoro
in particolare - ne riflette il livello di evoluzione raggiunto; il concetto di
evoluzione è connotato ideologicamente in senso positivo, in sintonia con la più
generale diffusione in Inghilterra dei fermenti evoluzionistici: la specie, l'individuo
o la forma di vita sociale più evoluta sono migliori di quelli meno evoluti, perché
sono in grado di rispondere meglio alle sfide e alle esigenze dell'ambiente. La
nozione spenceriana è però gravata da limiti ideologici e deterministici che
impediscono una adeguata concettualizzazione della differenziazione come
espressione delle dinamiche contraddittorie della modernità.
Dell'opera di Émile Durkheim è fin troppo nota la centralità dei temi relativi alla
differenziazione sociale, anche se egli riteneva che questa nozione non fosse affatto
coincidente con quella di divisione del lavoro sociale: con la prima si sarebbero
41
dovuti indicare i fenomeni di dissociazione arbitraria dall'organismo sociale, mentre
la seconda avrebbe abbracciato i fenomeni di solidarietà organica in grado di
garantire alla società lo svolgimento delle funzioni vitali, l'integrazione e l'ordine
sociale. In realtà, gli sviluppi della teoria sociologica hanno superato questo punto e
il concetto di differenziazione sociale è stato impiegato nel modo contrario a quello
auspicato da Durkheim. Anche in questo caso, la scelta ideologica e metodologica
per l'ordine sociale a scapito dell'autonomia individuale finisce per imbrigliare
l'analisi entro schemi riduzionistici. 64
La differenziazione sociale (1890) è una delle prime opere di Georg Simmel.65 In
essa è rintracciabile la consapevolezza del forte legame tra il fenomeno, o meglio
l'insieme di fenomeni oggetto dell'opera, e l'orizzonte sociale e culturale della
modernità. Nella società moderna la responsabilità individuale prende il
sopravvento rispetto alla modalità arcaica della responsabilità collettiva per gli atti
del singolo, e questa evoluzione, frutto della differenziazione, ha significato una
diminuzione della violenza nei rapporti sociali, prima segnati da lotte anche cruente
fra clan o cerchie parentali. La responsabilità concerne il singolo individuo, e
neanche nella sua globalità ma in quella parte della sua personalità che ha infranto le
regole della società. La differenziazione, dunque, è vista come processo che non
solo rende diversi gli individui tra loro ma anche accresce la complessità della
personalità di ognuno di essi. Individui appartenenti a gruppi contrapposti possono
presentare maggiori affinità di quanto non ci si attenda, posto che all'interno dei
gruppi le forme della differenziazione sono simili, se non uguali. Quanto più i
64ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, ( ediz. orig. 1893 ), trad. it., Milano, Comunità, 1962. 65GEORG SIMMEL, La differenziazione sociale, (ediz. orig. 1890), trad. it., Roma-Bari, Laterza, 19952
•
42
gruppi sono 'individuali', hanno cioè l'individualità, e non la socialità, come
carattere e interesse prevalente del gruppo medesimo in quanto tale, tanto più,
osserva Simmel, i singoli individui adotteranno comportamenti molto simili tra loro:
individuale e sociale sono combinati secondo livelli inversamente proporzionali.
Analogamente - ed è uno dei più rilevanti elementi di fondo della teoria
simmeliana - ampiezza della cerchia di appartenenza e libertà dell'individuo sono
direttamente proporzionali. L'esigenza di rendere omogenei i livelli sociali e
l'impulso alla differenziazione sociale sono collegati: il secondo per Simmel è lo
strumento o la conseguenza della prima, presente fra gli esseri umani come dato
naturale e costante, che talvolta può assumere le forme, sia negli individui che nelle
masse, di tracotanza, formidabile ostacolo alla creazione di condizioni di giustizia
intesa come eguaglianza e rispetto della legge. Questa riflessione consente di
richiamare un elemento portante della teoria di Simmel: il carattere in parte
sfuggente e distonico dell'individuo rispetto alla società, che viene adeguatamente
problematizzato, attraverso lo studio delle forme istituzionali e organizzative
risultanti dalla relazione di tale carattere con le esigenze e le opportunità della
società. Le cerchie sociali, per effetto della differenziazione, si moltiplicano e si
collocano secondo una disposizione concentrica: quelle maggiori (stato, patria ... )
sono esterne rispetto a quelle minori (professioni, associazioni per il tempo
libero ... ) e sono dotate di ordini normativi specifici, che vanno da livelli maggiori di
generalità a livelli minori, tutti necessari alla vita sociale. Un ampio numero di
cerchie in cui il singolo è inserito indica un livello elevato di civiltà; quanto più tali
cerchie si intersecano, gli spazi per la individualità del singolo ne risulteranno
43
limitati. L'aumento del numero delle cerchie cui può appartenere un individuo è
espressione dello sviluppo dello spirito pubblico della società, così che ogni aspetto
della personalità degli individui può tendenzialmente trovare riscontro in processi di
integrazione e di attività sociale: collettivismo e individualismo sono salvaguardati
in egual misura, posto che il primo si basa sulla disponibilità di varie opportunità
aggregative, mentre il secondo è fondato sul fatto che è l'individuo a realizzare la
combinazione delle cerchie sociali cui appartiene. Nella società moderna si ha
l'allargamento della cerchia comprendente l'insieme della personalità dell'individuo
e la riduzione o la dissoluzione delle cerchie chiuse, il che responsabilizza
l'individuo a trovare modalità di soddisfazione di quei bisogni alternative a quelle
proprie di tali cerchie chiuse.
1.3.2. L'analisi neofunzionalista della differenziazione sociale
Anche in Talcott Parsons il concetto di 'differenziazione sociale' corrisponde
all'incremento di complessità sistemica e subsistemica della società nella modernità.
Probabilmente anche per influenza dello spirito del tempo che caratterizzava la
società statunitense nella prima metà del Novecento, egli aveva concepito l'idea di
forti connessioni tra il cambiamento sociale della modernità e la differenziazione
sociale. Anzi, secondo una recente lettura - che si autodefinisce neofanzionalista
- del pensiero del sociologo di Harvard, 66 in esso il cambiamento sociale è visto
come differenziazione; Jeffrey Alexander, già allievo di Parsons e fra i principali
esponenti di tale orientamento scientifico, si ripropone fra l'altro - ed è ciò che in
44
questa sede ci interessa di più - di operare una ricostruzione neofunzionalista della
teoria parsonsiana della differenziazione. 67 Questa operazione prende avvio dal
constatare che per Parsons nei processi di cambiamento sociale nella modernità il
trend centrale è proprio la differenziazione sociale: essa ha carattere unilineare e
progressivo, unità differenziate vanno prendendo il posto di istituzioni e ruoli
multifunzionali. La teoria parsonsiana della differenziazione è dunque teoria del
cambiamento sociale e in un certo senso anche teoria della modernità.
Sono abbastanza note le critiche rivolte a Parsons: la teoria non è storicamente
specifica, non individua le cause della differenziazione, non analizza il ruolo dei
gruppi concreti nell'attivare o ostacolare la differenziazione, sottovaluta il ruolo del
potere e del conflitto, gli incrementi di efficienza e di integrazione sono ritenuti
scontati, il processo viene fatto intendere come lineare, continuo e conducente verso
un'unica e perfetta modernità idealtipica.
Altre visioni del cambiamento sociale hanno puntato l'attenzione sul processo di
'produzione' e 'costruzione' della realtà sociale, sui processi di interazione,
negoziazione e conflitto che regolano il sorgere e l'esistenza di un ordine
istituzionale, sull'autonomia dei gruppi e delle loro rappresentazioni della realtà; le
analisi condotte secondo questi approcci s1 sono incentrate sui modi in cui il
divenire storico, le tradizioni culturali, i rapporti internazionali trasformano un
ordine istituzionale e su come attori individuali e collettivi e le loro interazioni
'producano' la società e il cambiamento sociale.
661EFFREY C. ALEXANDER, Teoria sociologica e mutamento sociale. Un 'analisi multidimensionale della modernità, trad. it., Milano, Angeli, 1990.
67MARIA ELENA CAMARDA, Jeffrey Alexander: la ricostruzione neofunzionalista della teoria della differenziazione, «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXIII, 3, 1992, pp. 391-423.
45
I ,neofunzionalisti riconoscono la validità di queste critiche; tuttavia si ripropongono
di leggere il cambiamento sociale a partire da una analisi 'non funzionalista' del
modello AGIL. I critici ritengono che proprio tale modello impedisca una analisi
soddisfacente del cambiamento sociale, mentre i neo funzionalisti sono dell'avviso
opposto, in quanto lo schema AGIL è il nucleo di una teoria multidimensionale
dell'azione e dell'ordine. Tenteremo adesso di esplicitare il significato di
quest'ultima espressione.
Carattere saliente e originale della teoria parsonsiana è, come evidenzia Alexander,
il tentativo di operare una sintesi fra dimensione volontarista dell'azione e
dimensione condizionale dei fatti materiali sopraindividuali. Ciò in base a due
elementi: 1) l'autonomia individuale ha una base sociale e 2) l'ordine sociale ha una
base multidimensionale: i due elementi vengono definiti da Alexander volontarismo
formale. A ciò Parsons unisce la sua scelta ideologica per l'espansione della libertà,
dell'autonomia e responsabilità dell'individuo. I fattori interni ed esterni che
incidono sulla libertà dipendono, a suo avviso, dall'aumento di differenziazione
sociale, culturale e psicologica. Volontarismo sostantivo viene definito da
Alexander l'insieme che Parsons costruisce tra volontarismo formale, scelta
ideologica e visione del cambiamento come differenziazione.
Il principale punto debole di Parsons in tema di differenziazione è ritenere che il
volontarismo formale sia estensibile alla realtà storico-empirica, mentre esso,
sostiene Alexander, è solo una proprietà analitico-formale dell'azione. Da che cosa
è data la multidimensionalità di una teoria dell'azione e dell'ordine sociale? Così si
esprime Camarda, sintetizzando il pensiero di Alexander: «una teoria può dare conto
46
della differenza tra volontarismo formale e volontarismo sostantivo solo sulla base
di scelte teorico-presupposizionali e metodologiche che soddisfano lo standard della
multidimensionalità. Sul piano presupposizionale una teoria sociologica soddisfa lo
standard della multidimensionalità attraverso una concettualizzazione sintetica
dell'azione e dell'ordine, sul piano metodologico mantenendo una prospettiva sulla
realtà sociale che eviti il riduzionismo e il determinismo».68
Alexander accede ad un'idea 'postpositivista' di pensiero scientifico come processo
generale che si realizza sia sul piano generale 'teoretico' sia sul piano specifico
'empirico-sperimentale', piani da considerare come gli estremi di un continuum e
che, essendo distinti analiticamente ma non ontologicamente, sono autonomi e
interdipendenti.
Per quanto concerne il piano presupposizionale, le due questioni cruciali di ogni
teoria sociologica sono l'ordine e l'azione. Una teoria può concettualizzare l'azione
in modo normativo o strumentale e il modo in cui le azioni sono ordinate come
esterno o interno. Una teoria, se sceglie uno dei due modi, si configura come
unidimensionale, mentre se sceglie la multidimensionalità trascende i due poli:
«l'azione è concettualizzata multidimensionalmente se è intesa come un continuum
che va dalla razionalità strumentale alla normatività. L'ordine è concepito come
multidimensionale se si considerano le azioni organizzate sia secondo modalità
simbolico normative, sia secondo vincoli materiali. In accordo con questa
concezione, le azioni concrete presentano sia una -dimensione normativa che una
dimensione strumentale, elementi di contingenza e di libero volere e elementi di
68/bidem, p. 395.
47
referenza più strutturata all'ordine normativo e al contesto delle limitazioni poste
dalle esigenze esterne». 69
La teoria parsonsiana ha un deficit di multidimensionalità su entrambi i piani,
presupposizionale e metodologico, ma ciò non annulla la validità del nucleo
presupposizionale parsonsiano, dal quale vanno espunte le distorsioni. La critica ha
indirizzato i suoi rilievi all'insieme della teoria, senza distinguere il piano
presupposizionale dagli altri piani, fraintendendo così - è l'opinione di Alexander
- il pensiero di Parsons. Nella teoria parsonsiana la differenziazione è la modalità
centrale del cambiamento sociale: questa concezione riposa su una visione
multidimensionale dell'azione e dell'ordine, e quindi, secondo Alexander, risulta
valida. Le critiche al funzionalismo di Parsons trovano motivazione
nell'articolazione della relazione tra il modello astratto e universale di interscambio
tra le quattro dimensioni AGIL e la storia, piuttosto che nella teoria in sé.
La confusione di piani presente nella teoria di Parsons si riflette negativamente su
tre aspetti inerenti il cambiamento sociale: equilibrio, stabilità e conflitto. In merito
al primo aspetto, lordine della organizzazione sistemica (nel senso di modello) è
identificato indebitamente con l'equilibrio della realtà empirica, non considerando i
fattori contingenti che influenzano la stabilità. Su tale riduzionismo si basano i
rilievi critici alla teoria di Parsons sulla differenziazione. La mancata distinzione tra
modello analitico e realtà empmca s1 traduce in confusione. All'analisi del
cambiamento storicamente fattuale s1 sostituisce l'idea di uno sviluppo-
differenziazione necessano, 1 cm aspetti sono dedotti dal modello: la
differenziazione cessa di essere processo e viene considerata evento con prospettive
69 Ibidem, p. 398.
48
e ricadute di lungo termine m direzione di una costante penetrazione della
modernità. Cade, perciò, la distinzione fra volontarismo formale e volontarismo
sostantivo. La differenziazione «non è più pensata come sviluppo basato su
assunzioni presupposizionali, ma piuttosto come ricerca di equilibrio empirico da
parte dei sistemi».70 Sul piano presupposizionale Alexander osserva nell'opera di
Parsons una tendenza all'idealismo sociologico, che si rivela nel primato del livello
normativo su quello condizionale: le strutture sociali derivano da modelli culturali
espressione di valori generalizzati, sottovalutando così i fattori strumentali e
condizionali: «Parsons pur non ignorando l'esistenza dell'ordine strumentale non vi
assegna interesse indipendente e pensa l'ordine come una sorta di 'naturale identità
degli interessi' basata sulla interpenetrazione degli individui grazie a simboli
culturali. [ ... ] Tale sottovalutazione della misura in cui esigenze condizionali creano
una 'identificazione artificiale degli interessi' sta a fondamento delle critiche rivolte
alla sociologia parsonsiana per la non considerazione delle relazioni di potere, di
conflitto e per l'insistenza posta sulle conseguenze riequilibranti e integrative dei
processi di differenziazione». 11
Il giudizio complessivo di Alexander è che la teoria della differenziazione elaborata
da Parsons ha parecchie ambiguità, dovute a riduzionismo, determinismo,
funzionalismo e idealismo, che vanno a danno delle potenzialità della teoria stessa.
Ciò però non intacca il fatto che Parsons abbia considerato in modo
multidimensionale azione e ordine e che il nucleo centrale della teoria sia costruito
in tal senso: il che consente ad Alexander di tentare la ricostruzione della teoria
70 Ibidem, p. 406. 71 Ibidem, p. 407.
49
della differenziazione, eliminando le incongruenze degli sviluppi parsonsiam
rispetto alle sue stesse premesse.
Per Alexander una teoria del cambiamento è valida se è in grado di trattarne la
dinamica oltre che la morfologia: questo requisito è di fatto carente o assente nelle
teorie sociologiche del cambiamento disponibili; molto spesso queste sono
caratterizzate dal 'problema dei tre libri', per rifarsi ai tre libri de La divisione del
lavoro sociale di Durkheim, cioè da discrepanze significative nelle scelte
presupposizionali e metodologiche relative alle varie dimensioni della riflessione
sociologica.
L'individuazione e descrizione di tendenze nella differenziazione va intesa, secondo
Alexander, solo come schema idealtipico di orientamento nelle analisi empiriche,
questo perché i processi di differenziazione sono storicamente specifici e ciò non
può affatto essere disatteso dall'analisi. La teoria potrà tener conto di tale specificità
attraverso due livelli di sintesi collegati fra loro: i) tra schema classificatorio e
schema esplicativo di differenziazione; ii) tra dimensione contingente e dimensione
strutturale della vita sociale. In ordine al primo tipo di sintesi, si tratta di adottare un
quadro struttural-volontarista che vada in profondità; in ordine al secondo livello di
sintesi, va osservato che la relazione tra dimensione strutturale e dimensione
contingente dell'azione articola il legame micro-macro della vita sociale. A ciò
occorre una posizione teorica che argomenti adeguatamente il legame micro-macro:
questa dovrà essere basata «sulla comprensione multidimensionale dell'azione e
sulla comprensione analitica delle relazioni tra differenti livelli di organizzazione
50
empirica».72 Il modello che traduce tale posizione teorica ha due premesse: a) il
legame micro-macro rispecchia due diversi livelli analitici entro unità empiriche,
non una diversità fra unità empiriche in sé, come quella esistente fra individuo e
società, fra azione e ordine; b) occorre porsi su un piano interparadigmatico, capace
di combinare rispettivamente teorie micro e teorie macro.
I vari filoni microsociologici contemporanei, all'interno di una struttura teorica
generale data dal nucleo presupposizionale di Parsons, possono diventare elementi
analitici che illuminano la comprensione della contingenza dell'azione.
«Sono gli attori concreti, attraverso la loro azione contingente, che traducono 1
vincoli posti agli ambienti macrostrutturali ai loro orientamenti e alle loro attività, a
dare un corso ai processi di cambiamento, ad attivarli, a bloccarli o a rallentarli. Il
piano empirico su cui analizzare i processi di cambiamento è quindi individuato
come piano dei processi contingenti e storicamente specifici sia strategici sia
interpretativi di 'produzione sociale', attraverso cui un ordine istituzionale viene
mantenuto, sviluppato o cambiato. Sono infatti questi i processi che producono le
modalità storicamente specifiche di differenziazione. I differenti corsi assunti
dall'azione contingente dei concreti attori individuali e collettivi entro vincoli
macrostrutturali consentono anche di spiegare e comprendere le variazioni di grado
di livello di differenziazione di una singola istituzione o della struttura di ruoli entro
un dato sistema sociale e il modo in cui particolari società, istituzioni o sistemi di
ruoli passano da un livello di complessità ad un altro». 73
721bidem, p. 410. 731bidem, pp. 414-5.
51
Attraverso quali passaggi la ricostruzione neofunzionalista conferma la validità del
considerare i processi di cambiamento della modernità come differenziazione? Una
prima motivazione, di natura teorico-epistemologica, sostiene che, adottando
un'impostazione postpositivista, è possibile affermare che nei processi di
cambiamento si può individuare un trend centrale; esso può essere dato dalla
differenziazione a condizione che multidimensionalità e sinteticità di azione e
ordine siano presenti al livello presupposizionale. Una seconda motivazione, di tipo
ideologico, fa osservare che la differenziazione viene considerata elemento saliente
dei cambiamenti strutturali e simbolici della modernità, dotato della valenza
emancipatoria di quest'ultima. Pensare lo sviluppo sociale come differenziazione in
un'ottica multidimensionale significa valorizzare le azioni volte a realizzare gli
ideali che danno senso alla società umana, tenendo conto delle condizioni esterne
ostacolanti i processi emancipatori.
Il neofunzionalismo, osserva Camarda, conserva solo alcuni deboli tratti del
funzionalismo, che viene impiegato per comporre un quadro descrittivo della
società: è un funzionalismo depurato «dalla analogia organicista, dalla visione
iperintegrata della struttura sociale, dalla visione ipersocializzata dell'uomo, dalla
considerazione del sistema come capace di equilibrarsi senza relazione ai modi di
azione e alle decisioni degli individui e dei gruppi: e [ ... ] da ogni prospettiva
evoluzionista implicita nel concetto di differenziazione a favore di una impostazione
storico-comparativa. Inoltre tratti sistemici - presenti nel concetto di
52
differenziazione neofunzionalista sono molto deboli, di certo molto lontani dai
termini a cui ci ha abituato la riflessione di N. Luhmann».74
A questo si può però affiancare un'osservazione. Se nella modernità cambiamento
sociale coincide con affermazione della modernità stessa, non così avviene nella
post-modernità, nella quale si registra una frattura e una divaricazione: il
cambiamento sociale post-moderno è complesso, non è espressione totale e coerente
della modernità e può essere colto solo da un pensiero in grado di differenziarsi da
se stesso e osservarsi dall'esterno. Ma su tali questioni avremo modo di ritornare in
maniera più approfondita quando affronteremo i nodi teorici legati alla modernità. 75
Solo in apparenza i due insiemi di processi - globalizzazione e differenziazione
sociale - segnalano tendenze opposte: in realtà fra di essi intercorrono, come si è
visto, relazioni significative, poiché proprio la globalizzazione dell'aspirazione e
della pratica del benessere materiale offerto dalla 'società tecnica' e la veicolazione
comunicativa dei più svariati modelli di comportamento, modelli di azione, valori
offrono elementi e occasioni per una crescita (o per una maggiore visibilità) delle
differenze e delle identità (sociali, culturali, etniche, religiose eccetera). Tale
dinamica non avviene senza tensioni, a cominciare da quella, sempre più avvertita
dagli individui anche se vissuta in modi estremamente diversi, tra il livello sistemico
della società e i mondi vitali. Si tratta di problematiche che affondano le proprie
741bidem, p. 417. 75Cfr. infra, capitolo 3.
53
radici nella modernità e nello sviluppo della società industriale, esplorate
sociologicamente da Durkheim in poi.
1.4. La fiducia come problema e come risorsa relazionale
1. 4.1. Cercando una definizione
La rilevanza della problematica della fiducia nelle società moderne e postmoderne
sembra essere stata riconsiderata - dopo l'attenzione dedicatale dai 'classici':
Durkheim, Simmel, Parsons - solo di recente. 76 La fiducia - sia interpersonale che
istituzionale - diventa elemento sempre più rilevante nell'analisi delle relazioni
sociali in contesti caratterizzati da un'elevata complessità e, di conseguenza,
dall'incertezza e dal rischio di vulnerabilità che incombono sugli attori sociali.
Sebbene sia spesso decisiva rispetto al sorgere e allo svolgersi della cooperazione, la
fiducia non è ad essa necessaria né può essere facilmente data per scontata in
presenza di cooperazione. Purtuttavia - e lo si vedrà attraverso le argomentazioni
che verranno presentate - la fiducia è una delle risorse culturali e morali necessarie
all'azione di una società.
Le forme di cooperazione sono numerose e molte di esse non si basano sulla fiducia,
come, ad esempio, nel caso del fairplay nella competizione. La teoria dei giochi ha
mostrato come non sia sufficiente affinché vi sia cooperazione che tutti gli attori
coinvolti abbiano buoni motivi per volerla e attuarla (ciò è esemplificato dal celebre
76Per un'ampia panoramica degli studi più significativi, si veda: ANTONIO Murn, La fiducia: un concetto fragile, una solida realtà, in «Rassegna italiana di sociologia», XXVIII, 1987, 2, pp. 223-47; LUIS
54
dilemma del prigioniero). Vi è anche un problema di comunicazione fra gli attori
quanto alle loro motivazioni e alle loro convinzioni circa i comportamenti altrui:
indagare tali ambiti, di natura prettamente psicologica, è però alquanto complesso e
dagli esiti incerti. La fiducia, quindi, non è un requisito necessario alla
cooperazione: questa, infatti, può essere ottenuta anche mediante la coercizione, il
prendere impegni, la stipula di contratti, la formulazione di promesse. Tali modalità,
tuttavia, non hanno affatto i caratteri di 'equivalenti funzionali' della fiducia: «è
ovvio che le probabilità di cooperazione aumentano con il crescere del livello di
fiducia; ma il comportamento cooperativo non dipende in esclusiva dalla fiducia, e
la soglia ottimale di fiducia varierà al variare delle circostanze», 77 una parte rilevante
delle quali può concernere gli interessi personali. Bisogna economizzare la fiducia,
poiché si tratta di una risorsa scarsa, e ciò lo si può fare battendo tutte le strade che
conducono alla cooperazione. La scarsità della fiducia non significa però che essa si
esaurisca con l'uso o che sia solo il prodotto di effetti secondari e non di intenzioni;
scarsità non significa neanche che la fiducia usata per produrre cooperazione sia
sempre surrogabile anche quando il suo livello di partenza è troppo basso. La
fiducia è un prodotto indiretto delle relazioni umane, non manipolabile, talvolta
collegato alle dimensioni della familiarità, dell'amicizia, della comunanza di valori
ma non identificabile con nessuno di questi elementi. La fiducia può anche
assumere le forme di una passione, influenzata da sentimenti e convinzioni non
razionali.
RONIGE~ La fiducia: un concetto fragile, una non meno fragile realtà, trad. it. in «Rassegna italiana di sociologia», XXIX, 1988, 4, pp. 383-402.
77DIEGO GAMBETTA, Possiamo fidarci della fiducia?, in ID. (a cura di), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, trad. it., Torino, Einaudi, 1989, pp. 275-309; il passo citato si trova a p. 290.
55
L'importanza della fiducia aumenta al crescere della complessità della società o del
particolare ambiente sociale in cui ci si trova: la fiducia assume pertanto il carattere
di aiuto a operare una riduzione di complessità. P. Sztompka così definisce il
concetto: «la fiducia è la scommessa sulle future, contingenti azioni degli altri». 78
Da questa definizione è possibile ricavare i caratteri salienti del concetto in esame:
- essa si riferisce alle azioni umane - anche a quelle di più ampia portata,
complesse o ineluttabili, e non agli eventi naturali (con riferimento a questi ultimi è
necessario parlare di speranza);
- essa, come anche la speranza, si riferisce a eventi incerti o non totalmente
comprensibili; nel primo caso si ha l'incertezza di certi rischi, mentre nel secondo
l'incertezza concerne taluni pericoli;
- i rischi sono inerenti ad azioni umane contingenti, nelle quali gli attori agiscono
liberamente, e non ad azioni imposte;
- si nutre fiducia nelle azioni altrui, non nelle proprie, tranne quando ci si riferisca a
malattia, perdita della lucidità e dell'autocontrollo;
- la fiducia è una scommessa: è, cioè, «l'impegno di me stesso tramite qualche
azione»19 ed esprime l'aspettativa che probabilmente le azioni degli altri saranno
favorevoli; una fiducia non sorretta da un impegno attivo è meglio definibile come
fiducia vaga, confidence;
- il contenuto della scommessa può includere più aspetti riferiti ali' azione altrui.
La fiducia può essere rivolta a vari soggetti o oggetti sociali, secondo diversi livelli
di generalità:
78PIOTR SZTOMPKA, Introduzione alla teoria del/a fiducia, trad. it. in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 49-72. Il passo citato si trova a p. 51.
56
- nell'ordine sociale (fiducia generalizzata, che conferisce 'sicurezza ontologica');
- in tutti i segmenti istituzionali, o sottosistemi, della società (fiducia per segmenti);
- nei sistemi che richiedono competenza professionale o tecnica: trasporti, mercati
finanziari, reti telematiche ... (fiducia tecnologica);
- nelle organizzazioni concrete: governo, università, ospedali, tribunali (fiducia
organizzazionale; se pubbliche è una forma di fiducia pubblica);
- nei prodotti (fiducia commerciale);
- nei ruoli sociali: avvocati, medici, preti, imprenditori. .. (fiducia nelle posizioni);
- nelle persone (fiducia personale; se pubbliche, è un'altra forma di fiducia
pubblica). È importante sottolineare come ognuna delle forme descritte sia
riconducibile ad azioni umane.
Altre categorizzazioni possibili: fiducia esterna/interna, fiducia o sfiducia
focalizzata/diffusa, la quale ultima può dare luogo ad una vera e propria «cultura
della fiducia o della sfiducia». Sia fiducia che sfiducia si estendono con relativa
facilità da un livello all'altro: tuttavia la prima ha, in genere, un movimento dai
livelli superiori verso quelli inferiori, mentre la seconda ha un movimento inverso
dal basso verso l'alto.
Le condizioni favorevoli al sorgere della fiducia si basano su diversi elementi: la
possibilità di controlli e sanzioni e l'esistenza di strutture ambientali di supporto,
verso i quali può essere maturata una 'fiducia di secondo grado'.
Oltre alla riduzione dell'incertezza e della complessità dell'ambiente che deriva
all'attore dal dare fiducia ad altri, anche per chi riceve fiducia si ha una
791bidem, p. 53.
57
«temporanea sospensione dei normali vincoli sociali», 80 nel senso che il credito
ottenuto esime temporaneamente da un immediato controllo sociale, dando spazio a
innovazione, originalità, non conformità. Viceversa, la sfiducia ottenuta può avere
effetti paralizzanti o di rallentamento. La fiducia influisce positivamente anche sui
gruppi di appartenenza dei soggetti dell'interazione, favorisce la comunicazione,
incoraggia forme di cooperazione e di aiuto, regola i conflitti.
Può esservi, tuttavia, il caso della fiducia mal riposta, per via di un'errata
valutazione del partner, il quale il più delle volte ne approfitterà e solo raramente
risponderà positivamente al credito immeritatamente ricevuto. Anche la sfiducia può
essere infondata, e i suoi effetti diffusivi possono essere molto resistenti ad essere
intaccati. Fiducia mal riposta e sfiducia infondata sono tanto più difficili ad essere
superate quanto più sono diffuse e non focalizzate verso soggetti specifici.
In assenza di fiducia, questa verrà sostituita da sostituti funzionali:
provvidenzialismo (può avere effetti consolatori, ma produce passività e
stagnazione), corruzione, eccessiva vigilanza da parte di agenzie private in luogo di
quelle istituzionali, ghettizzazione (etnica, religiosa ... ), patemalizzazione (ricerca di
una figura 'patema', autoritaria), estemalizzazione della fiducia (fiducia verso
sistemi sociali stranieri idealizzati e mitizzati).
Quali elementi favoriscono - secondo Sztompka - la fiducia e quali, invece, la
sfiducia? Riassumendo, abbiamo quanto segue:
- familiarità e visibilità: il contatto diretto agevola il sorgere della fiducia e se
questo non è praticabile diventa centrale la comunicazione; si inseriscono così
elementi tipici della comunità nell'impersonale contesto societario;
80/bidem, p. 59.
58
- continuità della vita sociale per periodi apprezzabili: mutamenti e turbolenze
permanenti o molto prolungati possono generare disorientamento e sfiducia;
- pluralismo delle opzioni: se vi sono maggiori possibilità di scelta, ciò consentirà
ad un'ampia quota di soggetti di scegliere qualcosa che dia loro fiducia;
- sicurezza personale dal punto di vista economico, occupazionale, di istruzione;
- certezza e regolarità della vita sociale;
- integrità ed esempio di condotta del personale dei 'punti di accesso' a istituzioni,
organizzazioni, sistemi esperti.
Le sei precondizioni della fiducia di cui sopra hanno un legame molto stretto con la
democrazia. Le forme politiche autoritarie o comunque non democratiche si basano
su sostituti funzionali della fiducia e su sfiducia a vari livelli. Ciò non toglie che
anche nelle democrazie la fiducia incontri difficoltà e problemi, che si riflettono
sulla tenuta della vita democratica; d'altra parte è anche possibile analizzare la
situazione dal rovescio, evidenziando come le défaillances della democrazia
possano provocare una diminuzione del livello di fiducia. È un circolo che, come
sottolinea Sztompka, può assumere la qualificazione di virtuoso come anche di
vizioso. Il problema, per le democrazie contemporanee, diviene allora
l'individuazione di modalità atte a rendere virtuoso questo circolo e a mantenerlo
tale. Poiché gli inviti alle fiducia non porterebbero a nulla, l'unica via percorribile
consiste nella democratizzazione della vita sociale nei suoi vari aspetti. Come?
Sztompka indica sei ambiti d'intervento, con il pensiero rivolto soprattutto alle
giovani democrazie post-socialiste dell'Est europeo:
59
- contro il procedere per tentativi a favore della certezza (progettualità, coerente
determinazione nell'azione di governo);
- contro l'arbitrarietà e a favore dell'affidabilità (costituzionalismo, garantismo);
- contro l'insicurezza e a favore dei diritti personali;
- contro la segretezza e a favore della visibilità e della familiarità (trasparenza
dell'apparato di governo e dei suoi responsabili; attenta comunicazione
istituzionale);
- contro il monocentrismo e a favore del pluralismo (decentramento, sviluppo delle
autonomie locali);
- contro l'inettitudine e a favore dell'integrità del personale politico, economico, dei
sistemi esperti.
Oltre le strategie generali sopra descritte, l'autore ne indica altre tre, specificamente
dirette a rafforzare le basi della fiducia: i) dare maggiore enfasi alla fiducia nella
prima socializzazione e nell'esperienza scolastica; ii) collegare la fiducia,
nell'immaginario delle persone, con altre risorse morali disponibili; iii) dimostrare
che la fiducia è utile, anche se impiegata a fini strumentali al perseguimento di
interessi personali.
Le soluzioni proposte da Sztompka trovano tuttavia limitazioni e problemi proprio
per via degli effetti che esse stesse auspicano: la crescita delle autonomie sociali e lo
sviluppo delle individualità rappresentano alcuni degli aspetti del processo di
differenziazione sociale -alla base dell'aumento della complessità sociale, la quale
rende arduo, se non impossibile, governare 'dall'alto' il sistema sociale.
60
1. 4. 2. Confidare e fiducia
Il rapporto tra fiducia istituzionale e fiducia interpersonale necessita di ulteriori
approfondimenti, allo scopo di individuare - a livello degli attori sociali e a livello
sistemico - le condizioni facilitanti e quelle ostacolanti. Il punto di vista di N.
Luhmann, ancorché caratterizzato dal pensare la fiducia come fattore di
mantenimento e autopoiesi delle relazioni sistemiche, offre interessanti prospettive
per una lettura del fenomeno nelle società ad elevata complessità.
Il nucleo dell'argomentazione del sociologo tedesco81 si basa sulla distinzione
analitica tra fiducia (trust) e confidare ( confidence ). Egli ritiene inadeguata
l'accezione di fiducia - data da Eisenstadt e Roniger82 - come solidarietà, intento
e partecipazione, poiché si finisce con il ritornare al dibattito sulla divisione del
lavoro sociale e sulla solidarietà secondo la tensione Gemeinschaft-Gesellschaft.
Luhmann intende studiare il problema della funzione della fiducia, cioè di
individuare «quali meccanismi sociali generano fiducia nonostante le delusioni
possibili».83 Familiarità e fiducia vanno tenute distinte: «la familiarità è un fatto
inevitabile della vita, la fiducia è una soluzione a problemi specifici di rischio», 84 ma
chiarire i contorni della prima è propedeutico all'esame della seconda. La familiarità
risulta dall'attività umana di operare distinzioni condensandone le forme, sì da poter
giungere a rappresentare il non familiare mediante le forme del familiare: in tal
modo, il pericolo fa parte del mondo della vita familiare. Queste operazioni
81NIKLAS LUHMANN, Familiarità, confidare e fiducia: problemi e alternative in DIEGO GAMBETIA (a cura di), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, trad. it., Torino, Einaudi, 1989; pp. 123-40.
82SHMUEL NOAH EISENSTADT - LUIS RONIGER, Patrons, Clients and Friends, Cambridge, Cambridge University Press, 1984.
83NIKLAS LUHMANN, Familiarità ... cit., p. 124.
61
avvengono mediante simboli (nel significato originale di symbolon distinto da
dùibolon ), i quali «presuppongono la differenza tra familiare e non familiare e
operano in mvdo tale da permettere il reingresso di questa differenza nel
familiare». 85 Nell'età moderna, a differenza del ruolo svolto dalla simbologia
religiosa in epoca premoderna, il termine rischio viene considerato elemento
familiare della vita delle persone, non più inerente la natura o Dio. I mutamenti
storici della semantica vanno considerati anche per introdurre la differenza tra
confidare e fiducia: tali concetti si riferiscono entrambi ad aspettative che possono
essere deluse. Le aspettative fanno saldamente parte della vita umana. Nel caso della
fiducia vi è il presupposto di un nostro impegno preliminare e di una situazione di
rischio di fronte alla scelta di una opzione fra più alternative disponibili; il confidare
è privo di questi elementi. Il legame tra fiducia e rischio è rimarcato
dall'osservazione che si ha fiducia solo quando il danno eventuale può essere
maggiore del beneficio auspicato, «solo se un esito negativo può farci pentire di
quell'azione».86 È dunque chiamata in causa la nostra capacità di discernere i rischi,
la loro prossimità e gravità. Luhmann osserva che, al di là degli schematismi, la
distinzione tra confidare e fiducia è estremamente complessa, perché determinate
relazioni possono evolvere da un tipo all'altro.
Il liberalismo politico ed economico, mediante l'accento posto sull'azione e sulla
scelta individuale tende a spostare le aspettative dal confidare alla fiducia,
sottostimando però il fatto che agli individui necessita confidare nel sistema al fine
di parteciparvi. Né si può ritenere che la relazione tra confidare e fiducia sia
84/bidem. 85/bidem, p. 125.
62
configurabile come un g10co a somma zero, postulando tra essi un rapporto di
proporzionalità inversa: <mna teoria di questo genere trascurerebbe la complessità
strutturale dei sistemi sociali come variabile interveniente». 87 In realtà, osserva
Luhmann, società a complessità crescente richiedono incrementi tanto del confidare
quanto della fiducia: «avere fiducia nel sistema e dare fiducia ai partner sono
atteggiamenti diversi per ciò che concerne le alternative, ma possono influenzarsi
reciprocamente». 88
La familiarità e il confidare si basano su relazioni asimmetriche tra sistema e
ambiente (tra familiare e non familiare), in virtù delle quali ci si premunisce contro
il pericolo presidiando i confini e regolando l'ordine sistemico interno, cioè
mediante un 'individualismo autoaffermativo'. La fiducia, viceversa, attua un
diverso tipo di autoriferimento, che sorge dal rischio insito nella decisione e
nell'azione: «ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle
condizioni esterne [ ... ] è a un tempo dentro e fuori l'azione: è un modo in cui
l'azione fa riferimento a se stessa, un modo paradossale di concepire l'azione».89
Il fatto che la percezione e la valutazione del rischio siano un fatto fortemente
soggettivo differenzia le persone e i modi in cui esse si relazionano al rischio e
costruiscono condizioni di fiducia o sfiducia, di individualità in senso moderno.
L'importanza relativa nella vita sociale della familiarità, del confidare e della
fiducia non varia automaticamente in funzione di strutture sociali e imperativi
86/bidem, p. 127. 87/bidem, p. 129. 88/bidem. 89 Ibidem, pp. 130-31.
63
culturali, ma secondo relazioni complesse di dipendenza reciproca, che sono
influenzate da condizioni che seguono il corso del mutamento sociale.
Le condizioni della familiarità hanno subìto una prima serie di mutamenti radicali
per via dell'introduzione della scrittura, dell'alfabetizzazione e poi, soprattutto, della
stampa: ciò ha ampliato le possibilità di interpretazioni del mondo difformi e
conflittuali, in cui il non familiare non esercita funzioni protettive rispetto al
trattamento del diverso: «il mondo sociale viene ricostruito in termini di
'interessi'»,90 oggetto di calcolo, di tentativi di imposizione e di sfruttamento.
Confidare e fiducia s1 rivelano decisivi per discernere, in base a interessi
contingenti, sulla bontà dell'uso della conoscenza e del potere. Un altro rilevante
mutamento è segnato dal passaggio, nella differenziazione sociale, dalla
stratificazione alla differenziazione funzionale: ciò ha condotto all'estensione a tutti
i sottosistemi funzionali delle interdipendenze che fanno capo a ogni individuo: ne
risulta, per adoperare l'efficace espressione sintetica di Luhmann, che «confidare è
necessario, la fiducia non lo è»,91 anche se questa fa parte dell'ambito
imprescindibile delle decisioni e delle scelte individuali. La relazione fra confidare e
fiducia nei grandi sistemi differenziati funzionalmente viene dunque richiamata in
tutta la sua rilevanza: «In assenza del primo elemento [il confidare] si diffonderà
anche un sentimento di insoddisfazione e alienazione e perfino di anomia, che può
anche non avere un impatto immediato sul sistema. Ma se manca il secondo
elemento [la fiducia] si- trasforma il modo in cui la gente prende decisioni su
questioni importanti [ ... ] la mancanza del confidare e la necessità di fiducia possono
90/bidem, p. 132. 911bidem, p. 133.
64
formare un circolo vizioso. Un sistema - economico, legale o politico - ha
bisogno di fiducia come condizione iniziale. Senza di essa non può stimolare attività
di supporto in situazioni di incertezza o di rischio. Al tempo stesso, le proprietà
strutturali e operative di tale sistema possono erodere il primo termine e insidiare
quindi una delle condizioni essenziali del secondo».92
Sono diverse le conseguenze della mancanza dei due elementi: nel caso del
confidare, si avrà una tendenza alla chiusura nel mondo vitale, all'alienazione, al
fondamentalismo, e ne soffriranno anche il sistema politico e quello economico; la
mancanza di fiducia preclude talune opportunità offerte all'azione degli individui in
contesti di incertezza e di rischio, può scoraggiare la rettitudine, l'innovazione e
l'interesse allo sviluppo.
Le considerazioni circa le distinzioni e le relazioni fra il confidare e la fiducia sono
molteplici e complesse, e costituiscono un ulteriore approfondimento della
distinzione macro-micro nella ricerca sociologica empirica: il macrolivello è qui
rappresentato dal confidare e il microlivello dalla fiducia. Ciononostante, osserva
Luhmann, non è il caso di estendere ad ambiti troppo vasti l'impiego della fiducia
come strumento esplicativo: «il concetto di fiducia non può prendere il posto di
quello di Gemeinschaft o di solidarietà. Fiducia o sfiducia, non è certamente questa
la distinzione che useremmo per definire la società moderna» :93 a tale scopo,
Luhmann ha evidenziato la portata della crescente diversificazione e
particolarizzazione di familiarità e non familiarità e la graduale sostituzione del
pericolo con il rischio come danno potenziale insito in ogni azione umana. Sono le
921bidem, pp. 134-35. 931bidem, p. 137.
65
condizioni che hanno stimolato l'emergere della fiducia nelle società moderne, ma
che non garantiscono che si crei un circolo virtuoso tra fiducia e confidare.
1.4.3. Modelli di fiducia
L'analisi sociologica del concetto di fiducia ne ha dapprima messo a fuoco gli
aspetti universali; essa, inoltre, ha trattato l'argomento con riferimento alle società
occidentali avanzate, partendo dall'idea che modernizzazione ed estensione
generalizzata della fiducia andassero di pari passo. Roniger propone un approccio
comparativo al tema della fiducia,94 allo scopo di analizzare i «modi con cui essa
varia, tanto nella sua estensione quanto nella sua regolazione istituzionale».95
Vi sono certamente delle caratteristiche universali della fiducia che vanno
opportunamente evidenziate: essa rende possibili gli scambi sociali in situazioni di
precarietà e incertezza, mediante il reciproco, implicito riconoscimento dell'integrità
dell'altro e della sua identità in rapporto alla comune appartenenza ad un orizzonte
di senso comune: «la problematicità della fiducia è imputabile agli stessi motivi che
la generano».96 Le azioni e i comportamenti degli individui non sono regolati
unicamente da norme, da obblighi contrattuali, dalla sottomissione ad autorità o
dalle aspettative. Oltre che dalle motivazioni, richieste e promesse espresse dagli
attori, la precarietà e l'incertezza sono influenzate dal variare nel tempo delle
condizioni iniziali dello scambio. Fidarsi è qualcosa di extra-razionale, un'apertura
all'esperienza della relazione che contribuisce a strutturare la relazione stessa.
94LUIS RONIGER, La fiducia nelle società moderne. Un approccio comparativo, trad. it., Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992.
95/bidem, p. 15.
66
Il rapporto esistente nelle società moderne tra fiducia e universalismo è stato
probabilmente sopravvalutato a scapito della considerazione della fragilità della
estensione della fiducia e della persistenza di forme di fiducia meno generalizzate.97
Roniger propone di differenziare l'analisi della estensione della fiducia secondo le
due forme idealtipiche della generalizzazione e della focalizzazione: ciò può essere
compiuto studiando i modi in cui la fiducia transita con o senza successo dalla
relazione interpersonale alla dimensione sistemica e viceversa.
Roniger osserva che l'interattività è presente già negli elementi fondativi della
fiducia: da una parte nel reciproco riconoscersi e rapportarsi delle identità, dall'altra
nella credibilità intesa come solidarietà e lealtà rispetto alla relazione intrapresa.
Una delle origini, in termini interpretativi, di questa iniziale avance gratuita
potrebbe risiedere nella fiducia incondizionata e gratuita presente nel gruppo
interattivo originario composto dalla madre e dal suo bambino: la presenza o
carenza di questo elemento si è rivelata discriminante, secondo vari studi
psicologici, ai fini della maturazione della capacità di intessere relazioni e di nutrire
fiducia negli altri e nelle istituzioni. La fiducia gratuita e incondizionata si estende
anche all'interno degli ambiti interattivi complessi e delle istituzioni: in questo caso
si tratterà di fiducia basata sulla caratteristica (etnica, religiosa ... ) in comune a più
soggetti, o della fiducia reciproca profonda e autentica tipica di amicizie, pseudo-
parentele e molte relazioni informali condotte all'interno di organizzazioni formali
96/bidem. 97Su questo punto cfr. PAOLO JEDLOWSKI, Sulla fiducia in FRANCO CRESPI- ROBERTO SEGATORI (a cura di),
Multiculturalismo ... cit., pp. 73-78: la fiducia generalizzata è «il risultato, il sedimento di una lunghissima serie di esperienze storiche, di elaborazioni morali, di conquiste istituzionali, di atti deliberati - e in fondo anche del giudizio positivo che la massa degli abitanti delle società occidentali centrali ha nei confronti del benessere che un certo sistema economico, politico e culturale ha generato: in fin dei conti è il prodotto di un consenso diffuso nei confronti di certe istituzioni e di certe regole» (p. 74).
67
moderne nelle quali è rilevante il grado di sincerità, sensibilità, empatia, rispetto
reciproco, condivisione di senso comune come espressione della ricerca di conferma
da parte dell'individuo. Quest'ultima forma di fiducia è quella segnata da maggiori
rischi di insuccesso, poiché è soggetta da un lato alla fragilità degli individui,
dall'altro alle forze strutturali del potere e della strumentalità, che regolano la vita
sociale. La proiezione della fiducia, dunque, può avvenire sia a partire
dall'eguaglianza che dalla diseguaglianza fra individui (come avviene, ad esempio,
nel caso della relazione clientelare).
L'estensione della fiducia al di là di relazioni parentali è collegata alla
partecipazione a una realtà sociale complessa, ma non comporta automaticamente
una tendenza alla generalizzazione della fiducia medesima, realizzandosi molto
spesso secondo la modalità della specificità o focalizzazione: in questo caso, la
fiducia si concentrerà su esperienze e attori sociali specifici. Delle due forme, la
fiducia generalizzata, in chiave comparativa, rappresenta un caso raro e speciale, più
che la norma delle società moderne, che conduce all'emergere finale della fiducia
come particolare bene pubblico, il cui consumo da parte di un membro non riduce,
ma anzi potenzia, il consumo da parte di altri. Generalizzazione e focalizzazione
della fiducia possono applicarsi tanto a persone quanto a istituzioni.
Successivamente Roniger analizza le due modalità di estensione della fiducia in
rapporto alla tendenza, tipica delle società moderne e postmoderne, alla
formalizzazione della fiducia mediante vari elementi: la competenza tecnica, la
formazione di mercati per la produzione e la verifica della fiducia, la diffusione di
sostegni istituzionali e razionai-burocratici per il controllo e la regolazione della
68
fiducia. Tali mezzi non sono stati in grado di eliminare l'incertezza e stabilizzare la
fiducia, ma sono divenuti autoreferenziali, al più compensando il bisogno di fiducia
con quello di supervisione e controllo. La formalizzazione e regolazione
istituzionale della fiducia nelle società moderne e postmoderne si è attuata secondo
due forme principali: quella basata sulla 'cornice organizzativa' e quella basata sulla
delega della fiducia. La prima forma contraddistingue la posizione di attori sociali
inseriti in strutture istituzionali con confini organizzativi definiti (una scuola, un
posto di lavoro, un'azienda ... ) che condividono le norme dell'organizzazione e ne
valorizzano la capacità di creare fiducia basata sulla caratteristica, che viene però
regolata istituzionalmente, perché le dimensioni implicate sono sia personali che
strutturai-istituzionali. La seconda forma è basata sulla delega della fiducia: in tal
caso la fiducia viene formalizzata in virtù del fatto che si detiene un ruolo di autorità
o del riconoscimento da parte di un livello istituzionale gerarchicamente superiore;
tipici sono gli esempi dei rapporti fiduciari tra stato e associazioni professionali o tra
queste e i professionisti singoli, o anche dei rapporti tra aziende e loro
rappresentanti o agenti, tra banche e possessori delle loro carte di credito.
«Teoricamente (e, in caso di successo, anche in pratica) i depositari della fiducia
derivano la loro credibilità, in questi casi, dall'immagine di responsabilità fiduciaria
che è loro garantita dall'essere connessi ad una immagine di affidabilità più astratta,
che riguarda le istituzioni».98 Il duplice livello di esposizione della fiducia delegata
- interpersonale e istituzionale - richiede che il depositario della fiducia rimanga
personalmente 'responsabile' al di là della 'copertura' offertagli dall'istituzione.
L'istituzionalizzazione della fiducia mediante la delega è favorita dalla sua
98LUIS RONIGER, Lafiducia ... cit., p. 32.
69
estensione secondo la modalità della generalizzazione; tale modalità, a sua volta,
può incontrare difficoltà anche per l'aumento di incertezza derivante dalla
diffusione di -. . .ma cultura 'postmoderna' e dalla crisi epistemologica ad essa
collegata, nel cui ambito «nuovi ceti intellettuali sfidano la stessa possibilità di usare
i fatti e la nozione di causalità per giudicare azioni sociali, relazioni e conflitti».99
Nelle società contemporanee le forme in cui si manifesta la fiducia possono essere
in via approssimativa ricondotte a quattro tipologie, costruite sulla base della
distinzione delle forme di estensione della fiducia (focalizzazione e
generalizzazione). In questi quattro modelli, è possibile tener conto dei modi
variabili in cui si presentano le forme fiduciarie, i loro meccanismi di estensione, la
regolazione istituzionale, il contenimento della sfiducia:
1) La focalizzazione totale della fiducia investe tanto le istituzioni che le persone, e
le due forme si rafforzano a vicenda. Trovano spazio le relazioni clientelari, e ciò
segnala la preminenza della fiducia basata sulla caratteristica e sull'esperienza
rispetto a quella imperniata sulla competenza tecnica. Se le condizioni economiche,
sociali e politiche della società sono critiche, tale modello tenderà verso uno stato di
sfiducia generalizzata; se, viceversa, i parametri generali del sistema sono in crescita
o in equilibrio positivo, il modello può evolvere verso la generalizzazione selettiva
della fiducia istituzionale o, ancora, verso la generalizzazione totale della fiducia.
2) La generalizzazione selettiva della fiducia interpersonale mette insieme fiducia
istituzionale focalizzata e fiducia interpersonale generalizzata. Tale modello può
essere ritenuto molto aderente alle minoranze etniche, nazionali e religiose delle
società moderne e postmoderne, nelle quali diventa rilevante la fiducia basata sulla
99 Ibidem, p. 34.
70
caratteristica. In questo caso, si avrà sfiducia da parte della minoranza verso la
società ospite.
3) Nella generalizzazione selettiva della fiducia istituzionale si ha la presenza
congiunta di fiducia focalizzata sul piano interpersonale e fiducia generalizzata
verso le istituzioni. I casi storici sono quelli in cui le forme particolaristiche di
relazione sono state funzionali al rafforzamento della fiducia istituzionale intesa
come bene pubblico (come, ad esempio, nella vicenda della modernizzazione del
Giappone). Vi è un forte peso della fiducia basata sulla caratteristica, dei controlli
pubblici, dell'interesse di ognuno alla propria reputazione e di quant'altro
contribuisce a comporre una immagine globale di credibilità e affidabilità.
4) Con la generalizzazione totale della fiducia quest'ultima si presenta come bene
pubblico tanto nella sfera interpersonale quanto in quella istituzionale. Tale
situazione è rintracciabile nelle società occidentali postmoderne, anche se essa «è
lontana dal rappresentare un modello universale, come si vede nelle complesse
megalopoli come New York, dove un fondo di sfiducia emerge come concomitante
all'indebolimento massiccio delle aspettative di fiducia reciproca in base a
caratteristiche comuni. Del resto, la generalizzazione della fiducia [ ... ] non implica
l'eliminazione radicale della sfiducia: implica piuttosto il suo contenimento ed il suo
uso selettivo».100 La scarsa diffusione di quest'ultimo modello è corrispondente alla
sua fragilità, soprattutto per la fiducia istituzionale, sottoposta a crisi rilevanti per
via dei fenomeni di corruzione i cui effetti nocivi alla fiducia possono ripercuotersi
anche a livello interpersonale: l'effetto può essere l'aumento dei controlli e delle
procedure nonché dei relativi costi sociali: «se crolla la fiducia nelle istituzioni [ ... ],
71
come è possibile mantenere fiducia in quelle persone che utilizzano proprio quei
mezzi generali di scambio, o ricoprono i ruoli chiave di quelle stesse istituzioni?».101
In che modo, allora, la fiducia focalizzata può dare luogo a quella generalizzata? E,
parallelamente, in presenza di quali condizioni la fiducia generalizzata corre il
rischio di trasformarsi in fiducia focalizzata? Il caso dei paesi dell'Est europeo
documenta che, dietro la facciata di relazioni sociali formalmente universalistiche
durante i regimi socialisti, esisteva una trama di sistemi di fiducia focalizzata e in
certo senso clientelare, in campo soprattutto economico. Questo tipo di relazioni -
e anche il caso del Mezzogiorno italiano lo attesta - ha una notevole capacità di
adattamento ai processi di modernizzazione, perché ritenuto comunque valido dagli
individui in situazioni di transizioni caratterizzate da incertezza. Per altro verso,
anche nelle democrazie occidentali la fiducia si trasforma: si assiste, infatti, al
diffondersi di movimenti costruiti su basi etniche (I "invenzione della tradizione')
che adottano sistemi di fiducia altamente selettiva; cede anche la fiducia tecnologica
nei sistemi esperti, dopo il disastro di Chernobyl e altri simili; fasce sociali
giovanili, soprattutto metropolitane, si sottraggono alla fiducia generalizzata;
modelli di relazioni di tipo clientelare si infiltrano nei rapporti fra imprese e fra
imprese e committenti pubblici. La fiducia, sostiene J edlowski, 102 tende a
trasformarsi in bene di mercato, giacché viene promossa, soprattutto da parte dei
leader politici, adottando strategie di marketing. Ma, a ben vedere, più che di
fiducia, quella che vien~promossa è adesione fideistica, poiché il singolo individuo
non ha strumenti efficaci per misurare l'attendibilità del personaggio che si propone.
100/bidem, p. 45. 101/bidem, p. 46.
72
Si viene così ad istituire una circolarità fra crisi della fiducia generalizzata e fiducia
fideistica nel leader, nel senso che la seconda viene talvolta proposta e praticata
come rimedio alla crisi della prima, mentre, nello stesso tempo, ne è concausa.
1. 4. 4. Solidarietà sociale e fiducia
La riflessione sul tema della fiducia nelle società moderne si ricollega alla
problematica della crisi della solidarietà e della democrazia che in esse attualmente
è presente.
Cotesta103 inserisce l'analisi del concetto di fiducia nella più ampia cornice delle
teorie del mutamento sociale, individuando in esse una tendenza post-evolutiva e
multidimensionale, con radici weberiane e intenti ermeneutici, rappresentata da
Crespi e Sztompka. In ordine al rapporto tra solidarietà e democrazia e alla
dicotomia universalismo/particolarismo, Cotesta ritiene inadeguata, rispetto al
diffondersi di localismi e particolarismi, la chiave di lettura della reazione dei mondi
vitali ai processi di razionalizzazione strumentale della modernizzazione.
Rifacendosi a Crespi, il quale constata che si afferma la forma di integrazione a
livello dell'interazione e non a livello societario, Cotesta osserva che «non emerge
una generalizzazione sistemica della fiducia, ma si va diffondendo una sua
generalizzazione selettiva interpersonale e istituzionale. Tutto questo ha molto a che
fare con il riconoscimento o, se si preferisce, con l'identità» .104 La modernità,
seguendo in questo Haferkamp, è un intreccio di status ascrittivo e acquisitivo, nel
102PAOLO JEDLOWSKI, Sullafiducia ... cit. 103VrITORIO COTESTA, Fiducia, solidarietà, democrazia in FRANCO CRESPI-ROBERTO SEGATORI (a cura di),
Multiculturalismo ... cit.; pp. 85-96.
73
senso che «l'acquisizione, o il successo, avviene da posizioni ascritte o, molto
spesso, auto-ascritte». 105 A livello locale le élites sono protagoniste di una lotta per
l'identità, rivendicazione che, lungi dal caratterizzarsi come premodema o
antimodema, si inscrive totalmente nel codice simbolico della modernità, che ha
sancito il diritto al riconoscimento delle identità tanto dei popoli quanto delle
persone. La svolta tuttavia disorienta, a motivo del carattere cruento dei conflitti che
la segnano.
La solidarietà, base della democrazia, può trovare motivi di rinvigorimento nel
recupero della dimensione originaria del sociale, che consiste, rifacendosi a Crespi,
nel fatto che l'uomo è costitutivamente con l'Altro, che si articola nell'essere per
l'Altro oppure nell'essere contro l'altro. La democrazia richiede uguaglianza
complessa, che considera e valorizza le differenze, per garantire un effettivo
riconoscimento della dignità della persona umana: a ciò devono mirare le istituzioni
politiche ed economiche, impegnandosi ad offrire ad ogni individuo, nella
specificità della sua condizione, un uguale insieme di diritti fondamentali, l'accesso
ai beni fondamentali per la vita e lo sviluppo della propria identità.
104 Ibidem, p. 91. 105/bidem.
74
1.5. L'associazione come problema sociologico
Associazione è un termine che abbraccia parecchi significati, con l'inconveniente di
presentare una certa genericità e vaghezza. Già in Aristotele, ad esempio, vi è l'idea
che l'associazione esprima la 'natura' del sociale. Donati intende argomentare come
«nel concetto di associazione risieda qualcosa che coglie il senso sui generis del
sociale e che tale senso possa essere compreso solo attraverso una teoria adeguata
delle relazioni sociali». 106 Vediamo in breve alcune caratteristiche di tale concetto:
- polisemicità: si riferisce sia ad un tipo di relazioni (di 'avvicinamento') e di
processi sociali (di 'sociazione') sia ai gruppi formatisi per mezzo di tali relazioni e
processi;
- sovrafunzionalità: nei tre significati di cui sopra, la realtà ricompresa nel termine
possiede un numero illimitato di caratteristiche non pre-determinabili.
È noto, peraltro, come il termine associazione oggi indichi più comunemente gruppi
formatisi in vista del raggiungimento di un certo interesse, cioè gruppi secondari.
Si tratta di un concetto che è tipico prodotto della modernità che ha segnato lo
sviluppo delle contingenze sociali (libertà) e il superamento di sistemi rigidi di
stratificazione sociale. L'argomentazione di Donati intorno all'associazione come
concetto sociologico si articola in due punti: «i) come concetto astratto, esso designa
lo specificarsi della società in quanto relazione associativa (il che non significa
necessariamente e solo consensuale, ma invece interattiva, e quindi anche
conflittuale); ii) come concetto avente un referente empirico, esso viene sempre più
a designare quelle sfere di vita sociale che non possono essere identificate con (o
106PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 19943, p. 116.
75
circoscritte nei confini de) il mercato o lo Stato, ma stanno fuori di essi, per quanto
in interazioni con essi; in questo secondo significato, l'associazionismo diventa la
modalità attraverso cui si costruiscono sempre nuove autonomie sociali,
autopoietiche nella loro logica di sviluppo e fortemente indipendenti quanto a
comunicazione, vincoli e scambi di risorse con le altre sfere della società». 101
Sono quattro i principali ambiti semantici riferibili al concetto di associazione:
a) il primo è di tipo antropologico, per il quale associazione significa «una
propensione originaria degli esseri umani a vivere in raggruppamenti sociali»108
(società segmentarie o dove l'associazione si basi su affinità e somiglianza);
b) il secondo è di tipo politologico, per il quale associazione significa «una forma di
mediazione degli interessi, e del loro governo, avente una propria autonomia, con
potere superiore agli individui ma inferiore a quello dello Stato. In questa accezione
si identifica con i cosiddetti 'corpi intermedi'»109 (società stratificate per ceti e/o
classi);
c) il terzo è di tipo economico e corrisponde al significato di «espressione della
ricerca di interessi comuni i quali, per quanto latamente intesi, sono concepiti e
governati da una logica della utilità. In questa accezione l'associazione è il soggetto
di una società concepita come mercato»110 (società 'aperte', a orientamento
utilitaristico e pragmatico);
d) il quarto ambito semantico è di tipo sociologico, per il quale associaz10ne
significa <<Una relazione- o un processo di avvicinamento, umone, cooperazione,
107/bidem, p. 118. 108/bidem, p. 122. 109/bidem. 110/bidem, pp. 122-23.
76
connessione a maglie più strette o più larghe, e il prodotto di tali relazioni e
processi, in funzione di obiettivi essenzialmente sociali» 111 (società funzionalmente
differenziate).
Quali relazioni intercorrono fra i quattro tipi di semantica relativi al concetto di
associazione? «Se è vero che la associazione è una tendenza propria
(antropologicamente connaturata) degli esseri umani, le associazioni come noi oggi
le intendiamo sono un prodotto evolutivo proprio del tipo e grado di
differenziazione sociale che viene attualizzato da una concreta collettività o
dall'intera società, utilizzando una semantica che può essere di tipo politologico,
economico o sociologico, o una loro combinazione o mix. Di fatto, è l'articolarsi di
questi vari tipi di semantica secondo uno sviluppo multidimensionale che rende così
arduo lo studio delle associazioni come forme sociali». 112
Vedremo fra breve in quali modi la sociologia abbia studiato l'associazione più che
altro come parte dell'analisi delle comunità e poi come analisi dei gruppi sociali di
vario genere. Il collegamento fra associazione e dinamica dei sistemi sociali solo di
recente è divenuto oggetto di analisi, quando si è iniziato a riflettere sulla società in
modo riflessivo, cioè con la sociologia moderna. V arie sono le ottiche adoperate a
tale scopo, a proposito delle quali non si può non menzionare la opposizione forte
fra gli approcci di individualismo metodologico e quelli di olismo metodologico. Il
primo orientamento, come è noto, prende le mosse da W eber che definisce
'~omunità' quelle relazioni in cui l'agire si basa su una appartenenza caratterizzata
come affettiva o tradizionale; analogamente, una relazione si definisce
mlbidem, p. 123. 112/bidem.
77
•associazione' se l'agire sociale è basato su identità o legame di interessi con
motivazione razionale (rispetto ad uno scopo o ad un valore). Per Weber i tipi più
puri di associazione si possono classificare nello scambio razionale rispetto allo
scopo, nella pura unione di scopo, per perseguire gli interessi oggettivi dei membri,
nell'unione di intenzioni, basata su motivi razionali rispetto al valore. Il sociologo
tedesco ribadisce che comunità e associazione nelle vesti di relazioni sono concetti
di più ampia portata rispetto a quello di gruppo sociale, che ha caratteri ben precisi,
struttura, eventuale capo, eccetera. Inoltre, la realtà storico-empirica presenta
relazioni sociali perlopiù miste fra comunità e associazione. 113
L'orientamento olistico ha Durkheim fra i suoi primi riferimenti. L'associazione è
sinonimo di società, poiché è la condizione originaria di individui che sono da
considerare il prodotto di legami sociali, e non i creatori di questi. L'associazione è
strettamente collegata alla divisione del lavoro sociale e alla differenziazione della
società, e il grado di avanzamento di tali processi determina il carattere 'meccanico'
oppure 'organico' della solidarietà. 114
Il confronto tra individualismo e olismo metodologico apre, secondo Donati, una
prospettiva illuminante: «l'associazione non è il prodotto né degli individui né delle
strutture collettive, ma delle loro interazioni e interpenetrazioni. Invero è un
fenomeno relazionale sui generis». 115
L'autore che per primo concettualizza esplicitamente l'associazione come relazione
sociale 'pura' nell'ambito di una teoria generalizzata della differenziazione sociale è
113MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), trad. it., I, Milano, Comunità, 19812, pp. 38-39. 114ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, (ediz. orig. 1893), trad. it., Milano, Comunità, 1962,
pp. 277-78. nsPIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 129.
78
Georg Simmel: 116 si tratta di un vero e proprio approccio relazionale, al di là di
individualismo e olismo metodologici. In Simmel «l'associazione è caratteristica
propria di ogni interazione sociale (consensuale o conflittuale, quali che ne siano i
contenuti) m quanto azione reciproca, sociabilità o sociazione pura
( Vergesellschaftung). La società è associazione m quanto è per definizione
'reciprocità' (azione reciproca) fra individui che possono essere definiti solo in
rapporto ad essa». 117 Simmel sostiene che a 'fare' l'associazione non è il suo
contenuto (impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazione psichica e
movimento): essa sorge quando emerge quella «forma, realizzantesi in innumerevoli
modi diversi, in cui gli individui raggiungono insieme un 'unità sulla base di quegli
interessi - sensibili o ideali, momentanei o durevoli, coscienti o inconsci, che
spingono in modo causale o che attirano teleologicamente - e nell'ambito della
quale questi interessi si realizzano». 118
L'associazione è una trama fitta di relazioni in cui gli individui si trovano non
appena vengono a contatto fra loro: ogni relazione, avendo una storia propria, si
evolverà verso forme più definite oppure si dissolverà. Per comprendere le
associazioni, osserva Simmel, occorre rifarsi alle relazioni micro-sociali, da lui
definite 'vita pulsante della società'.
Il rapporto fra associazioni e differenziazione sociale: se la società si articola in
cerchie intersecantesi e non concentriche, aumentano, per l'individuo, le probabilità
di far parte di un ampio numero di associazioni: si tratta, com'è ovvio, di una
relazione diretta fra le due dimensioni. Simmel ha mostrato, inoltre, come i processi
116Cfr. GEORG SIMMEL, Sociologia, (ediz. orig. 1908), trad. it., Torino, Utet, 1989. 117PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 129.
79
di autonomizzazione e formalizzazione delle forme associative siano tipicamente
riconducibili alla modernità e alle sue dinamiche.
Ben diverso il discorso di von Wiese, che, pur ponendosi nel solco della sociologia
formale e dello studio della società come associazione, ha però distinto
analiticamente nella società i processi associativi da quelli dissociativi, 119 mentre in
Simmel i due caratteri sono relazionalmente presenti nel concetto di associazione.
Altra ottica per l'analisi dell'associazione è quella della dualità
movimento/istituzione. L'associazione può assumere forme di 'stato nascente'
oppure forme di 'istituzione' o, ancora, una combinazione delle due. 120
L'associazione può essere il prodotto di un movimento sociale, ma anche di
un'istituzione. Dunque la sociologia moderna si ricollega al pensiero classico e
tradizionale quando riconosce che la vita sociale si esprime nel fatto che gli uomini
si associano, ma va oltre osservando che l'associazione è il modo di essere sui
generis delle società che imparano a risolvere i propri problemi per mezzo della
differenziazione sociale e delle istituzioni sociali artificiali. La differenziazione
sociale produce i presupposti dell'associazione cioè il distacco fra gli individui; le
associazioni costituiscono il prodotto di questo processo e nello stesso tempo lo
alimentano circolarmente e relazionalmente.
Premodernità e modernità presentano forme idealtipiche di solidarietà alquanto
differenti: Durkheim e T-Onnies hanno coniato, a tale- riguardo, l'uno la dicotomia fra
solidarietà meccanica e solidarietà organica, l'altro la dicotomia fra comunità e
118Cfr. GEORG SIMMEL, Sociologia ... cit., p. 9. 119Cfr. LEOPOLD VON WIESE, Sociologia, (ediz. orig. 1955), trad. it., Torino, Utet, 1968.
80
società. Ciò che sembra emergere in entrambe, al fondo, è l'idea di un certo
spostamento da forme di solidarietà ascritte a forme di solidarietà scelte dagli
individui. Nel pensiero liberale, la dicotomia fondamentale non è tanto quella fra
individualismo e solidarietà - semmai sottolineata dai teorici liberisti - bensì
quella tra persuasione e forza, cioè tra la libera adesione degli individui ad
argomentazioni razionali, che fanno riferimento a idee e valori condivisi, e la forza
di un potere assoluto o dell'ascrizione. È con la modernità che si avvia la
differenziazione sociale e, in essa, la formazione di un'opinione pubblica e di una
società civile tendenzialmente autonoma dalla sfera politica: 'pubblico' tende a non
essere più sinonimo di 'politico', così come individuo, in quanto componente
dell'opinione pubblica, non equivale più esclusivamente a privato.
La solidarietà, in questo contesto, comincia a perdere i connotati di eredità e di
tradizione per assumere quelli della scelta e della costruzione fondate sulla volontà
degli individui. Il fenomeno delle associazioni, espressione emblematica della
società civile, rappresenta una delle forme peculiari della solidarietà sociale
moderna.
Durkheim aveva sostenuto che l'autonomia individuale e la solidarietà organica si
sarebbero sviluppate di pari passo, senza nuocersi reciprocamente, ma, anzi,
sostenendosi l'una con l'altra, e questo sarebbe avvenuto per effetto delle nuove
relazioni sociali originate dalla divisione del lavoro sociale. La solidarietà organica
si fonda, infatti, sulla differenza e sulla consapevolezza di essa da parte di individui
e gruppi sociali; la coscienza collettiva, secondo Durkheim, non è più unica -
come nelle società a solidarietà meccanica - ma diviene pluralistica, differenziata
12°Cfr. FRANCESCO ALBERONI, Movimento e istituzione, Bologna, Il Mulino, 1977.
81
all'interno delle varie parti e articolazioni della società. 121 Le associazioni svolgono,
dunque, la funzione vitale di mediare e integrare i livelli dell'autonomia individuale
e dell'ordine sociale.
Weber, nel prendere posizione contro la visione durkheimiana delle associazioni
nella società moderna, ne mise in luce la caratteristica autonomia dalla sfera
politica, la partecipazione volontaristica, la finalizzazione ad uno scopo. 122
Poco prima anche Simmel aveva toccato il tema delle associazioni moderne,
ponendone in evidenza le novità rispetto alle corporazioni tradizionali, novità che
gravitano principalmente attorno al pluralismo sociale che è lo spazio in cui
l'autonomia individuale seleziona ciò che le si confa, componendo una propria rete
di relazioni sociali e di associazioni. 123 N elio stesso tempo, le molteplici opportunità
relazionali e associative favoriscono la crescita delle individualità autonome.
Le associazioni, per Simmel, costituiscono il fulcro della società moderna, pur
adoperando come strumento interno di regolazione sociale il sentimento dell'onore
anziché il potere, la stima in luogo della coercizione. La relazione sociale assume
per Simmel la valenza di scambio tra attori: essi ricevono vantaggi - anche se di
tipo non economico - dalla relazione, in termini di valori che esprimono la loro
personalità.
Successivamente Parsons, nel riprendere la linea tracciata da Simmel, osservava
come le associazioni, da lui annoverate nel sottosistema integrativo della societal
community, collegano le sfere della comunità e della società. In particolare,
121ÉMILE DURKHEIM, La divisione ... cit.; ID., Lezioni di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, (ediz. orig. 1950), trad. it., Milano, Etas, 1973; Io., Il suicidio, (ediz. orig. 1897), trad. it., Torino, Utet, 1969, cap. 3, p. 2.
122MAx WEBER, Parlamento e governo, (ediz. orig. 1921), trad. it., Torino, Einaudi, 1982, p. 29. 123GEORG SIMMEL, La differenziazione sociale, (ediz. orig. 1890), trad. it., Bari, Laterza, 19952•
82
!"associazione democratica' parsonsiana è regolata dalla persuasione-influenza, la
quale funziona secondo una dinamica di scambio intrattenuto da soggetti che
scelgono individualmente di accedervi. Si ritrova così una certa continuità fra le
posizioni di Parsons e quelle, esaminate in precedenza, di Simmel e Durkheim.
L'enfasi sulla razionalità presente nella rappresentazione della società elaborata
dalla sociologia moderna è oggi soggetta a critica da parte della sociologia
postmoderna, secondo la quale non è più sostenibile il binomio ragione-progresso
sociale: uno dei principali motivi - già individuato da Durkheim - è che la
ragione non è solo il meccanismo in base al quale si costruiscono le relazioni e
l'ordine sociale, ma è anche, in qualche misura, il prodotto della società. Rimane, in
ogni caso, il fatto che la centralità della ragione è stata il presupposto del costituirsi
di una sfera societaria autonoma dalla politica e dall'economia, con un proprio
strumento di regolazione, la persuasione-influenza, funzionante in base alla verità
come criterio di distribuzione dell'approvazione sociale. A tali conclusioni perviene
anche Luhmann, il quale osserva che occorre accettare la verità elaborata e
condivisa dal gruppo per essere pienamente parte di esso; ma la verità è una
costruzione della ragione, risultando, quindi, fortemente collegata alla
considerazione sociale. 124
L'autonomia della società civile dalla politica e dall'economia è del tutto evidente
soltanto a livello analitico: «il progetto di una sfera sociale governata
esclusivamente attraverso processi di persuasione non solo è stato nella società
moderna, ma continua ad essere oggi ed è destinato a rimanere anche in futuro solo
124NIKLAS LUHMANN, Teoria politica nello stato del benessere, trad it., Milano, Angeli, 1983, p. 273.
83
un ideale. La società civile della democrazia per esistere ha bisogno dello stato»; 125
questo bisogno ha per oggetto sia le regole del gioco politico sia le regole del gioco
all'interno della società civile. Nella qualità delle risposte a queste sfide consiste la
qualità della civility esprimibile da una società.
Il tema della crisi della democrazia moderna ha una datazione che, almeno quanto
alle premesse, risale ai teorici che per primi ne analizzarono virtù e limiti:
l'ambivalenza della democrazia - sempre soggetta alla possibilità di degenerare in
tirannia delle maggioranze o in oligarchia - era stata segnalata già da Alexis de
Tocqueville. 126 In tempi più recenti - più precisamente nel Novecento, secolo nel
quale si sono potute sedimentare conoscenze su una varietà di situazioni e di cicli di
sviluppo - è stata evidenziata una 'deriva autoritaria' nelle democrazie
contemporanee, in termini di strutture di dominio che si fanno strada nonostante
costituzioni e leggi di chiara impostazione democratica, con un'estensione e
intensificazione del controllo sistemico a scapito dell'integrazione sociale.
Di pari passo è andata sviluppandosi un'elaborazione significativa del concetto di
società civile come sfera distinta dall'economia e dalla politica, con una propria e
peculiare 'logica'. Alcuni filoni della teoria sociologica hanno tentato, proprio negli
ultimi anni, di sottolineare l'autonomia della società civile, in quanto dotata di una
specifica modalità di azione, quella sociale; il tentativo mira ad individuare quali vie
il sociale starebbe seguendo (o potrebbe seguire) per superare le secche della
125DA VIDE LA V ALLE, Integrazione sociale e scelta individuale. Le associazioni nella società moderna e postmoderna, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVI, 1, 1995, pp. 65-92; p. 88.
126Cfr. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, (ediz. orig. 1835-1840), trad. it., Torino, Utet, 1968.
84
modernità e della post-modernità. Questa è la cornice teorica cui fa riferimento la
teoria del costituzionalismo societario elaborata da David Sciulli. 121 Una teoria che
parta da tali premesse rinvia ad una teoria della società civile e del sociale come
particolare forma associativa. Nelle righe che seguono, tenteremo di presentare i
principali spunti offerti dalla teoria del costituzionalismo societario, cogliendone
valenze positive e limiti, ai fini dell'analisi della nostra problematica. 128
La teoria in esame parte dall'idea che la coppia autoritarismo/non-autoritarismo
vada esaminata sociologicamente, giacché è insufficiente la considerazione delle
dimensioni giuridico-costituzionali di una democrazia. Occorre porre in luce
l'infrastruttura sociale dalla cui esistenza dipende la possibilità di orientare il
mutamento sociale in senso non-autoritario, mediante l'agevolazione delle
dinamiche di integrazione sociale. La teoria sociologica, secondo Sciulli, non ha
colto questo risultato: da un lato essa, con Max Weber, ha compreso che la
competizione fra individui e fra gruppi sociali avrebbe sempre più richiesto
meccanismi formali di regolazione, con inevitabili conseguenze autoritarie; 129 per
altro verso, il pensiero liberale ha maturato l'idea e l'aspettativa che dalla
competizione sarebbero scaturite spontaneamente libertà e democrazia. Se tale
ultima posizione non 'vede' il problema, a quella weberiana sfugge il motivo
sociologico per il quale le società moderne, ampiamente attraversate dalla
competizione sociale e dalla razionalizzazione giuridica e burocratica, non siano
127Cfr. DAVID SCIULLI, Voluntaristic Action as a Distinct Concept: Theoretical Foundations of Societal Constitutionalism, in «American Sociologica! Review», 51, 1986, pp. 743-66.
128Cfr. ANDREA M. MACCARINI, Collegialità contro deriva autoritaria: la forma associativa nella teoria sociologica del «costituzionalismo societario», in «Sociologia e ricerca sociale», 49, 1996, pp. 141-65. L'articolo presenta criticamente la teoria di Sciulli, mediante l'esame dei principali contributi di questo Autore; ibidem per le relative indicazioni bibliografiche.
129Cfr. MAx WEBER, Economia ... cit.
85
precipitate nell'autoritarismo burocratico. La causa di tale inadeguatezza, sostiene
Sciulli, è stata la forte carenza di criticità della teoria sociologica. Le teorie di
orientamento narxista hanno adoperato la chiave di lettura della dipendenza per
l'analisi del carattere repressivo delle società occidentali. Purtuttavia, sia tali teorie
sia quelle di orientamento liberale condividono a livello presupposizionale l'idea -
sociologicamente non fondata - che le istituzioni politiche e sociali occidentali
siano esaustive di ogni possibile forma d'integrazione sociale e di ordine sociale non
autoritario: tutte le teorie, ad avviso di Sciulli, registrano una vera e propria
mancanza di alternative concettuali m merito agli argomenti di cm ci stiamo
occupando.
Per Sciulli l'integrazione sociale dipende dalla misura in cui gli attori sono in grado
di riconoscere e comprendere in comune (anche senza accettare) le obbligazioni
sociali vigenti all'interno di un sistema di relazioni: si potrà avere integrazione, e
non controllo, se tale possibilità è concreta, e viceversa. Tale concezione ha
un'impronta cognitivistica e chiama in causa la dimensione fondamentale della
comunicazione, ma ha il limite di non poter spiegare i casi di mancata integrazione e
adesione alle norme che non siano motivati da dissonanze cognitive. Cosa, dunque,
consente l'integrazione sociale? È possibile individuare l'infrastruttura
specificamente sociale in grado di fare da base ad un ordine sociale integrativo nella
modernità? Sciulli ritiene che tale infrastruttura sia data da una particolare forma
organizzativa del sociale, la formazione collegiale, di cui aveva già parlato
Parsons: 130 «le formazioni collegiali sono [ ... ] la sola forma organizzativa sociale in
13°Cfr. TALCOTI PARSONS, Teoria sociologica e società moderna, (ediz. orig. 1967), trad. it., Milano, Etas Kompass, 1971, in particolare le pp. 207-236 contenenti un saggio dal tema «Universali evolutivi della
86
grado di istituzionalizzare vincoli normativi adeguati alle condizioni moderne di
competitività fra gruppi eterogenei». 131 Tali forme possono essere osservate
operando una svolta di carattere teorico ed epistemologico in direzione del
proceduralismo, cioè della dimensione procedurale all'interno del normativo, dal
momento che non è più possibile riferirsi ad una ragione oggettiva e sostantiva. Il
proceduralismo è, per Sciulli, l'ultimo livello possibile di generalità e di
universalismo.
Le formazioni collegiali, nella visione di Sciulli, sono «corpi deliberativi i cm
membri s'impegnano nel compito di spiegare e descrivere fenomeni qualitativi»132
secondo criteri tipici degli ordinamenti giuridici razionali moderni; esse sono
presenti perlopiù nelle professions, nelle divisioni di ricerca delle grandi
multinazionali, nei dipartimenti delle università e in altri corpi deliberativi. Lì dove
le formazioni collegiali vengono istituzionalizzate, si dà vita o si rafforza una sfera
pubblica, il controllo sistemico viene contenuto e il mutamento sociale segue le
strade dell'integrazione fra attori eterogenei. Tali formazioni danno un contributo in
tale direzione che è essenzialmente di tipo cognitivo, consistente
«nell'istituzionalizzazione di una contingenza palpabile nell'ambiente dei detentori
del potere», 133 i quali percepiscono di essere soggetti a controllo circa l'orientamento
autoritario/non autoritario da essi impresso al mutamento sociale.
società» e in esso il paragrafo su «L'associazione democratica», caratterizzata da direzione elettiva e sostegno mediato dei membri agli orientamenti delle politiche. L'associazione è, nel saggio citato, uno dei quattro complessi «fondamentali per la struttura delle società moderne» (p. 235), unitamente all'organizzazione burocratica per il conseguimento dei fmi collettivi, il denaro e il sistema di mercato, i sistemi giuridici universalistici generalizzati.
131ANDREA M. MACCARINI, Collegialità ... cit., p. 146. 132/bidem, p. 150. 133/bidem, p. 151.
87
Non essendo possibile, in questa sede, approfondire ulteriormente l'analisi della
posizione di Sciulli, basterà osservare come, pur recependo la validità di molte sue
intuizioni ed elaborazioni, la svolta procedurale si riveli insufficiente a conferire
forza a una teoria delle formazioni collegiali che voglia essere critica. Del resto, le
democrazie occidentali contemporanee vanno sperimentando l'inadeguatezza del
proceduralismo di fronte alle sfide attuali: l'integrazione sociale richiede un
substrato culturale comune, il proceduralismo non è un equivalente funzionale
dell'universalismo. Al fondo, ciò che emerge è una non chiara teorizzazione
sociologica della modernità, il che impedisce anche la costruzione di una adeguata
teoria sociologica dell'associazione.
L'individualismo ha costituito un tema centrale nelle analisi scientifiche della
modernità; i temi della socialità hanno finito molto spesso con il trovarsi nel cono
d'ombra dell'individualismo. Nella vulgata rappresentata da discorsi non scientifici
di vario tenore (giornalistico, moralistico, politico) in ordine ai fenomeni della
socialità, l'individualismo è spesso dipinto a tinte fosche e catastrofiche,
descrivendone il travolgente dilagare e la portata distruttrice dei legami sociali
solidaristici. Le nuove forme di socialità, siano esse palesi o sotterranee, vengono
così oscurate da una percezione distorta e sovrastimata dell'individualismo.
Maffesoli ha affrontato questa problematica, 134 avviando le sue argomentazioni
dall'assunto secondo il quale occorre superare la visione 'sostanzialistica'
dell'individuo, così come era stata proposta e resa centrale dal pensiero moderno. La
134MICHEL MAFFESOLI, Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società di massa, trad. it., Roma, Armando, 1988.
88
concezione cui accede il sociologo francese è quella di individuo come persona,
cioè come elemento molteplice e differenziato facente parte di un ordine più vasto
in cui ogni espressione riflette il macrocosmo generale. Persona da intendere,
dunque, etimologicamente come maschera, come insieme di modi e ruoli diversi
che assumono significati diversi nei contesti in cui singolarmente ci si trova. La
differenza fondamentale è che «mentre la logica individualistica riposa su
un'identità separata o chiusa in se stessa, la persona vale soltanto in rapporto agli
altri». 135 Se ne trae la conseguenza della necessità di superare la dicotomia moderna
fra soggetto e oggetto. Ciò che collega soggetti diversi non è più, in quest'ottica, la
storia basantesi su un contratto sociale cui gli individui razionali aderiscono, ma un
mito a cui si appartiene, nel quale ci si riconosce.
Talvolta, sostiene Maffesoli, il legame sociale si basa su un'emozione collettiva, per
la quale i soggetti individuali si riconoscono in una certa forma tipizzata, si
'perdono' in un soggetto collettivo: è il fenomeno definibile come neo-tribalismo.
Gli esempi citati da Maffesoli (le culture urbane giovanili del genere 'punk',
'paninari' ... ) offrono lo spunto per riflettere sull'idea di 'estendibilità dell'io': le
forme di aggregazione sociale nelle società occidentali contemporanee sempre più
tendono a impiegare come criterio l'empatia e sempre meno la logica binaria
dell'identità.
Max Weber individuò la 'comunità delle emozioni' (Gemeinde) come tipo ideale: di
aspetto effimero, mutevole nella composizione, di dimensione locale, priva di una
organizzazione, con una struttura quotidiana. 136 Forme riconducibili a tale categoria
135 Ibidem, p. 21. 136MAx WEBER, Economia ... cit., pp. 38-40.
89
sono presenti m tutte le religioni, negli interstizi esistenti fra le rigidità delle
istituzioni; più la società è aperta, più numerosi e diversificati saranno i gruppi con
una base emozionale condivisa, con una certa solidità nonostante la precarietà
costitutiva di tale base. E pertanto anche la dinamica empatica che anima la società
contemporanea non può essere letta come «l'ultima manifestazione di un attivismo
collettivo proprio della borghesia [ ... ] una strumentalizzazione coordinata degli
affetti sociali». 137
In realtà, in gran parte delle situazioni di comunità delle emozioni si riscontra la
prevalenza di elementi disindividualizzanti, della casualità, della non-razionalità
strumentale. Durkheim aveva posto in evidenza la 'natura sociale dei sentimenti',
alludendo alla prossimità che si ha nel quartiere, dotata di una sua non ben definibile
forza attrattiva: è la dimensione della vita quotidiana, dei piccoli eventi, gesti,
sentimenti, relazioni. Secondo Maffesoli, la elaborazione e diffusione delle opinioni
si serve più del substrato e della trasmissione delle emozioni che non della mera
razionalità, e tutto ciò costituisce per la società una forma di solidarietà e anche di
continuità, dando origine ad una memoria collettiva. Quest'ultima è sì legata ad uno
spazio fisico comune, ma trascende il gruppo giacché lo proietta in una prospettiva
immaginaria. Si crea così una sorta di 'aura' che caratterizza una certa epoca: se
l'aura teologica stava al Medioevo, come quella politica al Settecento e quella
progressista all'Ottocento, si potrebbe affermare che il Novecento sta assistendo al
sorgere di un'aura estetica, fondata su una miscela-di elementi comunitari, mistici,
ecologici. Tutto ciò, secondo Maffesoli, è segno di un certo clima 'olistico', di
ricomposizione organica, riconducibile alla ripresa del solidarismo in nuove forme:
137MICHEL MAFFESOLI, Il tempo ... cit., p. 23.
90
le emoz10m, m tal senso, vanno ritenute una combinazione di oggettività e
soggettività. L'emozione diviene una metafora conoscitiva della complessità
organica delle società occidentali, rispetto alla quale l'individualismo mostra ormai
tutti i suoi limiti: «l'estetica del sentimento non è affatto caratterizzata da
un'esperienza individualistica o 'interiore', ma al contrario da qualcosa che è
essenzialmente apertura agli altri, all'Altro. E tale apertura connota lo spazio, il
locale, la prossemia, dove si gioca il destino comune; ciò permette di stabilire uno
stretto legame tra la matrice o l'aura estetica e l'esperienza etica». 138
L'etica si esprime concretamente in gruppi determinati, ed è caratterizzata in modo
empatico e prossemico. Le relazioni fra etica del gruppo e morale vigente in una
data società possono anche attraversare fasi conflittuali; l'etica comporta comunque,
in vario modo, conformismo tra i componenti del gruppo. È appena il caso di
ricordare che l'etica del gruppo è stata considerata, nel quadro della modernità, un
residuo di arcaicità. Oggi, tuttavia, si osserva come il legame comunitario di gruppo
possa talvolta combinarsi con l'efficienza economica o tecnologica: i casi della
Silicon Valley californiana e il modello giapponese di organizzazione della
produzione industriale basato sui gruppi ne sono esempi significativi. Sebbene si
tratti di un'analisi non generalizzabile, Maffesoli ritiene che l'affermazione di un
sentimento nello spazio pubblico non possa essere ignorata, sia nella forma
dell'integrazione comunità-tecnologia che in altre forme. La forma comunitaria è,
ad avviso del sociologo francese, connotata «non tanto per un progetto (pro-jectum)
volto verso l'avvenire quanto per l'effettuazione 'in actu' della pulsione a stare
138/bidem, pp. 26-27.
91
insieme». 139 Da questa spinta alla prossimità e dalla condivisione di uno spazio -
fisico, immaginario, di emozioni - nasce l'idea comunitaria e l'etica
corrispondente: «è la comunanza di sentimenti a suscitare la ricerca di una 'moralità
differente', che qui preferisco definire esperienza etica». 140 Il legame tra etica
comunitaria e solidarietà è mediato e rafforzato dal rituale, che produce effetti
securizzanti, di conferma dei sentimenti del gruppo verso se stesso. L'etica
comunitaria, fondata sulla prossimità, finisce con il filtrare le regole razionali della
giustizia teorica: azioni spontanee latamente altruistiche a livello micro, sebbene
talvolta distanti da una visione d'insieme della giustizia sociale o anche
caratterizzate talvolta da assistenzialismo e paternalismo, sono espressione di una
mobilitazione di emozioni collettive che non si limitano più ad attendere
l'intervento statale. In che modo si attiva questo meccanismo? Risponde Maffesoli:
«si privilegia non tanto ciò a cui si aderisce volontariamente (prospettiva
contrattuale e meccanica) quanto piuttosto ciò che è emozionalmente comune a tutti
(prospettiva sensibile e organica)». 141 Gli eventi accadono 'come se' l'etica
comunitaria esistesse, dal momento che essa è avvolta nell'aura del proprio ambito
spazio-temporale.
La 'comunità delle emozioni' come tipo ideale e altre forme simili presentano
un'accentuazione dell'estasi nel senso di 'uscita da sé', che è propria dell'atto
sociale in quanto tale. Maffesoli indica con la metafora 'tribù' o 'tribalismo' tale
insieme complesso di fenomeni sociali.
139 Ibidem, p. 28. 140/bidem, p. 29. 141/bidem, p. 31.
92
Il costume, espressione dell'etica comunitaria, diventa interessante oggetto di analisi
della vita delle tribù di cui si compone la società contemporanea. Simmel definiva il
costume come 'una delle forme più tipiche della vita sociale'. Maffesoli, riunendo
alcuni elementi dalle sue argomentazioni, ne parla nei termini di «insieme degli usi
comuni che permette che un insieme sociale si riconosca per quello che è».142 La
forza che il costume esercita sulle relazioni sociali consiste paradossalmente nella
sua non verbalizzazione e non formalizzazione, nel suo penetrare in profondità nella
società senza transitare per il circuito della razionalità strumentale. La quotidianità è
l'ambito di un insieme variegato di libertà interstiziali e relative, per cui è possibile
parlare di una 'socialità in nero' all'interno e a latere di una socialità 'ufficiale'. La
sensibilità collettiva e le varie forme di legame sociale si servono di situazioni
banali, luoghi di convivialità quotidiana: è in tali luoghi che il costume consente l 'e-
stasi (I 'uscita da sé) dal quotidiano e il consolidamento del tribalismo. Il carattere
tribale rinvenibile in vario modo all'interno di varie società contemporanee è segno
del fatto che il principio individuationis (individualismo) non è così scontato come
sembra. Si tratta di società in cui la struttura di base è la tribù (nel senso di gruppo
organico); in esse, al presunto dominio del principio di autonomia tende ad
affiancarsi e a sostituirsi un principio di allo no mia fondato «sull'adeguamento,
sull'adattamento, sull'articolazione organica all'alterità sociale e naturale», 143
segnando, così, una discontinuità non priva di ambiguità rispetto alla modernità.
142/bidem, p. 35. 143 Ibidem, p. 44.
93
1. 6. Bene comune e beni comuni
La noz10ne di bene comune, cardine del solidarismo elaborato dal pensiero
filosofico e politico cattolico e dalla dottrina sociale della Chiesa, torna a stimolare
l'interesse degli scienziati sociali e dei sociologi.
Nella originaria elaborazione filosofica, il concetto di bene comune si distingue dal
bene individuale e dal bene pubblico: quanto al bene comune, esso non è la
semplice sommatoria dei beni individuali, che tuttavia non vengono negati, ma
inverati e armonizzati a livello comunitario, ponendo come fine la persona; il bene
pubblico è «un bene di tutti in quanto uniti», a differenza del bene comune che «è
dei singoli, in quanto membri di uno Stato; è un valore comune che i singoli
possono perseguire solo assieme, nella concordia». 144 Per l'analisi sociologica la
formulazione originaria di bene comune pone non pochi problemi, stante il tratto
della complessità culturale, valoriale, istituzionale che è proprio delle società
occidentali contemporanee: il fatto che tale formulazione di bene comune sia
oggettivistica ne spiega, almeno in parte, il declino nella pratica sociale della post-
modernità, in cui i processi di secolarizzazione hanno eroso le basi sacrali e
trascendenti della società e i riferimenti normativo-istituzionali 'forti'. Ciò, tuttavia,
non risolve la questione dell'integrazione sociale, piuttosto la pone in termini
rinnovati: è possibile, e se sì con quali modalità, un insieme sufficiente di valori
ultimi condivisi da una collettività affinché questa non sia mantenuta insieme solo
dalla forza in varie forme? È il quesito che lo stesso pensiero liberale pone, 145 pur
144NICOLA MATTEUCCI, Bene comune in NORBERTO BOBBIO - NICOLA MATTEUCCI - GIANFRANCO PASQUINO (a cura di), Dizionario di Politica, Torino, Utet, 1976, p. 95.
145/bidem.
94
rimarcando l'insopprimibile esigenza di garantire all'autonomia degli individui
spazi adeguati in una società policentrica e democratica. Ci sembra tuttavia di poter
dire che, a grandi linee, tale orientamento, a livello sociologico, rimanga bloccato in
questo impasse, indicando nella estensione formale e nella tutela pubblica dei diritti
individuali, anche sociali, la via per la costruzione di un bene comune quale base del
consenso minimo necessario ad una società democratica.
L'esigenza di qualcosa di più in tema di bene comune, rispetto all'impostazione
liberale, è espressa da Franco Cassano, 146 sebbene egli ponga in evidenza le
questioni relative ai beni pubblici più che al bene comune. Il rapporto tra razionalità
individuale e razionalità collettiva è un tema che ha suscitato - all'interno della
teoria sociologica, come anche di quelle politica ed economica - un'ampia varietà
di posizioni. A tale dibattito è possibile ricondurre anche l'analisi del concetto di
bene pubblico quale particolare prodotto dell'azione collettiva. Cassano mostra tutta
la sua insoddisfazione nei confronti delle impostazioni del problema costruite a
partire del noto dilemma del prigioniero, mediante il quale Mancur Olson ha
argomentato che l'azione collettiva (o di solidarietà e di cooperazione), anche se
eticamente fondata e utile in termini di produttività, non può mai essere razionale
dal punto di vista individuale; 141 viene pertanto in evidenza la figura del free-rider,
cioè l'attore che, pur non prendendo parte all'azione collettiva e non pagandone i
costi, potrà usufruire degli eventuali benefici. Secondo Olson, chi si impegna in
un'azione collettiva - a meno che non si tratti di gruppi di piccole dimensioni - lo
146FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita. Note sulla morte dei beni pubblici, in «Rassegna Italiana di sociologia», XXXI, 1, 1990; pp. 11-25.
147MANCUR OLSON, La logica del/ 'azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, ( ediz. orig. 1971 ), trad it., Milano, Feltrinelli, 1983.
95
fa perché mosso da incentivi selettivi (acquisizione personale di posti e risorse) o in
base a spinte del tutto irrazionali: i beni pubblici ottenibili attraverso l'azione
collettiva sono al di là di questo mondo e, come è evidente per Olson, ciò che è
trascendente nulla ha a che vedere con la razionalità. Ponendo a confronto le tesi di
Olson con quelle di Hirschman,148 Cassano nota che le azioni collettive esistono e
che esse non sono analizzabili in modo rigidamente schematico secondo l 'idealtipo
della razionalità rispetto allo scopo: in molti casi di azione collettiva, infatti, lo
scopo (I' ottenimento di un beneficio o comunque di un risultato) è già contenuto
all'interno dello sforzo (il costo sostenuto). Elster ha contestato questo punto,
sostenendo che si tratta di una «fallacia dei sottoprodotti», cioè soltanto di effetti
secondari dell'azione a prescindere dal risultato finale auspicato, e che ciò darebbe
adito ad una visione «frivola» dell'azione pubblica e ad una «teoria narcisistica della
politica». 149 In realtà, nota Cassano, la gratificazione e il senso di dignità ricavati da
chi porta avanti un'azione collettiva sono spesso necessari alla conduzione di
quest'ultima; e poi, effetti principali ed effetti secondari dell'azione collettiva
spesso si sovrappongono parzialmente. Elster aveva poi analizzato altrove, 150
modificando e integrando la sua posizione, l'effetto palla di neve che si dispiega
quando un nucleo di cooperatori incondizionati intraprende per primo l'azione
collettiva, essendo disposto ad accettare senza condizioni eventuali danni e
delusioni da isolamento: in tal caso, l'azione di questo nucleo modifica la situazione
di partenza, poiché riduce i costi di ingresso nell'azione per coloro che vi
intervenissero in seconda battuta, i quali ultimi innescheranno un analogo effetto a
148ALBERT O. HIRSCHMAN, Felicità privata e felicità pubblica, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1983. 149JON ELSTER, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1989.
96
catena per chi si aggregherà in eventuali fasi successive, e così via. È la fattispecie
delineata idealtipicamente da W eber nell'agire razionale rispetto al valore .151 In
termini di linguaggio comune, nota Cassano, non si tratta altro che del coraggio e
della fiducia di chi inizia per primo, contagiando poi anche altri. Ciò che non è
ottenibile mediante un'azione razionale rispetto allo scopo, può diventarlo a
condizione che cambi il modello di azione e assuma come riferimento un valore
(dovere, dignità, bellezza, precetto religioso, pietà, una 'causa' importante di
qualsiasi specie). Va anche detto che questo comportamento non elimina i rischi di
insuccesso né, in talune circostanze, possibili effetti perversi.
Hirschman individua in Pascal la prima distinzione tra beni privati - «cose
particolari che possono essere possedute esclusivamente da uno solo» - e beni
pubblici - cioè il «vero bene» che «dev' esser tale che tutti lo possono possedere
senza diminuzione e senza invidia, e che nessuno possa perderlo suo malgrado».152
Pascal, a proposito del vero bene, allude a Dio, il bene infinito e trascendente.
Hirschman riprende dal pensiero pascaliano l'idea che il bene pubblico è ciò che
trascende l'utilità individuale e di corto respiro. Rimane vero, anche se non va
sopravvalutato, il fatto che possano esservi, dietro le 'virtù pubbliche', «incentivi
selettivi» volti all'ottenimento di beni individuali anziché collettivi; tali incentivi
possono essere anche non materiali, configurandosi come solidaristici e/o
normativi: il bisogno di intrattenere relazioni solidali con altri o l'esigenza che
l'azione sia conforme a certe norme morali. 153 Tuttavia, nota Cassano, queste
150JON ELSTER, Making Sense of Marx, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. 151MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), trad. it., Milano, Comunità, 1961. 152BLAISE PASCAL, Pensieri, trad. it. a cura di P. SERINI, Torino, Einaudi, 1962; pp. 447, 425. 153 ALESSANDRO PIZZORNO, Considerazioni sulle teorie dei movimenti sociali, in «Problemi del socialismo»,
12, 1989; pp. 2-27.
97
tipologie di incentivi hanno un contenuto che solo in termini linguistici può definirsi
utilitaristico; lo stesso Pizzomo, ritenendo a ciò insufficiente il concetto di interesse,
ha posto in evidenza la nozione di identità. 154 Ma anche continuando a ragionare in
termini di interesse, ci si può riferire ancora a Pascal, il quale arriva a sostenere
l'utilità individuale della fede in Dio: la ricompensa promessa, l'oggetto della
scommessa, è infinita e quindi di gran lunga superiore rispetto al costo da assumere,
al rischio da correre. Il comportamento dei cooperatori incondizionati si approssima
allo schema di Pascal, anche se talvolta tale posizione può essere sfruttata per
ottenere vantaggi materiali immediati per sé stessi in nome della volontà generale.
In Pascal è presente la tensione tra fede e scienza in un contesto socio-culturale
avviato alla secolarizzazione: la fede in Dio è una scommessa in senso pieno, poiché
le certezze dogmatiche non reggono più. Analogamente, osserva Cassano, «anche il
bene pubblico sta morendo o forse si sta soltanto nascondendo: ecco perché per esso
oggi si può parlare nei termini di una scommessa». 155 La secolarizzazione è implicata
nella crisi delle forme di solidarietà sociale poiché ha intaccato il «fondamento
mitico» - cioè la religione - di obbligazioni rilevanti anche nella società moderna
di stampo liberale: sviluppando queste argomentazioni, Hirsch osserva come la
competizione economica e politica abbia finito con l'oltrepassare i limiti sociali
dello sviluppo, tendendo alla commercializzazione di tutte le relazioni sociali: 156
154ALESSANDRO PIZZORNO, Identità e interesse, in LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.
155FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit., p. 22. 156FRED HIRSCH, I limiti sociali allo sviluppo, ( ediz. orig. 1976), trad. it., Milano, Bompiani, 1981. Secondo
questo Autore, le società della tarda modernità sono caratterizzate da una rilevanza sempre maggiore dei 'beni posizionali' il cui godimento si deteriora al crescere del numero di persone che vi accede: l'accesso dipende dallo status sociale e dal reddito individuale relativo a quello altrui. La società dello sviluppo economico e dell'opulenza incentiva la domanda di tali beni, ma non può soddisfarla interamente, provocando frustrazione sociale. Con l'erosione delle norme etico-religiose che limitano la massimizzazione del perseguimento del tornaconto individuale la politica diviene corporativistica. Ciò
98
vengono a mancare, di conseguenza, quelle virtù - verità, fiducia, accettazione,
freno, obbligo - di basilare importanza in un'economia in cui gli individui
regolano contrattualmente le loro transazioni. Hirsch non riesce a individuare validi
equivalenti funzionali della religione, in grado di evitare, al contempo, i rischi
opposti della scomparsa dei beni pubblici e di una loro definizione autoritaria e
centralistica. Al fondo, osserva Cassano, non è altro che un'antinomia tra bene
pubblico e democrazia, la quale ultima, reggendosi sul principio di maggioranza,
talvolta potrà distaccarsi dalla volontà generale in nome dell'interesse comune.
Quale soggetto si configura portatore o interprete del bene comune in una società
che voglia essere democratica? Se si eccettuano i casi di emergenza catastrofica -
qualificati, per esempio, da tutto ciò che può derivare dalla non illimitatezza delle
risorse ambientali - i quali mostrano come non tutte le questioni possano essere
adeguatamente trattate secondo il principio di maggioranza, il problema, per
Cassano, è «come far affacciare all'interno di un linguaggio in cui tutto è e deve
essere negoziabile, l'idea di un parametro trascendente capace di ridimensionare
drasticamente le nostre utilità [ ... ]. La scommessa è sulla capacità di trascendere il
proprio interesse immediato guardandolo con l'ottica delle future generazioni».157
Una diversa posizione, che si autodefinisce prudente rispetto alla questione della
«morte dei beni pubblici» come tematizzata da Cassano, 158 è quella di Ota De
Leonardis, 159 il cui intento è evitare il pericolo di una anche involontaria ricaduta nel
richiede ulteriore regolazione pubblica dell'economia per equilibrare lofferta di beni posizionali: il presupposto di tale politica non è di tipo ugualitaristico ma fa capo ad un codice morale di comportamento altruistico.
157FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit., p. 24. 158Jbidem. 1590TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità. Sulla giustizia come processo sociale, in «Democrazia e
diritto», XXXI, 5-6, 1991; pp. 197-218.
99
fondamentalismo, nel quale si può incorrere quando si evoca come imprescindibile
la necessità di recuperare una qualche trascendenza del legame sociale. La sua
attenzione si concentra sulle istituzioni, definite come «sistemi di azione concreti
che nel loro funzionamento quotidiano e fattuale elaborano e riproducono beni
riconosciuti come pubblici, comuni, cioè beni condivisi da - e che come tali
accomunano - una collettività di soggetti». 160 L'idea è quella di analizzare più che i
beni, i processi istituzionali, mediante i quali i beni vengono prodotti, e i soggetti
coinvolti in tali processi. Il legame sociale è stato trasformato dalla
secolarizzazione, il suo carattere di astrazione è posto fortemente in discussione;
legge e contratto sociale hanno subìto una smitizzazione, le identità collettive della
prima modernità sono in declino: questi i principali tratti della crisi della
cittadinanza moderna e dei suoi caratteri (confini, criteri di inclusione/esclusione,
diritti e obblighi). In altri termini, «sono diventati incerti i modi istituzionalmente
riconosciuti per identificare i beni comuni». 161 Rifugiarsi nell'appello a (e nella
pratica di) una appartenenza comunitaria non è, per De Leonardis, una soluzione,
giacché comprimerebbe gli spazi della democrazia. All'interno della tematizzazione
della crisi della cittadinanza moderna, è possibile individuare due questioni
rilevanti: i) differenza versus universalizzazione e astrazione della cittadinanza
moderna, e ii) una giustizia «locale», anziché centralizzata, per molte categorie di
beni comuni. È anche vero che la crisi della cittadinanza moderna non comporta
160 Ibidem, p. 197. 161/bidem, p. 198.
100
solo perdite, ma insieme nuove «procedure secolarizzate di produzione e uso dei
beni comuni». 162
In ordine alla crisi della cittadinanza moderna, De Leonardis considera due esempi
diversi di elementi di criticità: da un lato la condizione degli homeless, delle persone
senza dimora, che sfugge alle consolidate chiavi di lettura e modalità di intervento
contro la povertà e il disagio sociale; per altro verso, l'emergere dei «familismi
morali», analizzati da Tumaturi e Manconi, 163 cioè quelle organizzazioni di società
civile caratterizzate da una «solidarietà egoistica», centrata sul proprio particolare,
sul proprio privato, ma con significative ricadute, anche non intenzionali, di tipo
universalistico: si tratta, secondo le espressioni di Tumaturi, di forme di
apprendimento morale e di sperimentazione diretta di nuove culture dei diritti e
delle risorse-beni comuni.
Nelle società occidentali contemporanee, le differenze hanno assunto una rilevanza
tale da non poter essere più considerate alla stregua di deviazioni da una norma
astratta; occorre, invece, tematizzarle esplicitamente come interdipendenze, cioè
come differenze tra soggetti: «i soggetti di diritti sono dunque tali in quanto
collocati in queste interdipendenze, vincolati, con un'autonomia e una responsabilità
limitate. I limiti, i vincoli che li legano al contesto, in questa prospettiva diventano
requisiti, risorse, possibilità per l'esercizio di diritti». 164 La differenza viene qui
assunta in chiave relazionale, offrendo uno spunto che riprenderemo presentando la
posizione di Donati. 165 In concreto, il criterio di giustizia da adoperare può essere
1621bidem, p. 199. 163Cfr. GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore, Milano, Feltrinelli, 1991; LUIGI MANCONI, Solidarietà,
egoismo. Buone azioni, movimenti incerti, nuovi conflitti, Bologna, Il Mulino, 1990. 1640TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità ... cit., p. 204. 165Cfr. infra.
101
tratto dalla riflessione di Amartya Sen: considerare le «capacità fondamentali» dei
soggetti, il cui esercizio è un diritto da riconoscere a tutti. 166 È infatti impossibile, a
giudizio dell'economista indiano, puntare all'eguaglianza mediante la distribuzione
equa di beni fondamentali, come propone Rawls, 167 poiché i medesimi beni vengono
valorizzati diversamente secondo le diverse capacità delle persone. Di quale tenore
dovrebbe essere una teoria, e anche una politica, della giustizia in un contesto di
'società delle differenze'? Riprendendo Elster, 168 De Leonardis afferma che non può
che trattarsi di una «giustizia locale», non centralistica, ma articolata secondo il tipo
di beni da allocare, i particolari criteri allocativi e gli schemi redistributivi di quel
tipo di beni. Una tale concezione chiama in causa proprio il tema delle capacità
fondamentali dei soggetti, dei quali vengono sottolineate la libertà di scelta e di
azione in ordine alla gestione delle capacità medesime: i soggetti sono, cioè, in
quest'ottica «partner delle scelte istituzionali che li riguardano, competenti a
decidere dei problemi di cui sono portatori e delle soluzioni di giustizia
corrispondenti». 169 Ne risulta rimarcata la rilevanza delle istituzioni, relativamente ai
loro standard di funzionamento e ai loro rapporti con i cittadini.
Analogo il punto di avvio dell'analisi di Carlo Dono lo, 110 per il quale la centralità
della dimensione istituzionale è fondamentale, nonostante che il prevalere degli
approcci riconducibili all'individualismo metodologico abbia sminuito la rilevanza
della problematica del bene comune e delle dimensioni 'collettiva' e 'universale':
166AMARTYA SEN, Scelta, benessere, equità, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986; p. 356. 167JOHN RAWLS, Una teoria della giustizia, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1982. 168JON ELSTER, Giustizia locale. Come le istituzioni assegnano i beni scarsi e gli oneri, trad. it., Milano,
Feltrinelli, 1995. 1690TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità ... cit., p. 211. 170CARLO DONOLO, Esercizi sociologici in tema di beni comuni, in «Democrazia e diritto», XXXI, 5-6, 1991;
pp. 185-96.
102
«risulta ancora difficile - malgrado tutto - dedurre istituzioni da scambi [ ... ]
l'ordine sociale è istituito-costruito, ovvero dipende dalla cooperazione tra istituti
(già sempre pre-esistenti) e azioni determinate, le quali, in quanto orientate
strategicamente a scopi determinati e locali, non possono non generare effetti fuori
controllo, non voluti, indiretti, lontani, perversi». 111 Donolo riconosce
l'impraticabilità di ricavare la dimensione normativo-istituzionale dell'ordine
sociale da «metapreferenze collettive dichiarate» (contenute, ad esempio, nelle
costituzioni) oppure dai presupposti di ogni ordine o comunicazione. Egli, però, non
concorda con Cassano172 quando questi indica la via per l'individuazione dei beni
pubblici nella trascendenza rispetto agli interessi privati e finiti. Il problema va
invece posto, secondo Donolo, nei termini della ricerca di una dimensione
normativo-istituzionale, e della sua praticabilità, cui agganciare il concetto di «beni
comunrn.
Innanzitutto, occorre accertare se un bene comune non sia già presente in filigrana
nella vita sociale, cioè in modo non esplicito e dichiarato, ad esempio nella struttura
della spesa pubblica e nell'agenda politica: si tratterà, eventualmente, di un bene
comune definito e situato storicamente, ma non per questo non meritevole di
considerazione. Una diversa modalità di individuazione del bene comune potrebbe
consistere nell'esame del comportamento di «una comunità sotto stress, in situazioni
critiche e catastrofiche, o quando è sollecitata ad azioni oblative» oppure anche dal
c-onsiderare la «persistenza di aspetti normativi nelle pratiche del 'familismo
171/bidem, p. 186. 172Cfr. FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit.
103
morale'» 173 tematizzate da Turnaturi, 114 pratiche che solo per via di particolari e
circostanziati stimoli emergono dalla loro abituale latenza. A tali elementi si può
aggiungere anche il consenso, in quanto indicatore che documenta la presenza e gli
sviluppi delle varie rappresentazioni di cui si sostanzia la rappresentanza politica.
Alle rappresentazioni viste in prospettiva storica si ricollegano i motivi delle azioni
degli individui e dei gruppi nonché la logica che informa l'evoluzione degli assetti
istituzionali vigenti: «la varietà istituzionale insieme alla varietà delle
rappresentazioni possibili sono 'il' bene comune, che per definizione non può essere
posto da atti di volontà o progettato volta per volta via apprendimento, e così anche
prospettato e proiettato nel futuro». 175
La definizione del contenuto del bene comune segue dunque le vie dell'implicito o
della riemersione nelle situazioni critiche o negli entusiasmi collettivi: «le
collettività democratiche moderne, specie nella tarda maturità [ ... ] presuppongono
non solo la comunità della comunicazione politica, ma anche l'idea di una struttura
metapreferenziale della collettività, che può dividere, ma è 'ciò che resta'
(HOlderlin)». 176
Un 'ulteriore analisi proposta da Dono lo è quella della dinamica delle forme di
razionalità sociale della modernità. Queste possono essere colte all'interno della
successione di avanzamenti e fallimenti sia del mercato che dello stato e delle
reciproche connessioni. È noto come la modernità sia stata contraddistinta da
profondi processi di crescita-espansione e differenziazione interna delle due sfere,
173CARLO DONOLO, Esercizi sociologici ... cit., p. 190. 174Cfr. GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore ... cit. 175CARLO DONOLO, Esercizi sociologici ... cit., p. 191. 176/bidem, p. 192.
104
costellati anche da crisi e fallimenti: i fallimenti in una sfera vengono compensati da
una crescita nell'altra sfera: l'esito di queste successioni di fallimenti del mercato ed
espansioni dello stato - o viceversa - è un intreccio spesso inestricabile. Da ciò si
ha «sia l'espansione del mondo delle merci e dello standard monetario anche per
beni morali, sia l'espansione di dotazioni e titoli, in generale di capabilities degli
attori»; la corrispondente concezione empirica di un bene comune non è altro che un
«costrutto, ricavato dall'esperienza con intere classi di beni comuni in espansione
e/o a rischio». 177 Tale espansione è fortemente segnata dalla giuridificazione di
materie sociali, poiché per un numero sempre maggiore di beni viene richiesta una
tutela formale; beni che, essendo a loro volta via via più differenziati, mutano nelle
loro esigenze di tutela. Accade in taluni casi che beni comuni con struttura
universalistica vengano agiti in funzione di posizioni particolari, anche se chiamano
in causa livelli istituzionali. Si crea un nuovo tipo di relazione tra privato e
pubblico: «riciclandosi nel caso concreto i beni comuni arricchiscono le dotazioni
individuali, interagendo con queste creano un regime di 'capabilities ', di libertà e di
opportunità». 178
Dove trovare tracce dell'esistenza di beni comuni? Per Donolo occorre guardare ai
vincoli accettati liberamente, alle interazioni tra titoli, donazioni e interessi, alla
gestione di grandi questioni senza possibilità di opportunismo. Ma c'è di più: nella
società le istituzioni hanno una dimensione normativa «insopprimibile», e
producono deontologia per il sociale, cioè vincoli rispetto a classi di beni comuni:
«parlare di beni comuni equivale a parlare della genesi di buone istituzioni e quindi
177/bidem, p. 194. 178/bidem, p. 195.
105
del processo sociale come miscela di agire strategico e di investimenti normativi e
comunicativi. Ogni bene comune presuppone tutti gli altri, in una grande catena
dell'essere sociale. [ ... ] La cura e la genesi di buone istituzioni equivale alla cura e
alla riproduzione allargata di beni comuni». 179
Nei contributi fin qui presi in esame ci è parso di cogliere - pur nella varietà degli
specifici punti di vista e dei procedimenti argomentativi - una comune tensione
alla riflessione sulle forme di legame sociale fra i soggetti, anche al di là di quelle
più tipicamente riconducibili all'agire razionale strumentale rispetto ad uno scopo.
L'approccio che - forse più di altri - consente di condurre più a fondo l'analisi
secondo una tale ottica è quello della sociologia relazionale elaborato da Pierpaolo
Donati. 180 Egli ritiene che le teorie attuali sui beni collettivi risentano di una mancata
considerazione della differenziazione societaria cui sono soggetti gli interessi
(collettivi, diffusi, pubblici) riferiti a categorie di beni. Occorre superare le
tradizionali teorie del bene comune, di impronta sia cattolica che utilitaristica e
marxista: in esse, infatti, è assente la relazionalità, cioè «non spiegano la solidarietà
come fatto propriamente sociale», 181 la quale eccede le dimensioni economiche e
politiche e la distinzione (in versione sia tradizionale che moderna) tra pubblico e
privato. Il bene comune non corrisponde più né a qualcosa di interno alla comunità
primaria né al bene pubblico (Stato). È la individuazione di una sfera sociale
differenziata funzionalmente, strutturalmente e culturalmente dalla comunità, dallo
Stato e dal mercato che consente di comprendere senso e operatività della solidarietà
sociale in quanto differente dalle solidarietà comunitarie, statuali, di mercato.
179/bidem, p. 196. 18°Cfr. PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Franco Angeli, 19943
•
106
«La società moderna si identifica con lo sviluppo di quella dimensione 'sociale' che
si espande come spazio delle relazioni costruite, scelte, che stanno tra il momento
pubblico e quello strettamente privato. Si tratta di quelle relazioni in cui la società,
come associazione, si fa fenomeno emergente». 182 Le teorie moderne sui beni
pubblici e collettivi non considerano i fenomeni associativi di terzo settore e la loro
relazionalità peculiare: esse tematizzano il bene comune come «qualcosa che viene
costruito e fruito solamente o principalmente per utilità e contratto da singoli
individui (come il gas della città, la luce delle strade, i trasporti, la rete di
informazione, ecc.)». 183
Il bene comune come bene relazionale può perciò essere inteso come «impresa
congiunta di soggetti aventi determinate relazioni sociali tra loro [ ... ] un modo
nuovo di 'fare società '». 184 La concezione e la pratica del bene pubblico, argomenta
Donati, sono insufficienti a promuovere la solidarietà sociale, poiché sono carenti
dal punto di vista della relazionalità.
Ciò potrebbe agevolare la comprensione di taluni insuccessi o inadeguatezze delle
politiche sociali pubbliche: quando la concezione e la pratica moderne di bene
pubblico sono state applicate, nell'ambito del sociale o dei rapporti di mondo vitale,
a categorie sociali caratterizzate da interessi comuni (per esempio, famiglie con un
soggetto non autosufficiente) si è finito con il produrre prestazioni standardizzate,
impersonali, sottratte alla logica della relazionalità primaria perché delegate ad un
sistema burocratico, ora efficiente ora assente o distratto; il soggetto viene
181/bidem, p. 153. 182/bidem, p. 154. 183/bidem. 184/bidem, p. 155.
107
considerato in quanto appartenente ad una categoria a rischio di emarginazione, il
prodursi della quale va a danno degli interessi collettivi e richiede un intervento
pubblico, non dedicando attenzione alla dimensione relazionale. In ogni caso, il
soggetto è tutelato in forza della sua posizione rispetto al sistema produttivo e non in
quanto persona in sé e per sé.
Il concetto di bene comune distinto da quelli di bene pubblico e di bene collettivo,
secondo la crescente differenziazione sociale, può essere descritto come «un bene
che può essere prodotto solamente assieme, non è escludibile per nessuno che ne
faccia parte, non è frazionabile e neppure è concepibile come somma di beni
individuali». 185
I quattro fondamentali tipi di beni
Consumatore non sovrano
Consumatore sovrano
Consumo non competitivo Bene pubblico (G =Stato) Bene relazionale primario (L = Quarto Settore)
Consumo competitivo Bene relazionale collettivo (I = Terzo Settore) Bene privato (A = Mercato)
Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 122.
L'elemento discriminante di fondo in ciò, secondo Donati, è la concezione della vita
umana come bene relazionale. La persona è individuo-in-relazione, e va preso atto
che «la relazione è la strutturazione della persona. Si vede allora che la vita umana e
la sua qualità non è più un diritto del singolo in quanto singolo, e neppure un bene
pubblico o collettivo nel senso moderno, ma - propriamente - un bene
comune».186
185 Ibidem, p. 156. 186/bidem.
108
La vita umana come bene comune viene rispettata o maltrattata nella misura in cui
vengono rispettate o calpestate le relazioni sociali di riferimento delle persone. Le
relazioni sono comuni alle persone che le intrattengono. Ma un bene comune come
bene relazionale, proprio perché dipende dalle relazioni sociali dei soggetti, segue le
sorti che questi imprimeranno ad esse. Si ha quindi un'azione collettiva per nulla
riducibile alla sommatoria delle azioni individuali. Andando ancora avanti, si può
osservare che i beni comuni in quanto beni relazionali possono essere espressi e
tutelati solo da gruppi primari, gruppi associativi, comunità di persone: realtà di
terzo settore diverse dalle sfere dello stato e del mercato. È aperta la prospettiva di
una nuova generazione di diritti umani (in senso relazionale) oltre a quelli civili,
politici, economico-sociali di welfare.
Donati propone la tesi che «la solidarietà sociale come distinzione direttrice
specifica delle relazioni di terzo settore [ ... ] diventa un mezzo di comunicazione, un
mezzo simbolico generalizzato e quindi un diritto, diffuso e specifico, che è sociale
- e quindi generalizzabile - in quanto è umano [ ... ]. Esso vale per ambiti
specifici (di terzo settore, appunto), ma è comunicabile e circo labile al di là di essi.
Tale medium e diritto non è comprensibile nel quadro della concezione che dei
diritti umani hanno sia i codici economici che quelli politici, e le loro traduzioni
legislative. Esso non riguarda soltanto determinati 'beni circoscrivibili' (come la
famiglia per il bambino), ma più in generale attiene alle dimensioni solidaristiche di
ogni bene collettivo nei suoi aspetti non materiali: per esempio la pace, il senso del
109
lavoro, i rapporti con l'ambiente naturale, le pari opportunità fra uomo e donna, in
quanto mettono in gioco le relazioni fra soggetti umani». 187
L'attuale organizzazione societaria sembra essere sempre meno in grado di produrre
solidarietà sociale in senso relazionale. Le ragioni di ciò risiedono sì in aspetti
tecnici, politico-amministrativi, economici ma rimane in ombra la dimensione
relazionale di ogni problematica, dalla tutela dell'ambiente alla pace, dalle politiche
sociali allo sviluppo.
1. 7. Altruismo e prosocialità
Il concetto di altruismo viene definito in modo abbastanza concorde in sociologia
come «l'agire in favore di altri senza attese di contropartita e pur potendo scegliere
altrimenti». 188 Si tratta di un termine che è stato ed è oggetto di studio in diversi campi
disciplinari: psicologia (comportamento prosociale ), economia (rapporto tra etica e
mercato), sociologia (in tempi recenti soprattutto a proposito dello sviluppo e
dell'evoluzione del terzo settore), filosofia. 189
187/bidem, pp. 158-59. 188SERGIO MANGHI, Altruismo in «Rassegna italiana di sociologia», 3, XXXVI, 1995, pp. 433-59. In maniera
equivalente si esprime BERNARDO CATTARINUSSI, Altruismo in FRANCO DEMARCHI - ALDO ELLENA -BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 72-76; ID., Alcuni aspetti del comportamento prosociale, in ID., (a cura di), Altruismo e solidarietà. Riflessioni su prosocialità e volontariati, Milano, Angeli, 1994, pp. 111-18; vedi anche, ID., Altruismo e società. Aspetti e problemi del comportamento prosociale, Milano, Angeli, 1991.
189Sul piano della filosofia morale, la questione dell'altruismo è stata variamente tematizzata: tra gli altri, ricordiamo le posizioni di THOMAS NAGEL, La possibilità del/ 'altruismo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, e quelle di FRANCESCO ALBERONI - SALVATORE VECA, L'altruismo e la morale, Milano, Garzanti, 1988. Nagel intende per altruismo la possibilità che vi sia armonia tra ragione soggettiva e ragione oggettiva, armonia raggiunta attraverso la mediazione dell'integrità del soggetto, il quale è morale nella misura in cui traduce le proprie ragioni secondo un codice universalistico, pena la non-razionalità del proprio agire, anche se ciò può condurre ad una pluralità di morali in conflitto tra loro, ma ricomponibili mediante il richiamo dei criteri oggettivi che valgono per ogni soggetto agente morale. Per Alberoni e Veca l'altruismo, definito come 'slancio spontaneo' che spinge l'individuo ad agire a vantaggio degli altri, trascendendo se stesso, costituisce una delle due radici della morale nel mondo moderno, la razionalità essendo l'altra. Attraverso l'esame delle conseguenze della riforma protestante sulla morale e l'analisi dell'utilitarismo di Bentham nonché delle posizioni di Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, i due autori
110
In ambito sociologico, le questioni più di frequente al centro dell'attenzione vertono
sulla persistenza dell'altruismo in una società in cui sono in continua trasformazione
le forme di legame sociale e di cooperazione, dove si assiste, inoltre, al mutamento e
alla differenziazione dell'altruismo medesimo in nuove forme associate non più di
tipo soltanto privato-morale ma anche socio-istituzionale. Gli studi sull'azione
collettiva, per altro verso, hanno offerto più d'uno spunto alla riflessione sulla
problematica dell'altruismo. Ciò - forse inevitabilmente - ha condotto al prodursi
di un intreccio fra declinazioni talvolta alquanto diverse del concetto in esame.
Ancora una volta ci imbattiamo in un termine creato agli albori della sociologia, ad
opera di Auguste Comte; l'esigenza era sorta a proposito della trattazione di un
problema scientifico di rilevanza cruciale per il pensiero moderno: l'affacciarsi sulla
scena sociale dell'individuo, «inedita creatura libera da appartenenze morali ascritte e
votata al self-love, generata, insieme, dall'economia di mercato, dalla secolarizzazione
del cristianesimo, dal contrattualismo e dall'illuminismo». 190
Lo spostamento che avviene con la modernità non è tanto da una morale pre-modema
altruista ad una moderna egoista, ma da una morale esterna e data (l"ordine sociale')
ad una fonte interna e libera (l"io'). 191 Anche letture diverse da questa192 riconoscono
che con la modernità si è comunque creato un presupposto morale di tipo nuovo, non
più fondato sul destino, ma sulla scelta; la morale viene dunque ad essere riformulata
dal punto di vista degli individui. La questione dell'altruismo nella società moderna è
mostrano come le due componenti della morale moderna siano entrambe necessarie, l'una avendo bisogno dell'altra, allo scopo di assicurare un adeguato livello di moralità (cioè di rispondenza a criteri di giustizia) alle azioni individuali e alle relazioni intersoggettive ed istituzionali (si tratta, in quest'ultimo caso, di questioni di 'etica pubblica').
190SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 434. 191CHARLES TAYLOR, Radici dell'io. La costruzione dell'identità moderna, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1993.
111
dunque come esso sia possibile per gli individui e per l'ordine sociale di cui questi
ultimi sono componenti.
Manghi ritiene che una delle ambiguità nevralgiche dell'uso del concetto di altruismo
risieda nella «difficoltà di distinguere i giochi linguistici nei quali il termine funge da
principio esplicativo da quelli nei quali esso indica specifici comportamenti che si
intendono spiegare». 193 Questo atteggiamento metodologicamente improprio ha
prodotto una sovrapposizione di biologia e cultura, allorquando si è descritto
l'altruismo come carattere innato della natura umana e, più in generale, di quella
animale; 194 l'altruismo, secondo questa prospettiva, veniva inoltre annoverato tra i
comandamenti della 'religione dell'umanità'. Sebbene la posizione comtiana sia
contraddistinta in modo complessivamente progressista - la nuova religione avrebbe
avuto il suo fondamento nella scienza positiva e non più nella superstizione o nella
dottrina teologica priva di fondamenti razionali- essa non è in grado di prendere atto
che la società sta cambiando profondamente: un 'ordine delle cose', per quanto
scientifico, non è più praticabile, poiché non si trattava di sostituire la morale
tradizionale con una nuova morale unitaria, bensì di gestire la pluralizzazione delle
morali, legittimata dal riconoscimento dell'autonomia degli individui.
Durkheim riprende da Comte l'impostazione olistica e la declina nei termini del
funzionalismo sociale, nel quale vengono individuati, alla luce della differenziazione
sociale, i piani su cui va condotta l'analisi scientifica: sociale, individuale, normativo-
192Come, ad esempio, quella di FRIEDRICH AUGUST VON HA YEK, Scopi individuali e collettivi, trad. it. in SUSAN MENDUS - DAVID EDWARDS (a cura di), Saggi sulla tolleranza, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 51-65.
193SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 435. 194AUGUSTE COMrE, Système de politique positive, I, Paris, Mathias, 1851, p. 614; egli si ricollega ad un
filone di studi, che ha tra i suoi ispiratori David Hume e che fu portato avanti, nella Gran Bretagna della seconda metà del Settecento, da Adam Smith, poi da Jeremy Bentham e Herbert Spencer.
112
culturale, biopsichico. La componente sociale del comportamento degli individui non
ha un'origine naturale, ma sociale e culturale: il parallelo tra uomo e altre specie
animali non regge, giacché presso queste ultime è assente un fenomeno paragonabile
alla società umana. L'altruismo, dunque, attiene la società - non l'individuo - ed è
ad essa che occorre guardare per studiarne le caratteristiche; esso è un elemento di
fondamentale importanza ai fini della costruzione e del mantenimento di quella
solidarietà organica «derivante dalla divisione del lavoro» e che tiene insieme la
società modema. 195 L'individuo elabora la consapevolezza della propria dipendenza
dalla società e di essere solo una cellula di tale organismo, al quale va comunque
garantito il proprio contributo attraverso l'attività di lavoro. L'altruismo - secondo
questa prospettiva - può essere prescritto da norme sociali sotto due forme: una
asimmetrica e una simmetrica. La forma simmetrica richiede di offrire aiuto, in modo
occasionale o organizzato, a soggetti in difficoltà contingente o permanente: chi
trasgredirà alla norma sarà soggetto a sanzione, che si tradurrà nella esclusione
dall'accesso al senso di appartenenza, i cui effetti potranno essere - secondo i casi -
anomia, devianza, emarginazione. Di questo approccio si è fatto interprete primo
Talcott Parsons, ricollegandosi alla visione durkheimiana.
Pitirim A. Sorokin, nell'esaminare la conformità delle forme date di integrazione
sociale a prestabiliti criteri di giudizio, indica nell'altruismo creativo fondato
sull'esortazione evangelica ad amare i propri nemici il principio al quale ispirare i
comportamenti umani, le istituzioni e la cultura della società. 196
195ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, (ediz. orig. 1893), trad. it., Milano, Comunità, 1962; pp. 129ss; pp. 143-46.
1%PITIRIM A. SOROKIN, Love: Jts Aspects, Production, Transformation and Accumulation, in ID., (ed.), Explorations in Altruistic Love and Behavior, Boston, The Beacon Press, 1950.
113
L'altruismo può essere prescritto da una norma sociale in modo simmetrico, quando,
cioè, sia prevista la reciprocità del comportamento, lo scambio di favori: il beneficiato
è vincolato alla restituzione. e questo è noto - prima che si attivi la relazione - ad
entrambi i soggetti in essa coinvolti. Un caso tipico di tale situazione è il dono nelle
società primitive come analizzato da Marcel Mauss: 197 in quel contesto, il dono si
configura come istituzione universale e chiave di lettura per svariate forme di scambio
anche nelle società 'civili'; veniva così smentita la tesi sulla naturalità dell'economia
di mercato.198
Un'altra visione tendente a individuare l'origine dell'altruismo all'esterno
dell'individuo è quella comportamentistica: le sue versioni più evolute pongono
l'accento sul fatto che l'altruismo dell'individuo si ha non tanto in risposta, in modo
meccanico, a stimoli esterni, ma dalla elaborazione interna da parte dell'individuo di
connessioni fra stimoli e risposte e dalla produzione di 'auto-rinforzo': si ha, cioè, un
apprendimento sociale che è pur sempre influenzato da modelli esterni all'individuo, i
quali possono suscitare in lui/lei la tensione all'imitazione di un certo comportamento
prosociale. 199 In questa prospettiva è possibile formulare veri e propri programmi
operativi di 'educazione alla prosocialità'. 200
197MARCEL MAuss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. it., in ID., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965. Per un'analisi a cavallo tra sociologia e antropologia, vedi il saggio di ENZO COLOMBO, Il dono come risorsa relaziona/e, in «Sociologia e ricerca sociale», XIV, 42, 1993, pp. 47-83. Un approfondimento filosofico della problematica del dono, attraverso un commento delle posizioni del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), è contenuto nell'articolo di ROBERTO ESPOSITO, Donare la tecnica, in «Micromega», 4, 1994, pp. 141-57.
198Per altri, significativi punti di_ vista sulla reciprocità come norma-4elle relazioni sociali cfr. KARL POLANYI, L'economia come processo istituzionale in ID. (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. it., Torino, Einaudi, 1978; MARsHALL SAHLINS, L'economia dell'età della pietra, trad. it., Milano, Bompiani, 1980.
199Cfr. P. MUSSEN - N. EISENBERG-BERG, Le origini della capacità di interessarsi, dividere ed aiutare, trad. it., Roma, Bulzoni, 1985.
20°Cfr. DONATO SALFI - GIUSEPPINA BARBARA, Possiamo davvero apprendere a star bene con gli altri? La risposta è la prosocialità, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 119-41.
114
Altri elementi utili a comporre un quadro complessivo della problematica
dell'altruismo possono essere tratti dal comunitarismo presente nella sociologia
tedesca a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento e
sviluppatosi in continuità con le tradizioni idealistiche e romantiche della cultura di
quel paese. Sono noti, a tale riguardo, sia l'analisi tonniesiana sulla polarità
Gemeinschaft-Gesellschaft sia l'approccio marxiano di critica all'economia
capitalistica che produce sperequazione sociale, impoverimento e alienazione dei
proletari. Tutto ciò ha avuto delle notevoli ricadute all'interno delle società europee ed
occidentali tra Ottocento e Novecento: basti pensare al collettivismo nei paesi del
socialismo reale e allo sviluppo dei diritti di cittadinanza nei paesi dotati di sistemi di
welfare. Anche il tema dell'autonomia dei mondi vitali dallo stato e dal mercato, in
questi anni ripreso da parecchi autori, 201 risente dell'influsso della fenomenologia di
Husserl, altra corrente di pensiero che ha la sua culla nel clima sociale e culturale della
Germania di quell'epoca.
All'interno della prospettiva dell'individualismo metodologico, sono stati costruiti
vari approcci. Tra questi, un rilievo particolare spetta senz'altro al modello weberiano:
negli studi del sociologo tedesco, l'individuo moderno è posto di fronte al problema di
costruire un senso per un mondo secolarizzato e da guardare con disincanto, in cui
l'altruismo non ha più alcun fondamento. Gli idealtipi dell'agire affettivo e dell'agire
razionale rispetto al valore non hanno più come scenario la società ma porzioni molto
limitate di essa (famiglia e altri gruppi primari); etica della convinzione ed etica della
responsabilità conducono ormai lungo direzioni diverse, e gli effetti dell'azione non
dipendono più soltanto dalle intenzioni dell'attore. Per W eber l'altruismo si connota
201Cfr. ACIDLLE ARDIGÒ, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980.
115
- da un punto di vista fenomenico - in modo fortemente asimmetrico, poiché esso è
esterno ai rapporti fra individui eguali rispetto al mercato e alla regolazione statuale.
In ambito psico:~ogico sono numerosi gli studi che hanno indagato l'altruismo nei suoi
aspetti motivazionali: tra questi la psicoanalisi che, come in Freud202 e nella lettura
sociologica che ne fa Marcuse,203 ha visto nel fenomeno in esame una forma
'sublimata' di primarie istanze libidiche del soggetto. Altri studi compiuti secondo
diverse prospettive psicologiche hanno posto in evidenza che il comportamento
altruistico può essere gratificante per il soggetto, mantenerne l'autostima,
trasformarne in compassione il disagio interiore per le sofferenze altrui, eliminare lo
scarto drammatico fra l'osservazione esterna di disagi immeritati e il senso interno di
equità supposto come universale:204 fenomeni che andrebbero più opportunamente
rubricati come pseudoaltruismo.205 Analogamente, ma per motivi opposti, trattano di
pseudoaltruismo quelle ricerche sull'altruismo che impiegano il modello dell'attore
razionale utilitarista. Tali approcci contengono, oltre alla premessa individualistica,
anche una premessa normativista: lo scambio. Si ha così un richiamo alla teoria del
dono di Mauss, poiché sia quest'ultimo approccio che quello utilitaristico considerano
l'azione altruistica dettata da una logica che si impone dall'esterno sull'individuo,
anche se gli effetti economici - irrilevanza in termini mercantili nelle società
primitive contro produttività nelle società mercantili - sono profondamente diversi.
202SIGMUND FREUD, La teoria della libido e il narcisismo, trad. it., in ID., Opere, VIII, Torino, Boringhieri, 1976.
203HERBERT MARCUSE, Eros e civiltà, trad. it., Torino, Einaudi, 1964. 204Per le opportune indicazioni bibliografiche, cfr. SERGIO MANGHI, Altruismo... cit., p. 446. Per una
panoramica sulle ricerca psicologica inerente il comportamento prosociale, cfr. ANNA MARIA ASPREA -FIORANGELA ONEROSO DI LISA - GIULIA VILLONE BETOCCHI, Il comportamento di aiuto: problemi e ricerche, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 101-110.
205Cfr. CRISTIANO CASTELFRANCHI, Altruismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, I, Roma, Istituto dell'enciclopedia italiana, 1991, pp. 137-45.
116
Nell'azione individuale razionale l'attore è libero, per definizione, di scegliere, ma
non può scegliere la razionalità, poiché questa è la condizione a base della scelta;
come già visto in precedenza, il dilemma del prigioniero dimostra che il modello
dell'azione individuale razionale non è in grado di spiegare ciò che è diverso da sé:
l'azione collettiva e il comportamento altruistico, elementi non secondari ai fini
dell'identificazione di un ordine sociale. Secondo questa teoria, l'altruismo può
emergere se la norma razionale dello scambio viene riconosciuta, dando vita ad una
prevedibile attesa di reciprocità.206
Elster ha posto tuttavia in luce come sia sbagliato contrapporre l'altruismo alla
razionalità: «l'altruismo, la fiducia e la solidarietà sono dei fenomeni genuini che non
si possono dissolvere in forme ultrasottili di egoismo».207 C'è chi ha avanzato l'ipotesi
di una struttura duale del soggetto agente, composta da una razionalità orientata al
Self-interest e da un'altra orientata al Group-interest:208 resta da aggiungere, seguendo
il ragionamento di Elster, 209 che «le chances logiche dell'altruismo si accrescono, in
particolare, se si assume che le aspettative di ciascun attore nei confronti degli altri
non siano date a priori ma vengano definendosi attraverso l'interazione reciproca».210
Secondo l'approccio della sociobiologia il comportamento altruistico viene spiegato in
termini genetici ed evolutivi: in quest'ottica esso appare un paradosso, poiché
206ROBERT AXELROD, Giochi di reciprocità. L'insorgenza della cooperazione, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1985. In estrema sintesi, diremo che lAutore, impiegando la teoria dei giochi, sostiene la tesi che la cooperazione può avvenire in base ad un calcolo razionale se ogni attore si convince che questa è possibile all'interno di una relazione di reciprocità e se la relazione ha una durata sufficiente a creare una certa stabilità.
207JON ELSTER, Ulisse e le sirene, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1983, p. 237. Per una critica della contrapposizione ideologica tra altruismo-solidarietà e razionalità individuale c:fr. CRISTIANO CASTELFRANCIIl, Solidarietà, mano invisibile e bene pubblico: elementi dell'ideologia corrente, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 35-48; p. 44.
208Cfr. H. MARGOLIS, Seljishness, Altruism and Rationality: a Theory of Socia! Choice, Cambridge, Cambridge University Press, 1982; una impostazione simile è presente in LUCIANO GALLINO, L'attore sociale. Biologia, cultura, intelligenza artificiale, Torino, Einaudi, 1987.
117
comporta un autosacrificio che intacca !''idoneità danviniana' dell'individuo altruista,
migliorando quella del ricevente. Da questo punto di vista sono quattro i tentativi di
spiegazione e classificazione dell'altruismo:
1) selezione di gruppo: l'altruista favorisce i membri del gruppo cm appartiene,
indebolendo la propria posizione ma migliorando quella complessiva del gruppo;
2) selezione di parentela: l'altruista favorisce i parenti, portatori dei suoi stessi geni;
3) manipolazione parentale: l'altruista è indotto da un genitore ad esporsi a favore dei
fratelli con maggiori chances di successo;
4) reciprocità: l'altruista favorisce un altro individuo, il quale ricambierà il gesto
altruistico.
La quarta modalità richiede un gruppo provvisto di un buon livello di razionalità e di
integrazione, poiché essa presuppone una interattività caratterizzata da
un'elaborazione interna ai soggetti coinvolti e una valutazione dei rischi e delle
opportunità. 211
Il concetto di altruismo è stato oggetto anche di una lettura relazionale, nei termini,
cioè, di/orma di una relazione sociale;212 secondo quest'ottica di analisi, ne sono state
individuate diverse tipologie: complementare, simmetrica, reattivo-situazionale,
pseudointerattiva. Il carattere altruistico della relazione non è dato dal carattere
altruistico di norme, motivazioni e comportamenti che la compongono, ma da un
«ininterrotto co-ordinamento di significati diversi tra attori interdipendenti».213 Una
209Cfr. JON ELSTER, Ulisse ... cit., pp. 62-64. 210SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 448. 211Cfr. BERNARDO CATIARINUSSI, Altruismo ... cit. 212Per un'analisi dell'altruismo in questa chiave, vedi COSTANZO RANCI, Doni senza reciprocità. La
persistenza dell'altruismo nei sistemi complessi, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXI, 3, 1990, pp. 363-87.
213SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 449.
118
relazione altruistica presenta aspetti di rischio, sia per l'altruista, il quale può
esercitare influenza anche al di là del motivo dell'aiuto prestato, sia per il fruitore, che
potrebbe veder diminuire la propria autostima fino a maturare ostilità verso l'altruista
o a sminuire la portata dell'aiuto ricevuto.
Rivolgere l'attenzione alla relazione comporta anche un certo spostamento
epistemologico: si tratta della «rinuncia a un'immagine compiuta dell'attore in favore
di un'immagine incompiuta».214 I comportamenti altruistici, dunque, non sono sottesi
necessariamente da 'cause' (norme, motivazioni ... ) altruistiche, ma vengono
consensualmente costruiti e resi tali nell'interazione.
La prima trattazione dell'altruismo come relazione si ritrova nell 'Adam Smith della
Teoria dei sentimenti morali, in cui è presente un'impostazione diversa
dall'utilitarismo de La ricchezza delle nazioni.215 Nella prima delle due opere citate,
Smith differenzia la sympathy - che corrisponde ad una dinamica orizzontale di
reciprocità - dalla benevolence, un atteggiamento verticale di bontà: la seconda
presuppone la prima, e questa è alla base del legame sociale. Il modello teorico
smithiano si fonda qui non già sull'individuo egoista, ma sulle relazioni affettive e
cognitive fra individui. L'interesse, il self-love, non si contrappone alla sympathy ma
ne è una particolare modalità riflessiva: solo facendo esperienza del riconoscimento da
parte degli altri l'individuo potrà coltivare il self-love, e quindi il proprio interesse.
L'ordine sociale è governato da una mano invisibile che fa sì che tutto vada a buon
fme. Al di là delle acquisizioni del modello elaborato da Smith, rimane il fatto che già
214/bidem, p. 450. 215ADAM SMITH, Teoria dei sentimenti morali, trad. it., Roma, Istituto dell'enciclopedia italiana, 1990 (la
prima edizione inglese dell'opera è del 1759, la sesta ed ultima è del 1790); ID., Indagine sulla natura e le ca'USe della ricchezza delle nazioni, trad. it., Milano, Isedi, 1973 (la prima edizione inglese risale al 1776).
119
dalla fine del Settecento sia stata avanzata l'ipotesi di una lettura relazionale
dell'altruismo.
Quale può esse:e il 'destino' dell'altruismo? Se già nelle società primitive non era
affatto scontata la reciprocità del dono, tanto più nelle società della post-modernità
ogni atto di donazione non potrà che essere ed essere percepito come asimmetrico,
portando in sé sia il valore e il significato di aiuto che quello di potere sul fruitore. Se
questo è vero, allora «il donare si fa gratuito nel doppio senso del termine, economico
e morale, ovvero in quanto prescinde dal bilancio costi/benefici e in quanto appare
ingiustificabile».216 I rischi di negatività per i soggetti coinvolti e per l'ordine sociale
vengono contenuti mediante apposite norme e istituzioni e, a livello 'privato',
attraverso il «Co-ordinamento quotidiano delle relazioni interpersonali di amicizia,
d'amore, di parentela, di vicinato, di colleganza, di clientela e così via, come pure
nelle implicazioni interpersonali delle relazioni istituzionalmente codificate».217 Ciò
mette in movimento un processo di costante ridefinizione di identità e status e di
creazione di collegamenti tra le identità degli attori e i sistemi sociali in cui tale
ridefinizione si inserisce.
A livello 'pubblico', gli aspetti negativi e minaccianti dell'altruismo possono essere
contenuti mediante reti anonime di reciprocazione - come nel caso della donazione
di sangue: si tratterà di 'doni senza reciprocità' perché impersonali e soggetti ad una
possibilità di reciprocazione non controllabile;218 ovvero, attraverso organizzazioni
filantropiche socialmente riconosciute impegnate sul terreno dei diritti di cittadinanza
(volontariato, imprese sociali, organismi umanitari e no profit, associazioni per la
216SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 452. 2171bidem, pp. 452-53.
120
tutela dei diritti umani e civili ... ), forme definibili come 'altruismo asimmetrico'
differenziate dall'altruismo personale e da quello impersonale:219 la loro peculiarità è
data dal fatto che «il dono asimmetrico prevede una reciprocazione non anonima tra
donatore e ricevente, mediata e controllata tramite un sistema di solidarietà fondato su
base associativa» e che si svolge a favore di un soggetto in qualche modo esterno al
sistema di appartenenza del donatore o interno ma in posizione di inferiorità (tranne il
caso dei gruppi di mutuo aiuto, in cui tutti i soggetti dispongono di una posizione
paritaria).
Il tratto moderno dell'altruismo è costituito, ad un tempo, dall'arbitrarietà - che può
dare luogo a squilibri di potere - e dalla creatività, come espressione dell'autonomia
degli individui e della società civile: «alla moderna ambivalenza dell'altruismo non
c'è 'rimedio'».220 L'altruismo - essendo gratuità, in senso morale ed economico, e
non essendone dimostrabile l'utilità - non può che configurarsi come scommessa
interattiva.
1.8. Forme di regolazione sociale
Il tema, cruciale nella sociologia, dell'ordine sociale e delle sue condizioni di
esistenza è stato formulato anche nei termini della 'regolazione sociale';221 questa
può essere definita come la gamma di diversi modi «in cui un determinato insieme
di attività o di rapporti fra attori viene coordinato, le risorse che vi sono connesse
vengono allocate, e i relativi conflitti, reali o potenziali, vengono strutturati (cioè
218COSTANZO RANCI, Doni ... cit., p. 377. 219 Ibidem, p. 3 78. 220SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 455.
121
prevenuti o composti)».22= La regolazione sarà efficace se e nella misura in cui: i) la
produzione e riproduzione dei rapporti sociali avrà luogo in modo relativamente
stabile e ii) le risorse verranno allocate secondo modalità legittime e senza il ricorso
costante alla forza. Il processo di regolazione sociale va analizzato tenendo conto
della sua differenziazione: secondo il tipo di attività e/o di rapporti da considerare, si
potrà osservare una specifica forma di regolazione sociale o una combinazione di
qualcuna di esse. Possono pertanto prodursi relazioni e interdipendenze, anche
asimmetriche, tra sfere di attività governate da diverse forme di regolazione sociale.
Lange e Regini raccolgono dalla vasta letteratura esistente su tali argomenti223 quelli
che è possibile indicare come i tre principi di regolazione sociale: l'autorità o
controllo gerarchico, lo scambio nel mercato economico e politico, la solidarietà o
cooperazione basata su norme e valori condivisi. Si tratta di un'articolazione
concettuale che viene ripresa dagli studi di Karl Polanyi, il quale aveva delineato tre
forme di integrazione sociale, scambio, redistribuzione e reciprocità: «la reciprocità
sta a indicare movimenti tra punti correlati di gruppi simmetrici; la redistribuzione
indica movimenti appropriativi in direzione di un centro e successivamente
provenienti da esso; lo scambio si riferisce qui a movimenti bilaterali che si
svolgono tra due 'mani' in un sistema di mercato».224 Uno dei concetti centrali è
quello di embeddedness (incorporazione): reciprocità e redistribuzione
corrispondono, in modo diverso, all'incorporazione dell'economia nella società,
221PETER LANGE - MARINO REGINI, Gli interessi e le istituzioni: forme di regolazione sociale e politiche pubbliche, in IDO. (a cura di), Stato e regolazione sociale. Nuove prospettive sul caso italiano, Bologna, Il Mulino, 1987; pp. 9-41.
222/bidem, p. 13. 223Tale letteratura è puntualmente richiamata all'interno del saggio citato.
122
mentre lo scambio corrisponde all'incorporazione della società nell'economia. Va
osservato, tuttavia, che nonostante l'analisi di Polanyi metta a fuoco il tema delle
forme di integrazione di economia e società piuttosto che quello dell'integrazione
sociale, essa offre delle suggestioni stimolanti anche per la nostra problematica.
È possibile ricondurre - sia pure schematicamente - ad ognuno dei tre criteri di
regolazione un certo tipo di istituzione: Io stato ha incarnato il principio
dell'autorità, il mercato economico e il mercato politico quello dello scambio e le
comunità (sia tradizionali - famiglia, clan - che di tipo nuovo, come talune forme
di movimento sociale) quello della solidarietà.
Tale rappresentazione schematica va puntualizzata alla luce di due considerazioni:
1) nella realtà sociale possono emergere nuove istituzioni o alcune di quelle esistenti
possono acquisire rilievo, dando vita ad originali combinazioni di forme di
regolazione sociale: è il caso delle grandi associazioni organizzate gerarchicamente
nelle società occidentali avanzate, 225 che hanno portato sulla scena un nuovo criterio
di regolazione definibile come 'associativo', basato sulla 'concertazione inter- e
intra-organizzativa';
2) le istituzioni si basano «su un mix dei tre principi di regolazione. Ciò in cui le
istituzioni differiscono fra loro è la misura nella quale uno di questi principi le
caratterizza, perché costituisce il loro criterio dominante di regolazione o si è
storicamente 'incorporato' in esse come quello prevalente».226 Ciò consente di
rintracciare nelle istituzioni eventuali tracce dei vari principi regolativi anche lì
224KARL POLANYI, L'economia come processo istituzionale in ID. (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. it., Torino, Einaudi, 1978, pp. 297-331; p. 306. Vedi anche ID., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, (ediz. orig. 1944), trad. it., Torino, Einaudi, 1974.
225WOLFGANG STREECK- PIDLIPPE C. SCHMITTER, Comunità, mercato, stato e associazioni, trad. it. in «Stato e mercato», 13, 1985, pp. 47-86.
123
dove, a motivo di precomprensioni condizionanti presenti in chi osserva, non ci si
aspetterebbe: «il presupposto secondo cui certi criteri di regolazione sono 'impropri'
per talune istituzioni costituisce solo un giudizio di valore poco fondato
analiticamente». 221
L'istituzione stato interviene nella regolazione sociale perlopiù esercitando la sua
autorità, il cui fondamento ultimo è il monopolio della forza legittima: lo stato si
avvale, a tale scopo, di leggi e provvedimenti amministrativi che vincolano i
soggetti interessati. Ciò non toglie che nei decenni più recenti lo stato abbia fatto
uso anche di criteri di regolazione basati sullo scambio o sull'appello a norme
condivise nei casi in cui il ricorso all'autorità si sia rivelato insufficiente o
inadeguato.
Il mercato economico agisce sulla regolazione sociale, in linea di prmc1p10,
attraverso scambi che si svolgono m virtù di prezzi risultanti dall'incontro tra
domanda e offerta in condizioni di concorrenza dispersa. Se questo è il caso di un
mercato in condizioni idealizzate, nella realtà si ha sempre una certa dose variabile
di influenza di aspetti normativi e di autorità, sia dall'esterno che dall'interno stesso
del mercato.
Le istituzioni comunitarie attivano la regolazione sociale principalmente mediante
forme di solidarietà spontanea, radicate in norme, consuetudini e valori condivisi
nella comunità e che costruiscono condizioni di fiducia, reciprocità, rispetto;
oppure, tali forme di solidarietà possono trovare riferimento nelle regole e gerarchie
della comunità stessa. Questo perché l'appartenenza comunitaria può essere data
2261bidem, p. 18. 2271bidem.
124
dall'ascrizione o da processi di creazione di identità collettive. Anche nelle
comunità è possibile rintracciare rapporti di autorità e di scambio con funzioni di
supporto ai legami normativi.
Una quarta forma di regolazione è - come si è visto - quella che agisce per mezzo
dell '«uso pubblico degli interessi privati organizzati», 228 che vede protagoniste le
grandi associazioni di classe, settoriali e professionali che gestiscono, in regime di
monopolio o oligopolio, interessi funzionalmente definiti: 229 esse possono
influenzarsi a vicenda oppure influire sul mantenimento dell'ordine sociale,
ottenendo così riconoscimento da parte delle altre associazioni 'corporative' e
dell'autorità pubblica. Il meccanismo di funzionamento di questa forma di
regolazione sociale è la concertazione, che richiede una cooperazione strategica con
i poteri pubblici e, all'interno delle associazioni, un certo grado di consenso da parte
degli associati e/o un certo controllo gerarchico su di essi.
Le relazioni fra gli attori principali e secondari sono specifiche per ogni forma di
regolazione sociale: «in un ordine corporativo-associativo, gli attori sono
interdipendenti contingentemente o strategicamente», a differenza che nella
comunità dove essi sono interdipendenti, nel mercato in cui sono tendenzialmente
indipendenti e nello stato dove gli attori sono perlopiù dipendenti. 230
228/bidem. 229/bidem, p. 58. 230 Ibidem, p. 61.
CAPITOLO 2 - LA FILOSOFIA POLITICA CONTEMPORANEA E IL PROBLEMA DELLA CRISI DELLA CITTADINANZA MODERNA
2. O. Premessa
Le società occidentali contemporanee vivono una fase di mutamento sociale che non
è esagerato né enfaticamente retorico definire epocale perché tale è la portata dei
problemi sociali e politici a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Tali sfide interpellano
in profondità diversi ambiti della ricerca scientifica e della produzione teorica.
Anche la filosofia politica sta contribuendo in modo significativo a questa
elaborazione, talvolta dialogando con la sociologia, la scienza della politica,
l'economia, la teoria giuridica.
All'interno di questo capitolo verrà compiuta una panoramica sui temi della
giustizia sociale e dell'uguaglianza (elementi cardine della cittadinanza moderna)
secondo alcuni dei filoni della filosofia politica contemporanea: utilitarismo,
liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo, marxismo, femminismo. Come si
vedrà, pur cogliendo numerosi spunti in grado di stimolare l'analisi sociologica,
sorgono talune difficoltà, principalmente dal fatto che il pensiero filosofico politico
contemporaneo rimane ancora interno alla modernità e alle sue logiche, non
riuscendo a osservare dall'esterno il suo oggetto di studio e le sue principali
categorie. La nostra sintesi ruoterà attorno ad alcuni interrogativi: a cosa può servire
- nel quadro di un'analisi sociologica su solidarietà sociale e cittadinanza -
approfondire filosoficamente i temi della giustizia sociale e politica? Con quali
127
modalità ed esiti le diverse teorie filosofico-politiche della giustizia postulano una
qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra soggetti? Può esservi - e se
sì di che tipo -- un fondamento filosofico alla solidarietà sociale, orizzontale e
verticale, intesa normativamente come valore?
2.1. Alcune definizioni filosofiche classiche
Se si considera il panorama della filosofia dei classici, il concetto di giustizia ha
radici antiche e presenta una pluralità di elaborazioni che è possibile schematizzare
lungo due direttrici: la prima ha inteso la giustizia come comportamento conforme
alla legge o ad una norma pattuita (è la posizione, ad esempio, di Aristotele,
Hobbes, Kant, Kelsen); la seconda ha formulato il concetto di giustizia come
'efficienza della norma', focalizzando cioè la capacità di quest'ultima, in generale,
di rendere possibili i rapporti umani. 1 Le varie teorie della giustizia che hanno
assunto e sviluppato la seconda prospettiva, pongono fini diversi all'efficienza delle
norme che regolano il comportamento intersoggettivo: sulla concezione di giustizia
come strumento per una pacifica convivenza Platone è il primo ad esprimersi. Molto
spesso la giustizia delle leggi è stata valutata verificando se esse consentivano di
ottenere e mantenere un certo valore ultimo: felicità (Aristotele, S. Tommaso),
utilità (sofisti, Carneade, Hume), libertà (Kant), pace (Hobbes, Kelsen).
L'efficienza della norma è stata talvolta intesa come fanzionalità negativa,
valutando cioè la capacità della norma di evitare i conflitti. Ma il giusnaturalismo si
era espresso in termini più generali, sostenendo che le norme del diritto naturale
128
dovessero regolare tutte le situazioni della condizione umana, sia desiderabili che
indesiderabili, compresi la guerra o il conflitto. Due sono allora i criteri che è
possibile indicare per fondare un giudizio oggettivo su un ordinamento normativo:
l'eguaglianza come reciprocità e l 'autocorreggibilità. Hegel, dal canto suo, con la
concezione dello stato come Dio che si è realizzato nel mondo, nega la possibilità di
discutere l'ordinamento giuridico sotto qualsiasi aspetto.
La giustizia non è definibile sulla base di evidenze empiriche, essendo un concetto
normativo, caratterizzato essenzialmente, cioè, come fine sociale e di natura morale.
Come definirla, allora, in termini descrittivi? Essa viene talvolta equiparata alla
legalità, all'imparzialità, all'egualitarismo, che però sono cose diverse dalla
giustizia, poiché 'giusto' non è sinonimo di 'uguale', né di 'legittimo' o di
'imparziale'. La giustizia va quindi considerata come «nozione etica fondamentale e
non definita».2
Vi è differenza tra un'azione giusta e una moralmente buona? Sia per Platone che
per Aristotele la seconda era sinonimo della prima. Hart giudica più appropriato
parlare di giustizia in ordine alle condizioni di classi di individui,3 mentre la
valutazione della bontà morale e della moralità attengono più specificamente le
azioni dei singoli individui. Per Rawls il terreno di applicazione delle giustizia inizia
lì dove si hanno rivendicazioni contrastanti su una certa attività e dove ognuno
avanza pretese circa ciò che ritiene essere proprio diritto.4 Anche Hume aveva
1Cfr. NICOLA ABBAGNANO, Giustizia in ID., Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 19772, pp. 438-40.
2Cfr. FELIX E. OPPENHEIM, Giustizia trad. it. in NORBERTO BOBBIO - NICOLA MA TIEUCCI - GIANFRANCO PASQUINO Dizionario di politica, Torino, Utet, 1976, pp. 437-42.
3HERBERT L. A. HART, Il concetto di diritto, trad. it., Torino, 1965. 4JOHN RA WLS, Una teoria della giustizia, ( ediz. orig. 1971 ), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1982.
129
sostenuto che le questioni di giustizia trovano ongme nell'auto-interesse degli
individui e nella scarsità delle risorse disponibili.
La filosofia politica moderna è pervenuta a due accezioni del concetto di giustizia:
la giustizia formale o legalità (conformità di un'azione alle norme) e la giustizia
sostanziale (attribuzione di benefici e/o oneri secondo similarità o diversità di
caratteristiche personali e sociali che giustifichino un trattamento rispettivamente
simile o differenziato). Se la prima accezione trova un grosso ostacolo nei limiti del
proceduralismo della formazione della norma (è possibile che esistano norme
ingiuste), la seconda rinvia al problema della determinazione di uno standard
generale di giustizia sostanziale (egualitarismo, meritocrazia, mercato ... ). Non è
infrequente il caso in cui si abbia un conflitto fra l'applicazione della giustizia
formale e quella della giustizia sostanziale o fra i vari standard di giustizia
sostanziale. È pensabile, per dirimere o almeno orientare la gestione di tali conflitti,
una metaetica della giustizia? Su questo terreno si sono confrontate due prospettive:
la scuola cognitivista e quella noncognitivista; all'interno della prima si sono
sviluppati due orientamenti: intuizionismo e naturalismo. Gli intuizionisti
sostengono la dimostrabilità della verità di principi morali e, in particolare, di
principi di giustizia sostanziale sulla base dell'intuizione sia morale (ad esempio,
Platone) che religiosa (ad esempio, S. Agostino) che razionale (ad esempio, S.
Tommaso d'Aquino). Per i naturalisti le norme della giustizia sostanziale vengono
derivate da generalizzazioni empiriche o teleologiche (per esempio, Aristotele) o da
definizioni descrittive da termini etici (ad esempio, Bentham). Per i non-cognitivisti
(come Hobbes, ma anche Hume e Kelsen) la coppia giusto/ingiusto equivale alla
130
coppia legale/illegale e tematizzare la giustizia ha senso solo in questa direzione:
essa sorge con il contratto sociale, essendo lo stato di natura caratterizzato dal
bellum omnium contra omnes. Affermazioni circa la giustizia di un diritto o di
un'azione non sono altro che giudizi di valore emessi su base emotiva e dunque
soggettivi. La scelta metaetica di fondo sembra dunque rinviare ad assunzioni di
responsabilità decise in rapporto a fini sociali, fra i quali la giustizia, potenzialmente
contrastanti.
2.2. Prospettive della filosofia politica contemporanea
La filosofia politica contemporanea ha prodotto, soprattutto negli ultimi trent'anni,
diverse teorie sulla giustizia e sulla società libera o buona; in alcuni casi si è avuta
l'elaborazione di prospettive nuove (come nel caso del femminismo), in altri la
rivisitazione e lo sviluppo di temi già affrontati in precedenza (come gli studi di
Nozick sulla teoria dei diritti naturali di Locke ). Uno dei risultati più significativi
consiste nella obsolescenza delle tradizionali chiavi di lettura delle teorie filosofico-
politiche, a cominciare dalla loro collocazione lungo il continuum destra-sinistra. Vi
sono parecchie questioni di 'competenza' della teoria politica che però sono state
oggetto di ampia sottovalutazione, tanto da destra quanto da sinistra: basti pensare ai
temi connessi all'eguaglianza sessuale. Così anche per il giudizio politico sulle
istituzioni politiche, sulle tradizioni storiche e le pratiche culturali: secondo i
comunitaristi, sia destra che sinistra tendono a valutarle in base a principi astorici,
131
mentre - secondo il loro punto di vista - un tale giudizio non può essere elaborato
che dall'interno della propria appartenenza istituzionale.
Un altro limite, più generale, della visione tradizionale m filosofia politica è il
ritenere che ogni teoria, avendo un proprio valore ultimo fondante, sia in ultima
istanza inconciliabile con le altre. In realtà, dal succedersi di diverse teorie politico-
normative sembra emergere che vi è più di un solo valore ultimo fondante, e che,
pertanto, libertà ed eguaglianza non si escludono reciprocamente: «si dà per
scontato che ogni nuova teoria faccia appello a un valore ultimo diverso. Così si
dice che come le vecchie teorie facevano appello all' 'uguaglianza' (socialismo) e
alla 'libertà' (liberismo), le teorie politiche attuali fanno appello ai valori ultimi
dell' 'accordo contrattuale' (Rawls ), del 'bene comune' (com unitarismo),
dell' 'utilità' (utilitarismo), dei 'diritti' (Dworkin) o dell' 'andro ginia' (femminismo).
In tal modo ci troviamo ad avere un numero sempre più elevato di valori ultimi tra i
quali non può darsi nessun confronto razionale. Sennonché questa esplosione di
potenziali valori ultimi costituisce evidentemente un problema serio per l'intero
progetto di sviluppare un'unica teoria comprensiva della giustizia [ ... ]. Certamente
la sola risposta sensata a questa pluralità di valori ultimi proposti è quella di
rinunciare all'idea di costruire una teoria 'monistica' della giustizia. Voler
subordinare tutti gli altri valori a un unico valore dominante sembra una scelta quasi
fanatica». 5 Se si accetta questa sfida - e il presupposto della irriducibilità dei valori
fondanti - il problema da affrontare diviene la ricerca delle modalità di
integrazione delle teorie. Ciò significa che il massimo risultato ottenibile sarebbe
5WILL KYMLICKA, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, ( ediz. orig. 1990), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 11-12.
132
non già una teoria integrata e unitaria, ma soluzioni elaborate per singoli casi o,
tutt'al più, per questioni di portata limitata. Ronald Dworkin ha suggerito l'idea
secondo la quale le teorie politico-normative della giustizia hanno un non
trascurabile fondamento valoriale comune, l'eguaglianza intesa come eguale
considerazione che va riservata agli interessi di tutti: a ben vedere, infatti, non vi è
teoria della giustizia che - in modo esplicito o implicito - non riconosca tale valore
e la diversità e il conflitto fra le teorie sorge sul contenuto dell'uguaglianza, non già
sul principio generale: <mna teoria che negasse ad alcune persone il diritto a
un'uguale considerazione da parte del governo, o che annettesse loro un'importanza
inferiore a quella riconosciuta alle altre, nel mondo moderno verrebbe
immediatamente respinta dalla grande maggioranza delle persone».6 Dworkin - e
Kymlicka con lui - è dunque dell'idea che l'uguaglianza faccia ormai parte, in
modo irreversibile, del nucleo valoriale di tutte le moderne teorie politico-normative
della giustizia e che i conflitti tra le teorie vertano non tanto sulla qualificazione
della uguaglianza come valore, ma sulla sua interpretazione.
In una riflessione in ordine alla giustizia non si può non considerare,
preliminarmente, il problema dei rapporti tra filosofia morale (che si occupa della
individuazione di criteri morali per le azioni individuali) e filosofia politica (uno dei
cui scopi precipui è la trattazione di questioni di etica pubblica). A tale proposito
Kymlicka cita N ozick, secondo il quale «la filosofia morale rappresenta lo sfondo e
stabilisce i confini della filosofia politica. Ciò che le persone possono o non possono
fare l'una all'altra riduce ciò che possono fare mediante l'apparato di uno stato,
oppure per costituire tale apparato. Le proibizioni che è ammissibile imporre sono la
6/bidem, pp. 12-13.
133
fonte di qualsiasi legittimità del fondamentale potere di coercizione dello stato». 7 Da
ciò consegue che anche le interpretazioni individuali delle proprie responsabilità
pubbliche devono inserirsi armonicamente in un «quadro morale più ampio» in cui
trovino senso le proprie responsabilità private.8 (Ciò può essere un problema per le
v1s1om utilitaristiche della giustizia). Peraltro, è vero anche l'inverso:
l'interpretazione degli obblighi personali deve considerare i valori di base delle
istituzioni politiche: democrazia, uguaglianza e tolleranza. Valori, questi, non
esplicitati nell' 'etica della cura' elaborata dal pensiero femminista. Dunque il
rapporto tra filosofia morale e filosofia politica è variamente assunto, e rimane
comunque problematico.
Una teoria politico-normativa della giustizia avrà successo - nel senso di offrire un
contributo convincente alla comprensione delle condizioni necessarie alla giustizia
- nella misura in cui porterà a conclusioni coincidenti con le nostre intime
convinzioni sull'argomento, contribuendo a illuminarle: una teoria contrastante con
tali convinzioni difficilmente potrà essere accettabile. Tuttavia è un fatto che
l'elemento intuitivo risenta anch'esso di una variegata collocazione all'interno dei
vari orientamenti della filosofia politica. Se però si accetta il punto di vista in base al
quale la filosofia politica «è materia di argomentazione morale, e l'argomentazione
morale non può evitare di fare appello alle nostre convinzioni ponderate [ ... ] [che]
possono essere giuste o sbagliate» e che possono essere organizzate in princìpi
morali e in teorie della- giustizia, «un obiettivo centrale della filosofia politica,
quindi, è quello di valutare le teorie alternative della giustizia ossia di controllare la
7ROBERTNOZICK, Anarchia, Stato e Utopia, trad. it., Firenze, Le Monnier, 1981, p. 5. 8Cfr. WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 15.
134
forza e la coerenza degli argomenti con cui cercano di suffragare la correttezza delle
loro posizioni».9
2.2.1. L'utilitarismo
L'utilitarismo è la teoria filosofico-normativa moderna che, pnma m ordine di
tempo, abbia tentato di disegnare organicamente un quadro di riferimento per la
moralità sia individuale che collettiva. La sua influenza è stata ed è talmente
profonda da far ritenere a John Rawls - cui si deve la teoria che ha segnato uno
spartiacque nella filosofia politica contemporanea che s1 dovesse
necessariamente partire ·dalla discussione dell'utilitarismo per avanzare una
prospettiva che ne consentisse il superamento. 1° Che cos'è la giustizia secondo
l'utilitarismo? «L'utilitarismo nella sua formulazione più semplice, sostiene che
l'azione o la politica moralmente giusta è quella che produce maggiore felicità per i
membri della società». 11 Nell'immaginario comune delle società contemporanee, il
termine evoca forme irrefrenabili di egoismo e individualismo, la riduzione anche
delle relazioni interpersonali o di quelle istituzionali a puro mezzo di
soddisfacimento dell'interesse particolare. Nella formulazione . . . onginana,
l'utilitarismo ha un intento progressista, di critica dell'ordine esistente e di riforma
sociale; l'utilitarismo contemporaneo ha sviluppato diversi filoni e orientamenti,
alcuni con significative divergenze teoriche. 12 Esso presenta alcune innegabili
91bidem, p. 16. 10Tale prospettiva è delineata nella nota opera Una teoria ... cit. IIWILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 19. 12Cfr. FRANCESCO ALBERONI - SALVATORE VECA, L'altruismo e la morale, Milano, Garzanti, 1988; WILL
KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 60-61.
135
attrattive: i) l'obiettivo degli utilitaristi «non dipende dall'esistenza di Dio e
nemmeno da quella dell'anima o di qualche altra dubbia entità metafisica», 13 il bene
che esso cerca di promuovere in modo imparziale è l'utilità o il benessere umano
per tutti i membri della società: ii) consequenzialismo: è giusta un'azione o una
politica le cui conseguenze sono chiaramente identificabili come positive, nel senso
che migliorano la vita di qualcuno. In sintesi, è possibile enucleare due capisaldi
della visione utilitaristica: l'importanza del benessere umano all'interno della teoria
filosofico-normativa e l'idea che le regole morali vanno valutate in base alle loro
conseguenze sul benessere umano. L'argomentazione fondamentale dell'utilitarismo
procede, infatti, dando una definizione del benessere umano o dell' 'utilità' (come
edonismo del benessere o come stato mentale non edonistico o come soddisfazione
delle preferenze o, ancora, come soddisfazione delle preferenze informate cioè
razionali) e indicando i modi per massimizzare tale utilità, attribuendo pari rilevanza
all'utilità di ogni persona.
Il problema più consistente della concez10ne utilitaristica è situato all'interno
dell'imperativo di massimizzazione dell'utilità, posto che le diverse possibili
definizioni di utilità non hanno un'influenza decisiva sull'impianto generale della
teoria. Tale imperativo corrisponde alla «interpretazione migliore della nostra
intuitiva adozione del 'consequenzialismo'?». 14 Sembrerebbe di no, posto che le
preferenze delle persone saranno quasi sempre maggiori e fra loro divergenti
rispetto a risorse scarse- per definizione. Fra l'altro soddisfare le preferenze di
qualcuno potrebbe sì massimizzarne l'utilità ma potrebbe anche comportare la
13WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 20. 141bidem, p. 30.
136
mortificazione dell'utilità complessiva o viceversa. L'ostacolo potrebbe essere
superato puntando a quelle soluzioni in grado di garantire effettivamente l'utilità al
maggior numero possibile di preferenze espresse dalle persone. In realtà, osserva
Kymlicka, i problemi sono ben altri: «la procedura decisionale utilitaristica presta il
fianco a due obiezioni principali: in primo luogo non tiene conto degli obblighi
speciali che abbiamo verso particolari persone e, in secondo luogo, tiene conto di
preferenze di cui non si dovrebbe tenere conto». 15
Per obblighi speciali si intendono quelli assunti nei confronti di familiari, amici,
creditori o persone a cui si è promesso qualcosa in cambio di altro: verso tali
obblighi ci sentiamo moralmente impegnati, anche a prescindere dalla valutazione
dell'utilità che potrebbe portarci a sottrarci a tali impegni.
Le preferenze illegittime sono, «sì 'irragionevoli' dal punto di vista della giustizia,
ma non sono necessariamente 'irrazionali' dal punto di vista dell'utilità di un
individuo». Escluse quindi le preferenze non informate, potrebbero aversi
preferenze che producono una qualche utilità reale pur negando diritti di altri
soggetti: «ove si tenga conto di questo tipo di utilità, il risultato può essere una
politica di discriminazione nei confronti delle minoranze impopolari». Tuttavia, «la
nostra moralità corrente ci dice che queste preferenze sono ingiuste e che non se ne
deve tener conto». 16
Si tratta di una posizione rifiutata dagli utilitaristi, i quali ritengono che «prima del
calcolo dell'utilità non esiste nessun criterio che valga a stabilire che cosa
'legittimamente' appartenga a una persona. A determinare che cosa sia
15 Ibidem, p. 33. 16/bidem, p. 39.
137
legittimamente mio è una qualsiasi distribuzione che massimizzi l'utilità, sicché è
per definizione impossibile che degli atti di massimizzazione dell'utilità mi privino
di ciò che legittimamente mi appartiene». 11 Ciò significherebbe attribuire un peso
morale a ogni fonte di utilità o dover sempre considerare tutti i tipi di preferenze: è,
questa, la posizione degli 'utilitaristi dell'atto'. Per gli 'utilitaristi della regola', il
test dell'utilità va compiuto sulle regole, ritenendo che l'azione giusta è quella
prescritta dalle migliori regole: queste comprendono anche la regola di mantenere le
promesse, tutelare i rapporti speciali, rispettare i diritti. La violazione di tali obblighi
in forza del calcolo dell'utilità ostacolerebbe la cooperazione sociale e
intaccherebbe i valori della vita umana e della libertà, portando ad una diminuzione
dell'utilità. Si potrebbero inoltre verificare abusi della possibilità di tradire le
promesse e di operare discriminazioni inaccettabili in vista del bene pubblico.
Ma, in realtà, l'utilitarismo della regola finisce con il perdere di vista i torti subiti da
chi ha visto tradire la promessa fattagli o da chi è stato discriminato nei suoi diritti.
Mantenere le promesse e rispettare i diritti di tutti sono infatti da considerare
requisiti morali prioritari e non meri strumenti di massimizzazione dell'utilità a
medio e lungo termine. Anzi, ciò ribadisce «la critica che gli agenti U [moralmente
responsabili cercando la massima utilità] vedono nel riconoscimento degli obblighi
speciali qualcosa che non solo non precede la massimizzazione dell'utilità, ma ne
dipende». 18
Dalla diversità scaturita dalla differenziazione interna all'utilitarismo deriva anche
una notevole eterogeneità delle sue conseguenze pratiche. Basterà ricordare come
17/bidem, p. 40. 18/bidem, p. 43.
138
principi utilitaristici siano stati alla base anche dell'edificazione dei moderni sistemi
di welfare state; altre voci richiamantesi alla medesima dottrina propendono tuttavia
per il laissez-faire capitalistico. Ciò che ne risulta, secondo Kymlicka, è che
«l'utilitarismo non si presenta più come il linguaggio corretto del dibattito politico
[ ... ] a dispetto delle sue ascendenze radicali, [ ... ] non è più in grado di definire una
posizione politica univoca», 19 come era stato al suo sorgere nella Gran Bretagna del
Settecento.
2.2.2. Il liberalismo
Tra gli autori più rappresentativi delle teorie liberali della giustizia prenderemo in
esame J ohn Rawls, Ronald Dworkin, Sebastiano Maffettone, Amartya K. Sen. 20
Rawls ha elaborato la sua teoria della giustizia come equità allo scopo di creare
un'alternativa sistematica sia all'utilitarismo che a ciò che egli definisce come
'intuizionismo', composto da un insieme disordinato di idee e principi intuitivi
antiutilitaristici su un numero limitato di questioni, un insieme di intuizioni cui
occorre dare un senso: ciò può essere fatto tentando di costruire una scala di priorità
quando i precetti contrastino tra loro. 21 A tali istanze cerca di rispondere la teoria di
Rawls. Come è noto, essa si basa su un'idea generale di giustizia secondo la quale
«tutti i beni sociali principali - libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi
per il rispetto di sé - devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una
19 Ibidem, p. 61. 20In realtà il liberalismo comprende un'ampia serie di posizioni con sfumature diverse, tanto che si è parlato
di «una famiglia di diversi liberalismi» (SEBASTIANO MAFFETIONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in RONALD DWORKIN - SEBASTIANO MAFFETIONE, I fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 128).
139
distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno
avvantaggiati». 22 La concezione generale di giustizia è collegata alla equa
distribuzione dei beni sociali, l'uguaglianza va raggiunta mediante la rimozione
delle sole disuguaglianze che svantaggiano qualcuno.
Questa formulazione generale ha bisogno di essere integrata in modo da consentire
di affrontare il problema del possibile conflitto fra i vari beni da distribuire. Rawls
propone di articolare così la concezione generale:
<<Primo principio - Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di
eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per
tutti. Secondo principio - Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere:
a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il
principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in
condizioni di equa eguaglianza di opportunità. Prima regola di priorità (la priorità
della libertà) - I principi di giustizia devono essere ordinati lessicalmente, e quindi
la libertà può venir limitata solo in nome della libertà stessa. [ ... ] Seconda regola di
priorità (la priorità della giustizia rispetto all'efficienza e al benessere) - Il
secondo principio precede lessicalmente il principio di efficienza e quello della
massimizzazione della somma dei vantaggi, l'equa opportunità precede il principio
di differenza». 23
Kymlicka così sintetizza la formulazione rawlsiana: «l'uguaglianza delle libertà ha
la precedenza sull'uguaglianza delle opportunità e questa ha la precedenza
sull'uguaglianza delle risorse. Ma all'interno di ognuna di queste categorie vale la
21JOHN RAWLS, Una teoria ... cit. 221bidem, pp. 255-56.
140
semplice idea rawlsiana che una disuguaglianza è ammessa solo se va a vantaggio di
chi sta peggio. Così le regole di priorità non interferiscono con il principio
fondamentale dell'equità che continua a valere all'interno di ogni categoria».24
A sostegno della sua tesi, Rawls avanza due argomenti: l'uguaglianza delle
opportunità - in sintonia con le più diffuse intuizioni ponderate sulla giustizia - e
il fondamento contrattualistico dei principi rawlsiani di giustizia, i quali
risulterebbero dalle scelte degli individui nella 'posizione originaria'.
L'uguaglianza delle opportunità viene ammessa da Rawls a condizione che le
posizioni di vantaggio siano tali da recare beneficio anche ai più svantaggiati; essa
si basa innanzitutto sull'assenza di discriminazioni giuridiche; oggi, inoltre, si
sottolinea parecchio la necessità di azioni positive ('affirmative actions') che
promuovano i gruppi svantaggiati. A questi aspetti, secondo Rawls, andrebbe
aggiunta anche la distribuzione di talenti naturali, neanch'essa frutto di scelte o
azioni consapevoli delle persone. Circostanze sociali e doni naturali sono parimenti
immeritati. Per Dworkin ciò è sufficiente a definire 'fraudolenta' la concezione di
giustizia come uguaglianza di opportunità, poiché la visione prevalente di questa
tiene conto soltanto delle differenze di situazioni sociali, ignorando quelle relative ai
talenti naturali oppure considerandole frutto di scelte individuali: «se siamo
veramente interessati a rimuovere le disuguaglianze immeritate, allora la tesi
prevalente dell'uguaglianza delle opportunità è inadeguata».25
Rawls sostiene (principio di differenza) che beneficiare dei propri doni naturali e
delle proprie condizioni sociali di partenza sarà giusto nella misura in cui ciò porterà
23 Ibidem, p. 255. 24WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 67.
141
benefici anche per i meno avvantaggiati: solo a queste condizioni è possibile
accettare il principio dell'uguaglianza delle opportunità. Resta tuttavia non chiaro,
per Kymlicka, il motivo per cui il principio di differenza di Rawls si applica a tutte
le disuguaglianze e non solo a quelle originate da fattori moralmente arbitrari
(circostanze sociali e talenti naturali). 26
Il secondo e principale argomento di Rawls è quello relativo al contratto sociale. Di
norma, osserva Kymlicka, gli argomenti attinenti il contratto sociale sono ritenuti
deboli, perché ipotizzano uno stato di natura precedente ad ogni forma di autorità
politica, dove ognuno è isolato dagli altri: un insieme di individui atomizzati senza
che vi sia una società, nemmeno ad un livello minimo. Tutti i contrattualisti - tra i
quali Hobbes, Locke, Kant, Rousseau - sono stati criticati per avere elaborato
teorie a partire da presupposti (lo stato di natura e il contratto sociale) che non sono
mai realmente esistiti. In realtà, pensare lo stato di natura non equivale a individuare
una tesi storica o antropologica, ma è <<Una tesi morale che esclude ogni forma di
subordinazione naturale tra gli esseri umani».27 Rawls si pone in questa prospettiva
nel formulare l'idea della 'posizione originaria', una «condizione puramente
ipotetica, caratterizzata in modo tale da condurre a una certa concezione della
giustizia».28 La differenza consiste nel fatto che la posizione originaria di Rawls,
rispetto al tradizionale stato di natura, è una «posizione iniziale di uguaglianza»,
incluse le dotazioni di capacità naturali. 29 Ed essa è tale per opera di un 'velo di
ignoranza' che impedisce ad ognuno di conoscere la propria posizione sociale, i
25 Ibidem, p. 70. 26 Ibidem, p. 72. 27Ibidem, p. 74. 28JOHN RAWLS, Una teoria ... cit., p. 28. 29Ibidem, p. 20.
142
propri talenti naturali, la propria concez10ne del bene, le proprie propens1om
psicologiche. In tal modo potranno essere correttamente prescelti i principi di
giustizia mediante una 'contrattazione equa': Rawls ritiene che, in tali condizioni,
verrebbe scelto il principio di differenza. Come si arriva a questo? Protetti, per così
dire, dal velo di ignoranza, gli individui tenderanno a scegliere ciò che può rendere
felice la loro vita, una 'vita buona': 1) beni principali sociali (reddito, opportunità e
poteri, diritti e libertà); 2) beni principali naturali (salute, intelligenza, vigore fisico,
immaginazione e talenti naturali). La scelta razionale da compiere è dettata dalla
strategia del 'maximin', che consiste nel massimizzare ciò che si otterrebbe se ci si
trovasse nella posizione minima.
Una delle principali obiezioni alla teoria rawlsiana consiste nel sottolineare come la
descrizione della posizione originaria sia costruita in vista del principio di differenza
che il suo Autore intende dimostrare. Rawls si difende, sostenendo che tale
descrizione è giustificata dall'esigenza di individuare principi in linea con le nostre
convinzioni ponderate sulla giustizia, decidendo se e in che misura modificare la
descrizione medesima o le nostre convinzioni-intuizioni.
C'è da osservare, però, che in questa maniera l'argomento intuitivo dell'uguaglianza
delle opportunità e quello del contratto cessano di essere indipendenti, e il secondo
cessa di essere decisivo per porsi semplicemente a sostegno del primo, in linea, del
resto, con l'intento iniziale manifestato da Rawls di aprire una strada oltre la
strettoia dell'utilitarismo e dell'intuizionismo disorganico.
Tra i problemi interni alla concezione di Rawls, Kymlicka nota che solo le
disuguaglianze sociali sono impiegate per definire la posizione peggiore e sono
143
quindi soggette alla compensazione del principio di differenza, mentre gli svantaggi
naturali non devono influire sulla distribuzione che deve avvenire secondo
l'uguaglianza di opportunità. Si ha pertanto, secondo Kymlicka, una duplice
instabilità della teoria. Parificare il trattamento delle disuguaglianze naturali a quello
delle disuguaglianze sociali - come ci suggerisce una concezione intuitiva di
giustizia - non è affatto semplice, forse impossibile. Rawls, peraltro, non ritiene
desiderabile una siffatta politica sociale.
Si pone inoltre il problema della disuguaglianza provocata da differenze originate da
scelte personali. Pur partendo da una uguaglianza di dotazioni di beni principali può
darsi che, per via di diverse scelte personali, gli individui conseguano disuguali
livelli di benessere. Tale disuguaglianza, secondo il principio di differenza di Rawls,
sarebbe accettabile solo se il soggetto meno avvantaggiato potesse trame qualche
beneficio: viceversa, andrebbe trasferita una quota di benessere dall'avvantaggiato
allo svantaggiato. Ciò però va contro una concezione intuitiva di giustizia (ognuno è
responsabile dei costi delle proprie scelte). Sebbene Rawls ribadisca che il principio
di differenza va applicato alle disuguaglianze nella dotazione di doni naturali e a
quelle prodotte da circostanze sociali e che ognuno è responsabile dei costi delle
proprie scelte, la formulazione del principio di differenza non contiene la distinzione
tra disuguaglianze non scelte e disuguaglianze scelte. Peraltro, si è già visto come i
beni principali naturali sono esclusi dall'elenco da impiegare per determinare chi si
trova svantaggiato.
Ronald Dworkin ha ripreso da Rawls l'idea di un sistema distributivo 'ambizioni-
dipendente' e 'doti-indipendente' - ciò che lo stesso Rawls, pur riconoscendo la
144
necessità di entrambi i principi, non ha compiutamente incluso nel suo 'principio di
differenza' - che utilizza il meccanismo dell'asta pubblica per dare ad ognuno
eque possibilità di scelta e di un sistema assicurativo per premunirsi contro il rischio
di essere colpiti da svantaggi naturali, posto che le disuguaglianze derivate da
svantaggi naturali non possono essere ignorate né totalmente eliminate: il sistema
assicurativo, in tal senso, rappresenta la «seconda soluzione migliore».30
L'asta pubblica consente di assegnare a persone pari fra loro - per talenti naturali e
per 'potere iniziale d'acquisto' - le risorse preferite da ognuno rispetto ai propri
progetti e desideri e nessuno aspirerà al pacchetto di beni scelto dagli altri : se ciò
accade, sarà superato quello che Dworkin definisce il test dell'invidia, il quale
«esprime la visione ugualitaria liberale della giustizia nella sua forma più
difendibile. Se si potesse attuarla perfettamente, si conseguirebbero i tre obiettivi
principali della teoria di Rawls: rispetto dell'uguaglianza morale delle persone,
mitigazione degli effetti degli svantaggi moralmente arbitrari e accettazione delle
responsabilità delle proprie scelte».31
Rimane tuttavia il problema - non risolvibile mediante l'asta di cui sopra - della
compensazione degli svantaggi naturali. Dworkin propone a tale scopo il modello
assicurativo da applicare concretamente attraverso il sistema fiscale, che opera
attraverso forme di prelievo e redistribuzione di flussi monetari: anche in questo
caso si tratta della seconda migliore soluzione possibile, poiché taluni svantaggi
naturali non sono compensabili con risorse sociali: «non c'è somma di denaro che
possa consentire a una persona gravemente svantaggiata di avere una vita felice
30RONALD DWORKIN, Whal is Equality? Pari I: Equality of Welfare; Pari Il: Equa/ity of Resources, in «Philosophy and Public Affairs», 10/3-4, pp. 185-246, 283-345.
145
come ·quella delle altre. L'uguaglianza completa delle condizioni di vita è
impossibile».32 Dworkin, a tale riguardo, ritiene che una distribuzione ambizioni-
dipendente e doti-indipendente contenga due tendenze opposte, ognuna delle quali
può essere perseguita a scapito dell'altra: nessuna delle due esigenze potrà essere
compiutamente soddisfatta. Ci si trova in mezzo a un dilemma cruciale: le
disuguaglianze naturali non possono essere totalmente compensate, tuttavia non
possono nemmeno essere ignorate né sottovalutate. Dworkin propone di svolgere
l'asta pubblica fra persone che, ignorando la propria dotazione di talenti/svantaggi
naturali, destinino una quota delle loro risorse iniziali ad un'assicurazione contro il
rischio di trovarsi svantaggiati da questo punto di vista: il sistema fiscale, come
detto, è il meccanismo di regolazione di tale schema assicurativo. Si eviterà così sia
l'abbandono al proprio destino delle persone con svantaggi naturali sia la 'schiavitù
delle persone di talento' che si avrebbe ove si volessero compensare totalmente le
disuguaglianze naturali con risorse sociali, cioè con premi assicurativi molto elevati:
paradossalmente, le persone più dotate riceverebbero minore considerazione di
quelle meno dotate. Non rimane altro, secondo Dworkin, che adottare il sistema
dell'asta pubblica e delle assicurazioni, come seconda migliore soluzione possibile.
Kymlicka ritiene che la conclusione cui approda Dworkin sia «piuttosto deludente»,
poiché «i suoi vantaggi teorici non hanno riscontri pratici»:33 è impossibile misurare
vantaggi e svantaggi relativi delle persone in quanto questi sono il risultato sia dei
talenti naturali che delle scelte compiute ed è alquanto arduo distinguere le
differenze che trovano origine nei primi da quelle derivate dalle seconde. La stessa
31WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 93. 321bidem, p. 95.
146
qualificazione dei talenti naturali come vantaggi e svantaggi, lungi dall'essere
assoluta e universale, risente del carattere storico-culturale di una società. Può finire
così che, come spesso accade nei sistemi burocratizzati di welfare state, «tassiamo i
ricchi, anche se alcuni sono diventati tali grazie ai loro sforzi e non ai vantaggi
naturali; soccorriamo i poveri, anche se alcuni [ ... ] sono tali per scelta e non a causa
di svantaggi naturali. Alcune persone, quindi avranno una copertura inferiore a
quella che in via ipotetica avevano acquistato, solo perché ora, grazie alla costanza
dell'impegno, fanno parte delle categorie dal reddito più elevato. Altre, al contrario,
avranno una copertura superiore a quella che meritano, solo perché vivono secondo
stili di vita più dispendiosi».34 Ma è comunque la migliore soluzione concretamente
applicabile, data la distanza tra ideale e realtà concreta.
Nonostante i suoi limiti, «la teoria di Dworkin è importante. La sua idea di un test
dell'invidia coglie e pone in rilievo che cosa voglia dire per uno schema distributivo
soddisfare gli obiettivi fondamentali della teoria di Rawls: realizzare uno schema
distributivo che rispetti l'uguaglianza morale delle persone prevedendo dei
compensi per le situazioni di svantaggio, ma rendendo nondimeno gli individui
responsabili delle proprie scelte. La realizzazione di queste idee può essere affidata
a un apparato più funzionale della miscela di aste, schemi assicurativi e prelievi
fiscali elaborata da Dworkin. Ma chi è d'accordo sulle premesse fondamentali della
sua proposta riconoscerà che egli ha contribuito a chiarirne le conseguenze sul
terreno della giustizia distributiva».35
33 Ibidem, p. 1O1. 341bidem, p. 100. 35 Ibidem, pp. 1O1-02.
147
Rimangono poco approfondite - tanto nella teoria di Rawls che in quella di
Dworkin - le conseguenze pratiche: non ci si può limitare, nelle società avanzate, a
compensare monetariamente le disuguaglianze, come in parte avviene per mezzo
dello stato sociale, ma occorre intervenire a monte, modificando i meccanismi
sociali ed economici che producono le disuguaglianze. È l'idea rawlsiana di una
'democrazia a proprietà privata»,36 che tuttavia rimane solo accennata, offrendo il
fianco ad accuse di disimpegno dalle questioni fattuali di giustizia o di apologia
dell'esistente. L'opinione di Kymlicka è che «il rapporto tra teoria liberale
contemporanea e prassi politica liberale tradizionale risulta alquanto oscuro. Le due
cose sembrano percorrere, per molti versi, strade separate». 37
La posizione di Sebastiano Maffettone getta un ponte verso alcune sollecitazioni dei
comunitaristi al liberalismo.38 Egli individua un punto debole nella concezione
comunitarista nel fatto che non si può sostenere filosoficamente che tutte le forme di
comunità siano intrinsecamente accettabili sotto il profilo etico e simili sotto quello
teorico-filosofico: mafia, partiti politici, famiglia, sette segrete eccetera non sono
certo la medesima cosa. La sua posizione è parimenti critica verso le teorie
soggettivistiche dei valori, fra cui in particolare quella basata sul concetto di
razionalità intesa come massimizzazione dell'auto interesse, in quanto inadeguate ad
affrontare il problema di una filosofia dei valori comuni e, più in generale, a
«valutare e criticare nell'ambito del ragionamento morale» ;39 se «l'etica deve servire
come guida per l'azione» non avrebbe senso affidare a sentimenti e stati d'animo
36JOHN RA WLS, Una teoria ... cit., p. 233. 37WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. l 08. 38SEBASTIANO MAFFETIONE, Valori comuni, Milano, Il Saggiatore, 1989. 39/bidem, p. 44.
148
personali un tale compito, poiché, dovendosi ritenere accettabile ogni posizione
espressa, non ve ne sarebbe alcuna in grado di essere ritenuta eticamente preferibile
ad altre, portando ali' emergere dell'arbitrarietà. E ciò vale anche se si pongono
vincoli di universalità, generalità, pubblicità e coerenza alle posizioni da esprimere.
Maffettone si ripropone di elaborare, a tal fine, una teoria etica razionalista del
valore, imperniata su una razionalità dialogica e finalizzata alla «costruzione di un
rapporto tra formazione riflessiva della volontà e decisione ultima o risolutiva».40
Per la risoluzione dei dilemmi pratici di cui è costellata l'esistenza quotidiana le
persone fanno riferimento a norme, che vengono accettate in quanto basate su
principi, cioè su valori. L'etica razionalista comprende dunque una teoria
dell'obbligo che presuppone un'analisi delle norme e una teoria del valore il cui
presupposto, a sua volta, è un'analisi dei principi. La realtà concreta con le sue tante
particolarità pone problemi a una tale formulazione del modello teorico.
Se ci si riferisce ad una teoria dell'azione intenzionale volontaria, cioè non-
automatica e non-coatta, che si compie attraverso una decisione tra alternative,
occorre di necessità analizzare anche gli aspetti motivazionali. Le motivazioni
possono distinguersi tra esplicative (desumibili dal comportamento dell'agente
rispetto alle cause sottostanti) o giustificative (si analizzeranno le motivazioni
addotte dall'agente per motivare, se richiesto, le sue azioni). Risalire dalle
motivazioni alle norme e da queste ai principi appare un passaggio indispensabile
per comprendere in base a che cosa vengono compiute scelte fra più alternative. Ma
40 Ibidem, p. 46.
149
occorre comunque chiamare in causa una teoria del valore che dichiari «ciò che è
buono o intrinsecamente desiderabile».41
Le condizioni ~torico-sociali all'interno delle quali si dà la possibilità di formulare
una teoria del valore sono caratterizzate dal processo di secolarizzazione. Se si è
consapevoli dei forti limiti del positivismo logico, che ha dichiarato inutile
operazione metafisica una teoria del valore, si può adottare il concetto di 'valori
empirici' (J. Dewey), «la cui stima e valutazione non sia indipendente da quanto i
soggetti provano e esperiscono».42
Come punto di partenza, se analizziamo l'espressione: «attribuire valore a un
oggetto x presuppone che tale oggetto sia in grado di essere desiderato o comunque
dare soddisfazione a un soggetto A», troviamo elementi utili anche se non
sufficienti. Infatti: perché dovrebbe avverarsi il contenuto di questa definizione di
valore? I soggettivisti risolvono la questione considerando equivalente il 'dover
essere' ali'' essere effettivamente', generalizzando l'espressione riferita al singolo e
trasformandolo in obbligo per tutti. Ma così facendo non vengono adeguatamente
considerati gli elementi di diritto presenti in ogni obbligo basato su di un valore.
Una delle posizioni prevalenti in tema di razionalità etica è, come si è visto, quella
utilitarista, che individua nella massimizzazione dell'utilità il criterio-guida:
l'individuo massimizza attraverso l'espressione di una propria preferenza che dà
luogo al massimo di soddisfazione. In tal caso l'utilità come misura delle preferenze
coincide con il valore: ma questa inversione del «rapporto naturale tra ciò che vale e
il modo in cui noi lo apprezziamo, sostenendo che il valore non è che
411bidem, p. 51. 42 Ibidem, p. 52.
150
un'ipostatizzazione di ciò che n01 riteniamo soggettivamente preferibile» non è
corretta, poiché «si scambia un elemento di fatto, quale una preferenza individuale,
con un elemento di diritto, quale una raccomandazione normativa rispetto al
valore».43 Se l'impostazione soggettivistica può anche andar bene per approfondire
motivazioni di tipo esplicativo, non è così per quelle di tipo giustificativo: quale
significato avrebbe studiare il rapporto tra adesione a norme e principi se questi non
sono altro che la generalizzazione di preferenze individuali elevate ad obbligo?
Alcuni fra gli utilitaristi, nel tentativo di introdurre correttivi a questo punto della
loro teoria, hanno finito con l'introdurvi elementi normativi e di valore accettando
ciò che nelle loro premesse avevano fermamente respinto. Nonostante ciò,
rimangono problemi da affrontare. Alcune teorie oggettiviste, come quelle dei diritti
naturali e quelle intuizioniste dell'etica, di fatto non consentono o quasi di
individuare un «accesso privilegiato al valore» e di «definire priorità tra valori
fondamentali tutti appartenenti ad una medesima lista». 44 Questo tuttavia caratterizza
solo un certo tipo di teorie oggettive del valore, e cioè quelle posizioniste che
considerano i valori come tali indipendentemente dal contesto storico-sociale.
Teorie di tipo costruzionistico ritengono i valori e le gerarchie di priorità fra di essi
come costruzioni realizzate «in base alle esigenze e alle credenze di una data società
in un certo momento (anche lungo) storico».45 Rimane dunque il limite della
relatività della validità della teoria, dovendo ricorrere ad un minimo comune
denominatore valoriale presente in una società in un dato momento storico. Sostiene
Maffettone: «se, come appare ovvio, non esistono valori assoluti, e se non si può
43/bidem, p. 55. 44/bidem, p. 57.
151
fare a meno di un'idea di valore in una teoria razionalista, [ ... ] allora si dovranno
ricavare questi valori dall'interazione storica. La complessità delle situazioni
decisionali non è che un modo, e forse il più chiaro, in cui percepiamo questo fatto.
[ ... ] in questi tipi di operazione [ ... ] noi non troviamo valori come oggetti già
presenti. Piuttosto li costruiamo, li formiamo nel momento stesso in cui ricorriamo
loro. Lo sforzo stesso dell'interpretazione ci guida alla costruzione dei valori in una
circolarità che può ben essere virtuosa». 46 Il compito di elaborare una teoria
oggettiva del valore, dunque, non finisce mai di essere completato.
Tra i valori comuni e oggettivi di volta in volta presenti nel contesto storico-sociale
e condizionati dalla struttura politica e giuridica vi è il valore dell'integrità. Essa
come valore possiede il carattere sostanziale di essere <<Una congiunzione massimale
tra un principio di autonomia individuale da un lato, e uno di giustizia sociale
dall'altro», ed appare dunque nella sua caratteristica natura costruttiva che
rappresenta «il grado di valore di un contesto interattivo».47 Ai due estremi concreti
di essa troviamo da una parte il «solipsismo, inteso come mancanza di
considerazione per gli altri, e dall'altra il totalitarismo inteso come prevalenza
assoluta dell'interesse pubblico sui diritti della persona».48 L'integrità di una persona
si basa sul carattere, che a sua volta si fonda su desideri, preoccupazioni, progetti,
idiosincrasie; essa comporta, ancora, interpretazione (Dworkin), sforzo ermeneutico.
Altre fondamentali caratteristiche possono essere individuate nella coerenza e nella
continuità, nella comunicabilità - intesa come «capacità di dare significato comune
45/bidem, p. 58. 46/bidem, pp. 58-59. 47 Ibidem, p. 62. 48/bidem, pp. 62-63.
152
e intersoggettivamente sensato alle intenzioni etiche di individui appartenenti a una
comunità»49 - nell'interdipendenza, nella partecipazione. Ma tali proprietà non
sono sufficienti alla comprensione di una teoria dell'integrità e delle sue funzioni
nell'ambito di un progetto etico razionalista. Occorre puntualizzare che i valori cui
si riferiscono le norme «sono al fondo valori di identità personale e rispetto di sé che
si integrano con il rispetto per gli altri nell'ambito di una comunicazione perenne
attraverso le culture e le epoche. Ed è forse quest'ultima la proprietà più tipica
dell'integrità, una proprietà morale comunicativa. I principi morali fondamentali di
un'etica razionalista non sono dogmi né fantasmi. Sono, invece, il risultato
dell'inesauribile travaglio ermeneutico dell'unione sociale di individui liberi e
e guaii». 50
Come risolvere il dilemma fra il consequenzialismo - impostazione teorica attenta
a verificare l'osservanza dell' «obbligo morale di compiere l'azione legata alla
produzione di risultati ottimali in una lista che elenchi gli stati di cose da un punto di
vista puramente oggettivo»51 - e la teoria dei diritti individuali portati all'estremo?
La prima posizione finisce con l'infliggere notevoli limitazioni all'autonomia e
all'integrità degli individui, non considerati nelle loro particolarità e differenze,
mentre la seconda ignora che le pretese a far valere diritti individuali sacrificano gli
interessi della collettività e pongono problemi seri per dirimere i conflitti fra titolari
di diritti. Maffettone richiama la posizione di T. Scanlon, volta a «dare valore alla
fenomenologia morale di un certo gruppo in un dato momento storico».52 Potrà così
49 Ibidem, p. 67. 50 Ibidem, p. 69. 51 /bidem, p. 75-76. 52/bidem, p. 90.
153
aversi un reciproco bilanciamento fra l'oggettività di un'etica razionalista e la
soggettività degli interessi riconosciuti come diritti. I criteri in virtù dei quali
giustificare ber.;.efici e perdite degli individui saranno di tipo sia soggettivo che
oggettivo (legati in tal caso alle preferenze sociali anche in quanto differenziate
dalla semplice aggregazione delle preferenze individuali): «prendendo sul serio i
valori condivisi da una comunità storica, [questa tesi] cerca di costruire, da questi,
diritti morali che valgano come prerogative relative all'agente».53
In ordine al dibattito filosofico-politico sulla democrazia moderna, Maffettone
propone una concezione libera/socialista, risultante cioè da una interazione critica
dei due più importanti filoni della teoria politica e della storia politica della
modernità. Lo snodo di partenza è il liberalismo, ritenuto elemento ormai
caratterizzante e imprescindibile anche se si fa propria la visione socialista.
Il liberalismo - la cui espressione economica ha avuto e ha larga rilevanza nella
storia contemporanea - contiene principi (tra cui l'efficienza) che necessitano di
una correzione socialista, poiché vi sono beni (ambiente, esternalità, lealtà, fiducia)
non riducibili al calcolo economico. Anche la giustizia distributiva pone in crisi il
liberalismo, perché esso non tiene abbastanza conto delle conseguenze delle azioni
compiute dagli individui per affermare i propri diritti. Inoltre, il sistema liberale
della tolleranza rispetto a diverse posizioni morali è indecidibile, quindi porta alla
paralisi: «è difficile prendere decisioni pubbliche rilevanti - quelle che
svantaggiano alcuni e avvantaggiano altri - senza avere una qualche concezione
del valore oggettivo delle preferenze. [ ... ] Quando ragioniamo in sede pubblica, da
cittadini, noi non valutiamo tutte le preferenze alla pari per il semplice motivo che
53 Ibidem, p. 91.
154
sono espressione della volontà di qualcuno. Il fatto che faccia parte dei suoi piani di
vita non ci basta di solito per prendere sul serio una proposta altrui. Pretendiamo
pure che non sia troppo idiosincratica, che non sia ispirata a egoismo, che abbia una
qualche visione del bene pubblico e così via. Tutto ciò contrasta, però, con il
sistema della tolleranza, parte centrale dell'interpretazione liberale della
democrazia. Ma [ ... ] quel sistema è indecidibile. Per cm, per nmuovere
l'indecidibilità, bisogna giocoforza limitare la tolleranza».54
Viene anche ridefinita la neutralità, di cui Maffettone dà una tesi liberal-socialista,
in grado cioè, di «distinguere tra preferenze secondo un criterio»55 e non in senso
avalutativo. Ritorna la teoria dell'integrità.
Per Amartya K. Sen ogni analisi filosofico-politica della disuguaglianza sociale
rimanda ad un quesito metodologico di fondo: 'eguaglianza di che cosa?'. La
caratteristica comune della classe di teorie etiche egualitarie sugli assetti sociali «di
dichiararsi egualitari, in qualche modo significativo, è collegata all'esigenza di
dimostrare una eguale attenzione, a qualche livello, per tutte le persone coinvolte».56
Oltre le teorie dichiaratamente ugualitarie come quella di Rawls, anche quelle
dichiaratamente antiugualitarie, come quella di N ozick, o le teorie utilitariste
possono essere indagate secondo la nozione, anche implicita, di eguaglianza che in
esse è contenuta. La vera discriminante fra i vari approcci, sostiene l'economista
indiano, è data proprio dal contenuto dell'uguaglianza proposta. Il fondamento
dell'argomentazione è di tipo antropologico: «l'importanza della domanda
'eguaglianza di che cosa?' deriva dalla effettiva diversità degli esseri umani, di
54lbidem, p. 153. 55lbidem.
155
modo che la richiesta di eguaglianza rispetto a una variabile tende a entrare m
conflitto - nei/atti, non soltanto in teoria - col desiderio di eguaglianza rispetto a
un'altra variabile. Noi siamo profondamente diversi nelle nostre caratteristiche
proprie [ ... ] così come in certe circostanze esterne [ ... ]. È precisamente per tale
diversità che l'insistenza sull'egualitarismo in un ambito è in contrasto con
l'egualitarismo in un altro». 57 Sono infatti molteplici e diverse le variabili in base
alle quali si può valutare e viene di fatto valutata l'uguaglianza: reddito, beni
primari, diritti alla libertà, e così via.
La retorica dell'uguaglianza degli uomini ('tutti gli uomini nascono eguali') può
avere effetti profondamente anti-egualitari, poiché si potrebbero trattare esseri
diversi in modo eguale. La 'variabile focale' o 'spazio' per Sen è quella «su cui
l'analisi si focalizza nel confrontare persone diverse»: 58 essa può avere una sua
pluralità interna. Il conflitto tra gli esiti dei diversi approcci alla valutazione
dell'uguaglianza è dato dal fatto che «le caratteristiche della diseguaglianza in spazi
diversi (come il reddito, la ricchezza, la felicità, eccetera) tendono a divergere, a
causa della eterogeneità degli individui. L'eguaglianza in termini di una variabile
può non coincidere con l'eguaglianza sulla scala di un'altra. Per esempio,
opportunità eguali possono condurre a redditi molto diseguali».59 E ciò conferma
l'esigenza di valutare l'uguaglianza di un certo assetto sociale considerando le
capacità di scegliere, acquisire e combinare fra loro funzionamenti - ad esempio,
un'adeguata nutrizione, ttna buona salute, la partecìpazione alla vita sociale e così
56AMARTYA K. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 7-8. 57 Ibidem, p. 9. 58 Ibidem, p. 16. 59 Ibidem, p. 17.
156
via - da parte delle persone. Con ciò Sen si distacca dalla teoria rawlsiana dei beni
primari, poiché essa non considera ai fini dell'uguaglianza di un assetto le
caratteristiche personali e sociali di soggetti diversi, le quali «possono condurre a
sostanziali variazioni interpersonali nella conversione di beni primari o risorse in
acquisizioni».60 Una significativa applicazione di questa impostazione è la
misurazione della povertà e l'individuazione di strumenti efficaci per eliminarla: il
solo parametro del reddito si rivela insufficiente a tutti e due gli scopi.
2. 2. 3. Il liberismo
I liberisti si battono per il libero mercato, considerato giusto, per una limitata
ingerenza dello stato nell'ambito della politica sociale e contro una tassazione
redistributiva, ritenuta ingiusta in quanto vìola i diritti delle persone. Non tutte le
teorie 'di destra' o neoconservatrici sono liberiste allo stato puro: ciò che differenzia
queste ultime da altre è che il libero mercato va promosso e difeso, in quanto offre
spazi alla più completa libertà delle persone di disporre dei propri diritti, al di là di
considerazioni circa la strumentalità del mercato medesimo rispetto a traguardi di
efficienza economica o di effetti sulle libertà politiche e civili.
Per esaminare il rapporto tra giustizia e mercato dal punto di vista dei liberisti,
prenderemo in esame la 'teoria del titolo valido' di Robert Nozick.61
~n sintesi, Nozick - come molti altri autori liberisti - sostiene che sono giuste le
distribuzioni di beni originate da liberi scambi tra individui provvisti di un titolo
60 Ibidem, p. 61. 61 ROBERT NOZICK, Anarchia ... cit.
157
valido per il possesso dei beni che possiedono e che decidono di scambiare. Ogni
prelievo fiscale da parte dello stato è ingiusto - anche se compiuto a fini
redistributivi, per compensare disuguaglianze derivanti da svantaggi naturali
immeritati - tranne quelle tasse necessarie a mantenere le istituzioni a tutela del
sistema del libero scambio, come, ad esempio, l'apparato repressivo e quello
giudiziario.
«[ ... ] La 'teoria del titolo valido' di Nozick consta di tre princìpi fondamentali: 1.
principio di giustizia nei trasferimenti: tutto ciò che si è acquisito giustamente si può
liberamente trasferire; 2. principio di giustizia nell'acquisizione iniziale, che spiega
il processo mediante il quale le persone possono giungere a possedere le cose che
poi possono trasferire in armonia con ( 1 ); 3. principio di rettificazione
dell'ingiustizia, concernente il problema di come trattare i beni ingiustamente
acquisiti o trasferiti». 62 La formula della distribuzione giusta, a condizione che le
persone abbiano acquisito giustamente le loro proprietà, è: «da ciascuno secondo
come sceglie, a ciascuno secondo come viene scelto».63 Si tratta quindi di una
concezione della giustizia ambizioni-dipendente (come l'egualitarismo liberale di
Rawls e Dworkin) ma doti-dipendente, poiché Nozick non considera meritevoli di
compensazione gli svantaggi derivanti da fattori indipendenti dalle scelte personali,
come le condizioni sociali ascritte e i talenti naturali.
Il liberismo di Nozick si basa su due argomenti: uno di carattere intuitivo e uno,
filosofico, che fonda i diritti di proprietà sull'auto-appartenenza.
62WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 113. 63ROBERT NOZICK, Anarchia ... cit., p. 171.
158
L'argomento intuitivo mostra che - anche partendo da una teoria diversa da quella
del titolo valido - si può dare luogo ad una distribuzione fortemente disuguale, ma
legittima, perché ottenuta attraverso una libera e spontanea adesione di tutti i
soggetti coinvolti, e quindi giusta. Nozick ammette l'ingiustizia di chi subisce
disuguaglianze immeritate, ma ribadisce che non è affatto ammissibile intaccare
diritti e titoli altrui per operare compensazioni e redistribuzioni. Ma, così facendo,
nota Kymlicka, Nozick attribuisce priorità alla libertà di azione delle persone,
trascurando le nostre intuizioni circa il trattamento equo della disuguaglianza.
Tuttavia, anche se N ozick accetta l'idea liberale che occorre accettare la concezione
intuitiva di giustizia secondo la quale è giusto porre rimedio alle disuguaglianze
immeritate, egli rimane convinto del fatto che, trattandosi spesso di reddito su cui le
persone esercitano un diritto assoluto, «i diritti particolari sulle cose riempiono di
diritti lo spazio e non lasciano più posto ai diritti generali di essere in certe
condizioni materiali».64 Egli ritiene che una distribuzione iniziale giusta abbia per
oggetto diritti di proprietà assoluti su certi beni. Ma non è così con qualsiasi altro
modello distributivo, a cominciare da quelli di Rawls e di Dworkin.
Il secondo argomento di Nozick, improntato al principio dell'auto-appartenenza, è
derivato dalla formula kantiana che impone di trattare ogni persona sempre come
fine e mai come mezzo: ognuno appartiene a se stesso - sostiene Nozick- e deve
poter disporre liberamente di se stesso. L'individuo è, perciò, portatore di diritti
assolutamente inviolabili. L'uguaglianza nei diritti di ogni individuo è un riflesso
della massima kantiana. L'utilitarismo, di contro, non pone limiti ai sacrifici
possibili ai diritti in vista di una maggiore utilità.
159
Quali diritti sono "indicatori' pesanti del rispetto delle persone come fini? Se per
Rawls il riferimento è a una certa quota di risorse della società (i beni principali),
per N ozick si tratta di quelli relativi all'auto-appartenenza. Ma, a prima vista, i due
diversi approcci sembrano non alternativi. Nozick ribadisce che l'auto-appartenenza
comporta l'assolutezza del diritto di proprietà sui propri beni e che sarebbe dunque
ingiusto violare tale principio; in ciò prende le distanze dalle argomentazioni di
Rawls e Dworkin.
In sintesi, Kymlicka riporta così la posizione di Nozick: « 1. La redistribuzione
rawlsiana (al pari degli altri interventi coercitivi del governo negli scambi del
mercato) è incompatibile con il riconoscimento dell'auto-appartenenza delle
persone. Solo un capitalismo senza limitazioni riconosce l'auto-appartenenza. 2. Il
riconoscimento dell'auto-appartenenza delle persone è componente cruciale di una
società che intenda trattare le persone da uguali». 65
Kymlicka trova insoddisfacente la concezione di uguaglianza di N ozick, per due
ordini di motivi: i) all'auto-appartenenza non corrispondono necessariamente diritti
di proprietà assoluti; ii) il principio di auto-appartenenza non è sufficiente a
giustificare il principio dell'uguale trattamento delle persone. Il diritto di proprietà
assoluto, infatti, vige nella misura in cui l'acquisizione iniziale del bene è avvenuta
in modo legittimo: se tale acquisizione è illegittima, lo stato ha la possibilità di
ridistribuire il bene; se l'acquisizione fosse stata invece legittima, è possibile usare
la forza, con pari giustificazione per procedere a rìdistribuire la ricchezza: questo
perché spesso l'acquisizione iniziale avviene con la forza, e se si ritiene legittimo
64/bidem, p. 253. 65WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 123.
160
l'uso della forza per acquisire, non si vede perché non considerarlo altrettanto
legittimo in caso di prelievo nei confronti del proprietario a fini redistributivi.
Per definire la legittimità dell'acquisizione iniziale Nozick si rifà a Locke, che
aveva definito legittima l'acquisizione che lascia per gli altri una parte 'sufficiente e
altrettanto buona', in modo da non danneggiare la condizione di nessuno:
storicamente, tuttavia, la clausola 'sufficiente e altrettanto buona' non è stata quasi
mai osservata (basti pensare al fenomeno delle enclosures - recinzioni di terreni e
'invenzione' dei relativi diritti di proprietà - nell'Inghilterra del Seicento che fu
alla base dell'aumento della produttività agricola). C'è però da rilevare che il
peggioramento per altri soggetti può ripercuotersi anche su aspetti diversi dal mero
benessere materiale, come, ad esempio, l'autonomia o l'ampiezza delle opzioni.
Inoltre, l'appropriazione si riduce a basarsi il più delle volte sull'adagio del 'chi
prima arriva meglio alloggia' (eccesso di arbitrarietà).
Vi sono, poi, sistemi di appropriazione diversi da quello di N ozick (e che questi
ignora) che possono determinare effettivi miglioramenti anziché solo non-
peggioramenti: appropriazioni più produttive di altre, appropriazioni collettive
eccetera.
Gli effetti della regolazione delle acquisizioni mediante il prmc1p10 di auto-
appartenenza alla Nozick sono molteplici: «un sistema che consenta alle persone di
appropriarsi di quantità disuguali del mondo esterno determinerà per alcuni
condizioni di vita significativamente peggiori rispetto ad alternative moralmente
rilevanti».66 Sui diritti costruiti in tal modo peserà dunque un'ipoteca di illegittimità
66/bidem, p. 135.
161
e di arbitrarietà. Si rivela, perciò, poco praticabile il tentativo di fondare un
capitalismo senza restrizioni sul principio di auto-appartenenza.
Kymlicka contesta lo status del mondo esterno antecedente all'appropriazione così
come concepito da Nozick: il mondo non è inizialmente privo di possessori, ma va
considerato proprietà comune oppure suddiviso in parti uguali per ognuno. In realtà,
il capitalismo di Nozick risulta fondato oltre che sull'auto-appartenenza degli
individui anche sul possesso delle risorse. L'auto-appartenenza, infatti, è presente in
un'ampia varietà di approcci oltre che in quello liberista. Non solo: secondo lo
schema liberista, l'operaio 'costretto' a vendere il proprio lavoro al capitalista non
perde la sua auto-appartenenza; ciò che sfugge a N ozick è che viene a cadere il
rispetto del criterio kantiano 'tratta ogni persona come fine e mai come mezzo':
cade quindi l'auto-appartenenza sostanziale.
2. 2. 4. Il marxismo
La contestazione più rilevante mossa dalle teorie di orientamento marxista a quelle
liberali verte sul concetto stesso di giustizia, il cui carattere di garanzia
dell'uguaglianza formale viene ritenuto insufficiente a fronte delle disuguaglianze
materiali. In realtà, si è visto come le teorie di Rawls e Dworkin contengano delle
proposte di trattamento equo anche di tale genere di disuguaglianze. Non così,
invece, nelle teorie liberiste, secondo le quali sono giusti tutti gli scambi realizzati
nel libero mercato fra legittimi possessori dei propri beni, a prescindere dalla
situazione preesistente e dall'esito finale in termini di distribuzione dei beni.
162
Kymlicka esamina due posizioni all'interno del filone marxista: la prima rifiuta la
concezione liberale di giustizia sostenendo che di essa, ritenuta semplice correttivo
nella società capitalistica, non c'è bisogno nella società comunista; per la seconda
posizione non si può accettare l'idea liberale che la giustizia sia compatibile con la
proprietà privata dei mezzi di produzione, ritenuta in se stessa ingiusta.
2. 2. 4.1. Il comunismo va oltre la giustizia
Nelle teorie liberali della giustizia uno dei punti-chiave è l'uguaglianza morale di
tutti gli individui, che deve essere garantita da un sistema giuridico e dall'equilibrio
tra benessere singolo e benessere sociale. Marx definì l'uguaglianza giuridica (pari
diritti tra le persone) e l'equità come nozioni obsolete e inutili.67 Diritti uguali per
tutti quando ognuno ha diverse capacità - per via di fattori naturali e sociali -
significa fare parti uguali fra disuguali. A ben vedere, osserva Kymlicka, Marx non
intende negare l'uguaglianza morale ('tutte le persone devono essere trattate da
uguali'), ma quella giuridica: i diritti, secondo Marx, non sono sufficienti, da soli, a
garantire l'uguaglianza morale degli individui. È però, questo, un argomento debole,
in quanto non offre migliori alternative: se i diritti non sono adeguati a definire tutti
i punti di vista rilevanti ai fini dell'uguaglianza morale, quali altri elementi lo sono?
Marx e i marxisti oltrepassano il problema, auspicando condizioni sociali in cui non
abbiano più a porsi questioni distributive: la società comunista nella quale - una
volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione - si avrà abbondanza di
67Testualmente l'espressione è «obsoleto ciarpame verbale»: KARL MARX - FRIEDRICH ENGELS, Se/ected W orks, London, Lawrence and Wishard, p. 321, riportata in WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 182.
163
risorse che verranno allocate secondo il noto criterio «da ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno».68
2. 2. 4. 2. Giustizia e proprietà privata
La concezione liberale della giustizia è criticata dai marxisti anche per la sua quasi
esclusiva concentrazione sulla distribuzione più che sulla produzione di risorse: per
quanto si intervenga al fine di regolare e rendere equa la prima - sostengono i
marxisti - si tratterà di una fatica di Sisifo, poiché la seconda, funzionante
mediante la proprietà privata dei mezzi di produzione, continuerà a ongmare
disuguaglianze e ingiustizie; proprietà, sempre secondo le teorie marxiste, non
corrisponde soltanto a reddito, ma anche, e soprattutto, a potere e controllo sulla vita
propria e altrui: distribuire e socializzare la proprietà dei mezzi di produzione ha un
notevole effetto di riequilibrio nei rapporti tra le classi. Le teorie di Rawls e
Dworkin, tuttavia, non escludono la proprietà privata dei mezzi di produzione
dall'applicazione dei propri principi di giustizia, anzi: Rawls, sebbene si sia limitato
ad accennarla senza approfondirne i contorni, delinea la prospettiva di una
'democrazia a proprietà privata', che prevede una diffusione sociale della proprietà
privata medesima in un senso vicino a quello inteso dai marxisti. Ma in realtà
l'obiezione principale mossa dai marxisti alla giustizia liberale rimane l'idea che di
essa, nella società comuuista, non vi sarà più bisogno: in quel caso non si avranno
più diverse e contrastanti visioni di ciò che è bene, ma si perverrà ad un'identità di
68KARL MARx - FRIEDRICH ENGELS, Selected Works ... cit., pp. 320-21, espressione riportata in WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 187.
164
interessi e a solidi legami affettivi all'interno della società che permetteranno di
soddisfare armonicamente i bisogni di tutti, senza che qualcuno abbia necessità di
rivendicare i propri diritti contro qualcun altro o contro la società. In verità, nota
Kymlicka, questa idea è coerente più con una visione comunitarista che con una
marxista.
Un altro argomento della teoria marxiana è che la proprietà privata non fa altro che
accrescere e complicare le situazioni di povertà: occorre pertanto non solo abolirla,
ma nello stesso tempo puntare al massimo sviluppo possibile delle forze produttive,
per eliminare radicalmente la scarsità di risorse rispetto alla massa dei bisogni
umani; facendo ciò, si toglie materia al sorgere dei conflitti sociali e viene meno
l'esigenza di una giustizia sociale che li dirima. Ma anche questo punto è oggi
ritenuto debole, posto che la scarsità di risorse, lungi dall'attenuarsi, si mostra sotto
nuovi aspetti, quali quelli, ad esempio, dei limiti dell'ecosistema ambientale per le
generazioni presenti e future.
Kymlicka è dell'idea che l'idea marxiana di giustizia e quella liberale muovano da
presupposti non inconciliabili: «tra agire spontaneamente per amore reciproco e
vedere in se stessi e nei propri simili altrettanti depositari di diritti, è molto meglio la
prima alternativa. Ma perché le due possibilità sono alternative? Perché si deve
scegliere o amore o giustizia? In fin dei conti [ ... ] il senso della giustizia è una
precondizione o addirittura una componente dell'amore per gli altri».69 Regolare
giuridicamente alcune relazioni - ad esempio quelle familiari - non ha affatto
eliminato le dimensioni affettive in esse presenti.
69WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 187-88.
165
L'enfasi delle teorie marxiste sulle condizioni di sfruttamento e alienazione
derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, concentrata in poche mani,
si rivela non .rJiù rispondente rispetto alle trasformazioni avutesi nelle società
avanzate sia nel sistema economico che nell'ambito sociale delle forme di povertà
ed emarginazione sociale: nel primo caso, non si tiene conto della forte avanzata del
lavoro autonomo, delle forme di azionariato nelle grandi imprese, della diffusione di
forme cooperativistiche, di impresa sociale e no pro.fil; nel secondo, non si tiene
conto del fatto che la quasi totalità dei poveri oggi non è più rappresentata da
lavoratori sfruttati (il che, semmai, continua ad accadere nel Sud del mondo e in altri
paesi economicamente deboli) ma si trova esclusa dal mercato del lavoro. Ne risulta,
quindi, una inadeguatezza teorica del filone marxista oltre che in se stesso - per via
delle discutibili assunzioni in ordine alla inutilità del concetto di giustizia - anche
rispetto alla propria prassi politica che è improntata all'uguaglianza liberale più di
quanto gli stessi marxisti siano disposti ad ammettere.
2. 2. 5. Il comunitarismo
Come nel caso del liberalismo, anche il comunitarismo non si presenta compatto,
ma articolato e differenziato in diversi comunitarismi, espressione di diverse
posizioni teoriche. Questo paragrafo conterrà una sintesi dei principali aspetti e di
talune sfumature delle concezioni comunitariste elaborate dai principali esponenti di
questa corrente teorica: Alasdair Maclntyre, Charles Taylor, Michael J. Sandel,
Elizabeth H. W olgast.
166
Il comunitarismo valuta in modo del tutto particolare il principio di
autodeterminazione che le altre teorie di cui siamo venuti discorrendo accolgono
tutte come base indiscussa delle proprie argomentazioni sulla giustizia. Tale
principio consiste nel ritenere che tutte le persone abbiano il diritto intangibile di
scegliere per sé il tipo di vita desiderato. (Ciò è tra l'altro in sintonia con le nostre
concezioni intuitive in ordine alla giustizia). I comunitaristi non accettano la
concezione liberale generale dell'autodeterminazione e ritengono che vada dedicata
molta più attenzione alle condizioni sociali entro le quali tale principio possa essere
esercitato.
L'unica limitazione all'autodeterminazione accettata dai liberali è quella operata nei
confronti di chi è oggettivamente incapace (bambini, disabili mentali, persone
definite 'incapaci di intendere e di volere') di affrontare le scelte decisive
dell'esistenza. Il fatto che vi siano persone che fanno un 'cattivo' uso
dell'autodeterminazione non giustifica, per i liberali, ingerenze che avrebbero il
sapore del paternalismo, quando non della violenza: l'assunto di base di questa
posizione è che se le persone scelgono qualcosa, hanno formulato giudizi di valore
ed elaborato ragioni più che valide - dal loro punto di vista - per farlo, ed un
giudizio esterno (per esempio, da parte dello stato) sarebbe inutile o deleterio,
poiché non passerebbe attraverso il vaglio consapevole dell'individuo interessato. In
ogni caso occorre ricordare che i giudizi individuali di valore possono essere rivisti
in vista di una vita realmente buona, e non soltanto di una vita ritenuta buona.
L'autodeterminazione consiste proprio nell'elaborare giudizi di valore, che per
definizione sono difficili da formulare e oltretutto fallibili. Ciò non significa,
167
osserva Kymlicka, che vadano intraprese politiche per scoraggiare azioni e attività
che hanno un fondamento ritenuto erroneo: in linea generale questo equivarrebbe ad
uno stato paternalista che ben pochi, in una società moderna, accetterebbero. Chi
definisce cosa è bene per l'individuo? «Il nostro bene non è né universale né proprio
del singolo individuo: esso ha legami importanti con le pratiche culturali che
condividiamo con gli altri membri della nostra comunità»,70 ma il primo e unico
interprete autorizzato è l'individuo medesimo: è, questo, il 'requisito
dell'interiorizzazione' di cui ha parlato Dworkin. 11 Il paternalismo conduce ad azioni
che per i soggetti coinvolti sono prive di senso e quindi, per definizione, non buone.
L'autodeterminazione, almeno nella visione di Rawls e di qualche altro autore
liberale, non è fine a se stessa, ma consente di «rintracciare l'ottimo». 72
Un modello di stato coerente con questa impostazione dovrebbe possedere il
requisito della neutralità: non fare propria, cioè, alcuna concezione di vita buona né
influire su alcuna fra quelle esistenti. La teoria rawlsiana aveva infatti suggerito di
distribuire i beni principali sulla base di una 'teoria parziale del bene' che consenta
alle persone di impiegare le proprie risorse secondo la visione prescelta di valore e
di vita buona. La società deve limitarsi a promuovere l'interesse fondamentale delle
persone a vivere una vita buona.
Su questi punti si ha un forte conflitto tra liberalisti e comunitaristi: per questi ultimi
lo stato non può essere neutrale, ma deve caratterizzarsi come artefice di una
'_politica del bene comune'. Ma 'neutralità dello staro' e 'politica del bene comune'
70/bidem, p. 227. 71Cfr. RONALD DWORKIN, La comunità liberale, (ediz. orig. 1989), trad. it. in ALESSANDRO FERRARA (a cura
di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 195-228. 72ROBERTNOZICK, Spiegazionifilosofiche, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1987; pp. 355, 450ss.
168
non sono necessariamente contrapposte, dato che la nozione di bene comune non
viene esclusa dai teorici liberali, ma formulata e interpretata come integrazione
politica, economica, sociale degli interessi facenti capo ai componenti di una
comunità in una funzione di scelta sociale. Il bene comune viene ottenuto attraverso
tale integrazione e non già ad opera di decisioni autoritative calate dall'alto.
Nella società comunitaristica, il bene comune definisce una vita buona come lo stile
di vita della comunità, come punto di riferimento rispetto al quale valutare le
preferenze e le azioni individuali: «uno stato comunitarista deve incoraggiare i
cittadini ad adottare concezioni del bene in armonia con lo stile di vita della
comunità, e scoraggiarli dal far proprie concezioni del bene in contrasto con esso».73
Uno dei fondamenti delle teorie comunitariste è la concezione dell'io - alquanto
diversa da quella liberale; la differenza consiste, in sintesi, nel fatto che mentre per i
liberali «l'io viene prima dei fini che persegue»,74 in continuità con quanto affermato
in proposito da Kant, per i comunitaristi l'io è storicamente inserito in una fitta
trama di relazioni sociali da cui è impossibile distanziarsi del tutto per esercitarne
un'analisi critica ed assumere eventualmente posizioni differenziate: «tutti noi
affrontiamo le circostanze della vita come portatori di una particolare identità
sociale. [ ... ] Pertanto ciò che è bene per me dev'essere il bene di uno che abiti
questi ruoli».75 Vi sono degli «orizzonti di autorevolezza della vita, quello cristiano e
quello umanista», cioè i valori comunitari, che «ci impongono degli scopi», 76 da cui
non è possibile distanziarsi mai del tutto, pena l' autoesclusione dalla vita sociale. I
73WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 231-32. 74JOHN RAWLS, Una teoria ... cit., p. 455. 75 ALASDAIR MACINTYRE, Dopo la virtù, trad. it., Milano, F eltrinelli, 1988, pp. 244-45. 76CHARLES TAYLOR, Hegel e la società moderna, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 157-59.
169
liberali, viceversa, sono dell'idea che per l'individuo è sempre possibile osservare
riflessivamente sia le pratiche sociali che i ruoli e i valori sociali in cui esse si
inquadrano, sì da poter anche intraprendere direzioni diverse. La libertà, secondo
quasi tutti i filosofi liberali, non è un valore in sé, ma la condizione necessaria
affinché i progetti di vita buona possano essere valutati ed eventualmente fatti propri
dalle persone. Anche i liberali concordano sull'idea che alcune cose vadano
considerate come un 'dato', poiché di volta in volta ci troviamo entro certe
condizioni o situazioni sociali, ma ciò non significa che non possa essere pensato
qualcosa di diverso dal 'dato', se i nostri giudizi di valore ci spingeranno a farlo.
L'io non è distinguibile dai suoi fini, sostiene Sandel, poiché se lo fosse ciò sarebbe
in contrasto con la nostra autopercezione profonda: egli non crede che ognuno di noi
possa osservare se stesso sciolto dai propri fini «come puro principio di azione e di
possesso, come realtà pressoché inconsistente».77 I liberali rispondono che questo è
vero, però non se ne può dedurre che l'io non possa osservare se stesso come
distinto dai propri fini e quindi esaminarli e discuterli. Ciò che Sandel, ai fini del
suo ragionamento, dovrebbe dimostrare - ma non può farlo - è che noi non
saremmo effettivamente in grado di pensare il nostro io con fini diversi da quelli che
ha.
Un altro appunto rilevante mosso dai comunitaristi al liberalismo verte
sull'atomismo a loro dire presente in quest'ultimo; essi propongono in alternativa
una 'tesi sociale', secondo la quale gli individui per autodeterminarsi e sviluppare le
proprie capacità hanno bisogno di una società con talune caratteristiche: una
comunità con una 'politica del bene comune'. Kymlicka osserva che il liberalismo
170
concorda totalmente con il comunitarismo su questo punto, ma diverge da esso in
ragione del proprio argomento a favore della neutralità dello stato. Il dibattito su
questa dicotomia si articola in tre punti.
2. 2. 5.1. Doveri verso la struttura culturale
Se lo stato deve essere caratterizzato dalla neutralità, in che modo esso potrà tutelare
e salvaguardare forme o vestigia culturali in pericolo di sopravvivenza? Anche
questa contrapposizione, a detta dei liberali, non sussiste, tant'è che Dworkin le ha
dedicato molta attenzione. 78 In sostanza, anche i liberali riconoscono la necessità che
nella società sia sempre disponibile un'ampia gamma di opzioni culturali, ma di
discostano dai comunitaristi poiché ritengono più appropriato a tale scopo il ruolo
attivo della società civile più che dello stato.
2. 2. 5. 2. Neutralità e deliberazioni collettive
Sembrerebbe che il com unitarismo, nell'avanzare la propria interpretazione della
'tesi sociale', sostenga che tale dimensione possa essere adeguatamente soddisfatta
da uno stato che incarni un certo insieme coerente di valori, come se ciò che è
sociale fosse immediatamente identificabile con ciò che è politico e statale, saltando
il livello della società civile e delle sue aggregazioni. Osserva Kymlicka: «di fatto,
si direbbe che nel dibattito sulla neutralità ciascuna delle due parti non abbia saputo
far tesoro della lezione dell'altra. Ignorando secoli di insistenza liberale
77MICHAEL J. SANDEL, Il liberalismo e i limiti della giustizia, trad. it., Milano Feltrinelli, 1994, pp. 94, 100.
171
sull'importanza della distinzione tra stato e società, i com unitaristi continuano a
pensare che tutto ciò che è sociale debba diventare terreno d'azione del politico.
[ ... ] D'altro canto i liberali, ignorando secoli di insistenza comunitaristica sulla
natura storicamente debole della nostra cultura e sulla necessità di studiare le
condizioni di sopravvivenza di una cultura libera, tendono ancora a dare per
scontata l'esistenza di una cultura tollerante e varia, quasi si trattasse di una realtà
naturale e capace di autoalimentarsi, e della cui esistenza una teoria della giustizia
debba limitarsi a prendere atto». 79 Ma dall'esame dei due orientamenti teorici più
significativi della filosofia politica contemporanea - liberalismo e comunitarismo
- Kymlicka ricava elementi che sostengono l'idea che occorra promuovere, da
entrambe le parti, un'analisi comparativa articolata dei pro e dei contro offerti dagli
ambiti e procedure - sia statali che di società civile - di valutazione del bene.
2. 2. 5. 3. Legittimità politica
La critica dei comunitaristi punta l'indice contro la neutralità dello stato che non
garantirebbe così la propria legittimità verso i cittadini, i quali, a loro volta,
sarebbero privi del contesto sociale necessario all'autodeterminazione: cittadini non
legati tra loro da una comune forma di vita darebbero scarso valore alle istituzioni
pubbliche e ai compiti indicati dalla giustizia sociale. Questa posizione
comunitarista viene prop9sta anche come chiave diJettura della crisi di legittimità
che investe le democrazie occidentali contemporanee. Rawls e Dworkin hanno
78Cfr. RONALD DWORKIN, Questioni di principio, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 225. 79WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 250.
172
sostenuto che anche in queste società esiste un fondamento comune della legittimità
che è dato da un comune senso di giustizia e non da una comune concezione del
bene.
L'enfasi sui diritti individuali potrebbe avere incrinato - secondo i comunitaristi -
la legittimità dell'ordine democratico in quanto non si sarebbe prestata la dovuta
attenzione all'adozione pubblica di principi del bene. Ma su quest'ultima questione
le teorie comunitariste non presentano chiare argomentazioni, facendo piuttosto
riferimento a ricostruzioni idealizzate delle società comunitarie del passato, in cui si
aveva una 'politica del bene comune' fondata su partecipazione e lealtà dei membri,
ma che in realtà erano strutturate su forti esclusioni a base sessista, razzista,
confessionale, economica: nella storia non esistono esempi di società di impronta
comunitaria con fini condivisi a partire dai quali venga formulata una 'politica del
bene coinune' resa legittima da tutti i gruppi sociali presenti e non solo da
'maggioranze morali' che escludono e talvolta segregano mmoranze: «1
comunitaristi amano dire che la teoria politica dovrebbe prestare più attenzione alla
storia di ciascuna cultura. Ma a loro volta, sorprendentemente, anch'essi si
impegnano molto di rado in una simile analisi della nostra cultura».80
Il liberalismo, dal canto suo, possiede un carattere di potenziale universalità che
dovrebbe impedire l'emarginazione di gruppi minoritari da parte dei gruppi
dominanti: rimane però il problema dell'applicazione pratica e corretta dei principi
liberali, che però rappresentano «oggi più che mai, la sola scaturigine vitale della
legittimità pubblica».81
80/bidem, p. 256. 81/bidem, p. 258.
173
Nel campo più strettamente politico, se le tesi comunitarie tendono a sfociare o
nell'irrilevanza o nell'intolleranza delle loro pratiche, anche le tesi liberali hanno
sottovalutato cosa significhi realmente creare le condizioni culturali sostanziali, non
solo formali, dell'autodeterminazione. 82 Comunitarismo e liberalismo rappresentano
senz'altro le due principali concezioni a confronto nello scenario della filosofia
politica contemporanea. Alessandro Ferrara mostra come la contrapposizione tra
comunitarismo e liberalismo - senza nulla togliere alle significative discontinuità
teoriche - venga a volte presentata e più spesso percepita con toni più forti di
quanto non emerga ad un attento esame:83 egli, infatti, individua non pochi elementi
comuni alle due prospettive, tra i quali, ad esempio, l'accettazione del pluralismo
delle società moderne, le esigenze di integrazione sociale che un ordine politico non
può disconoscere, l'importanza, storicamente consolidata, dell'appartenenza nella
cultura occidentale. Autori come Ronald Dworkin e Michael Walzer,84 ponendosi
trasversalmente alla linea di demarcazione tra liberalismo e comunitarismo, hanno
offerto spunti interessanti per un universalismo che Ferrara definisce «esemplare e
individuante del giudizio riflettente», 85 che consiste nel situare la domanda circa le
82Un' esauriente antologia che raccoglie e presenta efficacemente alcune fra le posizioni più autorevoli espresse in questo dibattito è ALESSANDRO FERRARA (a cura di), Comunitarismo ... cit. Vedi anche: SALVATORE VECA (a cura di), Giustizia e liberalismo politico, Milano, Feltrinelli, 1996, con una stimolante introduzione del curatore ed un'ampia bibliografia sulle teorie della giustizia; STEFANO PETRUCCIANI, Comunitarismo liberalismo universalismo, in «Parolechiave», 1, 1993, pp. 31-49, nel quale si fa riferimento alla raccolta di saggi CHANTAL MOUFFE (ed.), Dimensions of Radical Democracy. Pluralism, Citizenship, Community, London, Verso, 1992; WOLFGANG KERSTING, Liberalismo, comunitarismo e democrazia, trad. it. in «Filosofia politica», IX, 2, 1995, pp. 181-206; MAURIZIO PASSERIN D'ENTRÈVES, Tolleranza e comunità. Un confronto tra i teorici comunitari e la teoria liberale, in «Teoria politica», VII, 1, 1991, pp. 121-36.
83 ALESSANDRO FERRARA, Introduzione, in ID, Comunitarismo ... cit., pp. IX-LVII. 84Può essere di qualche utilità ricordare l'opera principale di MICHAEL WALZER, Sfere di giustizia, trad. it.,
Milano, Feltrinelli, 1987: l'idea generale in essa sviluppata è che la giustizia sociale (distributiva) va vista pluralisticamente nelle singole sfere di distribuzione di ogni specifica categoria di beni - ognuna delle quali può richiedere criteri specifici - in base al principio dell'eguaglianza complessa, in sostituzione dell'inadeguata nozione di eguaglianza semplice, che si basa sulla dominanza o sul monopolio di una certa categoria di beni rispetto ad altre.
85 ALESSANDRO FERRARA, Introduzione ... cit., p. LV.
174
questioni di giustizia all'interno delle condizioni storiche e sociali di una comunità,
adottando il criterio dell'autenticità, per la quale la migliore soluzione è quella che
valorizza al meglio la concreta identità della comunità, anche in chiave di
. . mnovaz1one.
Del resto, come abbiamo anticipato all'inizio di questo paragrafo, anche il
comunitarismo è un orientamento teorico non monolitico, ma che presenta varietà di
accentuazioni e sfumature. Di ciò può essere espressione la posizione sulla
modernità di Charles Taylor, desumibile da un recente saggio nel quale egli
tematizza il suo disagio riguardo a tale oggetto. 86 Tre sono gli aspetti principali della
modernità attorno ai quali si esprime il disagio del filosofo anglosassone:
l'individualismo, il primato della ragione strumentale e le loro conseguenze sociali.
L'individualismo moderno presenta una forte ambivalenza: per un verso esso ha
consentito uno sviluppo senza precedenti delle libertà individuali, negate e oppresse
nei regimi tradizionali, ma per un altro si è assistito a un declino del senso condiviso
del mondo e delle attività della vita sociale e a fenomeni di involuzione narcisistica:
«il lato oscuro dell'individualismo è il suo incentrarsi sull'io, che a un tempo
appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana
dall'interesse per gli altri e la società». 87
Il secondo elemento di disagio è il primato della ragione strumentale, definita come
«il tipo di razionalità cui ci rifacciamo quando calcoliamo l'applicazione più
economica dei mezzi disponibili a un fine dato. La sua misura del successo è il
86CHARLES TAYLOR, Il disagio della modernità, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1994. 87 Ibidem, pp. 6-7.
175
massimo dell'efficienza, il migliore rapporto costi-prodotto».88 Questo primato, oltre
che accrescere in positivo le potenzialità dell'azione, espone tuttavia al rischio che
la razionalità strumentale possa estendersi impropriamente ad altri ambiti diversi da
quelli misurabili con l'analisi costi-benefici. A ciò si ricollega anche il grande peso
della tecnologia nella vita sociale, estesa ormai a moltissimi ambiti dell'esistenza
quotidiana delle persone. Stato e mercato hanno incorporato 'meccanismi potenti' di
tipo impersonale - le 'gabbie di ferro' di cui aveva parlato Max W eber - i quali, a
certe condizioni, possono avere una forza tale da spingere gli individui che operano
all'interno di certe organizzazioni ad azioni contrarie al senso di umanità e al buon
senso. La dimensione istituzionale, osserva Taylor, non va esclusa dunque da ipotesi
di cambiamento.
Il terzo elemento di disagio, infine, è motivato dalle conseguenze politiche dei primi
due: una limitazione consistente delle nostre scelte ad opera di meccanismi
istituzionali e delle strutture della società industrial-tecnologica, come mostrano, ad
esempio, le questioni relative all'ambiente, a livello sia macrosociale che
individuale. Altra conseguenza significativa è il disinteresse alla partecipazione
politica attiva, di cui già Tocqueville aveva parlato, che aumenta il rischio di
«perdere il controllo politico sul nostro destino, ossia una facoltà che potremmo
esercitare in comune in quanto cittadini».89 Le osservazioni di Taylor non sfociano
però in un rifiuto della modernità o nell'esigenza del suo superamento: sebbene egli
ritenga inadeguato «un semplice compromesso tra v-antaggi e costi» della modernità,
trova più opportuna una riflessione su «come pilotare questi sviluppi [positivi] verso
88/bidem, p. 7. 89/bidem, p. 13.
176
le loro più promettenti potenzialità, e come evitare di scivolare nelle forme
de gradate». 90
Elizabeth W olgast si è domandata se l'attuale enfasi della filosofia politica
contemporanea - o almeno di alcuni suoi orientamenti - sui diritti individuali non
sia eccessiva, con il rischio di offrire a talune situazioni umane una inadeguata
inquadratura teorica. 91
Il concetto di diritto individuale è conseguente a quello di atomismo sociale, per il
quale ogni comprensione della società e della politica deve partire dal singolo
individuo umano. Tale linguaggio presuppone negli individui una capacità di
rivendicare nei confronti di altri l'attuazione del diritto, allo scopo di tutelare e
promuovere la propria dignità personale. Ma esistono talune circostanze reali di
ingiustizia che evidenziano, secondo W olgast, l'inefficacia della concezione
atomistico-individualistica dei diritti: tale è, ad esempio, la situazione dei pazienti
maltrattati negli ospedali da medici o infermieri, i quali hanno su di essi ampi
margini di potere.92 Il malato ospedalizzato ha bisogno di cure ma anche di rispetto,
e tuttavia, proprio perché malato, non è in condizione di rivendicare ciò che
corrisponde ai suoi diritti. Semmai, avrebbe più senso operare un richiamo ai doveri
deontologici di medici e infermieri. Intanto l'impostazione atomistica dei diritti
individuali non considera il fatto che possano esservi delle relazioni di dipendenza
tra soggetti, giacché presuppone che tutte le relazioni siano tra pari: «non c'è posto,
nel modello, per la responsabilità di chiunque verso un altro; ognuno risponde a e di
90lbidem, p. 15. 91 ELIZABETH H. WOLGAST, La grammatica della giustizia, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1991. 92Si tratta di un tema indagato da MICHEL FOUCAULT, Nascita della clinica, trad. it., Torino, Einaudi, 1969.
177
se stesso, punto e basta».93 Analoghe irrazionalità Wolgast nota esaminando un altro
esempio, quello dei diritti dei bambini: anche in questo caso, il fatto che i bambini
siano dipendemi dai propri genitori (e non avendo scelto di esserlo) è ignorato dal
modello, come anche la responsabilità dei genitori nel garantire il rispetto dei diritti
dei propri figli. Questi ed altri esempi di 'diritti sbagliati' sostengono
l'argomentazione di W olgast, tesa a mostrare che «i diritti hanno il proprio posto, un
posto però limitato; non forniscono una panacea morale, un comodo insieme di
giustificazioni cui ricorrere quando si desidera una giustificazione. Vanno usati con
discernimento e discrezione, senza affidarsi ciecamente alla visione atomistica».94
2.2.6. I/femminismo
Anche il femminismo è un orientamento teorico abbastanza variegato, che ha però
la carateristica di porsi in posizione trasversale rispetto ad altri approcci come
liberalismo, socialismo, liberismo. L'elemento comune a tutti i contributi è
senz'altro l'impegno volto all'eliminazione della subordinazione delle donne, anche
se le teoriche femministe divergono fra loro sulla concettualizzazione della
subordinazione femminile e sulle strategie per superarla.
Non ostante il fatto che quasi tutte le teorie politiche dominanti, come si è visto,
condividano un fondamento ugualitario, si è lontani da un pieno riconoscimento e
da un organico impegno mirante ad affrontare la disuguaglianza di genere. Vero è
93ELIZABETH H. WOLGAST, La grammatica ... cit., p. 40. 94/bidem, p. 53.
178
che sempre meno questa discriminazione è stata apertamente difesa e sviluppata, ma
è altrettanto vero che principi filosofici e politiche sociali rimangono largamente
improntati ad un'impostazione che si presenta asessuata ma in realtà rivela la sua
parzialità maschile e il suo scarso o nullo interesse per le esperienze e le esigenze
delle donne.
Per illustrare la tesi centrale del femminismo, Kymlicka presenta tre argomenti: i)
uguaglianza sessuale e discriminazione; ii) il rapporto tra pubblico e privato; iii)
enfasi sulla giustizia versus enfasi sulla cura.
2.2.6.1. Uguaglianza sessuale e discriminazione
L'idea che la subordinazione del ruolo femminile rispetto a quello maschile avesse
un fondamento naturale-biologico ha avuto sostenitori anche nel ventesimo secolo
fra cultori maschi di teoria politica di varia estrazione: questa è una delle radici,
nelle società occidentali, della lunga esclusione delle donne dalla vita economica,
politica, civile e sociale al di fuori della famiglia, in passato sancita anche in norme
giuridiche positive. Gli sviluppi contemporanei sia della teoria che della prassi
politica hanno portato a riconoscimenti formali della totale parità fra i sessi e
all'assunzione di misure volte a garantirla. Ciò però non ha risolto il problema delle
reali condizioni di inferiorità sociale in cui moltissime donne si trovano, tanto che
talune emergenze sociali - povertà, precarietà o inferiorità occupazionale, deficit di
istruzione, violenze sessuali - riflettono in modo evidente una forte
discriminazione di genere.
179
Le principali forme di contrasto alla discriminazione di genere hanno seguito una
strategia volta a far accedere le donne a tutto ciò cui hanno accesso gli uomini,
secondo regole neutre rispetto al sesso: è la strategia delle pari opportunità
(filosoficamente definito come approccio della differenza), oggi ampiamente
diffusa nelle democrazie liberali. La portata ugualitaria di questo approccio è
tuttavia limitata, in quanto esso non fa altro che tentare di rendere più equa la
distribuzione di ruoli codificati dal genere maschile e a misura di esso, cioè secondo
il suo punto di vista - inevitabilmente situato e parziale. Quando, ad esempio, si
tratta di assegnare una posizione lavorativa che può essere ricoperta da persone che
non abbiano responsabilità di bambini piccoli, anche se non vi è alcuna
discriminazione formale o esplicita in base al genere, molte donne non potranno
accedere a quel lavoro, poiché non possiedono quel requisito, dal momento che è
quasi sempre delle donne l'onere della cura dei bambini piccoli: «[ ... ] mentre
l'approccio basato sulla differenza vede nella mancanza di una discriminazione
arbitraria la prova dell'assenza di una disuguaglianza sessuale, tale mancanza di
fatto può essere la prova della sua pervasività. È precisamente perché in questa
società le donne sono subordinate che non c'è bisogno di discriminarle
positivamente. [ ... ] Con l'aumentare delle disuguaglianze sessuali presenti nella
società, aumenterà anche l'identificazione tra istituzioni sociali e interessi maschili,
e di conseguenza verrà meno il bisogno di ricorrere a discriminazioni arbitrarie».95
Anche se - nella sintesi di Kymlicka - l'analisi femminista delle società
occidentali non corrisponde totalmente alla situazione attuale, purtuttavia ne rivela
alcune caratteristiche effettivamente presenti.
95WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 269.
180
Quali sono le conseguenze della critica femminista dell'approccio della differenza
sulle teorie ugualitarie della giustizia?
La disuguaglianza di genere va riformulata, ponendola non come questione di
arbitraria discriminazione ma di dominio, il quale si impone soprattutto sui soggetti
più deboli e più distanti dalla condizione posta come criterio di riferimento, in
questo caso quella maschile.96
Per alcune esponenti femministe, le donne devono poter anch'esse ridefinire i ruoli
sociali e ciò richiede una politica del/ 'autonomia più che una politica
dell 'uguaglianza. 97
Tuttavia, osserva Kymlicka, autonomia ed uguaglianza non sono valori competitivi
ma si richiamano l'una all'altra, trattandosi di principi entrambi peculiari di una
concezione autenticamente liberale della giustizia. Il punto è che eminenti teorici
liberali - a cominciare da Rawls - si sono limitati ad applicare il principio di
differenza senza intaccare più di tanto la tradizionale subordinazione delle donne.
Le ragioni di ciò non stanno, secondo Kymlicka, nell'impianto delle teorie liberali,
in particolare di quella rawlsiana, ma nella sottovalutazione del problema che rende
per così dire reticenti tali teorie: «se i teorici maschi hanno evitato l'approccio
basato sul dominio, ci sono ovvie ragioni di autointeresse».98
96Cfr. CATHERINE MACKINNON, Feminism Unmodified: Discourses on Life and Law, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1987, p. 44.
97Cfr. ELIZABETH GROSS, Feminist Challenges, Socia/ and Politica/ Theory, Boston (Mass.), Northeastem University Press, 1986.
98WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 273.
181
2. 2. 6. 2. Pubblico e privato
I teorici contemporanei della giustizia continuano, nel solco della visione
tradizionale, ad affermare o ad accettare implicitamente che i rapporti interni alla
famiglia - incluse le questioni relative alla disuguale distribuzione del lavoro
domestico e al rapporto tra le responsabilità familiari e quelle lavorative - esulano
dal campo di applicazione della giustizia, posto che si tratta di rapporti privati,
regolati dall'istinto o dalla simpatia naturale. La concezione implicita di famiglia
rimane quella tradizionale, a guida maschile, con una distribuzione sessuata delle
attività economiche esterne e di quelle domestiche e riproduttive. La rilevanza di tali
aspetti nelle dinamiche di relazione tra i sessi fa sì che la famiglia si configuri quale
terreno decisivo ai fini del raggiungimento di una uguaglianza di genere. Le
femministe criticano i liberali perché questi giustificherebbero la necessità di non
ingerenza nei rapporti familiari appellandosi alla loro appartenenza alla sfera
privata, che ne fa un ambito intangibile da parte della regolazione pubblica: si
avrebbe così un contrasto - interno ai principi liberali - tra uguaglianza dei sessi e
distinzione pubblico/privato. In realtà le teorie liberali considerano variamente la
famiglia, ma in ogni caso non la annoverano del tutto all'interno della sfera privata
- intesa come sfera della libertà liberale autonoma dal potere politico (società
civile) - senza però giustificarne in modi razionalmente e moralmente adeguati il
tradizionale assetto a prevalenza maschile: si tratta di una 'triste realtà' per la teoria
politica occidentale.99 L'inadeguatezza della tradizionale distinzione liberale
99 Ibidem, p. 280.
182
pubblico/privato in ordine alla problematica della disuguaglianza di genere induce a
ritenere più corretta una distinzione tra pubblico e domestico.
2.2.6.3. Un 'etica della cura
Collegata alla distinzione pubblico/domestico e alla conseguente divisione sessuata
tra lavoro produttivo extrafamiliare e lavoro familiare e di cura è l'idea, abbastanza
diffusa nella filosofia occidentale, che i due sessi siano portatori di diversi modi di
pensare e sentire, perfino di una diversa moralità: per gli uomini improntata alla
razionalità, scevra da passioni e universalistica, per le donne carica di elementi
intuitivi ed emozionali e perciò particolaristica; l'etica della giustizia e dei diritti è
stata associata a norme, valori e virtù maschili, mentre l'etica della cura e della
responsabilità verso gli altri è stata in genere associata a norme, valori e virtù
femminili. La sfera pubblica necessita di universalismo e, ritenendo che il progetto
morale femminile non possedesse questo carattere, si è trovata una giustificazione
per escludere le donne dalla sfera pubblica.
La diversità di moralità nei due generi ha un fondamento effettivo? E se sì, come va
assunta? Il tema è stato affrontato negli studi di Carol Gilligan, che ha riconosciuto
una diversità nello sviluppo morale delle donne rispetto agli uomini, descrivendola
sinteticamente in questi termini: «secondo questa concezione, il problema morale
sorge quando gli oggetti nei confronti dei quali ci si sente responsabili sono in
conflitto, e non quando vi è conflitto tra i diritti di due soggetti. E la soluzione del
problema richiede una modalità di pensiero contestuale e narrativa piuttosto che
formale e astratta. Una moralità intesa come cura degli altri pone al centro dello
183
sviluppo morale la comprensione della responsabilità e dei rapporti, laddove una
moralità intesa come equità lega lo sviluppo morale alla comprensione dei diritti e
delle norme». 100
Le due prospettive, secondo Gilligan, sono incompatibili. Questo argomento è stato
molto discusso: secondo alcuni, uomini e donne le usano entrambe più o meno
regolarmente; altri ritengono che tale diversità non annulli un'affinità di fondo
nell'approccio alla dimensione morale. La questione, ai fini della nostra indagine, è
«stabilire se, riguardo alle questioni politiche, esista un approccio basato sulla cura
in competizione con l'approccio basato sulla giustizia, e, in caso affermativo, se sia
un approccio superiore». 101 La diversità nella moralità tra uomini e donne viene
analizzata da Gilligan in ordine a tre punti: capacità morali, ragionamento morale,
concetti morali.
2. 2. 6. 3.1. Le capacità morali
L'opposizione, da questo punto di vista, è tra apprendimento di principi morali
(giustizia) e sviluppo di disposizioni morali (cura). Lo spostamento proposto da
Gilligan è dal conoscere i principi morali all'essere persone 'attrezzate' ad agire
moralmente, individuando i bisogni altrui e le soluzioni adatte al loro
soddisfacimento, verso la maturazione, cioè, di una sensibilità morale alla giustizia.
Se, da un lato, questa p_!ospettiva non sembra oggettivamente alternativa a quella
cognitiva ma integrativa in una relazione di reciprocità, è pur vero che le teorie
10°CAROL GILLIGAN, Con voce di donna, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987, p. 27. 101WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 293.
184
liberali della giustizia hanno sottovalutato o poco approfondito l'importanza della
famiglia e di altri mondi vitali nel costruire la sensibilità morale alla giustizia; né,
peraltro, tali teorie hanno chiaramente denunciato l'ingiustizia del modello familiare
a dominanza maschile.
2.2.6.3.2. Il ragionamento morale
Le capacità morali possono fare a meno dei principi morali? Per le teoriche
femministe sì, poiché la moralità delle persone affronta situazioni particolari e non
applica principi universali e astratti. Discernere nelle situazioni particolari gli aspetti
moralmente più rilevanti richiede però uno sguardo ampio alla società e quindi il
ricorso a principi generali che gettino luce su casi dai risvolti spesso complessi. Alla
stessa conclusione si perviene nell'ipotesi di un conflitto tra più richieste
moralmente rilevanti che mettono in crisi l'interlocutore e le sue pur sempre limitate
risorse. Anche in questo caso, dunque, riferirsi a principi o a attenersi alla situazione
particolare non sono in realtà alternative, ma esigenze da considerare e da
conciliare, se ritenute legittime.
2.2.6.3.3. I concetti morali
La riflessione si concentra sulla dicotomia sollecitudine per i diritti e l'equità
(giustizia) versus attenzione alle responsabilità e alle relazioni (cura), in ordine al
contenuto dei principi di cui avvalerci per lo sviluppo della moralità.
185
Un primo argomento avanzato da Gilligan a sostegno del suo punto di vista è che
<<nell'ottica della giustizia l'io come agente morale è la figura che spicca su uno
sfondo di relazioni sociali, e come tale giudica le contrastanti pretese sue e degli
altri sulla base di un criterio di uguaglianza o di uguale rispetto (I' imperativo
categorico, la regola d'oro). Nell'ottica della cura, la relazione diventa la figura che
definisce l'io e gli altri. Nel contesto della relazione, l'io come agente morale
percepisce il bisogno e reagisce a tale percezione». 102 Per 'rete delle relazioni in atto'
si deve intendere non l'insieme delle relazioni effettivamente intrattenute ad un
certo momento, ma un'appartenenza comune a tutti «per il fatto stesso di essere
esseri umani». 103 Se è così, siamo allora in presenza di un principio universale
(I' identificazione simpatetica con tutte le parti in causa) da applicare ad ogni
situazione particolare. Rimane poi il problema di come risolvere dilemmi morali
come quelli che nascono dal dover decidere di rispondere a bisogni in conflitto di
soggetti diversi per posizione nella rete di relazioni (ad esempio tra familiari, amici
intimi, altri).
Un secondo punto porta a riflettere sul rapporto tra la comune umanità delle persone
e la loro propria individualità: l'etica della giustizia, secondo le teoriche femministe,
si occupa esclusivamente dell'altro generalizzato finendo con il trascurare l'altro
concreto di cui si fa carico, invece, l'etica della cura. Anche questa opposizione
rischia di essere enfatizzata più del dovuto da parte delle femministe, se si considera
che entrambe le prospettive in discussione sono universali: l'etica della cura
occupandosi del particolare non nega la comune umanità, così come, per altro verso,
102CAROL GILLIGAN, Con voce ... cit., p. 23. 103/bidem, p. 165.
186
l'etica della giustizia, nel tener conto delle preferenze delle persone, non può
esimersi dal considerare le loro particolari individualità. Alla posizione femminista
ha fatto problema, a tale proposito, la nozione rawlsiana di posizione originaria, che
è stata però da essa fraintesa connotandola di astrattezza: in realtà la posizione
originaria fa chiaro riferimento alla necessità che ognuno impari a porsi dal concreto
punto di vista altrui.
In ultimo Gilligan esamina la differenza tra un ragionamento morale basato su
diritti-pretese (etica della giustizia) ed uno basato sull'accettazione delle
responsabilità verso gli altri (etica della cura): la studiosa femminista sostiene che il
primo si impernia su un meccanismo - i diritti - che in buona sostanza è di
autotutela, in cui i doveri si riducono perlopiù alla reciproca non-interferenza e non
è necessariamente richiesto un interesse positivo verso il benessere degli altri, come
nel caso dell'etica della cura. Questa, tuttavia, appare una lettura critica da
indirizzare ad un bersaglio diverso e cioè alle teorie liberiste, poiché le varie teorie
liberali della giustizia non trascurano affatto il legame diritti-responsabilità verso gli
altri. Parrebbe, a questo punto, che la dicotomia delineata da Gilligan non sia così
netta come da lei argomentato.
C'è però un punto di reale discontinuità che è la valutazione morale del dolore
soggettivo: per i liberali esso vincola moralmente la nostra responsabilità solo se
deriva da un'ingiustizia oggettiva, con il medesimo effetto anche quando da una
ingiustizia oggettiva non scaturisca alcun dolore soggettivo. Per le femministe
l'appello alla responsabilità verso un dolore soggettivo è sempre moralmente
vincolante.
187
I liberali ritengono che non si debba ritenere immorale un dolore soggettivo causato
da colpa o negligenza della persona, poiché occorre pur sempre porre un limite alle
pretese che altri possono avanzare nei nostri confronti: se così non fosse si avrebbe
un'ingiustizia poiché alcuni soggetti, più responsabili, dovrebbero sacrificare i
propri legittimi progetti a beneficio di persone imprudenti e irresponsabili. Ciò
naturalmente ha valore solo per le relazioni tra adulti capaci di intendere e di volere,
escludendo quindi le relazioni con minori, malati, disabili o persone comunque
dipendenti dalle nostre cure e responsabilità.
Osserva Kymlicka: «il dibattito tra cura e giustizia, quindi, non è tra responsabilità e
diritti. Quella di responsabilità, anzi, è una nozione centrale dell'etica della
giustizia». '04 La teoria di Rawls «fa affidamento su una capacità di assumere
responsabilità per i nostri fini». 105 I dolori soggettivi, inoltre, possono sorgere da
aspettative sbagliate perché infondate o illegittime; come può anche accadere che
talune ingiustizie oggettive non vengano percepite dai soggetti oppressi a motivo di
condizionamenti culturali, ma rimangono pur sempre tali, cioè immorali, anche se
non viene espresso un dolore soggettivo.
Vi è poi da contemperare la responsabilità per il proprio benessere personale e
quella verso il benessere altrui, dal momento che una rigida applicazione dell'etica
della cura potrebbe condurre a minimizzare gli spazi per sé a favore dei doveri verso
gli altri, sempre per via dell'incremento delle aspettative di questi nei nostri
confronti. Questa esigenza di equilibrio viene infatti ammessa da Gilligan, 106 ma è
104WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 310. 105JOHN RAWLS, Unità sociale e beni principali, in AMARTYA K. SEN - BERNARD WILLIAMS (a cura di),
Utilitarismo e oltre, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 213. 106CAROL GILLIGAN, Con voce ... cit., p. 152.
188
difficile ricavare da questo passaggio teorico un criterio che indichi una misura,
l'individuazione della quale viene quindi rinviata all'esame della singola situazione
concreta.
Kymlicka ritiene che vadano individuati dei criteri generali: «[ ... ] questo è un
terreno in cui l'astrazione è una virtù importante. Se vogliamo che il libero
perseguimento dei nostri progetti non sia interamente sommerso dalle esigenze
etiche della cura per gli altri, ci servono non solo dei limiti alle nostre responsabilità
morali, ma dei limiti prevedibili. Se vogliamo fare dei progetti a lungo termine,
abbiamo bisogno di sapere in anticipo su che cosa possiamo contare e di che cosa
siamo responsabili». 101
Dal confronto tra etica della giustizia ed etica della cura sembra risultare chiaro che
il vero elemento cruciale di distinzione è il concetto di responsabilità per i propri
fini. Seguendo il ragionamento sin qui condotto, la responsabilità verso altri che
dipendono da noi esulano dall'etica della giustizia - poiché 'invadono' il campo
dei nostri progetti, vincolando moralmente la nostra azione - e si collocano al di là
o al di fuori della vita pubblica. Ciò, però, non risolve i problemi teorici, ma li
ripropone, suggerendo ulteriori indirizzi di ricerca: «dovremo dire allora che la cura
riguarda i rapporti con le persone che dipendono da noi e la giustizia quelli con gli
adulti autonomi? Un problema è che la distribuzione della cura è anch'essa una
questione di giustizia. [ ... ] non è possibile vedere nella cura soltanto un possibile
progetto di vita anziché un vincolo morale per ogni piano di vita. [ ... ]
l'eliminazione della disuguaglianza sessuale esige non solo la redistribuzione del
107WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 312.
189
lavoro domestico, ma anche l'abbandono della distinzione netta tra pubblico e
domestico». 108
Siamo dunque ad una tensione non risolta - e al momento non risolvibile - tra
giustizia e cura, poiché la prima presuppone di essere applicata solo ad interazioni
tra adulti autonomi; la posta in gioco è elevata: <<Una teoria dell'uguaglianza fra i
sessi che non affronti tali questioni e non metta in discussione quelle concezioni
tradizionali della discriminazione e della privacy che ce ne hanno impedito la
visione, non può considerarsi adeguata». 109
108/bidem, pp. 317-18. 109/bidem, p. 319.
CAPITOLO 3 - LA CITTADINANZA OLTRE LE APORIE DELLA MODERNITÀ
3.0. Premessa
La cittadinanza, all'interno del percorso della modernità, ha rappresentato un codice
simbolico e normativo fondamentale per l'integrazione della società. I processi
sociali scaturiti dalla modernità hanno trasformato in profondità le società
occidentali e hanno offerto nuove e significative opportunità di crescita e di
sviluppo agli individui e alle molteplici forme di interazione sociale. Si sono però
anche prodotte contraddizioni, patologie, deviazioni dalla modernità come progetto. 1
Da parte dell'analisi sociologica, filosofica, giuridica, politologica si è dato vita ad
un ampio dibattito su tali questioni, e segnatamente sul fatto se la modernità
rimanga un progetto ancora attuale ancorché incompleto o se sia ormai tramontata
l'era dei 'grandi racconti' che lascia spazio solo al pensiero debole post-moderno o
se, invece, occorra tentare di individuare una prospettiva che superi la modernità e i
suoi limiti senza tuttavia abbandonarne le istanze e le realizzazioni positive. La
posizione assunta all'interno del dibattito sulla modernità influisce notevolmente
anche sulla riflessione in ordine alle vicende della cittadinanza. La prospettiva
sociologica prescelta consentirà inoltre di esaminare in profondità il problema dei
criteri fondativi dello Stato sociale. Rimane perciò centrale affrontare la questione
1Cfr. JOHN BENDIX, Cittadinanza, in Enciclopedia delle scienze sociali, I,. Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1991, pp. 772-777.
192
«se, e se sì, in che senso e in quali modi, la cittadinanza sia o possa essere quel
'qualcosa' che può funzionare da 'cemento' politico della società».2
Scopo di questo capitolo è prendere in esame le teorie sulla cittadinanza - una
delle dimensioni ed espressioni più significative di integrazione politica e di
solidarietà sociale - e di offrire spunti di valutazione critica rispetto alle sfide che
l'attuale contesto societario pone: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare
state, ridefinizione della politica sociale, rapporto società civile-stato. Lungo questo
percorso avremo modo di attraversare sociologicamente i nodi strutturali della
modernità e della post-modernità, enucleando, dall'ampio dibattito scientifico su tali
argomenti, elementi in grado di sostenere un'analisi riflessiva, capace cioè di
esaminare dall'esterno il proprio oggetto.
3.1. Cittadinanza e progetto dell 'Jlluminismo
L'analisi filosofico-politica di Salvatore Veca sui temi della cittadinanza è protesa
verso la prospettiva dell'emancipazione, il cui avvio viene emblematicamente
individuato nella Rivoluzione francese (emancipazione come passaggio di
condizione da schiavi a sudditi, da sudditi a cittadini). L'idea generale è che il
'Progetto Ottantanove' - il complesso valoriale e normativo dato da liberté,
égalité, fraternité - sia ancora sostanzialmente incompiuto nelle democrazie
contemporanee; i problemi, gli squilibri, le tensioni nelle società occidentali
2PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 6.
193
sarebbero da attribuire a questa incompiutezza: «la nozione di cittadinanza è
formulata in una sequenza di argomenti a più stadi, caratterizzata da un
ordinamento. Questo ordinamento è essenzialmente incompleto. E è bene che sia
così, se si prende sul serio una prospettiva emancipatoria». 3 Il compimento di questo
disegno può essere realizzato attraverso la composizione della prospettiva liberale e
di quella socialista - accettando anche le tensioni e le contraddizioni che ciò può
comportare: le due prospettive danno vita ad un «'composto chimico' [ ... ]
letteralmente instabile»4 - entrambe particolarmente significative nella storia della
democrazia moderna. I cardini teorici di una prima versione della cittadinanza
secondo il 'Progetto Ottantanove' sono, come è noto, il riconoscimento dei diritti
individuali attraverso le dichiarazioni, la teoria del valore della scelta individuale, la
teoria del contratto sociale. 5 La conversione di status avviene mediante la
costituzionalizzazione delle libertà individuali, di cui viene istituita la tutela, che
«vincola le scelte sociali alla rispondenza o alla corrispondenza (in una qualche
forma) con le scelte individuali».6 In quest'ottica si presuppone che fra cittadini e
autorità legittima vi sia una relazione diretta, che non ammette corpi intermedi o
società parziali. Si tratta dunque di un assetto istituzionale indifferente o neutrale di
fronte agli interessi, impegnato esclusivamente nella tutela dei diritti morali
individuali; una versione della cittadinanza molto prossima allo stato di diritto nella
3SALVATORE VECA, Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull'idea di emancipazione, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 19.
4/bidem, p. 107. 5 Ibidem, pp. 23-24. 61bidem, p. 25.
194
sua concettualizzazione liberale classica: l'individuo artefice del proprio destino in
posizione di centralità.
La via liberale all'emancipazione si basa sul riconoscimento dell'autonomia cui ha
diritto ogni individuo, riconoscimento che è chiaro retaggio illuministico. Il che
implica necessariamente anche un evidente richiamo all'uguaglianza (nel
godimento e nel riconoscimento dell'autonomia) e, seguendo lo sviluppo storico
delle società moderne, alla differenza.
La posizione marxiana evidenzia la contraddizione fra le due forme di cittadinanza,
quella del citoyen e quella del bourgeois. Con il sorgere dell'idea e delle pratiche di
cittadinanza prende avvio la questione sociale moderna, poiché le disuguaglianze di
dotazioni sociali e culturali e di opportunità vengono ad assumere una diversa
natura, alla luce della definizione di pari cittadinanza per tutti. Marx identifica nel
mercato capitalistico la principale fonte di disuguaglianze; l'incompiutezza della
cittadinanza moderna verrà colmata dalla rivoluzione nei rapporti di produzione. È il
concetto di emancipazione socialista: l'uomo artefice del proprio destino nel senso
della libertà come capacità, a condizione, cioè, che sia garantito a tutti lo sviluppo
delle proprie capacità, tenuto conto delle disuguaglianze naturali e sociali.
L'uguaglianza viene anteposta alla libertà; si punta ad una società senza mercato e
senza stato.
Alexis de Tocqueville ha evidenziato in successione ai diritti di libertà il diritto di
associazione, la libera arfe di associarsi per difendere diritti o promuovere interessi,
anche mediante la rappresentanza politica. Ciò si connette al fatto e al valore del
pluralismo (pluralismo degli interessi e delle espressioni di rappresentanza politica).
195
Nei principi dell'89 la 'nazione' è l'unica forma di identità collettiva cui può dare
luogo la libera scelta di aggregarsi dei cittadini, non essendo ammesso alcun 'corpo
intermedio' fra stato e individui, poiché questi potrebbero farsi portatori di istanze
non coincidenti con la volontà generale. Non sono cioè ammesse identità collettive
alternative a quella di cittadinanza così definita. (Anche nell'odierno ordinamento
statuale italiano, ad esempio, permane traccia di ciò, se si considera, ad esempio,
che il parlamentare eletto in un dato collegio rappresenta comunque l'intera nazione
senza vincolo di mandato). Veca sostiene che «il pluralismo non appartiene
necessariamente all'orizzonte della modernità e alla teoria della cittadinanza»,
essendo piuttosto frutto della differenziazione che si fonda sulla libertà degli
individui: con ciò egli riconosce che la cittadinanza moderna presuppone un
contesto sociale non differenziato, già solo per questo aspetto profondamente
diverso da quello contemporaneo. Le democrazie moderne e contemporanee
contengono irrisolto il dilemma pluralismo-individualismo: in altri termini, l'esito
del diritto di coalizione è dato dal 'conflitto sociale della modernità' ,7 determinato
dall'estensione dei diritti di cittadinanza civili, politici e sociali. s Se Veca afferma
che rimane irrisolto il dilemma individualismo/pluralismo, giacché osserva
correttamente che il pluralismo non è della modernità, viene però da constatare che
esso si è prodotto con la modernità, e dunque ad essa, in quanto processo storico, è
imputabile. Ancora: egli riconosce che lo sviluppo della modernità nel senso
dell'estensione dei diritti individuali genera conflitti sociali, ma la sua analisi non è
7RALF DAHRENOORF, Il conflitto sociale nella modernità, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1989. 8T. H. MARsHALL, Cittadinanza e classe sociale, ( ediz. orig. 1950), trad. it., Torino, Utet, 1976.
196
in grado di andare oltre nell'indicarne le motivazioni, poiché non sottopone a vaglio
critico il 'pregiudizio' moderno circa l'identificazione tra volontà generale e stato.
Lo scopo di un'attuale teoria normativa della cittadinanza non è più quello della
trasformazione dei sudditi in cittadini, ma, ben oltre, quello di «identificare
razionalmente criteri o principi per l'allocazione o la distribuzione di vantaggi e
svantaggi, di costi e benefici della cooperazione sociale per estendere e rendere più
rispondente la versione della cittadinanza sino a tradurla 'costituzionalmente' in uno
status sotto cui descrivere uomini e donne cui ascrivere diritto a beni di cittadinanza,
a eque opportunità fondamentali (sotto la condizione previa della definizione dei
doveri o dei costi, grazie a uno schema di giustizia fiscale [ ... ])».9 Da qui prende le
mosse il tormentato - e anch'esso incompiuto - percorso della teoria democratica,
di cui Veca riepiloga alcuni aspetti salienti: i) il pluralismo organizzato non è solo
conseguenza ma precondizione della democrazia, ii) il pluralismo produce effetti
antimonocratici, tutelando diritti ed opportunità dei cittadini, iii) si attuano tensioni
fra scelte individuali, collettive e delle organizzazioni, iv) vengono erose le basi
dell'uguaglianza politica ('una testa, un voto'), v) la percezione pubblica degli
interessi generali viene distorta, come anche la rappresentanza politica, vi) vengono
incrementati l'agenda politica e il ruolo dell'agenzia politica, vii) la leadership
democratica risulta indebolita, a vantaggio e ad opera delle grandi burocrazie
private, dei modellatori delle preferenze nel 'supermarket delle identità collettive',
dei potentati economici e finanziari.
9SALVATORE VECA, Cittadinanza ... cit., pp. 38-39.
197
Lo stato di diritto evolve in stato sociale, l'agenda politica si amplia, si ridefinisce il
confine fra sfera privata e sfera pubblica: «questa estensione del pacchetto di diritti
da ascrivere allo status di cittadinanza esprime al meglio il mix, il 'composto
chimico instabile', fra gli ideali della emancipazione liberale e quelli
dell'emancipazione socialista». 10
Sulle prospettive del suo approccio ai temi della cittadinanza contemporanea V eca
afferma: «[ ... ]la mia tesi è che il terzo '89, quello che ci è tuttora contemporaneo,
in cui ci poniamo i dilemmi normativi generati dal remoto Progetto Ottantanove,
formuli per noi un'agenda di questioni pertinenti, se prendiamo sul serio l'idea di
valore politico e morale che questo è il miglior passato da cui guardare a un futuro
normativo desiderabile, alla luce di un qualche criterio o insieme di criteri di
giudizio politico e morale, per gli scopi di una filosofia politica della cittadinanza».11
Di quali questioni si tratta? È la sfida dei diritti di 'terza generazione', che
«dipendono [ ... ] da una sorta di riclassificazione analitica di interessi diffusi che
toccano questioni (di sorte e di tempo, quando non di significato) di vita per uomini
e donne». 12 In questa fase di ridefinizione si è animata la corrente post-moderna, che
però a giudizio di Veca nulla toglie alla validità e all'integrità della storia del
grande racconto della cittadinanza moderna e alle sue prospettive attuali. Tali
questioni potrebbero essere: «i) come ridisegnare la mappa dello stato sociale [ ... ]
ii) come tutelare la virtù del pluralismo riducendone i costi? [ ... ] iii) come
mantenere la promessa della correlazione fra scelte individuali e scelte collettive, su
lOJbirJem, p. 42. 11/bidem, pp. 43-44. 12 Ibidem, p. 44.
198
un'arena ristretta a poche, grandi questioni che pertengano a interessi di lungo
termine? [ ... ]iv) come modellare lo status di cittadinanza perché esso mantenga le
caratteristiche di un processo di abilitazione per uomini e donne differenti e non di
un processo di livellamento?». 13
Per affrontare tali quesiti una filosofia politica della cittadinanza dovrà basarsi sulla
«migliore interpretazione possibile di quel grappolo di valori, di quel nucleo
normativo di libertà, eguaglianza, fraternità che è la traccia, vicina, della remota
vicenda del primo '89. Costituzione di libertà (negativa e positiva); eguaglianza
nelle opportunità fondamentali per cittadini e cittadine; solidarietà di cittadinanza
con chiunque, senza sua responsabilità, è svantaggiato con handicap imputabili alla
sorte nelle dotazioni sociali e naturali iniziali, quando non svantaggiato dalle
differenze che istituzioni, inique o inefficienti, sanzionano, costitutivamente o
regolativamente, come ineguaglianze». 14 A ciò si aggiunga l'insopprimibile e
correlata esigenza di formulare regole «per i ruoli degli attori sociali e i confini delle
arene o delle sfere della loro libertà di scelta», 15 tra cui il mercato.
A tale proposito, V eca approfondisce il rapporto fra l'esistenza del mercato in
generale e la teoria normativa della cittadinanza. Il mercato nella sua autonomia da
altre sfere sociali - segnatamente da quella politica - trova la sua motivazione
essenziale nella libertà, ne è espressione: è la visione liberale dello stato di diritto,
che esclude l'uguaglianza distributiva, perché quest'ultima configura una violazione
dei diritti morali individuali e della libertà di scelta individuale. Nella prospettiva
13 fbidem, pp. 46-4 7. 141bidem, p. 47. 15 Ibidem, p. 48.
199
socialista il mercato è connotato negativamente, perché viene individuato
responsabile delle inuguaglianze nei rapporti di produzione, che si riflettono m
asimmetrie in varie altre sfere. «L'argomento socialista ex ante contro il mercato
porta con sé, come implicazioni, l'erosione delle basi non della semplice libertà
negativa, ma dell'intera famiglia di diritti e libertà, inclusa l'elisione della
possibilità del pluralismo. Il mercato [ ... ] risulta così un elemento ineludibile in una
teoria normativa della cittadinanza». 16 Come risolvere, allora, il dilemma
uguaglianza-libertà? La recente teoria democratica punta alla composizione di
entrambe le esigenze, considerando da un lato la migliore efficienza del mercato
rispetto ad altri sistemi di regolazione dell'economia e dall'altro l'arbitrarietà
morale della distribuzione delle dotazioni naturali e sociali iniziali, oltre che
l'inefficienza del mercato in alcuni ambiti e le inuguaglianze ingiuste cui il mercato
può condurre. Occorre, quindi, <mna correzione degli esiti di mercato o una
redistribuzione più egualitaria o meno inegualitaria delle dotazioni sociali iniziali
perché lo schema delle istituzioni politiche e sociali possa essere razionalmente
giustificato per cittadini e cittadine dotate di pari dignità». 17 Veca fa qui riferimento
a un 'paniere di beni sociali primari o di eque opportunità fondamentali' che
vengono affidati alla responsabilità e alla libera scelta di ciascuno.
In conclusione, sembra esservi un'adesione ad un giudizio di valore positivo sulla
modernità che compromette, per taluni aspetti, un equlibrato giudizio critico su di
essa, alla luce del suo sviluppo storico: in particolare, la relazione postulata dal
16/bidem, p. 51. 11/bidem, p. 53.
200
codice moderno tra individuo e Stato è univoca - l'individuo è titolare di diritti di
cui è garante lo Stato, ma non dei doveri necessari al mantenimento e allo sviluppo
degli scopi dello Stato medesimo. La attuale problematica della cittadinanza non
può essere ridotta a questioni meramente redistributive dei vantaggi e dei costi
prodotti dal mercato.
3.2. Cittadinanza versus disuguaglianza sociale
L'opera di T. H. Marshall è senz'altro il riferimento classico fondamentale sul tema
della cittadinanza nell'ambito della teoria sociologica. Egli parte dal considerare il
processo di costruzione della democrazia industriale britannica nel suo sviluppo
storico, sociale e politico, individuando nella cittadinanza la chiave di lettura di
alcuni fra i più significativi mutamenti avutisi in quella società. I temi approfonditi
nella sua analisi possono essere ricondotti a tre aree: i) la definizione del concetto di
cittadinanza e dei suoi contenuti normativi, ii) la sua dinamica evolutiva, iii) le
relazioni tra i diritti di cittadinanza e le disuguaglianze sociali derivanti dal mercato.
Cos'è la cittadinanza? «La cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che
sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che posseggono questo
status sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status. Non c'è
nessun principio universale che determini il contenuto di questi diritti e doveri, ma
le società nelle quali la cittadinanza è un'istituzione in via di sviluppo presentano
l'immagine di una cittadinanza ideale rispetto a cui si possono misurare le conquiste
ottenute e verso cui le aspirazioni possono indirizzarsi. La spinta in avanti lungo il
201
sentiero così tracciato è una spinta verso un maggior grado di uguaglianza, un
arricchimento del materiale di cui è fatto lo status e un aumento del numero delle
persone cui è conferito questo status». 18
La portata radi~almente innovativa della concettualizzazione marshalliana emerge
ancora di più nella sua articolazione interna: il sociologo inglese, secondo un'analisi
«dettata dalla storia ancor più chiaramente che dalla logica», distingue al suo interno
tre elementi - il civile, il politico, il sociale - cui fanno capo degli insiemi
specifici di diritti e le istituzioni pubbliche più vicine all'esercizio di una gamma di
diritti. Al 'civile' corrispondono così i diritti di libertà individuale, di possedere cose
in proprietà e di stipulare contratti, a ottenere giustizia; le istituzioni più
direttamente implicate sono le corti di giustizia. Il 'politico' include i diritti alla
partecipazione attiva e passiva all'esercizio del potere politico; le istituzioni
coinvolte sono il parlamento e gli organi amministrativi locali. L'elemento 'sociale'
della cittadinanza è ampio e variegato, comprendendo dal diritto ad un livello
minimo di sicurezza e benessere di tipo economico al diritto ad intrattenere normali
relazioni sociali da persone civili; le istituzioni maggiormente collegate a tale
elemento sono il sistema scolastico e i servizi sociali. 19
Sebbene la cittadinanza nei suoi aspetti sia caratterizzata da una tensione verso
l'uguaglianza, la sua evoluzione è strettamente collegata allo sviluppo del
capitalismo «che è un sistema di disuguaglianza, e non di uguaglianza».2° Come è
stata possibile la compresenza di principi così divergenti? Per Marshall, nella prima
18/bidem, p. 24. 19/bidem, p. 9. 20/bidem, p. 24.
202
fase della cittadinanza il riconoscimento dei diritti civili agli individui era necessario
allo sviluppo del mercato e, dunque, la logica (civile) dello status e quella
(mercantile) del contratto conducevano nella medesima direzione: solo individui
tutelati nella loro integrità personale avrebbero potuto dare vita ad una libera
competizione economica. La cittadinanza politica, invece, contiene principi in grado
di minacciare la logica antiugualitaria capitalistica, poiché segna l'ingresso delle
classi lavoratrici nelle istituzioni politiche delle democrazie liberali: questa fase
segna infatti l'avvio del riformismo del Novecento, del riconoscimento dei diritti
sociali, della nascita e della crescita quantitativa e qualitativa dei sistemi di
sicurezza sociale.
Marshall è dell'idea che la cittadinanza sociale non abbia forza sufficiente per
battere l 'antiugualitarismo del mercato, potendone tutt'al più contenere taluni effetti
negativi mediante un miglioramento della qualità della vita a favore dei soggetti
meno avvantaggiati nella stratificazione sociale. Questa seppur limitata
compenetrazione tra tendenza ugualitaria dei diritti sociali e tendenza antiugualitaria
del mercato è ormai abbastanza radicata, sostiene Marshall, e non è più possibile
espungere la cittadinanza sociale dall'economia di mercato delle società moderne. 21
21Quanto affermava Marshall troverà conferma, ad esempio, nella vicenda politico-sociale della Gran Bretagna thatcheriana degli anni '80, quando al massiccio piano governativo di deregulation, privatizzazioni e altre misure neo-liberiste non fece seguito una drastica diminuzione degli stanziamenti per ammortizzatori sociali. La medesima dinamica può tuttavia essere interpretata anche secondo una diversa ottica: il governo britannico conservatore non operò tagli alla spesa sociale di taglio più assistenziale ma non introdusse nelle politiche sociali ed economiche quelle innovazioni che avrebbero forse prevenuto o almeno attenuato l'ingrossarsi· della underclass di poveri ed esclusi che popola soprattutto le metropoli e le aree depresse del paese.
203
La cittadinanza non è in grado di eliminare le disuguaglianze ma finisce con
l' «alterare la struttura della disuguaglianza sociale» :22 dal terreno dello status (che
era quello investito dalle disuguaglianze premoderne) si tende ad uno spostamento
verso quello dei redditi e di taluni consumi privati. Considerando questi effetti
unitamente ad altri caratteri ugualitari delle democrazie moderne (diffusione delle
tutele sindacali e assenza di privilegi ereditari), Marshall osserva che la
disuguaglianza è di gran lunga meno intollerabile rispetto al passato e che, con il
progredire dei sistemi di protezione sociale, tenderà ad alleggerirsi ulteriormente.
L'opposizione tra cittadinanza e mercato, conclude il sociologo inglese, non
conduce a conflitti insuperabili: attraverso compromessi sociali, si configura anzi
come fattore di stabilità e di sviluppo delle democrazie industriali.23
3. 2.1. Critiche a Marshall: Giddens, Barba/et, Held
L'ottimismo della tesi marshalliana trova oggi non pochi critici fra i sociologi che
hanno indagato le vicende della cittadinanza. Prenderemo brevemente in esame le
posizioni, tra gli altri, di Anthony Giddens, Jack M. Barbalet, David Held.
Giddens non condivide l'idea marshalliana di linearità e gradualità dello sviluppo
della cittadinanza, che sarebbe agevolato da un circolo virtuoso Stato-mercato: in
questo quadro non emerge il conflitto sociale e politico, attivato soprattutto
attraverso le lotte delle classi operaie, che invece ha avuto un peso non marginale.
22T. H. MAR.sHALL, Cittadinanza ... cit., p. 63. 23 Ibidem, p. 71.
204
Poiché, inoltre, taluni risultati ugualitari sono ancora da conseguire, tale conflitto
rimane aperto. 24
Barbalet si ripropone di analizzare le condizioni economico-sociali in presenza delle
quali i diritti di cittadinanza non rimangano mere affermazioni formali. 25 Egli
sostiene che oltre all'antinomia, segnalata da Marshall, tra antiugualitarismo del
mercato e ugualitarismo della cittadinanza, vi sono significative tensioni interne alla
cittadinanza stessa, tra le varie categorie di diritti di cui essa si compone: l'esercizio
dei diritti civili di libertà aumenta il potere dei titolari, mentre l'esercizio dei diritti
sociali prevede il consumo di prestazioni che devono essere erogate dallo Stato.
Secondo Barbalet - e su questo punto, come si vedrà più avanti, concorda anche
Danilo Zolo - è improprio annoverare i diritti sociali fra i diritti di cittadinanza,
almeno per tre ordini di motivi: i) essi non sono diritti di partecipazione ad una
common national community, ma rappresentano condizioni pratiche utili a
parteciparvi; ii) i diritti sociali fanno riferimento a pretese di prestazioni
particolaristiche e selettive, mentre i diritti devono essere formulati secondo
universalità e formalità; iii) i diritti sociali possono essere attuati solo in presenza di
un'efficiente economia di mercato, di un'articolata struttura amministrativa e
professionale, di un adeguato sistema fiscale. Barbalet ne ricava che è più corretto
24ANTHONY GIDDENS, Class Division, Class Conjlict and Citizenship Rights, in ID., Profiles and Critiques in Socia/ Theory, London, Macmillan, 1982, pp. 171-73, 176.
25JACK M. BARBALET, Cittadinanza. Diritti, conflitto e disuguaglianza sociale, trad. it., introduzione e cura di DANILO ZOLO, Padova, Liviana, 1992.
205
definire i diritti sociali come conditional opportunities, che consentono il pieno
esercizio dei diritti civili e politici di cittadinanza.26
Secondo Held la complessità della cittadinanza moderna non può essere tematizzata
esaustivamente da una 'concezione ristretta' che guarda soltanto al suo rapporto con
la stratificazione sociale e il sistema capitalistico: occorre anche considerare le
disuguaglianze di genere, razziali, tra generazioni e le tematiche ambientali. La
cittadinanza deve inoltre guardare al di là dei confini dello Stato-nazione: la
globalizzazione sta allargando sempre di più la distanza fra i diritti nazionali di
cittadinanza, la legislazione internazionale e le relazioni sociali. 21
Danilo Zolo concorda con Held sulla necessità di superare la concezione marxista di
cittadinanza, rivelatasi inadeguata alla complessità della società contemporanea, in
quanto vista solo strumentalmente come alternativa graduale e pacifica alla
rivoluzione socialista, e non come fine:28 il punto, infatti, è riflettere su quali spazi vi
siano per una cittadinanza autenticamente democratica nella società postindustriale
in termini di autonomia individuale e non solo di libertà negativa. Egli invece non
condivide l'istanza di Held ad estendere la cittadinanza a quasi ogni genere di
rivendicazione normativa (sono qui ricompresi anche i diritti di terza e quarta
generazione - diritto ad un ambiente sano e diritto alla preservazione da
26Per una posizione contraria a questa, cfr. LUIGI FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 263-92, di cui daremo conto infra.
27DAVID HELD, Citizenship and Autonomy in ID., Politica/ Theory and the Modern State, Stanford, Stanford University Press, 1989, pp. 189-213.
28DANILO ZOLO, Prefazione ... cit.
206
manipolazioni genetiche nocive all'integrità degli individui e della stessa specie
umana- cui fa cenno Norberto Bobbio).29
Luigi Ferrajoli contesta l'idea sociologica marshalliana di cittadinanza, a suo
giudizio troppo distante da quella giuridica al punto da stravolgerne il significato
originario:30 la cittadinanza è un argomento per il quale il riferimento al diritto
positivo è imprescindibile, posto che «i diritti, al pari dei doveri e delle altre
situazioni giuridiche, non sono quelli che giusnaturalisticamente identifichiamo
come rispondenti a istanze di giustizia, o di ragione, o di efficacia o anche di
concreta soddisfacibilità. Essi sono quelli e solo quelli performativamente prodotti
dalle leggi, siano esse costituzionali o ordinarie, indipendentemente dalla loro
coerenza o incoerenza, dalla loro plausibilità o non plausibilità e dalla loro maggiore
o minore effettività».31 La sociologia, osserva Ferrajoli, non può attribuirsi 'funzioni
legislative', stabilendo quando si abbia un diritto (di cittadinanza o di altro genere) e
quando no, prescindendo dalle leggi positive: i diritti presenti negli ordinamenti
vanno 'presi sul serio' .32 Non si può, poi, affermare - come fa Marshall - che la
cittadinanza è il contenitore di tutti i diritti civili, politici e sociali o di altro genere,
attuali e a venire, giacché verrebbe a perdersi la nozione giuridica di persona e dei
suoi diritti, da tenere distinti da quelli del cittadino, che sono essenzialmente quelli
politici. La cittadinanza è uno status che caratterizza gli appartenenti ad un
-29-Cfr. NORBERTO BOBBIO, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990. 30LUIGI FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ... cit. 31/bidem, p. 275. 32La critica di Ferrajoli si indirizza anche contro le posizioni volte a configurare come 'servizi sociali' i
cosiddetti diritti sociali di cittadinanza (alla salute, al lavoro, all'istruzione, alla sussistenza eccetera), in quanto sprovvisti di apposite procedure per regolarne l'esercizio ed esigerne l'adempimento (azionabilità): cfr. JACK M. BARBALET, Cittadinanza ... cit.; DANILO ZOLO, La strategia della cittadinanza, in Io., (a cura di), La cittadinanza ... cit., pp. 3-46.
207
ordinamento politico-statuale rispetto a chi non vi appartiene, e non altro; nessun
ordinamento democratico potrebbe fondatamente pretendere di negare i diritti civili
o taluni diritti sociali (ad esempio salute, equa retribuzione) a non cittadini, il che
dimostra come tali diritti non facciano parte della cittadinanza in senso giuridico.
Taluni ordinamenti giuridici hanno favorito l'equivoco, riservando ai soli cittadini la
titolarità di diritti che in realtà sono da riconoscere a tutti gli esseri umani, pena la
produzione di pesanti e ingiuste discriminazioni. Abbiamo già avuto modo di
raccogliere un'osservazione abbastanza netta di Ferrajoli circa la portata di
esclusione e discriminazione della cittadinanza contemporanea, che egli ha poi
sviluppato in direzione di una proposta tesa al superamento della cittadinanza
nazionale: la prospettiva è quella del compimento di un costituzionalismo mondiale
che - già avviato con le convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo -
riconosca, non senza un certo carattere di 'utopia giuridica' che lo stesso autore
ammette, tutti i diritti fondamentali, anche quelli di circolazione e di residenza, alla
persona anziché al cittadino e abolisca i confini statuali, ponendo così le premesse
per una seria assunzione di uno sviluppo sostenibile ed equilibrato tra Nord e Sud
del pianeta da parte dei paesi oggi più avanzati. La posizione di Ferrajoli suscita nel
complesso interesse, giacché chiarisce la nozione giuridica attuale di cittadinanza e
segnala puntualmente i rischi e le ambiguità che sorgono quando a tale specifica
nozione si intenda in modo improprio attribuire (o 'scaricare') il compito di
assumere e risolvere problematiche di genere squisitamente politico e sociale.
L'argomento di F errajoli, dunque, riconduce la questione della crisi della
208
cittadinanza moderna alla riflessione sociologica sulle forme di integrazione sociale
e politica nelle società della post-modernità.
3.2.3. La cittadinanza repubblicana: Zolo e Habermas
Zolo approccia il concetto di cittadinanza come <mn'idea strategica ed espansiva,
capace di coprire almeno in parte il vuoto teorico che si è aperto con la crisi dei
'paradigmi ricevuti' del socialismo e della liberaldemocrazia»,33 due famiglie di
teorie e di prassi politiche radicate profondamente nella modernità ed entrambe in
crisi, sebbene con motivazioni storiche e modalità alquanto differenti. Quello di
Zolo è un tentativo volto a costruire una concezione e una pratica della democrazia
che salvaguardi i valori della tradizione liberaldemocratica senza però ridursi in
espressioni formalistiche o proceduralistiche. L'idea che egli sviluppa è quella di
una cittadinanza 'repubblicana' che si richiama in parte alla teorizzazione di Jiirgen
Habermas e si fonda sull'esercizio attivo dei diritti civili e politici da parte dei
cittadini e nella quale le affinità etnico-culturali entrino in gioco solo nella
definizione delle identità collettive ma non in quella dei diritti di cittadinanza: «la
componente repubblicana della cittadinanza si svincola dall'appartenenza ad una
comunità prepolitica, integrata sulla base della discendenza, della tradizione o della
lingua comune. [ ... ] La nazione dei cittadini non trova la propria identità in affinità
etnico-culturali, ma nella prassi dei cittadini stessi che esercitano attivamente i
33DANILO ZOLO, Prefazione in ID. (a cura di), La cittadinanza ... cit., pp. IX-X.
209
propri diritti democratici di partecipazione e di comunicazione».34 Le trasformazioni
dello Stato-nazione e il processo di integrazione politica europea disegnano scenari
profondamente diversi del rapporto tra cittadinanza e identità nazionale, che
mostrano come le tensioni tra capitalismo e democrazia, lungi dall'attenuarsi,
continuino ad attraversare le società occidentali. Il modello repubblicano di
cittadinanza ad Habermas non sembra, così com'è, adeguato alla complessità delle
società moderne, nelle quali la 'sovranità civica' dei cittadini è altamente
istituzionalizzata o lasciata nell'informalità che caratterizza la formazione delle
opinioni e delle volontà; un modello plausibile è quello di politica deliberativa,
connotato «dall'intreccio di quelle diversificate forme di comunicazione che
dovrebbero certo essere organizzate in modo da presumere di vincolare
l'amministrazione pubblica a premesse razionali e, seguendo questa via, di
disciplinare anche il sistema economico secondo punti di vista sociali ed ecologici,
senza contrastarne la logica. [ ... ] Solo nel caso in cui si realizzasse un simile gioco
combinato fra la formazione istituzionalizzata dell'opinione e della volontà da una
parte, e le comunicazioni pubbliche informali dall'altra, la cittadinanza potrebbe
anche oggi significare qualcosa di più che l'aggregazione degli interessi prepolitici
del singolo e il godimento passivo di diritti conferiti in modo paternalisticm>.35 La
concezione habermasiana manifesta però un certo sbilanciamento verso il
proceduralismo, per quanto 'democratico', e verso le potenzialità positive
intrinseche della comunicazione razionale.
34Cfr. JORGEN HABERMAS, Cittadinanza politica e identità nazionale, in ID., Morale, diritto, politica, trad. it., Torino, Einaudi, 1992; ID., Cittadinanza e identità nazionale, trad. it., in «Micromega», 5, 1991, pp. 123-146.
210
Zolo ritiene che l'attuale crisi della cittadinanza nelle società occidentali sia
riconducibile in buona sostanza ad una serie di tensioni interne, che è possibile
riunire in tre gruppi.
Un primo tipo di tensioni concerne l'opposizione tra diritti acquisitivi e diritti non
acquisitivi che è espressione della incompatibilità di fondo tra libertà ed
uguaglianza. Secondo l'idea prevalente fino a qualche tempo fa, l'affermazione -
in termini di riconoscimento giuridico e implementazione - dei diritti di
cittadinanza è stata ritenuta corrispondente all' inveramento progressivo
dell 'uguaglianza,36 che avrebbe attenuato le disuguaglianze derivanti dal mercato
conducendole dall'ambito dello status a quello dei consumi privati. Ma gli sviluppi
successivi delle performances dei sistemi di welfare si sono incaricati di mostrare
l'inconsistenza e il valore ideologico dell'equazione marshalliana: nelle società
occidentali i fenomeni di povertà, lungi dallo scomparire, si sono trasformati ed
evoluti, presentandosi anche sotto forme inedite, la disoccupazione non ha cessato
di attanagliare larghe fasce di popolazione, le disuguaglianze di genere e a base
etnica permangono. Tutto ciò compone un quadro preoccupante di esclusioni
dall'esercizio dei diritti di cittadinanza, imprevisto da analisi forse wishful thinking
come quella pur meritoria, perché pionieristica, di Marshall. Si direbbe, anzi, che i
diritti di cittadinanza, così come sono formulati e agiti, costruiscono condizioni di
disuguaglianza; Zolo cita l'esempio di diritti - come l'autonomia negoziale, la
libertà di associazione, la libertà di stampa, la libertà d'iniziativa economica e
35JORGEN HABERMAS, Cittadinanza e identità nazionale ... cit., p. 137. 36Cfr. T. H. MARSHALL, Cittadinanza ... cit., dell'ottimismo del quale a tale riguardo abbiamo già avuto modo
di discutere in questo capitolo.
211
finanziaria - che, se esercitati a certe condizioni, consentono a chi ne è titolare di
acquisire potere politico, economico, comunicativo, creando quindi asimmetrie e
squilibri all'interno della società. La conclusione di Zolo è che una certa parte dei
diritti di cittadinanza è - nonostante ogni intenzione positiva - in grado di
produrre disuguaglianza. e' è da aggiungere, inoltre, che la posizione del cittadino,
rispetto al potenziale esercizio della sua cittadinanza, cambia radicalmente a
seconda di come i soggetti forti della cittadinanza (partiti, sindacati, imprese,
burocrazie pubbliche, professioni, organizzazioni segrete ... ) trattano le istanze
politiche ed economiche, discriminando fra quelle di cui sono portatrici le
organizzazioni a maggiore forza organizzativa, le associazioni meno strategiche
nella divisione del lavoro o la massa maggioritaria di cittadini consumatori
atomizzati e non aggregati. La portata strategica dell'affiliazione corporativa
rispetto all'esercizio della cittadinanza è ancor più evidente per gli immigrati extra-
comunitari. A questa considerazione di Zolo si può però affiancare l'idea che
l'aggregazione organizzata degli interessi, pur essendo un fenomeno tipico delle
società moderne, non è contemplata dall'attuale codice simbolico e normativo della
cittadinanza: il problema segnalato da Zolo è reale, ma non può essere affrontato
soltanto con il rafforzamento dei diritti individuali per chi non è affiliato,
richiedendo una più adeguata tematizzazione - in termini di diritti e obblighi -
dello status delle aggregazioni organizzate di interessi.
Un secondo genere di tensioni è individuabile tra l'esercizio dei diritti di
cittadinanza e l'autonomia individuale (da non intendere qui in senso ontologico ed
etico). Il riferimento è allo squilibrio esistente fra la libertà dei produttori di
212
informazione e comunicazione attraverso i vari media e la vulnerabilità degli utenti-
consumatori in termini di capacità di orientamento e autoidentificazione rispetto a
questo tipo di offerta di mercato. L'effetto negativo si ha non solo per la eventuale
trasmissione di contenuti selettivi o distorti, ma per la veicolazione delle stesse
griglie selettivo-distorsive adottate dai produttori di comunicazione. Anche in
questo caso il carattere oligopolistico del mercato dei media, basato sul diritto alla
libertà di comunicazione e su quello all'iniziativa economica, non è adeguatamente
controbilanciato sul versante dei singoli consumatori.
La terza forma di tensioni si ha, infine, fra i diritti di cittadinanza e le attuali
tendenze globalizzanti, soprattutto nel sistema economico-finanziario, nelle
comunicazioni di massa, nello sviluppo tecnologico, nella questione ambientale.
L'opposizione è sostanzialmente tra il modello della cittadinanza basato
sull'appartenenza nazionale e le spinte verso forme 'cosmopolitiche' di governo. 37
Secondo alcuni autori - fra i quali Antonio Cassese e David Held- la tendenza è
verso un ampliamento dell'ambito di applicazione delle normative internazionali a
tutela dei diritti dei cittadini. 38 Ma anche questa potrebbe configurarsi come una
forma di ottimismo non sufficientemente fondato, in primo luogo per motivi
giuridici: non è possibile ad oggi pensare ad un ordinamento giuridico
internazionale del tutto paritario - che disconosca cioè le differenze tra
superpotenze e stati deboli - e dotato di una giurisdizione in grado di imporsi con
forze proprie e non dei singoli stati membri. Non si può inoltre trascurare il fatto che
37Cfr. DANILO ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995. 38Cfr. ANTONIO CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1984;
DAVID HELD, Citizenship ... cit.
213
le principali organizzazioni internazionali attuali (Organizzazione delle Nazioni
Unite, Unione Europea) dispongono di organi istituzionali che non rispettano i
principi basilari della liberaldemocrazia: i parlamenti non hanno funzioni legislative,
gli organi legislativi non sono espressione dei cittadini e quelli di governo traggono
origine da accordi fra i governi degli stati membri. Inoltre, la chiusura delle società
occidentali di fronte ai flussi di migranti dal Sud del mondo e dall'Est europeo è un
ulteriore, potente fattore di crisi della cittadinanza moderna a fronte di questi aspetti
della globalizzazione.
3. 2. 4. Cittadinanza tra appartenenza e diritti
Pietro Costa traccia una ricostruzione storiografica delle origini del concetto di
cittadinanza;39 esso, secondo la formulazione maturata nella Francia rivoluzionaria
del 1789, ha due nuclei fondamentali, l'idea rousseauiana di sovranità nazionale e
l'idea lockiana di proprietà:40 si può parlare, pertanto, della configurazione moderna
della cittadinanza in termini di 'appartenenza' (alla nazione-sovrana) e 'diritti', una
polarità che genera frizioni tra i due estremi, tra Stato e individuo. L'idea di fondo è
dunque che il soggetto esiste, ed è titolare di diritti, in quanto appartiene ad uno
Stato-nazione; 'cittadino' è ciò che fa da medium tra 'uomo' e 'sovranità'. Tale
polarità è ugualmente presente, nella sostanza, sia nella cultura giuridico-politica
39PIETRO COSTA, La cittadinanza: un tentativo di ricostruzione 'archeologica', in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 4 7-92.
4°Vedi anche, su quest'ultimo aspetto, PIETRO BARCELLONA, L'individualismo proprietario, Torino, Boringhieri, 1987.
214
dell'illuminismo rivoluzionario che m quella positivistica dell'Ottocento:
quest'ultima, ponendo l'accento sulla solidarietà sociale e sulla funzione
organicizzante della cultura e delle istituzioni rispetto all'individualismo, rinvia di
nuovo all'idea, moderna, di un'appartenenza dell'individuo allo Stato verso il quale
- e qui si ha la discontinuità con la fase illuministica - è legittimo nutrire
aspettative di interventi di sostegno alla coesione sociale ai vari livelli, ciò che verrà
formalizzato nei diritti sociali. La cittadinanza si arricchisce di nuovi contenuti
formali e sostanziali, ma resta immutata nella sua funzione di medium esclusivo tra
individuo e Stato. Le tre categorie di diritti di cittadinanza - civili, politici, sociali
- sono tuttavia espressione di diverse antropologie di estrazione moderna che si
intersecano e convivono, non senza contraddizioni: quella tipicamente lockiana
dell'individuo proprietario, titolare dei diritti civili necessari a far fronte ai bisogni
'naturali', quella positivistica che enfatizza la preminenza delle esigenze sociali e
collettive rispetto ai bisogni individuali.
Le osservazioni di Costa offrono spunto per formulare un'ipotesi in ordine alla crisi
della cittadinanza moderna. Appartenenza e diritti nella loro formulazione moderna
sono entrambi in crisi, attraversano cioè una fase di profonda trasformazione: la
prima per via del sempre più evidente indebolimento teorico e fattuale dell'idea di
Stato-nazione e della differenziazione e riposizionamento reciproco tra politico e
statuale; i diritti, i) in quanto concepiti secondo un universalismo astratto che oggi
non riesce più a dare - risposte soddisfacenti a tutti, assumendo differenze e
pluralismi e ii) poiché, sempre meno riconducibili alla cittadinanza nazionale,
215
mancano di un chiaro riferimento sociale e istituzionale per ciò che va al di là delle
appartenenze nazionali.
Inoltre, è sicuramente arduo formulare una nuova e più convincente definizione di
cittadinanza - come anche dei concetti di appartenenza e diritti - in assenza di
una non confusa e non contraddittoria antropologia; proprio di questo avverte
l'esigenza Pietro Barcellona quando afferma che «la neutralizzazione della volontà
di dominio, la violenza latente o esplicita nel sistema dell'economia-mondo chiama
in causa altre forze: oltre la razionalità calcolistica, oltre le mitologie della giustizia,
occorre riaprire il tema della costituzione della 'persona' e del suo stare insieme ad
altre 'persone'».41 Ma su tali argomenti avremo modo di ritornare più avanti.
La nozione moderna di cittadinanza non può fare a meno - come si è visto - di
quella di appartenenza: in svariate definizioni essa è elemento fondamentale.42 Luca
Baccelli osserva come l'appartenenza sia un aspetto poco presente nel dibattito
filosofico e politologico italiano sull'argomento. 43
Il rapporto tra appartenenza e diritti solleva numerose questioni, molte delle quali
emerse nel dibattito filosofico tra liberali e comunitaristi.44 Alcuni limiti della
visione liberale sono stati efficacemente posti in luce dalle critiche comunitariste:
basti pensare alle difficoltà a tematizzare in termini individualistici la coesione
41 PIETRO BARCELLONA, A proposito della cittadinanza sociale, in «Democrazia e diritto», XXVIII, 2-3, 1988, pp. 15-30; p. 29.
42Per Marshall, come si è visto, essa è «uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno titolo di una comunità»; inoltre, «la fonte originaria dei diritti sociali è da cercarsi nell'appartenenza alle comunità locali ed alle associazioni funzionali» (T. H. MARsHALL, Cittadinanza... cit., pp. 24, 18). Per Barbalet «la cittadinanza può essere facilmente descritta come la partecipazione o l'appartenenza ad una comunità» (JACK M. BARBALET, Cittadinanza ... cit., p. 30).
43LUCA BACCELLI, Cittadinanza e appartenenza, in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 123-65.
44Per i termini essenziali di tale dibattito, vedi supra, capitolo 2.
216
sociale, la costituzione dell'identità individuale e l'autonomia individuale, come
anche l'impossibilità di dimostrare che i principi liberali - tra cui gli stessi diritti e
la tolleranza - non hanno un fondamento filosofico universale, ma sono frutto di
determinate circostanze storiche e culturali (la modernità delle società occidentali).
Per altro verso, emerge la fragilità della parte propositiva del comunitarismo, che si
ritrova spesso a saltare la distinzione tra il piano analitico e quello normativo
relativo all'etica e alla politica. I comunitaristi fanno appello alla tradizione
anglosassone del repubblicanesimo civico classico45 e alle sue concezioni di libertà
positiva come controllo collettivo sulla vita comune, di patriottismo come
«identificazione con gli altri in una vita comune particolare», 46 di legame sociale nel
senso della philia aristotelica. In una versione recente - abbastanza prossima,
nonostante le intenzioni del suo autore, alle istanze comunitaristiche47 - questo
orientamento si presenta come un paradigma in grado di coniugare le divergenti
istanze della cittadinanza e della comunità, dei diritti liberali e dei doveri verso
un'appartenenza che sia riferimento comune per le identità: «l'individuo diventa un
cittadino attraverso la performance dei doveri relativi alla pratica della
cittadinanza».48 Non si può tuttavia ignorare una duplice realtà: in primo luogo, nella
451 cui tratti principali sono efficacemente sintetizzati da Baccelli: «secondo quella che nella cultura anglosassone è ormai una consolidata tradizione interpretativa, per 'repubblicanesimo civico' si intende una determinata visione etico-politica che nasce nella classicità greco-romana e viene riproposta dall'umanesimo civile fiorentino. Tale visione è poi stata ereditata sia da filosofi come Montesquieu e Rousseau sia dal pensiero politico inglese ed americano (a partire dall'opera di James Harrington), tanto da costituire a lungo un'alternativa all'individualismo liberale» (LUCA BACCELLI, Cittadinanza ... cit., p. 137, nota 24). Per una problematizzazione della cittadinanza repubblicana nelle società moderne, vedi MICHAEL W ALZER, Citizenship, trad. it., in «Democrazia e diritto», XXVIII, 2-3, 1988, pp. 43-52.
46CHARLES TAYLOR, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi, trad. it. in ALESSANDRO FERRARA, Comunitarismo e liberalismo ... cit., p. 146.
47ADRIAN OLDFIELD, Citizenship and Community. Civic Republicanism and the Modern World, London, Routledge, 1990.
48LUCA BACCELLI, Cittadinanza ... cit., p. 157.
217
polis greca non tutti, neanche fra i nativi liberi, esercitavano attivamente la propria
cittadinanza (da essa erano esclusi, infatti, schiavi e stranieri residenti); in secondo
luogo, le condizioni che in quel contesto socio-culturale consentivano l'esprimersi
della cittadinanza repubblicana non sono affatto riproducibili nelle società
occidentali contemporanee, dove si è affermata una «ideologia della cittadinanza
[che] è essenzialmente un'interpretazione maturata nei primi tempi dell'età moderna
(neoclassica) del repubblicanismo greco e romano, e l'attuale interpretazione legale
del concetto trae le sue origini dalla Roma dell'Impero e dalle prime riflessioni
dell'età moderna sul diritto romano»,49 una ideologia che concepisce la cittadinanza
essenzialmente come godimento passivo di un insieme di diritti che caratterizza lo
status del cittadino.
Se dunque, da un lato, l'individualismo dei liberali non dà adeguato spaz10
all'appartenenza che è indispensabile in una collettività politica democratica,
dall'altro i com unitaristi considerano negativamente il dissenso, che invece è
necessario sia alla dialettica democratica che alla stessa costituzione dell'identità del
cittadino.
3.2.5. La 'terza via' di M Walzer
Michael W alzer ha tentato una 'terza via' proponendo il riconoscimento della
soggettività politica e morale delle comunità di vicinato, quartiere, etnia e la non-
49MICHAEL W ALZER, Citizenship ... cit., p. 43.
218
neutralità dello Stato rispetto ai valori politici caratterizzanti, pur salvaguardando le
libertà fondamentali. Nella sua concezione di giustizia, «la comunità stessa è uno, e
presumibilmente il più importante, dei beni che vengono distribuiti» da parte del
'noi', il soggetto plurale dei cittadini di un paese.50 Walzer però non chiarisce in che
modo definire il 'noi'; egli riconosce che una comunità ha il diritto di mantenere la
propria identità collettiva, se necessario anche esercitando, entro certi limiti, un
'diritto di chiusura' verso flussi di migranti, ma non può affatto discriminare i
residenti non cittadini: ogni decisione in merito è di natura eminentemente politica,
e non può assumere una valenza ideologica (sulla base di argomentazioni
etnicistiche o organicistiche). Vale però la pena esprimere una considerazione,
prendendo spunto da quest'ultima posizione di Walzer. Se ad una comunità politica
è riconosciuto un 'diritto di chiusura' affinché essa possa preservare la propria
'forma di vita', ciò significa ammettere che una teoria filosofico-politica e una
pratica della cittadinanza non sono indifferenti o neutrali rispetto ai valori della
comunità politica, ma anzi che vi sono valori e norme che hanno un proprio rilievo
nelle sfere pubbliche (e non solo in quelle diverse dallo Stato), per quanto ciò non
sia scevro da contraddizioni, limiti e conflitti. Del resto sembra quasi un'ovvietà la
constatazione empirica che i medesimi principi moderni di libertà, democrazia,
uguaglianza trovano svariate espressioni nelle formulazioni giuridiche e
costituzionali e nelle pratiche sociali e politiche dei moderni sistemi politici
democratici, a riprova ael carattere storicamente e culturalmente situato di tali
50MICHAEL WALZER, Sfere di giustizia, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987, p. 39.
219
nuclei valoriali. 51 Le concez1om meramente procedurali di democrazia e
cittadinanza rischiano di non tener conto di queste evidenze empiriche, come, per
altro verso, quelle comunitariste sembrano trascurare il dato della complessità
sociale. Il dibattito tra liberali e com unitaristi sul rapporto tra giustizia e concezioni
del bene probabilmente gaudagnerebbe in chiarezza e in propositività da una piena
assunzione di quanto appena detto. In chiave più propriamente sociologica ciò può
servire a ricordare la rilevanza dell'analisi dei valori in quanto significativamente
relazionati i) ai processi di costruzione e trasformazione delle identità sociali,52 ii)
alle dinamiche delle istituzioni, iii) a processi aggregativi di soggetti collettivi. 53 Le
risultanze empiriche delle principali indagini europee ed italiane sui valori
confermano per un verso l'ipotesi generale del passaggio da valori di tipo
materialistico propri della società industriale a valori di tipo post-materialistico -
che cioè pongono al centro la ricerca di una migliore qualità della vita54• Per quanto
riguarda, ad esempio, lo specifico della situazione italiana all'inizio degli anni '90,
si sono riscontrate tendenze apparentemente contraddittorie, come una crescente
distanza degli individui dalle istituzioni e una certa propensione, maggiore rispetto
51Le concezioni di cittadinanza più vicine agli ideali dell'illuminismo - come quella di Veca, cfr. supra -non trascurano di sottolineare tale elemento normativo.
52Cfr. LOREDANA SCIOLLA, Valori e identità sociale. Perché è ancora importante per la sociologia studiare i valori e i loro mutamenti, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXIV, 3, 1993, pp. 341-359. L'Autrice definisce l'identità sociale «non nel senso di semplice autoconservazione, come si sostiene in alcune influenti teorie psicosociologiche (preservazione e accrescimento strumentale di ciò che è già presente in nuce ), ma come autofondazione, che comporta cioè sia la definizione-creazione di confini, sia la lotta per
_ la loro validazione intersoggettiva e il loro mantenimento» (p. 354). 53Cfr. RENZO GUBERT (a cura di), Persistenze e mutamenti dei valori degli italiani nel contesto europeo,
Trento, Reverdito, 1992. 54RONALD INGLEHART, La rivoluzione silenziosa, (ediz. orig. 1977), trad. it., Milano, Rizzoli, 1983. ID.,
Valori e cultura politica nella società industriale avanzata, trad. it., Padova, Liviana, 1993: le indagini dello scienziato politico hanno individuato indicatori di cultura e valori post-materialisti, anche nella sfera politica, soprattutto nelle giovani generazioni di alcuni paesi europei. Un quesito che scaturisce dalla lettura di queste analisi verte sullo sbocco della rivoluzione silenziosa: se essa vada in direzione post-individualista o, al contrario, di un'accentuazione delle tendenze atomistiche.
220
ad un recente passato, alla relazione sociale - in vari ambiti della vita sociale:
famiglia, lavoro, religione, politica - ma in un senso non univocamente
determinato, per certi versi ambiguo e oscillante tra interesse personale strumentale
e riconoscimento dell'alterità e di una propria identità relazionale, fenomeni
sintetizzabili nell'espressione di un individualismo relazionale non ancora ben
decifrabile nei suoi possibili sviluppi: «resta da chiedersi in che misura un tale
individualismo relazionale, che scaturisce dall'intreccio tra una cultura ancora
costantemente orientata verso l'individuo ed un'attenzione crescente alla relazione,
intesa come componente indispensabile di una sfera individuale in difficoltà dinanzi
alle mancate garanzie istituzionali di promozione del soggetto, possa essere
operante. In che modo una strategia di risposta all'insolvenza delle assicurazioni
istituzionali sulla promozione dell'individuo, può rivelarsi a sua volta, come
generatrice di legame sociale, dando vita così ad una nuova polis».55
3. 3. Cittadinanza statalistica versus cittadinanza societaria
Giovanna Zincone ha impiegato la categoria dei diritti di cittadinanza per svolgere
un'analisi comparata di alcuni sistemi politici occidentali nelle loro trasformazioni
durante il ciclo storico della modernità. 56 L'ottica prescelta è originale in quanto si
colloca 'in basso': «si guarda non al sistema, ma alle persone, ed il sistema viene
55SALVATORE ABBRUZZESE, Conclusioni in SALVATORE ABBRUZZESE - RENZO GUBERT- GABRIELE POLLINI, Italiani atto secondo. Valori, appartenenze e strategie per la Il Repubblica, Rimini, Guaraldi, 1995; pp. 189-205; p. 202.
221
giudicato sulla base delle tutele e dei diritti di cui godono i suoi membri: la
maggiore o minore possibilità di influenzare le decisioni politiche attraverso il voto,
la garanzia di non essere imprigionati arbitrariamente, la libertà di leggere e di
criticare a piacimento, il poter contare sulla solidarietà collettiva in caso di
bisogno».57 In quale modo è nata la cittadinanza? Le ipotesi esplicative sui fattori
determinanti sono numerose e Zincone, prendendo in esame una letteratura molto
ampia, le aggrega in nove filoni: a) da una mossa dal basso, cioè dalle lotte operaie;
b) da una mossa dall'alto, ossia da concessioni delle classi dirigenti per motivi
strumentali a propri interessi o esigenze; c) da una combinazione di mossa dal basso
e mossa dall'alto; d) dall'azione di coalizioni o classi sociali egemoniche; e) da
determinanti economiche che influenzano i rapporti di forza tra le classi; f) la
cittadinanza sociale sorge in presenza di strutture idonee (efficienti apparati
burocratici e decisionali) o per colmare un deficit di sicurezza e di solidarietà
prodottosi con l'economia industriale; g) dai caratteri della cultura politica; h) da
fattori esogeni; i) da tensioni tra risorse o tra valori e da trasferimenti di istituzioni
in luoghi ed in sfere diverse. 58
Se si guarda al suo sviluppo storico, la cittadinanza, contrariamente sia alla sua
configurazione 'intuitiva' che a quella giuridica, non corrisponde mai o quasi mai ad
un «pacchetto di diritti uguali per tutti».59 Ciò vale non solo per le prime fasi dei
diritti di cittadinanza, ma anche, in periodi più recenti, in ordine alla situazione delle
56GIOV ANNA ZINCONE, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, Il Mulino, 1992.
57/bidem, pp. 8-9. 58 Ibidem, pp. 52-62. 59lbidem, p. 9.
222
donne e degli immigrati: «le democrazie contemporanee, come quelle antiche,
hanno sempre i loro metechi [sic ]»:60 vi sono, cioè, diversi gradi di cittadinanza per
chi è incluso, i problemi sorgono non soltanto per chi ne è escluso del tutto.
La storia delle democrazie moderne è segnata da processi di inclusione di categorie
in precedenza del tutto escluse, i cui esiti sono però estremamente diversi m
profondità ed estensione; tali categorie sono identificate da fenomeni di
emargmaz10ne interna, di immigrazione dall'esterno, di inclusione imperfetta o
incompiuta. Come anche diversamente articolate si presentano di volta in volta le
categorie incluse.
Così sono non solo entrambe legittime ma integrabili, sostiene Zincone, le
concezioni e interpretazioni della cittadinanza come 'tutela dei deboli' (teorie
liberali) e quelle della cittadinanza come 'risposta manipolatoria dei forti' (in modo
diverso: teorie elitistiche e marxiste). Il punto di vista prescelto da Zincone, anziché
puntare a identificare le promesse non mantenute della cittadinanza moderna, si
ripropone di metterne a fuoco l'impatto sulla vita quotidiana delle classi
svantaggiate, allo scopo di formulare chiavi di lettura dei perché della mancata
estensione del benessere economico e sociale a tutti gli strati delle società moderne.
I sistemi politici occidentali nelle loro varie fasi evolutive possono essere pertanto
classificati secondo un modello che articola due variabili della cittadinanza: da un
lato il rapporto tra società civile e stato e la proiezione dell'una sull'altro o viceversa
(con due modalità principali ma non totalmente alternative: societarismo e
statalismo), dall'altro il carattere impresso alle relazioni sociali dal soggetto, società
60/bidem.
223
civile o stato, prevalente nella sfera pubblica (con due modalità principali anche in
questo caso non totalmente alternative: emancipazione e stabilizzazione).
Incrociando le modalità delle due variabili Zincone ottiene quattro forme
idealtipiche di cittadinanza: societaria emancipatrice (presente nei percorsi seguiti
dai paesi scandinavi degli anni venti e trenta di questo secolo), societaria
stabilizzatrice (individuabile nella Gran Bretagna liberale dell'Ottocento), statalista
emancipatrice (come nella fase intermedia della Francia rivoluzionaria), statalista
stabilizzatrice (ad esempio, la Germania durante il cancellierato di Bismarck).61
Ognuna di queste forme idealtipiche «rappresenta una fase del mutamento e della
produzione di diritti di cittadinanza».62 I modelli statalisti, a differenza di quelli
societari, sono perlopiù caratterizzati da elevata conflittualità e competizione
economica e politica sia all'interno che all'esterno (con altri stati). Più in
particolare, nel societarismo emancipatore, sono le fasce sociali svantaggiate,
attraverso le loro emanazioni (specialmente partiti e sindacati), ad imprimere allo
stato un carattere progressista; mentre nel societarismo stabilizzatore le spinte 'dal
basso' vengono assorbite in modo prudente e graduale, consentendo al contempo ai
vecchi gruppi sociali e politici di mantenere il controllo delle risorse: può accadere
in questo caso che i gruppi dominanti nella società civile riescano a trasferire nella
politica i rapporti sociali tradizionali o ne chiedano il ripristino. Ciò smentisce il
luogo comune che il modello societario - dal punto di vista delle teoria e della
prassi democratica - sia sempre preferibile a quello statalista. Zincone peraltro
61/bidem, pp. 83ss. 62/bidem, p. 130.
224
osserva che l'intera articolazione del modello nelle quattro forme idealtipiche si
rivela utile per ricostruire e analizzare l'avvio del processo di sviluppo dei diritti di
cittadinanza nelle società moderne, mentre è più che altro attraverso il societarismo
emancipatore che è possibile classificare i sistemi democratici contemporanei e le
loro transizioni.63 Gli elementi che influiscono sul processo di sviluppo della
cittadinanza - e che sono quindi discriminanti rispetto al carattere
stabilizzatore/emancipatore di un sistema politico-sociale - nel modello elaborato
da Zincone sono diversi:
I) il livello e la configurazione della conflittualità politica interna, considerando in
particolare il grado di frammentazione e la distanza ideologica tra gli attori in
campo;
2) il tipo di cultura politica che caratterizza le élite e, all'interno di questa, i criteri
di legittimazione del potere, i modi di produzione degli assetti sociali ed economici
ottimali, la configurazione degli assetti sociali ottimali;
3) la competizione economica esterna;
4) il livello della conflittualità internazionale (eventuale stato di guerra o di
tensione internazionale, eventuale unificazione nazionale mediante la guerra);
5) ampiezza e carattere delle coalizioni (eventuale presenza di una coalizione
egemonica, pluralista ed inclusiva, eventuale inclusione dei nuovi attori nelle
coalizioni vincenti e loro posizione dominante/subordinata in tali coalizioni). 64
63/bidem, p. 136. 64 Ibidem, pp. 86-90.
225
L'ipotesi di fondo che lega le cinque variabili fra loro è che «i diritti di cittadinanza
(politici e sociali) siano nati - nei paesi precursori - come strumenti di strategie
dirette ad inserire (attraverso azioni concomitanti di integrazione dall'alto e di
conquista dal basso) i nuovi attori politici emersi dai processi di mobilitazione delle
classi svantaggiate. Essi si sono poi diffusi, subendo processi di adattamento locale,
sia per imitazione da parte di élite nazionali frustrate, sia per conquista militare, sia
per colonizzazione. [ ... ] Nei paesi precursori, rispetto a ciascun tipo, i diritti sono
diversi perché diverse sono le condizioni in cui la necessità di integrare-conquistare
si presenta».65 Rispetto alle tendenze più recenti osservabili nelle democrazie
contemporanee, Zincone osserva che il modello statalista evolve verso un modello
politocentrico, con due varianti: a dominanza dei partiti e a dominanza della
pubblica amministrazione, con maggiori rischi di particolarismo, discrezionalità e
clientelismo nella prima. Il modello societario evolve, invece, verso un modello
sociocentrico, con due varianti: conservatrice, a preminenza del mondo degli affari,
e innovatrice, con una preminenza del lavoro organizzato. Anche qui si tratta
ovviamente di forme idealtipiche, utili ad una classificazione della realtà empirica,
che però Zincone non approfondisce più di tanto.
65 Ibidem, p. 86.
226
3. 4. Società civile e cittadinanza
Non sarà inutile, prima di procedere oltre nella nostra riflessione sulla cittadinanza,
mettere maggiormente a fuoco un concetto, quello di società civile, il cui impiego si
è rivelato cruciale nell'analisi sociologica, ma non solo, delle società occidentali tra
modernità e post-modernità. Tale concetto ha attraversato delle vicende alterne, in
buona misura riconducibili alle profonde trasformazioni registrate da parte del suo
referente empirico. Per una ricostruzione critica in questa direzione seguiremo
alcune note di Jeffrey C. Alexander,66 il quale ha avvertito proprio la necessità di
«sviluppare un modello di società democratica che presti più attenzione alla
solidarietà e ai valori sociali - a cosa pensa e dice la gente e a come questa si
rapporta alla politica - più di quanto facciano la maggior parte delle teorie delle
scienze sociali oggi. In altre parole è necessaria una teoria che sia meno centrata in
modo miope sulla struttura sociale e più attenta alle idee che le persone hanno in
mente e alle esperienze e interazioni a cui queste danno luogm>.67
La teoria democratica contemporanea è tutta incentrata sui meccanismi politico-
istituzionali, sulla divisione dei poteri e sugli aspetti formali del governo
democratico, e questo presso studiosi di tutti gli orientamenti, dai liberali ai
marxisti. Tutto ciò fa parte dei fenomeni definibili come differenziazione strutturale
in sistemi sociali ad elevata complessità e moderYJ:_izzazione. Tuttavia, si trascura
l'ambiente sociale che supporta le strutture politiche, ambiente che non può però
227
essere ridotto alle dimensioni economiche, come avanzato dal materialismo. Su
questo si è innestata una frattura fra teorici formalisti della democrazia (liberali) e
teorici sostantivi (socialisti e marxisti). A seguito del crollo dei sistemi di socialismo
reale, tale frattura è stata letta nei termini di una complementarità tra forme diverse.
Ma, al di là di ciò, quali sono le condizioni sociali su cui si basa la democrazia?
Alexander tenta di dare una nuova definizione di 'società civile', <mna sfera della
società che è relativamente indipendente non solo da ciò che è specificamente
politico, ma anche dal contesto economico».68 All'interno di questa riflessione il
sociologo statunitense intende evidenziare la rilevanza della solidarietà sociale
all'interno della società democratica, senza nulla togliere al riconoscimento
dell'individualità. Alexander parte dal considerare la società civile «il campo in cui
la solidarietà sociale è definita in termini universalistici. Si tratta della we-ness di
una comunità nazionale intesa nella maniera più forte possibile, la sensazione di
essere legati ad ogni membro di quella comunità che trascende gli impegni
particolari, la lealtà limitata, gli interessi di parte. Questo è l'unico tipo di solidarietà
in grado di creare un filo di identità che unisca persone lontane per religione, classe,
gruppo etnico o razza. Soltanto questo tipo di filo comune e con potere di unione,
inoltre, può permettere ai singoli appartenenti a questo gruppo di essere concepiti
come responsabili essi stessi dei loro diritti 'naturali'».69 Un possibile problema
66JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi della società civile, trad. it. in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVI, 3, 1995, pp. 319-39.
67 Ibidem, p. 319. 68/bidem, p. 322. 69/bidem.
228
comportato da questa definizione è l'accento posto sul carattere •nazionale' della
comunità che attiva la solidarietà.
Ciò è comprensibile se si riconosce l'origine di questa concezione nella tradizione
filosofica e politica liberale post-hobbesiana, che rappresenta uno dei fondamenti
epistemologici della modernità e delle idee moderne di società. Sebbene il concetto
di società civile proprio di tale tradizione sia vago, occorre prenderlo in
considerazione, per scoprire come sia meno individualistico di quanto si pensi. Se
Hobbes aveva identificato società civile e stato, 10 Locke ha posto le basi per la
definizione di una sfera indipendente di socialità emergente dallo stato di natura e
che informa la legge civile attraverso il contratto sociale. 11 Si tratta di una solidarietà
- osserva Locke - basata sull'individuazione. Ciò è stato elaborato anche dai
moralisti scozzesi, tra cui Adam F erguson. Il rapporto tra individuale e collettivo
viene anche approfondito da Tocqueville, che nella sfera della vita pubblica
individua l'ambito «dell'interesse individuale correttamente inteso» da non separare
dai vincoli collettivi extrapolitici della legge e dalla regolazione della religione.
Questi elementi della tradizione liberale della prima modernità sono stati indeboliti
a metà dell'Ottocento quando, ritenuto assodato il manifestarsi della solidarietà e
della parità sociale, il pensiero politico sulla società civile ha enfatizzato il tema
della libertà politica e legale. Con il capitalismo industriale, tale enfasi ha ceduto il
passo alla questione sociale, sull'onda dei movimenti sindacali e socialisti;
attraverso i compromessi fra Stato e lavoratori, lo Stato stesso si è rafforzato nella
70THOMAS HOBBES, Leviatano, (ediz. orig. 1651), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1976. 71JOHN LOCKE, Due trattati sul governo, (ediz. orig. 1690), trad. it., Torino, Utet, 1982.
229
sua legittimazione e non ci si è preoccupati di garantire l'esistenza di una sfera
civica indipendente dallo Stato: migliori condizioni sociali e una maggiore giustizia
sarebbero state possibili solo attraverso un forte ruolo di garanzia dello Stato. Ma
questa via ha mostrato i suoi limiti, tanto in Europa quanto nel Sud del mondo che
tentava di tirarsi fuori dal colonialismo.
Il pensiero del Novecento ha assunto questa realtà come fatto emp1nco e «la
scomparsa della vita pubblica è diventata assiomatica per ogni riflessione sulla vita
del ventesimo secolo. Prigionieri di questo storico spostamento nelle assunzioni
intellettuali, questi pensatori influenti non sono stati in grado di valutarlo
correttamente. Essi erano convinti che il capitalismo aveva distrutto la vita pubblica,
che nelle società democratiche di massa lo strapotere del mercato aveva
polverizzato i legami sociali, trasformando i cittadini in egoisti, e aprendo la strada
all'oligarchia e alla burocrazia».72
Già nel pensiero di Marx la società civile vemva identificata con l'economia
capitalista, anche se questi criticava Hegel per la sua concezione privatizzata di
società civile. La posizione di Hegel tende in realtà a far emergere gli aspetti più
comunitari e solidaristici dell'idea liberale: la società civile comprende, oltre
all'insieme dei bisogni economici, anche la sfera dell'etica, distinta dall'ambito
morale familiare e dallo Stato. Queste concezioni influenzano l'idea di società civile
elaborata da Antonio Gramsci, da lui definita come ambito politico, culturale, legale
e pubblico in posizione intermedia fra i rapporti economici e il potere politico, in ciò
72 JEFFREY C. ALEXANDER, l paradossi ... cit., p. 324.
230
discostandosi dall'ortodossia marxista;n questa idea di società civile legittimava una
nuova via per l'instaurazione del socialismo, non più basata solo sulle dimensioni
economiche, ma attraverso la trasformazione in profondità della società civile
medesima.
In senso sociologico, società civile intesa come «una forma di orgamzzaz10ne
sociale distinta dalle categorie politiche ed economiche, che fa riferimento
contemporaneamente alla solidarietà collettiva e al volontarismo individuale»74 non
coincide con, né comprende totalmente, la comunità (anch'essa sociologicamente
intesa).
Alexander propone di considerare la Gesellschafl come una Gemeinschaft, nel senso
di analizzare la società civile come forma di coscienza collettiva ampia e sviluppata
sì da «includere tutti i vari raggruppamenti all'interno di un ambito territoriale
separato e amministrativamente regolato», 75 sulla base di legami universalistici
radicati in valori espressi attraverso diritti e appartenenza a un popolo. In questo
senso, il dibattito attuale sulla società civile ha scelto in buona parte (Habermas,76
Cohen e Arato11) di rifarsi a Kant, ritenendo che tali legami universalistici non siano
dati che dalla ragione e dal diritto astratto, il che rimanda «al classico ideale di
comunicazione completamente trasparente». 78 Un simile universalismo astratto
caratterizza anche Rawls.
73ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, (ediz. orig. 1947), Torino, Einaudi, 1975. 74JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi. .. cit., p. 327. 751bidem. 76JORGEN HABERMAS, Teoria del/ 'agire comunicativo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986. 771. COHEN- A. ARATO, Civil Society and Politica/ Theory, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1992. 78JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., p. 328.
231
Queste posizioni circa i legami universalistici costituiscono, secondo Alexander,
errori di astrazione ma/posta, che nuocciono all'utilità sociologica del concetto di
società civile: «l'universalismo si articola spesso nel linguaggio concreto piuttosto
che in quello astratto», 79 come ritiene M. Walzer a proposito della sua concezione di
giustizia.80 La declinazione in termini concreti dell'universalismo della società civile
vale anche per la dimensione istituzionale di quest'ultima.
Gli Stati-nazione costituiscono ancora un riferimento obbligato per la nozione di
società civile, anche se «non esiste una ragione perché il concetto di società civile
non possa essere applicato a livello sovranazionale».81 Per la società civile sembra
prendere consistenza un processo sovranazionale simile a quello concernente le
interdipendenze nell'ambito della sfera economica. La società civile può ancora
essere ritenuta isomorfica con la nazione, ma assolutamente non coincidente con lo
Stato.
Alexander passa poi in rassegna alcune recenti concezioni di società civile: Arato,
Held, 82 Keane83, Marshall;84 dalla gran parte di esse emergono ambiguità e
inadeguatezze di vario genere: «è necessario un uso del termine decisamente più
delimitato e differenziato, capace di seguire la demarcazione empirica della società
civile che la democrazia in senso ideale implica. Gli usi arcaici devono essere
abbandonati. Corti di giustizia, polizia, mercato, interessi della proprietà privata,
famiglia, sfere religiose e filosofiche sono tutte istituzioni con specifici ed
79lbidem. 80MICHAEL W ALZER, Sfere di giustizia ... cit. 81JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., p. 329. 82DAVID HELD, Modelli di democrazia, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1987. 83J. KEANE, Democracy and Civil Society, London, Verso, 1988.
232
indipendenti interessi non politici differenti da quelli della società civile, la sfera
della solidarietà sociale universalizzante, così come sono differenti da quelle dello
statm>.85
La separazione tra sfera pubblica e sfere civili e tra diverse sfere civili va posta solo
sul piano analitico, e non su quello empirico, in modo tale da riuscire a cogliere le
relazioni e le interazioni. Anche le sfere non civili, ma distinte dallo Stato, sono, per
dirla con M. Walzer, 'sfere di giustizia', anche se «questi altri 'regimi di
giustificazione' differiscono profondamente dalle giustificazioni che si riferiscono al
'bene comune', il criterio che maggiormente approssima quello della stessa società
civile. Le istituzioni, le interazioni e i valori che sottostanno alla solidarietà sociale
si allontanano in modo chiaro da quelle della cooperazione e competizione
economica, dalle relazioni intime e affettive della vita familiare e dal simbolismo
astratto e trascendentale che fa da mezzo di scambio nella vita religiosa e
intellettuale. La solidarietà civile può ben essere una condizione necessaria, se non
sufficiente, perché queste altre funzioni sociali siano realizzate in modo
democratico. Per questa ragione, sfera civile e sfera non-civile non possono
semplicemente coesistere in una specie di interscambio armonioso. Non è solo la
pluralizzazione delle sfere che garantisce una buona società, come suggerisce
Walzer, e neppure il libero gioco e la buona volontà degli interlocutori disposti a un
compromesso sui loro interessi di fronte a pretese in conflitto e persuasive di
giustificazione morale, come propongono Boltanski e Thevenot. 86 Per mantenere la
84T. H. MARsHALL, Cittadinanza e classe sociale ... cit. 85JEFFREY c. ALEXANDE~ I paradossi ... cit., pp. 334-35. 86L. BOLTANSKY-L. THEVENOT, De lajustification, Paris, Gallimard, 1991.
233
democrazia è spesso necessario che la sfera civile 'invada' le altre sfere non civili,
per richiedere certi tipi di riforme e di risposte, e poi per monitorarle e registrarle
attraverso regolazioni successive. In risposta a quelle che possono essere chiamate
'intrusioni distruttive' nel regno civile, la società civile fa sforzi per 'riparare'. In
termini funzionalisti, la società civile può essere concepita come una dimensione
sociale, o come un sottosistema, che riceve gli input da queste altre sfere, che è
limitata dai vincoli che esse pongono e alle quali a sua volta si sforza di porre
vincoli. In un senso più fenomenologico si può dire che la società civile fornisce
alcune risorse di base, date per ovvie, sulle quali fanno affidamento le attività delle
altre sfere. Essa costituisce gran parte della vita pubblica sulla quale
l'organizzazione sociale della società contemporanea poggia». 87
3. 5. La cittadinanza liberal
Di Ralf Dahrendorf è una delle più significative tematizzazioni sociologiche liberal
della cittadinanza, elaborata tenendo conto delle problematiche e delle prospettive
che la contraddistinguono. Dopo la svolta politico-economica neoliberista degli anni
'80 e il crollo dei regimi a socialismo reale dell'Europa orientale, anche la questione
della cittadinanza moderna richiede un profondo ripensamento. I paesi avanzati si
trovano in una situazione che alcuni decenni fa sarebbe stata definita paradossale: la
continua crescita dei livelli produttivi di beni e servizi (provisions) accompagnata da
87JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi ... cit., pp. 335-36.
234
un palese arretramento nei titoli di accesso ( entitlements ). 88 Per il sociologo tedesco
ciò è tanto più grave poiché egli è dell'idea che la cittadinanza si collochi
interamente sul versante dei titoli di accesso e rifiuta il concetto secondo il quale i
diritti sociali andrebbero legati ad una contropartita in lavoro da parte dei beneficiari
di prestazioni economiche ( workfare ): il rischio di queste soluzioni consisterebbe, in
ultima analisi, in uno scivolamento verso il lavoro forzato. Ad ogni buon conto, ciò
che in precedenza ha costituito motivo di evoluzione e di sviluppo della cittadinanza
nelle sue molteplici dimensioni - ossia un certo equilibrio, ancorché precario e
difficile da ottenere, nelle democrazie moderne tra provisions e entitlements - ha
bisogno di essere attualizzato e rafforzato, nonostante i problemi attuali. In che
modo? Il vero problema delle democrazie moderne, argomenta Dahrendorf, consiste
nell'esistenza di una sottoclasse di individui esclusi dall'accesso all'esercizio dei
diritti di cittadinanza: sembra tuttavia improprio parlare di una sottoclasse poiché
non si tratta di una classe in senso stretto, ma di un aggregato di vittime della
maggioranza di individui interessati al mantenimento dello status quo. Queste
persone non si trovano nelle posizioni più basse della stratificazione sociale, ma
addirittura al di sotto e al di fuori di essa e delle forme minime di redistribuzione,
dal momento che mancano di titoli di accesso, cioè di cittadinanza. Ciò ha per
conseguenza un 'prezzo morale': minare alla base i valori su cui si fonda la
convivenza democratica. Considerazioni del tutto analoghe possono essere fatte a
proposito del profondo divario fra il Nord avanzato e il Sud povero del pianeta: tali
88RALF DAHRENDORF, Cittadtnanza: una nuova agenda per il cambiamento, trad. it. in «Sociologia del diritto», XX, 1, 1993, pp. 7-18.
235
situazioni «CI costringeranno a convincerci del fatto che la cittadinanza o è un
progetto universale, o è una penosa copertura del privilegio». 89 Se le g10vam
democrazie dell'Europa orientale stenteranno a produrre adeguati sforzi sia sul
versante delle provisions che su quello degli entitlements sarà estremamente
improbabile che la costruzione della cittadinanza possa sottrarsi ai conflitti di tipo
etnico o presunti tali, portando alla negazione della democrazia. Anche la
prospettiva dell'unificazione europea e la definizione di una cittadinanza europea
non possono non tener conto dell'esigenza di un bilanciamento dei due versanti. I
pericoli che incombono sull'ambiente naturale fanno inoltre emergere in modo
sempre più prepotente l'istanza a tutelare il diritto di tutti ad un habitat vivibile.
Ecco dunque che i diritti di cittadinanza «devono essere riformulati da menti attente
e precise che non li utilizzino per fini che non sono loro propri o per coprire
interessi costituiti. Devono essere riaffermati da quelli che nella riforma vedono la
sola speranza di libertà. E devono essere ampliati per far fronte alle nuove sfide».90
89/bidem, p. 14. 90/bidem, p. 18.
236
3. 6. Cittadinanza e disuguaglianze ascritte
L'analisi di Giovanni Battista Sgritta mostra come lo sviluppo delle cittadinanza
moderna sia fortemente connesso alle evoluzioni dei sistemi di disuguaglianza
sociale, riflettendone le vicende:91 la teoria di Marshall ha descritto i tratti
problematici di questa interazione, che non ha condotto ad uno Stato sociale in
senso proprio, ma all'introduzione di alcuni correttivi alle disfunzionalità sociali
dell'economia di mercato i quali ne hanno lasciato intatta la struttura di base. Il
modello messo a punto da Keynes e Beveridge ha così finito, paradossalmente, con
l'agevolare il mercato mediante il sostegno pubblico alla riproduzione della forza
lavoro: ciò è provato dal fatto che, sebbene si sia elevato il tenore medio di vita, i
sistemi di disuguaglianza permangono, pur con modalità e forme nuove. L'impianto
dei diritti sociali ha rivelato una fragilità strutturale, dovuta al fatto che la loro
formalizzazione non corrisponde al loro esercizio effettivo. In più i sistemi di
welfare state hanno posto a base dell'esercizio dei diritti sociali il presupposto della
'società del lavoro', cioè del pieno inserimento dei destinatari nel mercato del
lavoro, poi rivelatosi non aderente al reale stato dei fatti. In quell'ottica l'estensione
e la diffusione delle prestazioni di welfare sono strettamente collegate alle
dinamiche del mercato, sia dal versante dell'offerta complessiva che della domanda.
Qui, nota S gritta, em~rge una contraddizione _stridente tra i principi della
cittadinanza democratica e l'esiguità dei suoi spazi di agibilità concreta. Per un certo
237
periodo - fino agli anni '70 di questo secolo - il compromesso tra mercato e
cittadinanza ha retto, bene o male, poiché un'ampia maggioranza della popolazione
era inserita nel mercato del lavoro. In seguito, tale circostanza ha cominciato a
mostrare segni di cedimento, con la costante crescita della disoccupazione
riconducibile a vari fattori: internazionalizzazione dell'economia, introduzione di
nuove tecnologie labour saving, presenza femminile più massiccia nella
popolazione attiva, e così via. La complessità sociale è in continua crescita e le
forme di disuguaglianza sociale aumentano e si intrecciano sempre più. La
principale frattura è tra chi ha lavoro e chi non ne ha, o tra chi ha lavori stabili e ben
pagati e chi lavora precariamente e con bassi compensi. S gritta si sofferma, in
particolare, sull'analisi delle disuguaglianze sociali di genere e di generazione. Per
quanto riguarda le prime, occorre ricordare che già il piano Beveridge, ad esempio,
dava per scontata la subordinazione economica della donna nella famiglia e la
centralità maschile nei ruoli di mercato. Con tratti più o meno accentuati, questa
impostazione è stata largamente prevalente e l'emancipazione femminile ha seguito
più che altro percorsi di appropriazione di ruoli sociali, economici e politici pensati
a misura del genere maschile: «essere socialmente anfibio, attivo
contemporaneamente sui due fronti della riproduzione e della produzione, in effetti
la donna è il solo soggetto ad essere impegnato in un'attività di lavoro all'interno
della casa che supera ampiamente i limiti di fatica e di tempo indispensabili per il
91 GIOVANNI B. SGRITTA, Cittadinanza: classi, squilibri di genere e asimmetrie generazionali in PIERPAOLO DoNATI- GIOVANNI B. SGRITTA (a cura di), Cittadinanza e nuove politiche sociali, Milano, Angeli, 1992, pp. 59-81.
238
suo esclusivo sostentamento».92 Il rapporto tra i due piani ha più il sapore
dell'interferenza negativa che non dell'interazione positiva. La cittadinanza che -
secondo il codice moderno-industriale è mediata dalla posizione dell'individuo nel
sistema produttivo - nel caso delle donne risulta attenuata quando non mutilata.
Poiché è impensabile un ritorno ai tassi di attività delle donne e ai modelli familiari
di alcuni decenni fa, si profila un conflitto tra la questione della cittadinanza
femminile e i modelli prevalenti di relazione tra sfera domestica e sfera pubblica:
«si introduce nell'agenda politica la variabile del tempo come condizione della
partecipazione democratica e criterio di regolazione dell'equità nella distribuzione
delle risorse. Con il che si scardina alle fondamenta l'opposizione tradizionale tra
sfera della produzione e sfera della riproduzione [ ... ], per sostenere la necessità di
introdurre un punto di riferimento universale che trascenda le convenzionali
distinzioni di sesso e di età nella divisione delle responsabilità sociali e delle risorse
disponibili».93 Alle asimmetrie di genere si ricollegano quelle generazionali: la
drastica riduzione della natalità nei paesi occidentali, soprattutto in Italia, il
prolungamento nel tempo dei percorsi formativi dei giovani, l'aumento assoluto e
relativo di anziani pensionati cui si aggiungono gli elevati tassi di disoccupazione
giovanile compongono un quadro sociale ben difficilmente gestibile secondo
l'attuale configurazione della cittadinanza. I pericoli di esclusione sociale investono
fasce sempre più ampie di persone e i diritti di cittadinanza corrono il rischio di
92/bidem, p. 70. 93/bidem, p. 73. Sulla problematica sociologica del tempo nelle politiche sociali, si veda LAURA BALBO (a
cura di), Time to Care. Politiche del tempo e diritti quotidiani, Angeli, Milano, 1987.
239
sancire i privilegi di alcuni a scapito di altri ('società dei due terzi'). Le politiche
sociali hanno davanti a sé questioni di non facile soluzione.
3. 7. La cittadinanza come relazione sociale
Pierpaolo Donati avvia la sua analisi della vicenda contemporanea della cittadinanza
constatando che la forte crisi di integrazione politica della società contemporanea si
inscrive all'interno dei forti processi di mutamento sociale che la attraversano: «la
società cambia a tal punto che i prerequisiti sociali della cittadinanza - la
razionalità e la solidarietà - sembrano scomparire. [ ... ] [La cittadinanza] è ciò che
dà ad una società forma e contenuto di 'comunità politica', [ ... ] [un] simbolo, che è
insieme una semantica e un insieme di istituzioni (culturali e strutturali) della
società moderna politicamente intesa».94 L'ipotesi del sociologo bolognese è che la
crisi di integrazione politica non è altro che una crisi della democrazia e della
cittadinanza moderna. Se cittadinanza è appartenenza ad una comunità politica, la
dimensione relazionale richiede una tematizzazione più esplicita e più compiuta: la
cittadinanza moderna a base individuale non può essere sufficiente a esprimere tale
appartenenza in senso globale.
Donati ha elaborato una teoria della cittadinanza societaria, mediante l'applicazione
della sua teoria relazionale della società:95 si tratta di un pensiero articolato e
complesso, di cui non è possibile, in questa sede, dare conto esaurientemente, ma
94PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., pp. 3-4.
240
soltanto illustrare alcuni passaggi essenziali. La tesi di Donati è che «la relazione, o
piuttosto il complesso societario di relazioni, che connette il sistema politico-
amministrativo con la nuova società civile ha un nome: [ ... ] cittadinanza societaria.
Essa può essere anche detta post-moderna in quanto, pur con alcune continuità
rispetto a quella moderna, tuttavia se ne distacca e va oltre».96 Nella sfera della
società civile - cioè «l'insieme delle sfere di relazioni sociali, associative in senso
lato, distinte dal mercato e dallo Stato»97 - sono ricomprese, oltre agli individui,
anche le autonomie sociali «portatrici di propri diritti-doveri di cittadinanza».98
Cambia dunque la direzione di emanazione, per così dire, della cittadinanza: questa,
diversamente che nella modernità, non viene calata dall'alto (dal sistema politico) a
individui e categorie sociali astratte, ma si configura come «titolarità di cui i
soggetti sociali (individuali e collettivi) sono portatori e che viene istituzionalizzata
attraverso determinati processi e strutture in una forma comune, quella appunto di
una distinta e autonoma comunità politica».99
La cittadinanza moderna contiene una contraddizione costitutiva, laddove presenta
al contempo istanze di emancipazione e di controllo sociale; queste ultime sono
state chiaramente evidenziate, tra gli altri, da Michel Foucault che nel Panopticon di
Jeremy Bentham ne ha indicato l'emblema teorico. I due generi di istanze non sono,
secondo Donati, isolabili l'una dall'altra e ciò è alla base di una fra le tensioni più
laceranti della cittadinanza moderna, in bilico tra appartenenza ad una collettività e
95PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 19943•
%PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 20. 97/bidem, p. 19. 98 Ibidem, p. 14. 99/bidem.
241
diritti individuali: «la creazione di un vincolo (la cittadinanza come appartenenza)
contro le sue stesse premesse (e promesse) di liberazione da ogni vincolo». 100
L'oscillazione fra uguaglianza e libertà, fra individualismo e solidarietà e
l'impossibilità di un equilibrio adeguato alla complessità post-moderna sono fra le
ragioni di fondo della crisi della cittadinanza moderna.
La stessa vicenda attuale della cittadinanza è però oggetto, a conferma di quanto
appena detto, di diverse chiavi di lettura che, a grandi linee, Donati riconduce a tre
orientamenti principali. Secondo un primo orientamento, la cittadinanza moderna
non è in crisi, ma anzi deve ancora completare il suo progetto, i problemi e le
contraddizioni derivano da tale incompiutezza; 101 questa prospettiva, secondo
Donati, non è sostenibile teoreticamente poiché «non fa i conti con la storia». w2 Un
secondo orientamento tematizza la crisi della cittadinanza moderna come
incompiutezza e inadeguatezza della formulazione dei suoi valori di fondo alla
complessità contemporanea; 103 affermare ciò è per Donati necessario ma non
sufficiente, poiché non ci si pronuncia rispetto agli esiti che diverse opzioni per
valori comuni possono avere in ordine alla crisi del politico. Per un terzo
orientamento la crisi della cittadinanza moderna è radicale, per via di contraddizioni
interne: o per l'eccessivo dominio della sfera economica nella vita sociale104 o per il
restringimento della cittadinanza a mero titolo formale di accesso a prestazioni; 105
100 Ibidem, p. 22. 101Cfr., in questo stesso capitolo, le posizioni di Salvatore Veca e Jtirgen Habermas. to
2PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 24. 103Cfr., in questo stesso capitolo, le posizioni di Michael Walzer e Jeffrey C. Alexander. 104Cfr. CARLO MONGARDINI, Le trasformazioni della cittadinanza in ID. (a cura di), Due dimensioni della
società.L'utile e la morale, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 181-186; 105È, quest'ultima, la posizione di NIKLAS LUHMANN, Teoria politica nello Stato del benessere, trad. it.,
Milano, Angeli, 1983.
242
Donati non concorda con lo scivolamento verso il post-modernismo del pensiero
debole o dell'opportunismo sistemico, poiché entrambi rappresentano pos1z1om
ideologiche sebbene partano dall'assunto della crisi irreversibile delle ideologie
politiche. 106
Storicamente la cittadinanza è scaturita da una costruzione sociale che si è svolta
nelle società moderne e che sembra abbia ormai sfruttato ogni potenzialità di questo
orizzonte socio-culturale: «la storia strettamente moderna della cittadinanza, fino al
welfare beveridgiano, è storia degli spostamenti dalla cittadinanza del bourgeois
alla cittadinanza del lavoratore, sotto l'egida della modernizzazione industriale, con
il relativo modello di democrazia industriale. E ci si chiede: dove è finita e dove
andrà a finire la cittadinanza dell'uomo come uomo?». 101 Donati sembra cioè essere
dell'idea che la crisi della cittadinanza moderna altro non faccia che segnalarne
l'inadeguatezza della concettualizzazione e della pratica attuale, mentre dalla società
provengono già segnali che indicano l'avvio di un processo di costruzione di una
nuova forma di cittadinanza oltre la modernità. 108 Ciò consente a Donati di affermare
che «l'attuale crisi di integrazione politica comporta la crisi di una certa idea
(moderna) di democrazia, ed entrambe si esprimono nella crisi della forma
106Cfr., per una rassegna di posizioni su questi temi, CARLO MONGARDINI - MARIA LUISA MANISCALCO (a cura di), Moderno e postmoderno. Crisi d'identità di una cultura e ruolo della sociologia, Roma, Bulzoni, 1989.
107 Ibidem, p. 25. 108Per una visione concorde con l'idea di svuotamento della modernità (cioè l'esaurimento delle potenzialità
del modello moderno di convivenza sociale, basato sull'astrazione giuridica e sull'astrazione monetaria) e con la necessità del recupero di una dimensione comunitaria cfr. PIETRO BARCELLONA, Il ritorno del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 124-29.
243
corrispondente di cittadinanza. Ma ciò non significa fine della cittadinanza tout
court». 109 Per dirla in breve, la fine di un mondo non è la fine del mondo.
La proposta di Donati si impernia sulla considerazione della cittadinanza come
relazione sociale «caratterizzata da sovra-funzionalità e da una forma reticolare
attraverso cui si realizzano processi di differenziazione sociale». 110 La sovra-
funzionalità della cittadinanza consiste nell'assolvere, oltre a quella politica
preminente, anche un numero indefinito di funzioni di altro tipo, ad esempio
psicologico (senso di appartenenza), culturale (stili di vita 'nazionali'), economico
(il far parte di un sistema di scambi di risorse), sociale (il riferirsi a talune norme
sociali), giuridico (l'essere inseriti in un ordinamento giuridico con diritti e doveri),
eccetera. La forma reticolare della cittadinanza osservata come relazione sociale la
si ritrova nel fatto che questa non concerne più soltanto il rapporto universalistico
tra l'individuo e il vertice (politico) della società, ma «nello stesso tempo identifica
anche l'appartenenza a sfere sociali più differenziate e differenziantesi»111 : si ha cioè
una compresenza di forme tanto universalistiche quanto particolaristiche di
solidarietà.
Donati individua il punto di rottura tra la cittadinanza moderna e quella post-
moderna non già nella dicotomia liberalismo/socialismo (entrambi, infatti, hanno in
comune una matrice illuministica, data dal «riferimento universalistico nei diritti
109 Ibidem, p. 26. Sulla relazione tra cittadinanza e democrazia e sulle responsabilità e le virtù politiche del cittadino in chiave filosofico-politica, si veda JOSEP M. VILAJOSANA, Cittadino, doveri istituzionali e virtù politiche, trad. it., in «Ragion pratica», 6, 1996, pp. 177-93.
110PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 27. mlbidem, p. 30.
244
dell'individuo astratto dalla comunità» 112) ma nell'inconciliabilità tra universale dei
diritti e appartenenze particolari o nell'esito di un 'pluralismo senza fondamento',
nella attuale incapacità della società post-moderna di «conferire identità politica
attraverso la cittadinanza intesa in senso illuministico». 113
Abbiamo già avuto l'occasione, all 'intemo di questo lavoro, di osservare come la
società post-moderna proceda ad una differenziazione dell'universalismo in più
universalismi 114: ciò significa che questi non hanno più un referente centrale nello
Stato, ma referenti diversificati secondo le molteplici sfere sociali. Tale
differenziazione è post-moderna in quanto intacca alla radice l'ideologia
illuministica, per la quale lo Stato è il centro di imputazione dell'universalismo. La
cittadinanza moderna, concepita sulla base dell'appartenenza degli individui a Stati-
nazione, non è più in grado di gestire la relazione tra universalismo dei diritti e
particolarismo dell'appartenenza a formazioni sociali più ristrette.
Il legame micro-macro richiede una nuova tematizzazione e l'idea di Donati è che
«la complessità maggiore deve [ ... ] essere maggiormente regolata, e quindi
vincolata (Io è di fatto), se vuole essere vitale nel relazionare adeguatamente
l'universale con il particolare (per esempio della cittadinanza)». 115 In concreto, ciò
comporta i) una generalizzazione dei valori fondamentali tale da renderli applicabili
a quante più sfere sociali possibile e ii) una specificazione dei valori secondo i
caratteri propri di ogni contesto particolare.
112 Ibidem, p. 31. 113/bidem. 114Cfr. supra, capitolo 1. 115PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 33.
245
Abbiamo poc'anzi osservato come per Donati la cittadinanza post-moderna sia
dotata del carattere della sovra-funzionalità: approfondendo ciò, egli nota che il
concetto in esame coinvolge e vincola limitatamente all'appartenenza di tipo
politico ai vari livelli, mentre in altre sfere relazionali essa fa capo alla scelta da
parte dei soggetti. In senso più generale, tale articolazione ricalca la distinzione
società del/ 'umano/società tecnica elaborata dalla sociologia relazionale dello stesso
Autore 116 ed esprime quella mediazione e quel legame relazionale tra
universalizzazione di valori e funzioni da una parte e differenziazione delle sfere
sociali dall'altra che sembra contraddistinguere la post-modernità; nella modernità,
invece, la cittadinanza è costruita sulla base della distinzione tra sfera pubblica
(coincidente con lo Stato) e sfera privata (identificata come 'società civile'), e il
'pendolo' tende soprattutto verso l'appartenenza sistemica nella 'società tecnica'.
La cittadinanza contemporanea è in crisi poiché non corrisponde più agli esiti dei
processi di differenziazione societaria della modernità da cui è scaturità una società
articolata in sfere sociali relazionali osservabili mediante lo schema AGIL:
economia (A), governo politico (G), associazioni (I), famiglie (L): «ciascuna di
queste sfere è cresciuta sulla base di un proprio codice simbolico, con propri mezzi
materiali e simbolici (specifici e generalizzati) di interscambio con le altre sfere, ha
edificato le proprie istituzioni, ha codificato i propri diritti e doveri
116/bidem, p. 34: la società dell'umano è la società osservata come «insieme di relazioni sociali che debbono essere continuamente rilegittimate, motivate, agite, senza meccanismi tecnici o sistemici che possano garantirle 'automaticamente'»; la società tecnica indica invece «le forme associative organizzate attraverso meccanismi tecnici» come, ad esempio, le imprese, le amministrazioni pubbliche, i sistemi di sicurezza sociale eccetera.
246
(regolamentazioni)». 111 Ciò che sostiene Donati è che la cittadinanza nelle
democrazie contemporanee - sia negli ordinamenti giuridici che nell'analisi
scientifica - è rimasta indietro rispetto alla differenziazione societaria, inquadrando
le relazioni sociali in maniera riduttiva nel binomio Stato-mercato, conferendo la
titolarità dei diritti di cittadinanza ai soli individui ed escludendone la sfera
associativa e quella familiare. 118 Proprio da una più attenta considerazione
sociologica dei processi di differenziazione societaria emergono elementi che
lasciano intravedere un nuovo modello di cittadinanza societaria, post-industriale e
post-moderna, che riflette l'attuale configurazione del sociale in sfere sociali
autonome ma collegate relazionalmente.
La cittadinanza post-moderna sembra tendere di più (anche se non esclusivamente)
a porre l'accento sull'appartenenza comunitaria. Non si spiegherebbe altrimenti,
sostiene Donati, l'intensificarsi dell'attenzione scientifica, e per certi versi anche di
quella politica, verso il binomio uguaglianza-riconoscimento delle differenze e i
molti temi ad esso riconducibili (libertà-solidarietà, ripensamento dei sistemi di
sicurezza sociale e del sottostante concetto di benessere, multiculturalismo e
valorizzazione delle identità ... ). Lo scenario che si va delineando, argomenta
Donati, presenta proprio tali elementi, che documentano un certo declino della
cittadinanza statalista e il graduale manifestarsi di una cittadinanza societaria in cui
lo Stato non è più il referente centrale, ma vi è una pluralità di sfere sociali
117PIERPAOLO DoNATI, Introduzione generale. Le nuove frontiere della politica sociale: l'Europa delle famiglie, in Io. - FABIO FERRUCCI (a cura di), Verso una nuova cittadinanza della famiglia in Europa. Problemi e prospettive di politica sociale, Milano, Angeli, 1994, pp. 7-36; p. 9.
118Con accenti simili per un profondo ripensamento della cittadinanza, GIUSEPPE COTIURRI, Mutamenti. Culture e soggetti di un pubblico sociale, Molfetta, La Meridiana, 1992.
247
pubbliche (autonomie sociali) e di relazioni sociali il cui contenuto non è più
soltanto politico: una visione nella quale lo Stato non scompare ma tende a
relazionarsi con le autonomie sociali rappresentando, rispetto ad esse, «da un lato il
limite della loro comune compatibilità e dall'altro un sistema di valori e regole che
garantisce la loro effettiva autovalorizzazione». 119 Una cittadinanza, dunque, plurima
e complessa, che sembra procedere non più per processi di inclusione/esclusione
come nella modernità, bensì attraverso processi associativi e di connessione
relazionale fra universalismi non esclusivi riconducibili alle sfere sociali.
Il rapporto tra individuo e appartenenza è stato ripreso, tra gli altri, da Dario Rei, il
quale avverte la necessità, a tale proposito, di una più attenta considerazione
antropologica che, delineando il complesso di relazioni sociali in cui l'individuo è
inserito, consenta di articolare e differenziare diritti individuali e diritti relazionali,
configurando una democrazia dei cittadini solidali. 120
3. 7.1. La relazione tra cittadinanza e democrazia nella modernità
Già da varie considerazioni proposte nel corso del nostro itinerario di ricerca sono
emerse le radici moderne della cittadinanza e della democrazia contemporanea:
anzi, in un senso generale, è possibile affermare che «per la modernità, cittadinanza
119PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 37. 120DARIO REI, La cultura della cittadinanza come orizzonte della politica sociale, in ROBERTO DE VITA -
PIERPAOLO DONATI - GIOVANNI B. SGRITTA (a cura di), La politica sociale oltre la crisi del welfare state, Milano, Angeli, 1994, pp. 58-78.
248
e democrazia sono i due lati di una stessa medaglia», 121 realtà che consiste di un
assemblaggio, non senza contraddizioni, di vari elementi provenienti dalla teoria
filosofica, politica, giuridica e sociologica. Poiché i due oggetti considerati
presentano connessioni particolarmente significative, è anche opportuno domandarsi
come si configuri la relazione tra la crisi della cittadinanza e quella della democrazia
moderna. Tocqueville, per primo, aveva avanzato l'ipotesi che la democrazia
moderna contenesse nel suo nucleo più interno gli elementi della propna
contraddizione e involuzione rispetto alle premesse valoriali di liberté, égalité,
fraternité. Egli aveva infatti tratteggiato i contorni di due modelli di relazione fra
democrazia e cittadinanza: i) il modello liberale classico, con una società civile
vitale perché ricca di relazioni associative e con responsabilità chiaramente distinte
da quelle del potere politico, con un'efficace garanzia delle libertà civili; ii) il
modello di democrazia dispotica, con un potere politico centralistico e
tendenzialmente autoreferenziale, con una debole partecipazione c1v1ca e una
limitazione di fatto delle libertà, specialmente di quelle associative. 122
L'interattività nella relazione tra democrazia e cittadinanza segna un passaggio
decisivo con la modernità: è in quest'ottica che si concepisce l'idea che la
cittadinanza possa soddisfare i bisogni umani fondamentali. Ma le vicende
attraversate dal codice moderno della cittadinanza vanno in altra direzione, giacché
«la democrazia passa da valore (di emancipazione) a metodo (di governo attraverso
specifiche istituzioni e regole) e poi a codice procedurale puramente funzionale
121PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 45. 122Cfr. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, (ediz. originali: primo tomo 1835, secondo
tomo 1840), trad. it. in ID., Scritti politici, Il, Torino, Utet, 1988.
249
(produzione sistemica di alternative per selezioni che dovrebbero rimanere sempre
'aperte')»: 123 di qui la crisi della cittadinanza moderna.
La democrazia, osserva Donati, soprattutto nel pensiero classico e tradizionale ma
anche in quello liberale contemporaneo, risente di una definizione limitata in quanto
la si concepisce soltanto come forma di esercizio del potere. Questa definizione, di
per sé problematica nell'ambito della sociologia, per Donati è una formula di
contingenza, un'espressione, cioè, contenente un simbolo - governo del popolo -
che esprime ciò che rimane indeterminato (da parte del popolo).
L'indeterminazione cresce al crescere della complessità della società, e ciò fa
sorgere domande di non poco conto: la democrazia è confinata nell'ambito del
contingente o vi è in essa un qualche ruolo da parte dei valori liberali - libertà,
uguaglianza, fraternità?
La storia della democrazia moderna ha mostrato come vi sia stata un'estensione -
certo non lineare né uniforme - del suo codice simbolico-normativo anche a sfere
diverse da quella politica: basti considerare, sotto tale profilo, le vicende della
cittadinanza e dei diritti ad essa connessi. Il principio democratico, secondo la
prospettiva della sociologia relazionale, ne è risultato riformulato in «governo
dell'attore sociale da parte dell'attore sociale in ogni e qualunque relazione
sociale». 124 Si viene così a configurare un primato dell'attore sociale sulla relazione
che, per Donati, è fonte di notevoli problemi. La modernità ha fatto sì che nella
società sorgessero, mediante processi di differenziazione e universalizzazione,
123PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 49. 124/bidem, p. 52.
250
numerose forme di socialità. La democrazia moderna, sia nella teoria che nelle
prassi, si è però mantenuta con una certa rigidità entro i binari del rapporto im-
mediato tra regolazione statuale e diritti individuali, con una carente o assente
tematizzazione del contributo individuale (in termini di obbligazione) alla
dimensione sociale e del significato da attribuire alle varie sfere sociali che si
presentavano sulla scena. Stato e mercato sono stati i due poli di attrazione per tali
forme di socialità, ma, nel complesso, «le forme politiche della socialità sono state
tutt'al più tollerate, e spesso strumentalizzate» in vista di scopi politico-
istituzionali. 125 Se si eccettua il sindacato - che però è stato ben presto assorbito
nello schema neocorporativo di rapporti tra Stato, imprese e lavoratori - nessuna
forma politica della socialità ha conosciuto, nelle democrazie occidentali
contemporanee, uno sviluppo significativo in termini di cittadinanza.
Secondo Donati vi è una relazione diretta tra inadeguatezze della cittadinanza e crisi
della democrazia: «in termini generali, i sistemi politici hanno tanto più incontrato
crisi quanto più essi non hanno saputo sviluppare 'autonomia democratica'». 126
I soggetti sociali che nelle democrazie occidentali hanno avuto negata la loro istanza
di riconoscimento della cittadinanza hanno percorso varie strade: exit (il rifiuto della
dimensione politica e il 'tirarsi fuori' dalla dinamica democratica), voice (la protesta
in varie forme), la riforma interna (istituzionale o extrapartitica) con accenti ed esiti
che sociologia e scienza politica hanno più volte analizzato. 121 Ma finora la domanda
di cittadinanza rimane pressoché inevasa e di tale difficoltà ad impostare
125 Ibidem, p. 54. 126 Ibidem, p. 56. 127Cfr. ALBERTO. HIRSCHMAN, Lealtà, defezione, protesta, Milano, Bompiani, 1982.
251
correttamente il problema vi è traccia, ad esempio, anche in importanti leggi di
riforma, di portata 'epocale', varate recentemente: la legge 142 del 1990 sulle
autonomie locali e la legge 241 del 1991 sul procedimento amministrativo e la
trasparenza, pur introducendo innovazioni necessarie e positive, si muovono ancora
all'interno della logica dell'ampliamento dei diritti individuali e della facilitazione
della partecipazione ai processi decisionali pubblici: secondo Donati, il pericolo è
che, nonostante le intenzioni, si finisca con il dare un'ulteriore spinta
all' autoreferenzialità della politica anche locale. La via della semplice
partecipazione, già ampiamente battuta fin dagli anni '70, si rivela inadeguata,
poiché, dando spazio a tutte le posizioni, la conflittualità cresce e la capacità
decisionale e di gestione diminuisce, frustrando le molteplici aspettative suscitate
(I' esperienza dei comitati di gestione delle USL di qualche tempo fa è esemplare al
riguardo). L 'autoreferenzialità del sistema politico è stata ed è vista talvolta come
un male necessario a sbloccare i meccanismi obsoleti della democrazia mediante le
riforme istituzionali. Il fatto è, sostiene Donati, che sia la partecipazione che le
riforme delle istituzioni presentano aspetti validi, ma, non essendo inquadrate in un
codice simbolico che ipotizza un progetto di società giusta e solidale, sfociano in un
«sostanziale sottosviluppo della cittadinanza», 128 in una democrazia bloccata. Come
spiegare tale blocco? L'ipotesi di Donati è che nell'Europa occidentale «società
civile e Stato, sfere sociali di vita quotidiana e istituzioni politiche, sono ormai
governate da un particolare 'codice simbolico' democratico il quale produce
incessantemente anomia e sprigiona, per reazione, sempre nuove richieste di
128PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 61.
252
maggior potere/funzionalità che non possono essere soddisfatte all'interno del
sistema societario dato e delle sue istituzioni politiche». 129 Il codice simbolico della
democrazia è interno a quello della modernità, soprattutto lì dove esso designa la
realtà e il mondo come costruzioni sociali operate attraverso selezioni in base a
'griglie' culturali: la visione contingente della realtà ha conseguenze anche sulla
teoria e sulle prassi della politica. La sociologia ha parlato, in tal senso, di una
società a razionalità limitata, non nelle potenzialità ma negli esiti, sempre
contraddittori, del gioco tra istanze sistemiche funzionali e istanze non funzionali.
Di qui il carattere per così dire compromissorio e 'stabilmente precario' della
democrazia moderna. La cittadinanza si configura come «operazione di
inclusione/esclusione secondo logiche di guadagno combinatorio contingente,
anziché essere un complesso di diritti e obblighi che dovrebbe essere tutelato e
promosso secondo una logica emancipativa coerente con se stessa». 130 Le istanze
inclusive - vecchie e nuove - dei soggetti deboli non fanno altro che evidenziare
l'inadeguatezza del codice funzionale della democrazia a razionalità limitata; in
essa, i diritti sono formulati sulla base di interessi di cui sono portatori gli individui
legittimati a farlo dalla loro appartenenza alla comunità politica e il cui contenuto -
fatte salve le leggi - è libero per definizione. Gli interessi, tuttavia, rimandano
sempre a delle identità, per quanto parziali e segmentate; 131 le identità, a loro volta,
non vengono dal nulla, ma si formano nel contesto di un'appartenenza politica e
anche socio-culturale. D-ai diritti di cittadinanza, quindi, si risale in qualche modo
129 Ibidem, pp. 61-62. 1301bidem, p. 64.
253
alla identità del cittadino: ciò che la cittadinanza moderna non è in grado di
elaborare, giacché ignora programmaticamente le appartenenze diverse da quella
politico-statuale. Una cittadinanza articolata solo sugli interessi, che pretenda di
essere neutrale rispetto alle culture, non può esistere, così come ogni sistema
politico, anche il più politically correct. Nonostante ciò sia empiricamente evidente,
il codice simbolico della modernità tende ad espungere l'elemento sociologicamente
normativo sia dalla identità del cittadino che dai criteri regolativi dei sistemi politici:
«si fa strada [ ... ] il problema di sapere se, nel prossimo futuro, sia possibile e come
produrre una democrazia normativa che non si auto-contraddica e auto-sconfigga in
partenza». 132 La prospettiva neo-funzionalista considera irreversibile il processo di
erosione delle basi normative della cittadinanza e della democrazia, erosione che
rende fragile e inconsistente, e perciò in ultima analisi irrilevante, ogni appartenenza
o mediazione individuo/sistema. La dinamica democratica, non potendo incentrarsi
sul rapporto tra interessi in chiave utilitaristica o rational choice né sulle
appartenenze, diviene tecnica di selezione opportunistica operata da identità
indefinite perché indefinibili. Ora, il particolare rapporto tra identità del cittadino e
appartenenza culturale per Donati è tale da non poter essere ulteriormente
disconosciuto o sottovalutato, se per appartenenza culturale si intende la «capacità
di elaborare ciò che la relazione sociale incorpora come sua storia normativa» e
per tradizione culturale la «capacità di sviluppo normativo delle relazioni». 133
Seguiamo l'argomentazione di Donati. Poiché la cittadinanza è un sistema che è in
131ALESSANDRO PIZZORNO, Identità e interesse, in LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983, pp. 139-54.
132PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 73.
254
parte di appartenenza (in primis politica), essa precede l'individuo; l'identità del
cittadino risulta non dal sistema politico di riferimento ma dalla relazione tra
quest'ultimo e l'individuo-cittadino. Inoltre, i due poli della relazione non sono
riducibili l'uno all'altro o viceversa né ognuno di essi alla relazione. Anche la
cittadinanza, come ogni altra relazione sociale, è intrinsecamente nomica, giacché si
regge su aspettative che si producono e tendono a stabilizzarsi. Anche il neo-
funzionalismo concorda su questo punto: ma esso ritiene che tutto sia negoziabile,
mentre nell'approccio relazionale la relazione in sé non lo è, giacché le relazioni
sono fra gli elementi costitutivi per l'identità dei soggetti, in parte anche a
prescindere dalla loro volontà o consapevolezza. La post-modernità attualmente non
è ancora in grado di concepire relazioni sociali contenenti elementi ascritti insieme
ad elementi acquisitivi, e quindi tende a dissolverle anomicamente.
In chiave relazionale, democrazia e cittadinanza possono essere articolate secondo
lo schema AGIL in quattro ambiti: a) diritti economici, b) diritti politici, c) diritti
sociali, d) diritti culturali: quest'ultimo è l'ambito meno sviluppato nella modernità,
giacché concerne il tema delle appartenenze culturali. Questo schema ha due aspetti
che vanno sottolineati: esso «evidenzia il fatto che la persona umana è bensì anche
cittadino, ma la cittadinanza non assorbe la persona umana. Si assume che la
cittadinanza, mentre si accolla l'onere di realizzare l'improbabile dell'umano, può
anche dar vita a qualcosa che umano non è». 134 Questa affermazione spinge ad
approfondire la cultura della cittadinanza, un aspetto poco indagato perché
133 Ibidem, p. 75. 134/bidem, p. 80.
255
surclassato dall'attenzione verso gli aspetti politici ed economici del concetto. La
situazione attuale vede una contrapposizione fra due culture della cittadinanza: una
basata sul modello della inclusione statalizzante, tendente a tradurre i bisogni sociali
in diritti il cui oggetto sono prestazioni da parte dello Stato sociale; la seconda è la
cultura della autonomia societaria che concepisce la cittadinanza come relazione
sociale fondamentalmente autonoma dallo Stato (anche se ad esso compete la
funzione di regolazione e tutela - o, per impiegare l'espressione di Donati, di
guida relazionale - delle autonomie sociali), nella quale i diritti sono i valori
comuni ritenuti centrali dalla sfera politica mediante le autonomie sociali e le
relazioni, di cooperazione e di conflitto, fra di esse. Perché Donati ritiene preferibile
la seconda alla prima? Egli osserva che l'inclusione statalizzante dei soggetti,
specialmente di quelli deboli, non modifica la forma delle istituzioni, ma tutt'al più
alcuni contenuti della loro azione, la 'struttura' non muta: «attendersi uguaglianza
sociale dalla semplice inclusione civica è errato: l 'egualizzazione delle condizioni di
vita è un prerequisito affinché l'inclusione venga riconosciuta e possa operare,
piuttosto che un risultato». 135 Se si considerano le ricadute sullo Stato sociale delle
dinamiche della relazione tra democrazia e cittadinanza, è possibile osservare,
innanzitutto, che la corrispondenza diretta tra crescita della democrazia, dei diritti
sociali e delle politiche sociali è in crisi, per vari ordini di motivi: i) l'inclusione
sociale nei sistemi di welfare mediante l'appartenenza politico-nazionale è fonte di
problemi (sovraccarico amministrativo e fiscale, conflitti tra interessi
sull'allocazione delle risorse economiche, coagularsi di sub-culture che rifiutano
135/bidem, p. 83.
256
l'assimilazione, spaccatura tra società dei due terzi garantiti e di un terzo non
garantito, burocratizzazione e privatizzazione delle forme di solidarietà sociale
primarie e secondarie, standardizzazione delle prestazioni a fronte di una società
sempre più multi-culturale); ii) lo sviluppo delle politiche sociali non coincide più
con quello delle politiche pubbliche, vi sono nuovi attori e il ruolo dello Stato
evolve da unico centro di imputazione a garante di una programmazione e di una
regolazione coerente con gli obiettivi del sistema; iii) ripensare lo Stato sociale
comporta anche confrontarsi con la necessità talvolta dolorosa di operare limitazioni
nell'accesso alle prestazioni, con un monitoraggio dei cambiamenti nei bisogni
esistenti e nell'efficacia delle modalità di intervento. Con riferimento a tali
questioni, non si tratta tuttavia di operare riduzioni opportunistiche à la Luhmann,
ma di riequilibrare l'assetto dei sistemi di welfare, incluse la gerarchizzazione delle
priorità di intervento e le distorsioni derivanti dal riferimento ormai obsoleto alla
società industriale.
Una concezione di cittadinanza più adeguata alle nuove forme della post-modernità
sostituisce al codice moderno dell'uguaglianza - che non riesce a trattare
correttamente le esigenze oggi contrastanti dell'universalismo e delle differenze -
il codice della reciprocità, che include al contempo uguaglianza (nei diritti) e
simiglianza/dissimiglianza (riguardo alle identità). 136
La reciprocità, che Donati definisce come 'affidamento reciproco', può divenire
«mezzo simbolico generalizzato di interscambio proprio della solidarietà come
136Per il concetto di dissimiglianza cfr. V ACLA V BELOHRADSKY, Della dissimiglianza, in «Studi di sociologia», XXVIII, 4, 1990, pp. 415-34.
257
dimensione latente del sociale», 137 cioè uno dei fondamenti non solo dello Stato
sociale, ma anche «dell'intero sistema societario e della democrazia come forma
complessa del suo governo politico, che sia proprio (specifico) dei mondi della vita,
ma possa essere riconosciuto (legittimato e promosso) anche dal 'complesso Stato-
mercato'». 138
Il sistema dei diritti sociali di cittadinanza (o sistema di 'welfare ')
Caratteri Modello mutualistico Modello statalistico Modello societario (società (prima industrializza-zione) (seconda industrializza- post-industriale)
zione)
Principio di Minimo o residuale Massimizzazione Generalizzazione e cittadinanza (assistenziale) dell'inclusione politica differenziazione secondo le
appartenenze
Referente delle Ceti sociali e condizioni di Classi sociali definite in Condizioni e stili di vita di politiche sociali povertà rapporto al mercato ogni persona
capitalistico
Copertura dei Mutualità e assistenza ex- Attraverso assicurazioni Nuovi mix e combinazioni rischi post con forme miste di obbligatorie generali per fra Stato, mercato,
intervento fra Stato e categorie professionali e in solidarietà associative e solidarietà locali e parte per via fiscale solidarietà primarie (reti professionali informali)
Regole di Secondo una logica Secondo una logica Secondo una logica allocazione assistenziale redistributiva distributiva
Ruolo dello Welfare state residuale Welfare state istituzionale o Welfare state come Stato quasi-totale- ordinatore generale e guida
relazionale
Estensione della Limitata secondo la Universalistica ma solo per Universalistica per cittadinanza categoria sociale di i soggetti di lavoro condizioni di vita (età,
appartenenza gender, struttura familiare, ecc.)
Soggetti di Individui in quanto Individui in quanto Individui in quanto cittadinanza appartenenti a comunità appartenenti a collettivi di appartenenti a 'soggetti
tradizionali lavoro sociali'
Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 91.
Ecco, dunque, la definizione nella quale Donati raccoglie sinteticamente gli
elementi principali della sua teoria della cittadinanza societaria: essa è
137PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 85.
258
«quell'insieme di valori e norme comuni che selezionano positivamente (e quindi
premiano) le relazioni di scambio, ispirate alla reciprocità, che contribuiscono al
mantenimento e al costante rafforzamento delle reciproche autonomie di soggetti
sociali pubblicamente rendicontabili». 139
Donati ha osservato taluni limiti sociologici nella teoria di Dahrendorf sulla
cittadinanza in una società aperta. In primo luogo, egli ritiene che restringere il
campo d'azione della dinamica sociale e quindi della cittadinanza all'asse Stato-
mercato significhi non considerare le sfere associative e le dimensioni culturali. Una
seconda osservazione verte sull'insufficienza di una concezione della cittadinanza
che proceda alla ricerca di un equilibrio fra liberalismo e socialismo, fra libertà e
uguaglianza nel tentativo di garantire a tutti un equo accesso alle risorse tramite
intitolazioni a diritti, escludendo da ciò le forme di solidarietà sociale e di
reciprocità primarie e secondarie, comunque le si valuti. In ultimo Donati nota che
lo status dei cittadini è, nella visione di Dahrendorf, di ricettori anziché di soggetti
attivi e che il compito di ridisegnare il complesso dei diritti di cittadinanza spetta a
'menti precise', cioè a nuove élite, ancorché illuminate e scevre da visioni
particolaristiche: ciò non solo non intacca le derive assistenzialistiche degli attuali
sistemi di welfare ma non chiarisce quale sia l'ambito delle responsabilità e dei
doveri dei cittadini verso la collettività politica. 140
Così caratterizzata, la cittadinanza secondo l'ottica del neo-individualismo
democratico - che Donati definisce come cittadinanza lib-lab - non si libera dagli
138/bidem, p. 99. 139 Ibidem, p. 195. 140 Ibidem, pp. 241-43.
259
attuali limiti di efficacia, che si trasformano in veri e propri effetti perversi, poiché
essa genera: disuguaglianza (società dei due terzi) e conflitti in ordine ai diritti e alle
identità della cittadinanza; i/libertà, dal momento che, esaltando le libertà
individuali negative, di fatto si riducono le libertà positive di perseguire mete
comuni di cittadinanza; deperimento della politica sociale da bene comune ad
assistenza alle fasce sociali marginali.
Al fondo, ciò che limita fortemente la nozione neo-individualista democratica di
cittadinanza è il fatto che essa non viene sociologicamente osservata come relazione
sociale, il che impedisce di vedere i diritti delle persone tenuto conto delle loro
relazioni di responsabilità e reciprocità nonché dei diritti della relazione in sé legati
ai caratteri culturali delle specifiche situazioni: «una cittadinanza intesa come puro
entitlement alimenta una logica auto-sconfiggentesi, che fallisce nel generare
cittadinanza perché non tiene conto del fatto che ai diritti corrispondono dei doveri,
e che gli uni e gli altri sono relazioni sociali. [ ... ] Una teoria adeguata deve poter
osservare e produrre il reciproco bilanciamento fra queste relazioni», a meno che
non intenda giustificare uno Stato sociale che gestisca monopolisticamente o,
all'opposto, residualmente le politiche sociali. 141 La cittadinanza lib-lab, protesa al
compimento del progetto della modernità, si rivela dunque inadeguata ad osservare
ed assumere i dati della società della post-modernità.
141/bidem, p. 265.
260
Tipologia della cittadinanza secondo gli orientamenti e l'autonomia dei soggetti portatori dei diritti di cittadinanza
Orientamenti degli attori
Autonomia dei soggetti portatori dei diritti
(a fronte del potere statuale)
Debole Forte
In senso Cittadinanza statuale Cittadinanza societaria particolaristico 'frammentata' e 'clientelare' 'corporativa'
In senso universalistico
Cittadinanza statuale 'centralizzata'
Cittadinanza societaria 'plurale' o delle
'autonomie sociali'
Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 272.
3. 7.2. Alcuni orientamenti teorici post-moderni
Nella sociologia contemporanea alcuni autori hanno colto il punto di svolta dal
moderno al post-moderno, prendendo atto degli esiti della crescente differenziazione
della società e dei suoi sotto-sistemi che danno luogo ad una sempre maggiore
distanza tra mondi della vita quotidiana e istituzioni politiche; 142 tale situazione non
consente più sintesi universalistiche, sebbene le istanze di riconoscimento dei diritti
e dell'uguaglianza si siano globalizzate, giacché le solidarietà nazionali e di classe
non riescono a comporre come in precedenza le spinte centrifughe. L'approccio
proposto dai teorici del post-moderno ritiene insufficienti sia le risposte liberali che
quelle neo-conservatrici,- perché operano riduzioni eccessive della complessità
sociale; il neo-funzionalismo sistemico di Luhmann non indica altra strada se non la
261
ricerca di strategie opportunistiche di governo degli input dell'ambiente, mentre per
Crespi l'ipotesi è che solidarietà sociale e cittadinanza post-moderne possano evitare
il dominio dei particolarismi richiamando l'appartenenza di tutti alla condizione
esistenziale dell'essere umano, di per sé limitata e non definibile in ogni suo aspetto
e differenza: la consapevolezza di tale condizione favorirebbe la costituzione di
identità particolari ma non aggressive, essendo ognuna di esse sollecitata a gestire il
proprio 'potere intrinseco' da 'forza attiva socialmente responsabile'. Il limite di
questa concezione è che non ammette alcun modello normativo che faccia da
riferimento al vissuto soggettivo, ma punta a nuove forme di mediazione simbolica
in grado di equilibrare il rispetto delle differenze individuali e la condivisione della
condizione esistenziale, essendo tali mediazioni simboliche di per sé sempre
riduttive e transitorie. Sia nell'ipotesi di Luhmann che in quella di Crespi, la
cittadinanza si svuota di ogni contenuto sociologicamente normativo.
Una diversa visione dell'attuale 'snodo' della modernità è stata elaborata da
Anthony Giddens, secondo il quale stiamo assistendo non già alla fine della
modernità ma ad una sua radicalizzazione. E gli considera tre fasi all'interno del
ciclo storico della modernità: la fase illuminista, la fase della modernità dispiegata e
del 'politeismo disincantato' di Max Weber, la fase della modernità radicale,
caratterizzata dalla riflessività del sapere e dall'esigenza di un ripensamento della
modernità stessa. I rapporti sociali, nella modernità radicale, sono sottoposti a
processi di disembedding ('disaggregazione'): sono 'tirati fuori' da contesti locali di
142Cfr., in particolare, NIKLAS LUHMANN, I/luminismo sociologico, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1983; FRANCO CRESPI, Azione sociale e potere, Bologna, Il Mulino, 1989; ID., Imparare ad esistere ... cit.
262
interazione e rimodulati su nuove distribuzioni spazio-temporali. Le relazioni sociali
sono stretched, cioè 'stirate' nello spazio e nel tempo, e richiedono una dose
crescente di fiducia sistemica. L'aumento del rischio comportato da questo modello
di relazioni sociali viene vissuto in modo ambivalente: da un lato si assite a processi
di reembedding, cioè di riaggregazione e di ricomposizione fra intimità e
personalità, fra competenza e riappropriazione, tra fuga nel privato e impegno
CIVICO, m breve «la combinazione di rischio e opportunità». 143 La proposta
conclusiva di Giddens è quella di un «realismo utopico [che] combina l'apertura di
finestre sul futuro con l'analisi delle tendenze istituzionali in corso, rendendo così
gli scenari politici del futuro immanenti al presente», ponendo «un limite al
carattere indefinitamente aperto della modernità». 144
143 ANTHONY GIDDENS, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, p. 145.
144 Ibidem, p. 174.
CAPITOLO 4 - SOLIDARIETÀ SOCIALE, AUTONOMIE SOCIALI E CITTADINANZA NELLA DIMENSIONE COMUNITARIA
4. O. Premessa
Il declino della comunità è stato, da T onnies in poi, ritenuto progressivo e lineare
nonché simmetrico rispetto al consolidarsi delle relazioni societarie. In questo
capitolo verranno approfonditi i problemi scaturenti dalla tensione Gemeinschaft-
Gesellschaft alla luce del tentativo di compiere una rapida presentazione dell'analisi
sociologica del concetto di comunità a confronto con letture di altro genere
(segnatamente quella filosofico-politica). Cogliendo un provocatorio quesito di
Martin Bulmer - «è realistico scommettere sulla comunità» ai fini di programmi
per il benessere collettivo? - si tenterà di mostrare quali possano essere le
principali opportunità e i problemi implicati da tali approcci teorici nonché le nuove
possibili configurazioni comunitarie o di nuove comunità all'interno delle società
avanzate. Le prospettive delineate dal paradigma della società come rete e
dall'intervento di rete possono sostenere un approfondimento relazionale della
cittadinanza e delle autonomie sociali.
4.1. Comunità e società: una problematica attuale?
4.1.1. Il concetto di comunità in alcune opere sociologiche 'classiche'
Comunità appartiene al novero dei concetti di importanza cruciale nella vicenda
della moderna teoria sociale e politica. Il suo ambito semantico è molto ampio, ma è
265
possibile ricomporre i significati maggiormente esplorati in sociologia secondo due
direttrici - quella psicologica e quella ecologica - che riflettono la prima una
qualità delle relazioni sociali, l'altra la collocazione territoriale di un insieme di
individui. 1
La comunità intesa essenzialmente come forma di socialità o di sociabilità è uno
stato particolare presente ogni qualvolta i membri di una collettività agiscono dando
preminenza ai valori, norme, costumi, interessi della collettività rispetto a quelli
personali, del sotto-gruppo di appartenenza o di altre collettività, oppure quando il
senso di appartenenza, la consapevolezza di interessi comuni, l'adesione affettiva
alla collettività e l'essere inseriti in una rete di relazioni sociali esprimono
concretamente fenomeni di solidarietà all'interno di una collettività, anche se il
manifestarsi della dimensione comunitaria non elimina le possibilità di conflitto, di
potere o dominio.2 Così, non è corretto ritenere che la forma comunitaria sia
storicamente precedente a quella societaria in senso esclusivo; come pure sarebbe
impropria la corrispondenza della comunità ad un inferiore stadio evolutivo delle
forme di solidarietà o la sua collocazione ideologica in una scala di valore di tali
forme. La nozione ecologica di comunità è stata elaborata dalla 'scuola di Chicago',
che ne ha fornito sia un quadro teorico-concettuale che un insieme ampio e
articolato di riferimenti su base empirica.
Le origini del concetto risalgono al pensiero romantico tedesco, filone al quale si
ricollega Tonnies con la sua opera fondamentale Comunità e società che riprende e
approfondisce i caratteri della comunità in relazione alle trasformazioni sociali della
1RAIMONDO STRASSOLDO, Comunità, in FRANCO DEMARCID- ALDO ELLENA- BERNARDO CAITARINUSSI {a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 485-99.
266
modernizzazione e dell'urbanizzazione. L'analisi Wnniesiana evidenzia i caratteri
delle due forme di relazioni sociali - che attraverso elaborazioni successive
verranno indicate come forme idealtipiche - con un certo tono di adesione
ideologica e rimpianto verso la comunità perduta, i cui archetipi principali vengono
indicati nella famiglia e nel villaggio rurale centro-europeo. Al di fuori del
panorama tedesco, il concetto ha avuto una minore attenzione: negli Stati Uniti i
caratteri della Gemeinschaft tOnniesiana si ritrovano nel concetto di gruppo
primario di Charles H. Cooley,3 in quello di folk society di Robert Redfield,4
parzialmente in quello di comunità proposto da Robert Maclver;5 nella sociologia
anglosassone in generale, peraltro, il termine community è molto diffuso e ad esso
corrisponde il concetto di comunità territoriale locale; in Francia, George Gurvitch6
ha adoperato l'espressione communauté per indicare una forma media di sociabilità
per fusione tra individui, compresa tra la massa e la comunione.
La nozione di comunità non può non essere complessa, in quanto si compone di
elementi eterogenei, e acquisita, poiché fa capo a processi di socializzazione, né è
mai presente allo stato puro, ma sempre variamente associata a relazioni di calcolo,
di conflitto, di violenza. Spostando l'attenzione verso la costituzione e il
mantenimento della comunità, è possibile studiare il processo di comunizzazione
2LUCIANO GALLINO, Dizionario di sociologia, Torino, Tea/Utet, 1993, pp. 144-47. 3CHARLES H. COOLEY, L'organizzazione sociale, (ediz. orig. 1909), trad. it., Milano, Comunità, 1963. 4ROBERT REDFIELD, La piccola comunità, la società e la cultura contadina, (ediz. orig. 1955), trad. it.,
Torino, Rosenberg & Sellier, 1976. 5ROBERT MAclVER, Governo e società, (ediz. orig. 1947), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1965. Secondo
questo approccio, la comunità è la base fondamentale della vita sociale, il più piccolo gruppo all'interno del quale l'individuo è in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere tutte le sue funzioni - un gruppo sociale autosufficiente di primo livello, anche se non è ben chiaro quali siano tali bisogni e funzioni e di che tipo di autosufficienza si tratti; lo Stato, secondo questo Autore, ha per obiettivo diventare «lespressione delle [ ... ] principali aspirazioni» delle comunità (ibidem, p. 205).
6GEORGE GURVITCH, La vocazione attuale della sociologia. Verso la sociologia differenziale, (ediz. orig. 1950, 19633), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1965.
267
nell'ambito dei fenomeni religiosi, economici, territoriali, della partecipazione attiva
alla vita comune: in contesti del genere la forza del legame comunitario è data da
una rete di relazioni interpersonali flessibili, da legami 'sacri' e oggetto di
identificazione simbolica, da un efficace collegamento con la più ampia realtà
sociale.1
Comunità e società fanno parte, nel pensiero di Tonnies, di un umco schema
interpretativo: «la teoria della società muove dalla costruzione di una cerchia di
uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l'uno accanto
all'altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati,
rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante
tutte le separazioni. Di conseguenza, qui non si svolgono attività che possano venire
derivate da un 'unità a priori esistente necessariamente, e che quindi esprimano
anche la volontà e lo spirito di questa unità nell'individuo, in quanto compiute per
mezzo suo, realizzandosi tanto per gli associati con l'individuo quanto per
l'individuo stesso. Piuttosto, in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno
stato di tensione contro tutti gli altri».8
Tra gli autori che hanno più o meno direttamente esercitato influenza su Tonnies,
vanno ricordati Marx:9 e Maine, 10 al quale si deve l'elaborazione della dicotomia
status-contratto come chiave interpretativa del cambiamento sociale nella
modernità. Weber riprende e approfondisce la coppia tOnniesiana Gemeinschaft-
7Queste sono le coordinate del concetto secondo l'ottica dell'individualismo metodologico: cfr. Comunità, in RAYMOND BOUDON - FRANçOis BOURRICAUD, Dizionario critico di sociologia, trad. it., Roma, Armando, 1991, pp. 88-92.
8FERDINAND TONNIES, Comunità e società ... cit., p. 83. 9Cfr. KARL MARx, Forme che precedono la produzione capitalistica, (il manoscritto risale al 1857-58, ediz.
orig. 1939-1941), trad. it., Roma, Rinascita, 1956. 10Cfr. HENRY J. SUMNERMAINE, Village Communities in East and West, London, 1871.
268
Gesellschaft ponendola in relazione alla tipologizzazione dell'agire sociale; 11 egli
definisce una relazione sociale 'comunità' «se, e nella misura in cui, la disposizione
dell'agire sociale poggia [ ... ] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita
(affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano»; 12 una relazione
sarà definita 'associazione' «se, e nella misura in cui, la disposizione dell'agire
sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato
razionalmente (rispetto al valore o allo scopo )». 13
In Durkheim la dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft viene riformulata nei termini
del rapporto tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, rapporto che viene
analizzato in modo problematico, tentando di individuare continuità e tensioni tra le
due differenti forme sociali: anche la società a solidarietà organica non può fare a
meno di una comune base morale, proprio a motivo della crescente differenziazione
nei ruoli sociali e produttivi. 14
Parsons rielabora la dicotomia tOnniesiana nel quadro della definizione del noto
schema delle cinque variabili strutturali ('pattern variables ') dell'orientamento di
valore come definizioni di modelli relazionali di aspettativa di ruolo; lo schema è
ottenuto scomponendo le due categorie 'comunità' e 'società' in caratteri le cui
combinazioni in 'dilemmi di scelta' o 'variabili strutturali' rappresentano un insieme
11Può essere di qualche utilità ricordare come la traduzione dal tedesco delle opere weberiane abbia rappresentato, proprio a proposito del concetto di cui ci stiamo occupando, una questione di una certa importanza, che non a caso è stata diversamente risolta negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, paese nel quale la recezione delle opere di Weber è passata attraverso il filtro delle teorie di Parsons. Rinviamo, per una sintesi di questa problematica, alle note di GREGOR FITZI, Un problema linguistico-concettuale nelle
- traduzioni di Weber: «Comunità», trad. it. in «Filosofia politica», VIII, 2, 1994, pp. 257-268. Qui basterà accennare al fatto che lo stesso termine italiano 'comunità' traduce oltre Gemeinschaft, due distinti termini presenti nel testo weberiano originale: Gemeinschaftshandeln - da tradurre con 'agire in comune', concetto che esula dalla problematica inerente la coppia comunità-società - e Vergemeinschaftung - che andrebbe tradotto con 'accomunamento', cioè «una relazione sociale fondata su semplici rapporti consensuali».
12MAx WEBER, Economia e società ... cit., voi. I, p. 23.
269
più ampio e variegato di forme di orientamenti della relazione e di varianti di ogni
singola forma: «L Il dilemma gratificazione-disciplina: affettività e neutralità
affettiva. II. Il dilemma tra interessi privati e interessi collettivi: orientamento in
vista dell'ego e orientamento in vista della collettività. III. La scelta tra tipi di criteri
di orientamento di valore: universalismo e particolarismo. IV. La scelta tra
'modalità' dell'oggetto sociale: realizzazione e attribuzione. V. La definizione della
portata dell'interesse all'oggetto: specificità e diffusione». 15 Nonostante lo schema
teorico parsonsiano si sia mosso in direzione di un modello funzionalista di società,
oggi non più convincente, le variabili strutturali «rappresentano comunque la
versione più moderna e sofisticata della coppia analitica comunità-società». '6
Il 'bisogno di comunità' è stato ritenuto, da parte di alcuni autori di orientamento
liberal-conservatore, uno degli elementi su cui ha fatto leva il totalitarismo del XX
secolo: 11 esso sarebbe sorto come conseguenza ai processi - tipici della
modernizzazione industriale europea - di distruzione delle organizzazioni
intermedie di aggregazione sociale, di sradicamento territoriale e di impoverimento
culturale, dello spostamento dai piccoli centri alle grandi città, dall'accelerazione
della mobilità spaziale e delle comunicazioni di ogni tipo; gli individui, sganciati
dalle comunità organiche pre-moderne e privi di stabili punti di riferimento
soprattutto a livello relazionale e culturale, sarebbero stati più vulnerabili al fascino
di ideologie totalizzanti e dei relativi movimenti sociali e politici, dotati di codici
13/bidem, p. 38. 14ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale ... cit. 15TALCOTIPARSONS, Il sistema sociale, (ediz. orig. 1951), trad. it., Milano, Comunità, 1965, p. 73. 16ARNALDO BAGNASCO, Comunità: definizione, in «Parolechiave», 1, 1993, pp. 11-30; p. 18. 17Un autore classico in tal senso è JOSÉ ORTEGA Y GASSET, La ribellione delle masse, (ediz. orig. 1930), trad.
it., Bologna, Il Mulino, 1962; tra i contemporanei, ROBERTA. NISBET, La comunità e lo stato. Studio
270
simbolici comunitari nei quali identificarsi e verso i quali maturare un senso di
appartenenza, essendo anche disposti ad accettarne i valori e a mobilitarsi per essi.
Nel contesto societario moderno, l'esigenza di ambiti comunitari di relazione si
(ri)presenta, anche se con modalità ed esiti alquanto diversi: si potrebbe dire che
oggi il fenomeno si ripropone nelle svariate forme di espressione socio-culturale
delle differenze, di sviluppo delle 'autonomie sociali', pur tra contraddizioni e
particolarismi, e di innovazione o sperimentazione di modelli integrativi ed
organizzativi. 18
4.1. 2. Declino e ripresa del concetto di comunità
Se si eccettua la nozione ecologica di comunità, non si può non prendere atto del
declino del concetto di comunità nella sua accezione psicologica; tuttavia, il suo
campo di applicazione contiene problematiche il cui interesse è tuttora attuale:
modernizzazione, secolarizzazione, solidarietà, livelli di articolazione e di relazione
tra forme di sociabilità.
Si è avuto, osserva Bagnasco, un certo rimescolamento in ragione del quale alcuni
temi prima esplorati attraverso la coppia analitica comunità-società sono stati
inquadrati entro diverse concettualizzazioni; il sociologo torinese indica tre esempi
sull'etica de/l'ordine e della libertà, (ediz. orig. 1953), trad. it., Milano, Comunità, 1957; tra gli autori che hanno anticipato alcuni elementi di questa posizione, Alexis de Tocqueville e Simone Weil.
18Su quest'ultimo aspetto cfr. GIULIANO GIORIO, Dall'intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani della società tecnologica, in ID. (a cura di), Dall'intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani della società tecnologica, Padova, Cedam, 1990, pp. 9-37; ID., L'organizzazione della comunità in ambiente montano, in FRANCO DEMARCHI ET ALII (a cura di), Territorio e comunità. Il mutamento sociale nel/ 'area montana, Milano, Angeli, 1983, pp. 18-54. Sulla tematica dello 'sviluppo della comunità' all'interno di realtà rurali o di paesi in via di sviluppo, cfr. GIULIANO GIORIO, Organizzazione di comunità con particolare riferimento al/ 'ambiente rurale italiano, Padova, Marsilio,
271
di concetti nei quali si ritrova quanto è rimasto dalla dissoluzione del concetto di
comunità: identità (la problematizzazione della costruzione societaria dell'identità
soprattutto individuale a fronte di una costruzione comunitaria), reciprocità (la
consistenza - tutt'altro che trascurabile - di una dimensione informale nei sistemi
economici moderni e l'emergere della reciprocità come suo codice simbolico-
normativo), fiducia (le trasformazioni e le persistenze della fiducia sia nella sua
dimensione interpersonale che in quella istituzionale o sistemica). 19
La tematica dell'identità nei suoi termini attuali - già oggetto di esame in questo
lavoro20 - richiama quella della comunità, se non altro perché l'identità, sebbene
con modalità diverse secondo i vari approcci sociologici, si pone come mediazione
tra individuo e società, come elemento che entra in gioco nei processi di
integrazione sociale;21 se, tuttavia, l'identità viene tematizzata nei termini della sua
perdita all'interno delle società moderne, il suo rapporto con il concetto di comunità
viene a perdere di senso, giacché nei contesti comunitari pre-moderni come delineati
da T onnies non possono darsi identità individuali autonome. Bagnasco individua un
altro possibile punto di contatto teorico fra identità e comunità a proposito della
critica agli approcci utilitaristici alla politica: in questo caso, è possibile mostrare
come gli attori politici siano mossi non solo da interessi, ma anche da identità
collettive che possono essere alla base delle loro strategie di azione
L'economia informale - quella, cioè, che sfugge alla contabilità nazionale -
contiene relazioni economiche di vario genere, oltre quelle che gravitano nei settori
1969; MURRA Y G. Ross, Organizzazione di comunità Teoria e principi, ( ediz. orig. 1955), trad. it., Roma, O.N.A.R.M.O., 1968.
19Cfr. ARNALDO BAGNASCO, Comunità ... cit., pp. 18-23. 2°Cfr. supra, capitolo 1.
272
illegali e criminali: tradizionali, di sopravvivenza e simili il cui codice simbolico-
normativo è la reciprocità e non la massimizzazione dell'uso delle risorse. Sotto
certi aspetti, questo insieme di fenomeni può essere ricondotto a forme comunitarie,
ad una «tendenza alla de-differenziazione strutturale, alla ricomparsa di ruoli meno
specifici e di relazioni più particolaristiche»22 in vari ambiti e con varie modalità:
produzione di beni e servizi per l'autoconsumo familiare o di gruppi amicali, i
servizi offerti dal volontariato, eccetera. Anche in questo caso, l'accostamento di tali
fenomeni al concetto di comunità è limitato ad alcuni aspetti; le tipologie di
meccanismi di regolazione dell'integrazione sociale elaborate da Polanyi sono in
grado di produrre migliori esiti analitici. 23
Per quanto riguarda la fiducia, sarà sufficiente rinviare a quanto già detto in altra
parte del nostro itinerario di ricerca24 allo scopo di soppesare affinità e discontinuità
di tale concetto con quello di comunità: è chiaro che i maggiori riscontri reciproci si
avranno in tema di condizioni per la stabilizzazione delle aspettative intersoggettive,
di componenti non-razionali dell'azione, di relazioni particolaristiche fra persone:
purtuttavia, non si può non concordare con Bagnasco quando osserva che parlare di
fiducia - in linea di principio - ha senso nella società, e non nella comunità, nella
quale non si hanno condizioni di incertezza in ordine alle relazioni interpersonali.
21Cfr. LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.
22ARNALDO BAGNASCO, Comunità: definizione ... cit., p. 21. Cfr. LUCIANO GALLINO, Doppio lavoro ed economia informale. Verso la futura società pre-moderna, in ID. (a cura di), Occupati e bioccupati. Il doppio lavoro nel/ 'area torinese, Bologna, Il Mulino, 1982.
23 Ad esse abbiamo già fatto cenno: vedi supra, capitolo I. 24Vedi supra, capitolo I.
273
Gli studi sulle comunità locali hanno rappresentato una certa continuità di interesse
alla dimensione ecologica della comunità. La lunga tradizione di questi studi25 viene
oggi portata avanti e innovata, senza sopravvalutare la dimensione spaziale,
soprattutto con riferimento alle problematiche in chiave locale dello sviluppo socio-
economico, delle reti di relazione e della politica sociale.
4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft: una rivisitazione La teorizzazione di F erdinand T onnies circa il passaggio nella forma dei rapporti
sociali dalla 'comunità' alla 'società' ha risentito di assunzioni che in parte ne hanno
deformato il contenuto: già i contemporanei di Tonnies ne diedero una lettura
evoluzionistica, corrispondente ad una diffusa tendenza di quel tempo (fine
dell'Ottocento), come se i cambiamenti in corso nelle società industriali indicassero
un passaggio progressivo e netto dalla comunità alla società. Anche Durkheim, ne
La divisione del lavoro sociale, accredita questa lettura, sebbene con una positiva
valutazione della civiltà industriale, diversa da quella proposta da Tonnies. Lo
schema dualistico comunità-società, da allora in poi, è stato largamente impiegato,
adoperando i due poli come tipi ideali di relazioni sociali tra persone che si
associano mediante il consenso, nel caso della comunità, o il contratto nel caso della
società. Nel pensiero del sociologo tedesco - come si è visto - la distinzione
fondamentale tra le due forme di associazione è che in quella comunitaria si
presuppone una unione essenziale fra le persone, mentre in quella societaria le
25Riportiamo soltanto alcuni fra i riferimenti essenziali a contributi pionieristici: ROBERT S. L YND - HELEN MARREL LYND, Middletown, (ediz. orig. 1929 e 1937), trad. it., 2 volumi, Milano, Comunità, 1970 e 1974; ANNA ANFOSSI - MAGDA TALAMO - FRANCESCO INDOVINA, Ragusa comunità in transizione, Torino, Taylor, 1959; ALESSANDRO PIZZORNO, Comunità e razionalizzazione, Torino, Einaudi, 1960.
274
persone sono essenzialmente separate. Lo specificum della teoria tonniesiana
consiste nel ritenere basilare il carattere fondamentalmente normativo della
relazione sociale, secondo un'articolazione a tre livelli: ordine sociale, legge,
moralità.
Donati si ripropone non tanto di affrontare i problemi relativi alle due categorie
'comunità' e 'società', ma di «ripensare le categorie tonniesiane come due varianti
di una concezione della relazione sociale, in linea di principio realistico-relazionale,
che è stata stravolta prima da Max Weber e poi da Talcott Parsons. Il primo ne ha
dato una visione nominalistica, ideal-tipica e categoriale post-kantiana. Il secondo
l'ha utilizzata secondo un realismo analitico, scarsamente e non propriamente
'relazionale', che ha dissolto la validità della prospettiva tOnniesiana in un
funzionalismo evoluzionistico privo di mondo vitale».26 Il limite presente sia in
W eber che in Parsons consiste - ad avviso di Donati - nell'avere ricondotto la
relazione all'azione, non tematizzandola adeguatamente. In fasi successive della sua
elaborazione, Tonnies aveva sfumato gli aspetti più evoluzionistici della coppia
categoriale comunità-società, che da concetti storico-empirici avevano assunto la
caratteristica di concetti tendenzialmente analitici. Questo problema prettamente
teoretico è stato affrontato in modo più soddisfacente da Parsons: questi ha
osservato che la Gemeinschaft è costruita su valori ultimi, mentre la Gesellschaft è
basata su valori di scambio, il che starebbe a significare che la prima forma non
esclude totalmente l'altra, poiché i valori rispettivamente sottostanti rispondono a
diversi imperativi societari. Questo dibattito è stato poi portato avanti solo da
275
Habermas e Luhmann: il pnmo ha difeso la combinazione di Gemeinschaft e
Gesellschaft, sostenendo, contro Parsons, che la comunicazione e la comunità hanno
maggiore rilevanza degli imperativi del sistema societario;21 il secondo ritiene che
nella società contemporanea vi sia un'assoluta prevalenza della Gesellschaft, che
oscura totalmente le dimensioni comunitarie. 28
Donati ritiene che vada esplorato, nella teoria di Tonnies, il 'problema relazionale',
in modo da ricavarne utili elementi per una teoria relazionale della relazione sociale:
«la tesi è che, nel pensiero di Tonnies, il carattere organico specifico della società
non consente di giustificare una evoluzione lineare delle relazioni sociali. Al
contrario, lo sviluppo della Gesellschaft mantiene e riproduce strutture di
Geme inschaft». 29 Le radici della forma 'comunità' sono in un 'mondo quotidiano'
(che T onnies definisce cultura popolare) irriducibile al 'sistema' o a sistemi
culturali. Sebbene Tonnies su tali aspetti si sia mostrato incerto, egli rimaneva
convinto che la comunità non sarebbe scomparsa, poiché la sua permanenza si
aggancia al 'diritto naturale' e sugli elementi di fondo della società. Nonostante che
tali argomentazioni possano rivelarsi insufficienti, Donati ritiene che tale linea di
ricerca meriti di essere approfondita, e che «oggi molti fenomeni significativi
testimonino al contrario l'esigenza di caratteristiche (strutture e processi) profonde
del sociale che non si lasciano ridurre all'interpretazione funzionalistica che, da
Parsons a Luhmann, è stata impropriamente data al pensiero di Tonnies».30
26PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 89. MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), traci. it., Milano, Comunità, 1961; TALCOTI PARSONS, La struttura dell'azione sociale, (ediz. orig. 1937), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1968.
27J0RGEN HABERMAS, Teoria dell'agire comunicativo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986. 28NIKLAS LUHMANN, Illuminismo sociologico, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1983. 29FIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 91. 30 Ibidem, p. 92.
276
4. 3. La Gemeinschaft come supporto della Gesellschaft
L'idea di Tonnies che comunità e società costituiscano un intreccio viene
confermato da un passo della sua opera principale: «la forza della comunità persiste,
sia pure attenuandosi, anche nell'era della società, e rimane la realtà della vita
sociale».31 In che senso? Il termine 'realtà' corrisponde in Tonnies a 'organico', in
opposizione a 'meccanico', 'artificiale', 'razionale'. L'affermazione iniziale viene a
essere così spiegata da Donati: «per quanto la Gesellschaft possa svilupparsi in tutta
la sua 'artificialità', [ ... ] essa non può cancellare la Gemeinschaft, perché
cancellerebbe il proprio stesso supporto di vita: l'organismo vivente è la comunità,
mentre la società è un prodotto-aggregato riflesso».32 La società razionale, costruita,
deve possedere una capacità di vita, che le consenta di assimilare le energie
necessarie e di fronteggiare le forze che portano in direzione opposta. «Il diritto
naturale [ ... ] non è altro che l'espressione della realtà della vita sociale così intesa
[ ... ] è il diritto di ciò che esiste sulla base della comunicazione normale, né
eccezionale né patologica, la quale include tanto la dimensione comunitaria che
quella societaria. Esso, infatti, può venir inteso tanto come volontà essenziale
comune, quanto come volontà arbitraria comune».33 Si tratta di una concezione del
diritto naturale che - diversamente che in Luhmann - ammette sviluppo, se per
31FERDINAND TONNIES, Comunità e società, (ediz. orig. 1887), trad. it., Milano, Comunità, 1963, p. 297. 32PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 93. 33 Ibidem, p. 94.
277
diritto naturale si intende «tutto ciò che è conforme al senso di un rapporto
comunitario, che ha un senso in esso e per esso».34
Così sintetizza Donati il pensiero del sociologo tedesco: «la relazione di comunità è
qui concepita come 'condizione fondamentale' che il 'soggetto razionale' deve
adempiere ai fini di una razionalità del diritto che sfugge ai canoni dell'illuminismo
evoluzionistico, quale sarà ripreso ai nostri giorni tanto da Habermas che da
Luhmann, seppure in modi assai diversi. [ ... ] In breve, laddove gli uomini stanno
assieme e non si dividono o lottano aggressivamente fra loro producendo patologie
che portano alla dissoluzione delle relazioni sociali, per quanto essi siano
differenziati e uniti dalla mera 'volontà arbitraria', permane sempre un elemento di
comunità, come sentire reciproco, comune, associativo. Ogni nuovo stimolo ogni
nuova richiesta di 'socialità', chiamando necessariamente in causa la ragione e il
linguaggio, può diventare vita fisiologica solo passando attraverso una fase di
'comprensione'. È questo l'elemento comunitario come dimensione sempre e
necessariamente reale della vita sociale intesa come capacità di con-vivenza».35
4. 4. Leggere la società come 'rete '
4. 4.1. Sviluppi del contributo parsonsiano La lettura della teoria tOnniesiana esposta nei paragrafi precedenti, inquadrata nella
prospettiva relazionale elaborata da Donati, trova rispondenza anche in un'analoga
esigenza prospettata da Habermas:36 adottare, rifacendosi a Tonnies, una unità di
analisi della sociologia diversa da quella adottata da Parsons e dalle teorie
34FERDINAND TONNIES, Comunità e società ... cit., p. 62.
278
dell'azione (I' unit act, atto elementare) e che riconduceva all'individuo-sistema il
problema degli orientamenti di valore anziché riportarli alle dimensioni culturali
della relazione sociale. Cinque punti fanno da base al discorso di Donati: i) la
modernità del Novecento è stata ritenuta sinonimo di progresso del sistema,
mediante la sua razionalizzazione, anche quando la razionalità veniva riferita
primariamente all'individuo; ii) la crisi dei sistemi di welfare state induce a
riprendere l'impiego di ciò che la modernità aveva definito, da un punto di vista
sistemico, residuale e pre-moderno; iii) accanto alla crescita della razionalità
sistemica si è consolidata una 'razionalità di mondo vitale' che presenta un elevato
grado di differenziazione; iv) razionalizzazione sistemica e razionalizzazione vitale
hanno fatto emergere l'intreccio tra 'base comunitaria' e 'base sociale' (sistemica),
sia nel patologico che nel 'normale'; v) l'integrazione di società ad elevata
complessità viene garantita solo da meccanismi alimentati da razionalità sia
sistemica che comunitaria, e ogni 'normalità' o 'patologia' va compresa in rapporto
al relazionarsi di entrambe le forme di razionalità.
Quali conseguenze ne scaturiscono? «Questo significa non solo che azione e sistema
sociale sono altamente compenetrati fra loro, pur nella loro reciproca e crescente
auto-differenziazione, ma che la loro 'sostanza' sociale non è differente, poiché
azione e sistema sociale sono soltanto modi diversi di combinare, in modo
relazionale (reticolare), dei profili di possibilità che non sono mai dati nella realtà
concreta come tipi 'puri' della Gemeinschaft o Gesellschaft. Tali 'possibilità' sono
possibilità della 'volontà' in Tonnies, di orientamenti al valore o motivazioni-
35PIERPAOLO DONATI, Teoria relaziona/e ... cit., p. 95; pp. 95-96. 36JOR.GEN HABERMAS, Teoria dell'agire ... cit.
279
disposizioni in Parsons, di preferenze e aspettative m Luhmann, di 'possibilità
comunicative' in Habermas».37
E dunque si ha che «nella concreta fenomenologia sociale, la relazione sociale è
sempre una intelaiatura complessa, sovente incoerente e ambivalente, di
orientamenti che la teoria classica considererebbe 'spuri': per esempio una relazione
può essere fortemente affettiva, moderatamente particolaristica, ascrittiva, piuttosto
diffusiva e notevolmente orientata al self. [ ... ] Cosicché solo una lettura in chiave di
'rete' della coppia tOnniesiana e delle corrispondenti variabili modello parsonsiane
può ricondurre questi quadri concettuali alla comprensione decentrata del mondo
propria della modernità». 38
4.4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft in chiave di complessità
Il paradigma della complessità è una chiave di lettura da applicare anche alla coppia
Gemeinschaft-Gesellschaft: in tal modo le due categorie non si escludono a vicenda
ma possono essere analizzate nelle loro interazioni e compenetrazioni dovute a
fattori sia strutturali (condizionali, strumentali) che normativi (di valori, di 'volontà'
nel senso dato da Tonnies). La società, secondo il paradigma della complessità, è
leggibile non tanto come società 'a due livelli' (sistema/mondo vitale) come pensa
Habermas, ma come 'sistema aperto', come 'rete'. Tuttavia, sostiene Donati,
fermarsi alle affermazioni di Tonnies senza proporne uno sviluppo è limitante e non
rispondente alla società contemporanea: «la sua lezione può ancora essere istruttiva
37PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., pp. 97-98. 38/bidem, pp. 98-99.
280
nel senso di costituire un terreno di riflessione per lo sviluppo di una teoria
sociologica per la quale ogni e ciascuna relazione sociale positiva (cioè non
distruttiva, ma - almeno potenzialmente o parzialmente - di 'affermazione
reciproca'), proprio in quanto rei-azione, è l'uno e l'altro dei due poli insieme: per
esempio comunitario/informale e funzionale/formale. In un modello di società che
ingloba questa complessità, si vedrebbe allora che la 'comunità' (l'elemento
comunitario, analiticamente e però realisticamente inteso), non è l'opposto di una
'società ' concepita come sfera pubblica (borghese), con il suo stato e le sue
istituzioni, come ancora la concepisce Tonnies, ma è l'elemento intermedio (di
mediazione) fra il polo privato e il polo pubblico (o loro sinonimi, secondo la
terminologia specifica utilizzata dai vari approcci sociologici)».39
Ciò consente di superare, da un lato, approcci sociologici dualistici che si rivelano
riduttivi e poco aderenti alla realtà e, dall'altro, di dare il giusto rilievo nella teoria
sociologica all'elemento comunitario della relazione sociale.
Non va tralasciato di notare che l'analisi di T onnies non è recepibile così com'è,
giacché tiene in scarsa considerazione aspetti ormai evidenziati dagli sviluppi della
teoria sociologica: gli elementi negativi (ostili, distruttivi) delle relazioni sociali, gli
effetti indiretti, non-intenzionali e perversi delle azioni-relazioni-comunicazioni.
Resta però l'acquisizione - desumibile dall'opera di Tonnies - che «nella misura
in cui le relazioni sociali sono (e/ o devono essere) positive [ ... ] sempre ci deve
essere un fondo di Gemeinschaft». 40
39 Ibidem, p. 100. 40/bidem, p. 101.
281
4. 5. Il paradigma di rete per una lettura relazionale della società
Come è possibile ricavare da Luhmann, 41 i tre principali paradigmi sociologici di
società di tipo sistemico sono: i) parte/tutto, basato sull'analogia organica
(Tonnies); ii) sistema/ambiente (Parsons, primo Luhmann); iii) autopoiesi (seconda
fase di Luhmann).42 L'analogia organica è insufficiente rispetto alla complessità del
sociale come relazionalità, anche se un paradigma appropriato, sempre dal punto di
vista della relazionalità, non può non indagare il problema delle relazioni fra parti e
intero. Nessuno degli altri due paradigmi, tuttavia, mostra adeguatezza in questo
senso: il paradigma sistema/ambiente pone al centro la differenziazione e il tema del
confine, non delle relazioni; il paradigma dell' autopoiesi enfatizza i caratteri e le
dinamiche dei meccanismi interni ai sistemi.
Il paradigma di rete, di contro, può offrire elementi utili, poiché, oltre a descrivere le
relazioni fra le parti e l'intero in modo non organico, consente di conservare le
acquisizioni degli altri due paradigmi di società come sistema (sistema/ambiente e
autopoiesi).43 Occorre però verificare se le reti sociali sono sistemi sociali: una
41NIKLAS LUHMANN, Mutamento di paradigma nella teoria dei sistemi, in «Sistemi urbani», 2, 1983, pp. 333-47.
42Per l'elaborazione di tale paradigma il sociologo tedesco si è ispirato alle scienze biologiche e cognitive e in particolare ai contributi di HUMBERTO R. MATURANA- FRANCISCO J. V ARELA, Autopoiesi e cognizione, (ediz. orig. 1980), trad. it., Venezia, Marsilio, 1985.
4311 concetto di rete sociale (socia/ network) fu introdotto da JOHN A. BARNES, Class and Committees in a Norwegian Island Parish, in «Human Relations», 7, 1954; fra gli altri studi pionieristici sull'argomento condotti dalla 'scuola di Manchester', ricordiamo: JEREMY BOISSEVAIN - J. CLYDE MITCHELL (eds.), Reti, norme e istituzioni, (ediz. orig. 1973), trad. it. in FORTUNATA PISELLI (a cura di), Reti.L'analisi di network nelle scienze sociali, Roma, Donzelli, 1995, pp. 3-25; ELIZABETH Borr, Ruoli coniugali e reti sociali, (ediz. orig. 1957), parziale trad. it. in FORTUNATA PISELLI (a cura di), Reti ... cit., pp. 53-88. Per una
_ sintetica panoramica concettuale e gli opportuni riferimenti bibliografici, cfr. RAFFAELLA SUTTER, Rete sociale, in FRANCO DEMARCHI - ALDO ELLENA- BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 1756-61. Per un confronto fra gli approcci della 'scuola di Manchester' e della 'analisi strutturale americana', si veda: ANTONIO MVTTI, Reti sociali: tra metafore e programmi teorici, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 5-30; MAURIZIO GRIBAUDI, L'analisi di rete: tra struttura e configurazione, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 31-55. Per una critica delle 'promesse non mantenute' della 'scuola strutturale', vedi: MICHAEL EVE, La «network analysis» è l'analisi dei networks?, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 4, 1996, pp. 531-558.
282
risposta positiva a tale quesito è stata data da orientamenti strutturalistici o
neofunzionalistici;44 altri autori avanzano invece l'esigenza di una teoria dei sistemi
'aperti' ad impianto fenomenologico, con richiami all'intersoggettività e
all'empatia, ritenendo inadeguati i due precedenti approcci.45 Tuttavia, osserva
Donati, solo riduttivamente la relazione può essere intesa come 'sistema' o parte di
esso in un 'ambiente', ove il sistema venga definito in senso funzionalistico. Se per
'sistema' si dà una definizione basata sulle interazioni tra attori mediate da un
sistema simbolico, allora tra 'sistema' e 'rete' non c'è nulla in comune. Ne risulta
che «il concetto sociologico di rete include quello di sistema senza poter essere
ridotto a sistema: visto in un'ottica di rete, il sistema sociale è (i) una dimensione
analitica della rete che (ii) ne evidenzia le interdipendenze funzionali e (iii)
'stabilizza' - attraverso nodi di congiunzione/disgiunzione - i meccanismi
retroattivi e i circuiti attraverso i quali si esprime la fenomenologia del sociale. Ma
la rete è anche il conduttore, il luogo, il modo in cui altri aspetti e dimensioni del
sociale prendono vita e si esprimono. La società appare allora come un mix di
formale e informale che richiede un nuovo paradigma di osservazione».46
Un'altra, diversa via è rappresentata dal tentativo di generalizzare e differenziare
riflessivamente il concetto di sistema, includendo, oltre le dimensioni funzionali,
anche quelle informali e di mondo vitale, dando una definizione di sistema 'aperto'
morfogenetico, selettivo, autodirettivo e auto-regolato, operante mediante un codice
44P. BLAU - J. SCHWARTZ, Crosscutting Socia/ Circles. Testing a Macrostructural Theory of Intergroup Relations, New York, Academic Press, 1985.
45 ACIIlLLE ARDIGÒ, Per una sociologia oltre il post-moderno, Roma-Bari, Laterza, 1988. 46PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 103.
283
simbolico cibernetico in un 'ambiente' .47 Tale posizione, tuttavia, presuppone che
ciò che non è funzionale venga ricondotto alla dimensione del sistema che, per
quanto flessibile, rimane sempre governato da un codice simbolico di tipo
meccanicistico (come quello cibernetico). Peraltro, osserva Donati, le reti sociali
non si riducono a «mera spontaneità e intersoggettività contingente»,48 i soggetti
agiscono entro percorsi segnati culturalmente.
<<Il paradigma di rete: (a) prende atto che è venuta meno la 'cogenza sistemico-
normativa' dei primi due paradigmi sistemici tutto/parte e sistema/ambiente [ ... ], e
che la società contemporanea è intrinsecamente caratterizzata dall'allentamento e
frammentazione delle relazioni sociali, con la fine della socializzazione attraverso la
'interiorizzazione dall'alto'; (b) respinge il modello auto-poietico come modello
complessivo, pur ammettendo la validità del concetto e la necessità di includere
l 'auto-referenzialità nell'osservazione della fenomenologia sociale; ( c) prende atto
che gli attori sociali non si muovono, né si possono muovere, 'a caso', ma entro
sentieri che sono culturalmente forgiati; ( d) interpreta la nascita di una nuova
normatività per la quale deve essere elaborata una teoria dei sistemi creativi di
regole sociali, retta da una 'logica di rete', che è insieme strategica (cognitivo-
strumentale), comunicativa (espressiva, dialogica) e normativo-valoriale
(generalizzazione di valori). Con ciò il concetto di rete mostra la sua capacità di
costituire una sorta di meta-codice simbolico per il concetto di sistema.
Quest'ultimo deve essere ulteriormente generalizzato e differenziato
47Cfr. WALTER BUCKLEY, Sociologia e teoria dei sistemi, (ediz. orig. 1967), trad. it., Torino, Rosenberg & Sellier, 1976.
48PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 104.
284
(riflessivamente). Solo così l'analisi può 'comprendere' le reti sociali come realtà
insieme formali e informali». 49
4.6. Le reti sociali informali
Con l'espressione 'reti sociali informali' o "primarie' vengono solitamente
identificati insiemi di relazioni primarie i cui soggetti sono i componenti di una
famiglia, i parenti, i vicini, gli amici, chi dà un aiuto occasionale, i gruppi di mutuo
aiuto, le forme non organizzate di volontariato, le reti informali presenti nelle
organizzazioni (queste ultime, tuttavia, esulano dallo specifico della nostra analisi).
Al tema delle reti sociali primarie viene dedicata in Italia una crescente attenzione
soprattutto a partire dagli anni '80, con l'estendersi ed intensificarsi del dibattito
sulle prospettive dello Stato sociale. In realtà - come si è visto in parte nei
paragrafi precedenti - le radici di questa tematica sono abbastanza antiche,
risalendo a Frédéric Le Play, Charles H. Cooley, Georg Simmel, Ferdinand Tonnies,
per nominare i più lontani nel tempo. Il collegamento fra reti sociali primarie e
prospettive dello Stato sociale è stato ed è molto spesso di natura strumentale: come
quando, ad esempio, si motiva il ricorso ai servizi alla persona offerti dalle reti
sociali primarie con l'acuirsi della crisi fiscale e da sovraccarico di domanda del
welfare. Ciò «significa 'suggerire' una soluzione ai problemi facile (perché le reti
già ci sono), indolore (perché gli eventuali costi, disagi ricadrebbero sulle reti e
indirettamente sull'individuo) e quantomeno non traumatica (in quanto tale
soluzione non significa necessariamente riprivatizzazione, nel senso di ricacciati nel
491bidem.
285
mercato, dei meccamsm1 di soddisfazione dei bisogni)».50 Altre volte, invece, il
rapporto tra reti sociali primarie e Stato sociale viene interpretato sulla base
dell'esigenza, sempre più avvertita, di integrare una pluralità di soggetti di diversa
natura nella gestione delle politiche sociali e di coinvolgere e responsabilizzarne i
destinatari/consumatori, in modo che questi possano intervenire come co-produttori
dei servizi, con l'ulteriore risultato di conseguire anche un maggiore livello di
personalizzazione e umanizzazione, oltre che di competenza tecnico-professionale,
nell'erogazione delle prestazioni di welfare.
La (ri)scoperta in chiave - consapevolmente o inconsapevolmente - strumentale
delle reti sociali primarie nella sociologia e nella politica sociale si rivela figlia di un
approccio rigidamente funzionalista, e perciò riduttivo: l 'épistème sottostante a tale
approccio considera prioritariamente solamente alcuni aspetti delle reti sociali
(formali e informali), come quelli di struttura, funzione, compito. In realtà, il
concetto di rete sociale presenta un carattere relazionale che non può essere posto in
secondo piano, per cui «si tratta di accedere ad una épistème relazionale in cui la
funzionalità è tematizzata come problema, e non solo procedurale, ma sostanziale,
cioè riferita a valori, simboli, intenzionalità, per loro natura soggetti a complessi
circoli ermeneutici, a dinamiche non protocollabili, benché si possano anche
ricavare patterns e regolarità».51
50PAOLA DI NICOLA, L'uomo non è un'isola. Le reti sociali primarie nella vita quotidiana, Milano, Angeli, 1986, p. 24. Di analogo tenore le considerazioni contenute in FABIO FOLGHERAITER, Solidarietà di base e auto aiuto nel Lavoro sociale, introduzione all'edizione italiana del testo di LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete. L'operatore sociale come mobilizzatore e coordinatore delle risorse informali della comunità, (ediz. orig. 1983), trad. it., Trento, Erickson, 1987, pp. 9-16.
51PIERPAOLO DONATI, Prefazione. La riscoperta delle «reti primarie»: istanze pratiche, ambiguità ed esigenze di una nuova riflessione teorica, in PAOLA DI NICOLA, L'uomo non è un 'isola ... cit., pp. 7-21; pp. 15-16.
286
4. 6.1. L'analisi di rete Le caratteristiche principali di una rete sociale consistono, m generale, nella
sovrafunzionalità, cioè nel porsi come risorsa/vincolo, secondo vane modalità
relaziona/mente combinate, rispetto ad un insieme multiforme e indeterminato di
bisogni: dal punto di vista culturale, la rete dà senso di identità sociale mediante
l'appartenenza; dal punto di vista strutturale e funzionale essa può offrire aiuti e
sostegni per bisogni di natura fisica, materiale, simbolica.
La sociologia contemporanea ha organizzato questi elementi secondo due livelli: i)
differenziazione del legame di rete in aspetti psico-culturali intersoggettivi e in
aspetti strutturali, e ii) differenziazione delle funzioni di rete tra formali (sistemiche,
istituzionali) e informali (spontanee, di mondo vitale).52 Si tratta di distinzioni che
vanno impiegate con prudenza, allo scopo di evitare di costruire classificazioni poco
aderenti alla realtà dei fenomeni. Così, è possibile pervenire a un'articolazione delle
forme di Gemeinschaft e Gesellschaft secondo la distinzione tra formale e
informale, che non coincide con la Gemeinschaft ma è interna ad ognuna delle due
categorie tOnniesiane: «la società è 'rete' in quanto co-relazione di Gemeinschaft e
Gesellschaft, di informale e formale, senza che nessuno di questi termini possa
essere ridotto all'altro».53 Tali distinzioni hanno valore principalmente analitico.
52L'analisi delle reti è l'oggetto della network analysis: una metodologia e un insieme di tecniche che, sorte nell'ambito dell'antropologia e della psicologia sociale, sono state impiegate in sociologia e in altre scienze mediante l'applicazione della teoria dei grafi. «La network analysis non può ovviamente rimpiazzare lo struttural-funziQnalismo come teoria generale dell'-azione sociale perché è innanzitutto una
·tecnica, anche se si basa su una concezione teorica che vede la realtà sociale come l'insieme e l'intrecciarsi delle relazioni umane, relazioni volontarie che si condizionano vicendevolmente in una struttura a volte complessa di giochi e negoziazioni reciproche [ ... ].La network analysis non vuole negare l'utilità dello studio delle funzioni svolte dai vari segmenti della struttura, ma afferma la possibilità di studiare separatamente le forme relazionali in quanto tali, come oggetto di studio comprensibile in se stesso»: ANTONIO M. CmESI, L'analisi dei reticoli sociali: teoria e metodi, in «Rassegna italiana di sociologia», XXI, 2, 1980, p. 297.
53PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 108.
287
La razionalizzazione dei mondi vitali si spiega facendo riferimento all'intreccio tra
differenziazione e pluralizzazione delle forme relazionali (comunità/società,
formale/informale) e alle loro combinazioni. Formale e informale non sono lungo un
continuum lineare, come ritengono i funzionalisti, ma si articolano secondo una
complessità interattiva. Ad un risultato simile a questo si perviene anche quando ci
si limiti all'analisi delle reti sociali secondo gli approcci oggi prevalenti, ancorché
riduttivi: «la specificità introdotta dall'analisi di rete è stata quella di porre
fortemente l'accento sull'importante ruolo che le relazioni interpersonali
particolaristiche (e, per estensione, ascrittive, funzionalmente diffusive, affettive,
informali) esplicano non solo nei contesti tradizionali e nei processi di transizione,
ma anche nella modernità più avanzata, sottolineando inoltre che ciò vale a tutti i
livelli della società (economico, politico e socio-culturale), non solo nella sfera
privata. [ ... ] Gli analisti di rete hanno esplorato le articolazioni interne alle relazioni
particolaristiche e il loro nesso con le relazioni universalistiche [ ... ]. La
rivalutazione dei rapporti interpersonali particolaristici nell'orizzonte esistenziale
dell'attore moderno ha fornito anche un importante stimolo allo studio di
problematiche sempre più al centro della riflessione sociale, quali quelle di identità,
fiducia, fedeltà e comunità [ ... ] ha sollecitato l'elaborazione di una teoria dell'attore
in grado di legare più adeguatamente dimensioni cognitive e dimensioni emotive
dell'azione».54 Le relazioni sociali nelle società complesse sono differenziate e
articolate: esse, «anziché avere un carattere 'lineare' (anche bi-direzionale), o di
complementarietà (tra informale e formale, ecc.), sono piuttosto caratterizzate da
una interazione avente i caratteri di circolarità che potremmo comprendere come
54ANTONIO Murn, Reti sociali ... cit., pp. 27-28.
288
continua compresenza e differenziazione di ciò che, nelle relazioni sociali, è formale
o informale, comunitario o societario, e così via[ ... ]. Allorché viene posta in essere,
una relazione s0ciale è già nel circolo comunità/società o informale/formale. E, in
esso, interattivamente rimane. Quando 'esce per la tangente', diventando pura
Gemeinschaft o pura Gesellschaft dà origine a specifiche patologie». 55
Dalla sovra-funzionalità del concetto di rete sociale deriva la sua ambivalenza
strutturale: le reti sociali primarie possono, in taluni casi e a certe condizioni, offrire
supporti e aiuti per la soluzione di vari problemi delle persone, ma, altre volte, può
anche succedere che siano esse alla base del problema. Donati, a tale riguardo, ha
osservato che si tratta di una 'triplice ambivalenza': «c'è innanzitutto l'ambivalenza
dello stato verso le reti informali: il sistema politico-amministrativo le valorizza, ma
allo stesso tempo le strumentalizza. C'è poi l'ambivalenza delle reti verso lo stato:
chiedono aiuti, riconoscimenti, incentivi, ma non amano regolazioni e controlli. La
terza grande ambivalenza è poi dentro le stesse reti informali: esse sono un sostegno
ma anche un legame, offrono risorse ma anche vincoli, sono cuscinetti e attenuatori
di stress ma possono anche creare conflitti e così via». 56 È quanto mai necessario,
dunque, elaborare un approccio articolato e complesso a tale oggetto di studio,
ponendo particolare attenzione al tipo di relazionalità e agli aspetti normativi che è
possibile riscontrare nelle reti sociali primarie.
4. 7. Dalla coppia Gemeinschaft-Gesellschaft alla sociologia relazionale
55PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 108. 56PIERPAOLO DONATI, Prefazione. La riscoperta delle «reti primarie» ... cit., p. 11.
289
La rilettura di Donati della coppia tOnniesiana Gemeinschaft-Gesellschaft s1
ricollega alla prospettiva di un ripensamento in chiave relazionale della teoria
sociologica. La proposta del sociologo bolognese è di ampia portata; non essendo
possibile illustrarne, in questa sede, i fondamenti, le articolazioni e i risvolti, basterà
ricordare che ciò significa, per il nostro Autore, i) considerare la relazione sociale
come realtà sui generis e ii) definire relazionalmente gli oggetti di studio della
sociologia: il che comporta una vera e propria svolta epistemologica, che si articola
in tre aspetti: un'epistemologia, un paradigma, una pragmatica.
1. Epistemologia relazionale - La presupposizione più generale della sociologia
relazionale può essere sintetizzata nell'espressione 'all'inizio c'è la relazione', da
intendere non in senso relativistico ma realistico, cioè attinente al reale processo
sociale e alla teoria sociale. Lungi dal postulare «l'assoluta contingenza del mondo
sociale», collocare la relazione a livello presupposizionale «non implica
l'accoglimento di una qualche ontologia che neghi il soggetto» ma «assumere che la
relazione ha una sua 'radice' (o una referenza, se si preferisce) non contingente,
mentre essa si dispiega nella contingenza».57 Una conseguenza di ciò è che «le forme
primarie di vita sociale, in quanto relazioni sociali, eccedono la società, nel senso
che la sorpassano, che 'vanno oltre' in quanto non sono mera contingenza (per
esempio di tipo comunicativo)».58
2. Paradigma relazionale - La società, come si è visto nei paragrafi precedenti, è
descritta mediante il paradigma di rete, che supera quello tutto/parte e quello
sistema/ambiente. Il paradigma di rete è più ampio di quello di sistema, poiché «i
57PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 80. 58/bidem, p. 81.
290
sistemi sono una sorta di 'condensazione' delle reti, nel senso che le reti conducono
(sono conduttrici di) più realtà di quanta noi ne possiamo vedere in termini di reti
comunicazionali, con nodi, densità, funzionalità, connettività e altre caratteristiche
'sistemiche'».59 Occorre però ripensare relazionalmente il paradigma di rete,
superando la scissione fra analisi strutturalistiche delle reti (oggi prevalenti) e
analisi culturali o comunicazionali.
3. Pragmatica relazionale - Le implicazioni operative della sociologia relazionale
e i risultati dell'analisi di rete possono trovare sbocco nell'intervento di rete, in
particolare negli ambiti della politica sociale e del servizio sociale: l'intervento di
rete assume che i) l'individuo fa parte di un tessuto di relazioni (familiari, amicali,
di vicinato, associative ... ) nel quale soggetti e oggetti vengono a definirsi
relazionalmente, che ii) di conseguenza l'intervento di sostegno (della persona, della
famiglia ... ) deve essere mirato alla rete di relazioni in cui sono inseriti i soggetti, o
comunque tenendone conto, e che iii) anche l'osservatore o artefice esterno
dell'intervento viene ad inserirsi in quel tessuto di relazioni. 60
4. 8. Gemeinschaft-Gesellschaft: dibattito sociologico e dibattito filosofico-politico
Le osservazioni e gli spunti di analisi sociologica sul concetto di comunità fin qui
presentati consentono una più attenta considerazione del dibattito sviluppatosi
nell'ambito della filosofia politica contemporanea proprio attorno al medesimo
59 Ibidem, p. 82. 60Per un'introduzione all'intervento di rete nell'ambito dei servizi socio-sanitari, i cui primi sviluppi si sono
avuti soprattutto nei paesi anglosassoni, si veda: LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete... cit.; LIA SANICOLA (a cura di), Comunità e servizi alla persona, Padova, Cedam, 1990; FRANCA FERRARIO, Il
291
oggetto di cui ci stiamo occupando in questo capitolo. Da quanto emerso fino a
questo momento si ricava una prima, evidente certezza: nei due ambiti scientifico-
disciplinari il medesimo termine 'comunità' viene semantizzato in maniera diversa,
e però non si può sottovalutare una certa influenza reciproca, tanto da far supporre
che talune risposte polemiche da parte liberale alle teorie comunitariste prendano di
mira - forse indebitamente, se non altro da un punto di vista metodologico -
alcuni aspetti, peraltro superati, della concezione sociologica di comunità.61
I filosofi comunitaristi concettualizzano una comunità diversa da quella del primo
Tonnies, per il quale, come si è appena visto, essa è fortemente connotata in senso
ideologico. Questi intendeva inizialmente per comunità una forma di relazioni
sociali caratterizzata da rapporti diretti, dalla condivisione di valori e modelli
normativi in ogni dimensione di vita, dalla lealtà verso la comunità anche a costo
del sacrificio delle proprie posizioni o interessi individuali, da una organicità
complessiva. L'unico elemento - osserva Ferrara - della concezione tonniesiana
che persiste nel pensiero dei comunitaristi è il senso di appartenenza, per di più
formulato in modo innovativo e non tradizionalista: «non si trova una sola riga
nell'intera opera di Maclntyre, Bellah, Taylor e gli altri da cui si possa evincere che
la reintroduzione di elementi di comunità nel tessuto delle società complesse, da essi
così caldamente auspicato, consista nell'incrementare il numero di relazioni /ace to
/ace, il grado di omogeneità culturale o la capacità dei rapporti sociali di
coinvolgere globalmente la persona».62 In nessuna delle sue argomentazioni la
lavoro di rete nel servizio sociale. Gli operatori fra solidarietà e istituzioni, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1992.
61È questo il punto di partenza di una riflessione di ALESSANDRO FERRARA, Comunità, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 4, 1996, pp. 609-19.
62/bidem, p. 612.
292
critica com unitarista all'individualismo liberale, nemmeno quando raggiunge i toni
più vibranti - come in Maclntyre o in Sandel - arriva a respingere il moderno
pluralismo vakriale e culturale basato sul libero esercizio della ragione: tra i
comunitaristi vi è, anzi, chi sostiene che «il disconoscimento radicale di questi
valori segnala la distruzione o distorsione della comunità» e che bisogna porsi
l'obiettivo di costruire <<Un'unità che preservi l'integrità di persone, gruppi e
istituzioni [ ... ] una unità di unità», che gestisca ma non sopprima la coesistenza dei
«valori spesso in conflitto di autonomia e integrazione».63 Sembrerebbe dunque a
Ferrara che tra liberalisti e comunitaristi abbia avuto luogo, almeno fino ad un certo
momento, un 'dibattito tra sordi', giacché i primi combattono un concetto di
comunità assente nel pensiero dei secondi e che deriva dalla prima formulazione
sociologica di Tonnies, ormai superata.
In sintesi, i tratti della concezione filosofico-politica contemporanea di comunità
secondo l'approccio dei com unitaristi sono: i) rafforzare la sfera pubblica, ii)
sostenere le forme associative volontarie intermedie tra individuo e Stato-nazione
(in un senso che - si può osservare per inciso - sembra avvicinarsi abbastanza
alla rilevanza attribuita da Donati alle 'autonomie sociali'), iii) condividere un
interesse autentico per il bene comune inteso come destino comune, non in chiave
materiale o economicistica.
Ferrara muove tre osservazioni in ordine a queste puntualizzazioni. Innanzitutto, tale
concezione di comunità «non è incompatibile con il liberalismo in quanto tale»,64 dal
momento che la comunità dei comunitaristi non può che essere voluta, scelta e non
63PHILIP SELZNICK, // compito incompiuto di Dworkin, trad. it. in ALESSANDRO FERRARA (a cura di), Comunitarismo e liberalismo ... cit., pp. 229-41; p. 233.
293
più ascritta o imposta da modelli socioculturali organicistici. Autori di tendenza
liberale che si sono lasciati interpellare dalle proposizioni dei comunitaristi si sono
pronunciati per ipotesi di una 'comunità liberale ' 65 o di una attiva 'cittadinanza
repubblicana'. 66
La seconda osservazione consiste nella integrabilità fra il disegno liberale e la
comunità secondo i comunitaristi, in quanto quest'ultima corrisponde al
rafforzamento delle istituzioni intermedie, un punto programmatico caro ai liberali à
la Tocqueville, convinti sostenitori che la vitalità della democrazia consiste in una
relazione equilibrata e propositiva tra sfera privata, sfera associativa pubblica e sfera
politica.
In terzo luogo, la proposta dei comunitaristi va nella direzione di un rafforzamento
di istituzioni - famiglia, scuola, chiese - che in una società moderna possono
rappresentare ambiti importanti, anche se non esclusivi, di socializzazione degli
individui a valori e pratiche legati al bene comune più che al proprio personale
interesse. E un segno che sembrerebbe mostrare come la posizione dei comunitaristi
in qualche modo abbia fatto breccia all'interno del pensiero contemporaneo è un
ritorno al tema dei doveri nelle società della tarda modernità: a noi così pare di
potere seppur sommariamente interpretare un recente simposio interdisciplinare
dell'Unesco sul tema Responsabilità e doveri dell'uomo nel terzo millennio,67 una
iniziativa che sembra quasi avere il sapore di controbilanciare l'enfasi sui diritti
dell'uomo, che ha fin qui contraddistinto le teorie della cittadinanza e della giustizia,
64ALESSANDROFERRARA, Comunità ... cit., p. 613. 65RONALD DWORKIN, La comunità liberale ... cit. 66J0RGEN HABERMAS, Cittadinanza politica e identità nazionale ... cit. 67Il simposio internazionale si è tenuto a Valencia (Spagna) dal 28 al 30 gennaio 1998: ne riferisce la pagina
culturale del quotidiano La Repubblica del 30 gennaio 1998.
294
con un nuovo riposizionamento che consenta di assumere le sfide epocali e, al
contempo, di evitare gli effetti perversi dell'individualismo nella globalizzazione.
Se quella appena delineata è la reale portata del pensiero dei comunitaristi, sostiene
Ferrara, vi è materiale sufficiente per reinterpretare il rapporto della loro concezione
con la modernità. Il concetto di comunità che viene emergendo dal pensiero dei
comunitaristi ha una valenza critica di non secondaria importanza, che lo
contrappone al tradizionalismo della classica versione tOnniesiana: esso, in realtà,
non rifiuta l'individualismo in quanto tale, ma una versione atomistica, riduttiva, e
ormai obsoleta rispetto alla nuova consapevolezza maturata nella tarda modernità.
L'individualismo rifiutato dai comunitaristi non solo non stimola più la
modernizzazione della società, ma addirittura la frena, poiché riporta continuamente
funzioni e valori delle istituzioni ad una logica di strumentalità rispetto a fini
individuali definiti indipendentemente dalle istituzioni stesse: esso «conduce ad
un'enfasi miope sul breve periodo nella formazione e gestione delle politiche
sociali, conduce all'impoverimento (materiale e simbolico) di quelle istituzioni che
sono legate a interessi non strumentali, conduce a processi di giuridificazione che
legittimano il punto di vista strumentale in ogni area dell'azione sociale, conduce ad
una tendenza a sottostimare l'impatto delle interdipendenze globali come pure i
problemi ermeneutici di comunicazione tra le culture e a ridurli a problemi strategici
di decisionalità e implementazione, ed infine conduce a una diffusa sfiducia nei
confronti della vita pubblica e alla assimilazione della politica al modello del
mercato e della scelta del consumatore». 68 Il pericolo che la democrazia, attraverso
processi di involuzione individualistica e privatistica della vita sociale, potesse
295
degenerare in un 'dispotismo mite' era stato avvertito da Tocqueville, come
abbiamo già ricordato in altra parte del presente lavoro. 69
La comunità ipotizzata dai comunitaristi, quindi, non è anti-moderna, ma, al
contrario, offre una abbastanza nuova interpretazione della modernità in termini di
completamento del suo nucleo valoriale originario, giacché la nozione filosofico-
politica contemporanea di comunità altro non sarebbe che una riformulazione e
attualizzazione del valore, finora inadempiuto, della fraternité. Ciò, però, non è
sufficiente a decretare una riconciliazione definitiva tra comunità e modernità,
poiché «le vicissitudini del nostro modo di intendere il rapporto fra comunità e
modernità sono influenzate, come da un pianeta invisibile, dal modo in cui è stato
interpretato il rapporto fra individuo e modernità». 10 La contrapposizione rimasta
non risolta, perché non adeguatamente tematizzata, concerne il rapporto tra
individuo e modernità. Ritorna, dunque, il tema controverso di una antropologia che
sia, in un certo senso, 'a cavallo' della modernità e che non sia pre-moderna, anti-
moderna o 'debolmente' post-moderna. Ferrara intravede, in questo cruciale
passaggio teorico della modernità, due posizioni teoriche a fronteggiarsi. La prima
- avviata da Rousseau e poi proseguita con Marx, Horkheimer, Veblen, Wright
Mills, Riesman, Sennett - ritiene che l'autonomia individuale possa essere
minacciata dagli ordinamenti istituzionali e dalle rappresentazioni sociali rispetto
alle quali viene definito il contenuto degli interessi. Una seconda posizione confida
nella capacità riflessiva degli individui come portato ormai irreversibile della
modernità e in grado di garantire distanza critica e autonomia; il pericolo nella tarda
68ALESSANDRO FERRARA, Comunità ... cit., p. 615. 69v edi supra, capitolo 3.
296
modernità sarebbe dato non già dall 'eterodirezione degli individui ma, ali' opposto,
dalla loro crescente difficoltà i) ad appartenere a qualcosa che trascenda i loro
interessi, e ii) a contribuire alla costruzione e innovazione continua di questo
qualcosa; forse non è un caso che questa linea - sulla quale si erano attestati
Hegel, Durkheim, Tocqueville - sia rimasta poco sviluppata e abbia prevalso
l'interpretazione illuministica della modernità: la storia delle idee, la filosofia
politica, la stessa sociologia avranno modo di verificare se in ciò abbiano avuto un
ruolo, probabilmente in parte anche inconsapevole, assunzioni di tipo ideologico che
hanno orientato il pensiero e le pratiche sociali e politiche. Ferrara è comunque
dell'idea che «il discorso sulla comunità oggi condotto da Charles Taylor e da
Robert Bellah è l'erede e il continuatore di questa seconda lettura della modernità.
Al suo interno l'affermarsi del nuovo concetto di comunità assume da un lato la
valenza di completamento della istituzionalizzazione dei valori dell '89, ma
dall'altro anche quello di un correttivo nei confronti di tendenze anomiche pur
presenti nei processi di modernizzazione finora dispiegatisi», anche se è facile
prevedere che la tensione tra le due letture della modernità impegnerà ancora le
menti degli addetti ai lavori. 11
La lettura che Ferrara dà del dibattito tra liberali e comunitaristi, al di là dei risvolti
più propriamente filosofici che esulano dall'ottica del presente lavoro, solleva
indubbiamente questioni anche epistemologiche non secondarie, giacché
sembrerebbe scaturirne l'invito ad un parziale, ma non per questo accessorio,
riesame di alcune categorie-chiave del pensiero moderno e delle relative
70ALESSANDRO FERRARA, Comunità ... cit., p. 616.
297
contraddizioni, cui abbiamo dedicato vari passaggi del nostro studio. Nelle proposte
dei comunitaristi vi è forse qualche elemento che può suscitare perplessità; ad
esempio, il sostegno da programmare a favore di istituzioni come famiglia, scuole,
chiese pone problemi politici di soluzione non autoevidente: come incentivarle
senza con questo fomentare familismi amorali, settarismi, scuole classiste in un
senso o in un altro? Si tratta di problemi non certo filosofici, ma rientranti nella
sfera della politica e della politica sociale. Anche queste perplessità, tuttavia, non
sono tali da inficiare totalmente il ragionamento complessivo dei comunitaristi così
come viene ricostruito da Ferrara.
Donati - dal quale abbiamo tratto il contributo sociologico forse con maggiori
argomentazioni critiche verso la prevalente concezione moderna di democrazia e
cittadinanza - aveva incentrato la sua posizione, come si ricorderà, su alcuni punti:
la modernità i) enfatizza i diritti dell'individuo ma non ne tematizza affatto i doveri
verso la collettività politica, ii) postula una sostanziale coincidenza della sfera
pubblica con quella statale, iii) è portatrice di un'idea di rapporto im-mediato tra
Stato e individuo che non tiene conto delle appartenenze sociali e culturali non
normate dallo Stato, iv) produce anomia, v) ma, soprattutto, presuppone l'individuo
rispetto alle relazioni sociali. Ad eccezione dell'ultimo punto della teoria di Donati,
sembra che la rilettura di Ferrara possa offrire alcune risposte sul piano filosofico-
politico. E anche il tentativo di Ferrara di ricondurre entro il nucleo originario della
modernità quanto sembrerebbe portare ben al di là di essa, non appare decisivo ai
fini dell'argomentazione complessiva, che conserva il suo stimolante interesse.
71 Ibidem, p. 617. CHARLES TAYLOR, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi... cit. ROBERT N. BELLAH, Le abitudini del cuore, (ediz. orig. 1985), trad. it., Roma, Armando, 1996.
298
Resta però nella proposta di Ferrara una questione non ancora esplicitamente e
compiutamente tematizzata: se è vero che l'individuo non può essere presupposto
alle relazioni sociali, occorrerebbe prenderne atto sia sul piano filosofico-politico
che su quello sociologico e trame le conseguenze in funzione di nuovi indirizzi di
ricerca. Ma forse si tratta di un addebito eccessivo per alcune brevi note volte a
puntualizzare alcuni aspetti di un dibattito ampio sul concetto di comunità, con
origini profonde nel tessuto socio-culturale di oltre due secoli di storia. Per il
momento ci limitiamo a sottolineare l'apertura teorica e le potenzialità rappresentate
da una posizione del genere.
4. 9. Politica sociale e community care
Il modello della community care si trova al crocevia di numerosi dibattiti teorici in
sociologia e in politica sociale. Ce ne occupiamo, seppur brevemente, in questa sede
poiché rappresenta - a nostro avviso - una esemplificazione particolarmente
significativa dei problemi teorici ed empirici di applicazione dei concetti attorno ai
quali si è incentrato il nostro percorso di ricerca: solidarietà sociale, cittadinanza,
comunità. La community care, inoltre, altro non è che una metodologia di intervento
sociale di rete, secondo le sommarie caratteristiche prima descritte. In questo genere
di approcci operativi, come anche nella epistemologia relazionale cui esso si
collega, al centro non è l 'jndividuo atomistico né la sJruttura sociale ma la relazione
sociale.
299
Il nostro riferimento principale sarà Martin Bulmer, delle documentate e accorte
considerazioni del quale12 ci avvarremo per tentare una risposta ad alcuni quesiti
dello stesso autore, che fanno da leitmotiv a quest'ultima parte del nostro lavoro: «è
realistico scommettere sulla comunità» ai fini di programmi per il benessere
collettivo? Quali possono essere le principali opportunità e i problemi, soprattutto
teorici, implicati da tali approcci nonché le nuove configurazioni comunitarie
all'interno delle società avanzate?
È d'obbligo, innanzitutto, definire l'oggetto di cui ci occupiamo: e qui incominciano
i problemi, poiché alla community care ha fatto finora difetto una definizione
sociologicamente soddisfacente. Questa espressione compare per la prima volta
nella Gran Bretagna della fine degli anni Cinquanta, quando si inizia a pensare ad
una diffusione territoriale dei servizi socio-sanitari. Negli anni, il suo ambito
semantico si è esteso fino al significato oggi più diffuso: con questa espressione si
vuole indicare - in generale, e non senza ambiguità che illustreremo in seguito -
un approccio teorico-operativo di politica sociale in cui si tenta di combinare, nei
sistemi di aiuto a persone ammalate o portatrici di disagio sociale, l'apporto dei
servizi sociali del settore formale - pubbliche amministrazioni, privati
convenzionati, privati a pagamento - con quello del settore informale - famiglia,
parenti, amici, vicinato, volontari. In forma ufficiale, la centralità della community
care è emersa in due importanti documenti di Commissioni nazionali sullo stato
72MARTIN BULMER, Le basi della community care. Sociologia delle relazioni informali di cura, (ediz. orig. 1987), trad. it., Trento, Erickson, 1992; ID., Recenti tendenze della community care: problemi e prospettive, in FABIO FOLGHERAITER- PIERPAOLO DONATI (a cura di), Community care. Teoria e pratica del lavoro sociale di rete, Trento, Erickson, 19932, pp. 89-99. Vedi, inoltre, PAOLA DI NICOLA. Politica sociale e community care, in PIERPAOLO DONATI (a cura di), Fondamenti di politica sociale. Obiettivi e strategie, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, pp. 179-96.
300
della politica sociale britannica,73 mai però in testi legislativi. Nella Gran Bretagna
degli anni Ottanta e Novanta, questo dibattito ha coinvolto, in modo particolare, i
servizi da rivolgere ai soggetti deistituzionalizzati portatori di handicap mentale o di
malattie mentali e agli anziani non autosufficienti. Il dibattito, quindi, sorge in
presenza di fattori di criticità nella implementazione delle politiche di intervento e
nel clima politico-economico della deregulation, delle privatizzazioni e del
ridimensionamento del welfare promossi durante la lunga permanenza dei
conservatori al governo nazionale.
La novità dell'approccio non risiede nel fatto che le reti informali offrano servizi di
cura - è sempre stato così - ma che la politica sociale si interessi di ciò
programmaticamente, in modo strutturato, e tenti di rapportarsi ad esse per un
miglioramento complessivo dei livelli di benessere.
Il termine 'comunità' non può essere banalizzato o ridotto, ma ne va recepita tutta la
problematicità sociologica (buona parte di questo capitolo è infatti servita a dare una
dimostrazione della necessità di tener conto di questa esigenza). Mutamenti nella
struttura demografica, nei comportamenti riproduttivi, nelle strutture familiari, nei
modelli territoriali di relazioni, nelle forme socio-culturali: tutto ciò - e altro
ancora, come si è visto - rende impossibile, oltre che fuorviante, l'impiego del
concetto di comunità secondo le sue originarie definizioni. Non solo, ma occorre
fare i conti anche con i significati di senso comune di comunità, termine che
«sembra aver incorporato sopra di sé una specie di aureola, un senso diffuso di
'positività'. Per questo rappresenta un concetto che è allo stesso tempo normativo,
analitico e descrittivo. Si riferisce alla società come essa è ma anche ad elementi
73Si tratta del Rapporto Seebohm (1968) e del Rapporto Barclay (1982).
301
sociali che si prestano alla valutazione e che si possono riferire al passato, al
presente o al futuro, addirittura che possono esistere come no». 74 Questa aura di
positività si propaga anche all'idea di community care, che può finire così per
ingenerare l'illusione o il mito che essa rappresenti una panacea per la soluzione dei
numerosi e gravi dilemmi della moderna politica sociale.
Una prima, rilevante ambiguità è data dalla traduzione in termini operativi della
community care: essa corrisponde all'assistenza nella comunità (cioè alla diffusione,
al decentramento, persino alla domiciliarità dei servizi sociali pubblici) o
all'assistenza dalla comunità, da parte della comunità? Bulmer pone in evidenza
che tutte e due le traduzioni possono essere rivelatrici di impostazioni ideologiche e
superficiali, se non supportate da una chiarificazione su che cosa intendere per
'comunità': egli, al di là di riferimenti vaghi ed evocativi, con questa espressione
preferisce riferirsi sociologicamente alla «identificazione fra reti sociali informali
basate localmente e senso di appartenenza». 75 L'idea di comunità che molto spesso
'inquina', per così dire, il dibattito di politica sociale sulla community care risulta da
un insieme eterogeneo di fattori: «l'appello alla 'comunità' implicito nelle politiche
di community care è un amalgama di elementi che provengono dall'immagine del
villaggio tradizionale, da un lato, e dalle caratteristiche storiche di [ ... ] quartieri
urbani della classe operaia, dall'altra. Ora, questi elementi non solo sono un po'
difficili da conciliare ma anche la loro base sociale è frequentemente idealizzata e
romanticizzata». 76
74MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 50. 75/bidem, p. 59. 76/bidem, p. 77.
302
Oggi, cioè, si parla frequentemente di comunità e di reti informali continuando però
a riferirsi a realtà sociali non più esistenti o forse mai esistite in certi termini: «le
cosiddette 'reti naturali' di aiuto del vicinato tradizionale - per niente naturali,
ovviamente - si sviluppavano come risposta a determinate condizioni sociali,
molto specifiche, che non sarebbe auspicabile vedere riprodotte oggigiorno [ ... ].
L'aiuto reciproco tra vicini è maggiormente presente laddove l'informazione e la
fiducia sono elevate e dove le risorse per soddisfare i bisogni in altro modo sono
limitate, vale a dire negli ambienti sociali con una popolazione altamente omogenea
di individui relativamente isolati, relativamente chiusi e relativamente minacciati».77
Anche a proposito di ciò, Bulmer osserva che «l'esistenza di legami locali non va
data per scontata, ma deve invece essere consapevolmente ricercata». 78 La moderna
vita comunitaria è meno caratterizzata da relazioni di vicinato in senso tradizionale e
da senso di appartenenza alla località di residenza e più da un senso di appartenenza
'privatizzato' sviluppato nella famiglia nucleare: la community care non può
ignorare quanto l'analisi sociologica ha da dire su questi aspetti. E se è vero che
queste osservazioni di Bulmer circa la comunità riflettono la visione generale del
concetto che se ne ha nella sociologia anglosassone - una nozione più ecologica
che psicologica, per tornare ad una terminologia già impiegata in questo lavoro - il
richiamo ad un rigore concettuale e metodologico pare del tutto ineccepibile. Ecco
perché - in modo coerente, dal suo punto di vista - egli afferma che, nella sua
formulazione 'classica', -«il termine community è-inadeguato a definire la base
sociale di questo tipo di cura informale» (cioè quello prestato nella famiglia, tra
77Il passo è di PIIlLIP ABRAMS, citato in MARTIN BULMER, Neighbours: the Work of Philip Abrams, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 92-93.
303
amici e vicini): 79 è opportuno riferirsi ad una 'comunità liberata', nella quale le
relazioni sociali primarie sono cioè svincolate dal radicamento localistico. Questo
tipo di relazioni sociali può essere colto attraverso un uso accorto del concetto di
'rete'.
Analoghe cautele sociologiche occorre riservare al concetto di 'rete sociale': molto
spesso, esso viene impiegato metaforicamente e non analiticamente. Da un punto di
vista analitico, una rete è «un insieme specifico di legami tra un insieme ben
definito di persone, con la proprietà aggiuntiva che le caratteristiche di questi legami
nel loro complesso possono essere usate per interpretare il comportamento sociale
delle persone coinvolte».80 Lo scopo principale delle analisi delle reti sociali deve
consistere nel coglierne forma e struttura: <<Una network analysis condotta in modo
adeguato ha notevoli potenzialità per chiarificare i processi sociali e quanto viene
erogato nella community care. Non si può tuttavia negare che i risultati della
network analysis siano stati inferiori alle promesse ed è quindi necessaria una
valutazione critica di questo approccio», poiché molto spesso essa si ferma agli
aspetti formali delle reti, curando poco l'indagine su quelli di contenuto. 81 La
ragione di ciò è da individuare, probabilmente, in carenze di natura teorica: «non c'è
una 'teoria della rete' nel senso di una serie di proposizioni logicamente correlate e
verificabili».82 E, in ogni caso, ribadisce Bulmer, il concetto di 'rete' non può essere
adoperato come sinonimo di 'comunità'; vi è anche il pericolo di trattare il concetto
78MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 93. 79/bidem, p. 139. 80J. CLYDE MITCHELL, The Concept and Use of Socia/ Networks in ID. (ed.), Socia/ Networks in Urban
Situations, Manchester, Manchester University Press, pp. 1-50; p. 2. 81MARÌIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 169. 82ULF HANNERZ, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, (ediz. orig. 1980), trad. it., Bologna, Il
Mulino, 1992, p. 313.
304
di rete in modo reificante allo scopo di programmare l'inserimento in esse da parte
dei servizi sociali pubblici o del volontariato: «tali usi dell'idea di network sono
semplicistici e fuorvianti». 83
L'analisi delle reti sociali non può essere asettica, decontestualizzata: «molte
discussioni sulle reti informali ignorano spesso le dimensioni politiche ed
economiche del supporto informale. [ ... ] Philip Abrams [ ... ] si è preoccupato di
collegare la discussione sull'assistenza tra vicini al problema dell'organizzazione
delle comunità locali. E in effetti il suo concetto di 'moderno vicinatismo' includeva
esplicitamente l'organizzazione politica a livello locale. La network analysis,
inoltre, può essere usata per chiarire la struttura dei processi decisionali a livello
locale [ ... ] e per evidenziare le realtà sociologiche che fanno da sfondo alle
manifestazioni politiche». 84
Perché le persone offrono aiuti informali? La risposta a questo interrogativo
consente di acquisire ulteriori elementi sulla 'affidabilità' delle reti sociali informali
all'interno della community care. Bulmer ripercorre numerose interpretazioni che
riassume in alcune categorie non reciprocamente esclusive:
-altruismo: il concetto può essere definito sommariamente come «attenzione per gli
altri come principio di azione»; contrariamente a quanto si pensi,85 nell'ambito della
care informale questa forma di servizio basata sul dono è presente solo nelle
83MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 172: un esempio di questo tipo di impostazione è, per l'Autore, LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete ... cit.
84MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 174. 85È questa la posizione, ad esempio, di RICHARD M. TITMUSS, The Gift Relationship: from Human Blood to
Socia/ Policy, London, Allen and Unwin, 1970, il quale, a partire dal caso della donazione di sangue, sosteneva che le politiche sociali comportassero un'estensione delle possibilità di altruismo per gli individui rispetto all'egoismo delle relazioni di mercato.
305
relazioni di attaccamento e intimità, posto che in altri tipi di relazione informale
esso tende a diminuire costantemente per vari fattori di ordine socio-culturale;
- beneficenza: il principio di assistere in aderenza alla percezione del dovere di
aiutare chi si trova nel bisogno individua le motivazioni dell'assistenza nell'ambito
della sfera morale, che porta a riconoscere moralmente la non autosufficienza
dell'altro (quando questa persona sia per noi in qualche modo importante) e quindi
il dovere di assisterlo; questo principio è stato alla base anche dell'agire delle
organizzazioni caritatevoli tradizionali britanniche sorte nell'Ottocento, composte
da persone di estrazione sociale medio-alta, ed esprimeva un atteggiamento
paternalistico proprio di un sistema sociale gerarchico;
- tradizione: l'assistenza informale prestata secondo lo schema weberiano dell'agire
tradizionale si ricollega soprattutto agli elementi di senso comune presenti nell'idea
di 'comunità' già discussi in precedenza;
- dovere o obbligazione: questo tipi di prmc1p10 sembra essere utile per
comprendere le cure informali tra parenti, soprattutto il ruolo 'privilegiato' di carer
delle donne, sul modello della relazione di cura tra madre/padre e figlio/a
(nurturance): questa relazione, strutturando nel figlio un modello di assistenza,
farebbe sorgere il 'dovere' di assistere il proprio genitore anziano o ammalato; qui,
però, in special modo per il particolare ruolo di cura attribuito al genere femminile,
andrebbero adeguatamente considerati i fattori socio-culturali che presiedono a
questa divisione e attribuzione di ruoli che spesso viene invece presentata come
'naturale'· '
306
- reciprocità: questo concetto aiuta a spiegare molti degli elementi descritti in
precedenza;86 la reciprocità è stata molto studiata dagli antropologi (Malinowski,
Mauss, Sahlins ), che ne hanno individuato varie forme, da un massimo ad un
minimo di estensione e di forza nell'obbligo di reciprocazione: la reciprocità
generalizzata può essere utile a interpretare anche le forme della beneficenza o
dell'altruismo, giacché molte azioni di quest'ultimo genere possono essere motivate
o dal volere restituire quanto si è ricevuto da altri o, più o meno consapevolmente,
dal desiderio di autogratificazione; applicato a certi tipi di cure informali (per
esempio, l'assistenza domiciliare), il concetto di reciprocità potrebbe anche
implicare il prevedere una paga per i carers informali locali, qualora questi e i loro
assistiti non si conoscano e si voglia evitare che gli assistiti provino disagio nel
sentirsi in dovere di esprimere gratitudine o deferenza allo scopo di reciprocare
l'assistenza ricevuta. Secondo autori come Homans e Blau, la reciprocità
nell'assistenza informale può essere letta come scambio sociale: non si tratta di
scambio economico poiché le obbligazioni per il futuro sono generiche e affidate
alla discrezionalità dell'assistito. Più in generale, da un punto di vista metodologico,
dal momento che indagare le motivazioni esplicite dei carers informali può
diventare inutile o addirittura fuorviante, si rivela proficua l'analisi delle aspettative
e delle ricompense ricavabili dall'azione volontaria, incrociando questi dati con le
situazioni personali e sociali dei carers, incluse le loro eventuali ulteriori possibilità
di impegno/impiego.
La conclusione di Bulmer non è ultimativa, però richiama, se non altro, alcuni
caratteri essenziali delle relazioni informali di cura: «non esistono [ ... ] delle risposte
86Vedi anche supra, capitolo 1.
307
conclusive alla domanda sul perché le persone si aiutano le une con le altre. È del
tutto chiaro, tuttavia, che gli idealtipi bipolari egoismo-altruismo [ ... ] sono di utilità
assai limitata per comprendere le relazioni di cura. La beneficenza, l'obbligazione, il
dovere o la tradizione giocano tutti un certo ruolo nello spiegare perché i carers si
occupino degli altri. L'approccio teorico più adeguato, comunque, è quello che
spiega la cura informale in termini di reciprocità e di scambio sociale».
L'importante è non perdere di vista il fatto che ciò pone in evidenza «il grado in cui
l'assistenza informale emerga e si sviluppi dalle relazioni sociali così come esse
sono. Non è qualche cosa che può essere 'costruito' in modo meccanico, ad esempio
'forzando' o 'creando' i network sociali».87
Le principali difficoltà della community care sorgono proprio m ordine
all'intrecciamento di cure formali e cure informali, poiché non si tratta di modalità
disposte lungo un medesimo continuum, ma di ambiti segnati da discontinuità e
contraddizioni anche profonde. Per Abrams, anzi, vi è «quasi un'antitesi di
principio» fra i due generi di cure, poiché essi adottano due modi opposti di
organizzazione sociale: comunitario versus burocratico. Le soluzioni adottate nella
pratica sono state diverse e con diversi esiti: dalle esperienze britanniche, Bulmer
ricava che la base del complesso di interventi a favore della persona in difficoltà è la
cura informale, soprattutto in termini di efficacia, posta l'ampiezza della gamma di
esigenze quotidiane cui può rispondere, in modo unificato, il carer informale. In
negativo, la cura informale non può essere data per scontata: essa dipende dalle
disponibilità effettive, dall'intensità dei legami e dalla densità delle rete sociale della
persona; possono inoltre sorgere problemi di continuità dell'assistenza nel tempo,
87MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 209.
308
poiché le energie di chi assiste non sono illimitate e richiedono di essere supportate
e rigenerate. La competenza tecnico-professionale in taluni casi è imprescindibile, e
di solito viene richiesta/offerta agli/dagli operatori del settore formale. La persona
può talvolta preferire il sostegno formale a quello informale per tutelare la propria
privacy da amici o vicini invadenti o pettegoli. In molte situazioni, tuttavia, il
confine tra formale e informale è mobile, come, ad esempio, nell'assistenza
domiciliare. Bulmer delinea - sempre in base alle effettive esperienze - anche
diverse modalità di relazione tra cure informali e informali: colonizzazione (del
formale sull'informale), competizione e conflitto, coesistenza (reciproco isolamento:
è la forma più comune), collaborazione (è la modalità meno frequente e più difficile
da realizzare), confusione. I nodi critici che emergono dalle esperienze della Gran
Bretagna sono dunque numerosi e di importanza cruciale rispetto all'efficacia della
community care: i) difficoltà nel garantire l'autonomia dell'utente se la componente
formale dell'assistenza è talmente ampia da accentuare nell'utente medesimo la
percezione di dipendenza dal servizio; ii) problemi nella corretta individuazione del
livello di articolazione e decentramento territoriale dei servizi in rapporto alla
progettazione e sperimentazione dell'intrecciamento tra formale e informale; iii) il
peso dei vincoli organizzativi all'interno dei servizi formali, la diversità - fra
operatori formali e operatori informali - di ruoli, concezione e distribuzione del
tempo di cura, di conoscenze, di tipo di relazione con gli utenti, di status sociale; iv)
il tema della responsabilità amministrativa: gli operatori formali rispondono alla
struttura gerarchica e decisionale del proprio ente; v) la differenza di carico
emozionale, che è più forte per il carer informale sia in positivo (maggiore energia e
309
motivazione) che in negativo (minore obiettività e distacco); vi) la rilevanza di
fattori politici ed etici: l'enfasi sulla community care in Gran Bretagna è stata posta
dal governo conservatore per compensare i tagli ai budget del welfare.
Ciò che non può affatto mancare è una incisiva politica di sostegno alle famiglie -
dal momento che esse offrono servizi di cura - sia per mezzo di incentivi fiscali
che mediante servizi di supporto e di alleggerimento per i carers.
Il 'moderno vicinatismo' cui allude P. Abrams consiste in un tessuto associativo
locale, in grado di esercitare forme di controllo sull'integrazione tra cure formali e
cure informali. Non si tratta di un rimedio generale ed esaustivo: «piuttosto si vuol
sottolineare che solo una forte articolazione di interessi a livello di distretto, in
diverse forme, renderà possibile che la voce del cittadino a livello locale venga
distintamente udita». 88
88/bidem, p. 253.
CONCLUSIONI
Il percorso che abbiamo compiuto ha offerto numerosi spunti di riflessione sulla
nostra problematica. Dal quesito di partenza - in che senso la sociologia si
interroga su concetti che, nella post-modernità, sembrano avere perduto un certo
smalto teorico come solidarietà sociale e cittadinanza? - ci siamo mossi attraverso
un territorio abbastanza esplorato, ma che, probabilmente, richiede di essere
osservato da una prospettiva nuova rispetto a quella che la modernità ha fin qui
proposto: l' autoriflessività che è propria dei sistemi complessi va
epistemologicamente assunta e condotta fino in fondo, cioè fino a che il pensiero
moderno giunga ad osservare se stesso e le proprie premesse dall'esterno,
cogliendone aperture e limiti.
Il tema della globalizzazione attira sempre più l'attenzione scientifica, comparendo
con maggiore frequenza anche nei dibattiti che attraversano l'opinione pubblica
delle società occidentali. Si tratta di un 'utile chiave di lettura dei processi di
mutamento sociale e di relazione fra i sottosistemi culturali, economici, politici di
vari paesi avanzati. Quale tipo di rapporto abbiamo individuato con i temi centrali
del nostro studio? Ci sembra di potere affermare che l'intensificarsi della
globalizzazione - tanto nei processi reali quanto nelle percezioni che di tali
processi si hanno a vari livelli del sociale - sia un dato incontrovertibile che viene
però letto con accenti assai diversi. Per Luhmann, ad esempio, ciò comporta che vi è
312
un umco mondo possibile, quello autoreferenziale e autopoietico della
comunicazione sistemica, che non necessita di integrazione sociale, ma del massimo
di differenziazione sociale per meglio rispondere alle esigenze poste dal proprio
ambiente. Ma si potrebbe osservare che auto-osservazione non equivale sempre e
necessariamente ad autoreferenzialità, la quale rischia di legittimare assetti sociali
in cui il grado di tecnicizzazione sia talmente elevato da annichilire le dimensioni
soggettive e di mondo vitale. Latouche, da una diversa angolatura, intravede una
sorta di implicita - ma dagli effetti dirompenti - coincidenza tra globalizzazione e
occidentalizzazione, cioè di una sostituzione delle culture 'indigene' con il modello
culturale e tecnoscientifico occidentale. Né tantomeno è immaginabile, allo stato
attuale, che nelle società tradizionali e dei paesi del Sud del mondo si avviino
processi di secolarizzazione e di modernizzazione con modalità e caratteri del tutto
o in prevalenza originali e autonomi dalle interdipendenze regionali, continentali e
planetarie. Sembrerebbe, dunque, che globalizzazione e solidarietà sociale - se non
altro a livello di macrosistemi - siano correlate negativamente. Ma così
ovviamente non è, ove si pensi alle molteplici forme in cui il legame sociale è oggi
presente e leggibile, e che fanno riferimento in modo più o meno diretto a fenomeni
come fiducia, associazione, beni comuni, altruismo, reciprocità: concetti che molto
spesso riflettono, della solidarietà sociale, la non-univocità, la differenziazione e la
complessità, talvolta l'ambiguità. La solidarietà sociale nell'età della
globalizzazione è 'differenziata', articolata, resa complessa dai molteplici significati
attribuiti a tale relazione dai soggetti che la pongono in essere.
313
Che significato dare, allora, all'espressione multiculturalismo? È una descrizione
aderente alla realtà? È una previsione degli assetti sociali futuri? È un auspicio? È
una dichiarazione di intenti? Non ci sembra si possa oggi parlare di
multiculturalismo come di qualche cosa già compiutamente manifestatosi, se con
questo termine si intende indicare un modello di società in cui diverse culture
dialogano tra loro in modo sostanzialmente e formalmente paritario, senza egemonie
negoziate o subite. Multiculturalismo può anche essere un modo di definire la
situazione di quelle società occidentali in cui abbia cessato di esistere il monologo
assoluto della loro cultura, ma non ancora la sua egemonia: società nelle quali si
assiste al prendere forma dell'interlocuzione delle 'comunità' di migranti dal Sud
del mondo e ai primi conflitti interculturali interni. È un dibattito profondo e aperto.
Da un lato, la cultura occidentale si scopre parziale, anche quando l'integrismo del
modello produttivistico continua ad autopercepirsi asettico e sganciato da ogni
considerazione circa i propri limiti materiali e sociali. Su di un altro versante, la
cultura occidentale più politically corree! sa di essere superiore alle culture chiuse e
intolleranti ma non sa in quali termini esprimerlo correttamente, rifugiandosi in un
proceduralismo astratto e ricorsivo. Ciò che è possibile osservare è la difficoltà, la
ritrosia, il rifiuto da parte delle culture a mettersi in gioco, a gestire le diversità
senza accentuare o causare separazioni. D'altro canto abbiamo avuto la possibilità di
comprendere alcune delle ragioni per le quali la nozione di particolarismo non va di
per sé connotata di negatività e di antimodemità: l'analisi ha mostrato l'emergere di
forme di particolarismo non secondarie né residuali o persino sorte dai rapporti
sociali della modernità, funzionali ad essa. Così pure l'universalismo: di esso
314
abbiamo osservato il relazionarsi frequente e non occasionale a forme anche 'dure'
di particolarismo o l'essere all'origine di quest'ultimo in modo non intenzionale e
non prevedibile. La definizione delle identità risulta dalla relazione fra valori e
interessi in un contesto di costante differenziazione: ogni visione che oscuri o
sminuisca una delle due componenti rischia di limitare pesantemente la propria
comprensione dei conflitti tra culture e dei dilemmi fra particolarismo e
universalismo.
Se non può essere fondata la correlazione negativa tra differenziazione sociale e
solidarietà sociale - neanche quando si sia osservata l'estensione e la profondità
della differenziazione nell'era della globalizzazione - in che modo tematizzare la
relazione tra questi due fenomeni? La lettura neofunzionalista della teoria di
Parsons, superandone la confusione tra modello analitico e realtà empirica,
conferma l'idea che nei processi di cambiamento sociale della modernità il trend
centrale è proprio la differenziazione sociale. A livello empirico i processi di
differenziazione sono storicamente specifici e l'individuazione in essi di tendenze
va intesa come schema idealtipico di orientamento. Spiegare lo sviluppo sociale
come differenziazione secondo un'ottica multidimensionale significa valorizzare le
azioni volte a realizzare gli ideali che danno senso alla società umana, tenendo conto
dei fattori esterni contrari a tali ideali. Nella modernità cambiamento sociale e
affermazione della modernità coincidono. La post-modernità segna una
discontinuità: il cambiamento sociale post-moderno è complesso, non è più diretta
espressione della modernità, può essere tematizzato adeguatamente solo da un
pensiero in grado di differenziarsi da se stesso e osservarsi dall'esterno.
315
Globalizzazione e differenziazione sociale attraversano, per così dire, e innovano il
concetto e le pratiche di solidarietà sociale: queste si presentano con una
complessità di interdipendenze non riducibile ad una valutazione di positività o
negatività per il soggetto individuale o per il soggetto sovraindividuale, ma che
rimanda analiticamente al costante relazionarsi e ridefinirsi dei fattori di scelta e di
ascnz1one.
Da un rapido esame dei principali sviluppi della filosofia politica contemporanea sui
temi della giustizia sociale e dell'uguaglianza (elementi centrali nel concetto e nelle
pratiche della cittadinanza moderna) - secondo diverse prospettive: utilitarismo,
liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo, marxismo, femminismo -
abbiamo ricavato alcuni spunti utili all'analisi sociologica e, in particolare ad alcuni
interrogativi: con quali modalità ed esiti le diverse teorie filosofico-politiche della
giustizia postulano una qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra
soggetti? Può esservi - e se sì di che tipo - un fondamento filosofico alla
solidarietà sociale, orizzontale e verticale, intesa normativamente come valore? Il
dibattito tra liberalismo e comunitarismo si staglia abbastanza nettamente sullo
sfondo del panorama complessivo della filosofia politica contemporanea e, al di là
di toni che talvolta sono stati accesi, lascia intravedere più punti di convergenza di
quanto non sembri: la convinta accettazione del pluralismo delle società moderne, le
esigenze di integrazione sociale che un ordine politico non può ignorare, la
consolidata rilevanza dell'appartenenza nella cultura occidentale. Ferrara ha tratto
da questo dibattito l'idea di un universalismo esemplare e individuante del giudizio
316
riflettente in base al quale le questioni di giustizia vengono contestualizzate
all'interno di una comunità e delle sue condizioni storico-sociali, seguendo il
criterio dell'autenticità, che individua la soluzione attraverso la valorizzazione,
anche in termini innovativi, dell'identità concreta della comunità. La proposta di
Ferrara apre una prospettiva interessante, che però al momento non consente ancora
di tematizzare e risolvere i più rilevanti problemi sollevati all'interno dell'attuale
dibattito filosofico-politico: esso, per molti aspetti, rimane ancora interno alla
modernità e alle sue logiche, impedendosi di osservare dall'esterno il suo oggetto di
studio e le sue principali categorie. Se, tuttavia, si sta arrivando ad una condivisione
equilibrata del pluralismo e dell'autonomia del liberalismo e delle esigenze di
integrazione sociale e di appartenenza del comunitarismo si è già in qualche modo e
in qualche misura, a noi sembra, filosoficamente oltre il moderno. Non resterebbe
che prenderne atto e sviluppare di conseguenza l'elaborazione delle teorie
filosofico-politiche della giustizia e della cittadinanza.
La cittadinanza ha rappresentato un codice simbolico e normativo fondamentale per
l'integrazione delle società moderne, che sono state trasformate in profondità dai
processi sociali della modernità: sono state offerte nuove e significative opportunità
di crescita e di sviluppo agli individui e alle molteplici forme di interazione sociale,
come anche si sono prodotti esiti parziali, contraddittori, talvolta anche 'perversi'.
Lo sviluppo della cittadinanza moderna ha rappresentato lo sviluppo di una logica
ugualitaria, al tempo stesso incorporata e alternativa rispetto a quella dell'economia
di mercato. La cittadinanza occidentale ipotizza una relazione diretta tra individuo e
317
stato, sia nella versione liberale del concetto che in quella socialista: ciò ha condotto
ad eccessi di individualismo, il quale a sua volta ha determinato frammentazione
politica. La concettualizzazione della cittadinanza moderna è limitata dal fatto di
essere unidimensionalizzata sugli aspetti politici e pensata solo in chiave nazionale.
I nuclei teorici della cittadinanza - appartenenza e diritti - hanno avuto diversi
percorsi evolutivi fino alla loro attuale crisi: il primo elemento segna il passo per via
della crisi dell'idea moderna di stato-nazione e del processo di differenziazione e
riposizionamento reciproco tra politico e statuale. La crisi dei diritti nasce da due
fattori: i) l'universalismo astratto e procedurale oggi non riesce più a soddisfare
istanze sempre più numerose e 'pesanti', gestendo un complesso insieme di
differenze e pluralismi; ii) cresce il numero dei diritti che pongono domande non
assumibili nel quadro della cittadinanza nazionale e dei riferimenti sociali e
istituzionali di questa. In breve, nella post-modernità vi sono forme di appartenenza
estremamente differenziate e articolate, e non è detto che tutte le forme diverse
dall'appartenenza politica ad uno stato-nazione non abbiano niente a che fare con la
cittadinanza; come anche, non ci si può più limitare alla sola dimensione dei diritti
quale unica espressione della relazione tra stato e individui. Vi è comunque, nel
codice simbolico-normativo della cittadinanza moderna, una contraddizione
costitutiva, che risulta evidente ove si consideri che appartenenza fa riferimento ad
un vincolo tra individui, mentre diritti allude a liberazione degli individui da ogni
vincolo.
Passando in rassegna le teorie sulla cittadinanza, abbiamo ricavato numerosi spunti
per una loro valutazione critica a fronte delle istanze emergenti nell'attuale contesto
318
societario: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare state, ridefinizione della
politica sociale, rapporto società civile-stato. L'analisi dei nodi strutturali della
modernità e della post-modernità si è rivelata - come si è visto - ineludibile e
bisognosa di un'analisi riflessiva, in grado, cioè, di osservare dall'esterno il proprio
oggetto. Si è anche resa evidente la necessità - allo scopo di pervenire ad una
nuova e più convincente definizione di cittadinanza, come anche dei concetti di
appartenenza e diritti - di una non confusa e non contraddittoria antropologia.
Con queste premesse, si rivela praticabile una definizione di cittadinanza come
relazione sociale, che tenga conto al tempo stesso dei processi di
generalizzazione/ globalizzazione e differenziazione/specificazione; una definizione
caratterizzata da sovra-funzionalità e da una forma reticolare, in grado di cogliere e
far cogliere la complessità del suo oggetto. Pensiero liberale e pensiero socialista, in
quanto entrambi di matrice illuministica, non riescono a risolvere le contraddizioni
tra universalismo (che dà luogo al pluralismo indifferenziato) e particolarismo (che
deriva dall'impronta individualistica moderna e che stimola la differenziazione
sociale).
La complessità oggi esistente nell'idea e nella pratica della cittadinanza deve
agganciarsi alla distinzione 'umano/non umano': se si concepisce l'umano in
termini progettuali, «cittadinanza diventa un titolo di appartenenza ad una comunità
che mobilita e vincola solo per aspetti specifici e limitati, quelli relativi al sistema di
riferimento (città, comune, nazione, comunità sovranazionale), mentre per il resto
lascia liberi i soggetti di agire le proprie appartenenze umane in altre sfere sociali». I
L'idea che ne scaturisce è quella di una cittadinanza societaria che rappresenta il
319
superamento di quella statalistica più tipica di una società industriale caratterizzata
da inclusione politica nello stato-nazione moderno. Tale prospettiva si inquadra
nell'attuale contesto societario, abbastanza diverso dalla società industriale
moderna, e indica una relazione sociale non riducibile alla sola dimensione politica
o a riferimenti filosofico-ideologici che mobilitano i cittadini in un sistema
monopolistico di inclusione, come lo stato nazionale.
Entrano in gioco le diverse 'autonomie sociali', un variegato e complesso insieme di
istituzioni verso le quali lo stato si pone al tempo stesso come garante e come
limitatore: esse si configurano come una 'eccedenza di socialità' sviluppata dalla
società contemporanea e che il codice simbolico-normativo della modernità non è in
grado di esprimere e gestire adeguatamente. La cittadinanza societaria può dunque
essere schematizzata come espressione di un universalismo plurale organizzato su
sottosistemi relaziona/mente differenziati (mercato, reti sociali e sistema
amministrativo pubblico).
Una concezione siffatta della cittadinanza richiama una ridefinizione del concetto di
società civile: non è sufficiente descriverla come ciò che residua rispetto allo stato e
al mercato, occorre invece porre attenzione ai processi di differenziazione sociale
dai quali sono scaturite nuove forme di relazione che fanno della società civile la
'sfera della solidarietà sociale universalizzante', 2 la sfera associativa distinta
analiticamente oltre che dalla sfera economica e da quella politica, anche da quelle
familiari, religiose, intellettuali: «ciascuna di queste sfere è cresciuta sulla base di un
proprio codice simbolico, con propri mezzi materiali e simbolici (specifici e
1PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria ... cit., p. 33. 2JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., pp. 334-35.
320
generalizzati) di interscambio con le altre sfere, ha edificato le proprie istituzioni, ha
codificato i propri diritti e doveri (regolamentazioni)».3 La crisi della cittadinanza
contemporanea - sia negli ordinamenti giuridici che nella concettualizzazione
scientifica - è quindi dovuta al fatto che essa, in buona sostanza, è rimasta in
posizione arretrata rispetto agli esiti dei processi di differenziazione societaria,
continuando a contestualizzare le relazioni sociali in maniera riduttiva nell'asse
stato-mercato, riservando la titolarità dei diritti di cittadinanza ai soli individui ed
escludendone la sfera associativa e quella familiare.
La cittadinanza societaria va tematizzata anche in relazione alla democrazia: anche
di quest'ultima va ricostruita una nozione adeguata alla complessità post-moderna
che vada oltre la tendenza a ridurne la portata a metodo di governo o, ancora, a
codice procedurale puramente funzionale. La dimensione sociologicamente
normativa della democrazia - come si è visto - non può essere ignorata, poiché
per quanto si insista nell'indicare l'origine della produzione dei diritti negli
interessi, questi ultimi rimandano sempre a delle identità le quali, a loro volta, non
sono spiegabili a prescindere dalle appartenenze se non politiche almeno socio-
culturali. Non esiste una cittadinanza realmente neutrale o indifferente rispetto alle
culture, ma il codice simbolico moderno della democrazia e della cittadinanza non
ne prende atto.
Dall'analisi sociologica dei concetti di solidarietà sociale e di cittadinanza, come
anche dall'analisi delle teorie filosofico-politiche della giustizia, è sorta l'esigenza
di riesaminare il concetto di comunità tanto nelle dimensioni sociologiche quanto in
3PIERPAOLO DONATI, Introduzione generale. Le nuove frontiere della politica sociale ... cit., p. 9.
321
quelle filosofiche: dalla discussione delle pnme ci attendevamo spunti per
l'approfondimento delle trasformazioni del legame sociale e delle forme di
integrazione politica nella post-modernità della differenziazione societaria e della
globalizzazione, mentre ipotizzavamo che la riflessione sulle seconde ci potesse
consentire di comprendere e valutare meglio la capacità autoriflessiva del pensiero
post-moderno. Abbiamo potuto osservare che, sebbene sociologia e filosofia politica
tematizzino in maniera diversa il medesimo termine 'comunità', è evidente una certa
influenza reciproca, che viene rivelata dal fatto che alcune posizioni filosofico-
politiche liberali si oppongono alle teorie comunitariste sulla base di aspetti, ormai
peraltro superati, della concezione sociologica classica di comunità. In realtà, come
si è visto, i punti di contatto tra liberali e comunitaristi sono più numerosi di quanto
si creda o si voglia far credere. Il vero snodo teorico è il rapporto del pensiero -
tanto filosofico che sociologico - con la modernità, e in modo particolare tra la
concezione dell'individuo e la modernità: è il tema antropologico che appare
decisivo ai fini di una collocazione epistemologica che sia, come dicevamo
nell'ultimo capitolo, 'a cavallo' della modernità e che non sia pre-moderna, anti-
moderna o 'debolmente' post-moderna. Se - come afferma Ferrara rileggendo il
dibattito 'tra sordi', cioè tra liberali e comunitaristi - l'individuo non può essere
presupposto alle relazioni sociali, si è già oltre il moderno: si avrebbero così le
premesse per l'avvio di nuove prospettive di ricerca tanto in filosofia politica quanto
soprattutto in sociologia. -
La sociologia classica ha considerato la comunità una forma di sociabilità in declino
progressivo, lineare e simmetrico rispetto al consolidarsi delle relazioni societarie
322
moderne tipiche della società industriale. Gli sviluppi più recenti hanno focalizzato
gli intrecci relazionali, complessi e talvolta ambigui, fra Gemeinschaft e
Gesellschaft propri delle società a differenziazione societaria crescente della tarda
modernità. Martin Bulmer si è domandato se «è realistico scommettere sulla
comunità» ai fini di programmi per il benessere collettivo, e un quesito analogo
potrebbe essere applicato anche alle attese di rinvigorimento della democrazia e
della cittadinanza che da più parti vengono rivolte all'espressione comunità.
L'interrogativo non è di poco conto, se contestualizzato in una fase storica ad
elevata turbolenza, in cui anche le politiche volte a garantire l'esercizio dei diritti di
cittadinanza e l'inclusione sociale sono fortemente in discussione sotto ogni aspetto.
Depurando il concetto di comunità da ogni valenza mitica e onnicomprensiva
rispetto alle attese di soddisfacimento personalizzato e poco costoso dei bisogni di
care o di quelli di inclusione socio-politica, non si può che assumere una posizione
realista, in grado di tener conto dei vincoli e delle opportunità del ricorso alle
relazioni di comunità. Ciò, tuttavia, rinvia ad approcci coerenti: la community care
non è altro che un intervento sociale di rete il quale presuppone l'analisi sociologica
della società e delle forme di associazione secondo il paradigma della rete, e
quest'ultimo, a sua volta, necessita di una epistemologia relazionale affinché la
relazione sociale venga adeguatamente tematizzata come realtà sui generis a livello
presupposizionale. Anche in questo caso si torna, dunque, alla relazione sociale
come unità di analisi della sociologia, al di là di ogni forma di riduzionismo
all'individuo o all'ordine sociale, analogamente a quanto ci è sembrato di cogliere
323
attraverso il nostro itinerario di riflessione sulla solidarietà sociale e sulla
cittadinanza oltre il moderno.
Ridefinire relazionalmente solidarietà sociale e cittadinanza nelle società tardo-
moderne ad elevata differenziazione societaria ha delle ricadute immediate anche
nel campo della politica sociale. All'interno di tutte le sfere civili, con accenti
diversi, è possibile riscontrare processi di scomposizione/frammentazione, ma anche
di ricomposizione e di scambio: per quanto riguarda le relazioni riconducibili alla
sfera economica, ad esempio, è ormai un dato di fatto l'accettazione della
prevalenza in linea di principio del mercato, anche se in forme differenziate e
talvolta con criteri di regolazione combinati (si pensi al settore emergente
dell'economia no profit); nell'ambito delle relazioni che fanno capo alla sfera
politica, per altro verso, non è più in discussione la democrazia, ma semmai il suo
statuto epistemologico e le sue possibili declinazioni. È con buona probabilità
all'interno di questi processi, in ognuna delle sfere civili, che può essere condotta la
ricerca di tracce che attestino la consistenza e la base dei beni comuni come anche
degli indicatori, forse ancora non chiaramente esplicitati, dei doveri che vincolano
individui e forme associative di vario genere verso la collettività. Ad una politica
sociale avanzata e innovativa tali dimensioni non possono sfuggire, pena l'ulteriore
ripiegamento nell 'autoreferenzialità dei propri codici, sistemi ed apparati di
intervento.
324
Anche il rapporto tra politica sociale e multiculturalismo può essere riletto in
quest'ottica: se da un punto di vista filosofico-politico, come suggerisce M. W alzer,
è accettabile, nelle società occidentali contemporanee, un temperato ed equilibrato
'diritto di chiusura' in senso culturale oltre che politico, ai fini della definizione di
una politica sociale di gestione dei flussi di migranti dal Sud del mondo, il
contenuto e i contorni di tale diritto andrebbero esplicitati nelle premesse etiche e
tradotti in indirizzi politici e di politica sociale: la situazione attuale, con il suo 'non
detto' e i suoi molti aspetti impliciti e sottintesi mostra un'ampia serie di equivoci,
ambiguità, conflitti. La tematizzazione di tale 'diritto di chiusura' potrebbe
contenere, almeno in parte, lo scatenarsi nelle opinioni pubbliche di reazioni
emotive e ideologiche incontrollabili, creare l'opportunità di un approccio più
pacato e realistico e offrire maggiori possibilità di un consenso diffuso alla 'politica
del multiculturalismo'.
Indicare la community care come scelta strategica della politica sociale non può
comportare lo smantellamento o l'arretramento 'programmatico' dei servizi del
welfare: se così fosse, verrebbe a mancare il presupposto della rete fra diversi attori,
sarebbe un'ipotesi strumentale e ideologica. Gli studi compiuti sull'argomento
consentono, sulla base delle esperienze maturate in diversi paesi, di affermare il
contrario: la community care richiede un riposizionamento strategico dei servizi e
delle risorse (umane, finanziarie, tecnologiche ... ) del welfare, tale da garantire a
quest'ultimo capacità di mediazione nelle reti informali di aiuto, di monitoraggio e
325
valutazione (Donati direbbe: di osservazione, diagnosi, guida relazionale4). La
programmazione delle politiche sociali secondo l'approccio della community care ai
vari livelli - dal progetto alla gestione e alla valutazione - va profondamente
sburocratizzata, se si intende dare vita realmente ad un nuovo modello di welfare 'a
più voci', in linea cioè con la differenziazione societaria tra sfere civili e ali' interno
di ognuna di esse. Presupposto indispensabile di tale impostazione concettuale ed
operativa è la riformulazione del codice simbolico-normativo della cittadinanza,
prevedendone opportunamente l'estensione alle sfere associativa e familiare.
Un ultimo, breve cenno ci pare necessario dedicare al servizio sociale sia in quanto
specifico ambito scientifico-disciplinare che come area professionale e di intervento.
Il servizio sociale come processo di aiuto sempre di più percepisce
l'imprescindibilità della prevenzione come strategia di intervento nella quale si
inserisce la risoluzione dei problemi e dei disagi di persone, famiglie, gruppi. Sono
però consistenti le difficoltà e i limiti ad una piena assunzione di questo approccio,
sia per via delle attese della società e delle istituzioni nei confronti dell'assistente
sociale sia a causa dei tempi lunghi richiesti da un mutamento di cultura nella
professione. Un punto di forza è dato dal fatto che il servizio sociale ha già in sé un
importante elemento che riconduce alla ridefinizione della cittadinanza: esso, infatti,
ha come obiettivo fondamentale aiutare le persone ad aiutarsi, ad assumersi anche
doveri e responsabilità, flon solo a garantire la fruizione di diritti e prestazioni. Il
servizio sociale eviterà il rischio di una chiusura autoreferenziale nella misura in cui
tematizzerà - dal proprio specifico punto di vista disciplinare - e condurrà la
4PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., pp. 463-73.
326
propria relazione con la 'società dei due terzi' in modo che quest'ultima si prenda
carico del 'terzo escluso' e dei suoi doveri verso di esso: è, questo, un 'compito' in
generale della politica sociale e, più limitatamente, del servizio sociale, che non può
ignorare, sottovalutare o non esplicitare adeguatamente questo requisito generale
'etico' che incide anche sul contenuto della professione e sulla professionalità degli
operatori. Ciò richiede al servizio sociale una capacità di autosservazione di se
stesso - teorie, metodologie, modelli di intervento, processi ed esiti - nella
propria relazione con la politica sociale, con i sistemi di we/fare, con la società
affinché anche da esso provenga o continui a provenire un contributo innovativo ad
una cittadinanza oltre il moderno.
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