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Università degli Studi di Bologna – Facoltà di Lettere e Filosofia I Domenicani in Emilia-Romagna nel Medioevo
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
I Domenicani in Emilia‐Romagna nel Medioevo
Università degli Studi di Bologna – Facoltà di Lettere e Filosofia I Domenicani in Emilia-Romagna nel Medioevo
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SOMMARIO Introduzione……………………………………………………………….. 2 C API T O L O 1: L’ambiente storico e le origini dell’ordine domenicano…………................
5
1.1 L’eresia catara………………………………………………………. 5 1.2 San Domenico e l’ordine dei frati Predicatori………………………. 8 1.3 Il capitolo del 1220 e le costituzioni domenicane…………………... 10 1.4 Gli ordini mendicanti e le città……………………………………… 13 C API T O L O 2: I Domenicani in Emilia-Romagna nel Medioevo…………………………...
17
2.1 La presenza domenicana in Emilia-Romagna………………………. 17 2.2 Bologna……………………………………………............................ 22 2.3 Piacenza……………………………………………………………... 28 2.4 Reggio-Emilia……………………………………………………….. 33 2.5 Faenza………………………….......................................................... 36 2.6 Forlì…………………………………………………………………. 43 2.7 Ravenna……………………………………………………………... 47 2.8 Rimini.................................................................................................. 50 2.9 Cesena ………………………............................................................. 52 2.10 Parma……………………………………………………………....... 57 2.11 Modena ……………………………………………………………... 59 2.12 Ferrara………………………………………………………………. 62 Conclusioni.................................................................................................... 68 Bibliografia.................................................................................................... 70
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CAPITOLO 1
L’AMBIENTE STORICO E
LE ORIGINI DELL’ORDINE DOMENICANO 1.1 L’ERESIA CATARA
A cominciare dal 1140-1150, apparvero in occidente nuovi gruppi di eretici che,
come segnala nel 1143 il premostratense Evervino di Steinfeld a san Bernardo, in
seguito ad alcuni arresti avvenuti a Colonia, rifiutavano i sacramenti e
pretendevano di richiamarsi ad una chiesa antica1. Per alcuni aspetti questi gruppi
erano vicini alle correnti evangeliche: rifiutavano ogni proprietà, si spostavano di
città in città predicando e si distinguevano per il loro ascetismo rigoroso e per
l’importanza che davano al battesimo dello Spirito trasmesso tramite
l’imposizione delle mani.
A partire dal 1157 (concilio di Reims)2 le fonti ecclesiastiche e le cronache
attestano la presenza in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra di eretici
designati con il nome di “Popelicans”, “Publiains” e “Piphles”. Questi
“Popelicans” non avevano un’organizzazione gerarchica e inoltre non vi era
distinzione tra perfetti e semplici credenti, elemento che invece caratterizza i
catari propriamente detti; ma dal momento che non cercavano di nascondersi
furono vittime designate della repressione e scomparvero probabilmente alla fine
del XII secolo. A partire dai primi anni del 1200 la terminologia si evolve e le
fonti designano i nuovi eretici di stanza nel Mezzogiorno francese con il nome di
Albigesi. Questi si dichiaravano cristiani e i loro gruppi si presentavano come
1 L’eresia catara, in Storia del Cristianesimo, vol.5: Apogeo del papato ed espansione della cristianità, (1054-1274), a cura di A. VASINA – A. VAUCHEZ, Roma 1997, p. 447. Vedi anche L. PAOLINI, L’albero selvatico, Bologna1989 2 Ibidem, p. 448.
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comunità apostoliche, ma a differenza dei movimenti precedenti i catari non
avevano alcun legame con la Chiesa cattolica che non intendevano affatto
riformare o cambiare. La loro predicazione consentiva di integrare le pratiche
religiose e ascetiche in un insieme di credenza e di miti capace di esercitare un
vero e proprio fascino su chi li ascoltava e l’ardente zelo missionario degli adepti
permise al catarismo di diffondersi rapidamente. A partire dalla Francia nord-
orientale (Artois e Champagne) il catarismo si diffuse nelle zone meridionali
della Linguadoca e nell’Italia settentrionale e nel 1163 l’arcivescovo di Narbona
lanciò un appello al concilio di Tours perché condannasse la “nuova eresia”
comparsa nella regione di Tolosa 3.
Intorno al 1174/76 si verificò un evento gravido di conseguenze per la storia del
catarismo occidentale: il concilio cataro di Saint Félix de Caraman4. In questa
località si radunarono i rappresentanti delle diverse comunità catare, ma il
personaggio centrale fu un alto dignitario della chiesa catara di Costantinopoli, il
“papas” Niceta. Costui riuscì a convincere i presenti ad abbandonare il dualismo
moderato, cioè la convinzione che il mondo fosse il teatro di un conflitto tra due
principi – il Dio del bene e il Dio del male – che però non erano sullo stesso
piano, fino ad allora professato da tutte le comunità occidentali e ad abbracciare
un dualismo assoluto, che riconosceva invece i due principi come coeterni ed
eguali.
Inoltre, durante questa assemblea, la chiesa catara rafforzò le sue strutture
diocesane e nuovi vescovi furono consacrati da Niceta. Non si deve comunque
presentare l’eresia catara come un coerente sistema dottrinale. Ogni chiesa locale
aveva un’ampia autonomia e nessuna autorità centrale poteva imporre la sua
ortodossia. Sorsero comunque dei conflitti fra le chiese catare dovuti proprio alla
diversa visione del dualismo che esse avevano, ma questi non devono essere
sopravvalutati. Ciò che le univa – un totale rifiuto della Chiesa cattolica e delle
sue credenze – era più importante di ciò che le divideva. 3 Ibidem, p. 449. 4 Ibidem, p. 449.
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Le fonti contemporanee, per spiegare le ragioni del successo di questa eresia,
hanno messo l’accento sul fascino esercitato dai perfetti catari, conseguito grazie
all’austerità ascetica e al rigore morale che contrastavano con il livello spesso
mediocre del clero cattolico. Ma è sul piano delle credenze religiose dei catari
che vanno ricercate le ragione principali del successo del loro apostolato. Nella
prospettiva del manicheismo, già a suo tempo rifiutato e combattuto da
Sant’Agostino, il catarismo è stato a lungo definito come una religione dualista;
in effetti, alcuni scritti catari italiani del XIII secolo, come il Libro dei Due
Principi del 1230 circa, erroneamente attribuito a Giovanni di Lugio 5, vanno in
questa direzione. Questo testo non è tuttavia rappresentativo di tutto il catarismo,
nel quale l’affermazione centrale non era l’idea di un conflitto fondamentale tra il
Bene e il Male, ma piuttosto la certezza che esiste una via attraverso la quale
l’uomo può sottrarsi al potere del Male che domina il mondo e la creazione
intera. I catari annunciavano un messaggio di liberazione che permetteva
all’elemento di divinità presente in ogni essere umano di emanciparsi dalla
prigione della materia. Per riuscire in questo sforzo era necessario seguire Cristo,
messaggero angelico di Dio, che aveva lasciato nel Vangelo una rivelazione che
permetteva all’uomo di ritrovare la purezza dell’anima attraverso la preghiera e
l’ascesi rigorosa. La Chiesa cattolica aveva tradito questo messaggio e si era
disposta al servizio del Male ricercando il potere temporale e la ricchezza. Al
contrario la vera chiesa di Dio era puramente spirituale e non avanzava alcuna
rivendicazione di ordine economico e politico. Il catarismo si presentava come il
cristianesimo autentico e coloro che vi aderivano non avevano affatto
l’impressione di cambiare religione, ma di ritornare alla chiesa primitiva. I
sacramenti erano ridotti a uno solo: la trasmissione dello Spirito Santo attraverso
l’imposizione delle mani, o consolamentum.
Di fronte a questa contestazione radicale, la Chiesa cattolica ebbe difficoltà ad
elaborare una risposta adeguata. Le prime misure giuridiche di portata generale 5 Ibidem, p. 451.
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contro le eresie furono prese nel 1184, con il decretale Ad abolendam 6, che
condannava in modo esplicito tutte le eresie che si erano sviluppate in occidente
nel corso dei decenni precedenti e stabiliva sanzioni severe a riguardo dei
colpevoli.
Tuttavia, nell’immediato, la situazione degli eretici non cambiò molto, poiché la
Chiesa poteva applicare concretamente le misure di repressione solo con
l’appoggio del potere temporale, che nonostante l’emanazione dell’Ad
Abolendam avvenuta congiuntamente tra il papa (Lucio III) e l’imperatore
(Federico Barbarossa) non era dovunque garantito.
Ad un progressivo appoggio da parte del potere temporale si affiancò tra gli anni
Dieci e Venti del Duecento la nascita degli ordini mendicanti.
1.2 SAN DOMENICO E L’ORDINE DEI FRATI PREDICATORI
Negli stessi anni in cui San Francesco iniziava la sua esperienza di fede, un
chierico castigliano, Domenico di Guzman, avviò un’esperienza religiosa che
somigliava per certi aspetti a quella francescana ma se ne discostava per altri.
Domenico, in qualità di vice priore del capitolo del duomo di Osma aveva
accompagnato il proprio vescovo Diego in una missione diplomatica nella
Germania del Nord, compiuta per conto del re di Castiglia (1203).
Alla fine del viaggio essi constatarono la devastazione causata dai Cumani,
popolazioni pagane dell’Europa centrale, e decisero allora di dedicarsi
all’evangelizzazione di questi popoli. Per ottenere l’approvazione del loro
progetto si recarono a Roma presso papa Innocenzo III, il quale però ricordò loro
che c’erano impegni più urgenti in Francia meridionale. Al ritorno in Spagna
attraversarono la contea di Tolosa e, dopo aver soggiornato in questa città,
presero coscienza della diffusione dell’eresia catara.
Nell’agosto 1206 incontrarono a Montpellier i legati cistercensi inviati dal papa
nella regione per predicare contro gli eretici e che, scoraggiati dalla negativa 6 Ibidem, p. 452.
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accoglienza delle popolazioni locali, stavano abbandonando la missione. Colpiti
dal lusso dei loro vestiti che contrastava con la semplicità di vita dei perfetti,
decisero di rimanere in Linguadoca e di tentare di riguadagnare gli abitanti della
regione alla fede cattolica con una predicazione itinerante di tipo apostolico
imperniata sui canoni dell’umiltà accompagnata da un concreto esempio di
povertà. Essi accettarono di affrontare i catari in pubbliche controversie
riuscendo anche a imporsi, come a Montréal nel 1207, grazie alla loro
conoscenza delle Scritture e alla testimonianza evangelica. Nello stesso anno
Domenico fondò a Prouille una comunità religiosa destinata ad accogliere le
donne che abbandonavano l’eresia catara.
Dopo la morte di Diego, Domenico proseguì la sua azione con alcuni compagni
che lo avevano seguito e Onorio III, alla fine del Concilio Lateranense IV,
consacrò la fondazione dell’ordine domenicano con la bolla del 22 dicembre
1216, completata poi con un’altra del 21 gennaio dell’anno seguente7. Il papa
ratificò la fondazione a Saint-Romain di Tolosa di una fraternità di canonici
regolari secondo la regola di Sant’Agostino ed ebbe cura di precisare che non si
trattava di una casa isolata, ma di un ordine i cui frati dovevano essere “i
campioni della fede e i veri luminari del mondo”.
Il papa prende questo ordine sotto il suo “governo” il che vuol dire che i frati
predicatori avrebbero servito e aiutato la S. Sede nel ricondurre all’ortodossia le
anime fuorviate o conquistare a Cristo quelle ancora immerse nelle tenebre del
paganesimo. Predicazione in seno alla Cristianità e missione fuori di essa: è
questo il duplice obiettivo assegnato da Onorio III ai discepoli di san Domenico.
Quando fu presa tale decisione pontificia san Domenico era a Roma, ma
all’inizio della quaresima del 1217 tornò a Tolosa e il 15 agosto organizzò la
prima spedizione dei suoi frati: quattro furono inviati in Spagna e altri otto a
Parigi.
7 Gli inizi dell’ordine domenicano, in La cristianità romana, a cura di A. FLICHE, CH.THOUZELLIER E Y. AZAIS, Torino 1968, p. 348.
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Negli anni seguenti le fondazioni si moltiplicano e lo stesso san Domenico
promuoverà nella sua terra di origine la fondazione di due conventi, a Segovia e a
Madrid. In Francia la casa di Parigi prospera e in Italia viene fondato il convento
di Bologna la cui università era celebre in tutta la cristianità. A Roma, una bolla
del 3 dicembre 1218 affida ai frati predicatori la chiesa di S. Sisto8.
1.3 I L C API T O L O D E L 1220 E L E C OST IT U Z I O NI D O M E NI C A N E
Nell’anno 1221 l’ordine aveva già le sue costituzioni. San Domenico aveva
predisposto un piano organizzativo ma non volle stabilire nulla senza il consenso
dei suoi frati, che convocò per un’assemblea generale che si sarebbe svolta a
Bologna nella Pentecoste del 1220. È in questo capitolo che furono emanate le
prime e fondamentali costituzioni dei frati predicatori.
Le costituzioni ribadirono la povertà del singolo e della comunità, mutuando
elementi tradizionali dalle congregazioni dei canonici regolari. Si ispirarono
anche a forme di vita monastica, specialmente a quelle dei cistercensi. I
possedimenti di terre e gli introiti fissi furono aboliti, mentre completamente
nuovo era il precetto di vivere di elemosine. La struttura delle chiese doveva
essere semplice come quelle dei primi cistercensi. Le case vennero fondate nei
centri urbani o immediatamente a ridosso di questi, con una speciale attenzione
verso le città sedi di università o in quelle commerciali; in esse i domenicani
trovarono il terreno adatto per le vocazioni, la cura d’anime e lo studio. Il
capitolo generale si riuniva una volta all’anno e aveva il massimo potere
legislativo, eleggeva il maestro generale e lo poteva anche deporre. Anche i
superiori provinciali venivano eletti dai capitoli provinciali e nei loro confronti il
maestro generale aveva solo il diritto di conferma9.
8 Ibidem, p. 349. 9 Gli ordini mendicanti, in Storia della Chiesa, a cura di H. JEDIN, Milano 1972, p. 244.
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La funzione centrale della predicazione nel programma dell’ordine indusse i
legislatori ad esigere per ogni fondazione un maestro di teologia e un direttore di
studi e a costruire in ogni provincia uno studium generale. L’austero tenore di
vita (povertà, digiuno, astinenza, penitenze personali) guadagnò ai Predicatori
l’attenzione del popolo cristiano e un crescente numero di vocazioni provenienti
soprattutto dalle università e dai ceti più alti della borghesia10.
Beneficiando del pieno appoggio del papato, i predicatori si videro affidare, tra il
1231 e il 1233, la direzione dell’Inquisizione: un fatto che doveva orientarli in
maniera ancor più decisa verso la repressione, ora anche violenta, delle eresie.
Domenico aveva compreso l’importanza della parola nella trasmissione della
fede. L’orientamento teso alla formazione dei frati secondo i canoni della cultura
dotta era destinato a rivelarsi vincente: in un mondo il cui sapere teorico
ritrovava prestigio e le università rappresentavano i luoghi della formazione delle
élites dirigenti, non poteva non esserci spazio per un ordine la cui predicazione
fosse fondata sullo studio della teologia e della filosofia.
Ma san Domenico conosceva a fondo i catari e sapeva che la scienza dei
Predicatori non bastava ad attirare l’adesione dei fedeli. Così si avvicinava a San
Francesco nel rifiutare il potere e la proprietà dei beni fondiari, anche se
assegnava alla povertà un posto differente. Secondo Domenico la povertà era
un’arma contro l’eresia, una condizione necessaria ma non sufficiente.
Più che nella mendicità gli ordini mendicanti si definirono per la loro attività
apostolica, per il desiderio di dedicarsi alla salvezza del prossimo; a differenza
degli ordini precedenti domenicani e francescani si mostrarono aperti al mondo
che intendevano evangelizzare. Pur vivendo in comunità nei conventi non
rimanevano chiusi nel chiostro ma vivevano in rapporto con i fedeli. La
10 Ibidem, p. 245.
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principale vocazione dei mendicanti consisteva nell’esortare i fedeli alla
penitenza e gli eretici alla vera fede.
I mendicanti non erano tenuti alla stanzialità, ma si caratterizzavano al contrario
per una grande mobilità. Gli studi li sollecitavano a mettersi in viaggio per
recarsi presso lo Studium al quale i superiori li indirizzavano per studiare o
insegnare11. La riunione dei capitoli provinciali e generali, le missioni da
compiere presso la curia o le ambascerie erano ugualmente occasione di contatti
stimolanti. Le relazioni con i laici erano ancora più importanti: la mendicità,
sotto forma di questua, era un’occasione di incontro. Tuttavia l’occasione
principale per trasmettere la parola di Dio ai fedeli era la predicazione, che
poteva svolgersi o in una chiesa parrocchiale, dove venivano invitati dai rettori, o
all’esterno o nelle riunioni delle confraternite o in gruppi di devoti che li
sceglievano come cappellani. I mendicanti cercavano di influenzare il mondo dei
laici per assicurare una diffusione del messaggio penitenziale e della spiritualità
di cui erano fautori. Così si comprende come il papato, che conosceva bene i
limiti del clero secolare, abbia accolto come un avvenimento provvidenziale
l’apparizione di san Domenico e san Francesco e dei loro figli spirituali e abbia
tentato di servirsene per far fronte ai bisogni urgenti della Chiesa.
In pochi decenni i due principali ordini mendicanti – i Predicatori e i frati Minori
– conobbero un’espansione estremamente rapida in tutta la cristianità e anche al
di fuori, dato che ben presto nacquero fondazioni in oriente e nei paesi di
missione.
11 Diversità e unità dei principali ordini mendicanti, in Storia del Cristianesimo, vol. 5: Apogeo del papato ed espansione della cristianità, (1054-1274), a cura di A. VASINA – A. VAUCHEZ, Roma 1997, p. 739.
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1.4 G L I O RDINI M E NDI C A N T I E L E C I T T À
Nel XIII secolo l’influenza degli ordini mendicanti si è esercitata essenzialmente
nelle città. La priorità riconosciuta all’apostolato nella società urbana dipendeva
da molte ragioni.
Prima di tutto dal ruolo sempre più rilevante delle città sul piano politico,
economico e culturale. La Chiesa si era lentamente adeguata a questa nuova
realtà ma rimaneva legata ai valori della società rurale in cui si era sviluppata la
maggior parte dei movimenti religiosi dei secoli XI e XII. Negli ambienti
cittadini ci si arricchiva facilmente e il denaro circolava abbondantemente, anche
grazie alla pratica del prestito ad usura. Numerosi uomini di Chiesa, esigenti sul
piano morale, reagirono lanciando anatemi verso certe forme della vita
economica e della società urbana. Non solo erano corrotti i ricchi, ma anche i
poveri, spesso contadini che fuggivano dalle zone rurali e attirati dalla
prospettiva del guadagno non esitavano ad allearsi con i ceti borghesi in congiure
illecite, talvolta ribellandosi anche all’autorità del vescovo.
Era questa la situazione all’inizio del XIII secolo quando apparvero gli ordini
mendicanti. I loro fondatori presero coscienza del fatto che la città era uno spazio
umano da riconquistare dal punto di vista religioso. Nelle città della Linguadoca
il problema più importante era rappresentato dalla diffusione dell’eresia a cui
aveva aderito buona parte della popolazione conquistata dalla predicazione
evangelica dei catari. Anche altre motivazioni spingevano i nuovi ordini religiosi
a stabilirsi nelle città. La crescita rapida dei loro membri e il rifiuto di ogni
proprietà fondiaria li obbligava ad inserirsi nella società urbana al fine di trovare
le risorse (elemosine, ma anche lasciti testamentari) necessarie per mantenere le
loro comunità. Il fatto poi che non fossero contigui ad ambienti signorili
facilitava un forte influsso sul complesso delle comunità cittadine, e dunque
anche sul ceto più popolare. I mercanti e gli artigiani erano spesso spinti dalla
cattiva coscienza (pro male ablatis) a distribuire una parte dei guadagni ai
religiosi che avevano scelto di vivere nella povertà e nell’umiltà. Verso il 1230 i
due principali ordini mendicanti avevano preso un chiaro orientamento urbano,
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ma fino alla metà del XIII secolo i conventi furono fondati soprattutto nei
quartieri periferici delle città, generalmente all’esterno delle mura. Questo per
vari motivi: da un lato essi erano poco conosciuti e quindi i vescovi concedevano
loro modeste chiese periferiche o terreni situati in zone in via di urbanizzazione,
ma d’altra parte questa scelta corrispondeva alle esigenze dei religiosi che nelle
periferie trovavano una popolazione da poco arrivata dalle campagne e non
pienamente integrata nelle strutture parrocchiali. inoltre bisogna anche tenere
conto del fatto che ci furono anche dei contrasti con i sacerdoti secolari, che
vedevano erose le proprie prerogative pastorali a vantaggio dei mendicanti.
Invece dopo il 1250 i mendicanti cominciarono a trasferirsi e costruire chiese e
conventi all’interno delle mura cittadine12.
I superiori degli ordini e il papato misero sempre più l’accento sulla missione
pastorale dei mendicanti che doveva sollecitare i laici alla penitenza e alla
confessione sacramentale. Le città erano i luoghi più idonei ai fini pastorali: si
potevano riunire le folle nelle chiese e nei luoghi pubblici per parlare di Dio e
invitare alla conversione. Inoltre, soprattutto in Italia, l’eresia era un fenomeno
urbano e a partire dal 1233 francescani e domenicani furono ufficialmente
incaricati dell’Inquisizione e i loro conventi si trasformarono in tribunali e a volte
in prigioni.
Al termine di questo processo gli ordini mendicanti, durante gli ultimi decenni
del XIII secolo, si erano profondamente radicati nel tessuto urbano e la
solidarietà esistente tra loro e le città che li proteggevano si fondava su uno
scambio di servizi: le municipalità assicuravano regolari sussidi sotto forma di
doni in denaro, vestiti, legname. In cambio ricorrevano ai loro servizi come
messaggeri, mediatori o diplomatici.
L’esempio più significativo del successo incontrato dagli ordini mendicanti è
rappresentato dalle loro chiese. Mentre i fondatori avevano chiesto che i frati si
accontentassero di edifici modesti, questi ultimi non tardarono ad avventurarsi 12 Gli ordini mendicanti e le città, in Storia del Cristianesimo, cit. p. 752
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nella costruzione di conventi e chiese che suscitano meraviglia per la loro
grandezza.
Le deviazioni dallo spirito della Regola potevano essere giustificate dall’utilità e
dalla funzionalità: la costruzione di grandi chiese doveva consentire
l’accoglienza di grandi masse di fedeli e le fondazioni non avvenivano per caso
ma rispondevano a criteri demografici ed economici.
Verso il 1300 una città che ospitava 4 o 5 conventi di mendicanti era considerata
una città importante mentre quella che, ad esempio, poteva contare sulla presenza
di un solo convento non doveva avere molti abitanti.
Questo potrebbe far supporre che la collocazione geografica dei conventi dei
mendicanti rifletta lo sviluppo delle città dell’occidente e il loro livello di
sviluppo.
Nell’affermare questo occorre tuttavia una certa cautela, perché vi sono delle
eccezioni da considerare. Ad esempio in molte città non secondarie il capitolo
della cattedrale - e il clero secolare - in genere oppose molte resistenze
all’insediamento degli ordini mendicanti e inoltre bisogna tener conte del fatto
che questi religiosi si spostavano frequentemente e avevano quindi bisogno di un
ricovero sicuro ogni 30-40 chilometri e così alcuni ordini furono sollecitati a
fondare conventi in località di secondaria importanza.
Inoltre le regioni più urbanizzate dell’occidente furono raggiunte per prime dal
fenomeno dei mendicanti mentre le altre furono coinvolte solo alla fine del XIII
secolo e all’inizio del XIV.
Infine, a partire dalla fine del 1300, per evitare una concorrenza esagerata tra gli
ordini in un’epoca di crisi economica, il papato proibì la creazione di nuovi
conventi senza la sua autorizzazione13.
In conclusione si può parlare di una diffusione imponente degli ordini mendicanti
negli ambienti urbani alla fine del XIII secolo; il loro successo era dovuto al fatto
di offrire ai fedeli ciò che il clero secolare non offriva più: una vita morale 13 Ibidem, p. 755.
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irreprensibile e una cultura messa al servizio di una migliore trasmissione del
messaggio cristiano attraverso la predicazione. I rapporti stretti con gli ambienti
laici permettevano loro di conoscere adeguatamente i loro problemi per questo
furono all’avanguardia della riflessione teologica in questo ambito. In genere gli
ordini mendicanti riuscirono ad adempiere alla missione che la Chiesa del tempo
aveva loro affidato: l’evangelizzazione della società urbana in occidente.
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CAPITOLO 2
I DOMENICANI IN EMILIAROMAGNA NEL MEDIOEVO
2.1 LA PRESENZA DOMENICANA IN EMILIAROMAGNA
La storia dei quaranta conventi e vicariati sorti a partire dal 1218 in Emilia-
Romagna può essere suddivisa in due periodi: il primo comprende le dodici
fondazioni realizzate da San Domenico e dai suoi seguaci nel secolo XIII, mentre
il secondo vede altre venticinque fondazioni, tra maggiori e minori, patrocinate
da signori o da comunità locali in pieno Rinascimento. Dal punto di vista
dell’organizzazione dell’ordine il territorio della Regione Emilia-Romagna
appartenne sempre alla provincia di Lombardia. Infatti nel 1221, nel secondo
Capitolo generale (30 Maggio) l’ordine intero fu diviso in otto Province. Per
quanto riguarda l’Italia furono create due province: La Provincia Lombardiæ,
comprendente l’Italia settentrionale, dalle Alpi agli Appennini, il cui primo
Priore Provinciale fu il beato Giordano di Sassonia, e la Provincia Romana o di
Tuscia che comprendeva tutto il resto dell’Italia. Poi nel 1303, dato il grande
numero di religiosi e di conventi, il Capitolo generale divide la Provincia
Lombardiæ in Provincia Lombardiæ inferioris con sede a Bologna, e Provincia
Lombardiæ superioris con centro a S. Eustorgio di Milano1.
Il primo periodo è caratterizzato da una rapida diffusione dell’ordine con la
fondazione di conventi nelle più importanti città della regione lungo le principali
vie di comunicazione, come la via Emilia e la Romea.
La città di Bologna, grazie alla presenza dell’università, venne scelta nel 1218 da
San Domenico come sede primaria del suo ordine e in meno di tre anni molti
1 Vedi H. VICAIRE, Storia di San Domenico, Milano 1987
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professori e studenti entreranno a far parte dell’ordine rendendosi protagonisti
del suo diffondersi in Italia e all’estero: tra questi basti ricordare san Raimondo
di Penafort, san Pietro da Verona, Giovanni da Vicenza e tanti altri. San
Domenico durante il periodo della sua presenza nel convento di Bologna, che si
trovava a San Niccolò delle Vigne, formò le vocazioni e le preparò alla missione
evangelizzatrice che i suoi figli avrebbero dovuto svolgere presso tutti i popoli.
Alla morte di San Domenico, avvenuta a Bologna il 6 Agosto 1221, l’edificio del
convento stava sorgendo secondo i canoni della funzionalità e della povertà
evangelica e nello stesso modo sarà costruita la chiesa che verrà poi interamente
ricostruita nel decennio successivo: entrambe saranno un modello per altre chiese
domenicane, come quelle di Piacenza, Imola, Reggio Emilia e Faenza.
Bologna è da considerare il centro di diffusione delle schiere domenicane nella
regione. Fra Bonviso creò il convento di S. Giovanni in Canale a Piacenza nel
1223, sua città di origine. Reggio Emilia accolse una comunità di frati nel 1235.
A Modena fu il vescovo domenicano Alberto Boschetti a offrire nel 1243 ai
confratelli un convento. Parma diede loro una sede definitiva nel 1246 grazie
all’intervento del vescovo Alberto Sanvitale, nipote di Innocenzo IV. Faenza
risale al 1223 (ma la sede definitiva di S. Andrea si avrà nel 1231); S. Giacomo a
Forlì è databile al 1230; S. Nicolò di Imola è del 1245. A Cesena i domenicani
sono presenti già nel 1250. Il comune di Rimini nel 1254 concede a fra Giovanni
la chiesa di S. Cataldo. A Ravenna i frati erano già presenti nel 1253 e otterranno
la stabilità il 2 marzo 1269. Nel 1274 abbiamo il convento di S. Domenico a
Ferrara. In questo modo i figli di san Domenico in mezzo secolo si stabilirono nei
centri principali della regione2.
All’inizio del loro insediamento in una città i frati alloggiavano in ambienti di
fortuna, presso chiesette periferiche, cercando sempre un posto migliore e un
terreno edificabile adatto e sufficiente. Se poi parliamo della costruzione del
2 V. ALCE, Domenicani nell’Emilia-Romagna dal 1218 a oggi, in Il Carrobbio, VII (1981), p. 4.
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convento e della chiesa le cose andranno per le lunghe, decenni o anche un
secolo o più. Tra i primi conventi ad essere completati, almeno nelle parti
essenziali, vi è certamente il convento di Bologna con la chiesa che era divenuta
la custode delle reliquie del Santo Fondatore.
I frati predicatori si insediano dentro le città, non fuggendo in luoghi solitari o in
remote abbazie isolate dal mondo, ma facendosi cittadini e condividendo la
condizione degli altri uomini.
I loro conventi si trovano vicini alle mura della città ed erano costituiti
essenzialmente da due parti, la chiesa e il convento. Per quanto riguarda la chiesa
essa in pratica era un solo grande edificio sacro diviso in due parti da un pontile.
La parte riservata ai frati era la parte più ornata, si trovava all’interno della
clausura ed era utilizzata per la solenne ufficiatura, mentre la parte più semplice
era riservata ai fedeli. L’edificio che costituiva il convento doveva contenere tutti
gli ambienti necessari ad una comunità di persone che dovevano trovare entro il
convento l’indispensabile per la loro intera vita, dalla vestizione e professione
religiosa fino alla morte e sepoltura: quindi vi era il dormitorio, l’ospizio,
l’infermeria, la sala del capitolo, la biblioteca, le aule scolastiche, la lavanderia, il
refettorio, la cucina, la cantina, il granaio, la legnaia e il cimitero. Inoltre per
volere di San Domenico si trovava anche l’orto in cui veniva coltivata la frutta e
la verdura per il consumo interno. In media un convento domenicano del XIII
secolo occupava circa tre ettari di terreno, chiuso da un muro di cinta che
proteggeva la clausura ed era aperto unicamente sulla piazza pubblica che dava
accesso al sagrato della chiesa.
Queste costruzioni erano caratterizzate dalla povertà. San Domenico volle
consacrarsi alla predicazione del Vangelo seguendo la povertà degli apostoli.
Quindi era vietato vivere delle rendite derivanti da proprietà immobiliari, come
campi e case e da depositi bancari. La prima generazione di frati visse con la
questua di porta in porta e con le offerte spontanee dei fedeli; erano appunto
“mendicanti” e quel tenore di vita conquistava i giovani che abbracciavano
numerosi la vita religiosa. Ogni convento, per sua costituzione, era una scuola
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qualificata di filosofia e teologia che era aperta anche ai chierici e ai laici.
Accanto alla figura del priore, vi era quella del predicatore e quella del lettore,
che di solito, era laureato a Parigi. All’interno della regione il convento di
Bologna fu elevato al grado di “studio generale” per l’Italia nel 12483. Ma il fatto
più importante era la “circolazione dei cervelli”; infatti, mentre i monaci
benedettini erano legati per tutta la vita alla propria abbazia, i domenicani erano
invece legati all’ordine, che in questo modo li poteva assegnare a qualsiasi
convento. Questa era la norma, non l’eccezione, e ciò produceva un crescente
arricchimento culturale. Inoltre le biblioteche erano aperte a tutti gli studiosi ed
erano fornite di codici di cultura generale, profana, classica e sacra ecc: opere di
teologia, filosofia, diritto civile ed ecclesiastico e il fondo librario aumentava con
il passare degli anni. A questo si aggiungano le opere d’arte, di pittura, scultura e
di architettura patrocinate dai frati nella costruzione delle loro chiese, cappelle e
conventi che in questo modo diventano dei veri scrigni di tesori artistici.
Per quanto riguarda il secondo periodo bisogna segnalare che dalla metà del
Duecento e per oltre due secoli non vi sono fondazioni di rilievo ma si assiste alla
crisi della povertà all’interno dell’ordine, cosa che ha profondamente modificato
il progetto originario di san Domenico. Alla fine del XIII secolo la povertà
mendicante verrà abbandonata e per assicurare il sostentamento ai conventi si
ricorrerà ai proventi della proprietà immobiliare. I terreni agricoli che venivano
ereditati dai frati si espandevano a macchia d’olio e la povertà era ormai di tipo
personale piuttosto che comunitaria; ma nel XIV secolo anche la povertà
personale scomparve e i conventi si trasformarono in alberghi abitati dai frati che
conducevano vita privata. Questa situazione suscitò un movimento di riforma che
venne promosso da una giovane terziaria domenicana, Caterina da Siena, che
affronterà con decisione e pieno successo il problema nel secolo XV. Questa
riforma ha reintegrato la povertà personale, accettando però il sistema delle
rendite fondiarie, come stabilito da Papa Sisto IV.4 La riconquistata fiducia nella 3 Ibidem, p. 6. 4 Ibidem, p. 8.
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virtù e santità dei frati predicatori presso l’opinione pubblica spiega la serie
impressionante di nuove fondazioni che si registreranno successivamente in
pieno Rinascimento, nel momento più acuto della crisi morale della Chiesa.
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2.2 BOLOGNA
L’episodio “fondante” da cui bisogna partire per comprendere lo stanziamento
dei domenicani a Bologna è la visita in città di Domenico nel gennaio 1218
durante uno dei suoi viaggi tra Tolosa e Roma41. La comunità tolosana era stata
sciolta, e i primi frati erano stati inviati nelle principali università d’Europa.
Bologna apparve a Domenico come una grande città, con una vita civile intensa
anche grazie ai molti studenti che vi soggiornavano, ed è in questa città che egli
invia i suoi primi seguaci perché si costruissero un bagaglio culturale di notevole
spessore per poter meglio fronteggiare gli eretici.
Rientrato nella sua sede romana del convento di San Sisto, egli inviò quasi subito
e a più riprese a Bologna alcuni frati, tutti spagnoli, per preparare la fondazione
di un convento.
La presenza dell’Università più antica del mondo rendeva necessario che la
predicazione fosse rivolta anche verso il mondo dei maestri e degli studenti
dell’Università.
In riferimento alle prime sedi bolognesi dei frati Domenicani occorre rilevare
come la basilica in cui giacciono le spoglie del santo non fu la prima dimora dei
domenicani. I primissimi tempi dei frati che da Roma furono mandati a Bologna
dallo stesso Domenico furono duri e oscuri: dapprima ospitati dai monaci
benedettini di San Procolo, si trasferirono poi quasi subito nella chiesetta di Santa
Maria della Mascarella, che fu quindi la loro prima sede2.
1 F. CARDINI, Introduzione, in L’origine dell’ordine dei Predicatori e l’Università di Bologna, Bologna 2006, p. 19. 2 R. DONDARINI, L’insediamento dei Frati Predicatori a Bologna, in L’origine dell’ordine dei Predicatori e l’Università di Bologna, Bologna 2006, p. 232.
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Nell’area su cui sarebbe sorto il grande convento domenicano si stanziarono solo
nel 1219, a seguito della concessione del giuspatronato della chiesa di San
Niccolò delle Vigne da parte di Pietro Lovello3.
Il patrimonio immobiliare dell’ordine fu frutto di donazioni dei fedeli e cominciò
a farsi consistente solo dopo alcuni decenni dall’arrivo dei primi frati, per il loro
originario rifiuto di possedere beni.
IL CONTESTO DELL’ARRIVO DELL’ORDINE
I fermenti, i conflitti religiosi, le contraddizioni e le discordie che
caratterizzavano la vita delle città italiane tra XII e XIII secolo suscitarono
inquietudini personali e collettive accrescendo il fervore religioso, che in quei
decenni si espresse anche nella predicazione di figure mistiche e carismatiche
come Domenico di Guzman, Francesco d’Assisi e Antonio da Padova.
La loro capacità di dialogare e di dare risposte al mondo cittadino ne moltiplicò i
seguaci e si tradusse nella formazione, nell’approvazione e nella diffusione di
nuovi Ordini religiosi, che pur adottando la vita in comune dei modelli claustrali,
presentavano alcuni aspetti antitetici rispetto al monachesimo tradizionale. Questi
ordini furono definiti mendicanti, dato che perseguivano una povertà volontaria
confidando nel sostegno dei fedeli e che non cercavano la vita isolata, ma al
contrario, lo stretto e diretto contatto con la società. La nuova spiritualità si
riflette nella regola di sant’Agostino, che sembra più adatta ad esprimere
l’atteggiamento di quelli che non si chiameranno più monaci ma frati, riuniti in
un convento e non più in un monastero e che lascia più liberi di esprimere un
maggior interesse per l’azione nel mondo che non per la contemplazione ascetica
di Dio. In quegli anni di conflitti e lacerazioni essi costituirono un’efficace
3 Ibidem, p. 232.
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risposta suscitata all’interno della Chiesa alle rivendicazioni di coerenza che
erano spesso sfociate in movimenti considerati eretici.
Anche a Bologna nei decenni iniziali del Duecento si registrò un cospicuo
rinnovamento nella vita cittadina: le attività economiche erano in espansione, la
comunità era attraversata da sommovimenti di carattere sociale e politico che
stavano portando sulla scena nuovi protagonisti del mondo delle attività
artigianali, commerciali e finanziarie.
Una nuova recinzione appena tracciata allargava il perimetro cittadino e induceva
un processo di urbanizzazione dello stesso anello di accrescimento.
Il prestigio e la fama dei maestri di diritto attraevano studenti da tutta Europa e
questo metteva in luce la necessità di una normativa che tutelasse la qualità degli
studi e conferisse credito ufficiale ai loro curricula4.
Inoltre, quale città universitaria, Bologna attirava l’attenzione dei nuovi Ordini
religiosi di recente istituzione e la presenza di tanti giovani era un incentivo a
svolgere la loro missione e a suscitare vocazioni.
I Francescani, i Domenicani, gli Agostiniani e i Serviti stabilirono le loro sedi
non lontano da quelle delle più antiche congregazioni monastiche, questo sia per
motivi pratici, come ad esempio il minor costo dei terreni, ma anche per la
protezione assicurata dal servizio di guardia cittadina.
I Domenicani, dopo la breve residenza a Santa Maria della Mascarella, si
situarono in un’area posta nella parte meridionale della città, all’interno della
vecchia cerchia dei “torresotti” in contrada San Nicolò delle Vigne, nel quartiere
di San Procolo; lo spazio di insediamento era delimitato ad est dall’alveo del
torrente Aposa, a sud dalle mura dell’XI secolo con fossato e strada, a ovest dalla
via pubblica creata sopra un antico fossato romano riempito di terra, a nord da
una serie di case ben allineate. Da qui i frati irradiarono quell’intensa attività che
li avrebbe portati ad assumere un ruolo primario nel contesto cittadino, a
moltiplicare le proprie sedi e a gestire un cospicuo patrimonio fondiario. 4 Ibidem, p. 233.
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Presumibilmente il contatto decisivo da cui sarebbe sorto il suo vincolo con
Bologna, Domenico l’ebbe nel gennaio del 1218 durante uno dei suoi viaggi da
Tolosa a Roma. Da non molti mesi il suo Ordine aveva ottenuto l’approvazione
da parte di due grandi pontefici: nel 1215 da Innocenzo III e nel 1216 da Onorio
III. Rimane aperto l’interrogativo se la scelta di fare di Bologna una delle sedi in
cui fondare una comunità scaturisse da quel contatto e dalla presenza di giovani
studenti provenienti da tutta Europa o come appare più probabile, se essa
rientrasse in un progetto in parte già delineato.
Uno dei primi problemi che i frati mandati da Domenico dovettero affrontare a
Bologna fu quello della dimora. Essi furono ospitati dai benedettini di San
Procolo e, mentre prendevano contatto con la nuova realtà, riuscirono a ottenere
dal vescovo Enrico della Fratta5 di potersi trasferire nella chiesetta di Santa Maria
della Mascarella nel quartiere di Porta Piera6.
Per alcuni mesi essi vissero nella generale indifferenza, senza riuscire ad attrarre
l’attenzione né dei bolognesi, né degli studenti. L’esempio della vita povera ed
umile era forse, in una città pervasa più che altrove da fermenti culturali e
commerciali, tutto sommato poco appetibile.
Quando Domenico giunse qualche mese dopo, trovò la piccola comunità ancora
afflitta da gravi problemi di sussistenza. Tuttavia la sua predicazione e quella di
fra Reginaldo d’Orleans, che era docente di diritto canonico a Parigi e uomo
energico, affascinante, ampiamente affermato nel mondo degli studi, riuscirono a
far presa sulla comunità cittadina garantendo un sostentamento dignitoso e un
seguito crescente che mise subito in evidenza l’insufficienza degli spazi offerti
dalla chiesetta della Mascarella.
Abbandonata l’idea di ampliarla, non potendo disporre delle case contigue, fu
contattato il cappellano della chiesa di San Niccolò delle Vigne situata dalla parte
opposta della città nel quartiere di Porta Procola e se ne ottenne il consenso a
trasferirvisi. Ma per farlo si doveva disporre dell’assenso di Pietro Lovello, il 5 Vedi L. PAOLINI, “Della Fratta Enrico”, in DBI, XXXVII, Roma 1989, pp. 27-31. 6 Ibidem, p. 236.
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nobile detentore del giuspatronato di tale chiesa e proprietario delle vigne
circostanti. Di fronte alle resistenze di quel potente personaggio intervenne sua
nipote, Diana di Andalò, che ottenne il consenso al trasferimento e alla
concessione del terreno necessario per edificare una casa. Nel contratto, stipulato
il 14 marzo 1219 da Reginaldo d’Orleans e da Pietro Lovello, fu registrato
l’acquisto di un terreno posto a sud della chiesa, esteso fino al fossato della città
e si pervenne anche alla cessione dello jus patronatus sull’edificio sacro7.
Nei due anni che intercorsero prima della morte di Domenico (6 agosto 1221) si
conclusero altri contratti di acquisto di beni limitrofi. I nuovi edifici furono
costruiti tanto rapidamente, che al ritorno di Domenico furono la sede del primo
Capitolo Generale dell’Ordine, il 17 maggio 12208. Il primo nucleo del nuovo
convento aggregato alla chiesa di San Niccolò fu man mano ampliato e
contornato da terreni da destinarsi agli usi necessari per la crescente comunità dei
frati e lo si fece attraverso successivi acquisti. Durante il secondo Capitolo
Generale, tenutosi nella Pentecoste del 1221 (30 maggio), si era proceduto a
suddividere le competenze territoriali dell’Ordine in otto province. Al centro di
quella di Lombardia, affidata a Giordano di Sassonia, si era posto il convento
bolognese con la sua chiesa di San Niccolò, retta da fra Ventura da Verona. Ma
fu soprattutto la morte in loco del grande fondatore a rendere permanente la
centralità della sede bolognese, nella quale si sarebbero venerate d’ora in poi le
spoglie del santo.
La devozione popolare attorno al suo sepolcro e la fama dei miracoli che vi
accadevano – cose in un primo momento sopportate non troppo di buon grado dai
frati – furono causa del radicarsi di un culto che di lì a una dozzina di anni si
sarebbe espanso in modo travolgente e avrebbe condotto alla spettacolare
traslazione delle reliquie del 1233 e alla canonizzazione dell’anno successivo.
7 Secondo A. Masini, (A. MASINI, Bologna perlustrata, Bologna 1666, p. 118) Diana in quella occasione donò anche una piccola casa con terreno posta nei paraggi. 8 Ibidem, p. 238.
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25
Frattanto, l’esperienza domenicana bolognese era divenuta il centro di
irradiazione delle comunità domenicane di tutta Europa9.
Da qui l’esigenza di ampliare il convento e la chiesa per dare ospitalità al numero
crescente di fedeli e religiosi che vi affluivano. Il riconoscimento della sua santità
con la bolla Fons Sapientiae emanata da Papa Gregorio IX il 3 luglio 123410 ne
incrementò la fama e la capacità di richiamo di quella che era divenuta la sede
per eccellenza dell’ordine dei Predicatori.
La consacrazione della chiesa fu effettuata nell’ottobre 1251 da Innocenzo IV11.
Aveva così nuovo impulso quella lunga opera di sistemazione e ornamento della
basilica frutto di ripetuti interventi edilizi a cui parteciparono nei secoli tanti
artefici illustri. Le risorse per tali interventi furono tratte soprattutto dalle
donazioni dei fedeli. Le sistemazioni riguardarono anche i terreni circostanti,
come nel 1288 quando si ottenne dal Comune il permesso di colmare il fosso
delle vecchie mura che correva a meridione lungo tutto il complesso
domenicano12.
Nel 1246, e poi con approvazione del 1248, lo Studio Domenicano di Bologna
divenne Studio generale come Montpellier, Oxford e Colonia; almeno dal 1286
fu sede dei legisti13. In questo contesto la scuola domenicana si dotò di una
biblioteca accresciuta sia dai religiosi e dai dottori sia dai vari studenti che
facevano dono dei loro codici o al termine degli studi o nelle loro ultime volontà.
Anche a San Domenico numerosi fedeli vollero essere sepolti presso la chiesa e
le reliquie del santo e si sviluppò ben presto un vasto cimitero, che dal sagrato si
espanse nei chiostri e vide, anche qua, preziose realizzazioni scultoree e
architettoniche.
9 F. CARDINI, Introduzione, cit. Bologna 2006, p. 21. 10 R. DONDARINI, L’insediamento, cit. Bologna 2006, p. 239. 11 Ibidem, p. 240. 12 Ibidem, p. 241. 13 Ibidem, p. 241.
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2.3 PIACENZA
La presenza domenicana a Piacenza risale all’anno 1219. In quell’anno, infatti, il
Santo Fondatore era rientrato a Bologna dove aveva incontrato fra Bonviso e,
conosciute le sue predisposizioni, lo aveva esortato a tornare nella sua città dove
avrebbe sicuramente portato a buon fine la missio predicandi.
Di fronte alla nascita e allo sviluppo dell’eresia la Chiesa piacentina, come le
altre Chiese occidentali, non è in grado di replicare. Presso i fedeli resta vivo il
desiderio di un ritorno alla povertà evangelica, ma il clero secolare non è in grado
di dare ai fedeli quell’immagine di virtù che si aspetta la nuova sensibilità
religiosa. I benedettini si erano da sempre stabiliti nell’ambiente rurale e il
monastero di San Sisto, collocato alle porte della città, non è in grado di fornire
un bastione contro lo sviluppo dell’eresia. Anzi è proprio nei quartieri vicini che
essa si diffonde tra gli artigiani che sono venuti a stabilirsi in città. I vescovi e i
capitoli ormai partecipano al benessere economico che ha conquistato tutto
l’Occidente dopo l’XI secolo e molti di essi sono diventati ormai dei ricchi
proprietari fondiari e a Piacenza, come in molte altre città, non sono preparati a
dare risposte alle inquiete domande di una religiosità che si fonda sulla povertà
evangelica.
È tuttavia compito della Chiesa quello di assicurare la propria presenza
all’interno dell’ambiente urbano e presentare ai nuovi cittadini un volto che vada
incontro alle istanze di cui si fanno portatori gli eretici. In città il lavoro
industriale e i suoi guadagni, la circolazione del denaro attraverso gli affari
commerciali, il posto occupato dall’usura negli scambi commerciali e i guadagni
bancari finiscono col preoccupare il clero e i laici più pii. Alcuni nuovi ordini
venuti dalla Linguadoca e dall’Italia centrale o sorti pressoché spontaneamente
negli ambienti urbani del nord Italia, tentano allora di portare a Piacenza risposte
ai principali motivi di inquietudine religiosa.
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Gli ordini dei frati predicatori e dei frati minori si stabiliscono rapidamente a
Piacenza. Fin dal 1221 papa Onorio III scrive al capitolo della cattedrale per
raccomandargli i frati predicatori che si sono stabiliti l’anno precedente presso il
priorato di San Giovanni in Canale.
Tre piacentini avevano immediatamente risposto all’appello di San Domenico: i
fratelli Bonifacio, Alberto e Giacomo da Castell’Arquato che seguivano
l’esempio di frate Bonviso che si era unito a Domenico già nel 1217. Degli inizi
del priorato di Piacenza sappiamo poco. I piacentini offrono generosamente
denaro e mano d’opera per aiutare i frati predicatori a costruire i fabbricati del
priorato e nel frattempo un canonico del monastero dei Dodici Apostoli di nome
Ruffino, benevolmente disposto nei loro confronti, si fa promotore presso il
curato e rettore di Sant’Andrea in Borgo dell’iniziativa di cessione ai frati
predicatori della stessa chiesa di Sant’Andrea e delle case annesse con
l’approvazione del vesc1ovo e di coloro che di quella parrocchia avevano il
giuspatronato.
I Predicatori lasciano Sant’Andrea solo quando dei benefattori, riconosciuta
l’angustia della loro situazione …loro donarono un nuovo sito su la Parrocchia di
S. Maria del Tempio presso il canale detto la Beverora, dove ben tanto diedero
principio alla fabbrica di una Chiesa e di un Convento assai capace, sotto il titolo
di S. Giovanni Battista.1
La chiesa di S. Giovanni è denominata in canalibus2 perché si trova al centro di
un reticolo di corsi d’acqua che si diramano dal canale della Beverora, chiamato
così perché abbeveraggio per animali ed alimentazione delle molinerie, che
entrava in città da porta San Raimondo e scorreva a cielo aperto.
Il convento di S. Giovanni appartiene al primo gruppo di fondazioni volute dallo
stesso Domenico in città che, come Piacenza, erano sedi vescovili situate lungo
le più importanti vie di comunicazione.
1 N. BIANCHINI, La chiesa e il convento di San Giovanni in Canale a Piacenza, Piacenza 2000, p. 17. 2 Ibidem p. 17.
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28
La fama dei Predicatori si propaga nella città e nel contado promuovendo il
concorso di generosi e devoti benefattori a favore della costruzione della chiesa e
del convento.
Proseguono negli anni gli acquisti di piccoli appezzamenti di terreno sempre
ubicati tra il rivo dei Templari e la Beverora. Agli acquisti effettuati dai
domenicani si aggiungono sempre più numerose le donazioni private e questo fa
dedurre che all’incirca negli anni 1230-31 i frati potevano già disporre di un
edificio chiesastico con annessi alloggi.
Anche le autorità si interessano dei problemi dei domenicani e il 6 giugno 1237
con un atto rogato dal notaio Guido Musso il comune di Piacenza acquista da
Opizzo e Rinaldo Aghinone una casa con cascina e terreno che nel mese di
dicembre, in occasione di un consiglio della città, il Podestà Zeno dona ai Padri
Predicatori di S. Giovanni nella persona del priore Giacomo da Castell’Arquato.
Chiesa e convento sorgono secondo i criteri dettati dalle Costituzioni. Infatti
come i Cistercensi i Domenicani aspirano ad un architettura sobria e spoglia, che
risponda a criteri di estrema semplicità e funzionalità con lo scopo di
salvaguardare lo spirito di povertà espresso dal fondatore. La chiesa di S.
Giovanni risponde a tutti questi requisiti: è semplice e funzionale, lo spazio è
ampio ma al tempo stesso raccolto.
Nel frattempo piccoli appezzamenti di terreno, zone ortive e modeste case vanno
componendo, ad un livello inferiore rispetto alla sede dove scorre il canale della
Beverora, la vasta area quadrangolare nella quale si imposta l’impianto generale
del complesso.
L’assetto primitivo prevede che la chiesa e l’edificio conventuale sorgano attorno
ad uno spazio quadrato, il futuro chiostro, che è destinato alla meditazione ed alla
ricreazione dei frati. Il chiostro, oltre ad assicurare silenzio e tranquillità che sono
condizioni indispensabili ad una vita ascetica, assolve anche ad una funzione
fondamentale nella vita di una comunità religiosa: quella cimiteriale. Nel primo
chiostro di San Giovanni, detto appunto dei morti, venivano infatti sepolti oltre ai
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Padri anche i numerosi benefattori che per testamento vi eleggevano le loro
sepolture.
Il convento doveva contenere le strutture indispensabili ad una comunità
autonoma e queste si disponevano attorno ai chiostri all’interno di un’area
recintata che garantiva la clausura. La comunicazione con l’esterno avveniva solo
sul sagrato oppure attraverso la porta del convento o quella della chiesa.
Uno dei primi edifici ad affiancarsi alla chiesa si ipotizza sia quello ad est che
comprende la sacrestia, la sala capitolare e il dormitorio, seguito ad ovest da un
fabbricato parallelo con il refettorio, la cucina, l’infermeria e gli ambienti di
servizio.
Per realizzare tutto ciò la prima generazione di frati, che viveva di offerte
spontanee, si ritiene abbia adottato una formula costruttiva ispirata al principio di
povertà, poco costosa e realizzabile in poco tempo.
Verso la fine del XIII secolo la disponibilità di apprezzabili rendite e di benefici
immobiliari consente ai domenicani di migliorare la qualità degli ambienti e
dotare il complesso di ulteriori strutture rispondenti alle accresciute necessità.
Fin dal loro arrivo, dunque, i Predicatori si inseriscono nel tessuto urbano a
differenza degli ordini benedettini precedenti che si insediano prevalentemente
nel contado.
La popolazione li accoglie benevolmente e i testamenti possono essere presi
come prove dell’influenza di questi frati sulla pietà cittadina. Ad esempio il 4
agosto 1231 Dolcea, sposa di Bernardo Monaco da Turro, madre del domenicano
Bonviso, lascia in legato “pro anima”, per la costruzione della chiesa dei frati
Predicatori, duemila tegole, senza contare la parte d eredità che deve andare a
Bonviso e che egli non può alienare ai suoi fratelli3. Un altro esempio è il
testamento di Adelasia vedova di Pietro Diano: essa lega il 9 agosto 1235, trenta
lire alle istituzioni caritative, ovverosia dieci agli infermi di San Lazzaro, cinque 3 Gli umiliati e gli ordini mendicanti, in Storia di Piacenza, dal vescovo conte alla signoria (996-1313), Piacenza 1984, pp. 382.
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ai frati minori per atti di carità, cinque ai frati predicatori per dire messe per la
salvezza della sua anima, il resto era ripartito tra diversi ospizi e fondazioni4.
Gli ordini mendicanti trovano così un largo favore presso il pubblico piacentino e
le donazioni affluiscono ai due ordini. Tuttavia la pratica testamentaria nel XIII
secolo si addice soprattutto alla gente agiata ma anche una parte assai modesta di
gente umile redige testamenti; nel loro caso le donazioni sono riservate
soprattutto alle chiese parrocchiali e alle istituzioni caritative. Così si delinea una
specie di linea di demarcazione tra i due gruppi sociali: gli ordini mendicanti
ricevono un’accoglienza più favorevole da parte degli ambienti agiati, mentre gli
Umiliati sono più vicini ai ceti umili.
Come spiegare il successo riportato dagli ordini mendicanti presso l’aristocrazia?
In un’epoca in cui il problema della povertà evangelica è al centro delle
preoccupazioni dei cristiani, i frati mendicanti portano all’aristocrazia fondiaria e
ai mercanti una particolare sicurezza. Impegnati in operazioni in cui il profitto
costituisce la molla propulsiva, gli aristocratici vedono nei frati mendicanti
l’antidoto ai loro peccati; le donazioni a questi ordini paiono loro come il sistema
per ottenere il perdono e la ricompensa della vita eterna, facendo dimenticare i
peccati della loro vita terrena. Sia che si tratti di un sentimento profondo di carità
o di un atteggiamento opportunistico alle soglie della morte, non resta meno vero
che i frati domenicani e francescani sono stati largamente dotati e sostenuti
dall’aristocrazia e dal ricco ceto mercantile.
4 Ibidem, p. 383.
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2.4 REGGIO EMILIA
La chiesa dei Domenicani, in origine dedicata non al Santo fondatore dell’Ordine
ma al SS. Nome di Gesù, viene eretta a partire dal 1233 e subito dopo, nella vasta
area retrostante, viene edificato il convento1.
Intorno a questo fatto non resta alcun dubbio, in quanto esistono due autorevoli
documenti che lo confermano, l’antico Memoriale dei Podestà di Reggio,
documento di valore storico indiscutibile, e la Cronaca che il Salimbene stava
allora scrivendo e che così narra l’avvenimento: Nell’anno 1233 ebbe principio
in Reggio la costruzione della Chiesa del Gesù dei frati Predicatori; e se ne
fondò la prima pietra, consacrata dal Vescovo Nicolò, il dì di S. Giacomo. E ad
erigere quel Tempio accorrevano i reggiani, uomini, donne, militi di cavalleria,
di fanteria, campagnoli, cittadini; e portavano pietre, sabbia, calce sulle spalle
entro varie specie di pelli e tessuti. E beato chi più ne poteva portare; e fecero le
fondamenta della Chiesa e del caseggiato annesso, e alzarono una parte delle
muraglie; al terzo anno compirono tutto il lavoro. E allora frate Giacomino da
Reggio ne dirigeva la buona esecuzione.2
L’area su cui sorge il complesso era situata a nord-est della città vecchia, era una
zona ancora informe e non ancora racchiusa dalle mura ed era composta da una
distesa di prati verdi, interrotti da sparsi casolari, su cui si affacciavano da un lato
la torre di S. Giacomo e dall’altro la chiesa di S. Pietro con il suo Ospedale.
Più lontano apparivano le torri delle nuove porte cittadine di Santa Croce e di S.
Pietro, che più tardi dovranno completare la cinta della città, quando la cortina
merlata le avrà congiunte. Intanto la nuova chiesa spiccava netta all’estremo di
quel sobborgo, senz’altro sfondo che quello della campagna aperta. 1 E. BIZZARRI e E. BRONZONI, Romani, villici, frati, soldati, cavalli: vita e storia di un'area della città : mostra storico documentaria, Reggio Emilia 1988, p. 6. 2 L. BOCCONI, La chiesa di S. Domenico e il Convento dei Domenicani in Reggio Emilia, Reggio Emilia 1935, p. 8.
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Quello di Reggio Emilia fu sicuramente uno dei primi conventi dell’Ordine e
deve forse la sua origine a fra Giovanni da Vicenza3. Costui, predicando
nell’Agosto del 1233 presso Verona, riconciliò persone appartenenti a una
ventina di Comuni e concluse la famosa, ma poco durevole, pace fra bolognesi,
modenesi e reggiani. Forse in tale occasione si accese nel cuore degli abitanti di
Reggio Emilia il desiderio di avere nella loro città un Convento dello stesso
Ordine di quel zelante e famoso predicatore.
Il primo atto autentico, che finora ci assicura della presenza dei domenicani a
Reggio è in data 11 dicembre 1240, è rogato in Reggio da Attone Notaio del
Sacro Palazzo e tratta di un certo Guido Pegolotti che lascia i suoi beni alla
Confraternita dei Poveri (frati del Parolo) con l’obbligo di dare ogni anno ed in
perpetuo un quartaro di vino da servire per le Messe, alla fraternità o Religione
dei Predicatori di Reggio.4
I L C O N V E N T O DI R E G G I O : PRI M I SE C O L I
Nel convento di Reggio Emilia già dalla fine del XIII secolo è fiorente lo
Studium con tre lettori: il lector primus, il lector secundus e il lector moralis. I
frati del convento reggiano ricevono fin dall’inizio della loro storia beneficenze,
lasciti, legati, tanto che, da un registro d’amministrazione dell’anno 1558,
troviamo il patrimonio immobiliare del Convento costituito da 679 bifolche di
terreno, mentre un secolo prima raggiunse il massimo, 975 bifolche.. Nella
chiesa si moltiplicano sepolcri e mausolei delle più illustri famiglie reggiane. Ma
se in certi periodi la quantità di beni stabili in godimento è cospicua, in altri
invece le necessità di ricostruzione o ampliamento della chiesa e del convento
risultano ostacolate da angustie finanziarie e vengono sostenute dai contributi
della Comunità e da beneficenze. Inoltre in certi periodi, soprattutto in anni di 3 Su questo personaggio vedi il saggio di M. RAININI, Giovanni da Vicenza, Bologna e l’ordine dei Predicatori in L’origine dell’ordine dei Predicatori e l’università di Bologna, Bologna 2006 4 Romani, cit. Reggio Emilia 1988, p. 6.
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33
pestilenze, di guerre, di carestie, le opere di sostentamento ai poveri e ai
bisognosi portano anche alla vendita di beni del convento5.
5 Romani, cit. Reggio Emilia 1988, p. 18.
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34
2.5 FAENZA
I primi frati domenicani arrivano a Faenza nel 1223 provenienti dal convento di
S. Niccolò delle Vigne di Bologna dove si erano formati direttamente alla scuola
di san Domenico1.
I D O M E NI C A NI A S. V I T A L E
Dal convento di Bologna provengono fra Bene o Benedetto e i suoi compagni
che fondono il convento di Faenza.
Faenza si trova sulla via Emilia, la principale via di comunicazione che
congiunge nord e sud, ed è anche al centro della strada che congiunge Ravenna e
il suo porto con la Toscana e il Mar Tirreno. Proprio questa sua felice posizione
geografica favorisce il suo sviluppo e forse proprio per questi motivi viene scelta
dai domenicani per fondare il loro primo convento in Romagna.2
Il 5 luglio 1223 il vescovo di Faenza con il consenso del capitolo della cattedrale,
dona a fra Bene la chiesa di S.Vitale, positam in suburbio portae Imolensis2,
situata nel sobborgo di Porta Imolese, con l’obbligo di non cederla a nessuno.
Assieme alla chiesa il vescovo Alberto dona ai frati predicatori gli edifici annessi
e il terreno circostante. Ai domenicani domanda solo che dimostrino a lui quella
reverentia et oboedientia3 che fino ad allora avevano prestato al vescovo di
Bologna. Quando arrivano a Faenza i domenicani trovano già presenti in città
alcune comunità monastiche come i camaldolesi, i vallombrosani, i canonici
regolari di S.Agostino. Gli ordini mendicanti non si sono ancora insediati e
l’ordine dei Predicatori sarà il primo a giungere in città. I frati Minori arriveranno
solo qualche anno dopo.
1 Lo studio di riferimento sulla presenza domenicana a Faenza nel Duecento è: A. D’AMATO, I Domenicani a Faenza, Bologna 1997 2 Ibidem, p. 18. 3 Ibidem, p. 19.
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35
La comunità che si insedia a S.Vitale ha un rapido sviluppo e già nel 1230 è un
convento formale.
Questo significa che aveva almeno 12 frati e ciò è confermato dal fatto che il
convento di Faenza aveva già il suo “priore”, un titolo che era riservato solo al
superiore dei conventi propriamente detti, quelli appunto con almeno dodici frati.
Inoltre questa comunità, a quella data, gode già di grande stima presso la città e
anche presso la Curia romana. Infatti il 17 giugno 1230 il pontefice Gregorio IX
affida a fra Aicardo, priore degli agostiniani di S.Giorgio e ai domenicani fra
Rinaldo, priore, e fra Paolo da Padova un incarico molto delicato.
Bisognava trasferire i monaci del monastero di Sant’Adalberto in Pereo, in
quanto la decadenza di quel monastero era ormai tale da non esservi più speranza
di riforma, e privarli dei loro beni che dovevano poi essere destinati ad altre
comunità religiose. Il 13 novembre del 1230 i legati pontifici si riuniscono presso
il convento di S. Niccolò delle Vigne a Bologna e decidono di destinare alle
monache domenicane di Sant’Agnese di Bologna i beni del monastero soppresso.
Anche se san Domenico aveva voluto che i suoi frati praticassero la povertà
evangelica, questo divieto non valeva per le monache. Anzi sin dall’inizio egli si
preoccupò che esse avessero delle rendite sicure per provvedere alle loro
necessità economiche.
Ben presto S.Vitale diviene troppo piccola per la comunità domenicana. Il
numero dei frati è aumentato e la gente accorre sempre più numerosa ad ascoltare
le loro prediche tanto che la chiesetta non riesce più a contenerle. Così dopo
alcuni anni si impone la necessità di costruire una nuova chiesa più ampia e
anche un vero convento. Bisogna tener presente che nel ‘200 le cosiddette chiese
erano di fatto solo delle cappelle. La “chiesa” propriamente detta, nel senso
moderno del termine, era la cattedrale, la chiesa del vescovo. Queste cappelle
spesso erano parrocchie, ma servivano solo a piccoli gruppi di famiglie. Solo la
chiesa del vescovo, la cattedrale, era chiesa di tutta la comunità cittadina.
Si poneva un interrogativo su come affrontare la situazione. I frati sono poveri e
vivono di mendicità e non sono in grado di acquistare il terreno necessario per
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36
quelle costruzioni. I fedeli avrebbero certamente contribuito alla costruzione
della chiesa e del convento, ma per cominciare bisognava procurarsi il terreno.
Ed è a questo punto che il Comune viene incontro alle necessità dei frati. Il
consiglio comunale, a grande maggioranza, delibera di donare ai domenicani il
terreno necessario alle loro esigenze e domanda ai frati di scegliere loro stessi il
luogo più adatto per la costruzione della chiesa, del convento e dell’orto.
Nei primi tempi della vita dell’ordine l’orto era molto importante perché forniva
il necessario per l’alimentazione dei membri della comunità, oltre ad avere
anche un’altra funzione, fondamentale per la vita religiosa, come vedremo più
avanti.
I domenicani scelgono un appezzamento di terreno vicino alle mura della città,
non lontano da S.Vitale, nel sobborgo di Ganga.
Il terreno è di proprietà di diversi cittadini e il comune lo acquista nell’agosto del
1231 e ne fa dono ai domenicani. Questo terreno si trova tra il fossato della città
e il fossato dei borghi vicini alla città, nella pieve di S.Pietro, nella parrocchia di
S.Vitale; sulla qual terra scorre un canale dell’acqua del comune di Faenza4.
Il terreno donato dal Comune ha un’estensione di circa 18.000 mq ed è
sufficiente per soddisfare le esigenze dei frati. A questo terreno se ne aggiungerà
poi un altro, donato il 17 giugno 1233 dai monaci di S.Maria fuori Porta, perché i
domenicani vi costruiscano la loro chiesa.
Ottenuto il terreno dal Comune iniziano i lavori per la costruzione della chiesa e
del convento, ma data la povertà della comunità i lavori procedono a rilento e
avanzano man mano che giungono le offerte dei fedeli.
Nel 1242 la costruzione della chiesa è già a buon punto e il 12 agosto di
quell’anno un certo Giovanni Rontatosio fa un lascito a favore della costruzione
della chiesa e domanda di essere sepolto in essa.
Intanto cominciano ad affluire al convento donazioni di beni immobili,
specialmente terreni. Sono legati testamentari con precise finalità: in genere 4 Ibidem, p. 22.
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37
suffragi o per assistere i poveri. Questo non è gradito a tutti e suscita malumori
soprattutto tra i parenti dei testatori che vedono sfumare parte di una possibile
eredità e qualcuno si domanda se ricevere beni immobili non contrasti con la loro
professione di povertà evangelica.
Forse gli stessi domenicani si pongono gli stessi interrogativi, in quanto san
Domenico stesso aveva vietato ai suoi frati di ricevere beni immobili che dessero
dei redditi. Il problema non interessa solo il convento di Faenza: è un problema
generale che interessa tutto l’Ordine domenicano, perché tutti i conventi
cominciano a ricevere beni di questo genere. Così se ne discute e si è divisi: da
una parte si vuole osservare la norma delle Costituzioni che proibisce di
possedere beni immobili e dall’altra non si sa come rifiutare quei lasciti
testamentari destinati alla celebrazione dei defunti. A risolvere il problema
interviene Papa Clemente IV che il 20 giugno 1265 dichiara che i domenicani
hanno piena facoltà di ricevere beni immobili, perché i loro redditi non sono
destinati al convento ma sono destinati a beneficio del medesimo testatore o dei
poveri.
Nel 1265 la costruzione della chiesa è ormai ultimata e ci si prepara alla sua
consacrazione che avviene il 13 settembre ad opera del vescovo di Faenza
Giacomo Petrelli ed è intitolata a sant’Andrea Apostolo. Purtroppo non è rimasto
nulla di quell’antica chiesa. Con l’altare maggiore vengono anche consacrati altri
tre altari dedicati alla beata Vergine, a san Domenico e a san Paolo.
Dopo la consacrazione della chiesa aumentano i lasciti testamentari e le richieste
dei faentini a essere sepolti in Sant’Andrea. Presto la chiesa diventa un sepolcreto
e per soddisfare le richieste anche il chiostro e il sacrato della chiesa sono
destinati a cimitero.
Contemporaneamente alla chiesa viene costruito il convento. Anche questa
costruzione va avanti lentamente seguendo il ritmo delle offerte dei fedeli. E le
offerte non mancano perché la gente ammira lo zelo apostolico e l’austerità della
vita di quei frati e va incontro alle loro necessità. Inoltre molto frequentemente i
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38
frati domenicani sono chiamati a svolgere il delicato compito di esecutori
testamentari.
Nel 1258 Giovanni Marescotti dona alla comunità domenicana un buon
appezzamento di terreno che confina con la proprietà del convento e che viene
così ad ampliare il terreno destinato all’orto.
Il convento viene costruito tra la chiesa e le mura della città e un canale lo separa
dalla proprietà del comune. Centro del convento è il chiostro attorno al quale
sono distribuiti, su due piani, tutti i locali necessari alla vita della comunità. Un
lato del chiostro comunica con la sacrestia, mentre al piano terreno si trovano la
sala del capitolo, il refettorio, l’infermeria, l’ospizio e la rasura. Nel piano
superiore ci sono il dormitorio, che è un lungo corridoio con le celle disposte a
destra e a sinistra e la biblioteca. Vicino al refettorio, ma fuori dall’ambito del
chiostro, c’è la cucina e poi la legnaia, il granaio, la dispensa-magazzino, il forno
e il locale lavanderia.
Oltre alla costruzione della chiesa e del convento i domenicani si preoccupano di
circondarsi di uno spazio che li isoli dall’esterno. L’orto, oltre ad avere un valore
economico, serve anche per assicurare la “clausura conventuale”. La clausura per
il domenicano è un mezzo essenziale per osservare i doveri della vita religiosa e
che gli permette di realizzare la vita di raccoglimento e di contemplazione
propria del frate predicatore.
Fin dalle origini il convento dei domenicani è considerato una sacra praedicatio5
e una “casa delle contemplazione” e proprio la clausura aiuterà a creare
quell’atmosfera necessaria per farne crescere lo spirito.
Per questo lo spazio dell’orto verrà custodito gelosamente anche quando, gravati
dai debiti, saranno tentati di venderlo. Per meglio assicurare la clausura il
consiglio conventuale decide di far alzare il muro dell’orto e di non dare più in
affitto una casetta vicino alla vesteria, nella quale alcuni secolari riponevano gli
attrezzi agricoli. 5 Ibidem, p. 28.
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L A C O N GR E G A ZI O N E D E L L A B E A T A V E R G IN E
Verso la metà del ‘200 viene fondata presso il convento una congregazione in
onore della Madonna e questo accade anche presso molti altri conventi
domenicani dove vengono erette confraternite o congregazioni in difesa della
fede e in onore della beata Vergine Maria. Queste congregazioni mariane non
hanno solo uno scopo devozionale; sono associazioni di credenti decisi a
professare pubblicamente la propria fede e a diffonderla, questo anche per
testimoniare la propria fede nei privilegi di Maria Madre di Dio di fronte agli
eretici che negavano la sua divina maternità.
L O ST UDIU M A R T IU M
Nel convento di Faenza viene anche istituito uno Studium per l’insegnamento
delle artes, cioè di quelle materie umanistiche e filosofiche che preparavano i
giovani novizi agli studi di teologia. Nel 1259 il capitolo generale di
Valenciennes ordina che in ogni provincia venga istituito almeno uno di questi
Studi per la formazione dei novizi e la provincia di Lombardia sceglie proprio il
convento di Faenza come sede di uno di questi Studi, che si affiancava dunque
allo Studium generale dell’ordine che aveva sede a Bologna. Quindi dal 1260
cominciano ad affluire in questo convento novizi provenienti dai conventi vicini,
per frequentare gli studi umanistici e filosofici per poi passare a Bologna per
studiare teologia.
Otre alla predicazione e all’insegnamento i domenicani a Faenza svolgono anche
un’attività di carattere sociale. In genere quando si fanno particolarmente acuti i
contrasti tra le opposte fazioni, i faentini, per salvare i loro beni più preziosi, li
affidano ai domenicani e ai francescani. Nel 1299 il priore dei domenicani, fra
Agnello da Faenza, è impegnato a portare pace fra il Comune di Bologna e i
bolognesi appartenenti alla fazione dei Lambertazzi che si erano rifugiati in
Romagna. Costui riesce a riunire le parti avverse a Monte del Re presso Castel
San Pietro Terme per discutere la bozza di trattato redatta dallo stesso fra
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40
Agnello. Così dopo vari incontri il 4 maggio 1299 si giunge all’accordo
desiderato: ritorna così la pace tra il Comune di Bologna e i Comuni della
Romagna.
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2.6 FORLI’
L A F O ND A Z I O N E
La storia della presenza domenicana a Forlì è lunga e complessa. Sigismondo
Marchesi, storico di Forlì della seconda metà del Seicento, ne fa risalire la
presenza al 1218: fu san Domenico stesso a far parte i Forliuesi del suo zelo
Apostolico l’anno 1218, che però la Comunità, vedendo il frutto che si
raccoglieva dalla predicatione del Santo, gli assegnò il luogo, doue douesse
ergere la Chiesa, e Monastero, come si raccoglie da i libri della sua Religione. Fu
principiata dal medesimo Santo la fabbrica, consecrandola all’apostolo San
Giacomo, secondo il costume, che s’osserua, che ebbe il Santo patriarca di
dedicare le Chiese, e Conventi eretti al suo tempo al nome di qualche Apostolo1.
La storia della fondazione ad opera del santo castigliano sembra essere tuttavia
solo una leggenda. Infatti Gian Michele Fusconi, nella sua opera sui vescovi
forlivesi, fa notare che San Domenico giunse alla fine del gennaio 1217 a Roma,
proveniente dalla Linguadoca, per ottenere l’approvazione dell’ordine, e lì si
trattenne fino ad ottobre; celebrò poi la festa di Ognissanti a Bologna e i primi
giorni di dicembre tornò di nuovo in Francia: è difficile pensare che il santo,
sempre ammesso che fosse passato dalla Romagna, si fosse fermato per creare
nuove fondazioni. Lo stesso Fusconi dà più credito a Paolo Bonoli, che pone la
fondazione del convento di Forlì attorno all’anno 1229.
Gli Ordini mendicanti che si erano stabiliti a Forlì, i Domenicani e i Francescani,
suscitavano le invidie del clero secolare, a causa del fascino che esercitavano sui
fedeli, e le preoccupazioni dei vescovi a causa dell’esenzione dalla loro
giurisdizione di cui questi ordini godevano. Per porre rimedio a questa situazione
1 C. BAZZOCCHI, I Domenicani forlivesi, in “Il San Domenico di Forlì, la chiesa, i l luogo, la città”, a cura di M. Foschi, G. Viroli, Forlì 1991, p. 33.
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42
nel 1255 papa Alessandro IV richiamò all’ordine il vescovo di Forlì perché
ponesse fine alle sue molestie nei confronti dei Domenicani e dei Francescani2.
I Domenicani acquistarono presto presso la popolazione stima e devozione tanto
che nel 1293 e nel 1294 il Comune deliberò la fornitura annuale, per la festa di
San Michele, di venti tonache o il corrispettivo in denaro per i padri domenicani
di San Giacomo e tale disposizione venne inserita negli statuti comunali.3
LA CITTA’ E IL LUOGO DEI DOMENICANI
Nel 1276 il Comune di Forlì per poter attraversare con una via pubblica il terreno
dei Domenicani cercò un difficile accordo che prevedeva la permuta e la
requisizione dei terreni e delle case da parte dei conventuali: la strada sarebbe
passata presso il convento, il cimitero e il fossato pubblico, iniziando dal
ponticello su detto fossato nella contrada di San Tommaso di Canterbury, per
finire nella via pubblica della contrada di Faliceto dei mulini.
In cambio di tale onere, che prevedeva anche la spesa per terreni e case di privati
su cui sarebbe passata la nuova strada, i frati sarebbero entrati in possesso della
vecchia via fra il loro orto, la domus Pomposiae e le case private.
Se è difficile localizzare il tracciato esatto, emergono tuttavia dati importanti
sulle fosse urbane e sulla localizzazione del convento. Le due costruzioni sono
pressoché contemporanee: quella dei Domenicani risale al 1229; quella del
“nuovo fossato”, che passava a ridosso dell’orto di San Domenico, ove in seguito
rimase la via Chiaviche, risale al 1225.4
Nell’area si individuano da questo momento linee di sviluppo urbano e luoghi di
apparente abbandono, che accompagnano l’interramento progressivo delle fosse
più interne, in vista dell’espansione che solo nel XV secolo si consolida nella
cerchia delle mura. In questo ambito si è ancora lontani da un uso intensivo del
2 Ibidem, p. 34. 3 Ibidem, p. 34. 4 M. BALZANI e M. FOSCHI, La città e il “luogo” dei Domenicani, in “Il San Domenico di Forlì, la chiesa, il luogo, la città”, Forlì 1991, p. 47.
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43
suolo, ad esempio la contrada Feliceto, contigua all’orto di San Domenico,
prende il nome dalle felci che crescevano rigogliose nel terreno umido lungo il
canale non ancora del tutto regimato e lo stesso toponimo Valverde conferma la
presenza di un ambiente ancora naturale.
In generale essi si insediano strategicamente attorno ai nuclei urbani chiudendoli
a poco a poco in una fitta cintura, tanto che già nel 1260 papa Alessandro IV
cerca di limitarne la densità fissando, per gli insediamenti, una distanza minima
tra di loro5.
La formazione dei primi luoghi di culto degli Ordini mendicanti genera nel
tempo un vero e proprio effetto di richiamo che si concretizza nella creazione di
nuove piazze-borgo. Il terreno di pertinenza di questi poli di aggregazione
determina poi lo spazio urbano: uno spazio che nelle città, e a Forlì in modo
particolare, viene preservato integro almeno fino a tutto il XVIII secolo.
Ciò avviene non solo per una forma di rispetto verso le comunità religiose, ma
anche perché dalla fine del XIII secolo si allenta la tensione demografica e la
spinta economica della borghesia risulta depressa.
L’attuale quartiere fra Porta Ravaldino (demolita) e porta Schiavonia (ancora
esistente) dove sorge il convento di San Domenico, è costituito da due distinte
tipologie urbanistiche, che corrispondono anche a diverse fasi di crescita.
L’espansione urbana era fittamente distribuita lungo le due direttrici che, oltre il
Borgo di Mezzo, partivano dal ponte dei Morattini; l’una verso porta Schiavonia,
proseguendo la via Emilia, e l’altra verso quella Liviense. Un’altra tipologia era
quella delle grandi campiture verdi, spesso irrigue e con giardini ben regolati, in
cui erano immersi i chiostri conventuali.
Una delle esigenze principali per il convento di San Domenico era
l’approvvigionamento idrico per gli usi domestici e per irrigare gli orti. A questa
5 Su richiesta dei Domenicani bolognesi Alessandro IV già nel 1257 aveva fissato in 200 passi (m 300) la distanza per nuove costruzioni religiose da quel convento. Essa fu portata a 700 metri nel 1262. D’Amato 1988, I, p. 121
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esigenza corrispose, fin dai primi tempi, un’azione decisa del comune che nel
1327 autorizzò a portare acqua dal canale pubblico sopra al mulino di Faliceto,
nei terreni, negli orti e nelle case dei frati Predicatori per le loro necessità,
attraversando anche le proprietà altrui, prevedendo anche una sanzione per chi
ponesse immondizie o impedimenti alla realizzazione di questo “acquedotto” 6.
6 M. BALZANI e M. FOSCHI, La città, cit. Forlì 1991, p. 48
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45
2.7 RAVENNA
Ravenna nel medioevo ha ospitato sul suo territorio, oltre ai tanti ordini
monastici, anche l’ordito quasi completo degli ordini mendicanti. Si tratta dei
francescani, dei domenicani, degli agostiniani, dei serviti e dei carmelitani. 1
Per quanto importanti siano stati i monasteri benedettini nella storia delle
istituzioni religiose di Ravenna medievale è con l’azione dei mendicanti che la
città esprime la sua religiosità nei secoli del tardo Medioevo.
Per meglio comprendere questa parte importante della storia della città è
necessario approfondire il rapporto esistente nell’assetto urbano, tra la
popolazione, le chiese cittadine e gli ordini mendicanti; inoltre la minore
consistenza del patrimonio fondiario degli ordini mendicanti rispetto a quelli
monastici non li pone in concorrenza con la proprietà arcivescovile nel territorio
della Romagna, del Montefeltro e del Ferrarese. Un arcivescovo della statura di
Bonifacio Fieschi (1275-1294)2 è anzitutto un frate domenicano e anche se in
tutta la documentazione archivistica appare come dominus egli tuttavia rimane
frater. La stessa ubicazione dei conventi, nel cuore della città, mette i mendicanti
a diretto contatto con le case, le piazze, i mercati, le botteghe: in poche parole
con il popolo.
Le basiliche e le chiese parrocchiali avevano già alla fine del primo millennio
numerosi altari dedicati ai santi; ora i mendicanti, con i numerosi altari delle loro
chiese, con il culto dei recenti santi medievali, con la venerazione delle loro
reliquie arricchiscono in maniera straordinaria il patrimonio processionale e di
calendario del culto e della liturgia.
1 G. MONTANARI, Conventi maschili dei mendicanti, in Storia di Ravenna, III: Dal Mille alla f ine della Signoria Polentana, a cura di A. Vasina, Ravenna 1993, p. 305. 2 Ibidem, p. 306.
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L’elenco delle chiese ravennati, lo sviluppo degli oratori di corporazioni,
confraternite, ospedali, le norme sulle processioni emanate dall’autorità religiosa
e da quella civile, rafforzano l’importanza della presenza religiosa dei mendicanti
nella storia medievale di Ravenna.
I Domenicani, fin dall’inizio, costruiscono la propria chiesa e il proprio convento
al centro della urbs romana, nella regione del Campidoglio, grazie anche al
concorso degli arcivescovi e della municipalità. La loro presenza ha
rappresentato una tradizione religiosa di insegnamento della teologia scolastica
fedele ai metodi e agli indirizzi medievali delle scienze sacre.
Dopo gli eventi della traslazione del corpo di San Domenico, a cui assistette
come delegato del papa l’arcivescovo di Ravenna, della sua canonizzazione e
della tumulazione del suo corpo nell’arca di marmo e data la dipendenza che la
diocesi bolognese aveva nei confronti di quella di Ravenna non poteva essere che
i domenicani rimanessero a lungo senza una organica presenza nella capitale
della provincia ecclesiastica3.
Al problema di avere immediatamente un edificio di culto per i frati stessi, si
provvide con atto del notaio Artusino di Cambio che nella sacrestia della basilica
di S. Giovanni Evangelista alla presenza dei maggiorenti del clero e dell’abate
Benvenuto davano corpo alla volontà del “venerabile padre e signore arcivescovo
Filippo di avere, indurre e piantare l’ordine dei frati predicatori nelle città di
Ravenna ad onore di Dio, per la salute delle anime e per il buono stato della
stessa città di Ravenna”4. A questo scopo i benedettini cedono ai domenicani la
3 Ibidem, p. 308. 4 Il 2 marzo 1269 a Ravenna “seguendo l’esempio dell’arcivescovo Filippo, che aveva donato ai domenicani il palazzo la torre e la curia detta dei Baccalari, nella contrada S. Anese, per costruire chiesa convento e cimitero, Benvenuto abate del monastero di S. Giovanni Evangelista, col consenso dei monaci, dona ai padri domenicani Ugolino, superiore del convento di Faenza, e Gerardo de Valero da parma la chiesa di S. Maria in Gallope, annessa con le sue pertinenze ai beni suddetti, la quale perciò consente ai domenicani di poter costruire la nuova chiesa, gli altri ambienti idonei alla vita del convento, e i cimiteri. Se tali opere non verranno costruite, i beni donati torneranno al monastero. Il documento, datato dalla sacrestia del monastero di S. Giovanni Evangelista, è redatto da Artusino figlio di Cambio, notaio della Chiesa e della città di Ravenna” da Storia di Ravenna, cit, p. 787.
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chiesa di Santa Maria in Gallope con il suolo intorno, le fabbriche, gli accessi, le
possessioni e tutti i diritti che la stessa chiesa aveva.5 Con il tempo i domenicani
potranno demolire il complesso di queste fabbriche per costruire una chiesa più
grande, con annesso convento e chiostro: è quanto ora vediamo come chiesa di
San Domenico. Gli attori furono frate Ugolino, sottopriore del convento di
Faenza e Gerardo de Valero da Parma che rappresentava la nascente comunità di
Ravenna. Il cimitero della comunità 5si situerà nella piccola piazza antistante la
chiesa attuale. Il convento, che avrà anche una scuola di teologia per i novizi, si
era dotato di una biblioteca e di un archivio.
Dalla situazione edificatoria ed economico-finanziaria di partenza, dalle offerte
che in atti testamentari non pochi fedeli lasciano al convento domenicano si
comprende che ci fu molta determinazione nel processo di fondazione e nei
positivi sviluppi immediatamente successivi. Del resto all’arcivescovo Filippo
successe i domenicano fra Bonifacio Fieschi che trova il modo di promuovere le
imprese dei mendicanti.5
La comunità domenicana, oltre a un’intensa azione pastorale, si adoperò per una
complessiva opera di mediazione e pacificazione, che si affiancano alla tutela
dell’ortodossia contro l’eresia.
Non vi sono particolari documenti che provino una attenzione particolare
dell’arcivescovo Bonifacio per i domenicani ravennati, ma tutto conduce a
credere che il periodo del suo episcopato, quasi venti anni, fosse propizio
all’espansione del convento ravennate, non tanto per l’azione diretta
dell’arcivescovo stesso, che sarà protagonista di legazioni all’estero, quanto per il
clima religioso e politico che si era instaurato in quel tempo.
5 Ibidem, p. 308.
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2.8 RIMINI
L’azione pacificatrice che fra Pietro da Verona, nel 1249, praticò tra i comuni
della Romagna fece sorgere negli abitanti di Rimini il desiderio di avere quei
religiosi in città1.
Il 21 gennaio 1254 fra Giovanni da Vicenza domandò al Consiglio di Rimini un
tratto di terreno ab Ecclesia et territorio Ecclesie S.Cathaldi inferius versus
Apsam,2 sul quale erigere un convento e domandò anche che gli fosse concessa
una casa nella contrada stessa perché i frati potessero abitarvi durante i lavori di
costruzione; il comune acconsentì ad entrambe le richieste. Due anni più tardi lo
stesso fra Giovanni ottenne dal vescovo Giacomo il possesso della chiesa
parrocchiale di S. Cataldo. L’atto di cessione fu stipulato nella chiesa stessa da
Ventura di Giovanni e Donato di Gualtieri Donati sindaci della contrada i quali, a
nome dei suoi abitanti, acconsentirono alla cessione imponendo però condizioni e
riserve che furono accettate.
In un altro consiglio municipale tenuto sotto la podesteria di Riccardo Villa il 14
novembre 12563 la Chiesa riminese concesse ai frati domenicani un altro terreno
a lato del muro pubblico che passava presso la chiesa, ottenendo di poter aprire
una porta per accedere a dei terreni che avevano al di la di quello. Nel 1265 i
Domenicani ebbero una lite con il comune per quella porta della quale si temeva
che essi abusassero ma una bolla di papa Clemente IV, che proprio in quell’anno
impose alla città un vescovo domenicano, Ambrogio da Orvieto (1265-1277),
esortava il Podestà, il Consiglio e la comunità di Rimini a permettere ai frati di S.
Cataldo di mantenere il possesso delle porte ricavate nelle mura cittadine.4 È
1 L. TONINI, Dei frati predicatori di san Domenico in Rimini nel XIII secolo, vol. 3: della storia civile e sacra riminese, a cura di L. TONINI, Rimini 1862, p. 328 2 Ibidem, p.328. 3 Ibidem, p.329. 4 Ibidem, p.329.
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forse per questo motivo che Carlo Malatesta più tardi costruirà quell’appendice
delle mura antiche che partendo da porta S. Cataldo seguendo il rigagnolo della
fontana chiuse ed abbracciò tutto il convento.
Ma la chiesa di S. Cataldo, a causa delle folle di fedeli che i frati Predicatori
attiravano, si rivelò di dimensioni insufficienti e così verso il 1278 iniziarono i
lavori di costruzione di una nuova chiesa, sempre dedicata a S. Cataldo, più
grande che rimase in piedi fino al 1816, anno in cui fu demolita. Nel 1279 il
cardinale Latino Malabranca, legato di papa Nicolò III, concesse l’indulgenza a
chi prestava elemosina per la costruzione della nuova chiesa dei frati predicatori5.
5 Ibidem, p.330.
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50
2.9 CESENA
Sembra un dato costante per i tre maggiori Ordini mendicanti presenti a Cesena
che il loro insediamento sia stato preceduto da un antefatto, dalla presenza di tre
notissimi personaggi della fede: Antonio da Padova, minorita, Pietro da Verona,
domenicano e Giovanni Bono, eremita, la cui famiglia religiosa confluirà poi
nell’Ordine agostiniano.
Di Pietro Martire, il secondo santo dell’ordine dei Predicatori, grande
predicatore, fondatore di confraternite laiche e infine inquisitore, vanno ricordati
in questa area alcuni suoi efficaci interventi: tra gennaio e marzo dell’anno 1249
come paciere tra le città di Faenza, Cervia e Rimini e nello stesso anno
l’imposizione ai comuni di Faenza e Rimini dell’obbligo di risarcire alla città di
Cervia i danni della guerra1. Nel periodo 1249-1251, nonostante fosse stato
nominato priore prima del convento di Asti e poi in quello di Piacenza, fu
presente a Cesena con una certa assiduità. Conoscendo la personalità del frate è
possibile che l’iniziativa non fosse stata presa da lui, ma ne fosse stato investito o
dal cardinal legato, Ottaviano Ubaldini o da Innocenzo IV stesso, che nell’ottobre
1251 ritornando dalla Francia sostò a Cesena forse per consolidare i progressi del
guelfismo romagnolo e per realizzare un probabile progetto politico/religioso,
che faceva seguito alla riconquista alla Chiesa della città di Cesena nella
primavera 12482 ad opera del legato Ottaviano Ubaldini e dell’arcivescovo di
Ravenna Tederico con milizie bolognesi. Non si era combattuto, né c’era stata
resistenza alla distruzione della rocca imperiale edificata solo pochi anni prima,
ma per il ritorno delle esuli famiglie guelfe dopo otto anni di governo ghibellino
la convivenza fra le opposte fazioni andava guidata3.
1 L. PAOLINI, I frati predicatori di San Domenico, in Storia della Chiesa di Cesena, Cesena 1998 , p. 190. 2 Ibidem, p. 191. 3 Ibidem, p. 191.
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51
Forse è proprio per questo compito di “ricomposizione” che Pietro da Verona fu
così spesso presente a Cesena fra il 1249 e il 12514. Ma la maggior fonte su di
lui, il domenicano Pietro Calò che scrive all’inizio del XIV secolo, non ci dice
nulla in merito anche se ci fornisce alcune importanti informazioni. “Spesso
andava a predicare anche a Cesena, dove aveva così tanto credito che, quando si
sapeva del suo arrivo, un’enorme moltitudine gli andava incontro con entusiasmo
e prontezza; […] Dopo l’accoglienza popolare veniva condotto alla piazza di
quella città, e posto su di un luogo visibile, era indotto a predicare la parola di
Dio mentre tutti l’ascoltavano. Dopo di che veniva condotto al suo hospitium,
presso la chiesa di S. Giovanni evangelista”5. Tolta l’enfasi retorica restano i dati
concreti e cioè che era spesso a Cesena per predicare e che il suo alloggio era
presso la chiesa di S. Giovanni evangelista, dentro la Murata. La testimonianza
per cui Pietro da Verona era ospitato presso un chiesa retta dai canonici della
cattedrale è fortemente ambigua: può voler dire che i domenicani non erano
ancora presenti a Cesena, oppure che essi, non avendo ancora un luogo proprio
erano ospitati presso una canonica, dove Pietro trovava accoglienza.
Non è facile pensare che siano rimasti, se già erano presenti, per circa trent’anni
senza un proprio convento; ma non lo possiamo nemmeno escludere perché, ad
esempio, a Ferrara vi è un atto di compravendita del 26 marzo 1238 ma la
costruzione del convento e della chiesa datano al 12746.
UN INSE DI A M E N T O PI A NI F I C A T O : L A M E DI A Z I O N E D E L C A R D .
L A T IN O
Sembra accertato che la fondazione del convento e della chiesa di S. Pietro
martire iniziasse verso la fine degli anni Settanta del Duecento e dato che, come
dice G. Barone, “i Predicatori non scelgono mai alla leggera il luogo di un loro
4 Ibidem, p. 191. 5 Ibidem, p. 191. 6 Ibidem, p. 192.
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nuovo insediamento […]” il permesso per Cesena fu accordato alla provincia di
Lombardia dal Capitolo generale di Lione del 12747. Nel frattempo i Domenicani
si facevano ospitare in luoghi di fortuna presso delle chiese. Inoltre va
sottolineato7 che a Cesena, nel quinquennio del suo episcopato (marzo 1266-
dicembre 1270), il vescovo domenicano Everardo avesse sostenuto, o almeno
predisposto, un inserimento stabile del proprio Ordine in città.
Quel che resta dell’archivio di S. Pietro Martire non ci è di minimo aiuto se non
con il riferirci, mediante regesto scritto nel 1746, che il più antico documento
attestava l’acquisto da parte dei Domenicani cesenati di una casa di proprietà di
Corbelino di Giovanni e Martino degli Abbati nel 1277. L’Indice, poi, contiene il
regesto di due documenti per il 1279 e due per il 1280, in cui si colgono il peso e
l’autorità di Latino Malabranca, cardinale legato in Romagna.
Una conferma di questa cronologia dell’insediamento dei Predicatori cesenati, ci
viene data nel 1707 dal riordinatore delle carte del convento ed autore del
Campione universale, padre Antonino Franceschi da Ravenna: “questo libro si
chiama universale perché contiene in se tutte le cose che in qualsivoglia modo e
tempo hanno appartenuto o appartengono a questo convento di S. Pietro Martire
di Cesena dal principio della sua fondazione, che fu nel 1279 […]8”.
È merito di Carlo Dolcini aver ritrovato e pubblicato il testo di due documenti
che non solo comprovano l’Indice, ma ricreano il contesto e i modi di quella
fondazione. Innanzi tutto il cardinal Latino, domenicano e legato papale in
Lombardia, Toscana, Romagna e nella Marca Trevigiana, disponeva di poteri
amplissimi, temporali e spirituali, che il papa gli aveva attribuito per consentirgli
di raggiungere le molte e non durature pacificazioni fra guelfi e ghibellini in
quelle regioni.9
7 Ibidem, p. 194. 8 Ibidem, p. 195. 9 Si veda, per questi anni, il ben documentato e dettagliato VASINA, Romagnoli, in particolare alle pp. 77-119
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53
Il 17 febbraio 1279 vengono convocati l’arcivescovo di Ravenna, l’arcivescovo
di Bari, il canonista Guglielmo Durante, cappellano del papa, rettore della Marca
Anconetana, il cappellano papale Pietro Saraceni rettore della Massa Trabaria, i
nunzi papali, i domenicani Giovanni da Viterbo e Lorenzo da Todi per
confermare la cessione della chiesa di S. Fortunato dai canonici della cattedrale
ai Domenicani, e per far accettare alle due parti la costituzione di una
“commissione” di due esperti che stimassero il valore delle case e del terreno
circostante, di cui i canonici dovevano essere rimborsati. Chi mai, di fronte a tali
autorevoli personaggi, avrebbe più avuto da ridire?
Il legato ricorda, in un precedente atto, “di aver dato, dopo averla ricevuta ed
assegnata, la chiesa di S. Fortunato con case e terreno adiacente al convento e al
locus dei Frati Predicatori di Cesena, trasferendoli a loro pro costruenda ipso
rum ecclesia et officinis eorum. Mentre i possedimenti, gli affitti, i diritti e gli
altri beni mobili e immobili spettanti alla stessa chiesa di S. Fortunato, e la
parrocchia, la sua cura, e tutti i diritti parrocchiali – eccetto la chiesa di S.
Fortunato, le case e il terreno circostante – di averli concessi al Capitolo della
Chiesa di Cesena in piena e libera pertinenza”. Quando i Domenicani ottennero
la chiesa di S. Fortunato e le case circostanti, il loro convento era già esistente ma
probabilmente in uno spazio troppo angusto. Infatti le nuove acquisizioni
dovevano servire alla costruzione o all’ampliamento della loro nuova chiesa e
agli ambienti necessari al convento.
Vi è anche il testo di una donazione del 1279, fatta dal comune di Cesena ai frati
Predicatori, di una via pubblica che corre “fra la chiesa nuova di S. Fortunato e la
casa di un certo Giovanni de Nosoledis, e che si protende fino alla strada che
conduce alla posterla dei mulini e del Renaccio” 10. La via era stata consegnata al
priore ed era stata chiusa da entrambe le parti e con essa era stato donato il
materiale di cui era lastricata.
10 Ibidem, p. 198.
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54
Come si è visto l’insediamento dei Domenicani a Cesena fu agevolato per quanto
possibile, e non trovò seri ostacoli giurisdizionali da parte del clero.
Se il cantiere della chiesa e del convento di S. Pietro Martire si aprì
presumibilmente nel 1280, o poco prima, dieci anni dopo, il 10 marzo 1290,
mancavano i soldi, non si sa se per continuare o per concludere i lavori;
l’arcivescovo di Ravenna, il domenicano Bonifacio Fieschi, esortava i fedeli alla
generosità finalizzata alla costruzione del complesso domenicano, conferendo in
cambio, quaranta giorni di indulgenza11.
11 Ibidem, p. 199.
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55
2.10 PARMA
I Domenicani giunsero a Parma nel 1222, un anno dopo la morte del loro
fondatore1. All’inizio, dato che si trattava di pochi frati, la loro prima residenza a
Parma fu la canonica della Trinità vecchia, fuori delle mura della città. Nel 1233
essi passarono in Capo di Ponte, nell’Oltretorrente e presero residenza nella
chiesa di Santa Maria Nuova, in località detta Martorano, che si trovava nel
territorio dell’attuale Giardino Ducale.
Nel 1244, Guido Marazzi di S. Nazzaro, podestà di Parma, con il consiglio della
Comunità, furono esortati a trovare ai frati Domenicani un’abitazione più
comoda e così concesse loro il terreno che era compreso lungo tutto il fossato che
dalla porta S. Barnaba arrivava fino a quella di S. Paolo e dalla “Giara fino alla
Ripa”, come riferisce un pro-memoria del priore del convento.2
“In detto luogo – continua il citato pro-memoria – fu fabbricata una sufficiente
abitazione per alcuni Padri da Ugo Sanvitale, canonico della cattedrale, e nel
tempo stesso fu ad essi donata la chiesa di S. Croce dal medesimo Sanvitale
costruita nello stesso luogo nel 12543, perché i frati vi potessero compiere gli
uffici ecclesiastici e predicare. Ad iniziare dal 1278, a causa di una rivolta per la
condanna di un eretica, per alcuni anni i domenicani si esiliano volontariamente
dalla città; per il ritorno dei frati a Parma fu necessario l’intervento del legato
papale Latino Malabranca (cardinale e domenicano). In seguito si cominciò a
fabbricare il convento e la chiesa, che fu terminata nell’anno 13334 nella struttura
in cui presentemente si trova. Nell’anno 1259 il 24 ottobre Guglielmo della
Giara, allora abitante a Bologna, donò ai detti Padri un sito con tutta la terra e
casa contigua a quella già donata dalla città. Il 18 febbraio 1304 l’abate del 1 A. MAROCCHI, Vicende relative al convento e alla chiesa di San Pietro martire in Parma, in “Avrea Parma”, anno LVI, (1972), p. 7. 2 Ibidem, p. 7. 3 Ibidem, p. 7. 4 Ibidem, p. 7.
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56
Monastero di Fontevivo5 per mezzo del Pontefice Benedetto X cedette al
convento di S. Pietro tutti gli edifici e case che i suoi Monaci tenevano in
vicinanza della Porta di S. Barnaba, ricevendone in cambio l’Ospedale di Ponte
Taro, che apparteneva alla cattedrale di Parma”.
Da quanto è detto sopra si deduce che buona parte del terreno su cui fu costruita
la Pilotta era dei Domenicani.
Come risulta dai documenti dell’epoca, e cioè dai rogiti camerali conservati nel
nostro Archivio di Stato, i frati avevano ceduto non meno di cinque biolche di
terreno ed alcuni locali del loro convento. Per avere una idea dell’estensione del
terreno ceduto bisogna tener presente che l’area del piazzale della Pilotta e di
quello del Guazzatoio occupano complessivamente una superficie pari a 9.600
mq, cioè circa tre biolche6.
5Ibidem, p. 8. 6 Ibidem, p. 8.
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2.11 MODENA
I frati domenicani si stabiliscono a Modena all’inizio del XIII secolo1. Non ci è
noto dove allora essi abitassero e solo nell’anno 12432 cominciamo ad avere
notizie particolareggiate su di loro, in quanto in quell’anno essi cominciarono la
costruzione della chiesa di S. Matteo e del loro convento. Abbiamo un
documento del 7 maggio 12443 che riguarda la topografia della chiesa e del
convento allora in costruzione e che conferma quanto scrissero i cronisti. In quel
documento si dice che, “avendo il vescovo Boschetti concesso ai frati predicatori
di fabbricare in Modena una chiesa in onore di san Matteo Apostolo in località
posta nella parrocchia di S. Marco, ed essendo quel luogo di proprietà del
Capitolo della Cattedrale, i canonici modenesi, non volendo porre ostacolo
all’opera, ma piuttosto darle aiuto, promisero a fra Filippo priore e provinciale
dell’ordine, il quale accettò, il terreno che la Chiesa di Modena possedeva presso
la chiesa di S. Matteo, per il prezzo giusto e conveniente”. Da questo risulta che
nell’anno 1244 esisteva, o meglio si costruiva, la chiesa di S. Matteo, già iniziata
nell’anno precedente, e che per fare questo i canonici cedettero il terreno che
possedevano nelle vicinanze4. Nel documento citato si dichiara anzi che se i frati
avessero avuto bisogno di occupare, entro certi confini, altro terreno o case di
proprietà della Chiesa di Modena, sia per il convento che per i chiostri, sia per la
chiesa che per l’orto, i canonici li avrebbero loro ceduti in vendita con pieno
possesso, e si aggiunge che i detti canonici, con la licenza del vescovo, avrebbero
1 G. SOLI, La chiesa di San Domenico, Modena 1992, p. 9. 2 Ibidem, p. 9. 3 Ibidem, p. 9. 4 Ibidem, p. 10.
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rinunciato a tutti i diritti che la cattedrale aveva sul terreno su cui fu costruita la
chiesa5.
Il terreno, in parte ceduto ed in parte offerto dai canonici ai frati, era limitato a
nord dalle fosse della città e dalla fascinata, che correva quasi parallela
all’odierno Corso Cavour; ad est dal naviglio, il quale scorreva secondo l’asse del
Palazzo Reale; a sud dal canale Cerca che seguiva il Corso Belle Arti gettandosi
nel naviglio dove è la porta principale del Palazzo; ad ovest da una linea non
precisabile, probabilmente parallela, o quasi, al confine di est, partendo dalla casa
Savore, già dei Toschi di Carpi, e che si spingeva fino alla Cerca. Era quindi un
vasto quadrilatero, sul quale esistevano anche delle case: e la chiesa di S. Matteo
fu costruita là dove erano casa e terreno, prima di proprietà dei Bastardi, poi dei
Canonici.
Quest’area comunque non fu del tutto occupata dai domenicani; infatti lungo le
due rive del naviglio sorgevano delle case appartenenti alla cinquantina di
Albareto: sulla riva destra vi erano quelle che si protraevano fino alla porta
omonima e che furono demolite verso la fine del XIII secolo a causa della
costruzione del primo castello degli Estensi; mentre sulla riva sinistra esistevano
delle case che rimasero lì fino alla metà del XVII secolo quando furono abbattute
per costruire il Palazzo Reale. Dato che queste case neanche nei tempi recenti
sono appartenute ai frati, si può ritenere che non le possedessero neanche nel
1244 e si può stabilire con quasi certezza che ad oriente l’area occupata dai frati
non aveva come confine il naviglio, ma bensì le case poste sulla riva sinistra
dello stesso. Anche dal lato di settentrione i domenicani non ebbero il terreno
fino al limite delle fosse: questo perché nell’angolo a nord est vi fu fino alla fine
del XVI secolo il fabbricato dell’Arte della Lana e sulle fosse vecchie, nel 1578,
vi era la casa Biancolini, che s’internava entro l’orto dei frati. Ad occidente si è
incerti sulla linea di confine perché mancano dati sicuri per fissare i termini; però
se si tiene conto della topografia di Modena nel XVI secolo, si scorge che 5 Ibidem, p. 10.
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59
l’attuale contrada Sgarzeria segnò almeno in parte il confine occidentale del
convento. A mezzogiorno invece si è sicuri che il terreno fu occupato fino alla
Cerca, perché vicino a questo canale sorgeva la chiesa di S. Matteo6.
Contemporaneamente alla costruzione della chiesa i Padri Domenicani
accudirono anche a quella del loro convento, il quale fu eretto al fianco
settentrionale del tempio e che se all’inizio era di dimensioni piuttosto esigue, in
seguito fu ampliato. Al convento fu annesso sin dall’inizio un orto che era situato
a nord del convento e che si estendeva fino alle fosse della città dove nell’anno
12457 fu chiusa una fontana che lì si trovava e al suo posto l’acqua fu introdotta
nel convento. Questa fontana forse è quella che tutt’ora esiste ad ovest
dell’abside della chiesa odierna. Tuttavia la costruzione della chiesa e del
convento non si compirono in breve tempo e forse non è errato pensare che per
tutto il XIII si sia lavorato al loro compimento, servendo a far fronte alle spese i
lasciti fatti al cenobio da pie persone.
Nel frattempo il convento di S. Domenico godeva già di considerazione in città e
fuori, come prova il fatto che ad esempio nel 1291 Fra Bartolomeo dei
Predicatori di Modena fu scelto come arbitro nella controversia fra la città di
Modena e la Badia di Frassinoro.8
6 Ibidem, p. 11. 7 Ibidem, p. 13. 8 Ibidem, p. 13.
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2.12 FERRARA
Il primo intervento nel ferrarese dei domenicani si intreccia con quello delle
suore del monastero domenicano di s. Agnese di Bologna. Quando a Falcone,
abate del monastero benedettino di S. Adalberto in Pereo, successe l’abate
Giovanni, i monaci di quella comunità esposero a Gregorio IX i danni che
l’atteggiamento ghibellino del precedente abate aveva arrecato al monastero. Il
pontefice allora incaricò alcuni domenicani di svolgere un sopralluogo; questi
riferirono che l’unico rimedio per la situazione che si era venuta a creare era
quello di affidare il monastero ad un altro ordine. Gregorio IX affidò questo
compito il 17 giugno 1230 a tre religiosi1: Aicardo priore di S. Giorgio in Ferrara
e a due domenicani, fra Rinaldo priore del convento domenicano di Faenza e a
fra Paolo da Padova. Costoro il 13 novembre 1230 decisero di riformare S.
Adalberto a Cella Volana.2
A questa riforma seguono due smembramenti: la pieve di Buda, situata tra il
bolognese e il ravennate, passa da S. Adalberto alle domenicane di Bologna e la
parrocchia ferrarese di S. Paolo di Ripagrande da S. Adalberto all’arcivescovo di
Ravenna (nel 1237) in cambio di una piena autonomia per Cella e S. Adalberto.
Inoltre sempre in quel 13 novembre 12303 Gregorio IX, considerate le necessità
delle povere suore di S. Agnese di Bologna, che si distinguono “per la loro vita
onorevole e per la loro devozione e il fervore”, concede al loro sindaco Orabono
“tutti i diritti, possessioni, corporali e incorporali, foreste, diritti di pesca e ogni
altro diritto che apparteneva al monastero di S. Adalberto e dandoli in usufrutto”.
È certamente una questione difficile da risolvere quella che riguarda la tarda
presenza dell’insediamento dei domenicani a Ferrara. Giunti a Bologna
1 A. SAMARITANI, I Frati Predicatori nella società ferrarese del ‘200, in “Analecta pomposiana”, XIII (1988), p. 6 2 Ibidem, p. 6 3 Ibidem, p. 6
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61
probabilmente già nel 1217 a motivo della sede universitaria si stabiliscono poi,
tra il 1221-1222, a Piacenza, Parma, Faenza e Forlì. In questo primo periodo essi
sono assenti dalle città estensi come Ferrara, Modena e Reggio. Un primo
elemento per spiegare ciò è la presenza dominante nel comune ferrarese di
Salinguerra II Torelli, vicino a Federico II, che procurerà al cardinale Ugolino di
Ostia, il futuro Gregorio IX, le più ardue difficoltà. Anche se dal 1221 in poi
accanto a Federico II, ora in buoni rapporti con la S. Sede e con il cardinal legato,
c’è Azzo VII d’Este tuttavia, dal 1224 al 1239, Salinguerra riuscirà a consolidarsi
come “solo ed incontrollato padrone della città” 4.
Una ripresa nella cura d’anime è avvertibile da parte del capitolo soprattutto con
l’avvento di papa Gregorio IX, la cui riforma pastorale aveva sollecitato la
promozione della presenza di predicatori fra il clero secolare. Sono gli anni, dal
1222 al 12385, nei quali il capitolo vede insidiato il proprio patrimonio e i
connessi diritti immunitari da un complesso panorama feudale, per cui
l’appoggio del comune salinguerriano è imprescindibile.
Gregorio IX ha inoltre un motivo particolare per sostenere la linea del clero
capitolare ferrarese nel facilitare la nomina a vescovo del preposto Garsendino, e
più precisamente i diritti che la S. Sede ha su Massafiscaglia e sui ripatici di
Ferrara e Ficarolo che localmente sono difendibili solo nel quadro degli interessi
del clero.
La presa di possesso della città da parte di Salinguerra nel 12246 doveva quindi
essere salutata come una distensione dal vescovo, dal capitolo e dalla stessa S.
Sede, che già prima del 20 novembre 1213 si era vista occupata la propria Massa
di Ficarolo dagli Estensi, esponenti sempre più scoperti delle mire di Venezia
sulla città.
4 Ibidem, p. 8 5 Ibidem, p. 9 6 Ibidem, p. 10
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62
In questo contesto, se già risultò difficile l’introduzione dei minori, ancora più
ardua e tarda doveva riuscire quella dei domenicani. È nel ripiegamento del moto
dell’Alleluia nel 1233-12357, resosi da gioioso a penitenziale, verso impegni di
costruzione di chiese e di confraternite che sembra di scorgere il momento
dell’inserimento dei domenicani a Ferrara. La probabile presenza dei catari in
città non poteva non portare la politica cittadina filoezzeliniana a tenere lontana
la presenza dell’inquisizione dei domenicani al riguardo.
Solo dopo il moto dell’Alleluia, Salinguerra non si poté sottrarre dall’introdurre i
domenicani in città. Il primo accenno ci porta al 21 maggio 1235. L’abbadessa
Costanza delle benedettine di S. Andrea d Ravenna, insieme alle sue sette
monache designano Vitale Rotto loro procuratore perché nomini arbitri nella
questione vertente tra esse e le monache benedettine di S. Silvestro di Ferrara il
cardinale Giacomo di Ravenna e Omobono dottore di leggi di Ferrara. Qualora
questi non siano concordi nella risoluzione dovranno assumere a terzo giudice e
rimettersi alla sua decisione il priore dei frati Predicatori di Ferrara. La questione
verteva sui confini -“vallis terrae paludi nemoris Bozoleti, et eiuspertinentiis in
eadem positis et de omnibus aliis quaestionibus quae vertuntur vel verti
possent…in praedictis vel supra praedictis possessioni bus positis infra totum
Pollicinum S. Georgii usque ad pozalem Capitis Sandali”8-. È questa la zona in
cui andranno a stabilirsi nel Duecento avanzato i frati Predicatori. La
designazione degli arbitri, anche se decisa unilateralmente dalle monache
benedettine di Ravenna, attesta la stima già acquisita da parte dei domenicani a
Ravenna e a Ferrara in materia di concordie.
Un’altra occasione di insediamento dei frati predicatori nel ferrarese è quella
offerta dal tentativo di riforma di Cella Volana, con l’intento di sostituzione dei
canonici regolari che la presidiavano con i figli di s. Domenico e in questo
tentativo di riforma il 20 novembre 1237 Gregorio IX, su sollecitazione dei 7 Ibidem, p. 10 8 Ibidem, p. 11
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63
domenicani, si rivolge all’arcivescovo di Ravenna, al vescovo di Comacchio e al
priore provinciale dei frati predicatori di Lombardia. Per parola del papa gli stessi
canonici di Cella aspiravano ad una autoriforma, suscitata forse dal raffronto con
i domenicani con cui condividevano la regola di sant’Agostino, ma il papa è
comunque per una riforma nella continuità, prevedendo però, in caso di accertata
impossibilità, l’introduzione di un nuovo ordine.
Il venerdì di passione 26 marzo 12389, in un contesto che poteva essere di raduno
religioso penitenziale abbiamo il primo accenno diretto al convento e alla chiesa
dei domenicani di Ferrara: si tratta di una modesta compravendita, che così si
articola: “Guido di Farolfo della contrada di S. Tommaso per sé e suoi vende a
Benventurata per sé e suoi una pezza di terra vignata posta in Ferrara nel
quartiere Vado in contrada S. Andrea, misurante nel capo superiore due pertiche
(ferraresi) e sei piedi, nell’inferiore tre pertiche e mezza, da un lato, per il lungo,
trenta pertiche; per l’altro lato la pergamena presenta uno spazio vuoto. Il prezzo
concordato è di sei lire imperiali, già percepite”. In questo modo si viene a
delineare quel triangolo urbanistico che ha il vertice in S. Domenico e le basi in
S. Francesco (minorita) e in S. Andrea (agostiniano).
Tuttavia i domenicani non riscuotono molto successo quando si tratta di lasciti
testamentari. Ad esempio molto incidentale è il ricordo per i domenicani in un
testamento del 20 febbraio 127510 di Vivelda, vedova di Guidolino de Beis, che
dimorava in una casa degli eremitani in contrada S. Andrea, e che su cento lire
ferrarine destinate a legati, prevede appena un lascito di 10 soldi ai predicatori e
ai minori, 20 a S. Paolo, carmelitano, e 10 a S. Caterina, per quello che attiene il
mondo mendicante, nel quale prevale l’attenzione verso gli agostiniani non legati
ad obblighi di povertà comunitaria e particolarmente graditi a fasce garantistiche
della società ferrarese.
9 Ibidem, p. 12 10 Ibidem, p. 23 11 Ibidem, p. 25
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Un caso diverso dal solito è il testamento di Guidoberto dell’8 luglio 128111 in
cui si stabilisce che la rendita di una pezza di terra in Fossanova rimanga sempre
a vantaggio dei poveri di Cristo (frati predicatori, minori, eremitani …). È la
prima volta che i religiosi mendicanti, addirittura i frati Predicatori, sono
collocati al primo posto fra i poveri di Cristo, inaugurando in tal modo un nuovo
concetto di elemosina a Ferrara.
È forse riferibile, almeno in parte, alla presenza dei saccati in S. Paolo la
congregatio laica della Madonna Regina dei cieli a vantaggio dei poveri
vergognosi. Potrebbe essere che in origine, alla base di questa congregazione
mariana per i poveri, fosse quel gruppo di frati di penitenza regolari che erano i
Saccati o/e l’altro similare laico che volgeva verso il non lontano S. Domenico.
Per l’ipotesi che conduce più direttamente ai domenicani possono richiamarsi
alcune considerazioni: il particolare che i membri della congregatio siano
denominati nell’atto del 131412 fratres lascia supporre che fossero tali in quanto
appartenenti all’ordo de poenitentia s. Dominici, mentre la congregatio della
Vergine Gloriosa non sarebbe altro che una confraternita di ispirazione
domenicana, destinata al soccorso dei poveri verecondi, i cui membri si
ponevano in emulazione nel campo caritativo con i fratres de poenitentia s.
Francisci o per meglio dire con quelli che piegavano verso il mondo francescano.
Fra i due gruppi intercorrono anche buoni rapporti come testimonia fra
Guglielmo Iudicelli che nomina come suoi esecutori testamentari i ministri del
gruppo francescano.
Più ridotto rispetto ai francescani è l’ambito dei compiti demandato ai
domenicani dallo statuto comunale del 128713: a parte naturalmente il ruolo
nell’inquisizione, ai predicatori resta specifico solo il compito della custodia del
quaderno elencante le garanzie per chi ha provveduto a soddisfarsi dai beni di
estranei alla città. A differenza dei contributi per i miglioramenti da portarsi alle 12 Ibidem, p. 29 13 Ibidem, p. 32
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chiese dei minori e degli eremitani, non è previsto un particolare intervento del
comune per quella dei predicatori.
Il Duecento ferrarese dei domenicani è a consenso più circoscritto di quello
riservato ai minori; se questi ultimi raggiunsero 44 lasciti dal 1227 al 130614, i
domenicani raggiunsero invece quota 27 tra il 1247 e il 130615. Non molto
diversa è la situazione per quanto riguarda la prima metà del ‘300: 111lasciti ai
minori e 74 ai domenicani.
Il secolo si conclude con una separazione di luoghi fra convento e Inquisizione
che forse implica una più chiara distinzione di competenze e di metodi, alla
vigilia di un nuovo secolo che conoscerà ben presto una forte accentuazione del
ruolo dell’Inquisizione nella diatriba tra Estensi e S. Sede (1304-1332)16.
14 Ibidem, p. 38. 15 Ibidem, p. 38. 16 Ibidem, p. 40.
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CONCLUSIONI
Le conclusioni che posso trarre dallo studio che ho condotto sull’insediamento
dei frati Predicatori in Emilia-Romagna vertono essenzialmente sulla
localizzazione dei conventi e sull’influenza che la presenza dei domenicani ha
avuto nelle città in cui erano presenti.
Per quanto riguarda la localizzazione dei conventi osservando la carta allegata
alla fine della tesi la prima cosa che risulta evidente è il fatto che la maggior
parte degli insediamenti è situato lungo la via di comunicazione principale
dell’Emilia-Romagna e cioè la via Emilia.
I conventi più importanti sorsero sia nelle città che erano sedi vescovili (e che
vedranno eletti vescovi proprio dei frati Domenicani, come Modena e Ravenna),
sia in città, come Bologna, che erano sedi universitarie, nelle quali l’azione
pastorale dei domenicani poteva suscitare nuove vocazioni tra gli studenti. Inoltre
vi erano anche molti conventi, soprattutto nella zona della Romagna, in zone
considerate minori. Questo è dovuto molto probabilmente al fatto che dovendo i
frati Domenicani spostarsi frequentemente per la predicazione, necessitavano di
trovare un convento in cui essere ospitati; e questo spiega anche la localizzazione
di conventi in zone apparentemente troppo periferiche come Borgo Val di Taro
in provincia di Parma o Campeggio in provincia di Bologna, entrambi situati in
pieno Appennino.
Per quanto riguarda l’influenza che i frati Domenicani hanno avuto nelle città in
cui erano insediati esse non sono state di poco conto. Ad esempio un elemento
fondamentale è stato il collocare i conventi in zone periferiche rispetto al centro
della città; in questo modo i frati erano a diretto contatto con coloro che si erano
trasferiti da poco dalla campagna in città in modo tale da coinvolgerli nella loro
azine pastorale. Inoltre per il loro stile di vita povero e austero si erano
guadagnati il rispetto della gente che accorreva molto numerosa alle loro
prediche. Inoltre sempre più spesso accadeva che le famiglie più facoltose e
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nobili scegliessero i frati Domenicani come loro testimoni nelle dispute legali e
per le eredità, segno anche questo della stima che godevano questi religiosi
presso la popolazione. Inoltre bisogna anche sottolineare il fatto che molti
esponenti delle famiglie più nobili e facoltose sceglievano proprio le chiese dei
frati Domenicani come loro luogo di sepoltura.
Quindi nonostante la storiografia abbia spesso tralasciato questi episodi,
erroneamente considerati minori, di vita quotidiana era proprio in questi
“episodi” che la presenza delle comunità domenicane incideva maggiormente
nella vita della gente, sia che appartenesse ai ceti più abbienti che a quelli più
umili, dando loro un esempio di vera vita evangelica sia nell’aiutare
materialmente queste persone, sia portando loro l’Annuncio della Buona Novella.
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Carta degli insediamenti domenicani in Emilia-Romagna
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