il commento di tommaso al de trinitate di boezio
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Ai miei genitori
2
Indice
Introduzione pag. 4
Capitolo I: da Boezio a san Tommaso. “ 18
1. Boezio “ 18
2. Il De Trinitate di Boezio “ 26
3. Il Commentarium di san Tommaso “ 29
Capitolo II: auctoritas e ratio. “ 33
Capitolo III: la mente umana di fronte al mistero. “ 55
1. Limiti della conoscenza umana e
nozione di Dio “ 55
2. La Trinità “ 78
Capitolo IV: la scienza teologica. “ 98
1. La teologia tra sapienza e scienza “ 98
2. Il metodo scientifico della teologia “ 126
Capitolo V: san Tommaso come sant’Agostino,
la creaturale ‘infermità intellettuale’
dell’uomo. “ 142
Capitolo VI: oltre l’agnosia la scienza del mistero. “ 149
Bibliografia “ 161
3
Introduzione
La fortuna del De Trinitate di Boezio nel XII secolo è pari all’interesse che il Commento
di san Tommaso ha incontrato a partire dalla rinascita tomistica, che risale all’enciclica
leonina Aeterni Patris del 18791. L’onda iniziatasi con questa renaissance continua
ancora oggi, arricchita dalla pubblicazione di note, articoli e studi che abbiamo cercato di
tenere quanto più possibile presenti.
Quest’opuscolo è parte del corpus teologico di Boezio che fu scoperto solo in un secondo
momento rispetto alla sua produzione logica. Nonostante ciò, come ben rileva e dimostra
la Vanni Rovighi2, l’opera teologica di Boezio ebbe sul pensiero medievale un influsso
ancora maggiore del De consolazione philosophiae soprattutto per ambiti filosoficamente
così rilevanti come la dialettica e la metafisica. Il Grabmann si sofferma in diversi punti a
sottolineare questo fatto3, anche citando l’Harnack il quale afferma che non ai suoi scritti
cristiani, bensì a quelli pagani (commenti ad Aristotele e De consolatione) deve Boezio
la sua fortuna e la sua influenza presso la posterità. Ma questo per Grabmann è negare
l’evidenza, vista l’enorme quantità di manoscritti, di glosse e di commenti fioriti attorno
agli opuscula sacra di Boezio4.
1 Leone XIII con quest’enciclica fece del tomismo la filosofia ufficiale della Chiesa Cattolica. Per una discussione sul valore e la legittimità di tale gesto si veda lo studio del Gilson Il tomismo e la sua situazione attuale, in Problemi d’oggi, Borla, Torino 1967, 11-82. 2 S. Vanni Rovighi, Studi di filosofia medievale, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 1978. 3 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1980, vol. I, 199-202. Lungo tutto il nostro lavoro ci siamo serviti unicamente del primo volume. 4 “Dalla grande quantità dei manoscritti dei testi teologici e dalle numerose glosse e commenti medievali, dovuti a volte alla penna di pensatori eccezionali ed influenti, si ricava chiaramente che questi Opuscula sacra godettero di grande considerazione in tutte le epoche della Scolastica e che influirono in misura notevole su tutta la speculazione medievale”, Storia del metodo scolastico, cit., 205. L’Obertello inoltre ci informa che “abbiamo notizia di circa 200 manoscritti degli Opuscoli sacri, che possono ridursi a 170 certi”, Severino Boezio, Accademia Ligure di scienze e lettere, Genova 1974, vol. I, 262.
4
Il Grabmann fa risalire tale successo già all’età carolingia, ad esempio presso Alcuino.
Tra i commenti dei maggiori dotti medievali ricordiamo quelli di Scoto Eriugena,
Remigio di Auxerre, Gilberto Porretano5, pseudo-Beda, Clarembaldo di Arras e, infine,
quello di san Tommaso d’Aquino oggetto del nostro studio.
Lo Usener, a sua volta, fa risalire la prima testimonianza circa gli scritti teologici
boeziani all’ottavo secolo, nella citazione che il grammatico Sedulius fa del quinto
trattato. L’esistenza storica dell’autore di tale citazione non è, tuttavia, dimostrata con
certezza inequivocabile. Resta invece significativa e unanime l’identificazione in Alcuino
del precursore di quella scuola che, originatasi attorno a Scoto Eriugena, ha prodotto i
primi importanti commenti all’opera teologica di Boezio6.
Secondo il Chadwick tanto i cinque opuscula sacra quanto il De consolatione, “il
capolavoro che compose quando era imprigionato a Pavia nel 524-525”, danno a Boezio
“il diritto ad avere una posizione significativa nella storia del pensiero”. Chadwick rileva
che Boezio nei suoi cinque trattati di teologia cercasse, “da laico ben addestrato in
dialettica, di mettere ordine nella tradizione teologica che, con la sua confusa
terminologia di ‘natura’, ‘persona’ e ‘sostanza’, usava gli stessi termini in un senso per la
Trinità, in un altro per la persona di Cristo. […] I Cristiani dell’età medievale talvolta
avevano la sensazione che Boezio in questo modo avviasse i teologi su una strada che li
avrebbe allontanati dall’esperienza religiosa, e immessi su un campo di battaglia
costituito da dispute riguardanti dei tecnicismi”7.
Il Grabmann afferma che “anche gli altri scritti teologici di Boezio contengono, per
quanto riguarda il metodo, punti di vista e modi di procedere interessanti” e “che si
trovano in questi scritti gli elementi essenziali del metodo scolastico”. Ancora
5 “Gilberto de la Porrée è, ancora una volta, il testimone di una grande efficacia dottrinale, e il suo commento all’opuscolo penetrerà nell’abbazia di Bec sin dal 1160”, M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, Jaca Book, Milano 1986, 164. 6 Cf H. Usener, Anecdoton Holderi, Georg Olms Verlag, Hildersheim-New York 1969. 7 H. Chadwick, Boezio, il Mulino, Bologna 1986, 13-4.
5
Grabmann, occupandosi specificamente del trattato qui in esame, sottolinea che esso
costituì per gli Scolastici un modello “per la trattazione metodica dei dogmi,
specialmente di quello della Trinità”8.
A questo proposito il Grabmann, invitando ad una maggiore attenzione per l’influenza
che gli scritti teologici di Boezio hanno avuto nello sviluppo del metodo scolastico, rileva
che scopo di tali scritti era utilizzare la filosofia aristotelica per avvicinare il nostro
pensiero alle verità di fede; e che però in nessun modo l’attività delle ragione può
eliminare o anche solo trascurare il contenuto della Rivelazione: “anzi, la fede cattolica
costituisce la base immutabile della speculazione teologica”9.
Oggi assistiamo al riemergere del problema della questione trinitaria nella misura in cui
essa è sentita come sfida alla mente dell’uomo; in questo senso essa si sfiocca in un
rivolo di altre questioni, che noi riassumiamo in due principali10: lo studio e la
determinazione dei limiti della conoscenza umana e il metodo delle diverse scienze,
questione centrale dalla ‘crisi dei fondamenti’ di fine Ottocento in poi. Due aspetti legati
tra loro poiché la mente umana, naturalmente desiderosa di sapere, si esprime secondo le
sue differenti operazioni in altrettanti ambiti conoscitivi.
Fino al XII secolo presso i teologi scolastici il contenuto metteva in ombra il modo in cui
esso veniva espresso. Questo fatto ha sicuramente una sua valida ragion d’essere
nell’identificazione, protrattasi appunto fino alla soglia del XIII secolo, tra teologia e
8 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 208-9. Cf anche M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, vol. I, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1911, 36: „Die theologischen Schriften des Boethius genossen im Mittelalter fast kanonisches Ansehen und wurden daher vielfach kommentiert, besonders aber das Werkchen de Trinitate”. Inoltre M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 164: “dei cinque trattati, il più diffuso e il più letto è, nel XII secolo, il De Trinitate: anche se non può sostenere il paragone con l’opera di Agostino, cui peraltro è coscientemente debitore, esso offre tuttavia ai teologi una materia e un metodo in qualche modo alternativi”. 9 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 205. 10 Ibid., 30: il Grabmann rileva che “al moderno pensatore si affaccia una quantità d’interrogativi e di problemi riguardo alla scienza del Medio Evo. Questi interrogativi intorno al rapporto tra ratio e auctoritas, tra metafisica e teologia, tra Aristotele e Cristianesimo, tra Scolastica e mistica nel pensiero medievale, le questioni circa l’autonomia e la dipendenza del pensiero scolastico, circa le relazioni dello Scolasticismo da un lato con la Patristica, dall’altro col pensiero moderno, tutti questi problemi dmostrano una realtà di fatto, che cioè la Scolastica e il metodo scolastico attirano ancora l’interesse dei nostri contemporanei”.
6
filosofia. Il processo di individuazione, cioè della presa di coscienza di un proprio
specifico statuto metodologico, durò un secolo di crisi e portò infine alla separazione dei
rispettivi ambiti.
Nel rapporto tra forma e contenuto scientifici oggi avviene il contrario. Secondo il
Galvan “nelle scienze moderne, dette ’sperimentali’, il metodo ha preso il sopravvento:
esso ‘impone’ il tema e ‘si impone’ sul reale. In esso risiede tutto il potere della
scienza.”11 Risuona a tal proposito l’eco del giudizio di Martin Heidegger, secondo cui il
metodo non poté avere presso gli scolastici quello sviluppo e la relativa importanza che
gli spetta: oggi invece esso non è più un mero strumento al servizio della scienza, “è anzi
il metodo che ha preso a proprio servizio le scienza”. Il fatto che tale giudizio si trovi
nell’introduzione al suo Sein und Zeit, è indicativo del fatto che il filosofo tedesco lega il
problema del metodo a quello della necessità di un ‘nuovo’ metodo metafisico, nuovo
non perché ancora mai esistito, ma “perché dimenticato e poi sepolto nel tempo”.
Il medievale si immergeva a tal punto nella materia da trattare da perdere quella distanza
necessaria per spiccare il volo dell’originalità. Alla base ci sarebbe, ancora secondo
Heidegger, il predominio del riferimento all’autorità e l’eccessiva stima per la tradizione.
La materia in loro aveva il sopravvento sulla tecnica.
Ma a nostro avviso san Tommaso fa eccezione. Come vedremo la sua tecnica, frutto
dell’arte dialettica della logica, fu in lui perfettamente coesa con la materia, la Trinità, la
cui particolare difficoltà pose, sin dalle prime questioni discusse, il problema di come
manifestare il Mistero. Tra credere e comunicare il dato rivelato vi è il mezzo della
teologia della Sacra Scrittura, con le sue ‘dignitates’, principi primi che mediano tra il
tema e il metodo della scienza della Rivelazione. Esse, infatti, partendo da ‘principi di
per sé evidenti’, cause prime e metodo infallibile della scienza divina, forniscono
11 G. Galvan, Il concetto di modus scientiae nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, in ‘Scientia’ und ‘ars’ im Hoch- und Spätmittelalter, vol. I, Walter de Gruyter, Berlin – New York, 1994, 189-203, 190.
7
conclusioni necessarie che muovono all’assenso della ragione. Col Galvan siamo
convinti che “gli scolastici in genere e san Tommaso in particolare, non solo hanno
dimostrato una notevole sensibilità per il problema metodologico, ma hanno anche
elaborato indicazioni metafisico-epistemologiche sull’essenza e l’essere della scienza,
sulle sue proprietà e sui suoi limiti, che possono ritenersi ancora valide”.
Il Grabmann nota diverse sfumature nell’atteggiamento dei pensatori cattolici nei
confronti del metodo scolastico: accettazione piena e consapevole della ratio interna ma
non della forma esterna del procedere; o “applicazione quanto più possibile ampia della
tecnica formale dello Scolasticismo nel campo filosofico e teologico”12.
Pur senza l’uguale molteplicità di implicazioni che otto secoli di accelerata evoluzione
scientifica hanno apportato, nel XIII secolo i termini del dibattito erano già questi stessi
che abbiamo appena accennato. Leone XIII, al cui nome resta legata l’enciclica citata in
apertura e quindi tutto il moto di rinascita del tomismo, “ha indicato la dottrina e il
metodo scolastici, quali appaiono concretamente in Tommaso d’Aquino, come norma ed
ideale per la speculazione cattolica in campo filosofico e teologico”13.
Gian Luigi Brena, in un suo recente contributo sul passato e il futuro del tomismo,
richiama alla memoria la critica al neotomismo, condannato per aver sostenuto una
separazione troppo netta tra il campo della fede e quello della ragione e “perché dava per
scontata la separazione moderna di filosofia e teologia”. Ma poi avverte che ciò che più
importa per l’oggi e il futuro della filosofia scolastica è il suo metodo “come
procedimento per cercare un raccordo tra fede e ragione che è riscontrabile in gran parte
della tradizione cristiana”, e in maniera particolare nella filosofia medievale soprattutto
12 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 36-9. Tralasciamo di menzionare la terza corrente che rifiuta in toto il metodo scolastico perché astorico e statico; il Grabmann ascrive tale interpretazione ad un’incomprensione di base delle caratteristiche essenziali e non formali di tale metodo, frutto in ultima analisi di una “soluzione del problema del rapporto fede-scienza ottenuta respingendo la religione nel campo del sentimento”. 13 Ibid.,cit., 34.
8
tomistica. Sottolinea poi il confronto attuato dalla teologia cristiana con le ‘ragioni’ di
tutte le filosofie precedenti, più che per un’effettiva affinità di contenuti, in virtù della
stessa pretesa di validità universale della fede cristiana. Alla base ci fu il ricorso
prettamente cristiano al soprannaturale. Di qui il valore ancora attuale del metodo
scolastico che, a differenza della neoscolastica, non ha privilegiato una determinata
filosofia, pagana o cristiana che fosse, ma ha generato un modo universalmente capace,
sul presupposto della fede e del dogma, di “assumere filosofie non esplicitamente
cristiane preesistenti per esprimervi un pensiero sia teologico che filosofico disponibile al
Vangelo o ad esso rispondente”14.
Un metodo dunque che sintetizza le dimensioni naturale e soprannaturale dell’umano
nella sua integrità, tanto il dato che proviene dall’esterno quanto la nostra aspirazione ad
esso. Per questo noi ci proponiamo di illuminare il rapporto tra la questione trinitaria e la
nostra intelligenza, punto di fuga della questione del metodo della teologia che proprio
nel XIII secolo conobbe la sua prima problematizzazione. Sono due temi legati tra loro
anche sotto il rispetto propriamente teologico: il dogma della Trinità è infatti il cuore
della teologia.
La nostra tesi è dunque illuminare il metodo formulato qui da san Tommaso alla luce del
mistero trinitario, dimostrando attraverso il continuo riferimento critico al testo il robusto
legame tra i due momenti. In particolare ci interessa porre e attirare l’attenzione sul ruolo
giocato presso l’Aquinate dal senso teologico del mistero e dell’ineffabile, proprio là
dove egli ha impegnato tutte le sue forze razionali alla costruzione dello statuto
scientifico della teologia.
A tal proposito ci sembra indicativa la suggestione che deve essere venuta al Nostro dalla
chiusa, indirizzata a Giovanni Diacono, dell’altro trattato boeziano Utrum Pater et Filius:
14 Tomismo ieri e domani, in A. Fabriziani (a c. di), Tomismo ieri e oggi, Fondazione Centro Studi filosofici Gallarate, GregorianaLibreriaEditrice, Padova 2001, 309-325.
9
“Haec si se recte et ex fide habent, ut me instruas peto; aut si aliqua re forte diversus es,
diligentius intuere quae dicta sunt et fidem si poterit rationemque coniunge”. Sembra che
san Tommaso, intraprendendo l’impegnativo commento di quest’opera, abbia raccolto
l’invito di Boezio al posto del suo vero destinatario.
Si giustifica così la scelta da noi fatta di studiare questo opuscolo per delineare l’ideale
scientifico che san Tommaso elaborò della teologia. Si tratta infatti non di un semplice
commento, bensì di un’opera a sé stante che esprime appieno aspetti determinanti del
pensiero teologico dell’Aquinate. Dunque non un semplice omaggio dell’Aquinate al
“véritable introducteur d’Aristote en Occident,”15 ma qualcosa di più. San Tommaso si
appropria del metodo razionale boeziano che non è più semplice vocabolario di logica
ma ossatura intima del discorso razionale, su cui tra l’altro si misura l’onestà intellettuale
del procedere della ragione umana.
Il trattato boeziano sulla Trinità gli si dev’essere sicuramente presentato come il terreno
idoneo per affrontare le questioni relative al rapporto tra l’indagine razionale e la fede (e
quindi tra filosofia e rivelazione), alla distinzione tra la teologia (nella sua doppia
accezione di metafisica dei principi primi e di teologia della Sacra Scrittura) e le altre
scienze speculative.
Come già si è potuto apprezzare dal queste prime pagine introduttive, la nostra
intelligenza degli aspetti scientifici della Scolastica ‘tomistica’ devono moltissimo agli
studi del Grabmann il quale, infatti, dichiarando l’intenzione di voler “collocare
Tommaso e il suo ideale scientifico in mezzo alle lotte intellettuali del suo tempo”,
decide di toccare la questione più importante: “come sono ordinate tra loro, nel concetto
15 P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroïsme latin au XIII siècle, Institut Supérieur de Philosophie de l’Université, Louvain 1911, 7; e continua: « (…). C’est lui qui, par ses nombreuses traductions du grec et ses autres écrits, forme le lien le plus fort entre la science grecque et le premier moyen âge latin. L’activité de Boèce comme traducteur semble avoir été très étendue. (…) Les critiques ne s’entendent pas sur le nombre des œuvres du Stagirite traduites par Boèce. Nous sommes portés à croire toutefois, que cette traduction a dû s’étendre aux travaux les plus importants d’Aristote. »
10
scientifico del nostro Santo, la Fede e la teologia da una parte e le scienze profane
dall’altra? In quale senso ed ampiezza può parlarsi, secondo S. Tommaso, di un influsso
della Fede e della teologia sullo studio delle scienze profane e della filosofia? (…) la
trattazione più particolareggiata e profonda della dottrina tomistica sulla scienza è la sua
Expositio super Boëtium de Trinitate, conservataci anche nell’autografo”16. Quest’opera
è dunque tra gli opuscoli di maggior valore di san Tommaso, anche in virtù del fatto che
rappresenta l’elaborazione classica della sua dottrina scientifica17.
Rimasto incompiuto il disegno, iniziato negli anni 1906-1911, di affrontare in tre grossi
volumi l’intera vicenda della sistemazione intellettuale-scientifica della tradizione
religiosa cristiana -a partire dalla Patristica fino alla Seconda Scolastica (XIII secolo)- lo
studioso bavarese ha pubblicato diverse opere di preparazione al terzo volume: esso non
fu mai scritto, ma è interessante che del suo ultimo libro, Die theologische Erkenntnis-
und Einleitungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund seiner Schrift “In Boethium de
Trinitate”, l’autore stesso ebbe a dire che era da considerarsi come l’Ersatz parziale del
terzo volume della Storia del metodo scolastico18.
16 M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo san Tommaso d’Aquino e le relazioni della fede e della teologia con la filosofia e le scienze profane, Riv. fil. neosc., XXVI, 1934, 127-155, 129. 17 Cf M. Grabmann, Die Werke des Hl. Thomas von Aquin, Verlag der Ascendorffschen, Münster 1931², 312. Traduz. nostra. 18 Die theologische Erkenntnis- und Einleitungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund seiner Schrift “In Boethium de Trinitate”, Paulusverlag, Freiburg i. d. S. 1948, XI: “Das ganze Werk kann auch als ein Ersatz für den fehlenden dritten Band meiner Geschichte der scholastischen Methode, wenigstens was den hl. Thomas anbelangt, betracht werden”. Il sottotitolo dell’opera recita: Im Zusammenhang der Scholastik des 13. und beginnenden 14. Jahrhunderts dargestellt: egli ha infatti trattato l’opera in rapporto ai commenti di altri autori medievali (primo fra tutti quello di Bernardo di Trilia), volendo sottolineare maggiormente l’apporto storico del commento dell’Aquinate rispetto al mondo culturale della Seconda Scolastica. È molto interessante la ricostruzione che del piano di quest’opera fa Mario Dal Pra nella sua Presentazione all’edizione italiana della Storia del metodo scolastico, cit. Egli inquadra la trilogia grabmanniana nel più ampio contesto dell’intera sua produzione, di cui quella costituisce come il perno e lo scopo precipuo. Inoltre, egli avverte che parte delle conquiste teoriche del Grabmann sono ovviamente datate, visti i nuovi studi e le nuove scoperte relativamente al materiale bibliografico; ma alcune assunzioni restano tuttora classiche e anche metodologicamente valide. Prima fra tutte l’idea rivoluzionaria che tra Patristica e Scolastica non vi fu cesura ma continuità, “almeno sotto il profilo fondamentale dell’elaborazione dottrinale-teologica del cristianesimo” (XV). In definitiva si può concludere che “il significato dell’opera, nella sua lezione così vera, documentata e genuina del Grabmann, non pare proprio ancora coinvolto dal tempo o prossimo al tramonto” (XXIII).
11
Come rileva Chenu, componendo il suo commento al De Trinitate san Tommaso ha
formulato il suo “discorso sul metodo”, in linea con una tradizione di pensiero continuata
e conservata da Gilberto de la Porrée e Alano di Lilla. Lo stesso Boezio era stato a sua
volta maestro di metodo per tutta la scuola di Chartres e per la scolastica in generale, per
le quali la concezione e l’insegnamento metodologici boeziani significarono una vera e
propria rivoluzione. Lo Chenu inoltre sottolinea che la posizione epistemologica di
Boezio è enunciata nel modo più esplicito proprio nel De Trinitate, “opuscolo
propriamente teologico, in cui, quindi, questo discernimento dei metodi è elaborato a uso
e consumo dei teologi”19: Boezio era convinto che la teologia avesse un suo proprio
metodo specifico20, che segue e al contempo trascende le leggi delle scienze umane21.
Questa convinzione è accolta e sviluppata fino alle sue estreme conseguenze da san
Tommaso, per il quale l’essere dell’oggetto proprio di una scienza è un tutt’uno con il
modo in cui questa scienza procede nella conoscenza di questo stesso oggetto: “quando
san Tommaso parla di modus scientiae si colloca nella prospettiva metafisica propria di
chi indaga l’essenza e il ‘modo d’essere’ di un determinato ente.”22
Il Neumann nel suo Gegenstand und Methode23 limita al solo secondo capitolo
l’importanza rivestita dall’opuscolo boeziano per san Tommaso. Si tratta in effetti di un
capitolo centrale, ma il cui contenuto non rende ragione di ciò che precede e di ciò che
segue. La domanda centrale da cui sarebbe scaturito tale interesse è: “Cos’è la metafisica
19 Ibidem. 20 Conviene chiarire una volta per tutte che presso i medioevali –e san Tommaso come vedremo non fa eccezione- mancava il vocabolo da cui deriva il nostro ‘metodo’: essi infatti utilizzarono con profitto il termine ‘modus’ per indicare il metodo della scienza, che traduce letteralmente il greco ‘tropos’. L’assenza del segno verbale corrispondente a quello moderno non significa peraltro che mancasse il concetto corrispondente: “anzi ci sembra che la ricchezza semantica del termine modus abbia consentito agli scolastici di disporre di un semantema estremamente duttile, applicabile alle molteplici sfumature implicate dal concetto di metodo” (cf G. Galvan, Il concetto di modus scientiae nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, cit., 191). 21 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1995³, 173. 22 G. Galvan, cit., 195. 23 S. Neumann, Gegenstand und Methode der theoretischen Wissenschaften nach Thomas von Aquin aufgrund der ‚Expositio super librum Boethii De Trinitate’, Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, Münster 1965.
12
e come è possibile?” La risposta di san Tommaso dipenderebbe a sua volta dalla
convinzione che “la metafisica è mediata dalla teologia”24. In conclusione della sua
analisi lo studioso ritorna sul tema metafisico, diffondendosi sulla distinzione tra l’essere
della metafisica e quello della teologia che seguono la distinzione sempre ben chiara in
san Tommaso tra fede e ragione. Egli parla della costituzione di una ‘metafisica
dell’infinito’ che non può contrastare con la fede, quando questa resti intrinsecamente
legata al trascendente. Una metafisica così intesa che negasse -o meglio rinnegasse- i
presupposti della fede, eliminerebbe non solo la possibilità della metafisica ma anche la
sostanza della fede umana.
La metafisica tenta di rivelare l’essere –nel quale essa ha il suo oggetto- attraverso il
metodo appropriato. Oggetto della metafisica in questo senso è allora l’essente,
attraverso cui l’essere della metafisica può essere espresso: cioè l’uomo. Assieme alla
metafisica è in questione anche l’uomo. Perciò, la domanda circa i principi costitutivi
dell’essente è al tempo stesso la domanda circa il principio della conoscenza: l’ontologia
è cioè in ultima analisi metafisica della conoscenza. Vedremo nel corso dell’analisi del
testo i passaggi di questa complessa e affascinante dottrina metodologica25.
Padre Elders, nella sua introduzione all’expositio di san Tommaso26, ha sottolineato
l’importanza del metodo nell’ambito di questa trattazione. Secondo lui “lo studio
dell’Expositio in Boethii De Trinitate non solo ci permette di acquisire conoscenza del
metodo seguito da san Tommaso nei primi anni della sua carrirea scientifica, ma ci
mostra anche come egli risolse alcuni dei problemi più difficili. In prima fila tra questi
c’erano la questione della relazione tra fede e ragione nell’attività scientifica, quello del
24 S. Neumann, Gegenstand und Methode, cit., VII-VIII. Traduz. nostra. 25 Cf ibid., 161-8. 26 L. Elders, Faith and Sciences. An Introduction to St. Thomas’ “Expositio in Boethii De Trinitate”, Studia Universitatis S. Thomae in Urbe, Herder, Roma 1974.
13
principio di individuazione come pure il problema della natura, divisione e metodo delle
scienze teoretiche”27.
Altro studioso che si è occupato di quest’opuscolo è Armand Maurer. Egli ne ha curato a
distanza di un quarto di secolo due distinte edizioni: la prima delle questioni 5 e 6 è del
1963, l’altra delle prime quattro risale al 198728. Già questo fa riflettere sulla sua visione
‘scissa’ della concezione scientifica dell’Aquinate in questo commento. Secondo il
Maurer la prima metà dell’opuscolo ribalta la concezione tradizionale della teologia: “la
teologia per lui, come per i Padri della Chiesa, era una riflessione sui misteri di fede per
ottenere una comprensione di ciò che egli credeva, ma questa riflessione e comprensione
prendevano ora la forma di una scienza, o meglio di una sapienza, modellata quanto più
fedelmente possibile sulla nozione aristotelica di scienza”29. Inoltre, “il suo obiettivo era
una conoscenza ontologica piuttosto che empirica. (…) Il centro di attrazione per san
Tommaso (…) non era la scienza empirica o matematica, ma piuttosto la conoscenza
ontologica o filosofica, che attiene al profondo essere e alla struttura intelligibile delle
cose”30.
Lo studioso che ha intrapreso l’intepretazione a nostro avviso più interessante è lo Hall31,
il quale ha gettato una luce decisamente nuova sul connubio tra metodologia della
metafisica e metodologia di una teologia sistematica della Trinità, sintesi magistralmente
espressa nelle pagine del presente Commento. Egli dedica un’introduzione ampia e
dettagliata ai diversi aspetti illuminati dall’opuscolo, in particolare sottolineamo la sua
attenzione per il riemergere della questione del metodo nella riflessione contemporanea.
27 Ibid., 3. Traduz. nostra. 28 Rispettivamente: The division and methods of the sciences, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1963; e: Faith, Reason and Theology, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1987. 29 A. Maurer, Faith, Reason and Theology, cit., IX. Traduz. nostra. 30 A. Maurer, The division and methods of the sciences, cit., X-XI. Traduz. nostra. 31 D. C. Hall, The Trinity. An Analysis of St. Thomas Aquinas’ Expositio of the De Trinitate of Boethius, Brill, Leiden, 1992.
14
Definisce il metodo “la questione fondamentale nella scienza e nell’arte” e cita Nietzsche
secondo cui “i metodi sono le verità più preziose32”.
Le principali correnti del XX secolo che hanno interpretato la teologia trinitaria
dell’Aquinate si possono a suo avviso riassumere in tre grandi movimenti: i
partecipazionisti, i trascendentali e gli analogici, che condividono tutti una metodologia
storico-critica e che secondo lo Hall non sono vere e proprie scuole ma “tematiche”
centrali attorno alle quali si raccolgono diversi gruppi di teorici.33Ognuna delle tre
correnti ha sottolineato alcuni aspetti dialettici della dottrina trinitaria34che lo Hall si
chiede come sia possibile integrare gli uni con gli altri in una sintesi delle diverse
posizioni e nota che la via è quella della metodologia teologica: “si può constatare che la
metodologia (…) portata a compimento dall’Aquinate integra le metodologie dei
partecipazionisti, dei trascendentali e degli analogici, insieme con le interazioni
profondamente dialettiche osservate in ciascuna.”35
Si trattava, in altri termini, dell’an sit e del quid sit della ‘scienza divina’ e la prospettiva
che rinveniamo presso san Tommaso considera entrambi i livelli di lettura, di modo che
con questa sua opera giovanile egli si propose di rispondere a queste sollecitazioni
accolte e rielaborate con ineguagliati sensibilità storica e genio personali.
32 Ibid., 7-9. 33 Ibid., 3. 34 I primi propendono di più per la partecipazione del soggetto umano col divino attraverso l’intelletto agente; l’aspetto centrale della “partecipazione soprannaturale” è invece l’ingresso del soggetto umano in una ‘soggettività inter-personale’ con le persone divine; infine assistiamo all’emergere di una revisione di nozioni generalmente accettate nella filosofia dell’Aquinate, come il concetto di “analogia”, la cui esposizione studiosi del calibro di Fabro e Geiger vedono possibile solo sulla base della partecipazione. I due principali filoni di ricerca sono dunque quello partecipazionista e quello trascendentale: i primi dicono che l’Aquinate ha prodotto “una sintesi di Aristotele e del neoplatonismo plotiniano, con il risultato che essa può a volte essere chiamata aristotelismo specificato dal platonismo, e a volte un platonismo di base specificato dall’aristotelismo; per tutta questa discussione cf D. C. Hall, The Trinity, cit., 3-7 e 112-5. 35 Ibid., 7.
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In merito alla dottrina esposta da san Tommaso sul mistero della Trinità lo Hall parla di
agnosìa, un’improvvisa afasia che ad un dato momento costringe il teologo a fermarsi di
fronte all’inspiegabile36.
Ci siamo però chiesti come possa l’agnosìa spiegare la ricchezza dell’impianto
scientifico e razionale messo su dall’Aquinate. Per correggere questa prospettiva daremo
quanto più possibile il quadro e le dimensioni di questo sforzo, frutto della fiducia nella
possibilità data all’uomo di indagare il mistero. Un mistero, quello trinitario, che si rivela
e –rivelandosi- genera conoscenza. Una conoscenza a sua volta sui generis, che sfocia -
come cercheremo di mostrare- nella mistica. Tra le risposte date dai moderni ai diversi
interrogativi posti dalla scienza del Medioevo il Grabmann menziona proprio la
“contrapposizione reciproca e identità fra Scolastica e mistica”, e noi cercheremo di
vedere la soluzione data da uno dei massimi protagonisti di quella stagione culturale.
Cercheremo di vedere come per l’Aquinate il mistero non è assenza di conoscenza, ma
presenza di un ineffabile: in questo senso esso non è gabbia del metodo scientifico, ma
domanda di una via nuova e insospettata di conoscenza. In generale possiamo dire che il
metodo tomistico si pone come recupero di tutta la tradizione precedente e come
valorizzazione –al suo interno- di tutto ciò che, sottoposto al vaglio della ragione, risulta
utile alla sua sintesi teologica.
Partiremo perciò da una serie di premesse di carattere storico-monografico,
indispensabile per collocare l’operetta tomistica nell’ambito delle urgenze che furono
all’origine della sua composizione.
36 Ibid., 119-120. Stupisce, ma non troppo, l’atteggiamento censorio di alcuni rispetto a questa idea dello Hall. In particolare Pasquale Porro (Commenti a Boezio, Rusconi, Milano 1997, 42 nota 7) al quale non sembra condivisibile l’affermazione secondo cui il commento sarebbe rimasto incompiuto a causa della agnosìa e “la convinzione che la parte non sviluppata avrebbe rappresentato in qualche modo la transizione verso una conclusione più squisitamente teologica”.
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Lumeggeremo poi alcuni aspetti che sono presenti nel testo, a volte in filigrana, e che
rappresentano quasi altrettanti tasselli che lo stesso Aquinate seppe rielaborare e riunire
nell’ambito della sua concezione metodologica.
“Age igitur ingrediamur…”!
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Capitolo I: da Boezio a san Tommaso.
1. Boezio.
“Boezio: ultimo dei Romani e primo degli Scolastici”. L’espressione è di Martin
Grabmann37 e “riecheggia un famoso giudizio che su Boezio pronunciò nel XV secolo
l’umanista Lorenzo Valla: questi vedeva in Boezio un uomo dallo stile e dalla filosofia
intaccati da barbarismi, ma nonostante questo gli riconosceva il diritto di essere
proclamato l’ultimo scrittore classico in latino”38.
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio lavorò tutta la sua vita d’infaticabile
intellettuale all’accordo tra cultura pagana e cultura cristiana, vecchio e nuovo, filosofia e
teologia, metafisica e sacra doctrina. La sua grande influenza sulla scientia christiana si
diffuse dapprima nei monasteri e poi nelle scholae. Ingegno universale, teologo, filosofo
e anche poeta (come testimonia iI suo De Consolatione philosophiae, misto di prosa e
poesia), non poté portare a termine il suo progetto di conciliare Platone e Aristotele sul
comune terreno della lingua latina. Preparò tuttavia la strada alla conciliazione di
filosofia e teologia, sulla base di una filosofia dell’ente che con qualche variazione ha
attraversato l’intera scolastica. Egli fece parte di un gruppo di pensatori che costituirono
una cerchia, se non una vera e propria scuola. Si tratta dei cosiddetti pensatori
37 “Boezio, l’ultimo Romano, il primo Scolastico” è il titolo della terza parte della sua Storia del metodo scolastico, cit., 18, la cui origine è spiegata alla fine del medesimo paragrafo. 38 Cf H. Chadwick, Boezio, cit., 9. Chenu conferma tale giudizio, dipingendo Boezio come “creatore di un vocabolario” e “traduttore-modello”, e aggiunge che “Boezio fu il primo a insegnare all’Occidente a parlare il latino barbaro . Simile impresa, sempre delicata, doveva assumere, nel campo della filosofia e delle sue tecniche, una grande importanza, nella misura in cui la lingua latina era (…) molto povera”: La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 164-165.
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dell’Occidente latino dei secoli IV e V che “divennero quasi tutti cristiani; tuttavia essi
non operarono (se si eccettuano Vittorino e Boezio) veri e propri tentativi di sintesi tra
platonismo e Cristianesimo, ed ebbero importanza (talora assai grande) soprattutto come
intermediari tra l’antichità e il Medioevo”39. Chenu ha chiamato il XII secolo ‘Aetas
Boetiana’ e, se non si può dire lo stesso del XIII secolo, Boezio continuò ad influenzare,
direttamente e indirettamente, il pensiero medievale, ed è ormai universalmente
riconosciuto che la sua influenza sul sapere medievale fu paragonabile solo a quella di
Aristotele.
La migliore presentazione del piano dell’opera di Boezio viene dal suo stesso artefice:
“Ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit, in
Romanum stylum vertens, eorum omnium commenta latina oratione
perscribam, ut si quid ex logicae artis subtilitate et ex moralis gravitate
peritiae et ex naturalis acumine veritatis ab Aristotele conscriptum est,
id omne ordinatum transferam, atque id quodam lumine
commentationis illustrem, omnesque Platonis dialogos vertendo vel
etiam commentando, in latinam redigam formam. His peractis non
equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam
quodammodo revocare concordiam, et in his eos non ut plerique
dissentire in omnibus, sed in plerisque quae sunt in philosophia
maxime consentire demonstrem”40.
La cultura del quinto-sesto secolo è ancora sostanzialmente quella che la civiltà
grecolatina aveva elaborato in lunghi secoli, nei quali la sua alleanza con il paganesimo
sembrava naturale e inscindibile. È tuttavia già avanzato quel processo di assimilazione
da parte del pensiero cristiano degli elementi meno compromettenti della cultura classica.
Ha inizio così la formazione di un’autentica cultura cristiana di cui Boezio è “una punta
39 G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 1981, vol. IV, 623. 40 Comm. in librum Perihermeneias, ed. II, l. 2, c. 3, C. Meiser, vol. II, B. G. Teubneri, Lipsia 1880, 79-80. MPL 64, 433D.
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di diamante”41. Per questo egli presenta un duplice volto: si tratta in realtà di due modi di
manifestarsi della stessa personalità. Pensatore e uomo politico non si oppongono, così
non si oppongono tra loro il cristiano e il filosofo. Tuttavia, il carattere laico di alcune
teorie di teologia naturale espresse nella sua Consolatio sorprese già i contemporanei,
che ritenevano tali teorie dannose per la fede.
Ma ci si è spinti oltre mettendo addirittura in dubbio il fatto che Boezio fosse cristiano. Il
Rand, che descrive Boezio quale uno dei “fondatori del Medioevo”42, pone la questione
se egli fosse cristiano o pagano.
Il parere di altri storici invece, ci porterebbe a concludere che Boezio fu sicuramente
cristiano per famiglia e per scelta personale. Ma il problema si poneva già per gli antichi
e, riferendoci direttamente al testo oggetto del nostro esame, avremo la possibilità di
vedere anche la posizione assunta da san Tommaso. Per un certo aspetto ci è sembrato di
assistere al processo a Boezio, accusato di paganesimo e prosciolto con formula piena
dall’Aquinate. Si tratta in particolare della quaestio 3 che rappresenta una sicura specola
per l’osservazione di questo problema e che vede infatti l’ingresso di Boezio nella
discussione sulla necessità della fede e sullo statuto della religione cattolica. Gli ultimi
due articoli portano a compimento questo processo di riabilitazione: l’articolo 3 prepara
la difesa per l’arringa finale dell’articolo successivo. Esso chiede se la fede, caratterizzata
nel suo rapporto con la religione, possa essere chiamata “cattolica o universale”.
Nel testo san Tommaso fa riferimento direttamente a Boezio il quale “riconosce
entrambe queste ragioni della sua universalità”. Egli impegna a fondo la sua dottrina per
testimoniare la verità della sua fede: in questo modo non fu più filosofo che teologo.
Boezio deve perciò essere apparso all’Aquinate un mirabile esempio di credente che
offre l’omaggio della sua filosofia quale riconoscimento esterno alla fede che professa.
41 L. Obertello, Severino Boezio, cit., 766. 42 E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, Dover Publications, New York 19572, 135-180. L’autore chiama Boezio ‘the first of the scholastics’ e dedica a tutta la sua opera ampia attenzione e riconoscimento.
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Ma ancora nel terzo articolo la posizione di Boezio risulta equivoca: non definita era
anche la posizione di san Tommaso sulla sua cristianità. La Sacra Scrittura –che è
secondo sant’Agostino “il fondamento della religione cattolica” (De vera religione)-
afferma che il Padre e il Figlio sono tra loro differenti e, stando a Boezio, che “dalla
disuguaglianza tra le tre persone segue la pluralità delle diversità”. La posizione di
Boezio non sarebbe propria, dunque, della religione cattolica, in quanto conduce ad
affermare che esistono diversi dèi. San Tommaso conferma con ben undici argomenti
scritturali che è propria dell’ortodossia cristiana la tesi della ‘inequalitas’ delle tre
Persone divine da cui discende l’inequivocabile eterodossia del punto di vista boeziano.
Invece, all’ultima obiezione, secondo la quale “la posizione che Boezio espone non
sembra essere quella propria della fede cattolica”, san Tommaso risponde che la
successione cronologica dell’origine del Figlio e dello Spirito Santo dal Padre non
implica alcuna forma di disuguaglianza nella Trinità.
Questa la posizione di san Tommaso, che risolve sul terreno della controversia dottrinale
un problema comune alla sensibilità storica medievale. Ma qui è in gioco a nostro avviso
un’altra questione fondamentale che incide nel confronto con san Tommaso:
l’importanza di Boezio -logico, traduttore e introduttore coi suoi commenti del corpus
aristotelico- era oscurata dal marchio di ‘tiepido credente’ che il filosofo romano si era
guadagnato con la Consolatio, suo laico testamento spirituale43.
Condannando gli Ariani come eretici san Tommaso prende decisamente le difese di
Boezio. In realtà l’oggetto della controversia poteva ancora solo sembrare l’Arianesimo
in conflitto con l’ortodossia sul dogma trinitario. Ci siamo chiesti quale importanza
43 Abbiamo sin’ora tacitamente accolto questa visione, ma ci sembra giunto il momento di correggerla con qualche utile osservazione. Lo Chenu ridimensiona questa prospettiva dicendo che, pur avendo la Consolatio di che accrescere le riserve dei credenti sulla filosofia boeziana, essa offre, al di là delle questioni propriamente teologiche, delle validissime risorse di cultura cristiana. A questo punto lo studioso rimanda agli storici che “hanno largamente analizzato le manifestazioni e l’efficacia di questo umanesimo , nel patrimonio dell’intera Cristianità” [basti pensare a Dante, che noi citiamo poco oltre] (cf La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 177).
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potesse rivestire affrontare una controversia dottrinale ormai risolta, almeno sul piano
dell’ortodossia, più di nove secoli prima; e per questo abbiamo voluto leggere l’intera
questione come la ‘riconquista’ di Boezio all’ortodossia, che in seconda battuta acquista
così conferma e prestigio anche dall’ossequio di un logico della sua levatura.
Ma al di là della sua filosofia, riservata agli intellettuali, la leggenda accolta da tutti i
medievali testimonia del credito religioso goduto da Boezio. Secondo tale leggenda,
Boezio è venerato come un martire della persecuzione di Teodorico, presso il quale egli
sarebbe improvvisamente caduto in disgrazia44.
Dante tra gli altri, di cui è nota la stima e la familiarità alle opere del filosofo, dice di lui:
“per vedere ogni ben dentro vi gode / l’anima santa che ‘l mondo
fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode / lo corpo ond’ella fu cacciata
giace / giuso in Cieldauro; ed essa da martiro / e da essilio venne a
questa pace”.
(Paradiso, X, 124-129)
Nei due vocaboli santa e martiro Dante consacra il culto quasi religioso con cui il
Medioevo onorò Boezio, un santo, per così dire, non ufficiale. In realtà sono incerti gli
esatti limiti della formale adesione di Boezio alla religione cattolica: l’ispirazione di
fondo si può sicuramente definire cristiana sebbene egli, neoplatonico per orientamento
filosofico, abbia attinto alla dottrina etica dello stoicismo romano. Gli studi più recenti
hanno invero dissipato molti dei dubbi e delle riserve sulla ‘proclamazione’ di Boezio
non già tra i martiri misconosciuti dalla Chiesa ufficiale, quanto tra gli aderenti ad una
fede intimamente accettata e pubblicamente difesa.
44 Lo Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 174, rimanda agli Acta Sanctorum, Maii, VI (1688), 702-710.
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Resta il fatto che nel XII secolo era un sentimento comune a tutti l’idea della fedeltà di
Boezio alla Chiesa; Abelardo per tutti testimonia di tale convinzione: “(Boethius…)
fidem nostram et suam, ne in aliquo vacillaret, (…) inexpugnabiliter astruxit”45.
Il cristianesimo di Boezio non può però essere considerato un problema avulso dalla sua
opera istituzionale, e abbiamo già visto il suo impegno civile nella politica di
riavvicinamento tra Chiesa cattolica occidentale e ortodossa orientale, né dal suo
ricchissimo patrimonio letterario e di pensiero. Forse proprio tenendo presente la
complessità della sua figura, lo Chenu ha indagato se Boezio possa essere definito
teologo46. La domanda sorge, in effetti, quando si consideri che, più che le sue opere
logiche, furono letti e commentati i suoi Opuscula theologica. Ma, rileva lo Chenu, nel
XII secolo Boezio inizia ad essere chiamato con l’appellativo di ‘philosophus’: più
precisamente egli era stato “magis philosophus quam theologus”, e un secolo prima di
san Tommaso sulla bocca dei credenti non si trattava ancora di un complimento, ma di un
uomo non illuminato dalla luce della fede, non toccato dalla grazia divina. Gli agostiniani
soprattutto rivolsero quest’accusa a Boezio, quale filosofo che conseguiva traguardi
meramente e autonomamente razionali “in margine alla sua fede.” Abbiamo anche
traccia di una pesante sedimentazione di questa condanna: “Boezio sarà annoverato tra
quanti, per apprendere in un attimo le scienze (…), si sono consegnati al demonio”.
Dunque, il fatto che Boezio fosse cristiano non è stato da subito posto fuori discussione
e, data la natura del suo corpus theologicum, “si comprende facilmente come la
45 Theol. christ. , I; PL 178, 1165. Ci sembra interessante vedere come si pose, di fronte all’opera filosofica di Boezio una delle scuole più prestigiose del XII secolo: “il problema della creazione, dell’esigente nozione di un Dio creatore e non solamente demiurgo provvidente, si poneva ai commentatori della scuola di Chartres. Adottarono deliberatamente una esegesi favorevole, peraltro fondata su una tradizione stabilita già dalla scuola di Auxerre, nel IX secolo. Così Boezio è qui considerato, anche tra i ‘filosofi’, come totus catholicus” (M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 176-7). 46 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XII secolo, cit., 174-177.
23
discussione della loro autenticità sia strettamente connessa con quella dell’adesione o
meno di Boezio al Cristianesimo”47.
Gli studiosi rigidamente contrapposti, soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, da un
lato sostenevano il Paganesimo di Boezio, dall’altro la radicata Cristianità del suo mondo
spirituale. Educati alla conoscenza del Boezio laico del De consolazione e dei commenti
aristotelici, gli studiosi odierni hanno accettato solo alla luce di prove inequivocabili48
l’autenticità di opere così schiettamente religiose quali i cinque trattati in questione.
L’Obertello conclude che l’autore dei trattati teologici “è un buon cattolico, che ha un
vivo interesse per la dialettica, e sottolinea opportunamente la distinzione tra la ratio
umana e la fides rivelata”49.
Ci permettiamo di suggerire che il punto non sta nel riconoscere alla luce di estenuanti e
sottili ricerche un cristianesimo boeziano tirato per i capelli, si tratta invece di prendere
atto del momento storico in cui due patrimoni culturali diversi per maturità e origine si
incontravano e si davano il cambio sulla scena del decadente Impero Romano.
47 L. Obertello, Severino Boezio, cit. 252; cf anche 332. 48 Quali il ritrovamento nel 1877 di un frammento attribuito a Cassiodoro, dove vi è l’esplicito riferimento ai “capita quaedam dogmatica” di Boezio; cf l’operetta dello Usener, cit. 49 Ibid., 261. La questione appena accennata circa l’autenticità degli opuscoli teologici di Boezio è nata in ambito moderno. In generale si può dunque dire che essa non fu messa in dubbio nel Medioevo, così come neppure il credito dato a Boezio quale massimo uomo di cultura del suo tempo, malgrado i sospetti contro Boezio ‘filosofo’. Fu solo un certo sospetto di naturalismo a ridurre nel XII secolo, e soprattutto negli ambienti agostiniani, il credito tradizionale degli opuscoli. La loro paternità è stata, invece, al centro di infuocate discussioni (almeno per quanto riguarda i trattati I-III e il V, essendo quella del quarto trattato ancor’oggi molto dubbia), discussioni oggi quasi del tutto sopite; ma il fatto che siano state in passato largamente accolte dimostra che la “sistemazione” degli opuscoli teologici nel quadro del pensiero e dell’opera di Boezio non si può ritenere né facile né pacifica. Il Jourdain ritiene profana l’ispirazione dominante del De consolatione e il cristianesimo del filosofo la logica conseguenza del suo Platonismo, che è secondo lui “la prefazione del Vangelo”. Di qui anche il dubbio sulla paternità boeziana dei cinque opuscula sacra e il fatto che i suoi contemporanei non annoverassero Boezio tra i sostenitori della fede cristiana. Per quanto riguarda le argomentazioni di quanti negano l’appartenenza di questo gruppo di opere a Boezio, non potendo “oggi essere sostenute più a lungo” (Obertello, cit., 332), rimandiamo all’esposizione esauriente che ne fa lo Usener alle pp. 48-59 dell’opera citata. Riportiamo soltanto l’idea di questi circa i trattati che interessano in questa sede: “Die beiden Abhandlungen über die Dreieinigkeit (Tr. I e II) sollen jünger als B. (scil. Boetius) sein, obwohl anerkannt wird, dass das darin behandelte Problem in die Zeit des B. allenfalls passe“. Facciamo solo ancora notare che, a differenza di quanto afferma Obertello (cit., 253) e sulla scorta del giudizio dello Usener che risale al 1969, la discussione sulla paternità boeziana degli opuscula sacra non è limitata al secolo scorso né si è oggi spenta.
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Dimostrare alla luce della sola ragione verità soprannaturali era consuetudine certo non
inventata da Boezio, ma di tutta l’apologetica che lo aveva preceduto. L’impegno di
Boezio fu il campo prettamente speculativo? Forse, ma resta il suo ideale di ‘conciliare
ragione e fede’50 e “la precisa finalità pratica di confutare talune posizioni ereticali”51.
Nella loro introduzione all’opera di Boezio lo Stewart e il Rand così si esprimono: “Se ci
si chiede perchè la Consolazione della filosofia non contiene alcuna traccia di riferimenti
diretti alle dottrine che sono sviluppate nei trattati con mano così sicura e che sono al
massimo all’interno di un’armonia con la Cristianità, la risposta è semplice. Nella
Consolatio l’autore scrive di filosofia, nei trattati di teologia. (…) La filosofia appartiene
ad un ordine, la teologia ad un altro. Essi hanno oggetti differenti. Quello della filosofia è
capire e spiegare la natura del mondo attorno a noi; l’oggetto della teologia è invece
capire e spiegare dottrine offerte dalla rivelazione divina”52. Riteniamo che sia questa la
strada giusta anche per la comprensione del metodo utilizzato da Boezio nello scrivere le
sue opere teologiche.
50 Cf la chiusa dell’Utrum Pater et Filius, ed. Stewart-Rand, 36. Traduz. nostra. 51 L. Obertello, Severino Boezio, cit., 770. 52 Ed. Stewart-Rand dei Trattati teologici, XIII-XIV.
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2. Il De Trinitate di Boezio53.
Il De Trinitate di Boezio (521-522) è il primo dei cinque opuscula theologica attribuiti a
quest’autore. Ma, sia pur citato come primo in quasi tutti gli elenchi dei cataloghi, esso fu
scritto dopo il Secondo Trattato ed estende l’argomento presentato nell’opera precedente.
Li accomuna, inoltre, l’intento dichiarato di scrivere per una élite di tecnici “già addentro
a questi problemi”54.
Grazie allo studio dello Schurr55, possiamo individuare il quadro storico entro il quale
essi furono concepiti: la cosiddetta controversia teopascita. “Sappiamo che Boezio era
stato indotto ad un’approfondita analisi della dottrina della Trinità dalla controversia
‘scita’ che era essenzialmente trinitaria e cristologica. Egli dedicò a questi problemi
alcuni trattati teologici, e soprattutto il de Trinitate”56. Tale collocazione ci fornisce
innanzitutto la sicura indicazione cronologica secondo la quale il primo e il secondo
trattato furono scritti negli anni immediatamente precedenti al 523, nel pieno cioè dello
sviluppo della controversia. Essa si estende nel suo complesso tra il 512 e il 521,
esattamente il periodo che abbraccia la stesura di tutto il corpus teologico boeziano.
Inoltre, come già accennato e contrariamente a quanto sostenuto dalla maggior parte
degli studiosi, Schurr pospone la stesura del De Trinitate a quella dell’Utrum Pater et
Filius, vista la chiarezza d’esposizione di quest’ultimo e la struttura più elaborata e
‘sofferta’ del primo.
53 Nel corso del nostro studio ci riferiamo per praticità alla redazione del testo riportata da san Tommaso e che giunge fino alla riga 21 del secondo capitolo; per le citazioni dal resto dell’opera, invece, alla traduzione italiana della Consolatio philosophiae e degli Opuscoli teologici,cit., 357-377. 54 Cf la lettera introduttiva del I Trattato e la conclusione del secondo. 55 V. Schurr, Die Trinitätslehre des Boethius im Lichte der skytischen Kontroversen, Ferdinand Schöning Verlag, Paderborn 1935. 56 L. Obertello, cit. 276.
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Ciò dimostra dunque che Boezio è tornato sullo stesso argomento già trattato nell’Utrum
Pater et Filius con il contributo di un trattato, il De Trinitate, arricchito dalla riflessione
personale dell’autore stesso. Il De Trinitate è perciò opera più matura e completa, dove
tra l’altro Boezio utilizza a fondo ciò che ha appreso e fatto proprio della dottrina di
sant’Agostino. Si consideri, inoltre, il fatto che Boezio dedica questo trattato a Simmaco,
all’attenzione del quale egli è solito sottoporre le versioni più complete dei suoi lavori.
Come già accennato, lo Schurr ha indagato a fondo e in maniera completa l’occasione in
cui furono scritti in particolare i Trattati I, II e V e l’ha collegata alle controversie
religiose che laceravano la Chiesa di quel tempo e alle circostanze che portarono
all’incarcerazione e alla tragica fine di Boezio. Queste ultime sono ancora avvolte dal
mistero dell’incertezza dei dati in nostro possesso. Ciò che si è cercato di stabilire da
parte degli storici è, innanzitutto, la serie di fatti che determinarono la sua caduta in
disgrazia presso il re ostrogoto Teodorico nel giro di soli due anni (522-524) fino alla
condanna a morte.
Avanzata dal Rand57, la tesi dell’intreccio di vicende ora politiche ora teologiche è stata
definitivamente dimostrata dallo Schurr “in uno studio58 che rimane a tutt’oggi il
contributo più vigoroso alla precisazione del contesto politico religioso in cui si
collocano gli ‘antefatti’ della caduta di Boezio”59. Boezio prese dunque parte, anche
politica, alle dispute dottrinali del suo tempo, ma il quadro non sarebbe completo se non
57 E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, cit., cap. V, nota 75: “The importance of the theological aspects of the case has become ever plainer in recent years. Thus Bury, in his edition of Gibbon (London, 1901), could remark in a note (IV, 201): ‘The condemnation of Boethius and Symmachus had nothing to do with religion, so that they are in no sense martyrs’. But in his History of the Later Roman Empire (London, 1923), I, 156, he admits that the execution of Boethius and Symmachus probably ‘had some connection with an Imperial edict which was issued about this time…’”. 58 Il riferimento è al suo Die Trinitätslehre des Boethius..., cit. 59 L. Obertello, Severino Boezio, cit., 42, nota 3.
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si tenesse conto della “natura dei suoi rapporti con Teodorico, con il Senato, con
Simmaco, con il suo circolo, con la corte papale e con la corte di Bisanzio”60.
Ciò che qui importa dire è che Boezio scrisse i suoi trattati trinitari spinto
originariamente non dalla teologia partigiana, bensì dall’interesse scientifico personale di
indagare in maniera speculativa e metodica sulla Trinità”61. Egli struttura infatti il suo
trattato “in maniera rigorosamente logica: Padre, Figlio e Spirito Santo sono un Dio, non
tre dèi. Così insegna la Religione cattolica. La ragione cerca di penetrare in questo
insegnamento di fede e ricerca in Dio l’Unità (cap. 1-3) e la Trinità (cap. 4-5), tentando
poi di formulare una sintesi finale (cap. 6)”62.
60 Ibidem. Non ci soffermiamo sulle complesse controversie religiose e sulle altrettanto complesse vicende ad esse legate, per le quali rimandiamo al già citato lavoro dello Schurr. Non possiamo però non dire almeno che Boezio visse tutto il dramma dello sfacelo dell’Impero Romano d’Occidente e del tentativo di quello orientale di Bisanzio, di costituzione relativamente più recente, di riunirsi alla primitiva origine dell’Impero. Ciò avveniva con segno inverso nell’ambito culturale: si trattò del tentativo della civiltà latina di far propri gli elementi essenziali dell’antica cultura greca. Protagonista della prima impresa fu Giustiniano, della seconda Boezio. 61 V. Schurr, cit., 221. 62 Ibid., 78.
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3. Il Commentarium di san Tommaso63.
L’opera –scritta da san Tommaso nel torno d’anni 1256-5964- consta della redazione
(incompleta: Proemio e primi due capitoli) del testo di Boezio, del commento letterale
vero e proprio (expositio textus) e di sei questioni suggerite dal testo di Boezio e che, in
gruppi di due, costituiscono la disputatio rispettivamente al Proemio, al primo capitolo e
all’inizio del secondo.
Ogni questione è poi ripartita in quattro articoli, per un totale di 6 questioni e 24 articoli.
Ogni articolo segue la struttura classica della disputa: per ciascun tema proposto,
vengono esposti inizialmente gli argomenti -‘obiezioni’- a favore di una possibile
soluzione (normalmente quella rigettata dall’autore), e poi gli argomenti a favore della
soluzione opposta -‘sed contra’; seguono quindi l’esposizione della propria soluzione al
quesito (‘responsio’) e la replica a tutti gli argomenti prima presentati a favore della
soluzione scartata (‘ad argumenta’).
Questa disposizione -come confermano ad esempio le quaestiones disputatae del de
Veritate- si era consolidata come vera e propria prassi d’insegnamento. In realtà, nel caso
specifico del Commento al De Trinitate è difficile stabilire se esso rifletta effettivamente
l’andamento di un corso di lezioni, o rappresenti piuttosto uno scritto elaborato da san
63 Ci siamo basati sull’edizione critica di Bruno Decker, Sancti Thomae de Aquino Expositio super librum Boethii De Trinitate ad fidem codicis autographi nec non ceterorum codicum manu scriptorum, Brill, Leiden 1965² (la prima è del 1955), che meritò l’elogio del Van Steenberghen (Le problème de l’existence de Dieu dans le commentaire de Thomas d’Aquin «In Boethium de Trinitate», 416): « Nous avons la bonne fortune de posséder, depuis un an à peine, une édition critique du commentaire De Trinitate. M. Bruno Decker mérite d’autant notre gratitude (…). Nous possédons aussi, depuis quelques années, un bon commentaire historique et doctrinal des deux premières questions, dans le dernier ouvrage du regretté Mgr Grabmann ». Quest’edizione sarà da noi citata nel corso dell’analisi semplicemente ‘Decker’. Per la traduz. it. invece ci riferiamo all’edizione a c. di P. Porro, Commenti a Boezio, Rusconi, Milano 1997. 64 Per la datazione del Commento tomistico si veda l’articolo dello Chenu La date du Commentaire de S. Thomas sur le ‘De Trinitate’ de Boèce, Revue de sciences philosophiques et théologiques, XXX, 1941, 432-4.
29
Tommaso al di fuori di qualsiasi occasione pubblica. È vero che almeno in un’occasione
del presente commento65 san Tommaso stesso si riferisce ad una delle questioni
adoperando il termine disputatio, ma potrebbe trattarsi di una indicazione generica
dovuta più che altro alla forma letteraria dell’opera. Il Decker afferma che “codices manu
scripti, quotquot titulum integrum tradunt, habent ‘Expositio’, editio princeps Didascali
‘Tractatus’ et editio Soncinatis ‘Quaestiones’”.
Non è questione oziosa o da filologi quella di determinare il genere letterario utilizzato
da san Tommaso per questo commento: se si ha la pazienza di ripercorrere le tappe del
passaggio dalla semplice glossa al testo fino alla forma più complessa della disputatio, ci
si rende conto della parallela progressiva presa di coscienza del ruolo scientifico della
teologia presso gli autori di quaestiones del XII-XIII secolo66.
Per quanto riguarda, invece, la pratica dell’expositio litteralis, sappiamo che essa è una
forma del cosiddetto commentum o commentarium che, a differenza delle altre due forme
di commento medievale -la glossa e la parafrasi- studia il testo secondo uno schema
introduttivo logico e lo spiega parola per parola e frase per frase67.
Nel commento di san Tommaso al De Trinitate di Boezio il lavoro della divisio e
dell’expositio si lega alla quaestio, che supera per contenuto ed estensione l’analisi
letterale del testo. Questo consente a san Tommaso una maggiore libertà rispetto non
tanto all’argomento, quanto alla possibilità di trattare problemi attuali e di farlo con un
metodo suo proprio, indipendentemente dall’impostazione del testo originale. Questo
commento giovanile, infatti, possiede rispetto al testo interpretato una notevole
65 “…et huius partis expositio relinquitur disputationi”, exp. sec. cap., 135a; Decker, 160. 66 Cf M. D. Chenu, Introduzione allo studio di s. Tommaso d’Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953, 66-81 e A. De Libera, La filosofia medioevale, il Mulino, Bologna 1991, 28-34, oltre alla datata ma sempre fondamentale ricerca del Grabmann già citata sul metodo scolastico. 67 Per quanto riguarda la tecnica del commentario, cf Chenu, Introduzione allo studio di s. Tommaso d’Aquino, cit., 190-2, dove lo studioso francese, introducendo i commenti di san Tommaso ad Aristotele, presenta in maniera generale le due principali modalità di commento a disposizione e la scelta personale dell’Aquinate di mantenere in tutti i suoi commenti l’interpretazione minuziosa e letterale del testo originale.
30
autonomia, se confrontato per esempio con i commenti letterali ad Aristotele. L’analisi
del testo boeziano nella sua fattispecie è affidato ad una sintetica parafrasi, mentre ad
alcune questioni di particolare interesse didattico e scientifico l’Aquinate dedica il suo
principale impegno teoretico. Tuttavia, ogni questione resta legata sempre in qualche
modo al testo di base. In conclusione: la sia pur discontinua dipendenza dal De Trinitate
di Boezio, conferisce all’opera dell’Aquinate unità di senso e solidità di costruzione.
Il commento di san Tommaso si ferma all’inizio del secondo capitolo del trattato
boeziano: considerando la struttura di quest’ultimo è chiaro che in realtà san Tommaso si
fermò prima di iniziare a trattare nello specifico del mistero della Trinità. Ad eccezione
della quarta questione, l’intero contenuto delle restanti cinque questioni si riferisce alle
domande fondamentali della conoscenza umana in generale, e della conoscenza naturale
e soprannaturale di Dio in particolare.
Da tale trattazione emerge già chiaramente l’elaborazione del rapporto tra fede e sapere
nel senso tipicamente tomistico di una chiara distinzione, ma mai separazione dei due
ordini di conoscenza.
Come nota lo Hall68 in questa expositio l’Aquinate è riuscito a formulare una particolare
sequenza dei temi trattati, quale non gli è riuscita né nella Summa contra Gentiles né in
quella Theologiae. Già il Weisheipl aveva notato che vi è come un salto tra le prime tre
questioni e le ultime due: le prime avrebbero, infatti, un carattere chiaramente teologico e
concernono ciò che si chiama sacra doctrina, mentre le ultime un carattere filosofico e
trattano delle relazioni e dei metodi delle scienze speculative. Una menzione a parte
merita per lo studioso la quarta questione, che la letteratura -salvo qualche eccezione che
noi poi vedremo- ignora nella sua peculiarità.
68 D. C. Hall, cit., 46-47.
31
Rimandando a dopo la discussione sull’incompiutezza dell’opera e concentrando per il
momento la nostra attenzione su ciò che ci è pervenuto e non su ciò che non possiamo
leggere in nessun manoscritto, ci si spalanca l’enorme ricchezza di temi che l’opuscolo
contiene. Il filo conduttore è sicuramente la conoscenza “ma dietro la difesa di un
obiettivo almeno in apparenza così limitato si può ora scorgere, in ultima istanza, la
trama essenziale della concezione che Tommaso ha ormai maturato a proposito della
forma per lui più elevata della conoscenza naturale –quella che appunto va sotto il nome
di filosofia prima”69. In realtà, come vedremo, i temi affrontati da san Tommaso spaziano
dall’ambito teologico tradizionale alle urgenze che l’attualità imponeva alla coscienza del
teologo, primo fra tutti l’impostazione del problema -strettamente connesso al suo nuovo
ruolo (magister artium)- dello statuto scientifico della teologia.
69 P. Porro, Commenti a Boezio, cit., 31.
32
Capitolo II: auctoritas e ratio.
In apertura del suo già citato lavoro sul metodo scolastico, il Grabmann presenta un
giudizio dei contemporanei citando le parole del Krüger: “Presso i nostri contemporanei
l’appellativo di Scolastico non gode buona fama. Quando sappiamo o crediamo di sapere
che uno studioso –in particolare un teologo- gravato da un passato che ha per lui valore
di autorità e senza affrontare in maniera viva i problemi dell’oggi, cerca invano di
chiarire, servendosi di un metodo vetusto, un argomento altrettanto vetusto, ebbene noi
definiamo costui uno scolastico”70. Ma lo studioso bavarese riprende subito coraggio
dalla convinzione che il metodo scolastico ha origini nella Patristica e assicura quindi
una ricchezza di nuove scoperte che ripagano la fatica e l’audacia della sua ricerca.
Prima di tutto egli avverte perciò di un vizio frequente nelle interpretazioni di tale
metodo: esso non coincide col metodo delle scuole in cui pure vide la luce. La struttura
triadica della ‘quaestio’ (obiezioni e controistanze-soluzione di principio del problema-
replica alle obiezioni) la ricchezza speculativa in particolare della Seconda Scolastica.
Il Grabmann vede nel dinamismo della relazione tra auctoritas e ratio il nerbo e il vero
significato del metodo scientifico della Scolastica. In particolare la portata del significato
della citazione d’autorità presso gli antichi è legata al connubio tra il pensiero scolastico
e il cattolicesimo, per cui l’autorità veniva a coincidere spesso con la Sacra Scrittura.
Il sodalizio tra auctoritas e ratio sarebbe poi il binomio meglio rappresentativo dell’intero
metodo scolastico, e di quello di san Tommaso in particolare, poiché quest’ultimo univa
70 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 11. Nell’introduzione a questa nostra trattazione seguiamo passim il primo capitolo di questo testo che porta il titolo ‘Il metodo scolastico e i nostri contemporanei’ (pp. 11-42).
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in sé filosofia aristotelica e dogma in un sistema teologico-filosofico universale.
L’auctoritas permetteva di utilizzare le rationes degli antichi anche nella disputatio degli
‘articuli fidei’, attraverso un riferimento consapevolmente mediato a spiegazioni
razionali consolidate dal tempo e dall’esercizio costante della ratio.
Secondo l’Aquinate auctoritas e ratio sono “i due principi motori del metodo teologico” e
spiega anche in che senso: l’auctoritas garantisce la raltà e la verità dei misteri e dei fatti
soprannaturali, mentre attraverso la ratio si cerca di penetrare nel come e nel perché di
questo contenuto di fede per conseguirne una certa conoscenza. L’auctoritas risulta
essere così la base sicura del discorso razionale che miri alla giustificazione e
comprensione della fede, allo stesso modo di come il dogma trinitario già in Boezio
rappresentava la solida base per la sua ricerca intellettuale71.
La centralità del tema così presentato non permette di prescinderne nell’ambito di una
presentazione del metodo tomistico, per quanto nel nostro caso si miri ad arricchirla d’un
risvolto originale. Per questo partiamo senz’altro dal mostrarne l’importanza nello stesso
testo del commento di san Tommaso.
L’expositio si apre col prologo di san Tommaso, che rende chiari sin dall’inizio e binari
sui quali ha intenzione di far viaggiare il suo metodo. Rileviamo innanzitutto un continuo
riferimento a passi della Bibbia, massima autorità cui normalmente un magister artium
ricorre per sostenere le sue tesi, e che qui in particolare è chiaro indizio del legame con la
sapientia christiana, che la filosofia di san Tommaso desidera mantenere.
Non a caso, il già citato incipit del prologo -“Ab initio nativitatis investigabo et ponam in
lucem scientiam illius”- è un verso del libro della Sapienza (6, 24 secondo la Vulgata):
san Tommaso parla come se la citazione sia presente nel testo stesso di Boezio e, in
effetti, la spiega in riferimento all’intero corpus teologico boeziano. Ma in realtà si tratta
71 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 50-51. Lo studioso rimanda anche ai passi relativi a questo giudizio dell’Aquinate.
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di una sua scelta, come egli stesso spiega alla fine del prologo: ricercare “dal
principio…” e non “il principio…” significa chiedersi fino a che punto può spingersi la
mente umana nell’indagare la Trinità, generazione che è “l’inizio di qualunque altra
generazione”. Ma sarà un’indagine che presupporrà come sua origine il solido
fondamento del dogma, che resta vero al di là dei risultati della nostra ricerca.
Mentre sant’Agostino si era avvalso di entrambi gli strumenti (si veda il primo libro del
suo De Trinitate), l’autorità e la ragione, per trattare della Trinità, e mentre altri santi
Padri, quali Ambrogio e Ilario di Poitiers, hanno seguito in tale trattazione la sola
autorità, Boezio ha invece scelto di procedere “secundum rationes [argomenti razionali],
praesupponens hoc quod ab alio per auctoritates fuerat prosecutum”.
Quindi san Tommaso punta l’attenzione sul termine ricercherò, “con cui si designa
appunto l’indagine razionale”. Il sapiente dunque ricerca a partire da ciò che, sulla base
della sola autorità gli ‘antiqui’ avevano detto, e lo fa non dando più nulla per scontato.
In realtà la dottrina della Trinità, che si inserisce in una tradizione teologica consolidata
già nel quinto secolo, serve a Boezio quale solida base su cui costruire il suo impianto
razionale72. Lo stesso san Tommaso lo sottolinea ed ha un valore fortemente teoretico:
ogni verità di fede può essere indagata, ma la certezza risiede altrove. D’altronde san
Tommaso cita spesso Boezio nelle sue opere e la Summa theologiae fa spesso ricorso
all’autorità del suo De consolatione e di questi saccheggia il vocabolario in merito alle
definizioni di Aeternitas, Providentia, Fatus, Beatitudine…
Il versetto citato in apertura ha, dunque, per san Tommaso un valore particolare:
corrisponderebbe al piano di lavoro che lo stesso Boezio ha elaborato rispetto al modo,
alla materia e al fine; si ha perciò l’impressione che la citazione appartenga allo stesso
Boezio, mentre esso è il filo rosso lungo il quale si sviluppa il suo commento. Per capire
72 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 207-8.
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il senso generale, qui così ben esemplificato, del modo di procedere dell’Aquinate,
dobbiamo però ora approfondire quest’indagine.
Già l’opera di Boezio ha un taglio speculativo che la distanzia dalla tradizione trinitaria
precedente. In tutto il suo De Trinitate non fa menzione di una sola auctoritas, mentre si
vede chiaramente come ogni riga dettata da san Tommaso, dalle obiezioni all’ultima
risposta, si poggia sulle autorità dei filosofi o dei Padri che l’hanno preceduto, anche se
poi corrette e personalmente interpretate. In questo senso il rapporto tra auctoritas e ratio
è uno dei leitmotiv più seguiti e discussi anche se irto di nodi tuttora irrisolti.
Chenu dice che leggendo contemporaneamente il De Trinitate di sant’Agostino e il De
Trinitate di Boezio si ha la forte impressione che qualcosa è cambiato: non l’atmosfera
culturale, troppo poco tempo intercorse tra i due, ma il clima sì, quello è diverso: si tratta
del “carattere razionale del procedere”. L’assenza di tale carattere porta Boezio a
condannare la dottrina di Eutiche e Nestorio nel V trattato: se essi hanno sbagliato è
perché non hanno saputo definire i termini di natura, persona e sostanza; così “se gli
Occidentali hanno ceduto all’eresia è perché non hanno determinato le equivalenze tra i
vocaboli greci e latini. (…) L’indizio più rivelatore di questo razionalismo teologico si
può forse trovare nella famosa regola che denuncia, tra i valori d’assenso, la debolezza
dell’argomento d’autorità: ‘Locus ab auctoritate est infirmissimus’. Certo qui Boezio
parla, nella scia di Cicerone, delle discipline razionali, non dell’ambito della fede;
tuttavia, assicurata l’autorità della parola di Dio, è un fatto che, nella costruzione della
teologia (…) le ragioni hanno un peso, pena altrimenti, come dirà san Tommaso, lo
svuotamento dello spirito, ridotto dal rifiuto di pensare ad un’obbedienza sterile, senza
radice nella verità”73.
73 M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 176. In nota lo Chenu cita anche un passo delle Quodlibetali (IV, 18 a.) di san Tommaso in cui il concetto è ancora più chiaro: “Oportet rationibus inniti investigantibus veritatis radicem (…); alioquin, si nudis auctoritatibus magister quaestionem determinet, certificabitur quidem auditor quod ita est, sed nihil scientiae vel intellectum acquiret, et vacuus abscedet.”
36
Il termine ‘scolasticismo’, fa notare il Chadwick nella sua monografia, è invece termine
di grande valore presso Proclo, “l’archetipo dello scolastico”, così come presso Boezio,
in questo “suo allievo pieno di gratitudine”, perché nell’esegesi dei “testi venerabili”
aiutava a darne un armonico quadro d’insieme. L’Obertello, soffermandosi su
quest’aspetto, dice che la genialità di Boezio si espresse nel modo in cui riuscì,
riordinando le notiones communes del suo tempo, a darci “uno tra gli ‘specchi’ più
affascinanti della civiltà classica”74. Su questa base si giustifica la valutazione altamente
positiva che dell’’eclettismo’ boeziano dà lo studioso. Ed egli estende tale giudizio anche
agli Opuscoli teologici, in cui la Tradizione cristiana e la Rivelazione, (rispettivamente la
letteratura patristica e la Sacra Scrittura), prendono il posto dell’autorità dei testi
aristotelici e platonici e la cui presenza, però, “non sopprime la libertà del pensatore, anzi
la esalta e la incoraggia, fornendole un ‘sistema’ ideale al quale può commisurare le sue
forze e le sue esigenze”75.
Infatti, abbiamo già notato che in questi cinque trattati Boezio, pur dichiarandosi
apertamente cristiano, mette deliberatamente da parte qualunque ricorso all’autorità
religiosa e fa riferimento soltanto alla guida della ragione naturale. Questo il tono in cui
si esprime Chadwick, a parziale conferma di quanto egli stesso ha asserito poco prima
(pag. 12) circa il fatto che, pur mostrando i trattati “una profonda conoscenza del
pensiero di S. Agostino, allo stesso tempo segnano una separazione più forte di quella
che Agostino avrebbe voluto vedere tra l’ambito della ragione e l’ambito della fede”. Ma
in fin dei conti lo stesso “Boezio considera l’autorità della rivelazione e la Chiesa
essenziali e decisive in questioni sulle quali la ragione può avere poco o nulla da dire”.
74 L. Obertello, Severino Boezio,cit., 449. 75 L. Obertello, Severino Boezio, cit., 450.
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Rispetto al copioso numero di commenti fioriti nel XII secolo76, stupisce il relativo
silenzio del XIII secolo. L’importanza di Boezio filosofo viene meno: questi deve cedere
il posto ad Aristotele. “A partire dal secolo XII, la dialectica di Boezio venne copiata
sempre più di rado, e alla logica vetus (che era costituita quasi esclusivamente di testi
elaborati da Boezio) si sostituì nella seconda metà del secolo la cosiddetta logica nova,
della quale entrarono a far parte nuove traduzioni dell’Organon e di altre opere
aristoteliche, fino a che all’inizio del secolo XIII il moltiplicarsi di traduzioni e trattazioni
originali rese possibile la formazione della cosiddetta logica modernorum, ormai priva di
stretti legami di testi boeziani”77.
Al tempo di san Tommaso nelle questioni filosofiche lo Stagirita è, dunque, la prima
autorità. Un ruolo secondario gioca Avicenna. Nelle questioni teologiche è decisiva
l’autorità di sant’Agostino e talvolta dello Pseudo-Dionigi. Come per un processo
edipico, Boezio è scalzato dalla sua ‘creatura’: la servile obbedienza a colui che per
primo fece conoscere Aristotele all’Occidente è finita. Il metodo scolastico, proprio
grazie all’opera logica di Aristotele, diviene scientifico e proprio attraverso questo
metodo san Tommaso è da una parte fedele al testo dei trattati boeziani, dall’altra è libero
di correggere, riportandole nella giusta misura, le argomentazioni boeziane. Il ruolo
giocato da Boezio presso gli scolastici del secolo XII equivale per importanza a quello
giocato da Aristotele presso san Tommaso: ed è ovvio visto che di Aristotele i primi
conoscevano solo la parte logica. L’interesse dell’Aquinate per quest‘opera è
comprensibile, quindi, solo alla luce della non facile posizione di un teologo di fronte ai
nuovi sviluppi culturali.
76 In generale bisogna moderare “una visione troppo sommaria dello sviluppo della logica nel Medioevo, bisogna notare che le opere di Boezio, i suoi commenti come le sue opere personali, non l’alimentarono che in una riapparizione molto irregolare”. Tuttavia va detto che furono le sue opere teologiche (Opuscula) o para-teologiche (Consolatio) ad essere, nel IX secolo, le più efficaci”, M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 161. 77 L. Obertello (a c. di), La Consolazione della filosofia-Gli opuscoli teologici, Rusconi, Milano 1979, 89.
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Fuori d’ogni dubbio è tuttavia il merito di Boezio d’aver fatto conoscere Aristotele
all’Occidente. È inoltre indubbio che l’ingresso massiccio di Aristotele nelle università
medievali stimolò una generale evoluzione del pensiero, che segna una vigorosa cesura
col passato. Tuttavia, non si può far finta di non sapere, e lo stesso san Tommaso lo terrà
sempre presente nel dar vita alla sua sintesi, che molte delle dottrine aristoteliche,
comunque interpretate, si scontravano irrimediabilmente con l’ortodossia cattolica. I
commentatori arabi, è vero, ebbero sempre vivo, per la loro fede marcatamente
monoteistica, il senso dell’unicità e dell’onnipotenza di Dio. Ma a parte questo dogma,
che per altro trovava almeno in parte conferma nella tesi filosofica di Aristotele del
‘primo immobile’, restavano l’unicità e la mortalità dell’anima individuale, l’‘im-
provvidenza’ divina, la ‘creatio ex nihilo’ e l’eternità del mondo che solo la dottrina
averroistica della doppia verità, recisamente rifiutata da san Tommaso, poteva salvare
dalla condanna d’eresia.
Si tratta dunque della ricezione generale che il mondo culturale in cui si formò ed operò
san Tommaso fece dell’aristotelismo, l’ultima moda filosofica, che non poteva far però
d’un colpo dimenticare la pesante eredità platonica.
In questo senso il prologo del presente opuscolo contiene quasi in immediata apertura
un’affermazione di capitale importanza:
“La ragione proceda da ciò che è posteriore a ciò che è primo, e dalle
creature a Dio”.
Essa ha chiare origini aristoteliche e dichiara una particolare fiducia nella ricerca
razionale. “Come infatti il principio della conoscenza naturale è la conoscenza delle
creature ricavata dai sensi, così il principio della conoscenza che proviene dall’alto è la
notizia della prima verità infusa per fede”. E continua con un’altra chiara indicazione di
39
metodo: “da qui dipende anche il diverso modo di procedere in un caso e nell’altro: i
filosofi che seguono l’ordine della conoscenza naturale antepongono infatti la scienza
delle creature a quella divina –e cioè la filosofia naturale alla metafisica- mentre i teologi
procedono all’inverso, in modo che la considerazione del creatore preceda quella delle
creature”.
Filosofia e teologia procedono in direzioni di verso opposto e lanciano al sapiente la sfida
del ‘concordismo’. È proprio dei filosofi anteporre la scienza delle creature a quella
divina, e cioè la fisica alla metafisica (denominazione sotto cui dobbiamo ancora
intendere tanto la teologia razionale quanto la scienza dell’ente in quanto tale), mentre il
teologo muove da ciò che è più noto in sé (Dio e le sostanze separate) a ciò che è più
noto per noi (le creature o effetti sensibili). Boezio ha scelto il metodo dei teologi e di
conseguenza ha preso le mosse dalla “somma origine delle cose”: la “trinità dell’unico e
semplice Dio”, primordiale generazione da cui ogni altra cosa scaturisce. E ne scaturisce
in maniera imperfetta, parziale, “per quandam imitationem”.
In Boezio san Tommaso rinviene quel legame, che sarà alla base della sua stessa
filosofia, tra il naturale e il soprannaturale. Lo stesso termine ‘natura’ significa secondo
san Tommaso in primo luogo nascita e, per derivazione, generazione. Naturale è perciò
tutto quello che appartiene agli esseri creati ai quali il principio di generazione è
intrinseco. La generazione da cui parte Boezio (e san Tommaso) è una generazione
soprannaturale in assoluto, perché supera e trascende tutte le nature esistenti. La Grazia,
invece –azione soprannaturale di Dio sull’uomo- ha sì un’origine formalmente
soprannaturale, quindi estrinseca, ma è intrinseca alla natura dell’uomo in quanto
principio, ché altrimenti non avrebbe senso farne il punto di partenza per un’indagine che
dalle creature procede verso il loro Creatore. La base di questa ricerca sarà, dunque,
40
l’indubitabile realtà soprannaturale della Trinità, per giungere al ‘naturale’ assenso di
fede della ragione umana.
Che ogni nostra conoscenza abbia inizio dai sensi è uno dei capisaldi del pensiero
aristotelico, anzi per il Filosofo la sensazione (áßóèçóéò) è talmente importante che se
qualcuno fosse privo di un qualunque senso, sarebbe privo anche di qualche scienza.
Scaturisce da questa nuova posizione la precedenza dal processo induttivo rispetto a
quello deduttivo, con il risultato che “la sensazione produce l’universale”78.
L’introduzione di questo principio ebbe un effetto rivoluzionario che rappresentò
l’alternativa, ultimamente vincente, alla gnoseologia platonica.
Bisogna però distinguere tra auctoritas e Auctoritas! San Tommaso ancora nella Summa
Theologiae si riconnette all’assioma boeziano: “licet locus ab auctoritate quae fundatur
super ratione humana sit infirmissimus” (I pars, q.1 a.8 ad 2m). L’unica autorità che
supera la ragione umana sembra essere anche per lui come per Boezio quella divina79.
Ma resterebbe un’idea altrettanto vaga e sterile come il richiamo all’autorità umana, più
un devoto omaggio religioso che il sì di un uomo dotto e lo stesso Boezio meditò
diutissime la questione trinitaria prima di scriverne.
Così per l’Aquinate il sapere e la cultura sono un’opera progressiva e collettiva che dal
contributo di ognuno costruisce qualcosa di grande. Il suo atteggiamento nei confronti
dei più accaniti avversari fu sempre di conoscenza, mai di rimozione o mistificazione dei
problemi posti sul tavolo della discussione: secondo lui bisogna conoscere la posizione
avversaria meglio dei suoi stessi sostenitori per poterne meglio smascherare l’errore. È in
sostanza un’altra versione del metodo aristotelico di esporre dapprima tutto ciò che i
pensatori precedenti hanno detto sulla questione in gioco. Ma la struttura dell’intelligenza
umana è una: uno dunque il sapere il metodo che poi la molteplicità del reale frastaglia in
78 Cf Analitici secondi, 100b5. 79 M. Riquet, Saint Thomas et les “auctoritates”, in Études sur Saint Thomas (1225-1925), G. Beauchesne Éditeur, Parigi 1925, in part. pp. 147-155.
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una miriade di possibilità e sfumature. La ragione è per questo continuamente mossa a
cercare, come un ideale scientifico, i principi immutabili della conoscenza.
Il Commento al De Trinitate prova l’altro aspetto del modo di procedere tomistico che
riveleremo più volte in seguito: le autorità permettono di ritrovare una continuità col
passato che è generatrice di nuove traiettorie di ricerca. Così egli abolisce l’idea
dell’autorità per la fede e del ragionamento per la ricerca scientifica: il punto di vista
tomistico sull’argomento è totalizzante e comprensivo di tutte le capacità dell’uomo e
dell’Umanità. Direttamente l’autorità non agisce sulle facoltà conoscitive dell’uomo
quasi come un surrogato della teoria illuminazionistica: “così, quando san Tommaso ci
dice che l’autorità può fondare la credenza ma non la scienza, non vuol dire che il ruolo
dell’autorità in filosofia sia nullo. Solamente egli lo precisa e lo limita alla credenza che
ci aiuta a preparare la scienza con passi rigorosamente certi ma irrimediabilmente difficili
e lenti”80. Per san Tommaso l’appello all’autorità è legittimo finchè essa conduce nella
direzione del vero: egli discute tutto, dagli authentica ai magistralia, fino a ritrattare se
stesso nelle sue precedenti posizioni81. Anche per questo aspetto particolare del suo
metodo, san Tommaso è “il principe dei teologi del secolo XIII (…). Si trovano in lui i
due metodi costruttivi della teologia scolastica: il metodo di autorità e il metodo
speculativo”82.
Quanto siamo ormai lontani dalla situazione del XII, quando -almeno inizialmente- col
primo formarsi di un’organizzazione scolastica basata sui principi dell’auctoritas e della
ratio, era emersa una sopravvalutazione dell’argomentazione conforme a regole!83 Il
80 Ibid., 155. Traduz. nostra. 81 Per l’uso dell’autorità presso gli scolastici, rimandiamo a M. D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Jaca Book, Milano 1986, 395-410; M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 259-307. Per il suo specifico significato in san Tommaso ancora dello Chenu Introduzione allo studio di san Tommaso d’Aquino, cit., 107-132. 82 M. De Wulf, Storia della filosofia medievale, vol. II, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1944, pag. 189. 83 Cf W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, Queriniana, Brescia 1999², 215.
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Lang spiega bene questa sopravvalutazione della ‘tecnica’84 che esalta ancora di più
l’equilibrio raggiunto dall’alta scolastica nella sintesi ancora una volta insuperata
dell’Aquinate.
Il luogo del presente commento, dove san Tommaso si occupa espressamente del
problema è la q.2 a.3, dove indaga se nella scienza della fede, che tratta di Dio, sia lecito
usare ragioni filosofiche e autorità.
Già nella prima obiezione egli ricorre più che nei precedenti articoli all’autorità della
Sacra Scrittura. Dovendo sostenere la tesi contraria, che cioè non è lecito nelle cose che
appartengono alla fede servirsi di argomenti filosofici, l’Aquinate chiama in causa la
massima autorità in materia di fede: i sapienti secondo gli uomini figurano qui come
coloro per cui la Parola non è stata persuasiva; l’umana sapienza è stata, dunque, un
ostacolo alla Rivelazione.
Tutte le obiezioni si basano ampiamente su citazioni d’autorità: Ambrogio, per il quale
“il sacramento della fede è libero da argomenti filosofici”; Girolamo, il quale in una
visione viene punito per giudizio divino finché non si pente di aver osato leggere i libri
pagani; ancora Girolamo il quale, in una Glossa esegetica, dice che i cattolici non devono
avere “in comune con gli eretici neppure i nomi”, quindi non è lecito servirsi, come loro,
di insegnamenti filosofici. Ma, nei sed contra, dove san Tommaso espone indirettamente
la propria posizione, lo stesso Girolamo ammira, assieme alla loro scienza esegetica,
l’erudizione mondana di diversi dottori della Sacra Scrittura ed assimila la sapienza
mondana alla prigioniera di cui ci si può innamorare, ma che va ripulita da tutti gli
ornamenti superflui perché dia una ricca discendenza.
Molto significativa è l’immagine scritturale, in cui la sapienza mondana è simboleggiata
dall’acqua e la sapienza divina dal vino: Isaia85 condanna “gli osti che mescolano l’acqua
84 Cf A. Lang, Die theologische Prinzipienlehre der mittelalterlichen Scholastik , Herder, Freibourg – Basel - Wien 1964, 21 e sgg.
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al vino” in una città divenuta ormai infedele al suo Signore. Ugualmente fanno i “dottori
che mescolano alla sacra dottrina insegnamenti filosofici”.
Inoltre, ogni scienza deve rimanere coerente al proprio sistema di principi primi, evitando
di assumere quelli di un’altra scienza: ma “anche la sacra dottrina ha i suoi propri
principi, e cioè gli articoli della fede” e deve perciò procedere “ex propriis principiis”
(iuxta propria principia, diremmo oggi). Per quanto riguarda questo argomento, secondo
san Tommaso si deve dire che anche tra le scienze profane vi è una tale gerarchizzazione
per cui i principi dell’una possono essere utilizzati dall’altra, nonostante che questa le sia
inferiore. Per quanto detto, la metafisica “può servirsi di ciò che è provato nelle altre
scienze”. E, analogamente, “quantunque siano posteriori per dignità” e per ordine di
costituzione, le altre scienze possono essere utili alla teologia. Fermo restando che
l’autorità di queste scienze non è infallibile come quella delle Scritture: ciò che conta,
infatti, è “la validità di ciò che è detto” e, per questo, la teologia può accogliere alcune
cose e respingerne altre che, pur provenendo dalla stessa fonte, non giudica corrette.
La responsio esprime nella maniera fin’ora più compiuta i termini del concordismo di
san Tommaso: “dona gratiarum hoc modo naturae adduntur, quod eam non tollunt, sed
magis perficiunt”: il lume della ragione naturale non annulla quello della fede ma gli si
aggiunge. Essi non possono perciò tra loro contraddirsi, né può essere l’uno falso e l’altro
vero, (“quantunque il lume naturale della mente umana non sia in grado di mostrare ciò
che viene manifestato dalla fede”), perché in tal caso “Dio stesso sarebbe per noi autore
di una falsità”. È invece più giusto dire che tra la perfezione di ciò che ci è affidato per
mezzo della fede e l’imperfezione delle nostre conquiste intellettuali corre una certa
similitudine.
85 1,22 secondo la Vulgata.
44
Inoltre, la sacra dottrina si fonda sul lume della fede, mentre la filosofia su quello della
ragione naturale: è impossibile che i principi dell’una e dell’altra contrastino tra loro a
meno di un uso scorretto della ragione stessa. Essa però può essere corretta dalla stessa
filosofia la quale, in base ai suoi principi, può mostrare che la posizione assunta è o
impossibile o non necessaria. In nessun caso la filosofia potrà raggiungere la perfezione
della teologia, ma ne potrà contenere alcune similitudini ed alcuni preamboli: “così come
la natura funge da preambolo alla grazia”.
Essendo, dunque, la filosofia sorella e non nemica della teologia, può collaborare con
questa in tre modi:
-“ad demonstrandum ea quae sunt praeambula fidei”;
-“ad notificandum per aliquas similitudines ea quae sunt fidei”;
-“ad resistendum his quae contra fidem dicuntur”.
Questi i tre servigi che la filosofia può rendere alla teologia. In primo luogo è, infatti,
necessario conoscere (razionalmente) i “preambula fidei” nell’ambito stesso della fede,
servendosi di argomenti naturali: “ ad esempio, il fatto che Dio esista e sia uno, e tutte le
altre proprietà di questo tipo che possono venire dimostrate di Dio o delle creature nella
filosofia, e che la fede presuppone”.
In secondo luogo la filosofia può manifestare “per aliquas similitudines” ciò che
appartiene alla fede, come fa sant’Agostino nella sua dottrina psicologica della Trinità,
dove spiega in qualche modo il mistero servendosi di analogie prese dall’anima umana e
dove persegue l’idea di ricercare la sostanza di Dio “sia attraverso la Scrittura che
attraverso il Creato”, la conoscenza del quale ha luogo proprio nella filosofia.
Infine, la filosofia può difendere la sacra dottrina dagli assalti di chi usa la ragione contro
la fede riconoscendo la verità ovunque essa si trovi. Secondo sant’Agostino, infatti, i
filosofi che hanno talvolta detto cose consone alla fede cattolica sono “possessori
45
illegittimi” di verità che non dobbiamo temere, bensì sottrarre loro perché utili alla nostra
dottrina.
Ma è chiaro che bisogna conoscere la filosofia per poter contrastare coloro che se ne
occupano per professione; questo permetterà ai dottori della Sacra Scrittura di non essere
derisi per la loro ignoranza e di poter prendere posizione contro i filosofi con cognizione
di causa.
A questa triade di compiti che spetterebbero alla filosofia fa pendant quella proposta dai
due scolastici pretomisti Guglielmo d’Auxerre e Odo Rigaldi, teologo francescano
dipendente dal primo. Essi, quasi con le stesse parole, hanno raccomandato
l’utilizzazione delle ‘rationes naturales’ a scopo teologico e ne hanno addotto tre ragioni:
queste ‘rationes naturales’, queste dimostrazioni filosofiche debbono confermare la fede,
allo stesso modo che i benefici che Dio ci fa rafforzano in noi la ‘caritas’ che già
possediamo; devono inoltre servire alla difesa della fede contro gli eretici; devono,
infine, condurre le anime semplici ad una migliore intelligenza della fede.
A nostro avviso, un semplice confronto con quanto esposto da san Tommaso fa emergere
un parallelo solo apparente. In quest’ultimo la filosofia difende la fede solo nella misura
in cui costruisce un sistema razionale a partire dalle basi degli articoli teologici. San
Tommaso e ogni sua riga, è vero, non sono comprensibili al di fuori della temperie delle
dispute del XIII secolo, ma non è forse senza importanza che il Grabmann -colui che con
maggior forza ha affermato questa ‘storicità’ del Doctor angelicus- afferma che
“certamente una formulazione così chiara e fondamentale quale l’ha data Tommaso, non
la si potrà trovare facilmente prima”86.
D’altronde i rappresentanti della più antica scuola domenicana, circa le relazioni della
teologia con le scienze profane, non la pensavano diversamente: la filosofia era
86 M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo s. Tommaso d’Aquino e le relazioni…, cit., 137.
46
apprezzata non come scienza in sé, ma per i servigi che rendeva alla teologia. Il genio di
san Tommaso non fu un fiore nel deserto, ed è utile considerare che anche Alberto
Magno nella sua Summa theologica si è proposto la questione “utrum theologia habeat
modum argumentationis”87, ma si limita a parlare della forma argomentativo-difensiva
dell’argumentatio e non tratta, come san Tommaso, anche della forma positiva
dell’argomentazione teologico-scientifica, tendente all’acquisto di nuove cognizioni.
“Tuttavia, coloro che si servono della filosofia nella sacra dottrina possono anche errare
in due modi: in primo luogo, servendosi, contro la fede, di ciò che non è in senso stretto
filosofia, ma rappresenta una corruzione o un abuso di essa; in secondo luogo,
costringendo entro i limiti della filosofia ciò che è proprio della fede”, invertendo in tal
modo la priorità della fede rispetto alla ragione. In questo caso non è più “l’intelligenza
prigioniera nell’obbedienza a Cristo”, secondo quanto dice l’Apostolo, ma la fede
ingabbiata e costretta negli angusti termini della filosofia: ci si risolve a credere solo e
unicamente a “ciò che può essere ricavato dalla filosofia”, facendo della nostra mente i
confini del soprannaturale.
Nelle risposte alla tesi affermata all’inizio san Tommaso non nega certo le alte autorità
ivi citate, ma avverte che l’errore sarebbe attribuire la precedenza al lumen naturale nelle
cose di fede, facendo di quello la condicio sine qua non della fede stessa. Dio non rifiuta
perciò la verità, da qualunque parte venga, purché non si confidi esclusivamente nella
propria erudizione. Perciò “non si nega che i dottori sacri possano servirsi di essa come
qualcosa di secondario”. Così nelle successive risposte, anche sulla base di altre autorità
‘teologiche’, san Tommaso dice essere degno di biasimo l’eccesso di fiducia nelle
proprie capacità intellettuali, come Girolamo che “si immergeva nei libri pagani a tal
punto, da disprezzare in qualche modo la Sacra Scrittura”. L’oste cattivo è colui che
87 I, q.5, memb. 3.
47
mescolando acqua e vino, ragione e fede, altera gli elementi di partenza nella loro natura:
“ per questo coloro che si servono di insegnamenti filosofici nella sacra dottrina,
riportandoli sotto l’obbedienza alla fede, non mescolano l’acqua con il vino, ma
convertono l’acqua in vino”.
Il Grabmann, commentando questo articolo, sottolinea che san Tommaso confuta con
ragionamenti puramente filosofici le dottrine filosofiche contrarie alla fede, ponendosi in
tal modo contro i metodi dei rappresentanti averroistici della dottrina della doppia
verità88. Essi sostenevano teorie di Aristotele o dei filosofi arabi e non si davano alcun
pensiero di confutarle con ragioni filosofiche. Nel 1270, nel pieno delle controversie
averroistiche e anno in cui il vescovo Stefano Tempier emise un primo decreto di
condanna contro le tesi pseudoeretiche, san Tommaso tenne un discorso di cui il
Grabmann riporta uno stralcio: “vi sono di quelli che studiano filosofia e insegnano
dottrine che non sono per noi vere dal punto di vista della fede. Se loro si oppone che
questo urta contro la fede, essi replicano che così dice Aristotele (…). Un tale
rappresentante della filosofia è un falso profeta o un falso dottore, perché sollevare un
dubbio e non scioglierlo val quanto affermare questo dubbio medesimo”.
L’autorità delle Sacre Scritture in Esodo 21,33-34 dice che, se uno scava una fossa o apre
una cisterna e non la copre, e un bue del prossimo vi cade, colui che ha scavato la
cisterna è obbligato a riparare il danno. Così, coloro che sollevano dubbi (filosofici)
riguardo alle verità di fede e non li sciolgono, aprono tali cisterne e non le coprono. Il
punto di vista di san Tommaso si distingue dunque dal metodo degli averroisti perché
“egli era compenetrato della persuasione che tra una verità di Fede rettamente intesa e
una verità filosofica sicura non può esistere alcuna opposizione insolubile, e perciò
afferma risolutamente la possibilità e il dovere di confutare questi argomenti filosofici,
88 M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo s. Tommaso d’Aquino e le relazioni…, cit., 136-139.
48
contrastanti con una verità di Fede, con altri argomenti del pari filosofici.” Gli averroisti,
invece, aggiungevano semplicemente la dottrina della Fede cattolica alle teorie
filosofiche da loro razionalmente dimostrate e contrarie al dogma. Per san Tommaso è
antiscientifico separare la filosofia dalla teologia e dalla fede ed ha gravissime
conseguenze metodologiche perché rende equivoca, e quindi ultimamente priva di scopo,
ogni indagine.
Il Mandonnet rileva anche che a quel tempo all’università di Parigi dogmatizzare in
filosofia significava anche “chiudere gli occhi sul Vangelo”89. Ma all’incertezza e
all’ambiguità dei filosofi che, se pure “aliquid veritatis dixit, non dixit eam sine
admixtione falsitatis”, san Tommaso contrappone la chiarezza e la certezza
dell’insegnamento rivelato: “multo plus potest fides quam philosophia: unde si
philosophia contrariatur fidei, non est acceptanda”90.
Un altro esempio di confronto diretto tra auctoritas e ratio l’abbiamo nella quarta
questione, che tratta in generale delle premesse razionali del dogma trinitario. Indagando
sulle cause della pluralità, san Tommaso si chiede se l’alterità sia causa della pluralità.
Considerata in sé la questione “è un esempio dell’uso della filosofia nel metodo teologico
dell’Aquinate, ma non contiene esplicite riflessioni sulla natura del metodo teologico”91.
Secondo il Wyser, invece, il suo contenuto è puramente filosofico, legandosi infatti
direttamente ed esclusivamente all’esposizione che Boezio fa nella seconda parte del
primo capitolo sul principio e i modi della pluralità. San Tommaso, infatti, tratta “de his
quae ad causam pluralitatis pertinent” e anche qui segue fedelmente i punti trattati nel
testo boeziano.
89 P. Mandonnet, Siger de Brabant, cit., 109. 90 Questo discorso, tramandatoci dall’Uccelli, è la reportatio di un uditore. Le allusioni alle pretese averroiste, alle questioni dell’immortalità dell’anima e dell’eternità del mondo autorizzano a collocarlo nel 1270. L’indiscussa stima e popolarità di cui l’Aquinate godeva a quella data, nulla toglie alla fermezza e all’audacia delle sue parole. 91 D. C. Hall, The Trinity, cit., 47.
49
In questa sede prendiamo in considerazione soltanto il primo articolo, degli altri
tratteremo oltre. Inizialmente la Sacra Scrittura e Boezio concordano. Secondo la
Sapienza sembra non esserci alcuna causa del numero, del peso e della misura: ogni cosa,
infatti, è stata sin dall’origine disposta e creata sembra essere informata “dalla ragione
essenziale dei numeri: questo infatti fu il modello principale nell’animo di chi le
costituì”, così si esprime Boezio nel De institutione arithmetica (1,2), opera che
completava il suo programma del quadrivio da inserire nell’insegnamento scolastico.
Al numero, principio ontologico della logica boeziana, san Tommaso contrappone qui la
sua ontologia dell’essere che rimarrà alla base di ogni metafisica posteriore.
Per presentare la tesi opposta san Tommaso preferisce non contestare nulla di quanto già
detto. È quanto accade praticamente sempre a questo punto: gli argomenti contrari
sembrano avere un valore puramente funzionale alla profonda sintesi che offre la
responsio. Tanto più che adesso si tratterebbe di smentire Boezio e Aristotele, i due punti
di riferimento del suo metodo speculativo. Perciò nei tre argomenti sed contra egli cita
solo due auctoritates patristiche e, infine, ancora Aristotele. Secondo Giovanni
Damasceno la divisione, che consiste nella diversità o alterità, è causa del numero:
“dunque la diversità o alterità è principio della pluralità”. In sintonia con questa
conclusione Isidoro fa derivare ‘numero’ da “segnale della partizione” (nutus memeris),
cioè “segno di divisione” o pluralità. In entrambi questi casi la citazione delle fonti è
viziata: nel primo caso da una forzata interpretazione dell’Aquinate92, nel secondo dal
fatto meno significativo che la citazione non è reperibile in Isidoro. La stessa citazione
92 Cf Ioannes Damascenus, Expositio fidei, III,5, ed. B. Kotter, Die Schriften des Johannes von Damaskos, vol II, W. De Gruyter, Berlin-New York 1973, 118-119 (in particolare 119,29); PG 94, 1001. Il Damasceno opera un confronto tra la serie dei numeri e la Trinità e dice che, come le tre persone della divina Trinità “si uniscono distintamente e si dividono senza interruzione”, così anche il numero non opera alcuna divisione; poco oltre: “anche il numero non introduce divisione”. E’ chiaro che san Tommaso non fraintende il significato di affermazioni così chiare, solo sottolinea il numero come quantità discreta piuttosto che come continuum.
50
filosofica del decimo libro della Metafisica di Aristotele è subordinata a quella del
Damasceno, come d’altronde già quella del secondo argomento.
La risposta apporta alla base stessa del discorso boeziano alcuni elementi di novità, che
presentiamo rapidamente.
Abbiamo visto che secondo Boezio l’alterità è il principio della pluralità. In questo senso
le cose sono molteplici in quanto sono diverse tra loro. Secondo san Tommaso ciò è vero
solo in rapporto alle realtà derivate e composte: “nelle realtà posteriori e composte,
infatti, causa della divisione in senso quasi formale (vale a dire, ciò in ragione di cui
avviene la divisione) è la diversità delle realtà semplici e prime”.
Rispetto dunque alla subordinazione processionale di origine neoplatonica, san Tommaso
risponde che tutti gli enti primi hanno uguale ‘dignità ontologica’, sono tutti “plures
primi effectus” e, in base a questo, ogni realtà semplice si distingue da ogni altra per il
suo solo essere. L’essenza di ogni creatura rappresenta un’imitazione dell’essenza divina
e, poiché quest’ultima è infinitamente imitabile, ogni creatura può imitare un aspetto
diverso, o lo stesso aspetto secondo una gradazione maggiore o minore (secondo la
maggiore o minore distanza dalla causa).
La prima causa della distinzione sarà, dunque, la differenza tra ente e non-ente: le cose
naturali sono molte in quanto sono diverse tra loro; ogni termine semplice, invece, si
distingue dall’altro per il suo stesso essere. Ogni cosa che è esclude di essere tutte le altre
che pure sono, ed è proprio perché ‘nega’ tutti gli altri enti. Per questo nell’ambito dei
termini primi ogni negazione appare come immediata, perché im-mediatamente afferma
qualcosa, ovvero ciò che non esclude. Subito dopo l’ente indiviso si ritrova l’uno, subito
dopo l’opposizione ente�non-ente procede (in realtà san Tommaso non usa questo
verbo equivoco, piuttosto ‘invenitur’, meno connotato filosoficamente) la pluralità delle
prime realtà semplici. In virtù di quest’ultima “tra più cose una si dice diversa rispetto ad
51
un’altra, perché non è quella”. In un certo senso perciò Boezio ha ragione nell’affermare
che la causa della pluralità degli enti è l’alterità, che “si ritrova nelle cose in quanto ad
esse ineriscono caratteristiche diverse.” Questo vale infatti per le realtà composte93.
Nelle realtà prime, invece, la pluralità è preceduta dalla divisione, e la diversità non può
essere la causa della loro pluralità, “a meno che per diversità non si intenda la divisione”.
La divisione non esige che i termini siano già enti distinti l’uno dall’altro, la diversità
invece ha bisogno di avere già gli enti presenti alla sua attenzione per distinguerli in base
alle diverse caratteristiche. La divisione “ha luogo attraverso l’affermazione e negazione”
e non parte da enti già divisi, ma da una unità originaria. Bisogna distinguere i livelli di
lettura: da un lato siamo all’estremo grado di astrattezza metafisica, dall’altro nel nostro
mondo naturale di fronte a cose già create, di cui non ci è possibile scorgere l’origine. È
come se sapessimo il finale di una storia, di cui ci sfugge l’antefatto.
Abbiamo analizzato con attenzione almeno i passaggi essenziali dell’articolo per
dimostrare come il discrimen che orienta la preferenza di san Tommaso è il dogma della
Trinità, mentre egli chiama in causa Aristotele e l’aristotelismo boeziano per suffragare e
spiegare tale dogma. Ma il limite di questi due filosofi coincide al tempo stesso col limite
del ragionamento tomistico. Alla fine assistiamo ad un rovesciamento dei termini in
gioco: ora è Boezio che è confermato dalla verità del dogma, e non più l’indagine
razionale del dogma che ha bisogno della prova dell’autorità filosofica.
Portiamo ora un altro esempio di come san Tommaso interpreti l’auctoritas filosofica, e
ancora quella di Boezio. Si tratta di un passo della q.6 a.4 ad 1m, dove san Tommaso
commenta Boezio, là dove questi al capitolo secondo dice: “ipsam inspicere formam”94.
93 Che Boezio parli delle realtà composte è ultimamente dimostrato, secondo l’Aquinate, dal fatto “che adduce una dimostrazione relativa a ciò che è diverso per genere, specie o numero, cosa che ha senso soltanto in relazione alle realtà composte”. “Boezio intendeva per alterità la diversità che è costituita da determinate differenze, sia di tipo accidentale che di tipo sostanziale. Le realtà che sono diverse senza essere differenti sono invece le realtà prime, e non è ad esse che si riferisce qui Boezio” (resp. ad 5m). 94 Decker, 157.
52
Siamo nell’ambito della divisione delle scienze speculative e, secondo la Vanni-
Rovighi95, l’Aquinate muta completamente il senso del discorso boeziano, là dove
interpreta: “Boethius non intendit dicere quod per scientiam theologiae possumus ipsam
formam divinam contemplari quid est, sed solum eam esse ultra omnia phantasmata”96.
In realtà, il riferimento della studiosa ad un presunto “argomentare dalle cose sensibili”
di san Tommaso ci pare poco preciso e peraltro estraneo allo stesso Boezio.
Inoltre il seguito dell’opera boeziana (per non parlare del proemio) che san Tommaso ha
sicuramente letto se pur non commentato, testimonia del taglio razionale che il filosofo
romano intese dare alla sua indagine.
San Tommaso non stravolge il pensiero boeziano, lo prende nella sua integrità e lo
completa nel quadro di novità culturali impensabili al tempo di Boezio, quando di
Aristotele si conosceva solo parte dell’opera logica e nient’altro.
È forse utile richiamare l’impresa boeziana di costituire una scienza teologica che
sintetizzasse l’indagine intellettuale prettamente umana con la tensione al divino. E come
per Boezio, anche per san Tommaso ciò che fa la differenza tra una dottrina vera e una
falsa è la parola divina, non la misura del ragionamento umano. Tuttavia Boezio nel
corso dei suoi sei libri “non si accontenta, mediante l’esposizione della dottrina cattolica,
di acquisire una norma dogmatica per le sue deduzioni speculative; egli vuole anche aver
ben chiaro il modo in cui devono venir trattati scientificamente i problemi della
speculazione teologica”97.
95 S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 24-25: “Qui, trovandosi di fronte ad una teoria neoplatonica come quella di Boezio, che ammette chiaramente due modi di conoscenza: uno dal basso, per dir così, e uno dall’alto, per intuizione dell’intelligibile, Tommaso dà un’interpretazione che rovescia la concezione boeziana. Boezio, dopo aver ripreso da Aristotele la triplice distinzione del sapere teoretico (…) la commenta platonicamente (…). Tommaso con la massima disinvoltura afferma che questo (scil. “ipsam inspicere formam”) è il termine della metafisica, ma è un termine al quale arriviamo solo argomentando (altro che inspicere!) dalle cose sensibili, perché anche i primi principi, fondati sulle nozioni di ente, di uno e altrettali sono da noi conosciuti perché l’intelletto agente astrae nozioni dalle immagini sensibili (phantasmata). Secondo lui Boezio voleva dire solo che Dio è oltre ogni immagine sensibile”. 96 Decker, 228. 97 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 208.
53
Concludiamo queste nostre osservazioni con il pensiero dello Chenu: “se la fede genera
una scienza teologica, questa scienza si costruì nel quadro e secondo le leggi delle
discipline umane, anche se le trascende”98.
98 M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 173.
54
Capitolo III: la mente umana di fronte al
mistero.
1. Limiti della conoscenza umana e nozione di Dio.
Tutta la lectio prima99 tratta del problema della conoscenza umana sia in rapporto al
divino e sia, poichè ogni nostra conoscenza ha avvio dai sensi, in rapporto alle cose
create. Compito non nuovo ma non per questo meno faticoso.
Quanto detto da san Tommaso circa la laboriosa stesura del De Trinitate, trova conferma
nelle parole del suo stesso autore: il proemio di Boezio si apre infatti con un
“Investigatam diutissime quaestionem” che rende tutta la fatica di un’indagine così
complessa. Boezio ammette d’aver messo per iscritto le sue riflessioni sulla Trinità solo
dopo aver dato loro una “forma argomentativa razionale”. Egli aggiunge che si deve
pretendere da lui “solo ciò che l’intuizione della ragione umana è in grado di raggiungere
innalzandosi verso le altezze della divinità”. L’oggetto è, dunque, divino mentre il
metodo è quello proprio dei filosofi. “Anche nelle altre arti, in effetti, si ritrova per così
dire un identico limite, che segna fin dove può spingersi il cammino della ragione”: così
lo stesso limite è nella medicina che, applicata in tutte le sue parti per sconfiggere una
99 Per comodità dividiamo l’intera opera in tre lectiones, ognuna delle quali si compone di expositio litteralis (di volta in volta al proemio, al primo e al secondo capitolo dell’opera boeziana) e due quaestiones. Una suddivisione simile compare per la prima volta nell’edizione dell’Uccelli (1880), con la differenza che si trattava di due lezioni che comprendevano le questioni dalla 3 alla 6, introdotte dalle altre due relative al proemio.
55
malattia, libera il medico da qualunque responsabilità, nel caso in cui il malato non
guarisca.
Del breve proemio boeziano san Tommaso rileva il debito che Boezio ammette di avere
nei confronti della dottrina di sant’Agostino, “originem et quasi subiectum” della sua
opera. Pone poi l’accento su alcune informazioni che l’autore fornisce circa la materia, il
motivo e lo scopo della sua opera: l’oggetto, cioè la Trinità; la causa efficiente, “il
piccolo fuoco della nostra mente” e “la luce divina”; il metodo usato da Boezio, la forma
argomentativa; e, infine, la causa finale, “id est quem finem intenda ex praedicta re”.
Queste caratteristiche sono per san Tommaso quelle proprie di ogni proemio in quanto
tale. Nel suo commento al De anima egli afferma: “Nel trattato sull’anima, che abbiamo
dinanzi, Aristotele pone in primo luogo il proemio. Infatti chi scrive un proemio tende a
conseguire tre risultati; vuole rendere chi ascolta: 1) ben disposto; 2) pronto ad
apprendere; 3) attento. Lo scrittore dispone in maniera favorevole chi ascolta, se gli
dimostra l’utilità della scienza; lo rende pronto ad apprendere se fa procedere l’ordine di
sviluppo e la distinzione in parti dell’argomento; lo rende attento, se comprova la
difficoltà della trattazione100”.
L’Aquinate sottolinea le difficoltà cui Boezio è cosciente di andare incontro. Oltre alla
difficoltà della materia, si presentano: “la concisione della scrittura”, “la sottigliezza dei
termini usati” e la loro “novità” in riferimento a chi, trattando la stessa questione, non se
ne è servito e “ad eos qui legunt, qui talibus verbis non sunt assueti”: tutti argomenti che
saranno oggetto della discussione della seconda questione sulla “manifestazione delle
verità divine”.
In sostanza l’opera di Boezio non si propose d’essere pubblica quanto piuttosto elitaria,
egli voleva fornire un trattato di raffinata dialettica frutto di uno studio approfondito. A
100 In De anima , I, lect.1, trad. it. di A. Caparello, Edizioni Abete, Roma 1975, 174.
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tal proposito lo Schurr afferma che “in effetti presso Boezio la ricerca teologica non è
dominata dall’intento di intervenire nella disputa pubblica a favore di un determinato
orientamento, determinante è invece la problematica speculativa in sé”101.
Infine, san Tommaso pone l’accento su come il limite dell’opera rispecchi quello della
ragione umana che non consente all’autore “di portare la questione ad una certezza
perfetta”.
Anche sant’Agostino aveva cercato a più riprese l’aiuto di Dio nella sua ricerca sulla
Trinità. Un significativo esempio ne è il proemio dell’ottavo libro del suo trattato:
“Nunc itaque, in quantum ipse adiuvat Creator mire misericors,
attendamus haec, quae modo interiore quam superiora tractabimus,
cum sint eadem: servata illa regula, ut quod intellectum nostro nondum
eluxerit, a firmitate fidei non dimittatur”.
Dopo l’expositio litteralis del proemio san Tommaso introduce e tratta le prime due
questioni. La prima si occupa della “conoscenza delle cose divine”, la seconda della loro
“manifestazione”. Cioè: prima è necessario ricercare fino a che punto possa l’uomo
avvicinarsi alle verità soprannaturali, in particolare al supremo mistero della Trinità, e
poi se e come possano tali verità essere espresse dall’uomo stesso.
Ma come nota Van Steenberghen “la questione affrontata è più ampia e tratta della
conoscenza di Dio, nella sua esistenza e nella sua natura; ma i due aspetti della questione
sono intimamente legati”. Inoltre, “è la prima volta, nel corso della carriera di Tommaso
d’Aquino, che il problema della conoscenza di Dio è posto esplicitamente in funzione
della teoria della conoscenza”102.
101 V. Schurr, op. cit., 220. Trad. nostra. 102 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 416. Egli nota pure che, “quanto alla prova propriamente detta dell’esistenza di Dio (…), non solo il commentario su Boezio non aggiunge nulla agli scritti anteriori di Tommaso, ma tale questione non è nemmeno trattata; non si trova, in questo commentario, alcuna forma concreta dell’esis tenza di Dio” (ibid., 432). Traduz. nostra.
57
Una volta delimitato l’ambito delle nostre possibilità conoscitive nei confronti delle cose
divine, san Tommaso passa ad affrontare i problemi relativi alla “manifestazione della
conoscenza divina”.
In questa seconda questione l’Aquinate approfondisce proprio la possibilità di indagare il
dogma trinitario con un metodo scientifico. L’articolo 2 si allontana dal testo di Boezio
per identificare la teologia quale ‘scientia fidei’ sulla base del concetto aristotelico di
scienza.
Abbiamo visto che già Boezio sottolinea il legame tra le nostre difficoltà nella
conoscenza di Dio e la difficoltà insita nella questione trinitaria. Siamo infatti legati a ciò
che i sensi ci offrono e ci permettono di conoscere. Questa posizione è però corretta dalla
constatazione che tale forma di conoscenza è intrinsecamente viziata dall’apparente
incapacità dell’uomo ad andare oltre, poichè “le creature di Dio sono un laccio per i piedi
degli stolti” (Sap. 14,11). Ma in soccorso a tale debolezza creaturale dell’uomo è venuto
Dio, fornendo al genere umano “un’altra sicura via di conoscenza”: la fede. In realtà san
Tommaso dice: “suam notitiam mentibus hominum per fidem infundens”, la fede è cioè
lo strumento scelto da Dio per infondere la sapienza. Si delinea già da queste battute
iniziali un’idea di fede che va al di là del puro e statico dato rivelato, che fa della fede un
soccorso della ragione, a disposizione d’ogni creatura.
Così il proemio recitava: ”sed ne tantum a nobis quaeri oportet, quantum humanae
rationis intuitus ad divinitatis valet celsa conscendere”103.
Ciò che colpisce è il significato equivoco di quell’intuitus: il concetto è infatti accostato
da san Tommaso al tema agostiniano di Dio quale ‘primum cognitum’ dalla mente
umana (q.1 a.3). Il metodo speculativo-razionale inaugurato dalla patristica e qui
rappresentato da Boezio, esige una limitazione dell’aspetto puramente filosofico da parte
103 Decker, 49.
58
di quello teologico. Rispetto alle rationes necessariae di un Riccardo di S. Vittore, san
Tommaso dimostra la assoluta indimostrabilità del mistero trinitario con le sole
dimostrazioni naturali.
Il grande tema che fa da sfondo alla seconda questione è quello della conciliazione tra
l’indagine razionale e le esigenze della fede. Si è già detto che alcune verità non possono
essere attinte con la ragione, e pertanto rimangono di pertinenza esclusiva della fede. Ma
come ci si deve regolare a proposito di quelle verità di fede la cui comprensione abbiamo
detto non essere preclusa alle forze della ragione?
A questo punto è necessario vedere come san Tommaso si confronti con la dottrina
agostiniana dell’Illuminazionismo.
La teoria dell’illuminazione rappresenta la teoria sull’origine delle idee insegnata da
sant’Agostino e nasce dal distacco critico del Dottore africano dalla teoria della
reminiscenza delle idee di Platone, inquadrata nel contesto della tradizione cristiana.
È noto infatti che sant’Agostino, dipendendo da Platone, ammetteva l’origine
extrasensibile delle nostre cognizioni, sebbene non dalle idee sussistenti platoniche, che
egli trasporta nella mente divina, ma per un’influenza diretta di Dio, o illuminazione.
Secondo sant’Agostino tutta la nostra conoscenza si opera al di dentro e dal di dentro,
senza che mai nulla venga introdotto dall’esterno.
A questo punto le possibilità sono tre: il pensiero può infatti o trovare già preformato ciò
che trae da se stesso e che sembra ricevere, o che si riveli capace di produrlo o infine che
riceva dal di dentro ciò che non può ricevere dal di fuori. Scartate le prime due ipotesi,
resta la terza soluzione che in realtà è un aggiustamento della seconda come è presentata
nel Menone platonico. Platone ha ragione quando afferma che l’anima trova in se stessa
la verità, ma ha torto allorché conclude che essa se ne ricorda come ci si ricorda d’una
conoscenza passata. “Se dunque sant’Agostino per illustrare la propria posizione utilizza
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ancora termini quali ricordo e reminiscenza, occorre che essi vengano però intesi in senso
assai diverso da Platone: qui la memoria platonica del passato fa posto alla memoria
agostiniana del presente. Ciò esclude anche dalla dottrina agostiniana l’innatismo
‘nativista’, poiché sant’Agostino è convinto che ogni nostra conoscenza del mondo
esteriore presuppone la sensazione. Di innatismo si può parlare solo a proposito
dell’elemento di verità che è ‘innato’ -cioè insito- in ogni conoscenza, ma la cui origine
non è né nelle cose né in noi stessi, ma in una sorgente a noi più interiore del nostro
proprio interiore, cioè in Dio. “Il vero significato dell’illuminazione agostiniana è che
l’azione illuminatrice di Dio è prima di tutto un’azione vivificante: illuminatio nostra
participatio Verbi est, illius scilicet Vitae quae lux est hominum”104.
Ma il tema dell’illuminazione agostiniana è stata fatta oggetto di diverse interpretazioni,
gravate da presupposti a lei estranei come l’´astrazionismo’ scolastico. In effetti
l’essenziale è cogliere “l’unità profonda del pensiero di sant’Agostino, presentando tutta
la sua dottrina come un passaggio del’anima a Dio, - dall’anima scoprendo Dio, presente
in quella, come il principio necessario della sua attività intellettuale e come la fonte
dell’essere universale, - a Dio, Saggezza infinita e dispensatore della beatitudine
soprannaturale”105.
Non si tratta solamente d’una teoria della conoscenza, ma di una questione ben più ampia
e profonda che presuppone l’esperienza personale. In realtà la critica di san Tommaso
non è diretta contro la posizione agostiniana, ma contro coloro che l’hanno deformata.
Tuttavia è proprio da un’interpretazione della teoria che scaturì per san Tommaso la
possibilità di adeguarla al suo sistema. Ma andiamo con ordine.
104 De Trin., IV, 2, 4; PL 42, 889. É. Gilson, Introduzione allo studio di sant’Agostino, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, 129. In realtà abbiamo seguito il Gilson lungo tutto questo nostro ragionamento, e rimandiamo ancora alle pp. 39-134 di questo suo splendido lavoro (in part. 99-134), dove è affrontato il tema dell’illuminazionismo agostiniano nella sua veracità. 105 Così si esprime Jolivet, citato da G. Madec, nell’edizione francese da lui curata del De magistro e del De libero arbitrio, Œuvres de saint Augustin, vol. 6, Desclée de Brouwer, Paris 1976, 543.
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In san Tommaso la dottrina agostiniana del maestro interiore viene accolta in un senso
generico, come primato della divina veritas quale è presente nel lume naturale della
ragione, senza però che ad essa venga riconosciuta una funzione essenziale nel processo
di apprendimento. San Bonaventura invece introduce un’applicazione originariamente
estranea alla lettera del filosofo di Tagaste: “la luce dell’intelletto creato non basta da
sola alla comprensione certa di una qualunque cosa, senza la luce del verbo eterno”106.
Egli dunque afferma che oltre l’elaborazione che il nostro intelletto può compiere del
dato d’esperienza sensibile vi è una presenza delle rationes eternae come ratio motiva
della nostra conoscenza, che tuttavia non può ridursi alla semplice causalità efficiente
esercitata da Dio su ogni creatura.
San Tommaso riprende e rielabora a sua volta l’interpretazione del francescano. Per lui le
rationes eternae sono causa essendi ma non cognoscendi della nostra conoscenza delle
verità necessarie:
“i primi principi, la cui conoscenza è innata in noi, sono come
similitudini dell’increata verità; onde in quanto noi giudichiamo
attraverso di esse, si dice che giudichiamo delle cose attraverso le
ragioni immutevoli o la verità increata”107.
Contro tale interpretazione tomistica della dottrina agostiniana è interessante vedere la
precisa polemica di Roger Marston:
“È chiaro che coloro i quali dicono che tutte le cose si vedono nel lume
eterno perché si vedono nel lume derivato da esso, pervertono la
dottrina di Agostino e, citando frammentariamente le sue autorità, le
106 Sermo IV, Christus unus omnium magister, 10, in Opera, vol. V, 569-570. 107 Quaest. disp. de veritate, X, art.6, ad 6m. Cf inoltre la Summa theol., I pars, q.84, a.5: “Ipsum enim lumen intellectuale quod est in nobis nihil est aliud quam quaedam partecipata similitudo luminis increati, in quo continentur rationes eternae.” Questo passo è contemporaneo alla stesura dello scritto in esame, dove l’Aquinate puntualizza la sua critica.
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piegano al proprio senso, non senza offesa del Santo, eliminando ciò
che precede e ciò che segue, ove pienamente si manifesta l’intenzione
del Santo su questo problema”108.
Ma vediamo meglio ora quale atteggiamento assunse il giovane maestro di teologia di
fronte al grande dottore della Chiesa.
Innanzitutto chiariamo che la posizione di Boezio, attraverso la quale egli opera la critica
all’illuminazionismo agostiniano, è che “la rivelazione e la ragione sono considerati modi
paralleli per discernere la realtà, e sotto questo aspetto Boezio si distacca in una certa
misura da Agostino, per il quale Cristo è la ragione suprema di tutte le cose, e tutta la
conoscenza è illuminazione proveniente da Dio. Boezio è meno fiducioso di Agostino
(…) riguardo alla capacità della ragione di arrivare per illuminazione divina ad
affermazioni adeguate su Dio”109.
Ma il senso dell’originale presa di distanza tomistica dall’epistemologia illuminazionista
neoagostiniana e francescana sta nel fatto che, negare all’uomo la possibilità di conoscere
(almeno) alcune verità intelligibili attraverso il proprio intelletto agente, significa negare
il valore stesso della sua essenza –la razionalità- così come essa è stata costituita da Dio.
La soluzione data da san Tommaso segue secondo Van Steenberghen tre fasi110. In una
prima sezione, l’Aquinate rifiuta ogni illuminazione straordinaria per la conoscenza
naturale. Richiamando la distinzione aristotelica delle potenze attive e passive, egli
afferma che questa distinzione si verifica nell’ordine dell’intelligenza, dove è possibile
discernere tra l’intelletto agente e quello possibile. Ora, presso Avicenna, solo l’intelletto
possibile è una facoltà dell’anima individuale, mentre l’intelletto agente è una sostanza
separata. In una tale dottrina, l’anima umana non può realizzare il suo compito, che è la
108 Cit. nell’edizione del De magistro a cura di Tullio Gregory, Armando Armando editore, Roma 1965, 146. 109 H. Chadwick, Boezio, cit., pag. 280. 110 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 418-419.
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conoscenza della verità, senza essere illuminata dalla luce estrinseca dell’intelletto
agente.
Ma l’insegnamento di Aristotele e le sacre Scritture –associati ancora
indiscriminatamente da san Tommaso- contraddicono questa concezione e, perciò, noi
ammettiamo la presenza nell’anima umana di entrambi gli intelletti, principi sufficienti
dell’operazione naturale ora ricordata. Tuttavia –e siamo alla seconda parte- ogni
conoscenza che superi l’efficacia naturale dell’intelletto agente esige una particolare
illuminazione divina. Ogni potenza attiva creata è finita ed ha dunque un potere limitato;
l’efficacia dell’intelletto agente si estende ai primi principi e alle conclusioni che si
possono dedurre; al di là di queste verità naturali conoscibili, una luce divina è
indispensabile. È questo il caso delle verità di fede (che devono essere rivelate da Dio),
dei futuri contingenti e di tutte le altre verità analoghe.
Nell’ultima sezione, san Tommaso afferma la necessità dell’intervento della Causa prima
in tutte le operazioni della causa seconda. Dio non è solamente creatore, ma anche
provvidenza, ed è questa che dirige e muove le potenze di ogni essere creato. Ogni
creatura è dunque sottomessa al governo divino, come gli strumenti nelle mani
dell’artigiano.
A questo punto il Van Steenberghen rileva che il clima in cui san Tommaso non poté non
prendere la propria personale posizione era influenzato da quello che Gilson ha definito
“agostinismo avicennizzante”. Si tratta di un sincretismo che, iniziato nella seconda metà
degli anni quaranta da Guglielmo d’Auvergne e Ruggero Bacone, identificava l’intelletto
agente separato di Avicenna col Dio cristiano. Si trattava di una materia delicata che, in
un certo senso, ammettendo la presenza di Dio come in qualche modo percepibile
dall’uomo, poneva il problema della conoscenza di Dio in una prospettiva tutt’altro che
aristotelica.
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Il principio che domina la posizione tomistica è invece il realismo di matrice aristotelica
per il quale tutto ciò che è creato porta in sé, connaturati, i principi della propria attività
naturale. L’atto creatore sarebbe imperfetto se non desse alla sua creatura, insieme con
l’essere-per-agire, anche la possibilità effettiva di realizzarlo.
A farne le spese è qui Avicenna111 e viene da chiedersi se san Tommaso non affronti solo
parzialmente la questione: come san Bonaventura egli rifiuta l’intelletto agente separato
del filosofo arabo e contemporaneamente anche la dottrina agostiniana
dell’illuminazione, che prevede la presenza di un lume obiettivo intelligibile nel quale
l’intelligenza percepisce la verità necessaria ed eterna dei principi e il valore metempirico
dei giudizi. Basta ammettere un intelletto agente personale per escludere questa dottrina?
Van Steenberghen offre un’ipotesi di risposta ricordando quanto detto prima: san
Tommaso accosta le questioni della conoscenza naturale e del raggiungimento delle
verità soprannaturali: per lui, riconoscere che l’uomo è capace d’astrarre, è riconoscere
che egli è capace di percepire la verità dei giudizi in maniera necessaria.
Van Steenberghen ammette che “quelques passages mériteraient plus ample
discussion”112, e noi crediamo che sia semplicistico credere che ad un immediato
accostamento tra il problema della conoscenza delle verità naturali e quella delle divine
corrisponda un altrettanto immediato accostamento nella soluzione che san Tommaso ci
offre.
Alla base della dottrina tomistica della “motion divine” è costantemente presente l’idea
di uno scarto irriducibile tra atto creatore e creatura contingente. In questo modo pone
111 « Le lecteur a remarqué que, dans cet article, ni Augustin, ni Boèce ne sont ouvertement contredits; la critique est dirigée contre Avicenne, qui joue ici le rôle de bouc émissaire. Ainsi l’exigeait le respect de la tradition théologique et, en particulier, le souci de ne pas saper l’autorité doctrinale du grand Docteur africain », cf Van Steenberghen, Le problème…, cit., 420. 112 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 421 e sgg. Lo studioso avverte qui che non è fuori discussione l’assoluta fondatezza della teoria dell’Aquinate, per il quale la capacità astrattiva dell’uomo coincide con la sua capacità di percepire la verità dei giudizi in maniera necessaria; inoltre che vi è in tale teoria il rischio dell’occasionalismo, per cui comunque alla fine le creature non avrebbero alcuna utilità nell’atto di conoscenza.
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meno problemi identificare l’intervento divino con la creazione: Dio crea le sostanze
attive, nel senso che, creandole, dona loro il potere effettivo di produrre atti secondi, e lo
fa dando loro l’‘intelletto agente’ che astrae e così produce l’inizio della nostra
conoscenza. Questo salva, secondo san Tommaso, tanto la libertà umana quanto il fatto
che Dio sia possibilità infinita.
Ad un certo punto del suo prologo san Tommaso pone l’accento sul verso citato
all’inizio:
“ricercherò (la sapienza) dal principio della generazione”
l’indagine non ha, dunque, intenzione di fermarsi a quell’origine divina, ma “ha inizio da
essa per procedere ad altro”. Esistono due vie della conoscenza e i rapporti che san
Tommaso vede tra di esse misura il grado della sua critica alla teoria dell’illuminazione
di sant’Agostino. Tutta la prima questione si può considerare svolgimento di questa
critica.
Il primo articolo si apre, infatti, con la domanda “se la mente umana abbia bisogno, nella
conoscenza della verità, di una nuova illuminazione da parte della luce divina”. È quesito
fondamentale che ha impegnato le menti filosofiche sia prima che dopo san Tommaso e
che ha portato, con diverse varianti, ora all’illuminismo ora al naturalismo.
La responsio si basa quasi interamente sulla gnoseologia aristotelica. Contiene, infatti,
soltanto un riferimento (ci riferiamo a quelli dichiarati) alla “auctoritas sacrae
scripturae”. Nella nostra mens c’è tanto l’intellectus agens quanto quello possibilis.
Infatti, nonostante l’opinione di alcuni, quali Avicenna, “le parole del Filosofo nel terzo
libro Sull’anima sembrano piuttosto lasciare intendere che l’intelletto agente è una
potenza dell’anima”. L’incontro tra la potenza attiva e quella passiva –“così come le altre
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potenze attive naturali, congiunte a quelle passive, sono sufficienti per le operazioni
naturali”- garantisce che alcune verità siano conoscibili direttamente dal nostro intelletto
agente senza bisogno di una luce soprannaturale. Altre verità, “facultatem rationis
excedentia”, appartengono alla fede e il lume naturale dell’uomo ha bisogno di un
“nuovo lume”.
In realtà, spiega san Tommaso, l’intervento provvidenziale divino agisce anche nel primo
caso, essendo l’intero creato sottoposto al governo divino”: l’efficacia di Dio deve essere
considerata qui nel suo aspetto più generale, quello per cui la sua efficacia causale non si
esaurisce nella creazione, ma si estende alla conservazione e all’ordinamento del mondo.
Ogni conoscenza umana ha dunque bisogno della luce divina poiché, come tutte le
potenze create, la sua efficacia è limitata; ma nella conoscenza delle cose naturali non
riceviamo una ulteriore ‘illustratio’, bensì ‘solo motus et directione eius’, poiché “non c’è
bisogno che la mente umana, che è mossa da Dio, sia investita da una nuova luce per
conoscere ciò che è possibile conoscere naturalmente”.
In altre parole la nostra mente si colloca comunque entro l’ordinamento predisposto e
regolato nel suo insieme da Dio stesso.
Nella risposta ad 6m san Tommaso fa direttamente riferimento all’auctoritas di
sant’Agostino: nel libro VIII del suo Commento al Genesi, il Dottore africano spiega che
la nostra mente è sì continuamente illuminata da Dio, ma con un unico lume e non con
“uno di volta in volta diverso”; Dio dirige il lume naturale dell’uomo “ed è in questo
senso che la mente non procede nella sua operazione senza l’intervento della causa
prima”. Dalle altre opere di san Tommaso emerge più precisamente che, in attesa del
lumen gloriae della nostra vita celeste, si contrappone su questa terra il lumen
perfectivum fidei.
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Da quanto detto ci sembra che san Tommaso interpreti reverenter la tesi di sant’Agostino
sull’illuminazione, riducendola però in un ambito naturale, come segno della dipendenza
di tutti gli esseri dalla causa prima che, anziché limitare, potenzia la capacità causativa di
ogni essere creato. Così anche il lume della ragione infuso da Dio è capace da solo di
giungere alla verità relativamente agli intelligibili, intesi però non come le realtà
separate, bensì come le immagini astratte dalla materia sensibile. Qui sta la vera
differenza con sant’Agostino, puntualizzata nel corpo del presente commento, q.1 a.1 ad
2m: “per quel che riguarda le conoscenze naturali, Dio ci ammaestra in quanto produce
in noi il lume naturale e lo dirige verso la verità, mentre nelle altre conoscenze Dio ci
ammaestra anche infondendo in noi un nuovo lume”113.
Il secondo articolo della prima questione pone la domanda “se la mente umana possa
pervenire alla conoscenza di Dio”.
Secondo le obiezioni sembra che non sia possibile alcuna conoscenza positiva di Dio.
Dionigi Aeropagita nella sua Teologia mistica afferma che “nel grado più perfetto della
nostra conoscenza non possiamo congiungerci a Dio se non come a qualcosa di ignoto”.
Secondo sant’Agostino “Dio sfugge ad ogni forma del nostro intelletto” e, inoltre, esiste
una incolmabile sproporzione tra finito ed infinito, tra l’uomo e Dio, tra l’intelletto
umano, “qui est in aliquo genere”, e Dio che è “extra omne genus”.
L’enunciato della quinta obiezione -“la quiddità [quod quid est] (…) funge da termine
medio per dimostrare l’esistenza”- pone il problema di come possiamo noi dimostrare
l’esistenza di una cosa partendo dalla sua definizione. D’altronde noi non possiamo
conoscere il ‘quid est’ di Dio: come possiamo allora sapere che Egli esiste? 113 In effetti però lo sforzo di conciliazione è puramente verbale; è appena mascherata una opposizione irriducibile delle dottrine. Come nota Van Steenberghen “alcuni autori hanno cercato di attenuare questa opposizione studiandosi di trovare, per esempio, in sant’Agostino l’equivalente dell’astrazione e sostenendo tale ipotesi col carattere vago e immaginativo dell’esposizione del Dottore africano sulla conoscenza, dove la mancanza di precisione tecnica sfuma in qualche modo i contorni della dottrina” (cf Van Steenberghen, Le problème…, cit., 431). Tutti i buoni storici riconoscono in realtà che il contesto storico e il clima psicologico nel quale si sviluppa il pensiero di sant’Agostino sono radicalmente estranei all’aristotelismo che costituisce invece la base del ragionamento tomistico.
67
A tal proposito Van Steenberghen si chiede se abbia un senso sapere che Dio esiste,
ignorando completamente ciò che Egli è, e che interesse ha conoscere l’esistenza di una
X.
Ma nella responsio san Tommaso precisa che una cosa può essere conosciuta in due
modi: “per formam propriam” e “per formam alterius similem sibi”. La pietra è
conosciuta dall’occhio “attraverso la specie della pietra”; la causa e l’uomo
rispettivamente attraverso “la similitudine dell’effetto” e “la forma della sua immagine”.
Nel primo modo di conoscenza, poi, la forma può coincidere con la cosa stessa –ed è la
conoscenza propria di Dio e degli angeli- o derivare dalla cosa. In quest’ultimo caso la
forma può essere ricavata per astrazione dagli oggetti conosciuti, alla maniera in cui il
nostro intelletto conosce le realtà naturali; o attraverso la forma che la stessa realtà
conoscibile imprime sulla nostra facoltà conoscitiva, al modo in cui –nel sistema
avicenniano- le intelligenze celesti (e in primo luogo il dator formarum) imprimono
direttamente le loro forme sulle anime umane.
Rispetto a queste distinzioni, la conoscenza dell’uomo si può collocare solo nel secondo
tipo, quella che dalla “forma dei suoi effetti” risale alla conoscenza dell’esistenza della
causa. Infatti: noi non conosciamo le altre cose attraverso la loro essenza; né Dio può
imprimere in noi la sua forma, dal momento che una forma infinita non può in alcun
modo essere ricevuta da un intelletto finito; né infine possiamo conoscere l’essenza
divina per astrazione, dal momento che il nostro intelletto agente è in grado di astrarre le
verità intelligibili solo attraverso i fantasmi, le immagini che i sensi gli presentano.
Inoltre, gli effetti consentono una conoscenza generale della causa solo quando sono ad
essa pari o almeno proporzionati, ma non è questo il caso del rapporto tra le creature e il
Creatore.
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Questa conclusione si basa sulla distinzione per cui certi effetti eguagliano (in
perfezione) la potenza della causa e ne rivelano, quindi, pienamente la natura; altri,
invece, non eguagliano la causa (sempre rispetto alla perfezione) e tali effetti non
permettono di conoscere la natura della causa, ma solamente la sua esistenza. In
quest’ultimo caso la conoscenza dell’effetto gioca, nella dimostrazione dell’esistenza
della causa, il ruolo che gioca la quiddità della causa in una dimostrazione d’esistenza a
partire dalla forma della causa114. Il che vuol dire che, nel nostro stato di viatori, noi
possiamo giungere solo alla conoscenza “quia est”, poiché Dio eccede all’infinito
qualsiasi creatura.
Tuttavia, secondo quanto affermato da Dionigi Areopagita nei Nomi divini, per quanto
non giunga che alla conoscenza dell’“an est” e mai del “quid est”, “la mente umana
progredisce in tre modi nella conoscenza di Dio”: per via di causalità, se guardiamo
all’efficacia della causa sui suoi effetti; per eminenza, se ci riferiamo alla similitudine
della causa che resta negli effetti; infine per rimozione, in relazione all’aspetto per cui gli
effetti si allontanano dalla loro causa.
Sul piano metafisico, queste nostre forme di conoscenza di Dio si basano sulla
proporzione che esiste tra creatura e Creatore. In genere essa è “un certo rapporto tra due
cose che convengono reciprocamente in qualcosa” e lo fanno o secondo lo “stesso genere
della quantità e della qualità”, o “in aliquo ordine”, ed è questo il caso della proporzione
“tra la materia e la forma, tra chi fa e ciò che è fatto e in altri casi di questo tipo”. La
proporzione del primo tipo è impossibile tra uomo e Dio visto che, come già osservato,
“non conveniunt in aliquo genere”.
114 Allusione alla teoria aristotelica della dimostrazione dell’esistenza di una cosa: l’esempio tipico è quello dell’eclissi (la dimostrazione dell’esistenza futura di un’eclissi di sole a partire dalla definizione di quest’ultima), che in realtà mostra quanto sia impossibile questo genere di dimostrazione, poiché noi non conosciamo l’essenza della cosa: questo è quello che si verifica nella conoscenza di Dio e, più generalmente, in ogni conoscenza di una causa a partire dai suoi effetti. Il punto di partenza della dimostrazione non può dunque essere che la definizione reale dell’effetto, che a sua volta costituisce la definizione nominale della causa. Tutto il lessico è mutuato dal secondo libro degli Analitici Secondi.
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Il secondo tipo, invece, essendo tra l’altro l’unico possibile “tra la potenza conoscitiva e
il conoscibile”, si addice al rapporto uomo-Dio, ma l’infinito eccesso di quest’ultimo
rispetto alla sua creatura non permette di “conoscerlo così come Egli conosce
perfettamente se stesso”. Resta, però, fermo che Dio sarà conosciuto, come forma che
coincide con la sua essenza, solo nella Patria Celeste, mentre nella nostra conoscenza
terrena di Lui “le negazioni risultano vere, mentre le affermazioni sono inappropriate”,
come dice Dionigi nel secondo capitolo della Gerarchia celeste. Infatti, ci resta ignota
l’essenza di Dio (il suo quid est), ma “si può tuttavia conoscerne l’esistenza (il quia est)”.
In realtà, la distinzione tra essenza ed esistenza vale solo nel nostro ‘status viae’ dove ci è
possibile conoscere solo l’an est, mentre che Dio è uno e trino lo apprendiamo grazie alla
fede e non riguarda la sua essenza. La conoscenza quia è quella relativa al puro darsi di
una cosa o di un evento, in contrapposizione alla conoscenza della sua causa (propter
quid). Conoscere il ‘che’ di una cosa (quia) equivale pertanto a conoscerne il ‘se è’, il
semplice fatto che c’è.
“In tale cammino della conoscenza, tuttavia, la mente umana può progredire soprattutto
quando il suo lume naturale viene corroborato da una nuova illuminazione, quella cioè
assicurata dal lume della fede e dai doni della sapienza e dell’intelletto, per mezzo dei
quali si dice che la mente possa elevarsi al di sopra di sé nella contemplazione, in quanto
riconosce che Dio è al di sopra di tutto ciò che può comprendere naturalmente”. Perciò è
proprio nel rapporto col suo Creatore che la mente umana realizza se stessa al massimo
grado.
Alla base di questa soluzione data da san Tommaso, vi è la teoria aristotelica della
scienza, supposta da san Tommaso. Per lo Stagirita la scienza propriamente detta è “scire
per causas”, cioè deduzione delle proprietà di un soggetto a partire dalla sua essenza.
Quanto all’esistenza del soggetto, la maggior parte delle volte essa è conosciuta
70
attraverso l’esperienza, tuttavia può a volte essere dimostrata a partire dall’essenza e, in
questo caso, la definizione serve di più all’argomento.
In questo secondo articolo san Tommaso affronta dunque il principale avversario della
ragione umana: l’agnosticismo, i cui argomenti sono respinti alla luce della dottrina di
Dionigi.
La conclusione di quest’articolo è che Dio è conosciuto per opposizione alle creature,
cioè in maniera negativa.
Nell’articolo successivo san Tommaso si chiede “se Dio sia il primum cognitum per
l’uomo.” San Tommaso respinge la dottrina (resa poi celebre dopo la morte
dell’Aquinate da Enrico di Gand, ma già diffusa in precedenza in ambito francescano)
secondo cui Dio rappresenta il primo oggetto conosciuto dalla nostra mente.
Approfondisce in tal modo la domanda dell’articolo precedente ed entra nell’ambito
dell’ontologismo. Questa dottrina, agli antipodi dell’agnosticismo, è il fideismo di quanti
pretendono fare di Dio il primo oggetto della nostra conoscenza in ordine cronologico.
Stando a quanto già visto, la nostra conoscenza ha sempre inizio dai sensi e dagli oggetti
sensibili, al punto che la stessa attività dell’intelletto agente presuppone la materia prima
dei phantasmata su cui esercitare la propria capacità astrattiva. Secondo la posizione
opposta, sembrerebbe, invece, che –“come la luce è nota all’occhio prima delle cose che
sono viste per mezzo della luce, e i principi sono noti all’intelletto prima delle
conclusioni”- così Dio, il fondamento che rende possibile ogni nostra conoscenza, sia
“primum, quod a mente cognoscitur”.
Nella risposta san Tommaso giunge ad affermare che è falso che Dio sia il primo oggetto
della conoscenza umana; consistendo infatti la beatitudine dell’uomo nel conoscere Dio
‘per essentiam’, saremmo tutti beati già su questa terra. Né è giusto sostenere che non
Dio sarebbe conosciuto per primo, bensì l’”influsso della sua luce”; di questa, infatti, la
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mente umana, l’abbiamo già detto, non può conoscere l’essenza (il quid est). Ma a ben
vedere neanche l’esistenza (l’an est): questa infatti sarà sempre conosciuta per seconda,
visto che ci accorgiamo di possedere un intelletto solo quando comprendiamo qualcosa e
questo qualcosa sarà il nostro primo intelligibile.
Pertanto, sia “secondo l’ordine delle diverse facoltà” sia “secondo l’ordine degli oggetti
all’interno di una stessa facoltà”, Dio risulta comprensibile solo a partire da altro115. Nel
primo caso, infatti, i sensi precedono l’intelletto nella conoscenza; nel secondo
l’intelletto agente rende intelligibili “le forme che astrae dai fantasmi” e non quelle
separate (che sono già “ex se ipsis intelligibiles”): quelle e non queste sono le prime ad
essere da noi conosciute.
Prima di concludere questo articolo, san Tommaso dice che Dio è ‘per se notum’ “perché
la sua essenza è il suo stesso essere (sant’Anselmo, Proslogion) ma non è invece noto per
noi, perché noi non vediamo la sua essenza”. Importante è che san Tommaso non nega
che “per mezzo dei principi innati possiamo facilmente percepire che Dio esiste”, ed è in
questo senso che la nostra conoscenza di Lui si dice in noi innata.
Come nota Van Steenberghen116, il quesito svolto in questo articolo pone in termini
abbastanza nuovi il problema dell’evidenza dell’esistenza di Dio. Tale nuova
formulazione sarebbe dettata dalla maniera in cui l’autore affronta il problema della
nostra conoscenza di Dio in questo scritto, come abbiamo visto nell’analisi del primo
articolo. L’articolo comprende infatti due sezioni. Nella prima l’autore rifiuta
categoricamente la tesi della conoscenza di Dio, tanto nella sua forma ontologica quanto
115 Come ricorda polemicamente l’Apostolo ai pagani e ai giudei che cercano di scusare con l’ignoranza di Dio la loro condota ingiusta. Cf Rm 1, 19-20: «…,poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute,…» 116 Cf F. Van Steenberghen, Saint Thomas d’Aquin contre l’évidence de l’existence de Dieu, Riv. fil. neosc., LXVI, 1974, 671-681.
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in quella dell’illuminazionismo moderato. Nella seconda sezione, san Tommaso espone
la sua dottrina.
In realtà san Tommaso “si preoccupa di non scalzare l’autorità dottrinale del grande
Dottore africano”, prendendo discretamente ma fermamente le distanze dalla dottrina
agostiniana dell’illuminazione. Secondo sant’Agostino la nostra intelligenza conosce per
prima cosa non l’essenza divina in se stessa, ma il ragionamento creato dalla luce
intelligibile prima (influentia luminis ipsius).
Per san Tommaso, dunque, l’illuminazione divina non ha altro effetto che dotarci di
un’intelligenza capace di realizzare la propria attività naturale. Ma la nostra intelligenza
non è l’oggetto primo della nostra conoscenza intellettuale: essa non è conosciuta se non
attraverso una riflessione sulla sua attività, e questa stessa spiegata inizialmente
dall’oggetto conosciuto. Il primo conosciuto per noi è il sensibile; e il primo conosciuto
dall’intelligenza è il suo oggetto proprio, che è interamente forma astratta dal sensibile.
Tra queste forme astratte, le prime conosciute sono le più estese, le più universali prima
di quelle che lo sono meno, il tutto prima delle parti. Lo stesso ordine lo si ritrova nella
conoscenza sensibile, dove le forme più generali ed estese sono percepite subito.
Ponendo a confronto questo passo con altri dello Scriptum super Sententiis (1254) e del
De Veritate, quest’ultimo contemporaneo al Commento al De Trinitate (1256-59)117, Van
Steenberghen rileva ancora che, se la prospettiva di questo articolo è differente, il
problema fondamentale resta sempre lo stesso. In effetti, se Dio fosse il primo oggetto
conosciuto dall’intelligenza umana, bisognerebbe porre necessariamente la sua esistenza
come l’oggetto di un’evidenza immediata: il primum notum è necessariamente per se
notum, perché ciò che non è evidente deve essere dimostrato e non è dunque il primo
conosciuto.
117 Il Van Steenberghen nota inoltre che «…l’article du De Veritate était nettement une reprise de celui des Sentences, réorganisé et simplifié,…», Le problème…, cit., 431.
73
Ma il parallelismo tra il terzo articolo del De Trinitate e gli altri due testi citati circa
questa questione si limita alla tesi generale e a qualche citazione comune: a parte questo,
lo sviluppo dell’articolo è nuovo. Il progresso qui realizzato consiste nel fatto che qui
non è più alla base la prova anselmiana, ma la teoria agostiniana della conoscenza;
inoltre, il problema della nostra conoscenza di Dio è trattato alla luce di un’esposizione
solida e precisa circa la natura della conoscenza umana, nella quale san Tommaso opta
decisamente per Aristotele contro il platonismo e l’agostinismo. “Il terreno è stato
preparato dal primo articolo. Per lui l’uomo è un soggetto conoscente volto al mondo
sensibile; la sua attività intellettuale è naturalmente ordinata all’attività dei sensi ed è da
questi inseparabile su questa terra”118.
Un’analisi più approfondita del problema è la monografia sul ‘per se notum’ di Tuninetti
che dà un taglio logico all’indagine sulla natura dell’autoevidente119.
A differenza di san Tommaso che discute i principi dell’evidenza120, la gnoseologia
boeziana non fa mai uso dell’espressione per se notum, ma il concetto è in lui ben
presente e, nel suo commento al De Ebdomadibus, san Tommaso spiega che le
espressioni termini, regulae e communis conceptio animi corrispondono all’idea di
qualcosa che è evidente, ora ‘omnibus ora ‘solis sapientibus’.
Del resto lo stesso Boezio nel suo proemio al De Trinitate dichiara che il linguaggio e la
materia del suo trattato non sono accessibili a tutti, e san Tommaso nel quarto articolo
della prima questione del suo commento al De Trinitate, dove si chiede “se le cose divine
debbano essere velate con termini oscuri e nuovi”, cita le sacre Scritture: “Non date ai
cani ciò che è sacro” (Mt. 7,6).
118 Ibid., 430. Rispetto a questo articolo, in quello successivo sullo stesso argomento del 1974 (…), Van Steenberghen mantiene la stessa posizione critica. 119 L. Tuninetti, “Per se notum”. Die logische Beschaffenheit des Selbstverständlichen im Denken des Thomas von Aquin, Brill, Leiden - New York - Köln 1996. 120 L’intera opera di san Tommaso declina nei contesti più diversi l’uso di questa espressione in contrapposizione a ciò che è ‘notum per aliud’ o ‘per alia’.
74
Nella tradizione scolastica in cui san Tommaso si formò, vi sono esempi di come
l’evidenza dei principi primi, possa corrispondere, mutatis mutandis, all’evidenza degli
‘articuli fidei’ della sacra doctrina. In realtà questi ultimi sono “principia probantia et
non probata” (Rolando da Cremona) come accade invece in tutte le altre scienze
subordinate. La teologia, a differenza di queste, parte da principi che nessun’altra scienza
ha preventivamente dimostrato: essi sono ‘provati’ in Dio e presso tutte le sostanze
separate. Essi sono tanto ‘conclusiones’ quanto ‘principia’ sui generis. Nella sua Summa
aurea (1215-29) Guglielmo d’Auxerre distingue tra gli articuli fidei e i principi
dimostrativi. Tale distinzione è il contributo del filosofo al riconoscimento dello status
scientifico della teologia121.
Dunque, riferita alle ‘conclusiones’ la teologia è scienza, procede cioè secondo il
ragionamento, anche se in un senso particolare. Infatti, continua il francescano Odo
Rigaldi nella sua Quaestio de scientia theologiae (1245-47), in senso proprio la teologia
non è affatto una scienza come le altre, perché i suoi principi presuppongono il sostegno
della Grazia. La teologia è una scienza come le altre solo se si considera che anche in
essa si può distinguere tra gli assiomi –verità a tutti accessibili, le assunzioni di base –gli
articoli di fede- e le conclusioni. L’anonimo della Quaestio de divina scientia (1230-40)
nella prima questione afferma a tal proposito che
“in scientia duo sunt: quandam per se nota, ut principia, quorum
acceptio dicitur intellectus, et ex his per se notis sciuntur alia, ut
conclusiones; et dicuntur ‘scita’ quae ex per se notis veniunt in
notitiam. Hoc non est in theologia, cuius principia sunt articoli qui non
noscuntur nisi per fidem; ergo quae sequuntur ex his, non sunt scita sed
credita”.
121 Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 86-87.
75
Autore di saggi importanti nella direzione di una “teologia deduttiva a partire da assiomi”
fu Alano di Lilla 122, che ha collegato la sua all’impresa perseguita da Boezio, in
particolare al suo opuscolo De ebdomadibus e alla teoria delle communes animi
conceptiones, vocabolo stoico dei principi supremi: “la teologia, costruita su questi
teoremi, su queste regulae, come si dirà allora, sarà nel senso più pregnante del termine,
un’ars fidei (…). Di fatto, Boezio fornirà alcune tra le migliori di queste formule
assiomatiche, e l’opera di Alano, le Regulae come l’Ars fidei, fu a volte posta nei
manoscritti esplicitamente sotto la sua autorità”. La seconda di queste opere in
particolare tentava di realizzare una costruzione assiomatica della teologia sul modello di
Euclide.
Di fronte a questa ricca tradizione san Tommaso conclude che “dell’esistenza di Dio non
abbiamo alcuna conoscenza immediata in senso proprio (…). Inoltre, qualcosa o è
autoevidente o è conclusione di una dimostrazione, ma l’esistenza di Dio è stata
dimostrata anche dai filosofi antichi” ergo…123.
È questo il risultato della ricerca condotta dall’Aquinate nello Scriptum di commento alle
Sentenze di Pietro Lombardo (1252-56), che nelle Questiones de Veritate (1256-59)
riceve un’ulteriore precisazione. Qui l’Aquinate rifiuta la posizione di Mosè Maimonide,
secondo il quale l’esistenza di Dio non è né in sé evidente né dimostrabile; quella di
Avicenna, secondo cui Dio è solo dimostrabile; quella, infine, di Anselmo che, nel suo
Proslogion, ritiene evidente l’esistenza di Dio e su questa certezza basa la prova della
Sua esistenza.
Infine, un ultimo aspetto sottolineato dal Tuninetti a proposito della posizione di san
Tommaso rispetto a questa discussione. L’Aquinate si prefigge, caratterizzando
l’evidenza di Dio, non di dimostrare quest’ultima, ma di prender atto che le cose stanno
122 M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 171. 123 L. Tuninetti, “Per se notum”…, cit., 13.
76
così. Aver definito le condizioni perché un’affermazione sia evidente o meno non vuol
dire averne spiegato la ragione, ma solo che se queste condizioni si verificano allora ‘si
verifica’ anche l’evidenza del principio. In altre parole la nostra conoscenza delle
condizioni di tale principio non ne determina a sua volta l’evidenza reale. È
un’operazione -quella della nostra mente- prettamente ‘a posteriori’. Questa osservazione
ci serve per dire che la nostra intelligenza dell’evidenza di qualunque cosa è sempre
seconda alla realtà di quell’evidenza stessa: come dire che la ragione è subordinata al
dato.
Introducendo le sue quinque viae per la dimostrazione di Dio nella Summa Theologiae I,
q.2 a.1, san Tommaso chiarisce che la proposizione “Dio esiste” è vera, ma non evidente;
di lui si sa cosa sia esistere, ma non che cosa sia Dio; diversamente, l’affermazione: “il
tutto è più di una parte” è vera ed è evidente; di questa infatti conosciamo il valore dei
due termini: tutto e parte124. Il fatto che però di Dio sia proprio l’esistere, permette la via
della dimostrazione della sua esistenza. Come afferma l’Apostolo, infatti, noi andiamo
“come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17, 27).
124 Citiamo i passi della Summa Theologiae nell’edizione a cura di Dal Sasso e Coggi, Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1989.
77
2. La Trinità.
Nella nostra introduzione abbiamo osservato la centralità della questione trinitaria
nell’ambito dell’opuscolo tomistico, nel senso che bisogna guardarsi dal considerare il
dogma come frutto del caso e mero pretesto per una trattazione di metodologia
scientifica. Per questo dedichiamo un intero capitolo ai luoghi in cui san Tommaso ha
discusso razionalmente di tale dogma.
Ma non è tutto. Il commento tomistico si ferma esattamente un attimo prima di entrare
nel cuore del tema trinitario, e questo è un fatto. Tuttavia, solo al momento di tirare le
conclusioni vedremo chiarite le ragioni di questa ‘scelta’ in ordine alla nostra personale
proposta interpretativa.
Ci sembra opportuno inserire nell’ambito di questa sezione il primo articolo della
seconda questione che domanda “se sia lecito condurre un‘indagine sulle cose divine”,
per poi passare al dogma trinitario.
La citazione delle Sacre Scritture sembrerebbe già mettere a tacere qualunque tentativo
della nostra mente di affacciarsi al divino; l’Ecclesiastico 3,22 recita infatti: “Non cercare
le cose più elevate e non indagare su quelle più difficili”, e le cose di fede sono
indubbiamente le più difficili. Secondo Pr. 25,27 “chi cerca di scrutare la maestà sarà
schiacciato dalla gloria” e, come nota il Nostro, “una pena non può essere inflitta se non
in ragione di una colpa”. Inoltre, Ambrogio afferma: “dove si richiede la fede, metti da
parte gli argomenti”, e proprio “nelle cose divine […] si richiede in modo particolare la
78
fede”. Sant’Ambrogio (nel de Fide) ammonisce che “non è lecito scrutare i misteri
superiori; è lecito sapere che è nato, non discutere in che modo sia nato”125.
Per san Gregorio “fides non habet meritum, cui humana ratio praebet experimentum”.
Ma è un male non riconoscere alcun merito alla fede: bisogna concludere che non è lecito
argomentare razionalmente sulle cose di fede, quasi che la possibilità di dimostrare
razionalmente alcuni articoli svuoti di senso e valore il dono della fede.
Inoltre i misteri divini vanno onorati col silenzio: “dobbiamo quindi astenerci da ogni
ricerca sulle cose divine”. Chi si muove tra le cose divine non ha alcun fine
raggiungibile, perché “tra Dio e noi corre una distanza infinita”. La ragione avrebbe un
moto in direzione dell’infinito e “nessuno si muove verso l’infinito, come dice il
Filosofo”.
Anche i sed contra trovano l’incipit in una auctoritas religiosa: “Siate sempre pronti a
dare una risposta a chi vi chiede la ragione di ciò che accogliamo per fede” (1 Pt. 3,15).
Ma solo la possibilità di un’argomentazione razionale sulle cose che appartengono alla
fede permette che ciò avvenga. E uno dei ruoli fondamentali che la ragione riveste per la
fede è opporsi ai suoi detrattori: infatti, “quelli che si oppongono alla fede non possono
essere confutati se non per mezzo di argomenti”. Più specificamente sant’Agostino
125 Torna qui la distinzione, in Aristotele soltanto logica e in san Tommaso anche reale, tra essenza ed esistenza. Cf R. McInerny, cit., 241: “Aristotle recognized a logical distinction between essence and existence, but not their real distinction.” Roland-Gosselin chiarisce che la distinzione tra quod est e quo est, nel senso di opposizione tra esistenza ed essenza, è un’interpretazione sbagliata dell’originale definizione boeziana, in cui san Tommaso credette di poter rintracciare la dottrina da lui esposta nel De ente et essentia: “ Boèce, pas plus d’ailleurs qu’il n’admettait une matière dans les substances spirituelles (…), n’avait jamais songé à distinguer l’être de l’essence. En bon et strict aristotélicien, Boèce n’avait parlé que de substance première, ‘quod est’, et de forme ‘quo est’. Subito dopo lo studioso sottolinea che: “saint Thomas n’est pas responsable de la transformation que subit peu à peu la pensée de Boèce, à la faveur de l’équivoque à laquelle prêtait le terme ‘esse’, employé par Boèce, selon l’usage d’Aristote, au sens de forme, mais qui de lui-même en quelque sorte devait retomber à son usage normal et courant, et signifier le plus souvent: être, exister», M. D. Roland-Gosselin, Le «De ente et essentia» de saint Thomas d’Aquin, Vrin, Parigi 1948, XIX Così la Vanni-Rovighi: “In realtà Boezio intendeva con esse l’essenza e con quod est l’individuo; esse era per esempio l’umanità, il quod est l’uomo individuo; ma come alla teoria della composizione di materia e forma in ogni sostanza creata –teoria di Avencebrol- si cercò una paternità cristiana in Agostino, così alla teoria avicenniana della composizione di essenza ed essere si cercò una paternità cristiana in Boezio”, in: Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 52 nota 13. Infine, rimandiamo al De Libera, La filosofia medioevale, cit., in particolare pp. 38-40, per una puntuale analisi delle implicazioni e degli sviluppi della semantica boeziana attraverso Gilberto di Poitiers e Alano di Lille.
79
chiarisce tale compito nel primo libro del suo De Trinitate: “con l’aiuto del Signore Dio
nostro cerchiamo di spiegare anche ciò che ci chiedono, e cioè in che modo la Trinità sia
un unico Dio”.
La risposta si apre con la distinzione tra ragione, destinata “alla ricerca delle cose
divine”, e intelletto, destinato “alla loro contemplazione”: entrambi testimoniano che “la
perfezione dell’uomo consiste nel congiungersi a Dio con tutto ciò che è in suo
possesso”. Cita a sostegno di quest’idea il bellissimo passo dell’Etica a Nicomaco126:
“non bisogna però seguire coloro che consigliano all’uomo, in quanto è
uomo e mortale, di limitarsi a conoscere le cose umane e mortali; al
contrario, per quanto è possibile, bisogna cercare di farsi immortali e
fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi”.
Da questa posizione possono derivare tre occasioni di peccato: la presunzione di credere
di essere “in grado di comprendere perfettamente” le cose divine; il razionalismo, far
cioè precedere la ragione alla fede “in ciò che appartiene alla fede”, mentre dovrebbe
essere il contrario; e, infine, “spingersi nell’esame delle cose divine oltre la misura delle
proprie capacità”.
In questo modo san Tommaso abbozza una chiara gerarchizzazione tra ragione e fede:
sbaglia chi “intende credere solo a ciò che si può dimostrare con la ragione”.
Alla prima obiezione san Tommaso risponde che ciò che eccede la misura umana è ciò
che supera le capacità dell’uomo, e non quelle “digniora secundum naturam”. Ciò che
importa è, dunque, che l’uomo si mantenga nell’ambito delle proprie possibilità
conoscitive; mentre, se anche nel considerare le cose più piccole, qualcuno va al di là di
esse, “incorre facilmente in errore”. Così si comportano gli eretici che “considerano oltre
la misura conveniente o il creatore o le creature”.
126 X c.7, 1177b31-34.
80
Nella responsio ad 5m san Tommaso distingue tra ragione dimostrativa e ragione
persuasiva. Una cosa è, infatti, l’aiuto ‘negativo’ che la ragione può offrire alla fede,
altra cosa quello ‘positivo’. Il primo porta all’assenso necessario di fronte agli ‘articuli
fidei’, annullando di fatto la volontarietà, e quindi la libertà dell’uomo di fronte alla
Rivelazione. La “ratio persuasoria”, invece, è “ricavata da alcune somiglianze e applicata
a ciò che appartiene alla fede”, evitando così di svuotare quest’ultima del suo senso
intrinseco.
Abbiamo connotato l’una posizione come negativa e l’altra come positiva, in base al fatto
che, “quantunque ciò che appartiene alla fede non possa essere dimostrato, non può
neppure, d’altra parte, essere confutato in modo dimostrativo”; ma applicare la ragione
per dimostrare necessariamente la fede sarebbe la più grande presunzione: non resta
dunque che il ruolo della ragione quale ordinatrice dall’esterno degli articoli di fede. Essa
in tal modo “non fa apparire evidenti i suoi (scil.: della fede) oggetti (dal momento che
qui non ha luogo il processo di risoluzione nei principi primi che possono essere
riconosciuti dall’intelletto)”. Ed è in questo quadro che dev’essere valutata la funzione
del lumen fidei: esso non ci fa vedere direttamente Dio nella sua essenza, ci permette
solo, via negationis, di riconoscere ciò che non possiamo propriamente conoscere.
Da quanto detto già si profila la natura ancipite che san Tommaso riconosce alla teologia:
essa procede in modo affermativo per quel che riguarda l’esistenza di Dio e le altre
proprietà dimostrabili naturalmente; in modo negativo per tutto ciò che riguarda invece
l’essenza divina.
Per quanto riguarda poi il silenzio con cui onorare Dio, esso non è assenza di discorso
mentale quanto il riconoscimento di come la nostra scienza attorno a Lui non è e non può
essere “piena comprensione”.
81
In merito al settimo arg., in effetti, tra noi e Dio c’è una distanza infinita e, perciò, Egli
non può rappresentare in alcun modo lo scopo del moto della creatura; tuttavia, “ogni
creatura tende ad assimilarsi sempre più a Dio per quanto le è possibile”, perciò la mente
umana è naturalmente chiamata a conoscerLo. Si può dunque parlare di scienza divina,
purché si tenga presente che in questa scienza il punto di partenza è comunque
rappresentato dalla fede.
Occupiamoci ora della nostra possibilità di conoscere la Trinità. Il quarto articolo della
prima questione domanda “se la nostra mente sia in grado di pervenire alla conoscenza
della divina trinità”. San Tommaso parte dall’idea che il concetto di trinità si ritrova tanto
nelle creature, “enti in quanto enti”, che in Dio, “primo ente”. Questo permette di dire
che “naturali ratione sciri potest quod in deo sit trinitas”.
Fin qui le obiezioni: poi i termini del discorso si rovesciano.
Nella risposta san Tommaso afferma che la trinità delle persone nell’unicità della
sostanza di Dio “nullo modo potest demonstrative probari”. La nostra conoscenza di Dio,
come già detto, parte infatti dagli effetti: “e pertanto con la ragione naturale possiamo
conoscere di Dio solo ciò che può essere percepito a partire dalla relazione che gli effetti
possiedono verso di Lui: ad esempio tutto ciò che indica la sua efficacia causale […]. La
trinità delle persone, tuttavia, non può essere percepita a partire dalla stessa efficacia
causale divina, dal momento che quest’ultima è comune a tutta la trinità” e che, quindi,
non costituisce motivo di discrimen nell’ambito della sostanza divina.
Rispondendo alle obiezioni san Tommaso dice che la molteplicità che si riscontra nelle
creature è unità in Dio, perciò una trinità del mondo sensibile non prova nulla circa
quella divina (si tratterebbe di pura associazione mentale, assolutamente non necessaria
in merito “ad personarum distinctionem”).
82
Alla sesta obiezione -che stabiliva esserci in Dio “una forma di comunità” in base alla
considerazione che “non vi può essere possesso felice di alcun bene al di fuori di una
comunità” (e in Dio vi è il massimo bene)- san Tommaso risponde che “Deus autem
maxime est sibi sufficiens” e, quindi, non ha necessariamente bisogno di una vita
trinitaria (comunitaria) per essere sommamente felice.
La settima obiezione affermava, in base alla necessità della trinità, la connessa necessità
dell’esistenza a tal riguardo di “argomenti non solo probabili, ma anche necessari”
(Riccardo di S. Vittore, De Trinitate, libro I). Ebbene, l’Aquinate risponde riprendendo la
distinzione tra ciò che è evidente per sé e ciò che è evidente per noi. Pertanto, tutto ciò
che è necessario ed evidente (autoevidente) non rientra altrettanto necessariamente nelle
nostre capacità razionali.
San Tommaso conclude questa prima questione dicendo che “con la ragione naturale si
può arrivare a conoscere che Dio esiste (an sit), ma non che è uno e trino”, nemmeno il
senso religioso dell’uomo può questo.
Circa la fermezza con cui san Tommaso preclude alla ragione umana qualunque
possibilità di affermare la trinità, e che è espressa dal fatto che secondo l’Aquinate questo
non è possibile nemmeno per remotionem, Van Steenberghen propone l’ipotesi che
“forse egli vuol dire che il concetto di trinità è un concetto positivo e come tale non può
essere attribuito a Dio attraverso la semplice negazione delle imperfezioni delle
creature”127.
A nostro avviso quest’ipotesi è credibile: san Tommaso nel corpo dell’articolo (resp. ad
primum) ha affermato che la Trinità divina non è in alcun caso rapportabile a quella che
si può ritrovare presso le creature. Non vi è dunque una differenza tale che la modalità
127 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 432.
83
della partecipazione possa colmare per via negativa: anche formalmente i due livelli sono
incompatibili; ne resta una semplice associazione d’idee.
Tutta la lectio secunda espone le ragioni del credente di fronte al dogma trinitario,
offrendo significativi esempi dell’applicazione del metodo razionale tomistico all’ambito
del dogma. A questo punto dell’opusculum san Tommaso inserisce infatti il primo
capitolo del De Trinitate di Boezio e poi la sua esposizione letterale. Seguono altre due
questioni, la terza e la quarta, la prima delle quali è incentrata sulla fede e pone una serie
si domande: se essa sia utile o fin’anche necessaria all’uomo; quale rapporto abbia essa
con la religione; se una fede obbediente al dato rivelato possa e a quale titolo dirsi
cattolica; infine, quale sia il suo ruolo di fronte al dogma trinitario. La fedeltà al testo
boeziano è chiara: l’incipit del primo capitolo del De Trinitate recita infatti: “Christianae
religionis reverentiam plures usurpant; sed ea fides pollet maxime ac solitarie quae (…)
catholica vel universalis vocatur”128.
Dunque, la terza questione in particolare ci pare si possa ancora ritenere, assieme alla
vera e propria expositio del testo, parte integrante dei preliminari.
Il tema così approfonditamente trattato conferma la tesi dello Chenu secondo cui san
Tommaso fu prima di tutto teologo, e nella sua teologia approfondì gli elementi di novità
che la rivoluzione culturale del suo tempo faceva emergere129.
Il primo articolo della terza questione indaga “sulla comunione della fede”. Secondo
Boezio la fede si fonda non su un’affermazione umana, ma su una certezza fondata sul
soprannaturale: la dottrina ortodossa attorno alla Trinità afferma che non vi è differenza
tra le Persone divine, tutte e tre sono lo stesso unico Dio. Egli divide il problema
128 Decker, 101. 129Così anche la Vanni-Rovighi: “Tommaso d’Aquino fu e volle essere teologo”, e aggiunge che non bisogna dimenticare che “fu teologo a modo suo (…), e che nella sua concezione della teologia l’indagine razionale (ossia la filosofia) ha un posto e una funzione essenziale”, cf Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 40.
84
trinitario in due parti: l’unità dell’essenza contro gli Ariani (cap. I) e la trinità della
persone contro Sabellio (cap. III, che san Tommaso non commentò).
Abbiamo visto come Boezio fosse legato alle circostanze storiche delle controversie
dottrinali che contrapponevano l’Occidente all’Oriente: perciò la sua prima
preoccupazione è affermare con forza l’esistenza di una sola autentica fede cristiana,
superiore a tutte le eresie. Secondo la sua stessa etimologia l’eresia sceglie una parte
della dottrina rivelata e ne fa nascere una ‘setta’: a questo nuovo centro si possono
sottomettere diverse corrente ereticali, tributando ad esso la reverenza propria solo della
fede cristiana, che riconosce l’unica vera autorità in Dio. Affrontare il dogma della
Trinità vuol dire prima d’ogni altra cosa fondare il principio e la causa della fede
cristiana.
Tutto il commento di san Tommaso ai primi due capitoli di Boezio consta perciò
dell’indagine sulla fede e sulla Trinità. Più precisamente san Tommaso tratta il tema del
significato della fede considerandolo nel suo rapporto con la religione e non più come
seconda via della conoscenza umana.
Come contenuto delle verità divine, che non sono immediatamente percepibili dai sensi,
gli articoli di fede sono privi di evidenza. Sembra dunque che non ci sia alcuna
possibilità per la mente dell’uomo di superare la carenza di intelligibilità. In realtà questa
conclusione di san Tommaso mira ad evitare l’errore di equiparare verità naturali e
soprannaturali, per non mescolare i due ambiti e per lasciare sempre tra i due una zona
d’ombra su cui la nostra mente può continuare a gettare luce.
Per quanto detto, almeno il primo e l’ultimo articolo di questa questione possono essere
considerati esemplificazioni del rapporto tra la ragione e il dato, ora della tradizione
cristiana ora della rivelazione.
85
Scendiamo ora nello specifico della questione trinitaria che trova ampio spazio nella
quarta questione. L’intera questione 4 si occupa infatti del problema della pluralità e di
ciò che ne è la causa.
San Tommaso approfondisce ulteriormente il concetto di differenza, continuando a
seguire il testo boeziano là dove dice: “Ora, la differenza secondo il numero è prodotta
dalla varietà degli accidenti”.
Nella risposta san Tommaso cerca di fare chiarezza nella terminologia partendo dalla
definizione della triplice diversità di cui parla il testo di Boezio: come l’identità, “anche
la diversità può dirsi in base al genere, alla specie e al numero”. Anche qui emerge
chiaramente il realismo tomistico. L’Aquinate si propone di indagare la causa di queste
diversità con riferimento al fatto che in ogni individuo composto si possono considerare
tre aspetti: la materia, la forma e il composto stesso, cioè il singolo individuo. La
diversità secondo il genere si riduce alla diversità della materia, quella secondo la specie
alla diversità secondo la forma, “mentre la diversità numerica si riduce in parte alla
diversità della materia, e in parte alla diversità degli accidenti.” Il genere non è però
conoscibile attraverso la materia considerata in se stessa, essendo questa “secundum se
ignota”, bensì attraverso la materia considerata sotto l’aspetto per cui è conoscibile. “E la
materia è conoscibile in due modi: per analogia o proporzione”, come il legno rispetto
all’albero, cioè in rapporto alle cose naturali; o “per mezzo della forma, attraverso cui la
materia possiede l’essere in atto”. Ogni cosa infatti passa dalla potenza all’atto perché la
propria materia è ‘investita’ dalla forma, ed è questo passaggio che rende conoscibile la
materia. Alla stessa maniera la diversità del genere si ricava in due modi: sulla base del
diverso rapporto analogico nei confronti della materia dei diversi generi (sostanza,
quantità e qualità, per esempio, hanno un modo peculiare di ‘trattare’ la materia, che è di
volta in volta diverso), ed è il caso dei cosiddetti ‘generi sommi’ o categorie; ma anche,
86
poiché la materia è perfezionata dalla forma, attraverso la considerazione che “il
perfezionarsi della materia nell’atto, che è la forma, consiste nel partecipare –per quanto
imperfettamente- a una determinata similitudine dell’atto primo, in modo tale che ciò che
risulta composto di materia e forma sia in qualche modo intermedio tra la potenza pura
[la materia] e l’atto puro [Dio]”. In quest’ultimo caso il genere non è mai in rapporto con
la nuda materia, ma con una materia già sempre accompagnata da una determinata forma.
La similitudine con l’atto primo è la forma e assume diversi gradi di perfezione: alcuni
enti infatti sussistono, altri vivono, altri conoscono e altri, infine, comprendono.
“Ciascuna forma rimane tuttavia unica e identica: la similitudine più perfetta include
infatti tutto ciò che possiede quella meno perfetta, oltre a qualcosa di più”. L’insieme di
materia e forma così definito (il ‘sinolo’ aristotelico) è ancora ‘materiale’, nel senso lato
di qualcosa di potenziale che funge ancora da materia per una perfezione superiore,
rispetto ai gradi dell’ascesa verso la perfezione assoluta.
Proprio questa maggiore o minore prossimità alla perfezione dell’atto primo ci permette
di dire che la materia è il principio delle differenze generiche. Ma in quell’insieme, come
appena anticipato, è presente anche la forma che fa sì che la materia partecipi in maniera
più o meno elevata della perfezione della causa prima: le differenze formali sono,
possiamo dire, l’altro lato della stessa medaglia, dello stesso ente che tende alla
perfezione. “Così dunque risulta chiaro in che modo la materia determini la diversità nel
genere e la forma determini la diversità nella specie”.
In generale quindi le parti del genere e della specie sono rispettivamente materia e forma,
di conseguenza l’individuo singolo sarà formato da questa materia e questa forma, e le
variazioni di queste ultime producono la diversità numerica. La forma presa in generale
rimarrebbe, però, uguale a se stessa se non si unisse alla materia e ricevesse da questa la
distinzione. Non si può trattare, quindi, di una materia presa per sé -ché sarebbe ancora
87
priva di differenziazioni- bensì di “hac materia distincta et determinata ad hic et nunc”.
Ciò a sua volta è reso possibile dalla categoria della quantità, senza la quale la sostanza
risulterebbe indivisibile, e più in generale dal fatto che la materia è signata, cioè soggetta
alle dimensioni.
Le dimensioni però possono essere ‘terminate’, avere cioè “una misura e una figura
determinate, così che possano essere collocate, come enti perfetti, nel genere della
quantità”; oppure ‘interminate’, senza cioè tale determinazione, quantunque non possano
mai realmente sussistere soltanto nella loro natura di dimensioni, “e in tal modo esse si
collocano nel genere della quantità come qualcosa di imperfetto”.
È solo in virtù di quest’ultimo tipo di dimensioni che la materia diventa questa materia,
che a sua volta individualizza la forma. Le dimensioni terminate non permetterebbero di
distinguere più individui all’interno della stessa specie, mentre le dimensioni interminate
ci danno la posizione determinata che la materia occupa di volta in volta nello spazio.
Infatti, nel caso in cui san Tommaso avesse preferito applicare all’individuo dimensioni
già connotate, avremmo avuto la paradossale conseguenza di perdere la certezza
dell’identità numerica (pari a uno!) di uno stesso individuo.
Questa soluzione ha fatto parlare di un duplice approccio di san Tommaso al problema
dell’individuazione delle sostanze composte, indispensabile per la duplice esigenza di
spiegare da un lato gli elementi comuni, dall’altro la divisione delle forme sostanziali in
individui della stessa specie. Rispetto alla posizione di Boezio san Tommaso recupera il
fatto che alcuni accidenti fungono da causa della diversità numerica: le dimensioni,
infatti, sono anch’esse accidenti, appartenenti al genere della quantità; ma va specificato
che il loro ruolo è indissociabile da quello della materia. Gli altri accidenti, invece,
fungono da principio di conoscenza della distinzione degli individui, e solo in quest’altro
senso si può dire che concorrono all’individuazione.
88
Il principio che regola la distinzione è dunque la materia signata che, rispetto all’uomo, è
questa carne e queste ossa dell’individuo concreto, e non la carne e le ossa in generale
(‘materia comune’), che rientrano nella sua definizione fisica e non nella sua
individuazione.
Su questa base san Tommaso discute le ultime righe del primo capitolo del testo
boeziano, chiedendosi nel terzo articolo se due corpi possano sussistere o possano essere
pensati nello stesso luogo.
Secondo Boezio “due corpi non potranno occupare uno stesso luogo” perché, anche se
astraiamo tutti gli accidenti dall’oggetto, resta comunque diverso il luogo, che è un
accidente a sua volta: i tre uomini dell’esempio boeziano possono dunque occupare un
luogo diverso perché sottomessi alla contingenza degli accidenti. Le sostanze separate
non rientrano in questa differenziazione. Ci sembra evidente che questa posizione è al
limite dell’eresia, poiché per evitare la subordinazione ariana, finisce col propendere più
per l’indifferentismo trinitario, estrema conseguenza del Monofisismo. In effetti però,
come già notato, più che prendere posizione nella controversia dottrinale, Boezio voleva
approfondire speculativamente il mistero trinitario.
La duplice valenza della posizione boeziana può a nostro avviso essere ricondotta al fatto
che in lui coesistono indiscriminatamente il logico e il filosofo. A tal proposito è
interessante vedere come san Tommaso distingue i due metodi di indagine.
Il logico non considera alcuna differenza tra l’ambito delle sostanze corruttibili e quello
delle sostanze incorruttibili, che appartengono evidentemente per il metafisico a generi
qualitativi diversi. Il metafisico dunque distingue le sostanze separate da quelle derivate,
ed è su questa base che san Tommaso considera il rapporto tra il naturale e il
soprannaturale secondo una sintesi tuttora insuperata. Tale distinzione si basa sul fatto
89
che il logico considera ogni genere sempre nel suo aspetto formale, mentre il metafisico
considera tanto l’aspetto formale quanto quello materiale130.
Potrebbe stupire che le poche righe di Boezio diano modo a san Tommaso di costruire un
intero articolo; stupisce meno, e aiuta a capire la presa di posizione dell’Aquinate,
quando si consideri la storia cui il problema è legato. Il problema sollevato è uno, ma si
dirama e si articola in diversi sottoproblemi che vanno dalla filosofia della natura alla
metafisica.
Nel suo commento al De Trinitate san Tommaso accenna a tale problema già nella
seconda questione, art. 3 ad 5m, con l’esempio dell’acqua e del vino che, uniti assieme,
non restano due cose diverse giustapposte, ma assumono una nuova sostanza. Il secondo
punto è nella quarta questione, art. 2 ad 3m, e il problema è finalmente affrontato nella
risposta alla sesta obiezione del terzo articolo della medesima questione.
I problemi sono: la sostanza dei composti, il principio di determinazione delle sostanze
corporee e, infine, l’unione dell’anima con il corpo (se e come ciò possa avvenire). Il
problema è impostato in maniera logica da Boezio e, per quanto appena notato, esige ore
la correzione dell’Aquinate.
Dapprima la posizione di Boezio è smentita da otto argomenti che spaziano dal campo
della logica formale –in cui vale l’assurdo che affermazione e negazione possono essere
vere nello stesso tempo131- a quello dell’autorità scritturale, fino all’astrologia tolemaica.
130 La distinzione del genere si ricava da una materia che è già un composto in cui è presente l’elemento formale, perciò le definizioni del logico e quelle del filosofo naturale (e del metafisico) non possono sempre coincidere. 131 L’affermazione ‘due corpi sono nello stesso luogo’, infatti, non implica ripugnanza tra i concetti coinvolti perché nel soggetto non è incluso l’opposto del predicato; se così non fosse, se cioé tale proposizione fosse considerata impossibile, sarebbe impossibile anche che per miracolo due corpi occupino lo stesso luogo. In realtà, anche l’interpretazione dello Elders (cit, 81) su questo punto, per la verità poco approfondita, sembra rilevare più la dimostrazione qui dell’ubiquità di un unico corpo –con particolare riferimento a quello del Cristo risorto- che non la compresenza simultanea di due corpi in luogo solo. Nella sua risposta a questa prima obiezione, san Tommaso distingue due casi di proposizione non vera: nel primo neppure un miracolo può far sì che essa si verifichi (p. es. “razionale è irrazionale”); nel secondo, ed è quello che interessa qui, bisogna considerare un certo punto di vista. In quest’ultimo caso calza l’esempio di un morto che torni in vita (escluso che il ‘morto’, essere “ormai privo di qualsiasi principio di vita”, possa resuscitare per propria capacità): un miracolo può, infatti, intervenire e far sì che qualcosa di
90
Ci soffermiamo ora sul contenuto della responsio ad 6m.
Secondo la sesta obiezione in un composto “gli elementi non si corrompono nel misto”:
ognuno dei quattro elementi è presente assieme agli altri nello stesso luogo (il composto)
e secondo il proprio moto naturale.
Si tratta del grosso problema del rapporto tra la forma sostanziale e il corpo e della loro
unione nel singolo. Per la storia della filosofia e della scienza della natura della tarda
Scolastica il problema presentò un certo motivo d’interesse: la Scolastica non ha infatti
cercato di trovare un’interpretazione per la costituzione della sostanza materiale che
concordasse con le basi della sua metafisica, a differenza di quanto faceva nel campo
delle scienze naturali. Una sostanza materiale è per la filosofia scolastica da un lato un
“compositum” di materia e forma, d’altro lato un misto dei quattro elementi (acqua, aria,
fuoco, terra). In questa doppia interpretazione coincide la metafisica aristotelico-
scolastica con la dottrina degli elementi, che dal canto suo rappresentò nel Medioevo un
sistema a parte.
Ad Averroè era già evidente l’ambiguità dell’unione di più elementi, ora individuum ora
miscuglio di più sostanze individuali. Ma in realtà i due aspetti della questione
confluirono nel problema di come dovesse intendersi la possibile coincidenza di
compositum (di materia e forma) e mixtum (di quattro elementi).
La Scolastica ha ereditato in merito le due soluzioni principali della filosofia araba
(l’avicenniana e l’averroista); contrastando però entrambe con i principi fondamentali
della metafisica aristotelico-scolastica, essa ne fornì una terza, quella tomistica, che
evitava le difficoltà per cui le altre erano fallite. Veniva salvato il lato metafisico a
apparentemente contraddittorio si realizzi. In modo miracoloso può dunque accadere che due corpi si trovino nello stesso luogo. Non esisterebbe, dunque, alcuna impossibilità metafisica che due corpi siano nello stesso luogo: “God can provide a basis for the distinction of bodies without the division of matter” (cf G. Thery, L’augustinisme médiéval et le problème de l’unité de la forme substantielle, Revue de philosophie, XXX, Parigi 1930, 660-689, 662).
91
discapito di quello filosofico-naturale; questo fu allora sufficiente, visto che i problemi
delle scienze naturali rimanevano ancora ai margini della sfera dell’interesse speculativo.
La soluzione tomistica, la voce della scolastica più matura, esclude che gli elementi si
mantengano nel misto substantialiter; è invece che le forme elementari delle sostanze
vengono distrutte e solo le loro qualità partecipano al miscuglio.
Anche contro questa soluzione si sollevano una serie di obiezioni. Ma san Tommaso
afferma anche che dalle qualità elementari si sviluppa una qualità intermedia, che
conserva qualcosa di entrambi gli estremi; come i colori medi conservano qualcosa degli
estremi, per esempio il pallidum qualcosa del nero e del bianco. La qualità media così
sviluppata è la propria qualitas mixti e contemporaneamente la propria dispositio ad
formam corporis mixti, proprio come le qualità semplici sono le ‘propriae dispositiones’
per le forme elementari. Per san Tommaso ogni forma esige una previa disposizione della
materia nella quale essa deve venire accolta, e questa disposizione ha il carattere di una
alteratio ed è un fenomeno che si svolge a livello delle qualità e che prepara la generatio
(la nascita della forma sostanziale).
La responsio di san Tommaso concentra l’analisi speculativa sul problema centrale della
questione: la possibilità che più corpi occupino lo stesso luogo. Nelle cose che sono
presso di noi questo è evidentemente impossibile: sappiamo, perché lo sperimentiamo
ogni giorno, che “quando in un determinato luogo sopraggiunge un corpo, da quello
stesso luogo ne viene espulso un altro”. Ma non si può accettare la conclusione di alcuni,
secondo i quali ciò è dovuto ad una caratteristica essenziale dei corpi, ché altrimenti
questi non potrebbero stare in nessun caso insieme. Due corpi possono stare in rapporto
al luogo in due modi: in un primo caso in relazione ad un determinato luogo; nel secondo
modo in base alla stessa natura corporea degli oggetti, per cui essi sono ‘essenzialmente’
in un luogo, non per caratteristiche esterne, ma per la somiglianza tra le dimensioni del
92
corpo stesso e del luogo in questione. Le dimensioni ineriscono, infatti, ad ogni corpo
senza alcuna eccezione e questo, assieme al fatto che qui si tratta non di un determinato
luogo ma del luogo “inteso in senso assoluto”, ci porta a dire che la causa del fatto che
più corpi non possono essere contemporaneamente nello stesso luogo “deve essere
ascritta alla natura stessa della corporeità”.
Per la sua soluzione del problema san Tommaso si richiama anche alla Fisica di
Avicenna il quale, escludendo che né la forma né la materia presa in se stessa siano ciò a
cui conviene d’essere propriamente nel luogo, ammette come necessario che sia la
materia in quanto tridimensionale a rapportarsi al luogo. Perciò, è impossibile che più
corpi così intesi possano occupare lo stesso luogo, in quanto essi finirebbero col
coincidere: verrebbe, infatti, a mancare l’unico elemento che li distingueva, e cioè le
dimensioni, che starebbero nello stesso e identico rapporto con lo spazio. È, dunque, la
natura stessa della corporeità ad impedire che due corpi occupino lo stesso luogo.
L’Aquinate segue fino ad un certo punto Avicenna, mentre poi nella responsio ad sextum
preferisce l’interpretazione di Averroè, che permette il passaggio ad una soluzione del
problema sul più conveniente piano metafisico.
Nella risposta alla sesta obiezione san Tommaso prende dunque chiaramente la sua
posizione: se pure si ammette col sesto argomento che gli elementi permangono nel
corpo misto secondo la loro forma sostanziale, non si può però ammettere che vi
rimangano come corpi in atto, altrimenti “nessun corpo misto sarebbe veramente uno,
mentre di fatto è uno in atto e molti in potenza”.
Per san Tommaso la tesi più attendibile è quella di Averroè, contenuta nel Commento al
terzo libro Sul cielo e il mondo: le forme degli elementi né rimangono nel misto né si
corrompono totalmente; “da esse, in quanto assumono gradazioni differenti, risulta una
forma media.” Le forme elementari, dunque, si ritrovano, le une più le altre meno, nel
93
misto, ma qui necessita per san Tommaso un accorgimento: a condizione che questo
avvenga in maniera virtuale nelle loro qualità proprie, queste ultime soltanto si uniscono
per formare una qualità media, poiché le forme sostanziali non sono suscettibili di più e
di meno. Le qualità elementari rappresentano, perciò, quasi i “propria instrumenta” delle
forme le quali, “secundum se”, non permangono, lo possono fare solo perché conservate
e ‘veicolate’ nelle qualità.
Ridotto in estrema e logica sintesi, tutto si concentra sul rapporto tra le qualità proprie
degli elementi e la qualità media propria del misto. Ponendo le prime come estremi e la
seconda come sintesi tra questi, possiamo dire che la qualità media non contiene gli
estremi come partes sui, né come componenti reali, bensì ‘secundum quandam
convenientiam’, nel senso che essa ha con entrambi in comune qualcosa che le qualitates
contrariae non hanno in comune tra loro. Le qualità estreme non causano quella media,
né esse sono realiter in essa contenute, esse hanno con la qualità media solo una certa
similitudo.
Si vede come, partita dalla domanda boeziana “se due corpi possano sussistere o possano
essere pensati nello stesso luogo”, la questione è condotta da san Tommaso attraverso
l’attualità dell’unione dell’elemento spirituale con quello materiale e di quanto resti della
loro sostanza nel nuovo individuum.
Facciamo solo un’ultima osservazione sulla responsio. San Tommaso accenna sin d’ora
la distinzione tra il metodo matematico e quello filosofico. In precedenza, (resp. art.2),
san Tommaso aveva delineato la differenza tra il logico e il filosofo in base alla
formalizzazione che la logica opera della materia da trattare. Qui egli, sulla base del fatto
che l’estrema irriducibilità di un corpo rispetto al luogo risiede nella materia, osserva che
“gli argomenti matematici non possiedono in questa materia un sufficiente valore
dimostrativo”: le realtà naturali, infatti, posseggono qualcosa che gli enti matematici non
94
presentano, e cioè la materia sensibile. La filosofia poggia sul solido terreno della realtà
che i nostri sensi avvertono quotidianamente ed ha per oggetto la natura contemplata con
il lume dell’intelletto: questo è importante per non confondere la metafisica, che è la
quinta essenza della filosofia, con astrazioni prive di contenuto oggettivo, cioè con una
disciplina priva di qualunque terreno di confronto con le altre scienze.
Ciò che è rimasto irrisolto anche in san Tommaso è cosa ne sia delle qualità, visto che la
forma sostanziale degli elementi deve essere distrutta nella realizzazione del composto e
che a entrare in gioco in quest’ultimo è la qualità media, che costituisce la qualitas
propria del misto. Il problema non è di poco conto: trattando della Trinità, infatti, si
poneva l’imbarazzo se le singole Persone che la compongono restano o meno con le
proprie peculiari determinazioni, se cioè queste vanno perdute nel formare l’unità
perfetta delle tre diverse sostanze, o se invece resti come insopprimibile la loro
individualità. Si tratta, dunque, di capire se le prime qualità dipendano o no dalla forma
sostanziale e se esse si sviluppino e muoiano con la qualità media del composto, e se
quindi la forma stessa introdotta nella materia determini o no dal canto suo una qualitas
media.
Tuttavia, è questo lo sviluppo più completo della teoria dell’Aquinate: il mantenimento
dell’identità numerica delle qualità nel cambiamento della forma sostanziale. Ma a
questo punto, e infine, sembra che il cerchio si chiuda tornando ad Avicenna: alla
domanda ‘come si mantengano nel misto le qualità degli elementi’, san Tommaso
risponde che le qualità operano solo in virtute formae substantialis e che, per questo, nel
misto restano le virtutes delle forme elementari. In altre parole: le forme sostanziali degli
elementi vengono conservati in virtute (o virtualiter) nel composto; col che viene anche
realizzata la formula aristotelica: “salvatur enim virtus eorum.”
95
L’alternativa non si giocava, dunque, tra il reale mantenimento e il rapporto di
similitudine delle qualità, bensì tra la semplice distruzione e il “manere secundum
quandam convenientiam”. “Das ist also die ‘tertia opinio’, die neben die Thesen
Avicennas und Averroes’ tritt und mit diesen zusammen den Ausgangspunkt bildet für
die Diskussion des Problems im späten 13. und 14. Jahrhundert”132.
Possiamo, perciò, concludere col Roland Gosselin che “tutti gli elementi nuovi della
teoria dell’individuazione si trovano raccolti nella bella sintesi che si legge nel
Commentario al De Trinitate di Boezio, nel quale è giusto vedere il compimento delle
opere precedenti”133.
L’ultimo articolo di questa quarta questione ribadisce in una prospettiva diversa quanto
già detto: la domanda “se la varietà del luogo contribuisca in qualche modo alla
differenza numerica” non è una ripetizione o pura obbedienza alla forma del commento,
ancora una volta essa riallaccia coerentemente l’analisi fisica all’argomento trinitario.
“La diversità numerica è causata dallo stesso principio da cui viene causata la necessità
della diversità dei luoghi in corpi diversi”, e cioè la materia soggetta alle dimensioni, la
‘materia signata’. Per questo Boezio può affermare che la diversità dei luoghi, essendo
tra tutti gli accidenti il più vicino alla causa della diversità numerica, può esserne
considerata non solo il suo segno esterno, ma appunto la sua causa. Boezio ha ragione se
ammettiamo che individuazione e luogo hanno la medesima radice.
Nelle singole risposte agli argomenti in contrario, san Tommaso spiega meglio questo
concetto importantissimo: si tratta della categoria analogica del ‘segno’. Tutti gli
accidenti, escluse le dimensioni interminate, non sono propriamente la causa della
132 A. Maier, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft. Studien zur Naturphilosophie des 14. Jahrhunderts, Essener Verlagsanstalt, Essen 1943, 40. Si veda, inoltre, G. Thery, cit. Per un’analisi più diretta della dottrina tomistica sull’argomento, invece, si veda: Summa contra Gentiles, II, c. LVI; Summa Theologiae, I, q. LXXVI, a.4 e Le Correctorium corruptorii Quare (ed. P. Glorieux, Bibl. Thomiste IX, 1927), in primam partem Summae art. XLVIII (p. 203 e sgg.). 133 M. D. Roland-Gosselin, cit., 107.
96
diversità numerica, quanto un suo segno indicativo, “e ciò vale soprattutto per la diversità
locale, che ne è il segno più immediato.
97
Capitolo IV: la scienza teologica.
1. La teologia tra sapienza e scienza.
Innanzitutto, bisogna chiedersi se sia appropriata la classica suddivisione della filosofia
speculativa nell’ordine proposto da Boezio: naturale, matematica e divina.
Il ragionamento di san Tommaso si fonda su due considerazioni. Prima di tutto l’idea che
il soggetto della matematica e della fisica sono parti del più grande soggetto trattato dalla
metafisica. In seconda istanza, il fatto che si è ormai consumato il passaggio dalla
metafisica dell’ente alla teologia, scienza divina quale scienza del primo ente, che è Dio.
E questo secondo passaggio si lega automaticamente al primo: “il soggetto della scienza
divina, che è la filosofia prima, è infatti l’ente, di cui la sostanza mobile, di cui si occupa
il filosofo naturale, non è che una parte”.
San Tommaso conferma l’ordine proposto da Boezio. La fisica e la matematica sono per
noi anteriori, poiché ogni conoscenza umana inizia dai sensi. La teologia, infatti, ha
bisogno innanzitutto delle nozioni determinate dalle scienze naturali e poi della
matematica, che la aiuta nello studio delle sostanze separate. Tutte le altre scienze, infine,
“concorrono al suo compimento ottimale”.
Non bisogna però intendere questo mutuo rapporto come un circolo134: se è vero, infatti,
che “la metafisica da una parte presuppone cose che vengono provate in altre scienze, e
134 Sicuro riferimento ad Avicenna Metafisica I, cap.3. Rimandiamo a J. F. Wippel, Aquinas and Avicenna on the relationship between first philosophy and the other theoretical sciences (In De Trin., q. 5, a. 1 ad 9), in Metaphysical Themes in Thomas Aquinas, Studies in Philosophy and the History of Philosophy, X, The
98
dall’altra provvede essa stessa a provare i principi delle altre”- non si può dire che esista
un rapporto di questo tipo tra i principi che la scienza naturale riceve dalla filosofia prima
e l’uso che quest’ultima ne fa. Il filosofo primo, infatti, prova le cose che riceve dalla
filosofia naturale attraverso “alia principia per se nota”, e similmente il filosofo primo
non prova i principi che consegna a quella naturale per mezzo dei principi che riceve da
quest’ultimo, ma ancora “per alia principia per se nota”. Non si dà, dunque, alcun
circolo, quanto piuttosto uno scambio biunivoco tra la teologia e le altre due scienze.
Inizialmente, infatti, sono per noi più noti gli effetti sensibili, tant’è che la nostra
conoscenza procede ‘a posteriori’, cioè attraverso una demonstratio quia che ci fa
apprezzare solo l’esistenza, il ‘che’ di una cosa, il suo ‘se è’ (an est). Giunti alla
conoscenza delle cause prime, possiamo invece ricavare il ‘propter quid’, che spiega la
causa che è dietro “quegli effetti di cui ci eravamo serviti per la dimostrazione
dell’esistenza (quia) delle cause”. In tal modo la scienza naturale aiuta la scienza divina
consegnandole la sua osservazione dei dati sensibili, “mentre quella rende noti i principi
della prima. E per questo Boezio pone per ultima la scienza divina, perché essa è tale per
noi”.
In questo senso la teologia è chiamata anche meta-fisica, perché è appresa da noi a partire
dalle cose sensibili, che sono oggetto della fisica; e filosofia prima, “in quanto le altre
scienze, ricevendo da essa i loro principi, vengono dopo di essa”.
Nella suddivisione Boezio si rifà ad Aristotele alla luce della preminenza dell’oggetto
della teologia. Boezio, inoltre, uomo religioso e teologo oltre che filosofo, distingue bene
tra teologia e metafisica -influenzato anche sicuramente dalla dottrina platonica delle idee
immobili e assolutamente separate dalla materia- ma non porta alle estreme conseguenze
Catholic University of America Press, Washington D.C. 1984, 37-53, dove lo studioso dimostra che “la sua (dell’Aquinate) dipendenza da Avicenna è di gran lunga più grande di quanto possa far pensare il breve riferimento nel testo. Sembra che egli sia fortemente dipendente da Avicenna sia per l’obiezione concernente la possibilità della circolarità sia per i diversi passaggi della sua risposta a questa obiezione”, p. 53. Traduz. nostra.
99
la concezione platonica del mondo sensibile. L’uomo conosce astrattivamente per gradi
realtà che sono differenti tra loro per il loro diverso grado d’astrazione dalla materia e dal
movimento.
In Boezio la matematica, con non poche difficoltà, assume un posto intermedio tra la
fisica e la teologia: i suoi oggetti sono infatti astratti dalla materia, mentre quelli delle
altre due scienze sarebbero realtà effettivamente esistenti. Gli oggetti della matematica
soffrono invece del loro essere a metà strada tra oggetto di scienza (‘intellegibilia’
appunto) e realtà cui tale oggetto si riferisce.
La sintesi offerta da san Tommaso supera quella già “assai efficace” data da Boezio135.
L’Aquinate nel suo Commento insegna che il ‘termine’ della conoscenza non è identico
ma analogo secondo i tre diversi gradi astrattivi: sensus (fisica), imaginatio (matematica)
e intellectus (teologia). Il criterio rispetto a Boezio muta così considerevolmente: la fisica
è una scienza non separata secondo l’essere dalla materia, la matematica lo è secondo
l’essere ma non secondo la definizione, metafisica e teologia sono separate dalla materia
sia secondo l’essere che secondo la definizione136.
Ma la migliore definizione tomistica della teologia nel suo rapporto con le altre scienze è
data nel secondo articolo della seconda questione dove, occupandosi della possibilità di
“costruire una scienza delle cose divine”, introduce l’importante distinzione, di matrice
agostiniana, tra sapienza e scienza: “ergo est sapientiae et scientiae recta distinctio: ad
sapientiam pertineat aeternarum rerum cognitio intellectualis, ad scientiam vero
temporalium rerum cognitio rationalis” (De Trinitate XII, 15, 25). Sembra, dunque, che
135 Cf L. Obertello, Severino Boezio, cit., 586. 136 Ci preme sottolineare che è su questa base che teologia e metafisica si distinguono: infatti, alcuni ‘intellectibilia’ sono sempre separati dalla materia, altri a volte sì e altre no. La posizione di san Tommaso aggiunge dunque almeno due elementi di novità rispetto a Boezio: la distinzione tra astrazione e separazione e la limitazione dell’importanza dell’illuminazionismo pseudoagostiniano (che, come abbiamo già visto, giocò invece quasi un ruolo di sutura tra le incongruenze del sistema boeziano). Le differenze tra i due sono già tutte nella diversa terminologia: l’åãêýêëéïò ðáéäåßá della cultura classica di contro alla summa scolastica.
100
la più alta patristica abbia inteso esserci due direzioni completamente opposte tra il culto
delle cose divine e lo studio delle cose naturali.
La responsio riprende, reinterpretandola, la distinzione introdotta in apertura di articolo:
delle cose divine può sicuramente esservi scienza in quanto, come per qualunque (altra)
scienza, anche in quella divina desumiamo “in modo necessario alcune cose da altre già
note”. Nel prologo abbiamo visto che la metafisica significava indifferentemente
metafisica dell’ente e teologia razionale: ora scopriamo che la scienza che si occupa delle
cose divine è in realtà duplice, perché altra è la scienza che procede dalle creature al
Creatore, “la filosofia prima”; altra è la scienza che muove per fede dalle stesse realtà
divine, la “sacra doctrina”.
La scienza delle cose divine può essere riguardata da diversi punti di vista: a partire dai
sensi, attraverso le creature, cioè rispetto a noi; oppure rispetto a se stessa, dunque
massimamente conoscibile, ma solo da Dio e dai beati. Dal primo modo di considerare la
materia divina è nato il tipo di scienza tramandataci dai filosofi antichi: è la filosofia
prima, la metafisica dell’essere.
L’altro punto di vista è quello dello sguardo stesso di Dio che vede le cose per come sono
in sé e non è assolutamente accessibile all’uomo: “è possibile invece solo partecipare in
qualche misura di esso e avvicinarci alla conoscenza divina, in quanto, attraverso la fede
infusa in noi, possiamo penetrare nella verità prima in virtù di essa”, e questa è la scienza
divina.
Così tra l’uomo e Dio è possibile un parallelo: il primo può, da ciò che accoglie per fede,
“aderendo alla verità prima”, procedere ‘secundum modum nostrum’, argomentando dai
principi alle conclusioni, “in modo tale che le cose che teniamo per fede fungano per noi,
in questa scienza, quasi da principi, il resto quasi da conclusioni”. Allo stesso modo di
Dio che, aderendo anch’Egli, nel conoscere se stesso (=principi primi), alla verità prima,
101
“conosce anche tutte le altre cose, nel modo a Lui proprio (e cioè attraverso il semplice
intuito e non in modo discorsivo)”.
Sapienza e scienza non si rapportano tra loro come due opposti, pur distinguendosi tra
loro. La sapienza è qualcosa di più della scienza, cui si aggiunge. Dice bene Aristotele
nel sesto libro dell’Etica: “la sapienza è il vertice di tutte le scienze, che regola tutte le
altre in quanto tratta dei principi supremi”. Nella Metafisica è chiamata “Dea delle
scienze”, proprio perché ha la sua stessa origine, non solo il suo oggetto di studio, in tali
principi. Sapienza è il nome proprio di questa scienza suprema, “mentre la
denominazione scienze rimane riservata alle arti inferiori”.
L’Aquinate paragona poi la scienza al ‘proprio’ e la sapienza alla ‘definizione’: allo
stesso modo che il ridere dell’uomo non rientra nella definizione di uomo come animale
razionale, la sapienza si distingue dalla scienza in base a qualcosa di esterno alla
definizione della scienza stessa, in base cioè al compito di dirigere le scienze.
Dunque per fare della teologia una scienza non è necessario conoscere l’essenza divina.
In un altro modo si può dire che la non conoscenza dell’essenza divina può costituire la
quiddità di quest’ultima stessa: cioè, delimitando i contorni di ciò che in realtà non ci è
possibile afferrare, giungiamo comunque a distinguere questo qualcosa dal resto.
Nella risposta ad 4m san Tommaso afferma che ogni scienza ha principi e conclusioni:
l’uso della ragione è a metà strada tra l’assenso nei confronti delle conclusioni e quello
nei confronti dei principi. In particolare nel caso della scienza delle cose divine i principi
di fede “non fungono quasi da conclusioni, ma quasi da principi”: essi, quali “principia
naturaliter nota”, vengono approvati per induzione e non per mezzo della ragione
dimostrativa.
San Tommaso prende avvio di qui per parlare delle “scientiae subalternatae”. Anche
presso molte scienze umane vi sono principi evidenti a tutti e “che occorre desumere
102
dalle scienze superiori”. Solo a chi possiede queste ultime, saranno chiari i principi delle
scienze subalternata corrispondenti. La conoscenza che Dio ha di se stesso regge i
capisaldi della nostra fede; essi ci sono rivelati da Dio stesso e ci sono da Lui comunicati
attraverso suoi testimoni. Ciò che in Dio è per sé noto viene, dunque, da noi presupposto.
Alla scienza di Dio (=che Egli ha di se stesso) è subalternata la nostra scienza divina.
Il fatto che l’intelletto sia in genere nelle altre scienze principio che riesce a condurre alle
conclusioni, non ne fa l’unico possibile principio di una qualsivoglia scienza. L’intelletto
è sempre principio primo ma non sempre quello prossimo; nelle scienze subalternate
quest’ultimo è la fede, mentre chi possiede la scienza superiore pone il suo intelletto
quale principio primo, “in quanto questi è certo, per mezzo dell’intelletto, delle cose che
nelle scienze subalternate vengono semplicemente credute”. Similmente, della scienza
suprema di Dio il principio prossimo è la fede, il principio primo l’intelletto divino.
La fede è infusa in noi per condurci ad avere conoscenza di ciò in cui crediamo, “così
come chi ha una conoscenza meno elevata, quando raggiunge la scienza di chi possiede
un sapere più elevato, arriva a comprendere o sapere ciò che prima si limitava soltanto a
credere”.
Il punto più interessante dell’intero articolo è sicuramente la prima obiezione e la risposta
di san Tommaso che abbiamo appena brevemente esposto.
In un articolo sulla posizione di san Tommaso circa la distinzione tra scienza e sapienza,
lo Owens assume una posizione critica nei confronti dell’Aquinate: allo studioso sembra,
infatti, che la prima obiezione che spontaneamente sorge, in chi legge queste pagine, sia
che le altre scienze non possono in alcun senso filosoficamente possibile essere
considerate ‘proprietà’ della sapienza, tanto nella sua forma secolare (la metafisica) che
in quella sacra (la teologia)137.
137 J. Owens, A Note on Aquinas, ‘In Boeth. de Trin.’ q.2 a.2 ad 1m, The New Scholasticism, Washington DC, LIX, 1985, 102-108.
103
Da questo lo studioso americano deduce che il punto di vista dell’Aquinate potrebbe
essere inteso nel senso che le competenze in metafisica siano il risultato delle
competenze in matematica, astronomia, ottica etc.; come se la sapienza fosse la semplice
somma di tutte le altre scienze dello scibile umano. Né la metafisica né la teologia sacra
sarebbero perciò l’essenza dalla quale le altre scienze sgorgherebbero e che esse
necessariamente presupporrebbero: “uno può essere un biologo o un ingegnere senza
essere né un metafisico né un teologo”138.
Ammettendo un tipo di dipendenza come la intende Aristotele -la ‘sapienza’ come
“scienza sovrana e più di tutte degna di far da guida, e in quanto ad essa tutte le altre
scienze, come ancelle, giustamente non possono replicare”139- si corre il rischio di vedere
una distanza ‘essenziale’ tra i diversi modi di conoscenza dell’essere. Tanto più che
Aristotele continua nello stesso passo dicendo: “infatti, fra coloro che conoscono la
medesima cosa secondo differenti modi, noi diciamo che conosce di più che cos’è la cosa
colui che la conosce nel suo non-essere; e anche fra coloro che la conoscono nel primo
modo, c’è chi la conosce più di un altro, e più di tutti la conosce chi ne conosce
l’essenza, e non la qualità o la quantità o il fare e il patire”140.
Secondo lo Owens la proporzione secondo cui la sapienza sta alle altre scienze come la
definizione sta al suo ‘proprium’ è in contrasto con il “dividitur contra” che lega i due
membri della proporzione.
Al di là della inesatta interpretazione dell’espressione, rimandiamo direttamente al testo,
più precisamente all’incipit della stessa prima responsio, dove san Tommaso dice: “Ad
primum ergo dicendum quod sapientia non dividitur contra scientiam, sicut oppositum
contra suum oppositum, sed quia se habet ex additione ad scientiam”.
138 Ibid., 103. 139 Metaf. II, 2, 996b10-12. 140 Ibid., II, 2, 996b15-19.
104
Lo studioso prosegue dicendo che in un passo dell’ultima questione (q.6 a.1 ad 1m) lo
stesso Aquinate afferma che una scienza sbaglia se procede da principi che non le
appartengono: ma questo assioma sarà difficilmente rispettabile se le scienze inferiori
devono essere riguardate come una proprietà di quella superiore.
In realtà, ci sembra difficile ignorare a tal proposito che san Tommaso, soprattutto nella
quinta questione, dimostra che la scienza divina (metafisica o teologia che sia) ha le
proprie basi nella realtà sensibile, che è oggetto di studio della scienza naturale (o fisica);
e che non fa problema che una scienza, anche superiore (perché tale è il suo oggetto),
utilizzi le conclusioni di un’altra disciplina come principio di un proprio ragionamento.
Ma allora, si chiede nella sua veste di scettico lo studioso: “Che tipo di distinzione ha
dunque in mente l’Aquinate in questo passo?” Egli, infatti -pur rendendosi conto che
l’Aquinate esclude la soluzione ‘opposto contro opposto’, poiché la sapienza e le scienze
inferiori, entrambe scienze, non condividono lo stesso genere e perciò non possono dirsi
‘opposte’- continua a cercare dove sia la ragione della differenza tra i due gradi di
‘scienza’.
Seguendo questa direzione egli si richiama al Filosofo, che fa dipendere la ‘scientificità’
delle scienze ‘seconde’ dalla perfetta ‘scientificità’ della ‘prima’, che è appunto scienza
par excellence. L’essenza scientifica delle altre non esisterebbe dunque di per sé ma solo
“through focal reference to it [scil.: la perfezione di primo grado della sapienza]”. Ma
una scienza, obietta a questo punto lo studioso, è tanto più perfetta quanto più le cause
più elevate sono conosciute e questo è possibile però solo alla sapienza, mentre le altre
scienze fanno del loro meglio per realizzare la nozione di conoscenza attraverso le cause.
Questa è la prospettiva aristotelica, mentre lo Owens ammette che san Tommaso
riconosce che compito di una qualunque disciplina è giungere a spiegare nel modo
migliore le proprie cause supreme, sia che si tratti delle cause prime in assoluto, come nel
105
caso della sapienza, sia che si tratti dei propri principi primi, ed è il caso delle scienze
‘inferiori’. Tutte le scienze condividono la stessa essenza, solo che la sapienza ha uno
status di coordinatrice rispetto alle altre.
Perciò, la differenza tra i due tipi di scienza è da ricercare non in una caratteristica interna
all’essenza o alla definizione di uno dei due tipi, bensì in questa proprietà estrinseca della
sapienza rispetto alle scienze inferiori.
Secondo lo Owens tanto la scienza divina quanto le altre scienze rispondono alla
condizione essenziale per essere definite scienze: sono, cioè conoscenza attraverso lo
studio delle cause. Perciò non si può dire che san Tommaso con la metafora della
definizione intendesse necessariamente una subordinazione o un contrasto tra quella e le
scienze profane141.
Lo Owens non fa però alcun cenno del fatto che la sapienza, studiando l’in se dell’ente in
quanto ente, costituisce per forza di cose il presupposto, la base di qualunque altra
indagine naturale, nel pieno rispetto dei principi e dei metodi propri di ogni altra
disciplina. La dignità, la pienezza di ogni disciplina resta nel suo ambito, non può
realizzarsi al di fuori di sé.
È questa d’altronde a nostro avviso la posizione di Aristotele -che lo stesso Owens non
manca di citare- quando formula il paragone tra l’ambito della medicina, cui inerisce in
diversi modi il ‘sano’, e quello della scienza, che ha per oggetto l’essere nelle sue
molteplici manifestazioni142, e conclude:
“Ora come di tutte le cose che sono dette ‘sane’ c’è un’unica scienza,
così è anche negli altri casi. Infatti, non solo compete a un’unica
141 Cf J. Owens, cit., 106: “The property, though its notion implies its subject, remains outside the subject’s strict definition. In both cases –science versus wisdom, property versus definition- the distinguishing feature lies outside the definition of the subject. In neither case does the one become the opposite of the other, as each would be if the distinguishing features were specific differentiae within the essence”. 142 Cf Metaf., 4, 2, 1003a33-b19.
106
scienza lo studio delle cose che si dicono in un unico senso, ma anche
lo studio delle cose che si dicono in diversi sensi, però in riferimento
ad un’unica natura (…). È evidente, dunque, che gli esseri saranno
oggetto di un’unica scienza, appunto in quanto esseri”.
Rimandando oltre la nostra esposizione della sintesi magistrale che san Tommaso ci ha
offerto, facciamo solo un’osservazione. Ci sembra che lo Owens sottolinei troppo la
differenza tra la teologia e le scienze profane, pur ritenendo che sia solo una differenza di
soggetto -o meglio di grado del soggetto in atto (l’essere)- a farne due distinti saperi.
Anche la teologia sarebbe dunque una scienza, ma ad un livello nettamente superiore alle
altre, e da tale altezza essa sembra impartire ordini, ascoltati o meno, alle proprie
subordinate. Questa distanza serve a collocare in due generi diversi i due diversi tipi di
scienza, ma se evita la loro opposizione essenziale non spiega a nostro avviso la loro
comune radice scientifica.
San Tommaso andò oltre. Non si trattava in lui della semplice distinzione dei rispettivi
ambiti di competenza della filosofia e della teologia, oggetto già dell’attenzione generale
della teologia scolastica anche prima di lui143. Era invece un tema scottante che lo
riguardava in prima persona, quale esponente di un ordine di predicatori al suo primo
confronto diretto con i maestri profani.
143 In questo senso il caso più tipico fu proprio il maestro di san Tommaso, sant’Alberto Magno, tra i primi sostenitori di una introduzione senza riserve dell’aristotelismo nell’Università delle arti di Parigi. Pure lui distingue tra ciò a cui può arrivare la filosofia da ciò che è oggetto di fede. Nel suo Commento alle Sentenze (L. I, dist.III, a.3). Alberto risolve la questione “an ista cognitio naturalis differt a cognizione fidei? (…) Et videtur, quod in nullo.” In realtà nella solutio indica le differenze tra la conoscenza filosofica di Dio e quella che si ha per fede. “In quinque differunt ad minus”: 1) in primo luogo “in comparatione scientiae ad scientiem”: nella conoscenza filosofica si procede con la sola ragione (“processus naturalis subest rationi”) mentre nella fede si va oltre la ragione (“est supra ratione”); 2) la seconda differenza sta “in principiis in quibus accipitur cognitio ipsa”: la filosofia parte da premesse che devono essere per se nota, ossia immediatamente evidenti, mentre nella fede c’è un lumen infusum che “informando conscientiam, rationem convincit magis ex amore quodam voluntatis, quam ex probatione rationis”; 3) in terzo luogo “in efficiente cognitionem”: la filosofia parte dall’esperienza delle cose create, mentre la fede parte da Dio stesso; 4) “quarta est in cognito”: la conoscenza naturale non ci avvicina alla nozione del “quid est”, cosa che accade invece attraverso la conoscenza per fede; 5) infine, “ex parte subiectorum”: la filosofia è un procedimento puramente teoretico, mentre “fides est in intellectu affectivo, etiam informis”, dove perciò è anche ammessa la contraddizione (Cf in proposito S. Vanni–Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 14 nota 23).
107
San Tommaso non volle ridurre la teologia ad una scienza esoterica e sostenne che è
necessario che la teologia possegga un lessico, un ambito e un metodo suoi peculiari.
La questione ha un certo interesse se viene ricondotta nell’ambito delle prime discussioni
sulla deontologia professionale dei maestri di teologia, sviluppatesi nell’Università
parigina intorno alla metà del secolo.
Le provocazioni ‘filosofiche’ del laicismo universitario furono dunque il teatro della
“straordinaria sintesi di fede e ragione, di teologia e filosofia”144 quale fu l’opera
dell’Aquinate. In questo senso dunque non si può dare alcuna ideale ipostatizzazione dei
rapporti tra fede e ragione, che nacquero innanzitutto a livello istituzionale con la
posizione “ancillare” della filosofia rispetto alla teologia145.
Accogliendo infatti i maestri e gli studenti più giovani, la Facoltà delle arti è subordinata
di conseguenza alla facoltà di teologia.
La cornice è la crisi del XIII secolo, quando la teologia è costretta a fare i conti con
un’ancilla, nella fattispecie appunto la Facoltà delle arti di Parigi, che dichiara battaglia
alla sua domina. Tutto ciò avveniva prima ancora dei riflessi teorici di questo conflitto,
che ebbero in san Bonaventura il loro primo e più vivace portavoce146.
Ma i dissensi e i contrasti tra i maestri della Sacra Scrittura e quelli delle Arti profane
non giocarono alcun ruolo nel caso dell’Aquinate. L’ambiente universitario parigino fu
l’humus in cui san Tommaso trovò stimolo per le sue ricerche, ma mai per accese
dialettiche contro gli avversari. La Facoltà delle Arti fu, infatti, l’erede diretta delle
144 A. De Libera, cit., 381. 145 Rimandiamo all’interessante articolo di Tullio Gregory Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, Belfagor, XIX, Leo S. Olschki, Firenze 1964, 1-16, dove il filosofo traccia un percorso storico che descrive il quadro in cui nasceva il “problema dei rapporti tra filosofia e teologia o, più precisamente, si profilava (…) il contrasto tra una determinata filosofia, estranea al cristianesimo, e il patrimonio di dottrine che la riflessione medievale era venuta via via organizzando in un sapere intrinsecamente cristiano” (p. 3). 146 La nostra fonte è ancora il De Libera, cit., 91. L’autore continua dicendo che “negli anni 1260-1270 le aspirazioni degli ‘artisti’ si cristallizzano in rivendicazioni e in istanze di ogni genere, le quali testimoniano una presa di coscienza delle condizione di ‘filosofo’, contemporaneamente alla nascita di un certo ideale di vita autoregolata, ideale che trova in se stesso la propria giustificazione”.
108
scuole di logica del XII secolo, perciò un patrimonio utilissimo per l’esordiente
teologo147.
Chiarita la posizione della teologia rispetto alla scienza e definito il rapporto e la
gerarchia tra fede e ragione naturale, passiamo perciò ora a vedere ciò che riguarda
specificamente la sacra doctrina, che diventava in quegli anni una disciplina
universitaria a tutti gli effetti al pari delle altre della Facoltà delle arti di Parigi.
L’ultimo articolo della quinta questione discute dell’oggetto della teologia,
precedentemente ammesso dall’Aquinate con un semplice processo di esclusione, e
chiede “se la scienza divina si occupi di ciò che è privo di materia e di movimento”.
La scienza divina verte su Dio e gli Angeli. Questi due oggetti sono privi di materia e di
movimento, ma non permettono di escludere qualunque rapporto della loro scienza con
questi due accidenti. Infatti, per giungere alla nozione Dio l’uomo deve passare
attraverso gli effetti sensibili.
Per san Tommaso le argomentazioni portate a sostegno di questa tesi non sono
ultimamente probanti: infatti, come la scienza naturale assume alcuni principi della
matematica, così anche la teologia può servirsi accidentalmente di principi materiali per
esprimere i propri principi; bisogna tener presente che ciò di cui una scienza si serve per
manifestare altro non le appartiene necessariamente.
La risposta presenta la soluzione completa che san Tommaso dà del problema.
147 Per la posizione di san Tommaso di fronte ai rivolgimenti culturali della sua epoca, in particolare nel suo rapporto con l’università di Parigi coinvolta in prima linea nella crisi del XIII secolo, rimandiamo a due contributi fondamentali raccolti nel volume Il pensiero di Tommaso d’Aquino e i problemi fondamentali del nostro tempo, Herder, Roma 1974. Il primo di Chenu: S. Thomas innovateur dans la creativité d’un monde nouveau, pp. 27-33, che parla di una crisi istituzionale e dottrinale ai tempi di san Tommaso (1220-1260) e “se questa parola ha un senso, nell’analisi sociologica dei cambiamenti, essa vale certamente per il secolo di san Tommaso, presso il quale essa si inscrive come in filigrana” (p. 31). L’altro di Van Steenbergen: Thomas d’Aquin devant la crise du XIII siecle, pp. 35-44, che parla di “una crisi culturale di estrema gravità” e si chiede come san Tommaso abbia reagito di fronte a questa situazione e, prima di tutto, se avesse egli percepito il pericolo che minacciava la cristianità del XIII secolo, se ne avesse misurato la posta in gioco e, infine, quale fu l’efficacia della sua azione.
109
Secondo san Tommaso la cosa più importante da fare per chiarire la questione è stabilire
quale scienza debba essere chiamata ‘divina’. Come sostiene Aristotele presentando le
basi della sua Fisica, ogni scienza deve proporsi come primo compito di considerare i
principi del proprio “genus subiectum”, e sarà tanto più perfetta quanto più perfettamente
chiarirà questi determinati principi.
I primi principi devono necessariamente essere enti al massimo grado, il che consente
loro di esprimere massimamente la propria natura ma anche di fungere da principio
dell’ente per ogni altra cosa. Devono, inoltre, essere quanto più completi possibile, perciò
contenere tutto al minimo della potenza ed essere per conseguenza atto al massimo
grado. Infine e proprio per quanto presupposto, devono essere assolutamente privi di
materia. A questo ‘identikit’ corrispondono le cose divine, “perché se il divino esiste da
qualche parte, esiste –soprattutto- in questa natura, cioè nella natura immateriale e
immobile, come si dice nel VI libro della Metafisica”148. Queste realtà divine sono,
dunque, enti perfetti in sé e contemporaneamente principi comuni di tutti gli enti: per il
concetto di ‘per se notum’ già chiarito precedentemente, il lume della nostra ragione
naturale non può pervenire ad essi -pur in sé massimamente noti- se non a partire dagli
effetti.
A questo livello si sono innalzati i filosofi che sono riusciti a contemplare con la sola
ragione le vette del divino e vi hanno costruito quella che essi chiamano ‘scienza divina’,
che studia l’ente in quanto ente, quell’ente cioè che è comune a tutti gli enti.
Ma quelle stesse realtà divine hanno una propria evidenza ontologica, una propria
capacità di manifestazione che può astrarre dai loro stessi effetti: per questo l’Apostolo
parla di ciò che è proprio di Dio come di qualcosa che nessuno ha mai veramente
conosciuto, e che lo Spirito è stato inviato a rivelare.
148 VI, 1, 1026a20. Aristotele nel primo capitolo del sesto libro della sua Metafisica svolge l’ipotesi se ci sia una natura immobile cui far corrispondere una ‘scienza prima’; in caso contrario si deve ammettere che il primo posto spetta alla filosofia della natura (o fisica) che scalzerebbe le altre due.
110
A questo punto facciamo una scoperta:
“dunque la teologia o scienza divina è duplice: una in cui le realtà
divine vengono considerate non come il soggetto della scienza, ma
come principi del soggetto, e tale è la teologia che è portata avanti dai
filosofi, e che con altro nome viene chiamata metafisica; l’altra invece
che considera le stesse realtà divine per sé come soggetto della scienza,
e questa è la teologia che viene esposta nella Sacra Scrittura”.
Qualcosa può, infatti, dirsi separato dalla materia secondo l’essere in due modi: perché è
la natura della cosa stessa separata che ‘contiene’ l'impossibilità di congiungersi alla
materia; o in modo che non sia proprio di quella natura l’essere nella materia e nel
movimento, ma solo una possibilità contingente.
Alle realtà divine compete essenzialmente -in senso assoluto- il fatto di non essere nella
materia e nel movimento; agli oggetti della metafisica (ente, sostanza, potenza, atto)
compete la possibilità di non essere nella materia e nel movimento, per quanto talvolta (o
anche spesso) essi si trovino nella materia e nel movimento. La metafisica (o teologia
filosofica) ha le realtà divine in questo secondo modo, come soggetto del proprio studio;
e nel primo modo come principi di tale soggetto. La teologia della Sacra Scrittura,
invece, considera propri principi le realtà separate secondo il primo modo, soggetto della
propria indagine le altre, anche se queste ultime hanno alcune cose che sono nella
materia e nel movimento.
Notiamo che san Tommaso nella revisione del testo del suo commento si discosta dalla
sua prima scelta di seguire Aristotele e Boezio, distinguendo ora tra abstractio e
separatio, indicando così chiaramente la sua personale concezione della metafisica. Il
metafisico non astrae nulla da nulla, egli tratta infatti le cose esattamente per quello che
sono senza doverle ricavare da altro. “Ciò equivale a dire che, se si può esprimere questo
111
giudizio: ‘non tutti gli esseri sono materiali’, ne consegue l’esistenza di un nuovo oggetto
di ricerca”149.
In questi termini si spiega così l’enorme ricchezza del termine ‘doctrina sacra’ che
potrebbe sembrare anacronistico rispetto all’evoluzione della teologia nel XIII secolo.
San Tommaso stesso infatti distingue tra Scrittura e teologia, fede e teologia. Ma “il
termine doctrina sacra non è affatto decaduto”, esso copre ancora tutto il campo del
sapere cristiano, dalla sacra scriptura alla speculazione teologica. La teologia resta
comunque una e la fede è ciò che ne tiene insieme i diversi e nuovi significati150.
Attraverso quest’opuscolo san Tommaso si prefiggeva dunque di persuadere della
razionalità degli articoli di fede, nell’ambito del passaggio storico dalla doctrina sacra
alla formazione della teologia come ‘scienza’ che si consumò proprio a cavallo tra XII e
XIII secolo. Ne sono tappe le dottrine trinitarie di Boezio, sant’Agostino e, infine, san
Tommaso.
Boezio è solo l’inizio di tale processo, poiché eredita da Aristotele (Metafisica, libro I)
l’idea della metafisica come scienza dei principi. Lo Chenu riconosce a Boezio il ruolo di
aver compiuto molteplici tentativi di costruire una teologia deduttiva a partire da assiomi,
preliminarmente definiti. Secondo lui nei suoi trattati Boezio ha intrapreso, in atto e già
nella riflessione metodologica, “il disegno di un sapere teologico in cui la fede fa uso di
ragioni, in una fiducia nella natura dello spirito che sorprende l’assolutismo di certi
credenti. A buon diritto è il primo degli scolastici, anche in teologia”151. Simile il
giudizio del Grabmann, per il quale l’impostazione generale degli opuscoli teologici di
Boezio, e in particolare lo sforzo di chiarire ed illuminare la materia di fede con l’aiuto
149 J. A. Weisheipl, Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 1994², 142. 150 Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 114-5. 151 M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 175-6.
112
della filosofia, ha fornito al metodo scientifico della teologia scolastica uno dei modelli
più alti152.
Mentre tuttavia in Boezio il centro delle discipline è la filosofia, cui la logica va
subordinata, in san Tommaso la teologia è al centro di una disputa infuocata per
l’affermazione del suo status di scienza. L’ultima parola dell’Aquinate su questo
argomento rappresenta già l’idea matura che egli, nelle sue opere successive, potrà solo
meglio precisare ed esprimere153.
San Tommaso non prese semplicemente posizione rispetto alla teologia precedente, egli
propose una speciale sintesi di tutto senza eliminare nessuna delle precedenti posizioni.
Si trattava in generale di tre correnti: una che confondeva i due ordini e le altre che
avevano preferenze troppo esclusive per l’uno o per l’altro.
Al primo caso corrispondeva l’agostinismo, che rispose alle esigenze della scolastica fino
al prevalere del peripatetismo. Per gli agostiniani il lume naturale della ragione e quello
soprannaturale della grazia divina sono sullo stesso piano, provengono entrambi
direttamente da Dio -come due raggi dello stesso sole- e tra loro non poneva non che una
differenza di più o di meno.
152 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 211. 153 La Vanni-Rovighi conferma la nostra idea, confrontando un passo dell’Expositio al De Trinitate di Boezio (q.2 a.3) con un passo del primo libro della Contra Gentiles (capitolo secondo): “la dottrina dei rapporti tra filosofia e teologia è esposta quasi con i medesimi termini in questo scritto (scil. L’Expositio) e nella Contra Gentiles.” Seguendo il filo del ragionamento della studiosa, possiamo dire che entrambe queste opere sono come ellissi, i cui due fuochi sono: l’uno le verità di fede che superano ogni potere dell’umana ragione, l’altro quelle che possono essere raggiunte dalla ragione naturale. Nella Contra Gentiles e nell’Expositio in Boethium i due ordini di verità sono facilmente riconoscibili, “nella Summa theologiae, invece, verità naturali e verità soprannaturali sono esposte nell’ambito dello stesso trattato (per esempio, nella prima parte, dopo le questioni su Dio accessibili alla ragione si passa subito alla Trinità)” (cf S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 27 e 28 nota 56). Ci sembra opportuno dire che nelle due opere precedenti l’indagine di san Tommaso era come diretta a sciogliere alcuni nodi metodologici, pur nella trattazione di determinati temi, mentre la Summa theologiae rappresenta la mirabile sintesi tomistica di tali difficoltà che possiamo riassumere in questo breve passo: “la teologia, che adopera senza discussione le prove della rivelazione, adopera anche argomenti di ragione. Essa infatti disputa con quelli che ammettono qualche cosa in base a ciò che ammettono; confuta quelli che nulla ammettono sciogliendo le loro obiezioni”( prima pars, q. 1 a. 8, pp. 10-11 dell’ed. it. cit.).
113
Dall’altra parte gli averroisti esaltavano esageratamente la ragione facendo derivare
direttamente da Dio l’illuminazione dell’intelletto agente separato, non sospettando
neppure che potessero esistere verità inaccessibili alla ragione. Per Avicenna, invece, in
possesso dell’uomo resta almeno l’intelletto possibile.
Per tornare alla posizione degli agostiniani, mentre essi in genere si preoccupavano poco
di stabilire i fondamenti razionali della fede accettata senz’altra argomentazione, si
mostrano troppo benigni verso la ragione, di cui si servono senza preliminari
accorgimenti anche nell’ambito della fede.
Per san Tommaso invece un semplice compromesso tra le diverse posizioni, mescolando
semplicemente il tutto, avrebbe significato perdere qualcosa di ognuna di esse. San
Tommaso non fu il primo che pensò di assicurare uno statuto di scientificità alla teologia,
fu invece sicuramente il primo a basare con insistenza la sua originalissima soluzione
sull’autorità di Aristotele.
In generale, i due tentativi della scolastica si possono ricondurre a due proposte: la ‘teoria
dell’illuminazione’ e la teoria tomistica della subalternazione. Diciamo subito che la
prima soluzione si fermò ad un ruolo ‘negativo’ della ragione, in questo famula che offre
il suo servigio di semplice sostegno alla fede. La soluzione tomistica invece andò oltre,
riconoscendo l’autonomia e la dignità della ragione e delle scienze mondane, facendo
così della teologia una scienza a parte. Tuttavia, entrambe le teorie condividono un
particolare concetto di evidenza: la prima deve accontentarsi di un’evidenza imperfetta e
differente da quella matematica; la seconda di un’evidenza ‘di seconda categoria’, pari ad
un concetto di scienza alla continua ricerca di un compimento ultimo.
La soluzione di matrice agostiniana equipara l’uomo a Dio nel mentre fa della verità
rivelata un’esperienza accessibile all’uomo: questi comprende in maniera mistica gli
114
articoli di fede già sulla terra. Essi sono osservati dalla mente umana come prima veritas,
senza intermediari di sorta, attraverso la diretta illuminazione del lumen divinum.
Prima di vedere la soluzione dell’Aquinate riferiamo della posizione ‘intermedia’ di un
gruppo di teologi -si tratta di Filippo il Cancelliere (1160-1236), Guglielmo d’Auvergne
(1180-1249) e Alberto Magno (1193 o 1206-1280)- che evitarono intenzionalmente di
parlare dell’evidenza che le verità di fede acquisterebbero a mezzo della grazia.
Preferirono collocare i principi teologici sullo stesso piano della conoscenza naturale. In
ultima analisi la loro posizione si può riassumere nell’espressione “informatio
conscientiae” con la quale Filippo indicò l’azione della luce della fede, in cui questi
teologi videro un “lumen obumbratum”, che influenza più l’affetto che l’intelletto: la
certezza dell’assenso di fede riposa, dunque, su una libera decisione frutto della grazia e
dell’intelletto umano da essa illuminato. Ma questa dottrina non fu utilizzata per risolvere
la questione della teologia come scienza nel senso strettamente aristotelico: tale domanda
non fu mai posta espressamente.
Entrambe le dottrine appena esposte, pur non escludendo la comprensibilità degli articoli
di fede, furono condannate da san Tommaso, come abbiamo visto, in quanto portavano
nel senso di una teologia come “cognitio defectiva”. Come già visto, il primo articolo
della prima questione affronta tale questione preliminare, la cui soluzione orientò in
maniera decisiva il pensiero dell’autore nell’esame del problema di Dio: si tratta del
confronto di san Tommaso con i sostenitori della dottrina dell’illuminazione divina,
coloro cioè che, soprattutto tra i francescani, ritengono impossibile che la mente umana
possa acquisire una qualsiasi verità (tanto intorno alle cose create quanto a maggior
ragione alle intelligibili) senza l’intervento della luce divina.
115
Nel Commento al De Trinitate154 abbiamo visto san Tommaso guardarsi bene dal
caratterizzare gli articoli di fede come “principia per se nota”: l’azione diretta della luce
divina si esprime nella difesa del credente dalla deviazione dall’ortodossia. In tal modo
egli distingue precisamente il ruolo ‘negativo’ da quello ‘positivo’ della ragione: essa nel
primo caso è infatti illuminata dalla grazia perché sappia tenersi lontana dall’errore e
dall’eresia. D’altro canto san Tommaso lavorò per fare della teologia una scienza
‘positiva’, in grado cioè di far derivare da cause certe conclusioni necessarie, attraverso il
ragionamento dialettico.
Siamo così giunti alla seconda parte della sintesi tomistica: la ‘dottrina della
subordinazione o subalternazione’ la cui esposizione trova ampio spazio già nel presente
Commento a Boezio. San Tommaso mutua l’idea di scienza subordinata da Aristotele, e
la applica alla teologia: interpreta cioè la teologia come scienza derivata al fine di
rivendicarle il titolo di scienza nel senso pieno della parola155.
Nei suoi Analitici Secondi Aristotele aveva configurato il concetto di scienza derivata o
subordinata nel quadro del rapporto dell’ottica alla geometria o della dottrina
dell’armonia all’aritmetica156. I principi di una scienza di questo tipo non vengono
conosciuti all’interno della medesima, ma mutuati dalla scienza sovraordinata157. Così, la
dottrina dell’armonia presuppone dei principi che trovano la loro giustificazione non in
questa stessa dottrina, ma nell’aritmetica.
154 q.2 a.2 obj.5: «omnis scientia procedit ex principiis per se notis, quae quisque probat audita, aut ex principiis quae ab his fidem habent. Sed articuli fidei, qui sunt prima principia in fide, non sunt huiusmodi, quia neque sunt per se nota neque ad principia per se nota resolvi possunt demonstrative.”, nella risposta a questa obiezione san Tommaso non rigetta l’obiezione in sé, bensì la sua estrema conseguenza contro la scientificità della teologia. 155 “Tommaso fu il primo ad applicare alla teologia il concetto aristotelico di scienza subalternata. Ma non fu il primo in assoluto a rifarsi alla subalternazione per la gnoseologia teologica”. Così A. Lang, nel suo Die theologische Prinzipienlehre der mittelalterlichen Scholastik , cit., 164-5, che si riferisce a san Bonaventura , il quale subordina la teologia alla Sacra Scrittura. 156 Anal. Sec. I, 7; 75b. 157 Ibid., I, 9; 76a.
116
San Tommaso trasferisce questo modello alla teologia, assumendone come conoscenza
sovraordinata la conoscenza di Dio e dei Beati, che hanno una visione chiara degli
articoli di fede, che la nostra teologia deve presupporre sulla base dell’autorità.
Nella seconda questione a.2 ad 5m san Tommaso dice:
“etiam in scientiis humanitus traditis sunt quaedam principia in
quibusdam earum quae non sunt omnibus nota, sed oportet ea
supponere a superioribus scientiis, sicut in scientiis subalternatis
supponuntur et creduntur aliqua a scientiis superioribus, et illa non sunt
per se nota nisi superioribus scientibus. Et hoc modo se habent articuli
fidei, qui sunt principia huius scientiae, ad cognitionem divinam, quia
ea quae sunt per se nota in scientia, quam deus habet de se ipso,
supponuntur in scientia nostra et creduntur ei nobis haec indicanti per
suos nuntios, sicut medicus credit physico quattuor esse elementa”158.
Ora, nella responsio dello stesso luogo appena citato san Tommaso afferma:
“divinorum notitia dupliciter potest aestimari. Uno modo ex parte
nostra, (…). Alio modo ex natura ipsorum, et sic ipsa sunt ex se ipsis
maxime cognoscibilia, et quamvis secundum modum suum non
cognoscantur a nobis, tamen a deo cognoscuntur et a beatis secundum
modum suum”159.
San Tommaso non paragona gli articoli di fede ai principi delle scienze profane, bensì ai
“principia naturaliter nobis insita”: il punto di partenza è il patrimonio intellettuale
proprio dell’uomo, non qualcosa che la teologia deve alle altre scienze. Poiché dunque
san Tommaso non subordina la teologia e i suoi principi a nessuna delle altre scienze
158 Decker, 89. 159 Ibid., 86-7.
117
umane, bisogna ammettere che essa riceve tali principi dalla Rivelazione: la scienza
perfetta di Dio e dei beati è la scienza subalternante, la teologia quella subalternata.
Più tardi nella Summa Theologiae (circa dieci anni dopo, la prima pars è infatti del 1257)
san Tommaso pone in primo piano la sua dottrina della subalternazione e ne fa il perno
della sua dimostrazione della natura scientifica della teologia; ormai egli pressuppone
l’esposizione della teoria ritenendo di non dover fornire ulteriori prove, poiché essa è
ormai parte integrante della sua dottrina dei principi160.
Il passo più significativo recita:
“Et hoc modo sacra doctrina est scientia, quia procedit ex principiis
notis lumine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et
beatorum. Unde sicut musica credit principia tradita sibi ab
arithmetico, ita doctrina sacra credit principia rivelata sibi a Deo”161.
Così il fisico sfrutta le conoscenze che sono state raggiunte dal matematico prima di lui, e
non si dà certo pena di dimostrarle di nuovo.
Come si vede si tratta anche nel caso della teologia non più di un’evidenza dei principi
sui generis, irriconducibile cioè alla comprensibilità umana. San Tommaso, infatti, riesce
a mantenere una continuità del principio aristotelico anche nel campo del soprannaturale.
Tutte le scienze presuppongono un bagaglio minimo di conoscenze già date e accettate
‘per credenza’, e allo stesso modo alla teologia è tramandato un patrimonio conoscitivo
che non deve essere ulteriormente dimostrato.
La ragione sufficiente della ‘continuità’ si trova in teologia nella fede come è intesa da
san Tommaso alla q.3 a.1 ad 4m:
160 Cf A. Lang, cit., 163. 161 I, q.1 a.2.
118
“unde et in fide qua in deum credimus non solum est acceptio rerum
quibus assentimus, sed aliquid quod inclinat ad assensum; et hoc est
lumen quoddam, quod est habitus fidei, divinitus menti humanae
infusum”162.
“Ciò che colpisce in questa soluzione dell’antinomia evidenza-fede, non è tanto l’abilità
tecnica della risposta quanto il suo inserimento nella trama medesima del problema: essa
discende ‘da premesse proprie ed intrinseche’ (ex propriis et intimis) e non è un
estrinseca derivazione da una premessa costituzionalmente inadeguata a questo nuovo
oggetto; essa costituisce invece una valorizzazione della nozione stessa di scienza che
aveva suscitato l’antinomia e che, analizzata nella sua struttura e nelle condizioni del suo
esercizio, rivela ora una segreta consonanza con questa disciplina, inaudita per Aristotele,
che è la teologia. Ciò che sembrava dover troncare ogni contatto, assicura invece la
persistenza delle correlazioni normali. La teoria aristotelica della scienza, del resto,
consiste proprio in ciò”163.
Per quanto riguarda la validità scientifica di qualunque disciplina sappiamo che san
Tommaso non ha mai sopravvalutato le capacità conoscitive dell’uomo, anche rispetto
agli oggetti sensibili. La scienza teologica subalternata non fa eccezione:
“Ille qui habet scientiam subalternatam, non perfecte attingit ad
rationes sciendi, nisi in quantum eius cognitio continuatur
quodammodo cum cognitione eius, qui habet scientiam
subalternantem; nihilo minus tamen inferior sciens non dicitur de his
quae supponit, habere scientiam, sed de conclusionibus… et sic fidelis
potest dici habere scientiam de his quae concluduntur ex articulis
fidei”164.
162 Decker, 114. 163 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 106. 164 De Ver., q.14 a.9 ad 3m.
119
Infatti, pur introducendo più tardi nella Summa Theologiae (I pars, q.1 a.2) un paragone
con la geometria, chè come questa la sacra doctrina parte da principi certi, san Tommaso
sa sin d’ora di dover venire a capo della difficoltà rappresentata dal fatto che gli articoli
di fede non hanno per la nostra conoscenza quell’evidenza postulata per i principi d’una
scienza in senso aristotelico, e tuttavia questi articoli di fede possono essere punto di
partenza di una scienza deduttiva che proceda per via dimostrativa.
Inoltre abbiamo visto (q.5 a.4) che san Tommaso distingue una teologia come metafisica
dell’ente e una come scienza divina della Sacra Scrittura. Sembrerebbe ovvio per quanto
detto che ad esse corrispondano rispettivamente la teologia come scienza subordinata e la
scienza di Dio e dei beati come scienza subordinante.
In questo senso sembra condurre anche quest’altro passo del Commento:
“huius scientiae [scientiae subalternatae] principium proximum est
fides, sed primum est intellectus divinus, cui nos credimus, sed finis
fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus, sicut si
inferior sciens addiscat superioris scientis scientiam, et tunc fient et
intellecta vel scita, quae prius erant tantummodo credita”165.
“Da un capo all’altro di questa spiegazione gioca dunque espressamente l’equivalenza
articuli fidei-principia, perno dell’articolazione tra la scienza di Dio e la teologia”166.
Se la Summa Theologiae farà della teoria della subalternazione il centro della conoscenza
di Dio, non aggiunge in realtà nulla di nuovo all’impostazione che san Tommaso aveva
dato nel suo Commento al De Trinitate. Già qui infatti teoria dell’illuminazione e
subalternazione vanno di pari passo, anche se abbiamo visto ampiamente che si tratta di
una vistosa correzione della dottrina agostiniana, dove l’intelletto agente del lume
165 q.2 a.2 ad 7m. Decker, 89-90. 166 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit.,108.
120
naturale risulta illuminato dalla luce divina solo una volta, come immagine impressa
dell’intelletto divino, ma poi lasciato alla libera iniziativa dell’uomo.
Nella Summa il posto d’onore per la spiegazione della scientificità della teologia spetta
invece alla subalternazione, mentre il linguaggio di matrice agostiniana viene
completamente scalzato. Evidentemente ormai san Tommaso ha dato forma definitiva
alla sua idea di scienza divina, ed espressioni quali lumen fidei e intelligentia
principiorum intellectus, di sapore squisitamente psicologico, mal si prestavano ad
un’esposizione che doveva rientrare in una sorta di ‘catechismo’ “per la formazione dei
principianti” (anche se sappiamo della difficoltà dei concetti e del linguaggio che la
Summa presenta). In altre parole nel commento a Boezio siamo ancora nell’interessante
cantiere di una costruzione che vede la luce solo un decennio più tardi, dopo lunga
riflessione del Dottore Angelico.
Come sappiamo dallo stesso ordine domenicano e già dal XIV secolo si sollevarono
dubbi su questa soluzione, dubbi che limitarono nuovamente la pretesa di scientificità
della teologia in senso strettamente aristotelico, a causa dell’assenza dell’evidenza
razionale dei suoi principi.
Si attuò quasi un ritorno alla dottrina vista sopra secondo cui la teologia non offre
nessuna certitudo evidentiae, ma soltanto una certitudo adhaerentiae (Alessandro di
Hales), ed è una “scientia secundum pietatem et informationem affectus” (Alberto
Magno).
In generale si può dire che i teologi scolastici preferirono riferire la razionalità degli
articoli di fede alle rationes naturales, piuttosto che alle auctoritates, col che era
obliterata la possibilità del discorso tomistico: mancando la fiducia nel depositum fidei,
veniva meno la fonte stessa dell’evidenza degli articoli di fede. La scoperta, introdotta
121
dall’alta scolastica, della distinzione del piano naturale da quello soprannaturale era
sconosciuta ai primi teologi.
Gli esponenti della prima scolastica (XII secolo) non furono capaci di approfondire e
sanare questa frattura in nome di un ideale più alto di razionalità, pregiudicando di fatto
per il futuro la soluzione di san Tommaso. Quando quelli parlavano di rationes,
intendevano le rationes necessariae, senza la connotazione di ragioni soggettive propria
della tarda scolastica: così i successori di san Tommaso squalificarono la soluzione
dell’Aquinate.
Il passo dall’esitazione dei suoi confratelli e dall’opposizione dei francescani al rifiuto di
Duns Scoto fu breve: questi ritenne incolmabile la carenza del richiamo ad un’evidenza
che su questa terra è inaccessibile e spetta solo a Dio e ai santi167.
In effetti, “anche la teoria scientifica di san Tommaso d’Aquino non fu priva di un certo
compromesso. Tommaso ammette l’inevidenza dei principi teologici e la sottolinea anzi
con insistenza; egli si deve perciò accontentare di un concetto di scienza subordinata e di
second’ordine, e precisamente di un “modus defectivus” di questa scienza, poiché
l’evidenza della teologia su questa terra non può essere affatto realizzata. Le obiezioni
contro la sua teoria rimandavano sempre a questa carenza della teologia e spiegano che
perciò non può esistere alcun parallelismo perfetto della teologia con le scienze
subalternate”168.
Anche lo Chenu riconosce i limiti della scientificità di qualunque disciplina scientifica
subalternata, e noi abbiamo già sottolineato il senso del limite di qualunque conoscenza
umana che fu sempre vivo nel senso religioso dell’Aquinate.
La subordinazione che intercorre tra la scienza subalternante e quella subalternata
riguarda il metodo e non l’oggetto: nel caso della teologia è sempre l’insieme delle
167 Cf A. Lang, cit., 166. 168 Ibid., 164.
122
sostanze separate (Dio, angeli e anima) l’oggetto di studio, ma il modus sciendi è
evidentemente altro. Tuttavia, la forza della scienza subalternata sta proprio nella misura
con cui riesce ad emanciparsi dalla scienza di riferimento da cui ha origine.
Nel corso del suo sviluppo la scienza subalternata aggiunge sempre qualcosa di nuovo ed
estraneo a quest’ultima, di modo che ormai il teologo può prescindere dal risalire alla
dimostrazione o solo alla nozione dei primi principi (in pratica è ciò che abbiamo visto
accadere di norma in tutte le altre scienze umane).
Eliminato finalmente il vincolo che rendeva gli ‘articuli fidei’ pensabili solo in funzione
dei principi primi di verità, le due rispettive discipline sono ora estranee l’una all’altra,
quanto al loro oggetto e al loro metodo169. Sotto quest’ultimo rispetto la teologia è
inferiore in maniera infinita alla conoscenza perfetta che Dio ha di sè stesso, in virtù
sempre della distanza ineliminabile tra ciò-che-una-cosa-è e come-essa-è-per-noi. Altro è
il caso della geometria che tratta della grandezza e che è superiore alla prospettiva che
tratta della grandezza visuale: la prima è superiore alla seconda ratione subiecti, secondo
cioè il suo oggetto. La teologia, almeno inizialmente, è inferiore alla conoscenza del
divino in sé solo per il modo: successivamente si origina anche, quale frutto imperfetto
della disciplina umana, una conoscenza inferiore anche secondo l’oggetto.
“La dissociazione tra i due tipi di subalternazione è chiaramente estranea
all’epistemologia aristotelica, poiché, sul piano delle conoscenze umane, la
subalternazione dei principi è connessa a quella degli oggetti.” Invece “in teologia, non è
per cogliere un oggetto diverso da quello della scienza di Dio, che il teologo ‘crede’ i
principi che riceve da quest’ultima; è piuttosto perchè quell’oggetto stesso cui egli
perviene tramite la fede è una realtà misteriosa totalmente inaccessibile alla ragione”.
169 Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 116.
123
Come già visto, sant’Agostino aveva già trovato un equilibrio perfetto tra credenza e
procedere razionale: la fede per il Dottore africano sta tra l’’intellegere’ e l’’opinari’,
poiché la sua certezza e la sua necessità va vista sia rispetto all’uomo che rispetto alla
sorgente di ogni conoscenza. Alla base sappiamo esserci la teoria dell’illuminazione:
senza il lume interiore della fede la conoscenza che noi possiamo avere della verità
sarebbe inutile e senza frutto. “Quod intelligimus, debemus rationi; quod credimus,
auctoritati” (De utilitate credendi), frase che va intesa non nel senso di un passaggio
diretto tra il comprendere e il credere, quanto nel senso dell’esistenza di due origini della
conoscenza umana, il lume soprannaturale (Dio) e quello naturale (l’anima), che si
rapportano tra loro, come diceva già Plotino, come il sole alla luna: l’anima razionale
riceve da Dio la sua luce, cioè la vita beata e il lumen intelligentiae veritatis170.
Su questo punto san Tommaso preferisce Boezio il quale si comporta maggiormente da
filosofo. Anche per lui esistono quasi due livelli del reale e della conoscenza umana, ma
gli è estraneo il dualismo di lume infuso per fede e lume naturale di sant’Agostino,
sostituito dal nuovo binomio di ratio e intelligentia, che sono i due modi di andare oltre i
puri dati del senso e dell’immaginazione per cogliere le realtà immateriali: l’uno
discorsivo e meditato, l’altro intuitivo e immediato171.
L’Aquinate adegua tale distinzione al caso specifico della teologia. Prima di noi vi è un
altro Soggetto conoscente, Dio, rispetto al quale noi conosciamo imperfettamente ciò che
egli conosce in modo perfettissimo.
Ma proprio qui si congiungono al massimo livello fede e ragione. Nonostante che “il
rapporto sussistente tra il credente e Dio sia, sul piano epistemologico e su quello reale,
170 Per sant’Agostino rimandiamo ai seguenti lavori: O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la trinité selon saint Augustin, Études Augustiniennes, Parigi 1966, 123-148 e 463-466; P. T. Camelot, “Quod intelligimus, debemus rationi”-Note sur la méthode théologique de saint Augustin, Historisches Jahrbuch, Köln, LXVII, 1958, 397-402. 171 Cf S. Vanni Rovighi, L’unità del sapere secondo Tommaso d’Aquino, in Studi di filosofia medievale, vol. II, Vita e Pensiero, Milano 1978, 73.
124
molto diverso da quello che sussiste tra il fisico e il matematico”, fede e teologia non
giungono né portano a ‘credere’ verità diverse o anche solo distinte tra loro. Abbiamo
visto che “Fides (…) est quasi habitus principiorum theologiae”172, assicurando
continuità tra il lume della teologia in quanto lume di fede e lume di scienza, una
continuità tale per cui essa è una scienza completamente a parte.
Lo Chenu è convinto che la scienza teologica cui perviene l’Aquinate è scienza quasi-
subalternata e perciò imperfetta, dove la categoria dell’analogia -come la relazione
trinitaria di Boezio (cap. V)- mette in luce l’inadeguatezza di ogni nostro discorso su
Dio173.
172 Comm., q.5 a.4, ad 8m. Decker, 199-200. 173 Di Dio noi non possiamo predicare nulla in maniera sostanziale, né si può obliterare quel ‘quasi’ usato da san Tommaso parlando del rapporto tra teologia e fede.
125
2. Il metodo scientifico della teologia.
In generale si può dire che il prezzo da pagare per il raggiungimento di uno statuto
scientifico della teologia fu quello della sua specializzazione, tanto disciplinare quanto
lessicale. Da qui siamo ricondotti nell’ambito dei ‘modi scientifici’, tema che fu tra le
prime preoccupazioni di san Tommaso al suo ingresso tra i magistri di Parigi.
Per quanto già visto della quinta questione, possiamo definire l’intera lectio tertia la parte
propriamente ‘scientifica’ dell’opuscolo. Ma oltre alla suddivisione delle scienza
speculative, essa contiene la specifica discussione del metodo delle rispettive scienze.
Nell’expositio litteralis del secondo capitolo del testo di Boezio san Tommaso spiega che
la Metafisica di Aristotele prescrive che prima della scienza è necessario indagare il
modo di procedere della scienza174. Bisogna chiedersi cosa sia scienza, cosa non lo sia, e
nel primo caso quale sia l’autentico metodo scientifico.
Boezio apre il suo secondo capitolo dicendo: “entriamo in argomento”. Col verbo
‘ingredi’ esorta a ricercare più addentro alle cose già esposte, cercando di scrutarne “gli
stessi intimi principi”. È necessario cioè oltrepassare il puro dato fenomenico presente
immediatamente alla conoscenza, al fine di penetrare nell’intimità delle cose, di
coglierne i principi costitutivi, la loro verità profonda che rimane occulta rispetto ad una
visione superficiale. La maniera di tale procedere deve poi essere conveniens, cioè
consona al modo in cui ogni cosa ‘vuole’ essere conosciuta.
174 Conviene chiarire una volta per tutte che presso i medioevali –e san Tommaso non fa eccezione- mancava il vocabolo da cui deriva il nostro ‘metodo’: essi infatti utilizzarono con profitto il termine ‘modus’ per indicare il metodo della scienza, che traduce letteralmente il greco ‘tropos’. L’assenza del segno verbale corrispondente a quello moderno non significa peraltro che mancasse il concetto corrispondente: “anzi ci sembra che la ricchezza semantica del termine modus abbia consentito agli scolastici di disporre di un semantema estremamente duttile, applicabile alle molteplici sfumature implicate dal concetto di metodo”. Cf G. Galvan, cit., 191.
126
Presso l’Aquinate il discorso boeziano assume la forma di una specie di proporzione alla
quale deve sottostare ogni discorso scientifico perché sia corretto.
Già nel commento letterale san Tommaso va oltre Boezio. Ma non si tratta di infedeltà al
testo, quanto, come abbiamo già avuto modo di vedere, di un’attualità impellente che
esige un nuovo impegno e nuove risposte.
Di certe cose si deve discutere in modo “congruo”, che vuol dire?: che il modo di trattare
una materia delicata come un dogma di fede deve essere adeguato all’oggetto trattato e a
chi conosce; in altre parole: il soprannaturale impone un metodo proprio, per cui il
soggetto conoscente non può più seguire l’immaginazione, che astrae dalle cose sensibili
i phantàsmata, ma deve ricorrere all’intelletto, che solo può rendere intelligibili queste
altre realtà.
Perciò Boezio citando l’Etica a Nicomaco del Filosofo, diceva che bisogna “cercare di
acquisire certezza di qualunque cosa così come essa è”: credere, infatti, di poter
raggiungere sulla Trinità una certezza matematica o tale quale quella della conoscenza
sensibile, significa non vedere il vero in se del Trascendente.
“Modus, quo aliqua discutiuntur, debet congruere et rebus et nobis”175, dice san
Tommaso: vediamo ora di chiarire meglio cosa intenda con quello che il Galvan chiama
‘principio della doppia congruenza’.
I termini in gioco sono tre: il soggetto conoscente, l’oggetto conosciuto e -termine
medio- l’abito scientifico. Non si viene così a costituire un semplice rapporto biuniovoco
tra soggetto e oggetto, bensì una doppia contemporanea relazione tra i due termini
estremi da una parte e l’abito scientifico dall’altra. Quest’ultimo è perciò determinato
tanto rispetto al soggetto che all’oggetto: “sono due momenti di un tutto (la conoscenza
scientifica) che si condizionano mutuamente, che non si possono separare e che non si
175 Decker, 158.
127
possono determinare se non in rapporto al tutto. Perciò la determinazione del modus di
un abito scientifico può essere condotta convenientemente solo verificando
simultaneamente i due estremi della relazione secondo la loro reciproca influenza”176.
I verbi che Boezio usa e che san Tommaso riprende sono ‘intelligere’ (o anche
‘intellegere’), leggere dentro, e ‘capere’, prendere, quest’ultimo sostituito da san
Tommaso con ‘cumprehendere’, di medesimo significato. Ogni cosa va conosciuta
secondo i suoi propri gradi di eminenza ontologica e le relazioni che in base a questi essa
intesse col tutto. Bisogna, in altre parole, restare continuamente fedeli alla ‘res’ e tornare
sempre ad essa, senza la quale il nostro impulso alla conoscenza non esisterebbe.
L’intelligere è per l’Aquinate ‘actus intellectus’, e in contrapposizione con l’afferrare del
secondo verbo sembra voler indicare la dimensione passiva della conoscenza,
l’assimilazione dell’intelletto alla cosa, dunque la garanzia del mantenimento
dell’oggettività. La dimensione attiva è dunque data del ‘capere’ e il cum del suo
sinonimo aggiunge un carattere intensivo e olistico: in questo caso il soggetto aggiunge
del suo all’immagine della cosa che la nostra mente riceve. Rispettivamente l’intellectus
presiede al primo esercizio della facoltà conoscitiva, la ratio al cumprehendere.
L’intellectus è per san Tommaso principio e termine della ratio, così come l’intellegere
porta a compimento il capere. Anche presso san Tommaso questi non sono due diversi
gradini della conoscenza umana, rispondono piuttosto a due modi diversi di conoscere e
presuppongono la metafisica tomistica, dove l’essere ha dignità e preminenza ontologica
di fronte alla semplice pretesa conoscitiva: la conoscenza umana non può dunque
ultimamente esaurire la conoscibilità della cosa, il suo essere.
Inoltre, come in Boezio anche in san Tommaso la scienza è intermedia tra il soggetto e
l’oggetto, per evitare gli estremi del soggettivismo e del’oggettivismo: il primo è
176 G. Galvan, cit., 197.
128
controllato dalla ‘comprehensio’ il secondo dall’‘intellectio’. L’aderenza perfetta alla
cosa, il puro atto intellettuale con cui se ne ammette in assoluta semplicità la sua verità, è
l’ideale scientifico. Non si tratta di una mera rappresentazione delle proprietà e delle
caratteristiche che il soggetto conoscente deve possedere per accingersi alla conoscenza
della cosa: il livello speculativo è ben più elevato e riguarda, tanto presso Boezio quanto
presso san Tommaso, il piano metafisico, piuttosto che il problema didattico della
comprensibilità di un insegnamento o le attitudini soggettive del ricercatore. Anzi,
bisogna dire che il metodo scientifico che ne emerge si misura in rapporto
all’intellettualità dell’uomo, di modo che “la riflessione sulla natura della scienza e del
metodo non richiede solo una fondazione metafisica, ma anche gnoseologica e
antropologica. Il metodo, invero, non è riducibile a una ‘tecnologia’ del sapere scientifico
che prescinda da una concezione dell’essere, della verità e del rapporto dell’uomo
all’essere. Discettare su questioni epistemologiche senza chiarire tali presupposti rende
inconcludente la discussione”177.
Come abbiamo mostrato metodo e oggetto di una stessa scienza sono tra loro
intimamente irrelati: ogni disciplina scientifica indaga una parte della verità dell’oggetto
trattato e lo fa in un modo che le è esclusivo, cogliendo cioè una proprietà essenziale
dell’abito scientifico. Il modus scientiae si conforma pienamente in san Tommaso -
secondo il suo realismo- al modus essendi.
Il costante riferimento di questa questione, come della successiva, è la critica tomistica
all’idea che ci sia un secondo punto di partenza della nostra conoscenza che non siano i
sensi: Aristotele domina dunque incontrastato. Innegabile è però l’esistenza di qualcosa
177 G. Galvan, cit., 201 nota 38. La più chiara e convincente dimostrazione di questo ce la dà sant’Agostino che imposta tutto il suo De Trinitate sull’idea dell’uomo immagine di Dio-Trinità, e perciò cerca l’immagine della Trinità anche nel sensibile -essendo questo ‘sensibile’ la “parte superiore dell’anima.”- secondo le tre facoltà razionali dell’anima, memoria – intelligentia – voluntas che si dividono in due ordini corrispondenti al loro duplice oggetto, la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio: memoria-intelligentia-voluntas sui e memoria-intelligentia-voluntas Dei.
129
che, come dice lo stesso Boezio nel suo secondo capitolo, non è solo ‘abstractum’ ma
anche ‘separabile’: di quest’oggetto si occupa la teologia.
Inoltre, tutta la discussione precedente non è passata invano e apporta a questa
conclusione una luce nuova e originale: la gnoseologia antropologica costruita nelle
quattro questioni precedenti sostanzia di sé le fondamenta stesse dell’epistemologia di
san Tommaso.
Dopo la suddivisione delle scienze speculative, la seconda parte del secondo capitolo del
testo boeziano “mostra i modi congrui a ciascuna delle scienze citate [nella questione
precedente]” e di questi approfondisce il modo di procedere più conforme all’indagine
sulla Trinità.
Siamo nell’ambito della divisione delle scienze speculative, oggetto dell’intera questione
5. Ma san Tommaso coglie qui l’occasione per toccare in maniera più specifica il modo
di procedere dell’intelligenza umana di fronte ai suoi oggetti di conoscenza.
Un’occasione propizia, vista la posizione intermedia della matematica e del suo ‘modus
sciendi’ rispetto alla conoscenza dell’invisibile da una parte, e quella del puro dato
sensibile dall’altra, irrimediabilmente legata all’elemento materiale.
L’articolo 3 della quinta questione indaga se la matematica “si occupi di ciò che è nella
materia, prescindendo dal movimento e dalla materia stessa”. Qui san Tommaso,
trattando delle scienze matematiche, tratta del rapporto tra l’oggettività e la soggettività
della conoscenza umana.
Ci interessa la responsio dell’articolo dove si trova il discorso sui tre tipi di astrazione.
Esso è di importanza capitale per comprendere i termini e le premesse dell’impostazione
metodologica dell’Aquinate. Infatti a livello speculativo, quello privilegiato da san
Tommaso, fu il ‘principio di astrazione’ il mezzo attraverso cui nella tarda scolastica le
130
discipline speculative portarono a compimento la definizione del proprio ‘genus
subiectum’.
Il testo che ci accingiamo ad analizzare è assai tormentato e l’edizione critica del Decker
ci mostra come solo dopo tre rifacimenti san Tommaso sia giunto alla redazione
definitiva del passo. Dopo questo duro lavoro di ripensamenti, il pensiero dell’Aquinate
trova qui, al terzo tentativo, la sua sistemazione definitiva sull’argomento, che non
conoscerà nelle sue opere successive altre evoluzioni di rilievo178.
Il Geiger179 ha analizzato a fondo le differenze tra le redazioni di questo testo: egli rileva
un’attenzione particolare dell’Aquinate per il momento soggettivo, di contro al primo
articolo ed anche al secondo, dove ancora prevaleva per così dire la materia conosciuta.
Puntualizziamo i passaggi salienti di quest’articolo. Tutta la prima redazione parte
dall’idea della similitudine tra l’intelligenza e l’intelligibile; inizialmente l’incipit della
responsio suonava infatti:
“Dicendum quod operatio intellectus completur secundum hoc quod
intellectus (assi) conformatur intelligibili. Unde dicit Algazel quod
scientiaest assimilatio scientis ad rem scitam, et Philosophus in XI
Metaphysicae quod intellectus intelligit secundum transumptionem
intelligibilis”180.
Seguendo Boezio, san Tommaso ritiene ancora che l’intelletto possa separare ciò che non
è separato nella realtà:
178 S. Vanni-Rovighi, L’unità del sapere secondo Tommaso d’Aquino, cit., 72. 179 Seguiamo il suo articolo Abstraction et séparation d’après s. Thomas in De Ttrinitate, q.5, a.3 apparso la prima volta nel 1947 sulla Revue de sciences philosophiques et théologiques (pp. 3-40), poi pubblicato all’interno del volume Philosophie et Spiritualité, 2 voll., Éditions du Cerf, Paris 1963, vol. I, 87-124. Il Geiger segue per l’edizione del commentario quella curata dall’Uccelli nel 1880. Noi invece quella più recente del Decker (1955). Questi in appendice alla sua edizione critica ha raccolto le liturae in autographo che riportano appunto le tre redazioni della responsio in questione, segnalando anche in corsivo le parole che san Tommaso aveva cancellato già nella prima stesura. 180 Decker, 231.
131
“Et inde est quod ea quae inveniuntur secundum rem coniuncta
dividuntur quandoque per operationem intellectus. Unde Boethius in
libro De hebdomadibus: multa sunt, quae cum separari actu non
possunt, animo tamen separantur et cogitatione”181.
Rileva però già qui un limite, poiché
“Non tamen omnia, quae sunt coniuncta secundum rem, possunt
separari per intellectus. (…) Non tamen intellectus potest inter
quaelibet duo separare”182,
e spiega che ciò che può stare senza altro può essere conosciuto senza di esso, mentre ciò
che non può trovarsi senza un’altra cosa non può essere conosciuto indipendemente da
quella. La dipendenza dell’esse dall’essenza, che san Tommaso ha sempre avuto
presente, limita la conoscenza che possiamo avere di qualunque cosa che non sia già
separato in natura.
La soluzione di quest’impasse è avviata nella seconda redazione che introduce la
distinzione -mantenuta anche nella terza- tra la semplice apprensione e l’azione del
comporre e del dividere. In generale, ciò che è importante notare è che san Tommaso non
abbandona mai il piano della semplice apprensione della quiddità, che dia ragione di
un’irriducibile oggettività del conosciuto. Tuttavia, ancora nella seconda redazione
l’Aquinate dà il suo credito alla successione cronologica di simultaneità, anteriorità e
posteriorità in riferimento a quelli che poi vedremo essere i tre gradi astrattivi.
L’incipit di questa seconda redazione sostituisce il riferimento alle operazioni intellettuali
con quello ai “modi abstractionis” presente nella prima: evidentemente san Tommaso
tentava così di dare in qualche modo ragione dell’oggettività del processo conoscitivo,
181 Ibid. 182 Ibid., 232.
132
trasferendo la ‘soggettività’ delle prime ai modi delle diverse operazioni dell’intelletto.
Subito dopo parla infatti di “duae actiones” che rappresenterebbero quasi le “rationes
eorum”.
I modi astrattivi non compaiono affatto nella terza ed ultima redazione: di questo tipo di
distinzione san Tommaso tratterà nel primo articolo della questione successiva. Qui egli
parla invece di “duplex operatio intellectus”183, che alla fine diventa astrazione –nelle sue
due manifestazioni di abstractio formalis e abstractio universalis- e di separazione:
“Sic ergo intellectus distinguit unum ab altero aliter et aliter secundum
diversas operationes; quia secundum operationem, qua componit et
dividit, distinguit unum ab alio per hoc quod intelligit unum alii non
inesse. In operatione vero qua intelligit, quid est unumquodque,
distinguit unum ab alio, dum intelligit, quid est hoc, nihil intelligendo
de alio, neque quod sit cum eo, neque quod sit ab eo separatum. Unde
ista distinctio non proprie habet nomen separationis, sed prima tantum.
Haec autem distinctio recte dicitur abstractio, sed tunc tantum quando
ea, quorum unum sine altero intelligitur, sunt simul secundum rem”184.
Da questo il Geiger conclude che “la distinzione tra astrazione e separazione è stata
adottata da san Tommaso, di preferenza alla distinzione tripartita dell’astrazione, per una
decisione meditata. (…) Se san Tommaso l’ha abbandonata per una classificazione più
complessa, ci devono essere state serie ragioni dottrinali che hanno determinato questa
scelta”185. E più avanti lo studioso dice che tale nuova distinzione “non presenta affatto
tre gradi che rifletterebbero un’operazione uniforme in tre diversi livelli”186. L’intelletto
più che distinguere coglie l’intelligibilità del reale nelle sue differenti direzioni: in questo
183 La prima operazione riguarda la natura stessa della cosa compresa; la seconda l’essere della cosa, che nelle sostanze composte è dato dall’unione dei principi della cosa stessa, mentre nelle separate si identifica con l’essenza. 184 Decker, 183. Il corsivo è nostro. 185 L. B. Geiger, cit., 104. Traduz. nostra. 186 Ibid.
133
senso “al posto di tre gradi d’un astrazione formale, noi abbiamo dunque operazioni
dell’intelligenza e strutture obiettive differenti dalla semplice apprensione e dal giudizio
negativo da una parte e, dall’altra, dal rapporto del tutto alle sue parti accidentali, della
forma al suo soggetto, all’interno di un’unità complessa; infine abbiamo l’indipendenza
ontologica di diversi modi dell’essere.
“Lungi dal tendere verso l’uniformità, sia da parte del soggetto sia da parte dell’oggetto,
san Tommaso sottolinea le differenze, inizialmente solo quelle dell’oggetto, che di
conseguenza portano con sé le differenze degli atti del soggetto”187.
In questa direzione va l’affermazione, mantenuta da san Tommaso fino alla redazione
definitiva dell’articolo, secondo cui “veritas intellectus est ex hoc quod conformatur
rei”188, sottolineando fin dall’inizio la dipendenza del processo mentale dal dato reale e,
tirando le somme di questo discorso, dice: “tertia (distinctio) secundum tandem
operationem quae est abstractio universali a particulari; et haec competit etiam physicae
et est communis omnibus scientiis”189, col che è chiaro che nessuna scienza può
prescindere dall’astrazione propria della fisica, quella che fonda il metodo induttivo:
ognuna delle tre scienze astrae, dal momento che ogni scienza tralascia ciò che è
accidentale e prende in considerazione ciò che è per sé. Da un capo all’altro di questa
responsio domina Aristotele: dall’intellezione degli indivisibili del cap. 6 (in part.
430a26-28) all’astrazione matematica e naturale del cap. 7 del primo libro del suo De
anima.
Facciamo ora alcune importanti osservazioni conclusive. Alla fine della responsio (ci
riferiamo ormai solo alla redazione finale) san Tommaso cambia completamente
impostazione rispetto all’iniziale bipartizione dei tipi astrattivi: vediamo i termini della
questione. L’astrazione è di due tipi: quella che riguarda l’unione della forma con la
187 Ibid. 188 Decker, 182. 189 Ibid, 186.
134
materia o dell’accidente col soggetto; l’altra che riguarda l’unione del tutto con la parte.
La prima è l’astrazione della forma dalla materia sensibile; la seconda è l’astrazione
dell’universale dal particolare, cioè del tutto essenziale dalle sue parti accidentali.
Poi san Tommaso conclude (ergo) che l’operazione dell’intelletto ha una triplice
distinzione: “una secondo l’operazione dell’intelletto componente e dividente, che può
essere chiamata separazione in senso proprio, e che compete alla scienza divina o
metafisica”; in questo campo è possibile la separazione della sostanza anche dalla
quantità, cioè la considerazione della materia senza le sue determinazioni spaziali.
“Un’altra (…) che consiste nell’astrazione della forma dalla materia sensibile, ed è quella
che compete alla matematica; la terza (…) consiste nell’astrazione dell’universale dal
particolare, ed è quella che compete anche alla fisica. Le operazioni sono ora tre, di cui
due sono appunto questi due tipi di astrazione, mentre la separatio costituisce la terza
operazione, che è introdotta dall’Aquinate ad un certo punto del testo senza un’adeguata
spiegazione.
Propriamente parlando in effetti non ci sono diversi modi di conoscere. Vi sono invece
diverse operazioni intellettuali per quanti sono gli atti conoscitivi, in cui l’anima umana
resta sempre una, e ognuna di esse esiste perché è la più adeguata a quel determinato atto
conoscitivo. La realtà dal canto suo è complessa, ma non molteplice. Dov’è allora il
punto che ci permette di sciogliere questo nodo? Quando si parla di astrazione della
forma dalla materia a proposito delle cose sensibili, non si intende propriamente la forma
essenziale, ma quella accidentale: la prima infatti è interdipendente dalla materia
corrispondente, “e una non può essere compresa senza l’altra”. Corre, quindi, una grossa
differenza tra separazione e astrazione: la prima distingue che due cose non ineriscono
punto tra loro; nella seconda, l’operazione con cui l’intelletto comprende il quid est di
una cosa non dipende dalla comprensione dell’essenza dell’altra. Questo tipo di
135
distinzione è l’astrazione vera e propria, a condizione che “quelle cose di cui una si può
comprendere senza l’altra sono insieme nella realtà”.
Allora ogni relativismo è bandito ed è così ancora una volta salvata sotto molteplici punti
di vista l’unità del sapere, ma soprattutto ci possiamo spiegare quell’apparente
incongruenza come la coscienza di un salto incolmabile tra due realtà diverse: il naturale
e il soprannaturale.
Così si spiega tanto l’errore di Pitagora che quello dei platonici: non aver compreso la
differenza tra le ultime due forme di astrazione e la prima che è invece propriamente
separazione; essi posero gli enti matematici e le idee universali separati dai sensibili,
incorrendo nell’idealismo che non riconosce alcuna realtà sensibile alle forme essenziali.
Di qui scaturisce la soluzione di realismo moderato che san Tommaso diede nell’ambito
della disputa degli universali, contro coloro i quali facevano delle immagini astratte dalla
materia idee eterne abitanti un mondo inattingibile.
Nella terza parte del primo articolo della sesta questione san Tommaso -indagando
l’opportunità e, nel caso, la necessità dei modi di procedere proposti da Boezio per
ognuna delle tre discipline speculative190- approfondisce con particolare attenzione il
metodo della scientia divina.
Prima di passare direttamente al modo scientifico che qui ci interessa, quello della
teologia, ci sembra interessante occuparci brevemente del metodo matematico.
Seguendo il padre Chenu possiamo dire che il punto di partenza per la definizione del
metodo matematico come disciplinabiliter è la distinzione tra ars e disciplina che ha
contribuito ad orientare disciplina verso valori tecnici determinati191.
190 “In naturalibus igitur rationabiliter, in mathematicis disciplinabiliter, in divinis intellectualiter versari oportebit”. Decker, 157. 191 M. D. Chenu, Notes de lexicographie philosophique médiévale – ‘Disciplina’, Revue de sciences philosophiques et théologiques, Vrin, Parigi, XXV, 1936, 686-692.
136
La certezza infallibile della matematica, in virtù della quale ogni scienza che mostri di
possederla si dice ‘disciplina’, pone in gioco il termine scienza, e infatti le ultime due
questioni rappresentano l’’affondo’ tomistico contro i detrattori della teologia intesa
come ‘epistème’ in senso aristotelico.
Il ragionamento dell’Aquinate si sposta rapido dal senso vago di sapere pedagogicamente
trasmesso (“acceptio disciplinae”) a quello, appunto, più strettamente aristotelico, che si
fonda sulla certezza tipica degli assiomi matematici. “Ciò che fonda queste
considerazioni, filosofiche e pedagogiche, è la teoria dell’astrazione, principio di
determinazione e di classificazione delle scienze secondo l’epistemologia aristotelica”192.
Il procedere disciplina(bi)liter della matematica si colloca tra la metafisica e la fisica,
“nel senso che, rispetto alle forme corporee da conoscere fuori della materia sensibile, lo
spirito umano ricorre contemporaneamente all’imaginatio e alla ratio (…). Così è fissato,
nel campo psicologico, il contenuto del termine disciplinalis, attraverso un ricorso attivo
all’immaginazione e per il contemporaneo uso della dimostrazione, -che non è sbagliato
definire lo spirito matematico”193.
Resta la scienza divina e il modo “intellectualiter procedere”. Come la scienza naturale
ha il diritto di precedenza sul modo di procedere della ragione, così compete soprattutto
alla teologia il modo dell’intelletto. Ma la ragione differisce dall’intelletto come la
molteplicità differisce dall’unità o, per usare immagini che lo stesso Boezio utilizza nel
quarto libro del suo De consolatione, come l’eternità sta al tempo e il cerchio al suo
centro. La ragione, infatti, ha la capacità di abbracciare campi molto ampi, ma di cui può
raccogliere solo una conoscenza semplice. Seguendo Dionigi nel settimo capitolo (VII,
2) del suo De divinis nominibus194, possiamo dire che l’anima umana coglie più cose
192 Ibid., 688. Traduz. nostra. 193 Ibid., 692. 194 “Anche le anime hanno il discorso razionale, in quanto si muovono diffusamente e in circolo attorno alla verità degli esseri, rimanendo inferiori alle intelligenze unitive per la divisibilità e la larghezza della
137
nelle loro interrelazioni, mentre l’intelletto angelico coglie come un punto e in maniera
immediata la verità di ogni cosa nella sua singolarità: l’intelletto umano è, invece, troppo
debole e la sua capacità di concentrazione troppo ridotta.
Così come Dio -che, conoscendo la propria essenza, conosce tutte le cose- gli angeli,
anch’essi sostanze separate (dalla materia), riescono a considerare una sola semplice
verità, e da questa e in questa acquisiscono la conoscenza di tutta la molteplicità. Esiste
un rapporto biunivoco tra la ragione e l’intelletto: per risoluzione la considerazione
razionale termina in quella intellettuale; a sua volta quest’ultima è principio di quella
razionale secondo la composizione o ‘inventio’. Il primo è un movimento che risale dalle
conclusioni ai principi, risolvendo le prime nei secondi; composizione è il movimento
opposto, che procede dai principi alle conclusioni195. Nel primo caso, spiega lo stesso san
Tommaso, “la ragione raccoglie da più cose una sola semplice verità”; nel secondo
“l’intelletto comprende in uno la molteplicità.” L’apice di tutta l’attività razionale umana,
incalza l’Aquinate, è la “intellectualis consideratio” e “l’intera considerazione della
ragione termina in tutte le scienze, secondo la via della risoluzione, nella considerazione
della scienza divina”. Una certa forma di ‘compositio’ si ha quando la ragione procede
dagli effetti alle cause, “per il fatto che queste ultime sono più semplici degli effetti, e
sono dotate di una permanenza più stabile e uniforme”.
Di conseguenza, proseguendo su questa strada, l’ultimo gradino sarà raggiungere le
cause supreme più semplici, cioè le sostanze separate. Questo avviene quando la ragione
procede da una cosa all’altra ‘in senso reale’; ma può anche avvenire che essa proceda da
un termine all’altro soltanto dal punto di vista della considerazione, per esempio
attraverso cause estrinseche. Pure in questo caso le vie sono due: la composizione, dalle
varietà. Ma in seguito alla riduzione in ellisse dai più nell’uno, possono essere stimate degne di intellezioni simili a quelle degli angeli, per quanto è possibile e raggiungibile da parte delle anime”. 195 Nella traduzione del Maurer, op. cit., troviamo la terminologia, a noi più vicina, di ‘analisi-sintesi’; con il Porro noi ci atteniamo, invece, al lessico scolastico e manteniamo la coppia concettuale ‘risoluzione-composizione’.
138
forme più universali a quelle più particolari, o la risoluzione, dal particolare a ciò che è
più universale. Ora, ciò che è più universale è più semplice ed è “comune a tutti gli enti,
e perciò il termine ultimo della risoluzione in questa via è la considerazione dell’ente e
delle proprietà che gli appartengono in quanto tale”.
Ma proprio quest’ultimo è ciò di cui si occupa la scienza divina, dal che risulta
chiaramente che la sua considerazione è soprattutto e al massimo grado intellettuale.
Inoltre, essa è principio di quella razionale e fornisce i principi a tutte le altre scienze,
motivo per cui è chiamata filosofia prima. Nel cammino di risoluzione, prima della
teologia, incontriamo la fisica e poi la matematica: per questo la scienza divina è
chiamata anche metafisica, perché “la considerazione intellettuale è il termine di quella
razionale”.
Con san Tommaso possiamo concludere che:
- alla teologia compete in modo precipuo il modo ‘intellectualiter’;
- questo non esclude anche nella scienza divina il ricorso alla ragione;
- perciò, il modo di ragionare della scienza divina tra-scorre dai principi alle conclusioni,
ma la distanza tra i due termini è più breve che nelle altre scienze e, perciò, il suo metodo
è più prossimo alla considerazione intellettuale;
- “anche la conoscenza della fede spetta soprattutto all’intelletto: infatti non accogliamo
le verità di fede per mezzo di un’indagine razionale, ma le accettiamo attraverso un atto
semplice dell’intelletto”. Noi, però, non arriviamo mai ad una vera ‘comprensione
intellettuale, che costituisce invece il nostro premio celeste;
- all’uomo è, dunque, concesso di raggiungere, se non una vera e propria uguaglianza,
almeno una similitudine con la conoscenza angelica relativamente al suo termine;
- Dio stesso è superiore all’intelletto umano per ciò che riguarda la Sua essenza, ma non
per la Sua esistenza. Solo ai beati è tuttavia concessa la Sua intima conoscenza. Inoltre, la
139
scienza divina non si occupa soltanto di Dio, ma anche di altre cose “che non eccedono
l’intelletto umano, anche nello stato di viatori, per ciò che riguarda la conoscenza della
loro essenza”;
- san Tommaso tenta, in ultima analisi, di ricostituire in unità il regime bifronte della
metafisica aristotelica: e lo fa non con la semplice subordinazione gerarchica della
componente ontologica a quella teologica, ma col doppio movimento che raggiunge
l’ente per due vie parallele. Allo stesso modo la metafisica è origine e meta della nostra
conoscenza per un doppio movimento, (“come se essa fosse in qualche modo,
circolarmente, prima e dopo di sé”): è ultima nel processo di risoluzione (ultra-fisica); ma
è prima nel processo di composizione, perché precede ogni altra scienza196.
Con lo Chenu possiamo riassumere l’intera questione nel seguente precetto, che
rappresenta il proposito in cui Aristotele aveva condensato il suo spirito:
“Optimum dictum videtur, eruditi est hominis unumquodque, ut ipsum
est, ita de eo fidem capere temptare”197.
Grazie alle estreme conseguenze cui Boezio aveva condotto il processo astrattivo della
sua logica, viene fondata un’epistemologia dotata del principio di autonomia delle
diverse scienze. Questo è dovuto alla possibilità di isolare l’oggetto proprio di ogni
scienza, il che –è vero- porta con sé il rischio di un formalismo che rappresenta il giusto
prezzo da pagare per questa emancipazione. In questo senso Boezio è ancora una volta
‘traduttore’ di Aristotele: “Boezio non trasmette soltanto la classificazione delle scienze a
partire dai gradi di astrazione, ma anche il senso profondo dei livelli d’intelligibilità che
si impongono alla vita dello spirito umano.
196 Cf l’Introduzione del Porro alla sua edizione dei commenti tomistici a Boezio, 30. 197 De Trinitate, cap. II. Decker, 157.
140
Gli stessi agostiniani, alla cui mentalità totalitaria ripugnavano queste autonomie
poetiche, lasciarono che queste grandi regole di discernimento e di metodo si
conficcassero, come un cuneo, nel dualismo materia-spirito che sostiene il loro
spiritualismo”. Ma bisogna al contempo rilevare la componente neoplatonica del
pensiero boeziano, che d’altra parte costringe continuamente la mente umana ad aborrire
“il passaggio omogeneo dal logico al reale”: è un parlarsi addosso continuare a
interrogare se stessi, isterilirsi sul proprio discorso dialettico; occorre invece spezzare il
circolo e ‘far parlare’ gli oggetti esterni, lasciando che l’astrazione introduca l’unico
elemento soggettivo, estraneo al reale. Ma cosa ne è della dialettica dopo questa critica al
suo fondamento? “Avrà ancora valore la dialettica, e in che modo, per le nozioni più
universali, l’essere, il vero, il bene? Il neoplatonismo gioca qui, in Boezio e nella
teodicea dei suoi discepoli, contro la logica aristotelica”198.
198 Abbiamo seguito con discrezione la traccia dello Chenu alle pp. 172-3 del suo La teologia nel dodicesimo secolo, cit.
141
Capitolo V: san Tommaso come sant’Agostino,
la creaturale ‘infermità intellettuale’ dell’uomo.
La sesta è l’ultima delle questioni che la tradizione manoscritta ci ha tramandato del testo
tomistico. Abbiamo già notato che san Tommaso si ferma proprio un passo prima della
trattazione diretta del tema oggetto del suo commento.
A questo punto sussistono due questioni concernenti la sua l’integrità: se bisogna
intenderlo come un’ennesima incompiuta; e se sì, quali ipotesi si possono avanzare sulla
‘parte mancante’ alla luce anche della prima pars della Summa Theologiae qq. 27-43.
L’ultimo capoverso dell’expositio litteralis non è chiaro. San Tommaso rimanda alla
disputa per quanto riguarda la trattazione sui “modi congrui a ciascuna delle
scienze…”199, dando così modo di pensare che il resto del secondo capitolo del trattato
boeziano sia oggetto di analisi non solo degli ultimi tre articoli (come una semplice
osservazione dei titoli rende subito chiaro) ma anche, e in primo luogo, del resto della
stessa expositio. Poi, però, l’expositio si chiude non facendo più menzione della materia
trattata appunto nei tre articoli finali, eccezion fatta per un’osservazione200 che rimanda
semplicemente al testo boeziano.
Bernardo Gui, dopo Guglielmo di Tocco il principale biografo di san Tommaso, riferisce
un episodio che sembra confermare l’idea di un’incompiuta. Mentre dettava una parte
della sua Expositio De Trinitate, san Tommaso era così assorto nella sua meditazione che
199 “…et huius partis [modorum congruorum] expositio relinquitur disputationi”. Decker, 160. 200 “…, cuius [formae] condiciones consequenter exponit ingrediens ad propositam inquisitionem”. Ibidem.
142
non si era accorto che la candela che manteneva in mano aveva iniziato a bruciargli il
dito.
Lo Elders cita Nicola Trevet che scrive: “sed super librum eiusdem de Trinitate
expositionem inchoatam nequaquam perfecit”201.
Uccelli suppose che “commentarium inabsolutum remansisse non quia sanctus Doctor
‘expositionem inchoatam non perfecit’, ut Trivetus…tradit, sed potius quia fasciculus,
qui finem opuscoli complectebatur, excidit”.
Questa congettura è sostenuta dal fatto che alla fine dell’ultima pagina (f.103 o 104) nel
corso dell’esposizione san Tommaso scrisse le prime parole del testo di Boezio
richiamandosi al foglio che segue.
Contro questa opinione, sembra al Decker impossibile che un unico fascicolo fosse
sufficiente per contenere la stesura di tutta l’Expositio di Boezio e tuttavia gli esempi in
tal senso sono numerosi. Ciononostante, secondo lo studioso quel riferimento di san
Tommaso, e gli altri rintracciabili, provano soltanto che il filosofo aveva intenzione di
continuare l’esposizione iniziata: “ma se l’abbia davvero continuata –per non dire portata
a termine– non sappiamo. Anzi, è da ipotizzare che san Tommaso abbia lasciato
incompleta l’esposizione, visto che in tutta la tradizione manoscritta non vi è traccia del
resto dell’opera (…). Ignoriamo d’altronde il motivo per cui san Tommaso non abbia
portato a termine l’esposizione, e la datazione dell’opera mostra chiaramente che non fu
a causa della morte prematura”202. Il Decker propende dunque più per l’ipotesi negativa.
Altri studiosi sono anche giunti a chiedersi perché san Tommaso avrebbe o meno voluto
terminare l’opera203, fino al caso limite della ricostruzione congetturale dello Hall204, che
201 L. Elders, cit., 16. 202 Decker, 43. Entrambe le citazioni dell’Uccelli sono del Decker che nell’introduzione alla sua edizione critica tratta “de quaestionibus ad historiam Expositionis spectantibus”. 203 Si veda per esempio il Neumann che, citando Nicola Trivet (“sed super librum eiusdem de Trinitate expositionem inchoatam nequaquam perfecit”), giunge alla conclusione che san Tommaso voleva trattare
143
anzi si stupisce della completa assenza nella letteratura di tentativi di completare l’opera
nella sua parte mancante. Questi pone, infatti, come una semplice possibilità l’impresa di
anticipare ciò che l’Aquinate non ha scritto205.
Egli ritiene inoltre che la causa della parzialità dell’opera -al di là della messe di nuovi
impegni accademici di san Tommaso che lasciavano poco spazio a qualunque altro
lavoro- sia la difficoltà dell’agnosìa presente nello stesso trattato206.
Il passo immediatamente successivo sarebbe stato secondo lo studioso trattare della
Trinità, un passaggio a suo avviso eccezionalmente difficile da compiere. Dei due perni
dell’opera -il metodo metafisico e il metodo della teologia trinitaria sistematica- sarebbe
proprio quest’ultimo la parte mancante.
Infatti, le ultime due questioni sono state le più analizzate filosoficamente, con
particolare attenzione al concetto di ‘separatio’ e alle sue implicazioni ontologiche.
commentando esattamente fino al punto in cui la tradizione ci informa. Il filosofo avrebbe trovato tutti gli spunti che gli servivano a tale scopo già nei capitoli iniziali del trattato boeziano. Cf S. Neumann, cit., 9. 204 D. C. Hall, cit. 47. 205 In qualche modo l’Aquinate tratta temi del terzo capitolo dell’opusculum boeziano, ma solo perché già introdotti dal primo capitolo e poi meglio approfonditi. Hall parte dunque dall’evidenza che l’opera non è mai stata continuata e prende le mosse dallo stesso testo –quello boeziano- che l’Aquinate avrebbe ancora avuto sotto gli occhi se avesse effettivamente continuato il suo commento Nel secondo capitolo Boezio aveva stabilito che alla Trinità non si addice il ‘tre’ come lo intendiamo noi naturalmente, cioé sulla base di una distinzione spaziale fra oggetti tra loro distinti. I capitoli 3-6, perciò, avrebbero potuto o dovuto contenere secondo lo Hall una trattazione di questo punto. Innanzitutto, il fatto che per la mente finita dell’uomo non vi è nella Trinità alcuna differenza: ciò non significa che essa non sussista, ma solo che non è percepibile da noi per i quali solo l’esistenza di Dio è, mentre nella sua essenza –a noi ignota- tutto resta agli occhi della nostra ragione indistinto. Il secondo passaggio sarebbe la conclusione che nell’amb ito della trinità l’unica distinzione possibile è la “relazione di un identico con un altro identico”. Inoltre, dire che Dio è ‘soggetto’ delle nostre predicazioni è improprio, per lo meno nel senso naturale dato a questa espressione. Senza addentrarci oltre in questa direzione possiamo dire che se l’Aquinate avesse continuato a seguire Boezio, avrebbe con lui concluso che predicati come ‘padre’ o ‘figlio’ sono termini relativi e e le relazioni non aggiungono né sottraggono termini ma intercorrono tra termini, i quali esistono indipendentemente dalle relazioni: “Se dunque il Padre e il Figlio sono predicati secondo la categoria della relazione e non differiscono in nulla (…) altro che per la sola relazione, e se poi la relazione non viene predicata rispetto a ciò di cui si predica per così dire in se stessa, e secondo la realtà di cui vien detta, non darà luogo ad un’alterità delle realtà di cui vien detta, ma, se così può dirsi (…), delle persone” (De Trin., cap. V: ediz. it. dell’Obertello, cit., 375). Lo Elders (cit., 16) ricostruisce il numero delle questioni mancanti, in tutto ventidue, che avrebbero completato il commento tomistico all’opera di Boezio: “If St. Thomas would have made questions concerning the entire text of Boethius’ in the way he did on its first part, some four more questions on chapter tow would have been necessary, four on chapter three, eight on chapter four, four on chapter five and two on chapter six”. 206 D. C. Hall, cit., 119.
144
Tuttavia, il ruolo di queste ultime per lo status del linguaggio teologico non è stato
sviluppato da san Tommaso e perciò non trova posto nella letteratura critica.
Ci siamo soffermati su queste congetture per sollevare qualche dubbio su una visione a
nostro avviso monotematica, e per questo riduttiva, del piano generale dell’opera: per san
Tommaso la Trinità non consiste nell’esemplificazione –quasi un pretesto- del proprio
metodo teologico-speculativo. A nostro avviso il troncamento dell’opera -‘voluto’ o
meno da san Tommaso- corrisponde al limite oggettivo imposto dall’effettiva parzialità
della trattazione del domma trinitario.
Per noi infatti l’architettura e la sequenza dei temi trattati testimonia del preciso intento
di risolvere questioni più urgenti: nel suo commento l’Aquinate si è fermato non a caso a
metà circa del secondo capitolo, esattamente fino all’esposizione del metodo, delle
possibilità e dell’ambito della nostra scienza delle cose divine, mentre subito dopo
Boezio inizia a trattare specificatamente del problema trinitario da lui stesso fissato e
formulato.
“Ultimamente, l’umana natura non può superare i limiti della sua comprensione, ed
anche i tentativi teologici pieni di fede di penetrare nel mistero della Trinità finiscono più
in una posizione di orante ‘agnosìa’ che di vittoria accademica”207. Sembra allo studioso
questa la migliore e più compiuta sintesi tomistica di metodo e Trinità, anche considerato
che il “Trattato sulla Trinità” presente nella Summa Theologiae non fornisce riflessioni
metodologiche, se non quelle che si rifanno alla prima questione della prima parte sullo
status e il metodo della teologia, che appaiono comunque troppo brevi e semplicistiche.
In questo senso si può intendere la conclusione del commento tomistico come l’estrema
prova dialettica della teologia, e il fatto che san Tommaso non abbia ulteriormente
207 Ibid., 120.
145
seguito Boezio rappresenta quasi la presa d’atto che non c’era più nulla di possibile da
dire.
È ormai chiaro che la conoscenza umana e l’argomento trinitario sono strettamente legati
tra loro. Per il solo fatto che anche tale indagine è condotta dall’uomo, un problema
apparentemente lontano dalla gnoseologia stricto sensu si trasforma automaticamente in
una discussione sulle capacità conoscitive dell’uomo stesso. Come osserva infatti lo Hall
“in quanto la natura fondamentale dell’uomo è considerate come ‘imago Dei’, la
questione trinitaria è anche ultimamente una questione antropologica. Ugualmente, la
‘questione antropologica’, in quanto è sollevata dalla coscienza umana piena di fede, è
anche ultimamente la ‘questione trinitaria’”208.
In questo campo san Tommaso si muove in linea con le conclusioni di sant’Agostino.
Scritto circa un secolo prima di quello boeziano, il De Trinitate di sant’Agostino,
modello di quello boeziano e punto di riferimento del pensiero teologico tomistico, si
conclude con l’immagine evangelica di un uomo infermo e debole che implora la
guarigione spirituale del medico che può tutto: sant’Agostino si rende conto di non “aver
detto nulla che sia degno di quella suprema e ineffabile Trinità”209 e di non essere
riuscito a aportare alla luce della comprensione umana la distinzione fondamentale tra
generazione e processione, chè così avrebbe spiegato come mai non chiamiamo ‘Figlio’
tanto Gesù quanto lo Spirito Santo, pur provenendo entrambi dal Padre210.
Per Agostino i quindici libri della sua opera furono più un maestoso tentativo che un
successo211. Cominciato nel 399, il De Trinitate fu terminato dal vecchio Agostino nel
419 o forse più tardi212. Il mistero trinitario si rivelò insondabile213.
208 Ibid., 9. 209 l. XV, cap. 27, 50. Per il De Trinitate di sant’Agostino utilizziamo l’edizione latino-italiano Città Nuova Editrice, Roma 1973. 210 Cf II, 3, 5 e XV, 25, 45. 211 Cf XV, 25, 45: “quamvis et in ipso intellectu conatum me senserim magis habuisse quam effectum”.
146
Come sant’Agostino anche san Tommaso sentì sempre più insistente -ma già da
giovanissimo- il senso del limite della conoscenza umana, “il presentimento di una
immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale
tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo”214. Secondo la testimonianza di
Bartolomeo da Capua, a Reginaldo da Piperno che lo esortava a terminare la sua Summa
san Tommaso rispose: “Raynalde, non possum, quia omnia quae scripsi videntur michi
palee”215. Non è perciò senza importanza che il suo Commento al De Trinitate, l’opera in
cui meglio avrebbe potuto fornire un’indagine razionale del mistero trinitario, sia
anch’essa rimasta incompiuta.
Rispetto al De Trinitate agostiniano216 quello di Boezio si pone come approfondimento
logico-filosofico del dogma, mentre il commento di san Tommaso a sua volta risulta
essere l’analisi più penetrante, sia pur incompiuta, delle condizioni soggettive ed
oggettive delle nostre facoltà conoscitive di fronte alle profondità di questo mistero. Per
il Dottore africano tra l’uomo e Dio intercorre una “somiglianza simile e dissimile” allo
stesso tempo: “ciò permette al vescovo di Ippona di conservare, nonostante la
speculazione ardua e fiduciosa, la trascendenza divina e il senso del mistero; e perciò gli
permette di evitare il grave errore di coloro, i quali pur partendo dalla fede, spingono
tanto avanti l’indagine teologica da pretendere di ridurre al livello della ragione il
contenuto del mistero trinitario”217. Le ultime parole dell’Aquinate che indagano al
212 Cf il Prologo: “I libri sulla trinità, sommo e vero Dio, li cominciai da giovane e li ho pubblicati da vecchio. 213 Cf l. XV, cap. 26. 214 S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 40. 215 Cit. in ibid., 37. 216 “Nel De Trinitate (di sant’Agostino) la filosofia è in funzione della teologia e la teologia in funzione della mistica”, Introd. dell’ediz. cit. del De Trinitate agostiniano, XLIII. 217 Introd. dell’ediz. cit. del De Trinitate, XLI. Sono questi gli stessi ‘semirazionalisti’ il cui errore per altro verso sant’Agostino condanna in apertura del primo libro, come coloro i quali “disprezzano di partire dalla fede e sono tratti in inganno da uno sconsiderato quanto fuorviato amore della ragione”. L’errore consiste più precisamente nell’applicare a Dio le categorie proprie solo delle cose sensibili.
147
massimo grado il problema della Trinità alla luce della ragione naturale e al riparo della
fede nell’unico Dio, sono agnosìa e senso del mistero218.
218 Così si esprimerà qualche anno dopo: “La ragione umana da sé non può conoscere la Trinità, perché essa da sé conosce Dio in quanto causa del mondo, e Dio ne è causa in quanto è uno nell’essenza, non in quanto è trino nelle persone”(Summa Theol., I, q.32 a.1;ed. it. cit., p. 40).
148
Capitolo VI
Oltre l’agnosìa la scienza del mistero.
I tre articoli conclusivi della sesta questione (e dell’intero commento) trattano di come il
nostro modo di conoscere -proporzionato alla nozione degli oggetti sensibili- sia in grado
di rapportarsi alle cose divine.
Al secondo articolo san Tommaso chiede “se sia necessario rinunciare del tutto
all’immaginazione nelle cose divine”. Abbiamo evidenziato ‘tutto’ perché, come si sarà
forse notato, le ultime due questioni non consentono una soluzione univoca. Per questo
san Tommaso ha qui indebolito la forza argomentativa dei sed contra a tutto vantaggio
della responsio, che guadagna ampiezza e un ruolo determinante nella soluzione della
disputa.
Sembra che la scienza divina non possa fare a meno di fondarsi sull’immaginazione.
Infatti la stessa Sacra Scrittura, che è la trattazione più compiuta delle realtà divine,
ricorre spesso all’immaginazione attraverso figure sensibili.
La comprensione di tali cose ha bisogno poi di due elementi: l’intelletto, che si serve nel
suo procedimento dei fantasmi, e “l’illuminazione del raggio divino” e questo, per
esprimerci con i termini del primo capitolo della Gerarchia celeste di Dionigi, “è
impossibile che (…) risplenda per noi in altro modo se non in quanto avvolto dalla
varietà dei sacri veli”, dove i ‘sacri veli’ stanno per le immagini delle realtà sensibili.
149
Abbiamo anche visto come il primo gradino per giungere alle cose divine è la
considerazione delle realtà sensibili, che sono come gli effetti delle soprannaturali, e il
principio della nostra conoscenza è l’immaginazione.
Ma nella risposta san Tommaso distingue innanzitutto tra principio e termine che in ogni
conoscenza sono due cose diverse e cronologicamente successive l’una all’altra. Il primo
spetta all’apprensione, il secondo invece al giudizio, in cui può dirsi compiuto il processo
della conoscenza. La conoscenza comincia dunque coi sensi, per poi procedere con la
fantasia, e da questa estendersi fino all’apprensione intellettiva, “dal momento che i
fantasmi si rapportano all’intelletto come oggetti”.
Il principio non può, dunque, cambiare, ma il termine sì: la nostra conoscenza può,
infatti, arrestarsi ora nei sensi, ora nell’immaginazione, ora infine nel solo intelletto.
Mentre ai primi corrisponde la conoscenza delle cose sensibili, il giudizio matematico
supera il limite posto da quello dei sensi e trova quindi il suo termine
nell’immaginazione.
Infine, il terzo genere di conoscenza ha il suo termine nell’intelletto e spetta alla
conoscenza delle realtà divine. Queste infatti non dipendono da alcun tipo di materia né
secondo la considerazione né secondo l’essere, “e tuttavia possiamo pervenire alla
conoscenza di tali realtà solo a partire da ciò che apprendiamo con i sensi o con
l’immaginazione”.
Le tre vie -causalitatis, excessus e remotionis- sono quelle indicate da Dionigi e passano
tutte per la conoscenza sensibile, poiché la nostra nozione di Dio può essere solo
negativa, relativa cioè a qualcos’altro che apprendiamo con i sensi o con
l’immaginazione. Ma su questi ultimi non possiamo ‘fondarci’, nel senso di giudicare le
realtà divine come se fossero uguali alle realtà che apprendono i sensi o
150
l’immaginazione: “deduci [fondarsi] ad aliquid est ad illud terminari (…). Et propter hoc
peccant qui uniformiter in his tribus speculativae partibus procedere nituntur”219.
Per questo la sacra scrittura ci introduce alle realtà superiori iniziando con quelle
rappresentabili dai nostri sensi, perché capiamo che esse sono solo la soglia, presso la
quale non bisogna indugiare se ci si vuole innalzare alle realtà prive di materia220.
Ma si pone ora l’interrogativo “se il nostro intelletto possa vedere la stessa forma
divina”, oggetto dell’articolo successivo.
Abbiamo visto che non ci è possibile cogliere Dio e le altre sostanze separate nella loro
essenza e che però non ci è preclusa la nozione dell’esistenza del soprannaturale.
Dionigi, nella sua prima lettera al monaco Gaio, nega che si possa avere visione di Dio
stesso, e chi afferma di averLo visto e di aver compreso ciò che ha visto, non ha visto
Dio stesso ma qualcuna delle sue opere. Come dice il Filosofo nel secondo libro della sua
Metafisica, “il nostro intelletto si comporta verso le cose più evidenti come l’occhio della
nottola nei confronti del sole”, come un animale notturno la vista dell’uomo non può
sopportare la visione della forma divina.
La risposta si basa sulla ormai consueta distinzione tra quid est e an est (cioè essenza ed
esistenza di una cosa) che corrispondono alle due questioni fondamentali distinte da
Aristotele negli Analitici Secondi. Come sappiamo, a questo fa pendant il duplice modo
in cui noi possiamo conoscere una cosa. In particolare, nel caso dell’essenza occorre o un
modo immediato, portandoci sullo stesso piano della quiddità della cosa, o mediato,
219 Decker, 217. 220 I ‘fantasmi’ sono, dunque, una componente irrinunciabile del principio della nostra conoscenza, ma questa non deve necessariamente fermarsi ad essi. Tuttavia “il fantasma è principio della nostra conoscenza come ciò da cui ha inizio l’operazione dell’intelletto, e non in modo transitorio, ma permanente, come un vero e proprio fondamento dell’operazione intellettuale (così come i principi di una dimostrazione devono permanere nell’intero procedimento di una scienza)”. Esiste dunque un ininterrotto e ineludibile vincolo tra la realtà e la nostra anima, tale che senza la conoscenza dei fantasmi viene meno automaticamente anche la conoscenza dell’intelletto; e “tuttavia, il giudizio sulle realtà divine non si forma secondo l’immaginazione”.
151
utilizzando la conoscenza di altro che possa mostrarci adeguatamente la quiddità di
quella determinata cosa.
Ma a noi è concessa solo la conoscenza del sensibile e non dell’intelligibile; tuttavia,
possiamo procedere attraverso relazioni e analogie tra le cose che ci sono già note anche
tra le realtà invisibili. Ma in realtà le nature sensibili non esprimono adeguatamente
l’essenza di alcuna sostanza separata, “almeno dal punto di vista della considerazione
naturale”: in effetti, san Tommaso ha già spiegato che dal punto di vista della
considerazione logica le sostanze materiali e quelle separate potrebbero essere
considerate come appartenenti allo stesso genere; ma il fisico e il metafisico non
considerano le cose in quanto predicabili, ma in quanto esistono in atto, e da quest’altro
punto di vista è evidente che i loro oggetti appartengono a generi assolutamente diversi.
Perciò su questa terra e con queste capacità intellettuali, né la via della conoscenza
intellettuale né quella della rivelazione può farci conoscere l’essenza delle sostanze
separate. San Tommaso fa riferimento sia alla rivelazione nel senso di tutto ciò che del
soprannaturale possono comunicarci per analogia le forme sensibili, sia come raggio
della rivelazione divina. Quest’ultimo può innalzarci fino a farci conoscere qualcosa che
altrimenti ci rimarrebbe ignoto, ma -poiché come dice Dionigi nel primo libro della sua
Gerarchia celeste- ci giunge secondo le nostre capacità, “non arriva tuttavia a farci
conoscere in modo diverso da quello che ha luogo a partire dalle cose sensibili”.
Delle sostanze separate possiamo, dunque, conoscere l’esistenza ma non l’essenza.
Tuttavia, di nessuna cosa si può conoscere l’esistenza se non se ne sa, almeno in maniera
confusa, qualcosa dell’essenza. Non posso riconoscere qualcuno se non ne conosco,
almeno per un vago ricordo, i tratti fisici, pur ignorandone le generalità; questo accade
perché, come spiega il Filosofo all’inizio della Fisica, “le realtà definite sono conosciute
152
prima delle parti della definizione”221. Dunque, non è possibile concepire un uomo se
non se ne conosce in qualche modo l’esistenza, pur ignorandone la definizione.
Aristotele continua aggiungendo che “all’inizio i bambini chiamano ‘papà’ e ‘mamma’
tutti gli uomini e le donne che vedono e solo in seguito sono capaci di cogliere entrambi i
genitori nella loro individualità”. Evidentemente di fronte alle sostanze semplici siamo
meno che neonati, poiché nessuna nostra definizione può afferrare la loro essenza. Per
quanto riguarda Dio, infatti, il genere prossimo o remoto non può aiutarci a individuarne
l’esistenza, poiché in Lui essenza ed esistenza coincidono, quindi nessun genere può
caratterizzare accidentalmente la contingenza del suo ‘esser-ci’.
Come già abbiamo visto, al logico è possibile trattare le realtà intelligibili alla stessa
stregua di quelle sensibili, perché egli considera le intenzioni in senso assoluto; ma per il
fisico e il metafisico le realtà corruttibili e materiali e quelle incorruttibili e immateriali
non possono convenire: nelle prime, infatti, l’essenza si dà nell’essere delle cose, che
muta secondo la misura della potenza e dell’atto e fa sì che ogni cosa sia secondo il
proprio genere.
Al posto della conoscenza del e per genere, nel caso delle sostanze in-corporee ci resta
l’unica possibilità della conoscenza di tipo negativo, che abbiamo già distinto nei tre
modi possibili secondo la dottrina di Dionigi: “quante più negazioni giungiamo a
riconoscere, tanto meno confusa è la conoscenza che possiamo avere di esse”. Questa è
in particolare la ‘via remotionis’ e solo in questo modo Boezio ammette che la forma
divina possa essere ‘vista’, cioè “attraverso la rimozione di tutti i fantasmi, e non in
modo che se ne possa conoscere l’essenza”. Tutti gli argomenti iniziali, tanto le obiezioni
quanto quelli in contrario, vanno letti e risolti in questa chiave: i primi si riferiscono alla
conoscenza perfetta dell’essenza, gli altri alla conoscenza imperfetta di cui si è parlato.
221 I, 1, 184a23-b14.
153
La visione di Dio riveste in san Tommaso, come d’altronde per tutta la teologia cristiana,
una grande importanza legata ad una tensione naturale e ‘creaturale’ dell’uomo verso il
suo Creatore. Nella Summa Theologiae222 san Tommaso affronta in maniera compiuta
l’argomento alla q. 12 in cui si domanda “come conosciamo Dio”. L’incipit anche lì è la
gnoseologia e la psicologia aristoteliche, guidate dall’idea che “ogni essere è tanto più
perfetto quanto più si avvicina al suo principio”.
Ora, il nostro fine ultimo è la visione di Dio che rappresenta per noi tanto il principio di
ogni nostra conoscenza che l’oggetto stesso della visione intellettiva. L’occhio e la
fantasia umani non possono giungere a tale conoscenza, se non ‘aumentati’ del lume di
gloria che ci rende simili a Dio, cioè ‘deiformi’, e che si conquista nell’altra vita in
proporzione alla carità di ciascuno. Tuttavia -qui per la temporalità della nostra
condizione terrena, lì per la finitudine dell’intelletto creato pur illuminato dal lume della
gloria- noi non siamo comunque in grado di abbracciare l’infinita conoscibilità di Dio.
San Tommaso anche nella Summa concluderà:
“Alla cognizione nostra concorrono la forza della mente e le immagini
mentali; Dio può rafforzare l’una e infondere le altre, come avviene nei
profeti, e così per grazia si può avere una più alta cognizione delle
cose di Dio”223.
Chiude il commento la domanda “se la visione della forma divina possa aver luogo
attraverso qualche scienza speculativa”. Siamo con ciò condotti al culmine della suprema
forma di conoscenza del soprannaturale, dove vien meno ogni parola e ciò che conta è il
silenzio.
222 G. Dal Sasso- R. Coggi, Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, cit., 19-21. 223 Summa Theologiae, I pars, q. 12 a. 13; ed. it. cit., p. 20. Il corsivo è nostro.
154
Le obiezioni ammettono che sia la sapienza e non qualche scienza speculativa la
disciplina deputata alla conoscenza delle sostanze separate. Felicità ultima dell’uomo è,
infatti, comprendere intellettualmente le sostanze separate e, secondo il Filosofo, è
necessario che la felicità, che è l’operazione più perfetta, sia oggetto di ciò che al
massimo grado esprime le potenzialità dell’intelletto, ovvero la sapienza. Ma questa
rientra tra le scienze speculative e perciò esiste una scienza capace di vedere la forma
divina.
San Tommaso invece distingue due tipi di felicità: una imperfetta nel nostro stato di
viatori, che è quella di cui parla Aristotele e che scaturisce dalla contemplazione delle
sostanze separate attraverso la sapienza; l’altra perfetta che coincide con la vita eterna e
con la visione beatifica delle essenze delle sostanze separate; lì non vi sarà più bisogno di
alcuna scienza, poiché saremo illuminati dal lume di gloria.
In generale si può dire che tutte le speculative tendono alla conoscenza delle sostanze
separate come al proprio fine supremo: secondo un celebre adagio aristotelico sarebbero
infatti tutte vane se non perseguissero questo fine.
Ma non può darsi una scienza speculativa in grado di comprendere appieno le sostanze
immateriali.
In tutte le scienze si procede sempre -tanto nella dimostrazione delle proposizioni che
nella ricerca delle definizioni- da qualcosa che è già noto e che non ha bisogno di essere
ulteriormente spiegato o dimostrato. Infatti, secondo un notissimo principio aristotelico,
non è possibile attraversare l’infinito, “per questo l’intera considerazione delle scienze
speculative può essere ricondotta ad alcuni termini primi, che l’uomo non deve imparare
o ritrovare, perché altrimenti si andrebbe all’infinito, ma di cui deve possedere
naturalmente la conoscenza”.
155
Dunque, tutte le conoscenze hanno il loro principio comunque nel mondo naturale e
niente può essere conosciuto nelle scienze speculative, se non ciò a cui si possono
estendere queste conoscenze naturali. Ma è evidente che senza il contributo del soggetto
conoscente le immagini delle cose naturali resterebbero immagini sensibili solo in
potenza: infatti, è il lume naturale dell’intelletto agente che rende evidenti tali realtà,
rendendo i fantasmi intelligibili in atto.
Resta che anche i principi primi quali l’ente, l’uno e così via iniziano nei sensi e nella
memoria: “e così anche tali principi non possono condurci al di là di quelle cose di cui
possiamo avere conoscenza a partire da ciò che viene afferrato dai sensi”. Non si può
saltare il gradino del sensibile, iniziando direttamente il nostro iter conoscitivo per
esempio dal livello astrattivo-matematico, e tantomeno da quello soprannaturale-
teologico.
In conclusione: nessuna scienza speculativa può farci pervenire alla conoscenza delle
sostanze separate, per quanto attraverso il confronto con le cose sensibili possiamo
conoscerne l’esistenza e alcune loro proprietà formali. Le quiddità delle cose sensibili
sono incommensurabili con quelle delle sostanze immateriali: c’è uno scarto infinito tra
queste e quelle e l’uso dello stesso termine è un semplice caso di equivocità.
Dicendo “ipsam inspicere formam quae vere forma neque imago est”224 Boezio ha
dunque voluto intendere non già che attraverso la scienza teologica possiamo
contemplare l’essenza della stessa forma divina, ma solo che essa è al di là di tutti i
fantasmi”.
Tuttavia, conclude san Tommaso -e qui si ferma il Commento- noi possediamo già infusi
quei principi che preludono alla nostra conoscenza perfetta delle sostanze separate, ma
non precisamente quelli che ci consentono già sin d’ora e senz’altro di conseguirla:
224 Decker, 157.
156
“Quantunque infatti l’uomo tenda per natura verso il fine ultimo, non è
tuttavia per natura che può conseguirlo, ma solo attraverso la grazia, a
causa dell’eminenza di questo stesso fine”.
Le estreme conseguenze di questo principio sono contenute nella bellissima frase en
ouverture della sua Summa Theologiae:
“Cum igitur gratia non tollat naturam sed perficiat, oportet quod
naturalis ratio subserviat fidei sicut naturalis inclinatio voluntatis
obsequitur chiaritati” 225.
Seguendo la suddivisione interna del commento di san Tommaso possiamo provare ora a
ricostruire gli elementi del suo metodo teologico.
Il metodo dell’Aquinate ha come base la fede, una via di conoscenza sempre pronta a
confrontarsi con quella rappresentata dalla pura ricerca razionale. Ma è un confronto che
non rinnega mai quella prima identità, che ha proprio nel dogma trinitario il suo nucleo
creativo. La ‘relazione’ di cui parla Boezio nel seguito non commentato del suo opuscolo
è il nesso intrinseco del mistero trinitario e allo stesso tempo la categoria che permette la
libertà e l’audacia di quel confronto. L’essere radicato nella tradizione in un modo così
ragionevolmente fedele costituisce il pregio del metodo scolastico e tomistico in
particolare.
Il punto di partenza è la realtà che stimola l’azione conoscitiva dell’uomo; ma il
soprannaturale interroga oltre la nostra mente e urge un ulteriore approfondimento di
quel primo gesto. Interviene dunque la fede, ma una fede inscritta nella tradizione che
veicola da secoli il dato rivelato, oggetto esso stesso di questo secondo tipo di
225 I pars, q.1, a.8 ad 2m.
157
conoscenza. Da qui si è generata una scienza umana che rende possibile l’accesso ad una
certa nozione degli articoli di fede. La forma in sé di questa realtà altra, che è Dio nella
sua ineffabile unitrinità, è l’origine e il termine di ogni nostra conoscenza.
Qui si innesta il vissuto dell’uomo che salva anche l’effettiva contraddizione tra
‘preriflessivo’ e ‘concettuale’. Il metodo tomistico è la via della conoscenza umana par
excellence, proprio riconoscendo all’esperienza religiosa di ognuno la possibilità di farsi
‘scienza’ del divino. Non si tratta quindi di un passaggio dal preriflessivo al mistero
come un salto nel vuoto, ma di esperire il mistero nel raggiungimento della
consapevolezza del proprio limite creaturale.
Il Brena nel suo studio già citato nell’Introduzione così si esprime: “se vogliamo far
posto sia all’esperienza di senso vissuto sia alla sua articolazione e problematizzazione,
ci troviamo in una nuova situazione epistemica. (…) Il metodo scolastico dovrebbe
quindi oggi essere esercitato a entrambi i livelli, quello della condivisione di esperienze e
di una riflessione che mette in parola l’esperienza preriflessiva, e quello della
problematizzazione che richiede ricerca e argomentazione e tende a un equilibrio
riflessivo con il senso vissuto. E nei due casi l’intento programmatico del metodo
scolastico è quello di immettere nel senso vissuto e nel pensiero l’istanza evangelica,
secondo il suo spirito che consente di poter ravvivare ogni lettera e secondo un
orientamento spirituale che può far lievitare ogni pasta”226.
Il silenzio di san Tommaso appare in questa cornice quanto mai significativo; non nel
senso ovviamente del rifiuto del dogma, bensì in direzione di quella “teologia apofatica”
che, figlia del pensiero ascetico orientale, addita all’uomo la via dell’esperienza di Dio.
L’apofatismo non è una limitazione alla conoscenza umana; essa è un tendere verso la
226 G. L. Brena, Tomismo ieri e oggi, cit., 322 e 324.
158
pienezza che trasforma la conoscenza in ignoranza, la teologia di concetti in
contemplazione dei dogmi.
“L’apofatismo non è necessariamente una teologia dell’estasi; è anzitutto una
disposizione di spirito che si rifiuta di formulare dei concetti su Dio ed esclude
decisamente ogni teologia astratta e puramente intellettuale, che vorrebbe adattare al
pensiero umano i misteri della sapienza di Dio. È un atteggiamento esistenziale, che
impegna l’uomo tutto intero; non vi è teologia al di fuori dell’esperienza: bisogna
cambiare, divenire un uomo nuovo”227.
L’Occidente, abbracciando invece la “teologia catafatica”, ha commesso il grave errore
di parlare di Dio senza farne esperienza. Dionigi, tanto spesso citato da san Tommaso,
nel primo capitolo del suo La teologia mistica dice:
“O Trinità sopra-essenziale, sopra tutte le cose divine e buone, guida
gli uomini nella ricerca della teosofia!”
La ‘teosofia’ è sapienza di Dio, non teologia, è assaporare Dio, non solo riconoscerlo.
Nel XII secolo tale armonia tra filosofia e mistica era entrata in crisi a causa dell’idea che
le verità di fede non hanno alcun fondamento razionale. Il XIII secolo registra la nascita
della maestosa sintesi tomistica di fede e ragione, mistero e rivelazione. Ma come
abbiamo visto il tomismo fu tradito dagli stessi suoi successori, e la forza della sua sintesi
si affievolì, lasciando il posto al “misticismo speculativo”, che non fu “una semplice
descrizione dell’elevazione dell’uomo verso Dio, ma la speculazione sulla possibilità di
un’ascesi, basata in ultima istanza sull’unità essenziale di Dio e dell’uomo”228.
227 V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, il Mulino, Bologna 1967, 34 228 M. Toscano–G. Ancochea, Mistici neoplatonici neoplatonici mistici, Servitium editr., Bologna 2000, 82 nota 44.
159
San Tommaso tenta una sintesi di teologia catafatica e apofatica. Un’operazione che in
questo opuscolo egli compie a livello dialettico, costruendo qui il suo originalissimo
metodo di conoscenza scientifica di Dio. In san Tommaso la teologia negativa diventa un
correttivo di quella affermativa, limite e sprone che rialza continuamente il tono del
discorso razionale quando è al cospetto dei misteri divini, primo fra tutti quello trinitario,
il più insondabile ed elevato.
Ciò che resta ‘negativo’ è il silenzio imposto ai modi significandi usati dall’uomo, mentre
la res significata, la perfezione divina, resta intatta nella sua gloria229. A noi è
ultimamente concesso su questa terra di far esperienza del divino non come di un assente,
ma come di una presenza misteriosa e ineffabile, cui la nostra mente anela e che
intellettualmente già ri-conosce.
Il ‘credo ut intelligam’ anselmiano, “nucleo del metodo teologico”230, si trasfigura in san
Tommaso in un ‘intelligo ut videam’ alla luce della fede che la grazia divina dispensa.
229 Cf V. Lossky, cit., 21-22. 230 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 328-330.
160
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Voglio ringraziare tutti coloro che tra Eichstätt, Taranto e Lecce hanno in vario modo reso possibile questo lavoro. La gratitudine verso questi amici mi faccia “gustare attraverso l’affetto quello che sento attraverso l’intelletto”.
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