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La grammatica è dottrina ricevuta?
1. Da dove viene la grammatica scolastica?
È ormai consolidato l'uso di parlare di 'grammatica tradizionale'. In effetti, questo ter-
mine comporta un'eccessiva semplificazione, in quanto contrappone in modo estrema-
mente sbilanciato la grammatica 'moderna' – qualunque cosa questo significhi esatta-
mente: quella dell'ultimo secolo? – a tutta quella precedente, che ha avuto uno sviluppo
di più di due millenni. Inoltre, il pensiero grammaticale pre-moderno non è stato uni-
forme, avendo conosciuto un continuo sviluppo nel tempo ed essendo presenti almeno
due linee di pensiero diverse, una principalmente di tipo induttivo, l'altra di tipo dedutti-
vo. Nel tempo non sono cambiate solo le concezioni e le pratiche, ma anche le motiva-
zioni.
Come molte altre discipline della cultura occidentale, anche la grammatica (o la
riflessione linguistica in senso lato) affonda le sue radici nel mondo greco; anzi, le fon-
damenta sono rimaste quelle ereditate dalla cultura greca. Tuttavia, è molto difficile at-
tribuire con precisione e sicurezza ad agenti storici i singoli elementi della grammatica
ricevuta. La ragione è in parte che si conosce poco delle concezioni linguistiche della
Grecia presocratica, in parte che le attestazioni sono di difficile interpretazione, essendo
il pensiero linguistico mescolato per molti secoli con quello filosofico (in particolare lo-
gico-epistemologico) e retorico; in parte, ancora, che si tratta spesso di concezioni ap-
prossimative, che possono essere considerevolmente diverse da come sarebbero state in-
tese più tardi. La conseguenza è che è molto facile sopravvalutare i contributi dei grandi
filosofi greci, anche a causa della venerazione di cui ancora godono, o di fraintenderne
il pensiero, retroattivando concezioni che sono state sviluppate molto più tardi.
Le prime riflessioni grammaticali conosciute sono di provenienza filosofica,
quindi collaterali: l'interesse primario per il linguaggio consisteva nel suo rapporto con
la realtà. Ad Aristotele si deve la prima codificazione di una certa sistematicità, triparti-
ta, degli elementi della frase conosciuti più tardi come 'parti del discorso', la distinzione
tra soggetto e predicato (sebbene è dubbio che questi termini avessero il valore che han-
no nella grammatica scolastica moderna) e le categorie flessive (caso, numero, genere,
ecc.).
La scuola filosofica che più si distinse per gli studi di grammatica (e in genere
per l'interesse per il linguaggio) è quella stoica. La ragione sta nel fatto che gli stoici ri-
tenevano che la conoscenza consistesse nella conformità delle idee con ciò che esiste
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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realmente nel mondo. In altre parole, il linguaggio era visto come la base della logica.
Su questa tradizione si innestò la Scuola Alessandrina, sebbene partisse da motivazioni
molto diverse: il fine era quello di preservare la "vera" lingua greca (da loro identificata
in quella dei poemi omerici) dalla corruzione. Questa scuola produsse nel II secolo a.C.
le prime grammatiche greche sistematiche: quella di Dionisio Trace (di particolare rile-
vanza per la morfologia) e quella di Apollonio Discolo (di particolare rilevanza per la
sintassi), che furono il modello grammaticale per tutta l'antichità.
I grammatici romani imitarono i modelli greci con pochi adattamenti, quelli mo-
tivati dalle differenze tra greco e latino, e li perfezionarono. Questa tradizione produsse
qualche secolo più tardi le grammatiche di Donato (c. 400 d.C.) e Prisciano (c. 500
d.C.), che – come le grammatiche alessandrine – prendevano come modello la lingua
latina dei classici. Queste grammatiche, in particolare quella di Prisciano, sono state alla
base della teoria, pratica e insegnamento scolastico della grammatica per tutto il me-
dioevo (anche in virtù dell'immensa importanza del latino nell'istruzione) e, indiretta-
mente, fino ai giorni nostri.
Una linea di pensiero in parte divergente è quella che, a più riprese e con le do-
vute differenze, provenne dall'area dell'Île de France, di carattere speculativo e universa-
lista. La prima fase, intorno al XIII secolo, è detta dei 'modisti', perché mirava ad accer-
tare i modi del pensiero attraverso il linguaggio ed era di derivazione aristotelica. Il ter-
mine 'speculativo' va inteso proprio in questo senso: le categorie linguistiche rispecchie-
rebbero quelle della realtà. Si tratta, in altre parole, di un approccio di tipo deduttivo.
Qualche secolo più tardi (intorno al seconda metà del XVII secolo) questa linea di pen-
siero prese forma nella grammatica generale (o ragionata/razionale) di Port Royal, in
cui 'generale' non ha nulla a che vedere col tentativo di scoprire leggi universali che re-
golano tutte le lingue, ma nell'assunto che il linguaggio è prodotto dalla ragione e che le
differenze tra le lingue umane sono solo accidentali, variazioni di un sistema generale.
Queste grammatiche ebbero molto successo, specialmente in Francia, specialmente du-
rante l'Illuminismo.
La grammatica che viene insegnata tradizionalmente nelle scuole dell'Occidente
è il risultato di queste esperienze linguistiche variegate, che hanno dato luogo a un si-
stema non necessariamente coerente né trasparente. Una conseguenza è che non è facile,
e a volte persino impossibile, stabile con ragionevole certezza a quale scuola risalga uno
specifico elemento del sistema. Un altro aspetto della questione è che questo sistema
viene tradizionalmente insegnato in modo acritico a scolari in età acritica: tipicamente,
fino a qualche generazione fa si insegnava a partire dalla seconda elementare, comin-
ciando con l'analisi grammaticale, per proseguire con l'analisi logica in IV elementare e
l'analisi del periodo in V elementare (attualmente, quest'ultima si insegna normalmente
a partire dalla I media). Tutti questi fattori contribuiscono all'idea largamente diffusa
che la grammatica sia una sorta di dottrina ricevuta, che non avrebbe senso discutere,
meno che mai assoggettare a criteri di adeguatezza scientifica. Infatti, quasi unanime-
mente la grammatica non è considerata una disciplina descrittiva, ergo falsificabile, ma
prescrittiva, o comunque "data".
Marco Svolacchia
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2. Natura della sintassi
Uno degli aspetti della grammatica tradizionale che più ha attirato le critiche da parte
dei linguisti contemporanei è la sua giustificazione delle categorie linguistiche. Per capi-
re questo, conviene partire da un assunto di base riguardo alla natura della sintassi, che
possiamo considerare assiomatico: la sintassi consiste nei principi con cui le parole si
combinano.
La ragione di questa enunciazione è che la sintassi, come si ricorderà, è un mec-
canismo che, a partire da un numero limitato di parole, crea un numero illimitato di fra-
si. Inoltre, grazie alla sua proprietà fondamentale, la ricorsività, è in grado di creare, in
linea di principio, frasi infinitamente lunghe, come avviene per i numeri. Questo com-
porta che l'apprendimento di una lingua non consiste nella memorizzazione di tutte le
frasi possibili (esattamente come non si possono imparare a memoria tutti i numeri pos-
sibili). Non consiste nemmeno nella memorizzazione di schemi, perché, in virtù della
ricorsività, anche gli schemi sono infiniti.
Questo introduce la seguente domanda: secondo quali principi si combinano le pa-
role? Il candidato immediato, sulla base della pratica della grammatica tradizionale, è
che il principio con cui le parole si combinano è il significato, ovvero che una frase è
grammaticale se ha senso. È facile mostrare che questo assunto è falso. Si considerino le
frasi seguenti:
a. ?Una virtù sta bevendo una pietra con lenta fretta
b. *Fretta sta lenta con virtù una pietra una bevendo
Nessuna delle frasi in (1) ha senso; tuttavia, mentre (a) è grammaticale (può essere pro-
nunciata come una frase normale, con un ritmo normale e un'intonazione normale), (b)
non lo è (non c'è modo di assegnarle un ritmo e un'intonazione normale). Eppure le pa-
role che compongono (a) e (b) sono identiche. Se fosse il senso che determina la gram-
maticalità, non ci sarebbe modo di capire la differenza di giudizio che le due frasi rac-
colgono. La differenza tra le due è che (a) non permette un'interpretazione ovvia del suo
significato, mentre (b) è un'insalata di parole. Si osservino, infatti, le frasi seguenti che,
al contrario, sono formate da parole che insieme hanno perfettamente senso (le prime
due risultano anche facilmente interpretabili) e che tuttavia risultano agrammaticali:
a. *Sembra Gianni contento
b. *Dove Gianni è andato?
c. *Chi sei stato chiamato dopo che è arrivato?
A conferma di ciò, basta cambiarne l'ordine e le frasi diventano grammaticali:
a. Gianni sembra contento
b. Dove è andato Gianni?
c. Sei stato chiamato dopo che è arrivato chi?
Ancora, della coppia di frasi sinonimiche in (1) sotto solo la prima è grammaticale: la presenza
di 'di' in (b) la rende agrammaticale; al contrario, in (2) (b) risulta agrammaticale per l'assenza di
'di':
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1. a. Gianni vuole andare al mare
b. *Gianni vuole di andare al mare
2. a. Gianni ha voglia di andare al mare
b. *Gianni ha voglia andare al mare
Conclusioni simili si possono trarre dal contrasto tra (a), una frase grammaticale, e (b), agram-
maticale, in cui manca il complemento diretto di 'catturò':
a. Un poliziotto catturò un ladro
b. *Un poliziotto catturò
All'inverso, con un verbo come 'cammina' non è possibile aggiungere un complemento diretto:
a. Gianni cammina
b. *Gianni cammina la strada
Come si vede, non è il senso delle parole che compongono una frase che ne determina la
grammaticalità, ma proprietà diverse, di natura formale (ordine delle parole, presenza di
elementi grammaticali, ecc.). La conclusione è che una frase è ben formata a prescinde-
re dal senso delle parole che la compongono.
3. Sintassi e significato
Si noti che questo non significa che la sintassi non abbia nulla a che fare col significato.
Al contrario. Si osservino le frasi seguenti:
a. Un poliziotto catturò un ladro
b. Un ladro catturò un poliziotto
La differenza di senso tra (a) e (b) non sta nelle parole che le compongono, ma nell'or-
dine delle stesse: in (a) la posizione di soggetto della frase è occupata da 'poliziotto', in
(b) da 'ladro'; questo determina una differenza di ruolo semantico nella frase ('chi fa
qualcosa a chi').
Ancora, si consideri la frase Il bimbo mangia le fragole in giardino, che può es-
sere ambiguamente interpretata come in (a) o in (b):
1a. Il bimbo mangia le fragole che sono in giardino
1b. Il bimbo mangia le fragole stando in giardino
L'ambiguità di (1) non è di natura lessicale (cioè non dipende dall'ambiguità di senso di
una parola) ma sintattica: l'elemento 'in giardino' si può "riferire" (il termine tecnico è
'ha portata su') sia al complemento di 'mangia' ('le fragole') sia all'intero predicato verba-
le 'mangia le fragole'. Il problema è che la grammatica tradizionale, nello specifico 'l'a-
nalisi logica', non è in grado di render conto di questa ambiguità (e di un numero infini-
to di frasi di questo tipo). Questo vuol dire che non solo non è in grado di spiegare la ra-
gione di questa ambiguità, ma nemmeno, banalmente, di descriverla. Per capire questo,
si osservi come verrebbero analizzate le due possibili interpretazioni della frase:
Marco Svolacchia
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a. Il bimbo mangia le fragole (che sono) in giardino
VERBO OGGETTO STATO IN LUOGO
SOGGETTO PREDICATO
b. Il bimbo mangia le fragole (stando) in giardino
VERBO OGGETTO STATO IN LUOGO
SOGGETTO PREDICATO
Come si vede, entrambe le interpretazioni vengono analizzate in modo identico. Questo
risultato non è accidentale né episodico ma evidenza un limite intrinseco molto impor-
tante della grammatica scolastica (dell'analisi logica, nello specifico): essere debolmente
relazionale. Che cosa significa esattamente 'relazionale'? Un'analisi relazionale consiste
nell'indicare la relazione di ciascun elemento con il resto degli elementi della frase cui
appartiene.
Perché l'analisi logica è relazionale? Perché indica la relazione che alcuni ele-
menti della frase intrattengono con altri. Gli esempi più chiari sono i complementi del
verbo, come l'oggetto diretto e indiretto (è implicito che sono retti da un verbo, cioè di-
pendono da un verbo), l'attributo (p.e. 'attributo del soggetto/oggetto', ecc.), l'apposizio-
ne (p.e. 'apposizione del soggetto/oggetto', ecc.). Per quanto riguarda l'aggettivo, ad
esempio, l'analisi logica non si limita a indicare che è un "attributo" (cioè che si riferisce
a/ha portata su un altro elemento), ma specifica di quale elemento.
Perché l'analisi logica è debolmente relazionale? Perché non specifica la relazio-
ne di molti altri elementi, in particolare dei complementi aggiunti (cioè quei "comple-
menti" che non dipendono dal verbo, cioè che in realtà non sono affatto complementi) e
degli avverbi. Proprio il primo caso è il lupus in fabula: l'incapacità da parte dell'analisi
logica di disambiguare una frase come in (1) sopra nasce proprio dall'incapacità di indi-
care in quale relazione sia il complemento aggiunto (chiamato oggi semplicemente ‘ag-
giunto’) col resto della frase. Un esempio di ambiguità di portata relativa a un avverbio
è 'Luca ha deciso di andare al cinema tardi.', in cui l'avverbio può avere portata sia su
'andare al cinema' (gli va di andare al cinema a uno degli ultimi spettacoli) sia su 'deci-
so di andare al cinema' (si è deciso tardi ad andare al cinema, senza specificare a quale
spettacolo).
Per capire in che cosa consista un'analisi sintattica pienamente relazionale si os-
servino le seguenti rappresentazioni, che sono in forma di diagramma ad albero, il mez-
zo di rappresentazione più utilizzato nella sintassi contemporanea, in cui (1a) rappresen-
ta l'interpretazione le fragole che sono in giardino e in cui (1b) rappresenta l'interpreta-
zione mangia le fragole stando in giardino (il triangolo delimita le parole che fanno par-
te del costituente indicato dall'indicatore sintagmatico; F = frase; SN = sintagma nomina-
le; SV = sintagma verbale; SP = sintagma preposizionale; V = verbo):
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(1a) F
SN SV
V SN
SN SP
Il bimbo mangia le fragole in giardino
(1b) F
SN SV
SV SP
Il bimbo mangia le fragole in giardino
Si noti che la superiorità di questa analisi rispetto a quella tradizionale non dipende dalla
tecnica rappresentazionale (che pure ha la sua importanza, sebbene secondaria). Lo stes-
so risultato si può ottenere con le parentesi quadre, un'altra tecnica molto utilizzata:
1a. Il bimbo mangia [SN [SN le fragole] in giardino]
1b. Il bimbo [SV [SV mangia le fragole] in giardino]
Le due rappresentazioni sono perfettamente equivalenti, ma hanno tipicamente un uso
diverso. Il diagramma ad albero produce rappresentazioni più facili da decodificare, ma
più difficili da codificare: richiede grafica e molto spazio nel testo. Viceversa, le paren-
tesi sono molto facili da codificare (si potrebbe utilizzare una semplice macchina da
scrivere) e occupano poco spazio nella pagina, ma sono difficili da decodificare; per
questo si utilizzano preferibilmente quando le strutture sono molto semplici o vengono
rappresentate in modo molto essenziale (come negli esempi sopra), pena l'illeggibilità.
Si noti che la frase ambigua di cui sopra non è una curiosità (o un'eccezione, per
usare un termine tradizionale), ma uno tra gli infiniti esempi che si possono fare. Si os-
servi a questo proposito l'esempio seguente, 'Piero accompagna una ragazza in biciclet-
ta', anch'esso strutturalmente ambiguo tra le interpretazioni (a) e (b):
2a. Piero accompagna una ragazza che è in bicicletta
2b. Piero accompagna una ragazza e lo fa in bicicletta
Anche in questo caso l'analisi logica non è in grado di render conto dell'ambiguità. Se-
gue la rappresentazione mediante un diagramma ad albero delle due strutture:
Marco Svolacchia
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(2a) F
SN SV
V SN
SN SP
Piero accompagna una ragazza in bicicletta
(2b) F
SN SV
SV SP
Piero accompagna una ragazza in bicicletta
È importante notare che l'aggiunto 'in bicicletta' non può avere, in questa frase, portata
sul soggetto (cioè 'Piero, che ha la bicicletta, accompagna una ragazza'), contrariamente
alla tentazione che spesso si ha. Per rendersi conto di questo, si osservi il seguente
esempio, L'uomo osserva un bimbo con un cannocchiale, ancora ambiguo tra l'interpre-
tazione (a) e (b):
3a. L'uomo osserva un bimbo che ha un cannocchiale
3b. L'uomo osserva un bimbo e lo fa con un cannocchiale
Si confronti l'interpretazione (b) con la frase Un uomo con un cannocchiale osserva un
bimbo, in cui l'aggiunto ha portata sul soggetto, rappresentata come segue:
(4) F
SN SV
SN SP
Un uomo con un cannocchiale osserva un bimbo
Questa frase, in effetti, è anch'essa ambigua, ma per ragioni diverse, potendo avere le
interpretazioni seguenti:
4a: l’uomo ha un cannocchiale (in mano, appeso al collo, ecc.), ma non lo usa per osserva-
re il bimbo
4b: l’uomo ha un cannocchiale e lo usa per osservare il bimbo
L'interpretazione in (4b) equivale a quella in (3b), ma l'interpretazione in (4a) è impos-
sibile in una frase come (3) sopra, in cui l'aggiunto è adiacente all'oggetto.
Come si spiega questo fenomeno apparentemente misterioso? La risposta è sem-
plice: quando l'aggiunto è adiacente al soggetto ha portata sullo stesso. Questo significa
che lo espande sintatticamente e nel contempo ne restringe la referenza: la classe degli
elementi a cui l'espressione 'un uomo con un cannocchiale' si può riferire è più ristretto
della classe degli elementi a cui l'espressione 'un uomo' si può riferire (questa frase è ve-
ra se e solo se chi osserva un bimbo è un uomo col cannocchiale, non semplicemente un
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uomo). Pertanto, la frase non dice nulla a proposito del fatto che l'uomo possa avere usa-
to il cannocchiale per osservare il bimbo o meno; dice solo che l'uomo ha un cannoc-
chiale. Perché allora è possibile anche l'interpretazione in cui l'aggiunto sembra avere
portata sul predicato (cioè 'l'azione di osservare il bimbo è con un cannocchiale')? In
realtà, l'ambiguità non è strutturale (l'aggiunto non può avere portata sul predicato in
quella posizione), ma origina dai meccanismi inferenziali: sappiamo che un uomo os-
serva un bambino e sappiamo che ha un cannocchiale; traiamo allora l'inferenza che il
cannocchiale venga utilizzato a quello scopo. A conferma di questo, si osservi una frase
strutturalmente equivalente, ma con un diverso elemento aggiunto al soggetto: 'Un uo-
mo con una cravatta osserva un bambino.' Questa frase può solo significare che un uo-
mo ha una cravatta, non che la utilizza per osservare il bimbo. Perché no? Perché in
questo caso l'inferenza strumentale è esclusa, perché sappiano che le cravatte non pos-
sono essere utilizzate per osservare. Piuttosto, l'inferenza che traiamo in questo caso è
che l'uomo indossi la cravatta (invece di portarla in mano, per esempio), perché sappia-
no che normalmente le cravatte vengono indossate.
Il senso di questa discussione è che la struttura sintattica è responsabile dell'in-
terpretazione semantica delle frasi, cioè di come le parole si uniscono a comporre signi-
ficati complessi. Ovviamente, questo non vale solo per le frasi ambigue; tutt'altro. La
ragione per cui si è partiti dalle frasi ambigue è solo per mostrare in modo chiaro l'ina-
deguatezza della grammatica tradizionale. Gli stessi principi regolano tutte le strutture
possibili. Si prenda, ad esempio, una frase come la seguente, in cui compare un aggiun-
to: 'Gianni lesse un libro con la copertina blu'. Su quale costituente ha portata l'aggiun-
to? Sembra ovvio che abbia portata sull'oggetto, come la rappresentazione seguente illu-
stra:
F
SN SV
V SN
SN SP
Gianni lesse un libro con la copertina blu
F
SN SV
SV SP
V SN
Gianni lesse un libro con grande piacere
Si noti, tuttavia, che la struttura di cui sopra è identica a quelle precedenti (un aggiunto
che segue un complemento oggetto): perché allora non è ambigua? In realtà, è ambigua,
esattamente come le precedenti. La differenza è che l'interpretazione basata sull'aggiun-
Marco Svolacchia
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to che ha portata sul predicato è pragmaticamente strana, perché è difficile, sebbene non
impossibile, dare dell'aggiunto un'interpretazione strumentale: 'Gianni lesse un libro con
indosso una copertina blu'. All'inverso, a una frase come 'Gianni lesse un libro con
grande piacere' è essenzialmente impossibile assegnare l'interpretazione in cui l'aggiun-
to, 'con grande piacere', abbia portata sull'oggetto (cioè 'un libro del tipo grande piace-
re'); pertanto, l'interpretazione risulta strumentale.
Come si vede, l'interpretazione di una frase è anche guidata da considerazioni
pragmatico-inferenziali, che fanno sì che un'interpretazione sintatticamente possibile
venga scartata (o sfavorita) sulla base delle nostre conoscenze del mondo e dei meccani-
smi inferenziali che a esse si applicano per interpretare l'implicito.
Analoghe considerazioni valgono per qualsiasi struttura in cui ricorrono almeno
due costituenti su cui un aggiunto possa avere portata. Ad esempio, un sintagma nomi-
nale come '(un) libro di favole di Grimm' è interpretato secondo la seguente struttura,
(a), in base al fatto che il lettore/ascoltatore sa che Grimm è un autore di fiabe (non il
proprietario o l'autore del libro):
a. SN
SN SP
P SN
SN SP
libro di favole di Grimm
b. SN
SN SP
libro di favole di Pierino
Viceversa, un sintagma come '(un) libro di favole di Pierino' viene normalmente inter-
pretato come sopra, (b), in cui Pierino è il proprietario del libro, non l'autore.
L'ambiguità di portata degli aggiunti non si limita ai casi presi in esame, in cui i
costituenti su cui si può estendere la portata sono un complemento o l'intero predicato
(cioè il sintagma verbale). Un'altra classe molto comune di frasi strutturalmente ambi-
gue è quella che contiene una coordinazione, come nel sintagma 'una ragazza e una si-
gnora col cappellino', che può corrispondere alle seguenti due strutture:
a. una ragazza e [SN
[SN
una signora] col cappellino]
b. [SN
[SN
una ragazza e una signora] col cappellino]
La conclusione di questa lunga discussione è che la sintassi ha in effetti molto a che ve-
dere col significato, non nel senso che dipende dal significato delle parole (si possono
produrre frasi senza senso ma perfettamente grammaticali, e viceversa), ma nel senso
che essa regola l'interpretazione semantica della frase, unendo significati semplici (le
parole e i morfemi grammaticali) per creare significati complessi (le frasi). In sintesi, la
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sintassi consiste nei principi con cui le parole si combinano e compongono il significa-
to.
Resta da spiegare da dove origini l'ambiguità di portata e perché la grammatica
tradizionale è incapace di renderne conto, in altre parole perché è solo debolmente rela-
zionale.
4. Architettura della frase
Per rispondere alla prima domanda è necessario prendere in considerazione l'architettura
generale della frase e i meccanismi che ne sono alla base. Si prenda una frase complessa
come ‘Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua’ e si consideri come viene analizza-
ta dalla grammatica scolastica. La prima osservazione è che si tratta di un sistema tripar-
tito. Si comincia con l'analisi grammaticale (la tecnica rappresentazionale scelta per ra-
gioni di chiarezza, una tabella, sebbene non sia tradizionalmente utilizzata nella gram-
matica scolastica, è concettualmente equivalente a quelle più informali in uso nella pra-
tica scolastica; le righe inferiori sono relative alla sottocategorizzazione degli elementi):
Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua AGG. NOME VERBO CONG. NOME VERBO PREP. NOME AGG.
POSS. sing. masc.
sing. masc.
TRANS. 3p.s. pres. ind.
PROPRIO sing. fem.
INTRANS. movimento
COMUNE sing. fem.
POSS. sing. fem.
Poi è la volta dell'analisi logica:
Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua VERBO COMPLEMENTO
MOTO A LUOGO
? SOGG. PREDICATO VERBALE
ATTRIBUTO DEL SOGG. SOGGETTO VERBO COMPLEMENTO
SOGGETTO PREDICATO VERBALE
Infine, dell'analisi del periodo:
Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua FRASE PRINCIPALE (INDIPENDENTE) FRASE SECONDARIA (DIPENDENTE)
DICHIARATIVA
AFFERMATIVA
DICHIARATIVA
AFFERMATIVA
OGGETTIVA
Perché tre livelli? Per quanto possa sembrare sorprendente se si considera la questione
senza pregiudizi, nell'insegnamento scolastico questo non viene spiegato. Quello che si
intuisce è che l'analisi grammaticale analizza singole parole (assegnando ciascuna di es-
se a una specifica classe sintattica, dotata di proprietà che sono alla base delle proprie
possibilità combinatorie), l'analisi logica analizza gruppi di parole (che gravitano intor-
no a una parola principale), l'analisi del periodo analizza frasi ('proposizioni'). Tuttavia,
sebbene questo non corrisponda alla pratica tradizionale (fatto che parla da sé), nulla
vieta di accorpare le tre analisi in un'analisi globale, in cui ciascun 'periodo' viene ana-
lizzato a partire dagli elementi maggiori fino a quelli minimi (o viceversa), come la ta-
bella seguente mostra:
Marco Svolacchia
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Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua AGG. NOME VERBO CONG. NOME VERBO PREP. NOME AGG.
“VERBO” COMPLEMENTO
? SOGG. PREDICATO (VERBALE)
ATTRIBUTO SOGGETTO “VERBO” COMPLEMENTO
“SOGGETTO” PREDICATO (VERBALE)
FRASE PRINCIPALE (INDIP.) FRASE SECONDARIA (DIP.)
Da questo punto di vista, la grammatica tradizionale potrebbe essere equivalente alla
teoria sintattica contemporanea, come la rappresentazione seguente mostra (la natura
dell'elemento contrassegnato da '?', la cui spiegazione richiederebbe troppo spazio, non
verrà qui considerato perché irrilevante):
F
SN SV
Det N V ?
? F
SN SV
V SP
P SN
N Det
Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua
Non c'è alcuna ragione per partizionare la costruzione della frase in tre fasi diverse. Una
frase come 'Un poliziotto catturò un ladro davanti a casa mia.' può essere uniformemen-
te scomposta in unità vieppiù piccole (l'elemento che viene ulteriormente analizzato è
quello a destra; S = sintagma; P = parola), come segue:
a. [S un poliziotto] [S catturò un ladro davanti a casa mia]
b. [S catturò un ladro] [S davanti a casa mia]
c. [P davanti] [S a casa mia]
d. [P a] [S casa mia]
e. [P casa] [P mia]
Come si vede, le frasi sono formate da sintagmi e i sintagmi sono formati da parole.
Tuttavia, non c'è nessuna barriera tra gli elementi, qualunque sia il loro rango. C'è un'al-
tra ragione più profonda, oltre che la semplicità formale, per rifiutare la tripartizione
della grammatica tradizionale. In realtà le due rappresentazioni – quella della tabella e
quella a diagramma ad albero – sono molto diverse: mentre l'analisi tradizionale è li-
neare – gli elementi (parole, sintagmi, proposizioni) si succedono semplicemente l'uno
con l'altro – la rappresentazione di cui sopra è invece gerarchica e ricorsiva. È gerar-
chica perché molti elementi non seguono gli altri, ma sono contenuti negli altri. Il ter-
mine che si usa è incassati (da 'cassa', cioè inscatolati). In effetti, la sintassi delle lingue
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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umane funziona un po' come le scatole cinesi, in cui ogni scatola è contenuta da un'altra.
Pertanto, se è vero che, in ultima analisi, le frasi sono fatte di sintagmi e i sintagmi di
parole, non è vero che le frasi vengono costruite prima unendo le parole in sintagmi, poi
i sintagmi in proposizioni, infine le proposizioni in "periodi". Invece, parole, sintagmi e
frasi ('proposizioni', se si preferisce) si succedono senza soluzione di continuità: nell'e-
sempio di cui sopra, il SV è formato da una parola, il verbo, più una frase intera (che ha
la stessa struttura di quella principale), non una parola. Questo è proprio una manifesta-
zione della ricorsività di incassamento (senza il quale sarebbe possibile solo una ricor-
sività banale, di coordinazione: p.e., 'Maria è simpatica e intelligente e vivace e…').
Per amore di chiarezza, si riconsideri l'esempio già visto di frase complessa. Se-
condo la grammatica tradizionale verrebbe analizzata come segue, in cui i numeri
esprimono la successione delle due proposizioni:
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Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua
FRASE PRINCIPALE FRASE SECONDARIA
Nella sintassi contemporanea la stessa verrebbe analizzata come segue:
[F [SN Mio fratello] [SV vuole [F che Maria vada a casa sua]]]
Si considerino anche le rappresentazioni seguenti (con parentesi la prima, con un dia-
gramma ad albero la seconda), in cui è stata resa più perspicua la struttura incassata del-
la frase per finalità didattiche (per semplicità, ci siamo limitati ad evidenziare gli ele-
menti più interessanti):
F [SN Mio fratello] SV vuole F che Maria vada a casa sua
F
SN SV
Det N V ?
? F
SN SV
V SP
P SN
N Det
Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua
Come si vede, non esiste una proposizione 'Mio fratello vuole'; la frase principale è l'in-
tera frase 'Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua’, all'interno della quale è incas-
sata la frase subordinata 'che Maria vada a casa sua’. In altre parole, nell'analisi tradi-
Marco Svolacchia
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zionale la nozione di proposizione principale è sinonima di proposizione indipendente.
Si tratta di un errore grossolano: è facile dimostrare che una proposizione principale non
è necessariamente indipendente. Proprio la frase sopra ne fornisce un esempio: 'Mio fra-
tello vuole' non è affatto indipendente. La ragione è semplicemente che non è una "pro-
posizione", cioè una frase; infatti, è evidente che è incompleta; la frase secondaria non
segue la frase principale: è inscatolata ('incassata') nella stessa (o, meglio, è incassata
nel predicato, il SV, della frase principale, il quale a sua volta è incassato nella frase
principale). Viceversa, nella frase 'Luca mangia mentre guarda la TV', la frase principa-
le, 'Luca mangia', è indipendente, perché completa (la ragione di questo contrasto, il
senso di 'frase completa', diventerà chiaro più avanti): [F [F Luca mangia] mentre guarda
la TV].
L'incassamento degli elementi gli uni negli altri non è una proprietà specifica
delle frasi, ma di qualsiasi costituente. Si ricordi il caso degli 'aggiunti', che espandono
un elemento della frase:
F
SN SV
V SN
SN SP
Gianni lesse un libro con la copertina blu
Come si vede, la "scatola" dell'aggiunto 'con la copertina blu' si aggiunge a quella del
complemento, venendo a formare una scatola più grande, quella del complemento
espanso (un 'libro con la copertina blu' è un'espansione di un 'libro'; al tempo stesso, è
più restrittivo: la frase è vera se e solo se il libro che Gianni lesse aveva la copertina blu,
non semplicemente se fosse un libro).
Resta da spiegare perché l'incassamento è una configurazione così tipica della
sintassi delle lingue umane. La risposta è che esso deriva dal meccanismo combinatorio
fondamentale della sintassi, che consiste nell'unire due elementi alla volta ricorsiva-
mente. La prima proprietà prevede solo combinazioni binarie: sono escluse combina-
zioni di più di due elementi. Ad esempio, un'espressione come 'tornare a casa subito' si
ottiene nel modo seguente:
1A COMBINAZIONE
aP + casaN → [a casa]SP;
SP
P N
a casa
2A COMBINAZIONE
tornareV + [a casa]SP → [tornare [a casa]SP ]SV;
SV
V SP
tornare a casa
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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3A COMBINAZIONE
[tornare [a casa]SP ]SV + subitoAVV
→ [tornare [a casa]SP ]SV subito]SV
SV
SV Avv
V SP
tornare a casa subito
Non si ottiene, invece, nel modo seguente:
tornareV + aP + casaN + subitoAVV
→ * [tornare a casa subito]SV
La proprietà della ricorsività prevede che alcuni meccanismi possano essere ripetuti
senza limiti (l'espressione sopra ne fornisce un esempio). La ricorsività, si ricordi, è la
proprietà che permette al linguaggio umano di essere un sistema illimitatamente aperto;
in particolare, permette di creare frasi infinitamente lunghe e, di conseguenza, frasi in
numero illimitato.
Va sottolineato che il meccanismo di combinazione non opera ciecamente, cioè
non unisce qualsiasi elemento; piuttosto, unisce un elemento a un altro che ne soddisfi i
requisiti (nel lessico degli addetti ai lavori si parla di 'tratti'). Descrivere questo aspetto,
che può essere molto complesso a seconda dei casi, esula dagli scopi di questa trattazio-
ne; ci limiteremo a darne alcune indicazioni a titolo di chiarimento: un verbo, a seconda
delle sue proprietà (essere plurivalente; per cui v. più avanti) può unirsi a un comple-
mento (p.e. 'bere del vino', ma non *'sciare una discesa'), che può essere un sintagma
nominale (se transitivo; p.e., 'mangiare del pane', ma non *'andare del pane') o con un
sintagma preposizionale (se intransitivo; p.e. 'andare a casa', ma non *'chiamare a Lu-
ca'); un aggettivo si unirà a un sintagma nominale se ne condividerà numero e genere
(p.e., 'una gara dura', ma non *'una gara duri'), e così via, a seconda della categoria di
ciascuna parola e del lessico grammaticale di ciascuna lingua (p.e. il latino e il greco
classico avevano tre generi, incluso il neutro; il greco classico tre numeri, incluso il
duale; il cinese moderno ha invece un lessico grammaticale molto ridotto; altre lingue
presentano un lessico grammaticale molto complesso e comunque sensibilmente diverso
da quello di altre lingue; le lingue del mondo non differiscono sensibilmente solo per i
suoni che utilizzano distintivamente e per come li combinano, e per le parole che for-
mano il lessico, ma anche per il lessico grammaticale che utilizzano).
Va detto che la grammatica tradizionale, almeno da Aristotele, ha tenuto conto e
studiato analiticamente alcuni di questi tratti, le proprietà morfologiche delle 'parti del
discorso', ma ha trascurato altre proprietà fondamentali per la costruzione delle frasi.
Uno di questi è il concetto di 'testa', la nozione che, di ciascuna combinazione, un ele-
mento è dominante, cioè quello che determina con quale elemento può combinarsi e le
caratteristiche del sintagma risultante. Nell'esempio sopra, 'tornare a casa subito', il sin-
tagma che risulta è verbale, perché funziona come un verbo, non come una preposizione
o un avverbio, conseguenza del fatto che la testa del sintagma è un verbo. Ad esempio,
nella frase seguente 'un poliziotto' è un sintagma che può essere sostituito da un nome
semplice, 'Gianni'; quindi si tratta di un SN:
Marco Svolacchia
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a. [un poliziotto]S [catturò un ladro dentro casa]
b. [Gianni]N [catturò un ladro dentro casa]
c. [un poliziotto]SN
A sua volta, il sintagma 'catturò un ladro dentro casa' è verbale perché può essere sosti-
tuito da un semplice verbo, 'sparò':
a. [un poliziotto] [catturò un ladro dentro casa]S
b. [un poliziotto] [sparò]V
c. [catturò un ladro dentro casa]SV
Ancora, procedendo nella scomposizione, il sintagma 'dentro casa' è preposizionale per-
ché può essere sostituito da una semplice preposizione, 'dentro' (nella grammatica scola-
stica 'dentro' sarebbe considerato preposizione in 'dentro casa' e avverbio quando è solo,
ma si tratta di una distinzione artificiosa, come, ad esempio, quella tra aggettivi e pro-
nomi dimostrativi):
a. [catturò un ladro] [dentro casa]S
b. [catturò un ladro] [dentro]P
c. [dentro casa]SP
Pertanto, 'catturò' è la testa del sintagma 'catturò un ladro dentro casa' e 'dentro' è la testa
del sintagma 'dentro casa'. A loro volta, 'un ladro dentro casa' è il complemento di 'cattu-
rò' e 'casa' è il complemento di 'dentro':
a. [TESTA catturò] [COMPL un ladro dentro casa]
b. [TESTA dentro] [COMPL casa]
In conclusione, la testa è la parola fondamentale di un sintagma; un sintagma è la
proiezione (cioè l'espansione) di una testa; il complemento è l’espansione primaria di
una testa.
Appurato che la grammatica tradizionale è solo in parte relazionale, qual è la
ragione della sua natura ibrida? In altre parole, perché esiste un'analisi logica – che si
occupa di cogliere le relazioni tra gli elementi, accanto all'analisi grammaticale, che si
interessa solo delle proprietà dei singoli elementi – ma imperfetta? È il risultato contin-
gente di un difetto di analisi o è invece la logica conseguenza dall'approccio scelto? La
risposta sembra essere sostanzialmente la seconda: la natura dell'analisi logica tradizio-
nale dipende fondamentalmente dallo scopo che si prefiggeva, essere propedeutica allo
studio del latino, in particolare alla traduzione in latino. La ragione è che il latino, come
il greco, è una lingua che ha marche di caso sul nome (non solo sui pronomi, come l'ita-
liano), per assegnare correttamente le quali è richiesta l'individuazione della funzione
del nome nella frase. Ad esempio, una frase come 'Il marinaio ama la figlia del contadi-
no' suonerebbe in latino come in (1) sotto (nauta = 'marinaio'; agricola = 'contadino');
mentre una frase come ‘La figlia del contadino ama il marinaio’ suonerebbe come in
(2):
1. Naut-a fili-am agricol-ae amat
NOM. ACC. GEN.
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2. Fili-a agricol-ae naut-am amat
NOM. GEN. ACC.
La marca di caso ('desinenza') non è una proprietà intrinseca di una specifica parola
(come la sua pronuncia o il suo significato), ma viene assegnata al nome in base alla sua
funzione nella frase, cioè in base all'elemento da cui dipende. Perciò, l'analisi grammati-
cale, che analizza le singole parole in base alle proprietà morfosintattiche, è insufficien-
te per la traduzione in latino. Questo spiega perché una notevole parte dell'analisi logica
è devoluta all'analisi dei complementi (per cui v. più avanti).
C'è anche un altro elemento che prende le marche di caso, l'aggettivo, come
mostra l'esempio seguente (magnus = 'grande'; pulchra = 'bella'):
naut-a magn-us puell-am pulchr-am amat
NOM. NOM. ACC. ACC.
'Il grande marinaio ama la bella ragazza'
Come si vede, l'aggettivo riceve la marca di caso dal nome su cui ha portata (cioè la te-
sta del SN); quindi è necessario analizzare la sua funzione nella frase. Lo stesso si veri-
fica quando l'aggettivo è usato in funzione predicativa; ad esempio, nella frase puell-a
est pulchr-a 'La ragazza è bella', l'aggettivo, pulchra, ha il caso nominativo femminile
singolare, come il nome che modifica.
Un'altra categoria per cui si rende necessaria un'analisi relazionale per l'assegna-
zione della marca di caso è l'apposizione, che prende la stessa marca del nome che mo-
difica, come l'esempio seguente illustra (puella = 'ragazza'):
naut-a puell-ae, fili-ae agricol-ae, ros-am dat
NOM. DAT. DAT. GEN. ACC.
'Il marinaio dà una rosa alla ragazza, la figlia del contadino'
L'apposizione 'filiae (agricolae)' ha la marca del dativo perché modifica il nome 'puel-
lae', che ha la marca del dativo, assegnata dal verbo do 'dare'.
Non sorprende quindi che complementi, aggettivi e apposizioni siano gli ele-
menti di cui l'analisi logica indica sistematicamente la relazione con la frase. Perché nel-
la stessa non viene indicata la relazione di un aggiunto o di un avverbio con l'elemento
della frase da cui dipendono, come abbiamo già visto? La risposta è che in questi casi
non si pone un problema di marca di caso. Gli avverbi sono una categoria lessicale inva-
riabile, in italiano come in latino; pertanto non prendono marche di caso. Per gli aggiun-
ti il discorso è diverso: i nomi prendono sempre una marca di caso, qualunque sia il loro
ruolo nella frase. Tuttavia, il caso viene assegnato a un aggiunto in base alla semantica
del caso stesso o in base alla preposizione che lo regge (o entrambi), non in base alla te-
sta nominale da cui dipende. Si osservi per il primo caso l'esempio seguente:
anim-o vir-um pudic-ae, non ocul-o, eligunt
ragione-ABL. uomo-ACC. virtuosee-NOM. non occhio-ABL. scelgono
'Le donne virtuose scelgono il marito con la ragione, non con l'occhio'
Gli aggiunti animo e oculo hanno qui portata sul predicato (SV) eligunt virum ('con la
ragione' è relativo a 'scegliere un marito'), non sul nome virum 'marito'. Tuttavia, se gli
Marco Svolacchia
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aggiunti avessero portata sul nome ('un marito di intelletto/di occhio') avrebbero la stes-
sa marca di caso. L'esempio seguente illustra il secondo caso:
agricol-a dom-um sine fili-is redit
contadino-NOM. casa-ACC. senza figlie-ABL. tornò
'Il contadino tornò a casa senza figlie/tornò alla casa senza figlie'
Quale sia la portata dell'aggiunto sine filiis 'senza figlie', o sul predicato redit domum
'tornò a casa' o sul nome domum '(a) casa', prenderà l'ablativo, che è assegnato dalla
preposizione sine 'senza'.
La conclusione che si deve trarre da queste osservazioni è che molti limiti dell'a-
nalisi logica, in particolare la sua natura debolmente relazionale, derivano dagli scopi
per cui è stata concepita: l'apprendimento del latino, con particolare riferimento alla tra-
duzione in latino. Va da sé che gli scopi contemporanei per cui si insegna e si studia la
grammatica sono molto diversi: se l'insegnamento grammaticale fosse solo propedeutico
al latino, non ci sarebbe ragione di insegnarla in modo così precoce e generalizzato. In
realtà gli obiettivi attuali dovrebbero essere molto più ambiziosi: l'insegnamento della
grammatica è solo un aspetto, per quanto importante, delle conoscenze metalinguistiche,
che sono un requisito fondamentale per accedere ai livelli "alti" degli usi linguistici,
cioè quei settori dell'uso del linguaggio che richiedono qualche grado di consapevolez-
za, in primis la lingua scritta, che è un tipo di lingua molto poco spontaneo, sia per
quanto riguarda l'apprendimento di un sistema di scrittura sia per quanto riguarda l'ap-
prendimento della comunicazione scritta. Si pensi solo all'abilità del punteggiare, che
richiede, prima di tutto, sofisticate capacità metasintattiche.
5. Teoria dei complementi
Un altro settore della grammatica scolastica che deriva dall'insegnamento del latino è la
famosa (famigerata, per molti) 'teoria dei complementi', tanto dispendiosa quanto so-
stanzialmente inutile, e che è probabilmente la causa prima dello scarso richiamo che la
riflessione grammaticale esercita su scolari e studenti. Il suo scopo, evidentemente, con-
siste nel mettere in grado di tradurre dal latino e, ancor più, in latino. A parte le conside-
razioni già fatte su questo e la constatazione che il latino non è la lingua, ma solo una
lingua (le lingue del mondo possono differire sensibilmente nel modo in cui codificano
le funzioni sintattiche), è facile rendersi conto che la teoria dei complementi ha tradito
in buona misura anche lo scopo prefisso. Paradossalmente, nonostante l'importanza che
le viene attribuita dalla scuola e nonostante l'atteggiamento dogmatico presente in que-
sto settore, è un fatto che non regna un accordo apprezzabile riguardo a quanti e quali
siano i complementi, a parte una base comune costituita dall'oggetto diretto e indiretto
('termine'), agente, specificazione, causa, luogo (stato, moto a/da/per) e pochi altri. In
effetti, non esiste una codificazione universalmente accettata: esistono pratiche abba-
stanza diverse, spesso inconsapevolmente tali, e qualche tentativo consapevole di codi-
ficare i complementi, vuoi in base ad autori presuntamente autorevoli, vuoi in base a in-
terventi personali.
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La classificazione seguente rappresenta uno dei sistemi proposti. La ragione per
cui è stata scelta non è perché sia migliore o peggiore di altre, o più autorevole, ma per-
ché è onestamente esplicita; quindi, esemplare delle caratteristiche di questa linea di
studio e insegnamento (già l'intestazione è interessante: 'Complementi indiretti: sono
quelli preceduti da una preposizione semplice o articolata; sono i più utilizzati. Ve ne
sono numerosi tipi; noi ne distinguiamo 47', che lascia intravedere il fatto che qualche
dubbio serpeggi anche tra chi l’insegna; tra l'altro, alcuni di questi complementi non so-
no introdotti da una preposizione: perché sarebbero indiretti?). Per brevità, la classifica-
zione non è riportata in forma completa, ma con un estratto molto rappresentativo (sono
stati omessi i complementi e gli esempi più ovvi):
'Complementi indiretti' (Scuola Elettrica – Classe 1a media)
ABBONDANZA Lo scaffale è pieno di libri
ARGOMENTO
Questa è una riunione per gli alunni
Noi parliamo sopra le squadre di calcio
Questo libro è inerente il maschilismo
CAUSA Io sono stufo delle tue parole
Luigi parte al tuo ordine
CAUSA EFFICIENTE Fui colpito da una pietra
CLASSIFICAZIONE Il Bari è arrivato ultimo in classifica
COLPA Fu accusato di omicidio
DIFFERENZA Sei più alto di 10 centimetri
DISTANZA Il mare dista tre chilometri da casa mia
DISTRIBUZIONE Io prendo un tè ogni 24 ore
ESCLAMAZIONE Che bel fiore!
ESTENSIONE La strada è larga 6 metri
ETÀ Un bambino di 6 anni va alla scuola elementare
MEZZO
Riempirono la bottiglia di acqua
Questa è una lampada ad incandescenza
La barca fu trasportata a riva dal mare
MOTO A LUOGO Io vado a Napoli
MOTO DA LUOGO Pietro è venuto da Lecce
MOTO PER LUOGO Il tram passa dal centro della città
ORIGINE Questo vaso proviene da Grottaglie
PARAGONE MAGG. L'aereo è più veloce del treno
MINOR. Antonio è più piccolo di Luigi
UGUAL. Sei bella come una rosa
PENA Giovanni è stato multato di 300 Euro
PREZZO La mamma ha comprato la zucchina a due Euro
PRIVAZIONE Antonio è privo di soldi
QUALITÀ Katia è una donna di bella presenza
RELAZIONE Tra di noi andiamo d'accordo
SCAMBIO Katia confonde l'oro bianco con l'argento
SEPARAZIONE La spiaggia separa la casa dal mare
STATO IN LUOGO Io vivo a Taranto
STIMA Questo anello vale mille Euro
SVANTAGGIO Questa è una pillola per la malattia
Marco Svolacchia
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TEMPO CONTINUATO Io andrò da Katia in 15 minuti
TEMPO DETERMINATO D'inverno fa freddo
TENDENZA Katia è propensa ai carabinieri
Luigi ha l'attitudine per la pittura
UNIONE Oggi esco con il maglione fucsia
In questa codificazione si nota che non vengono esplicitati, conformemente all'uso ge-
nerale, i criteri su cui è basata. Con tutta probabilità, questo è dovuto a un atteggiamento
fideistico rispetto alla tradizione, che viene considerata una sorta di dottrina ricevuta,
che non può essere messa in discussione, a parte forse che per qualche aspetto margina-
le. Il problema è che non c'è neanche modo di esplicitare i criteri, perché la pratica si
basa più su una tradizione di insegnamento, nemmeno del tutto uniforme, che su una
teoria degna di questo nome. È vero che alla base c'è lo scopo di fornire una giustifica-
zione dell'uso dei casi in latino; in altre parole, l'analisi logica è ancillare nei confronti
del latino, in particolare di quel settore chiamato 'sintassi dei casi', che indaga l'uso dei
casi in latino. Tuttavia, il procedimento è dubbio. Si prenda il caso ablativo, il più eclet-
tico dei casi latini: a quanti significati diversi corrisponde? Per rispondere a questa do-
manda sarebbe necessario disporre di una griglia semantica di riferimento. In mancanza
di criteri espliciti, la codificazione dei complementi è stata basata su pratiche intuitive e
criteri contrastivi: venivano notati gli usi dei casi che si allontanano da quelli basilari o
che risultano controintuitivi per parlanti della lingua di contrasto. Il problema è che le
lingue non codificano in modo uniforme i ruoli che i sintagmi nominali assumono nella
frase. Il risultato, quindi, è quel coacervo di categorizzazioni ragionevoli e irragionevoli
che conosciamo. In particolare, fino a quale punto si deve spingere la sotto-
categorizzazione dei complementi? Il problema diventa analogo a quello della polise-
mia: quanti sono i sensi diversi di una parola? In assenza di espliciti criteri reali, le pos-
sibilità sono virtualmente infinite: è sempre possibile cavillare su una pur minima diffe-
renza di uso di una parola, arrivando a conclusioni arbitrarie.
La tabella sopra esemplifica con molta evidenza questi problemi. Ad esempio,
perché esiste un c. di qualità, ma non uno di quantità (al posto del quale troviamo un c.
di differenza, distanza, estensione, età, misura e, in parte, pena, prezzo, stima)? In altre
parole, perché si è scelto di fermarsi a un livello generico per la qualità e di sotto-
categorizzare la quantità? Che cosa impedisce di sotto-categorizzare ulteriormente il c.
di misura in misura liquida, solida, ecc.? Un ulteriore problema di questa pratica è che
porta ad applicazioni arbitrarie; si confronti, p.e., 'Katia ha comprato un telefonino per
100 Euro' (c. di prezzo) con 'Questo anello vale mille Euro' (c. di stima): è evidente che la
scelta della categorizzazione dipende dal verbo della frase. Si prenda, però, una frase
come ''Questo anello costa mille Euro': a quale complemento verrebbe assegnato il sin-
tagma evidenziato? E una frase come 'Ho venduto questo anello a mille Euro'? Ancora,
in 'Lo scaffale è pieno di libri' il sintagma evidenziato è categorizzato come c. di abbon-
danza; come sarebbe allora categorizzato il sintagma evidenziato in una frase come ''Lo
scaffale è spoglio di libri'? Complemento di 'scarsezza'? Un altro esempio tra i mille pos-
sibili: si prenda una frase come 'Roma si trova tra Firenze e Napoli'; come sarà catego-
rizzato l'elemento sottolineato? Si immagina come c. di stato in luogo. Perché non piut-
tosto c. di "stato tra luoghi" (accanto a stato in/moto a/moto da/moto per luogo)? Si no-
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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tano anche delle autentiche bizzarrie: il c. di 'tendenza' (si noti anche l'artificiosità di al-
cuni esempi), il c. di 'unione', il c. di 'classificazione' (si tratta di un aggettivo), il c. di
'esclamazione' (si tratta di frasi esclamative, non di sintagmi). Ancora, si nota che la ca-
tegorizzazione di alcuni complementi duplica il senso del verbo reggente (c. di 'distan-
za': in 'Il mare dista tre chilometri da casa mia' è il verbo distare che veicola questo senso,
non il complemento; c. di 'origine': in 'Questo vaso proviene da Grottaglie' il senso di ori-
gine è veicolato dal verbo provenire, usato in senso metaforico, non dal complemento;
c. di 'privazione': in 'Antonio è privo di soldi' è l'aggettivo 'privo' che veicola questo senso;
lo stesso vale per il c. di 'separazione', ecc.). Le osservazioni si possono moltiplicare
quasi ad libitum: lasciamo il compito al lettore di continuare.
6. Il verbo e i suoi argomenti
Whenever the literary German dives into a sentence, that is the last you are go-
ing to see of him till he emerges on the other side of the Atlantic with his Verb
in his mouth.
Mark Twain, A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court, 1889
Paradossalmente, a fronte della tendenza a sottilizzare su questo o quel complemento, la
grammatica scolastica non distingue tra i veri complementi (elementi retti dal verbo) e
gli aggiunti (che modificano un elemento della frase).
Quanti e quali complementi ci siano in una frase dipende dal verbo. Nella teoria
grammaticale tradizionale i verbi vengono distinti, ancora una volta, in relazione al ca-
so: transitivi e intransitivi. Questa distinzione si è dimostrata valida, sebbene quella de-
gli intransitivi sia una categoria spuria: è composta di due classi diverse, con proprietà
molto diverse, che condividono solo una proprietà negativa: quella di non reggere diret-
tamente un sintagma nominale; in effetti, una denominazione più corretta sarebbe 'non
transitivi'. Tuttavia, non tratteremo per ora questo aspetto.
Quello che qui è rilevante è che la distinzione tra transitivi e intransitivi è insuffi-
ciente a render conto di alcune proprietà fondamentali del verbo e, di conseguenza, della
struttura della frase. Si osservi la tabella seguente (dove X, Y e Z sono variabili distin-
te):
INTRANSITIVI TRANSITIVI
1 dormire: X dorme dirsi: si dice X
2 andare: X va a/da Y aggiustare: X aggiusta Y
3 dare: X dà Y a Z
Un verbo intransitivo come dormire condivide con un verbo transitivo come dirsi (im-
personale: 'si dice che') la proprietà di richiedere un solo partecipante all'azione; ugual-
mente, l'intransitivo andare richiede ('seleziona') due partecipanti all'azione, come il
transitivo aggiustare; dare, infine, è un verbo transitivo che seleziona tre partecipanti, a
differenza degli altri due transitivi considerati. Così, ogni verbo (in realtà, anche alcuni
aggettivi e nomi) si contraddistingue per il numero di 'argomenti' (questo è il termine
correntemente utilizzato) che seleziona. Questa proprietà è chiamata valenza; a seconda
Marco Svolacchia
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della valenza i verbi vengono distinti come segue (si noti la presenza dei verbi avalenti,
cioè che non selezionano alcun argomento; si tratta di verbi che denotano fenomeni at-
mosferici):
avalenti piovere, tirare vento, far freddo
monovalenti dormire, starnutire, sciogliersi
bivalenti aggiustare, mangiare, andare
trivalenti dare, consegnare, dire
Una denominazione equivalente è 'zero/mono/bi/tri-argomentali'. Il termine valenza è
stato preso in prestito dalla chimica, per sottolineare il fatto che si tratta di una proprietà
intrinseca non derivabile da altre e che richiede di essere saturata per essere soddisfatta.
Questa è la ragione dell'agrammaticalità di alcune frasi già viste all'inizio di questa trat-
tazione, ripetute di seguito per comodità. La frase in (a) seguente è agrammaticale per-
ché difetta di un argomento, essendo catturare bivalente ('X cattura Y'); viceversa, la
frase in (b) è agrammaticale perché contiene un argomento non selezionato dal verbo
camminare, monovalente ('X cammina'):
a. *Un poliziotto catturò __
b. *Gianni cammina la strada
Per quanto semplice, la teoria della valenza rende conto di molte proprietà rilevanti del-
la sintassi. Un esempio è offerto dalla differenza tra principali dipendenti e indipenden-
ti, già trattata. Quando una proposizione principale (per così dire) è indipendente? La
risposta si basa sulla valenza: se la proposizione secondaria non è un argomento del
verbo della principale allora questa sarà indipendente (a); viceversa, se la secondaria è
un argomento del verbo della principale, allora questa sarà dipendente (b):
a. Ho ascoltato un disco mentre tu stavi via
INDIPENDENTE SECONDARIA = AGGIUNTO
b. Carlo vuole che tu vada a casa
DIPENDENTE SECONDARIA = COMPLEMENTO
In altre parole, in (a) la secondaria è un aggiunto, un elemento opzionale che modifica
un elemento della frase (nel caso specifico modifica il predicato, cioè il SV, 'ascoltato
un disco'); in (b) è una frase completiva (cioè una frase complemento), che è parte inte-
grante della principale in quanto suo argomento. Questo spiega perché, mentre si può
dire 'Ho ascoltato un disco', non si può dire *'Carlo vuole'.
La differenza tra argomenti e aggiunti è alla base di altri fenomeni altrimenti in-
spiegabili. Si osservino le due frasi seguenti, solo la prima delle quali è grammaticale; la
seconda è anche impossibile da interpretare (a differenza della stessa con l'elemento in-
terrogativo che segue il verbo che lo regge: 'Hai tossito [appena hanno chiamato chi]?').
Tuttavia, esse sembrano sintatticamente uguali (la lacuna indica la posizione con cui l'e-
lemento interrogativo, chi, va logicamente messo in relazione per essere interpretato,
cioè la posizione di complemento del verbo 'chiamare', nella frase secondaria):
a. Chi hai detto [che hanno chiamato __]?
b. *Chi hai tossito [appena hanno chiamato __]?
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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In che cosa consiste la differenza tra (a) e (b)? La risposta è che la secondaria in (a) è
argomentale (è il secondo argomento di dire), mentre la secondaria di (b) è un aggiunto
(la valenza di tossire è saturata dal pronome sottinteso di 2a persona singolare).
È paradossale il fatto che la grammatica scolastica – mentre richiede tante ener-
gie per classificare (in buona misura in modo arbitrario) la semantica dei sintagmi, e
senza che questo comporti conseguenze apprezzabili – ignora questa distinzione prima-
ria.
Un altro aspetto molto importante della teoria della valenza è la semantica degli
argomenti selezionati da un verbo, che non definisce solo il numero dei partecipanti
all'azione espressa, ma ne definisce anche il ruolo nella frase. Ad esempio, il verbo 'ag-
giustare' seleziona i seguenti argomenti, a cui conferisce i seguenti ruoli semantici:
aggiustare: X = AGENTE; Y = PAZIENTE
L'AGENTE è l'elemento che determina un cambiamento di stato in un altro elemento
(senza subirlo); il paziente (un termine di fatto equivalente è TEMA) è invece l'elemento
che subisce un mutamento di stato. Un verbo trivalente come dare seleziona un altro
ruolo semantico:
dare: X = AGENTE; Y = PAZIENTE; Z = TERMINE
TERMINE (traduce l'inglese goal) è l'elemento terminale dell'azione del verbo. Quanti e
quali sono i ruoli semantici definiti dalle lingue del mondo è ancora oggetto di discus-
sione, e non approfondiremo questo argomento.
Un altro aspetto importante della sintassi delle lingue del mondo che è stretta-
mente collegato alla valenza è la diatesi, cioè la forma che un verbo può prendere in re-
lazione ai ruoli semantici. Si tratta quindi di una rimanipolazione della valenza di un
verbo. Si osservino gli esempi seguenti:
a. ATTIVO Il sole ha sciolto la neve
b. PASSIVO La neve è stata sciolta (dal sole)
c. MEDIO La neve si è sciolta (*ha sciolto se stessa)
d. RIFLESSIVO Il prigioniero si è sciolto (si = se stesso)
e. AUTOBENEFATTIVO Marta si è sciolta i capelli (si = per sé)
(a) è una frase attiva (transitiva), in cui c'è un agente in posizione di soggetto e un pa-
ziente in posizione di oggetto. (b) è una frase passiva, che ha lo stesso significato fattua-
le della prima; tuttavia, la prima differenza fondamentale è che l'agente (dal sole) è op-
zionale (come la notazione tra parentesi indica), a differenza dello stesso nella frase at-
tiva; la seconda è che nella posizione di soggetto della frase si trova il PAZIENTE, non
l'AGENTE (anche questo impossibile in una frase attiva). Questo significa che il passivo è
una diatesi che rende opzionale, quindi secondario, l'AGENTE (sebbene sia implicato) e
primario il PAZIENTE (cioè la predicazione verte sul paziente, non sull'agente). (c) è una
frase media, che nella grammatica tradizionale sarebbe considerata, erroneamente, ri-
flessiva: c'è un solo argomento, ovviamente in posizione di soggetto, che non è AGENTE
ma PAZIENTE. Infatti, è impossibile usare un vero pronome riflessivo, che può invece
comparire nelle vere frasi riflessive, come in (d), in cui soggetto e oggetto sono corefe-
renti (= si riferiscono alla stessa entità). Anche la costruzione in (e), autobenefattiva,
Marco Svolacchia
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viene confusa nella grammatica tradizionale con quella riflessiva; si noti, però, che Mar-
ta e capelli non sono coreferenti; piuttosto, questa diatesi riguarda l'entità in favo-
re/sfavore della quale avviene l'azione (cioè il soggetto è agente e termine dell'azione).
Come si vede, la semplice teoria dei ruoli semantici permette di distinguere tra frasi ri-
flessive, pseudoriflessive e autobenefattive, che hanno proprietà sintattiche diverse, ma
che nella grammatica tradizionale vengono confuse.
Ma qual è la differenza tra una frase passiva e una media, se entrambe hanno un
soggetto PAZIENTE? Nella grammatica greca questa diatesi è denominata medio-passiva,
intendendo che sarebbe intermedia tra quella attiva e quella passiva. Le cose stanno di-
versamente; come mostrano gli esempi seguenti, ciò che distingue la media dalla passi-
va è l'impossibilità di selezionare un agente (un verbo medio può solo avere una CAU-
SA):
a. La nave è affondata (a causa dei pirati)
ai. La nave è affondata (*dai pirati)
b. Molte case bruciarono (a causa dell'incendio)
bi. Molte case bruciarono (*dall'incendio)
Ma qual è la differenza tra i ruoli semantici di AGENTE e CAUSA? Si considerino le frasi
seguenti quasi equivalenti, una passiva in cui compare un AGENTE (a), e una media (ai),
in cui compare una CAUSA:
a. La nave è stata affondata dai pirati
ai La nave è affondata a causa dei pirati
Qual è la differenza semantica tra le due frasi? (a) è compatibile con uno scenario in cui
i pirati hanno direttamente e volontariamente affondato la nave (speronandola, canno-
neggiandola, incendiandola, facendola esplodere, ecc.); (ai) non è compatibile con nes-
suna di queste possibilità; può implicare, piuttosto, che la nave ha subito l'affondamento
per cause naturali sotto la minaccia dei pirati (p.e., per sfuggire ai pirati la nave è andata
contro gli scogli; oppure la nave è affondata in seguito a sabotaggio da parte dei pirati,
ecc.).
A conferma, si consideri la differenza semantica tra AGENTE e CAUSA in una fra-
se passiva, in cui entrambi possono comparire:
a. La nave è stata affondata a causa dei pirati
b. Molte case furono bruciate a causa dell'incendio
(a) significa che non sono stati i pirati ad affondare la nave, ma qualcun altro; i pirati
sono la causa di questa azione (p.e., la nave è stata affondata per non farla cadere nelle
mani dei pirati, o perché i pirati hanno pagato qualcuno per farlo, ecc.). (b) significa che
non è stato l'incendio a bruciare le case, ma qualcun altro, a causa dell'incendio (p.e.,
sono state bruciate dalle autorità per fare barriera all'avanzata dell'incendio).
Si potrebbe pensare che la teoria dei ruoli semantici sia equivalente a quella dei
complementi; in realtà, sono più le differenze che le analogie: innanzitutto, i ruoli se-
mantici riguardano, in primis, gli argomenti, mentre la teoria dei complementi riguarda
in primis gli aggiunti (i 'complementi indiretti', come recita il titolo della classificazione
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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presentata sopra); secondo, e più importante, le categorie proposte non si basano su spe-
culazioni filosofiche, o similia, riguardo a come funzionerebbe il mondo, alla verità ul-
tima delle cose, ecc., ma in base a osservazioni empiriche: sono le lingue umane che
evidenziano queste distinzioni. Detto in termini più reali, il compito della teoria dei ruo-
li semantici è di scoprire su quali categorie si basa l'interpretazione primaria delle frasi.
Si tratta quindi di descrivere una realtà mentale, non di prescrivere la verità riguardo a
entità ideali, una fondamentale differenza teorico-metodologica rispetto alla grammatica
tradizionale e quindi scolastica. Questo non significa che la teoria dei ruoli semantici sia
ancora del tutto soddisfacente; significa piuttosto che ogni avanzamento avverrà su base
empirica (osservazione dei fatti delle lingue o di qualunque altro dato di natura cogniti-
va), non sulla base di presunte autorità o di speculazioni.
Un'altra differenza è che queste categorie non forniscono una tassonomia fine a
se stessa, come nella grammatica tradizionale, ma permettono di descrivere semplice-
mente e di spiegare fenomeni che rimarrebbero altrimenti misteriosi, tipicamente trattati
nella grammatica tradizionale come "eccezionali", un modo infallibile per non avanzare
nelle conoscenze. Un esempio è dato dai verbi tradizionalmente denominati intransitivi,
a cui abbiamo già accennato, che mostrano (e non solo) un comportamento disomoge-
neo. Un fatto ben noto è la selezione dell'ausiliare: alcuni selezionano essere (come i
passivi), altri avere (come i transitivi), come gli esempi seguenti illustrano:
INTRANSITIVI-ESSERE INTRANSITIVI-AVERE
a. Noemi è andata al cinema ai. Sara ha corso per due ore
b. Noemi si è svegliata bi. Sara ha gridato contro un cane
c. Noemi è guarita ci. Sara ha telefonato a Marta
PASSIVI TRANSITIVI
d. Noemi è stata guarita di. Sara ha mangiato un panino
Nella grammatica italiana tradizionale si descrivono questi fatti asserendo che i verbi
intransitivi selezionano l'ausiliare avere ad eccezione dei verbi di movimento. Il pro-
blema è che molti intransitivi-essere non sono verbi di movimento (v. svegliarsi e gua-
rire tra gli esempi sopra); d'altra parte, diversi verbi di movimento selezionano avere,
non essere (p.e. correre, camminare, ecc.). La strategia tradizionale è di caratterizzare
ad oltranza la lista delle eccezioni, che finisce per diventare una lista della spesa (si ini-
zia con classi di verbi – come, appunto, 'verbi di movimento' – e si finisce con liste di
verbi singoli). È chiaro che questo approccio non ha alcun senso dal punto di vista
scientifico, perché non spiega nulla (perché quella classe/quel verbo in particolare?
Perché i verbi che fanno eccezione sono più numerosi di quelli presunti regolari?).
Probabilmente, non ne ha nemmeno dal punto di vista didattico (che è l'obiettivo prima-
rio di questo approccio), vista la complessità delle eccezioni che bisogna apprendere.
Inoltre, risulta empiricamente inadeguato, in quanto non può, per principio, render conto
dei verbi che hanno una doppia selezione, come, p.e., saltare: a. 'Daniele ha saltato sul
letto per un ora' vs. b. 'Daniele è saltato sul letto dalla sedia'.
Al contrario, la descrizione di questi fatti diventa molto semplice, e la spiegazio-
ne evidente, se si parte dalla teoria dei ruoli semantici: gli intransitivi che selezionano
un argomento PAZIENTE prendono l'ausiliare essere, mentre gli intransitivi che non sele-
zionano un argomento PAZIENTE prendono l'ausiliare avere. In tutti gli esempi nella co-
Marco Svolacchia
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lonna a sinistra sopra il soggetto è un PAZIENTE, cioè l'elemento che subisce un muta-
mento di stato, esattamente come il soggetto di un passivo (che anch'esso seleziona es-
sere). Nel caso di andare (e verbi simili) potrebbe sembrare controintuitivo che il sog-
getto, invece di essere un agente, sia un paziente. In realtà, non è un agente perché non
provoca un mutamento di stato in un altro elemento; piuttosto, subisce un mutamento di
stato: un soggetto che va in un posto muta necessariamente la sua condizione. Al contra-
rio, nessuno dei soggetti delle frasi nella colonna a destra è un paziente: 'gridare contro
un cane', p.e., non indica un cambiamento di stato.
Ma come spiega la teoria dei ruoli semantici il fenomeno dei verbi a doppia se-
lezione (p.e. saltare negli esempi precedenti)? La risposta, semplicemente, è che in (a)
la frase non implica un cambiamento di stato del soggetto, a differenza che in (b), in cui
il soggetto era sulla sedia e con un salto cambia di posizione.
Questo risultato illustra un altro aspetto della questione: una buona teoria produ-
ce risultati anche in ambiti per cui non è stata costruita, ciò che costituisce un buon indi-
zio della sua validità.
7. Il soggetto
Un altro settore che mostra chiaramente i limiti della grammatica scolastica è quello
delle categorie funzionali, quale, in primis, il soggetto. Tradizionalmente, il soggetto
viene identificato tramite categorie semantiche; quella standard è la seguente:
1. 'Il soggetto è l'elemento che compie l’azione'
È evidente che questa definizione non è difendibile, come mostrano le frasi seguenti:
a. Il cane è un animale fedele
b. Il film mi è piaciuto molto
c. Luca ha subito un duro colpo
d. Matteo è stato sgridato
e. Matteo è stato sgridato dalla madre
f. La nave è affondata
g. La nave è stata affondata
In (a) il soggetto, il cane, non può compiere nessuna azione, perché ricorre in una frase
senza verbo ('essere un animale fedele' è un'azione?); in (b) il soggetto, il film, non è un
elemento passibile di azione; semmai, il soggetto attivo è colui che sperimenta lo stato
psichico descritto dal verbo 'piacere', cioè mi, che non è evidentemente un soggetto, ma
un oggetto indiretto; in (c) il soggetto, Luca, è chiaramente l'elemento che subisce l'a-
zione descritta dal nome di azione, colpo; in (d), una frase passiva, il soggetto, Matteo, è
per definizione l'elemento che subisce l'azione, non che la compie, come mostra la frase
in (e), che contiene l'agente, dalla madre; in (f), una frase media, il soggetto è, ancora,
l'elemento che subisce l'azione: infatti la frase è parente stretta della corrispondente pas-
siva, in (g).
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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D'altra parte, esiste una correlazione tra soggetto e AGENTE: in una frase attiva in
cui compare un argomento agente, questo sarà il soggetto della frase; pertanto, per un
verbo bivalente come rompere – di cui uno è AGENTE (p.e., Pierino), l'altro PAZIENTE
(p.e. i giocattoli) – la frase derivata sarà come in (a), non come in (b):
a. Pierino ha rotto tutti i giocattoli
b. *Tutti i giocattoli hanno rotto Pierino
La conclusione è che è probabile, ma non necessario, che il soggetto sia un agente. Un
soggetto sarà un agente solo a due condizioni: se la sua diatesi è attiva e se il verbo sele-
ziona questo ruolo semantico. Questo comporta che nella maggior parte dei casi un sog-
getto non è un agente. In altre parole, la nozione di soggetto e di ruolo semantico sono
distinte, ma interagenti; confonderle, come fa la grammatica scolastica, conduce im-
mancabilmente a una posizione di stallo nello studio della sintassi.
Un'altra definizione che ha avuto una certa fortuna a Scuola (si noti en passant
che la grammatica scolastica non è nemmeno così uniforme come si pensa) è la seguen-
te: 'Il soggetto è l'elemento che compie l’azione o di cui si parla'. Questa formulazione è
inaccettabile a priori, a prescindere dal fatto che sia o meno empiricamente fondata:
quale nozione sarebbe mai quella di soggetto, ritenuta universalmente fondamentale in
sintassi per le innumerevoli conseguenze che ha sulla costruzione della frase, se alla sua
base ci sarebbe una categorizzazione così spuria? Quale relazione ci potrebbe mai essere
tra la nozione di 'agente' e quella di 'ciò di cui si parla'? Ogni formulazione che contiene
una disgiunzione è, scientificamente parlando, fortemente sospetta: come minimo, lascia
il dubbio che sia il risultato di una comprensione del problema ancora insufficiente.
Inoltre, che cosa ci fa capire del problema? Che cosa impedisce di avanzare una formu-
lazione ancora più bislacca, come 'Il soggetto è l'elemento che compie l’azione, di cui si
parla o a cui viene attribuita una qualità' (e via peggiorando)? In effetti, un'altra varian-
te che si incontra nei libri di testo contemporanei, apparentemente più sofisticata della
prima, è in realtà ancora più naif: 'Il soggetto è l'elemento che compie l’azione o che la
subisce'. Il fine di questa proposta è, con tutta probabilità, quello di tener conto delle
frasi passive, in cui – per definizione – il soggetto è un paziente. A parte il problema
metodologico che deriva dalle formulazioni disgiunte, questa definizione si scontra, ba-
nalmente, contro un fatto di ordine empirico: in una frase transitiva ci sarebbero due
soggetti (quello che fa l'azione e quello che la subisce); ma, come tutti sanno, 'l'elemen-
to che subisce l'azione' in una frase transitiva è un complemento oggetto.
Pertanto – dato che, come abbiamo visto, l'idea del soggetto come AGENTE è er-
ronea – possiamo prendere in considerazione la definizione seguente:
2. 'Il soggetto è l'elemento di cui si parla'
Nemmeno questa definizione, però, resiste all'osservazione, come le seguenti frasi mo-
strano:
a. Piero, non lo vedo da parecchio
b. A Roma, non ci sono mai stato
c. Veloce, non lo è mai stato
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In (a) Piero è, intuitivamente, l'elemento di cui si parla; tuttavia, non è un soggetto (è un
oggetto). In (b) ciò di cui si parla è A Roma, che evidentemente non può minimamente
essere un soggetto, dato che è introdotto da una preposizione. In (c) ciò di cui si parla è
un aggettivo, che per definizione non può essere un soggetto. La conclusione, pertanto,
è che il soggetto non è una nozione discorsiva (cioè connessa con il ruolo informativo
che un elemento della frase assume in un discorso/testo).
La frase seguente – in cui ricorre un soggetto che non è né 'ciò di cui si parla'
(che è alla festa) né 'l'elemento che compie l'azione (che è da nessuno), ma un altro
elemento (tu), che in questo caso ha il ruolo semantico di PAZIENTE – riassume esem-
plarmente l'intera questione:
d. Alla festa, tu non sei stato invitato da nessuno
In effetti, se uno scolaro riesce a individuare il soggetto non è grazie a queste definizio-
ni, ma nonostante esse. Di fatto, utilizzerà la sua intuizione sintattica (che gli farà conta-
re sull'accordo del verbo o ausiliare, sulla posizione, sulla presenza di pronomi di ripre-
sa, come 'lo' in (a, c) sopra, ecc.).
Dopo aver mostrato che cosa non è il soggetto (né una nozione semantica né di-
scorsiva), è necessario dire qualcosa riguardo a che cos'è il soggetto. Si considerino le
frasi seguenti:
3. a. __ parla bene
b. *__ parle bien
c. *__ speaks well
d. *__ spricht gut
(3) esemplifica una differenza sintattica fondamentale tra le lingue del mondo: vi sono
lingue come l'italiano (lo spagnolo, l'arabo, ecc.) che sono a soggetto nullo (cioè il pro-
nome soggetto è sottinteso, salvo usi particolari) e lingue come il francese (l'inglese, il
tedesco, ecc.) a soggetto obbligatorio (in cui il pronome è obbligatorio). Che cosa suc-
cede, allora, nelle lingue a soggetto obbligatorio nel caso di un verbo avalente? Come fa
il requisito a essere rispettato? La risposta è, come gli esempi seguenti illustrano, che
viene introdotto un pronome soggetto fittizio, cioè semanticamente vuoto (nella fatti-
specie, il pronome non marcato, cioè più neutro: singolare maschile, nelle lingue con
due generi; singolare neutro, nelle lingue a tre generi):
4. a. Il pleut
b. It is raining
c. Es regnet
Il punto che qui interessa è che la presenza di questo soggetto fittizio indica che la cate-
goria 'soggetto della frase' esiste a prescindere da nozioni semantiche o discorsive; in
altre parole, è una posizione specifica della frase, indipendente dalla selezione del verbo
(cioè dal verbo che ricorre nella frase). Va aggiunto che questa posizione è quella più in
alto nella frase normale (cioè non interrogativa o marcata discorsivamente), connessa
con la specificazione aspettuale-temporale della frase. Infatti, nelle frasi non finite non
può comparire un soggetto: *'Voglio [tu andare a casa] vs. 'Voglio [che tu vada a ca-
sa]'.). Si tratta di una posizione dominante, in cui compare l'argomento più importante
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici
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del verbo, secondo una gerarchia di rilevanza (ad esempio, AGENTE, se il verbo e la dia-
tesi lo seleziona, o PAZIENTE, in mancanza dell'agente o di altri ruoli superiori).
Definito che cos'è il soggetto, resta da specificare qual è la sua funzione. Per
quanto una risposta universalmente accettata non esista, l'ipotesi più naturale è che sia
l'argomento della predicazione, cioè l'argomento del verbo, a cui la predicazione viene
riferita. Qualunque sia la sua funzione ultima, comunque, si tratta di una categoria squi-
sitamente sintattica, che non può essere derivata da nozioni più "concrete". Più specifi-
catamente, nella grammatica scolastica vengono confusi componenti diversi della sin-
tassi, nella fattispecie:
1 RUOLI SEMANTICI AGENTE, PAZIENTE, ecc.
2 RUOLI DISCORSIVI TOPIC, FOCUS, ecc.
3 FUNZIONI GRAMMATICALI SOGGETTO, OGGETTO, ecc.
I ruoli semantici, come abbiamo visto, sono assegnati, in primis, da un verbo (non ava-
lente) al/ai suo/suoi argomento/i (oltre che da altre teste).
I ruoli discorsivi (che non possiamo qui trattare, per questioni di spazio) riguar-
dano la sincronizzazione informativa tra gli interlocutori: una conversazione necessita di
molto più che la grammaticalità per avere successo, perché deve basarsi anche sulla ri-
levanza delle informazioni. Ad esempio, rispondere alla domanda 'A che ora parte la
corriera?' con 'Parte la corriera, tra poco' è errato, seppur perfettamente grammaticale; la
ragione è che non tiene conto delle richieste informative contenute nella domanda
dell'interlocutore.
Le funzioni grammaticali sono categorie perfettamente sintattiche, cioè senza
contenuto: si tratta di posizioni nella frase che hanno la funzione, in ultima analisi, di
permettere la decodificazione della frase (come, del resto, le marche di caso e le marche
di accordo).
Ovviamente, dire che le tre categorie sono diverse non significa escludere che
possano interagire tra loro; infatti, questo succede (e ad alcune di queste interazioni ab-
biamo accennato). Tuttavia, si possono comprendere le interazioni tra diversi fattori so-
lo quando gli stessi sono distinti. Proprio quello che la grammatica scolastica non fa; da
cui origina la confusione che la contraddistingue.
Le inadeguatezze della grammatica scolastica non finiscono qui: ce ne sono altre
di notevole importanza. Tuttavia, lasceremo cadere il problema in quanto lo scopo di
questa trattazione non è di essere esaurienti, ma di mostrare che ci sono buone ragioni
per ritenere inadeguata la grammatica scolastica.
Conclusioni
Abbiamo visto che la grammatica scolastica deriva dal pensiero grammaticale tradizio-
nale occidentale (di origine greca), termine molto vago con cui ci si riferisce a una ne-
bulosa di riflessioni e pratiche linguistiche che si estendono per un periodo di almeno
duemila anni, in modo continuativo ma meno uniformemente di quanto comunemente si
ritenga. Lo scopo originario era conservativo/puristico: preservare il greco (e poi il lati-
Marco Svolacchia
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no) dalla "corruzione" del tempo (cioè il mutamento linguistico) e dei "barbarismi"
(quando il greco e poi il latino erano parlati da molti come lingua seconda). Il focus
dell'interesse è stato quasi sempre per gli aspetti morfologici della sintassi, più che per
quelli strutturali. L'analisi logica (e del periodo) sono intrinsecamente costruiti sul lati-
no, in particolare sono subordinate alla traduzione dal latino e, ancor più, in latino, a so-
stegno di quel settore della grammatica latina che va sotto il nome di 'sintassi dei casi'
(cioè l'uso dei casi). Questo spiega molti dei limiti della grammatica tradizionale.
La grammatica scolastica ha accolto, in modo molto difficile da stabilire nel det-
taglio, e sistematizzato questa tradizione di studio, andando a volte oltre gli stessi scopi
iniziali (ad esempio, nella teoria dei complementi, in buona misura superflua anche per
la traduzione in latino). Il risultato è una teoria molto sbilanciata: molto dettagliata per
quanto riguarda gli aspetti morfologici, molto carente per quanto riguarda la compren-
sione della costruzione della frase. Un esempio molto chiaro è l'incapacità di render
conto dell'ambiguità sintattica (in effetti, della struttura della frase in genere) e di rico-
noscere la differenza tra complementi (gli argomenti del verbo) e aggiunti (gli elementi
opzionali che modificano un elemento obbligatorio della frase). Un altro aspetto negati-
vo è la mancanza di trasparenza e semplicità: la grammatica scolastica è insegnata in
modo tripartito (grammaticale, logica e del periodo), senza che ne venga esplicitata la
ragione e oscurando il carattere ricorsivo della sintassi delle lingue umane, con tutta
probabilità la caratteristica più distintiva del linguaggio. Infine, la grammatica scolastica
ha un approccio nozionale: cerca di spiegare elementi astratti tramite nozioni di senso
comune. Il risultato è la confusione tra componenti linguistici diversi, che impedisce di
capire, da una parte, la natura della sintassi; dall'altra, di spiegare una congerie di feno-
meni sintattici di grande interesse.
È importante, a questo punto, sgombrare il campo da un possibile equivoco. La
trattazione precedente potrebbe dare l'idea che la grammatica scolastica sia del tutto ne-
gativa. Non è affatto così: se dopo più di duemila anni continuiamo a utilizzare nozioni
come nome e verbo, soggetto e predicato, questo va al merito di tutti quegli studiosi che
hanno creato questa tradizione; la sintassi contemporanea ha costruito sulla grammatica
antica. Il punto è un altro: un conto è riconoscere il contributo del passato alla forma-
zione del pensiero linguistico contemporaneo, un altro è rimanere fermi al pensiero del
passato. Molte discipline occidentali affondano le loro radici nel pensiero greco, ad
esempio la matematica; ma nessun matematico serio aderirebbe all'idea che la matema-
tica debba fermarsi al periodo greco. In effetti, è proprio questo il mutamento decisivo
che si è avuto nello studio del linguaggio (e della sintassi in particolare, che è studiata
seriamente da poco più di mezzo secolo): studiarlo in modo scientifico, senza sudditan-
ze rispetto alla tradizione. Di conseguenza, alcuni assunti della grammatica tradizionale
hanno superato la prova dell'analisi scientifica, altri no. Se l'impressione è totalmente
negativa, questo dipende dal modo in cui la scienza opera: criticando le teorie che non
resistono alla prova dei fatti, sostituendole con altre più promettenti (non necessaria-
mente "definitive"; anzi, quasi mai tali).
Perché questo atteggiamento non produce in molte altre scienze lo stesso tipo di
reazioni sorprese, se non infastidite, che la sintassi contemporanea produce? La risposta
deve essere che nessuna disciplina si trova a fare i conti con una tradizione che è rimasta
indiscussa fino a pochi decenni fa. Ci si può chiedere perché la grammatica tradizionale
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sia stata sottratta per così tanti anni al metodo scientifico. Molto probabilmente a causa
dell'atteggiamento che ha accompagnato da sempre lo studio della grammatica: fin
dall'inizio non si è trattata di una scienza di scoperta, ma di una dottrina ricevuta. Si ri-
cordi che la grammatica è nata come reazione purista al mutamento e alla variazione:
avrebbe poco senso chiedersi se una dottrina è vera o sbagliata; la dottrina è la misura
del giusto, rispetto alla quale viene definita la correttezza. Tanto più un'analisi è con-
forme alla dottrina, tanto più è corretta. Bisogna anche tenere conto del fatto che le basi
della grammatica vengono gettate negli scolari in un'età totalmente priva di spirito criti-
co.
Sta di fatto che a tutt'oggi, nonostante che il metodo scientifico sia largamente
entrato nella cultura dominante, l'accettazione della sintassi contemporanea da parte del-
la Scuola ha mostrato finora risultati modesti. Va aggiunto che la situazione attuale è
molto più confusa che in passato (per rendersene conto è sufficiente esaminare un nu-
mero anche modesto dei manuali scolastici oggi in uso), quando, pur con tutti i limiti
del caso, la grammatica scolastica era insegnata in modo sostanzialmente uniforme e si-
stematico. Diversi insegnanti hanno la consapevolezza che la grammatica tradizionale
non sia il migliore dei mondi possibili e che la ricerca linguistica degli ultimi decenni si
è allontanata considerevolmente da essa; qualcuno di loro ha anche acquisito qualche
rudimento della sintassi contemporanea. In generale, però, i manuali in uso mostrano un
grado variabile di eclettismo tra vecchio e nuovo (senza rendersi minimamente conto
delle contraddizioni); inoltre, la scelta degli elementi moderni è spesso improntata più
alla moda del momento che a una comprensione reale della materia.
È apparentemente ancora più singolare che gran parte di quei pochi insegnanti
che sanno qualcosa di sintassi contemporanea continuino ad utilizzare, per molti aspetti
analitici, la grammatica tradizionale, che resta la loro grammatica di imprinting, che la
sintassi contemporanea non è riuscita a scalzare. Una parte del problema, con tutta pro-
babilità, sta nel fatto che la grammatica scolastica, pur con tutti i suoi limiti e con le ri-
serve che ha suscitato da qualche decennio a questa parte, presenta un indubbio vantag-
gio rispetto alla grammatica scientifica: appare come una dottrina sistematica, coerente
e soprattutto immutabile nel tempo, ciò che la rende rassicurante e adatta all'insegna-
mento scolastico. La sintassi contemporanea, invece, come ogni disciplina di ricerca,
non è del tutto sistematica, in quanto non pretende di possedere la verità su tutto, e non
è affatto immutabile; anzi, nei suoi poco più di cinquant'anni di esistenza, ha già subito
tre mutamenti radicali, oltre al normale sviluppo continuo che caratterizza tutte le scien-
ze empiriche.
Non resta che concludere questa lunga discussione augurandoci che la Scuola
trovi la volontà e il coraggio di cominciare a navigare in acque meno familiari e tran-
quille, ma immensamente più ricche.
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