la scala e lo specchio: chiavi di lettura e rilettura …
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LA SCALA E LO SPECCHIO (SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA)
LA SCALA E LO SPECCHIO:
CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA
DELL’ITINERARIO BONAVENTURIANO1
Andrea Di Maio
L’Itinerario della mente in Dio è l’opera di Bonaventura più citata e letta, non però
la più comprensibile nei suoi molteplici aspetti. Pur essendo un testo medievale di
teologia cristiana, continua ad avere molto da dire “qui e ora”, anche a chi non sia
addentro alla sua cultura e visione religiosa. Proviamo ora a offrirne qui, in maniera
semplificata, alcune chiavi di lettura e rilettura (attuale e filosofica), rinviando a
precedenti studi specialistici per il metodo ermeneutico e lessicografico adottato2 e per i
contenuti affrontati3.
1 Questo testo riprende e arricchisce il capitolo La scala e lo specchio: l’Itinerario bonaventuriano
riletto in chiave umanistica odierna, in Davide Riserbato (ed.), La scala e lo specchio. L’originalità di San
Bonaventura a otto secoli dalla nascita, Atti del Convegno Pensiero e attualità di Bonaventura da
Bagnoregio a otto secoli dalla nascita (Milano, 31 maggio 2017), IF Press, Roma 2018, p. 13-48. I testi
bonaventuriani sono citati da Sancti Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902,
10 vol., tranne che per le seguenti opere: l’altra reportatio delle Collationes in Hexaëmeron, tratta da
Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934; il
sermone Unus est magister vester, Christus, tratto da Renato Russo, La metodologia del sapere nel sermone
di S. Bonaventura «Unus est magister vester Christus», Grottaferrata 1982, p. 99-133; i Sermones de
diversis, tratti da Sermons de diversis, ed. Jacques–Guy Bougerol, Paris 1993, 2 vol. Le citazioni sono
perlopiù riprese dalla Library of Latin Texts (Series A and B), Turnhout (Brepolis Database on line) 2018.
Si tengamo presenti queste convenzioni: tra virgolette a sergente («») sono riportate le citazioni ad litteram;
tra virgolette semplici (“”) sono riportate le citazioni ad sensum o in traduzione o in citazione, come pure
alcune espressioni tipiche; tra apici (‘’) i lemmi o le forme linguistiche; i corsivi in citazione sono
redazionali, per evidenziare qualche termine ai fini dell’interpretazione. 2 Cf Andrea Di Maio, Comprendere Bonaventura: Concordanze, Dizionari,contributi a un Lessico, in
“Antonianum” 93 (2018), p. 255-282; Id., Elementi di Lessicografia filosofico-teologica per lo studio dei
“Lemmata Christianorum”, Roma 2009 (excerptum di Il Concetto di Comunicazione, Gregoriana, Roma
1998). 3 Cf Andrea Di Maio, La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia
all’ermeneutica testuale, in “Gregorianum” 2000 (81), p. 101-136 e 331-351; Id., Lettura di Bonaventura,
“Collationes in Hexaëmeron” 3.2, in Giulio d’Onofrio (ed.), La divisione della filosofia e le sue ragioni.
Lettura di testi medievali (VI-XIII secolo), Avagliano (“Schola Salernitana”. Studi e testi, 5), Cava de’
Tirreni 2001, p. 157-184; Id., “Secundum dictamen legum politicarum…, sicut philosophus loquendo”.
Ermeneutica dei testi e del lessico di Bonaventura da Bagnoregio sulla comprensione della dimensione
politica fra eredità classica, innovazione cristiana e peculiarità francescana, in Alessandro Musco (ed.), I
Francescani e la politica, Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, t. 1, p. 307-341; Id., Piccolo glossario
bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio (Lemmata
Christianorum – Bonaventuriana, 1), Aracne, Roma 2008 (anche per la bibliografia); Id., Il problema della
Storia in San Bonaventura, in “Doctor Seraphicus” 2015 (63), p. 45-75; Id., Conoscenza, riconoscimento,
riconoscenza. Una triplice chiave per intendere la “speculatio” bonaventuriana, in “Miscellanea
Francescana” 2017 (117), p. 388-401; Id., “Sacra Scriptura, quae theologia dicitur”, in Amaury Begasse
de Dhaem et alii (ed.), Deus summe cognoscibilis, Peeters, Leuwen 2018, p. 121-151; Id., Animalitas,
Spiritus, Mens. Antropologia tripartita e struttura dell’Itinerario bonaventuriano, in: Irene Zavattero (ed.),
L’uomo nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, (Flumen Sapientiae), Aracne, Roma 2019, p. 93-128;
Id., Bonaventure on Evil and “Nothingness”, in: Timothy Johnson et alii (ed.), Frater, Magister, Minister
et Episcopus. The Works and the Worlds of Saint Bonaventure, Proceedings of the International Conference
ANDREA DI MAIO 2
L’AUTORE: UN VERO “MAESTRO DEI DESIDERI”
Innanzitutto consideriamo l’attualità della figura dell’autore, Giovanni Fidanza: nato
a Bagnoregio nel 1217 (o più probabilmente nel 1221)4 e scampato miracolosamente da
piccolo a una grave malattia dopo che la madre aveva invocato l’intercessione di san
Francesco, divenne frate minore (francescano) col nome di Bonaventura; prima
“baccelliere” e poi “maestro” (professore) di teologia a Parigi, venne eletto nel 1257
settimo ministro generale del suo Ordine e infine, nel 1273, fu da Papa Gregorio X creato
Vescovo Cardinale con l’incarico di preparare il secondo concilio ecumenico di Lione,
convocato per l’anno successivo per discutere tra l’altro della riunificazione delle Chiese
Romana e d’Oriente; morto nel corso del concilio, nel 1274, e canonizzato nel 1588, fu
soprannominato dai posteri “Dottore Serafico”, ossia il Maestro (di teologia) con la
caratteristica dei Serafini.
Cosa può dire all’uomo comune di oggi un tale personaggio? Tanto, se guardiamo a
tre aspetti: la capacità di affrontare le disavventure (e la malattia), per trasformarle in
avventure; l’equilibrio tra ideale e reale e tra progresso e tradizione; l’esercizio del
desiderio.
TESTIMONE DELLA “BUONA VENTURA”: LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA COME TERAPIA
Bonaventura fu molto segnato dall’esperienza della malattia infantile5. Secondo una
tardiva leggenda, il nome “Bonaventura”, da lui ricevuto con la professione religiosa,
corrisponderebbe all’esclamazione con cui era stata accolta la sua guarigione: “o bona
ventura!”; cioè: “che fortuna!”. Se sia accaduto proprio così, non sappiamo, ma è vero
che per Bonaventura non c’è sventura che non si possa risolvere in una buona ventura.
Non sembri irriverente l’accostamento: Bonaventura come persona e come pensatore
ha molto in comune con l’omonimo personaggio dei fumetti (il Signor Bonaventura, di
Sergio Tofano, detto Sto); ogni storia di quest’ultimo comincia con il distico: “Qui
comincia la sventura del Signor Bonaventura”; la iniziale situazione negativa si trasforma
però in un beneficio per altri, che dimostrano la loro gratitudine compensando Bona-
ventura con il mitico dono di un “milione”. Così per Bonaventura, sebbene ogni male (sia
quello naturale, che subiamo, sia quello quello morale che liberamente facciamo) sia male
e non sia necessario, tuttavia l’esperienza del male ci conferma indirettamente che il Bene
(St. Bonaventure NY, July 12-15 2017), in via di pubblicazione.; Id., At the Crossroads between the Two
Biblical Trees: ‘Studiositas’ vs. ‘Curiositas’ according to Bonaventure, in via di pubblicazione su “Archa
Verbi. Yearbook for the Study of Medieval Theology”. 4 Per i medievali, non esistendo ancora i registri parrocchiali dei battesimi, perlopiù si conosce con
precisione solo la data di morte, ma non quella di nascita, che poteva essere calcolata approssimativamente
quanto al solo anno in base all’età raggiunta al momento della morte: nel caso di Bonaventura, dagli atti
del processo per la sua canonizzazione (avviato però ben due secoli dopo la sua morte) si evince che debba
esser nato nel 1121. Siccome però Bonaventura stesso, in uno dei rarissimi passaggi autobiografici dei suoi
scritti [nella Legenda minor, 7.8], dice di essere stato guarito ancora «puerulus» (cioè bambinetto di meno
di dieci anni) da malattia mortale dopo che la madre aveva formulato un voto a Francesco d’Assisi
(presumibilmente morto da poco, quindi nel 1226), convenzionalmente i biografi moderni avevano fissato
la data di nascita di Bonaventura nel 1217 (motivo per cui le celebrazioni dell’ottavo centenario si sono
svolte nel 2017). 5 Cf appunto Legenda minor, 7.8, dove la guarigione è qualificata come miracolosa e attribuita
all’intercessione di San Francesco.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 3
è maggiore e che il male non sarebbe tale, se non lo considerassimo una deviazione dalla
norma ideale, che, anche se il male sembra prevalere, alla fine vincerà6.
Alcune bellissime frasi di Bonaventura a tale proposito sono illuminanti: “il Verbo è
la verità per il cui mezzo tutti devono tornare”; “il diavolo pensava di avere sconfitto
Cristo, ma Cristo si prese gioco del diavolo”; e nel Giudizio finale di Cristo “le cose brutte
divengono belle; le belle, più belle; le più belle, bellissime”7.
Spesso poi nelle sue opere Bonaventura parla della malattia: non solo quella fisica,
ma quella che affligge l’umanità e che i filosofi percepiscono oscuramente senza poterla
né diagnosticare, né guarire8: la filosofia è pertanto una terapia, inefficace sì, ma
necessaria a prendere coscienza della malattia e ad una terapia di altro genere: la fede9 e
i sacramenti della Chiesa10, finalizzati appunto a curare le piaghe dell’umanità. La
teologia stessa si presenta come una scienza della terapia, perché il suo scopo è che
“diventiamo buoni”11 e che quindi stiamo bene.
EDUCATORE E ANIMATORE ALLA RICERCA DEL GIUSTO MEZZO
Un secondo motivo di attualità di Bonaventura è la sua concezione degli studi e del
governo alla ricerca sempre del giusto mezzo tra scienza e sapienza, tra progresso e
tradizione, tra idealità e realismo12. Tutta la sua opera di studioso prima e di guida
spirituale poi è stata caratterizzata dall’intento di ritessere, far progredire, condurre per
mano, mettere in ordine, con un grande senso della storia e del suo progresso13.
Come filosofo, nonostante ancor oggi erroneamente si ritenga che sia stato contrario
alla filosofia greca, in realtà egli apprezzava tantissimo i filosofi antichi, esaltando
Socrate e i filosofi antichi e nobili, leggendo Platone e Aristotele come complementari e
6 Cf Di Maio, Bonaventure on Evil, cit. 7 Rispettivamente, In Hexaëmeron, 1.17 («omnes redire debent»), 1.28 («illusit diabolo») e 1.34
(«deformia facit pulcra, pulcra pulcriora et pulcriora pulcherrima»). 8 Cf In Hexaëmeron, 7.8-9: «Non sanatur autem aliquis, nisi cognoscat morbum et causam, medicum
et medicinam. Morbus autem est depravatio affectus. Haec autem est quadruplex, quia contrahit ex unione
ad corpus anima infirmitatem, ignorantiam, malitiam, concupiscentiam; ex quibus inficitur intellectiva,
amativa, potestativa; et tunc infecta est tota anima. Has omnino non ignoraverunt, nec omnino sciverunt.
Videbant enim hos defectus, sed credebant, eos esse in phantasia, non in potentiis interioribus. [...]; et tamen
decepti fuerunt, quia hae infirmitates in parte intellectuali sunt, non solum in parte sensitiva: intellectiva,
amativa, potestativa infectae sunt usque ad medullam. 9. Morbum nescierunt, quia causam ignoraverunt.». 9 Cf In Hexaëmeron, 7.13: «Fides igitur, purgans has tenebras, docet morbum, causam, medicum,
medicinam; sanat animam, ponendo meritorum radices in Deo, cui placeat; et sic proficit per fidem in spem
certam per meritum Christi, non praesumtuose.» 10 Così la sesta parte del Breviloquium si intitola «De medicina sacramentali». 11 Cf Breviloquium, prologus, 5: «haec doctrina est ut boni fiamus et salvemur»; 3.7.22: Collationes in
Hexaëmeron (nell’altra recensione, edita da Delorme): «Neque enim in sacra Scriptura ut sciamus
tantummodo scrutamur, sed ut boni fiamus.». 12 Cf De diversis, 54, collatio, 5: «Ut homo caveat praesumptionem et pusillanimitatem; praesum-
ptionem debet homo cavere ne nimis alta dicat et inquirat [...]. Item, debet cavere pusillanimitatem quia
quidam habent ita viles et pedestres cogitationes quod non possunt aliquid altum considerare.»; Di Maio,
Between the Two Biblical Trees, cit. 13 Cf Di Maio, Il problema della Storia, cit. Per una presentazione retrospettiva della decisiva opera
interpretativa di Josef Ratzinger, cf Marianne Schlosser, Bonaventuras Beitrag zur einer Theologie der
Offenbarung: Ein Blick auf die Bonaventura–Studien Joseph Ratzingers, in: Begasse, Deus summe
cognoscibilis, cit., p. 175-192; Letterio Mauro, Joseph Ratzinger interprete di Bonaventura, ibid., p. 193-
204.
ANDREA DI MAIO 4
rileggendo in particolare i platonici perché ammettevano le ragioni ideali14; e pur
criticando i filosofi in alcuni punti e rilevandone l’insufficienza, era indulgente al riguardo
e ne utilizzava con originalità un metodo aristotelico alla teologia senza snaturare l’uno e
l’altra15. Invece era contrario a quei filosofi cristiani del suo tempo che pretendevano di
far filosofia come Aristotele: questo sarebbe stato infatti un tornare indietro (un “ritornare
alle cipolle d’Egitto”16, secondo la metafora tratta dall’Esodo), mentre invece proprio per
il carattere filosofico (amativo della sapienza) della filosofia occorre sempre andare
avanti17.
Come teologo, dichiarava di “non voler inventare novità”, ma di “voler ritessere” (in
maniera nuova) le opinioni tradizionali18: diceva che è proprio delle grandi opere (in
particolare nel cristianesimo) “crescere e non decrescere”19.
Come superiore dell’Ordine francescano, è stato capace di tenere la barra al centro,
di unire tradizione e progresso, di accogliere le istanze più autentiche delle ali estreme
del suo Ordine, senza però l’estremismo che le rendeva inaccettabili all’altra parte.
Ha avuto (pur con tutti gli enormi limiti del suo tempo) un anelito che oggi potremmo
definire dialogico ed ecumenico: ha mantenuto unito l’Ordine dei Frati Minori, dilaniato
da tensioni interne; ha cercato, sebbene senza successo, di riunificare le Chiese cristiane
divise dallo scisma.
14 Cf Unus est Magister vester, 18-19 (ove si riconosce a Platone il “discorso di sapienza”, verso l’alto,
cioè verso le ragioni ideali, e ad Aristotele il “discorso di scienza” verso il basso, cioè verso le ragioni
naturali (tale complementarità si ritroverà nella rappresentazione della Filosofia nel celebre affresco di
Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano, commissionata da Papa Giulio II, che era stato
presidente della commissione per il processo di canonizzazione di Bonaventura); De diversis, 33.18: «[...]
Plato totam cognitionem certitudinalem convertit ad mundum intelligibilem sive idealem, ideo merito
reprehensus fuit ab Aristotele; non quia male diceret ideas esse et aeternae rationes, cum in hoc eum laudet
doctor maximus Augustinus; sed quia, despecto mundo sensibili, totam certitudinem cognitionis reducere
voluit ad illas ideas.». Sul primato di Socrate e sulla superiorità dei ‘philosophi antiqui et nobiles’
neoplatonici cf In Hexaëmeron, rispettivamente, 5.33 e 6.1. 15 Cf Letterio Mauro, Bonaventura da Bagnoregio. Dalla Philosophia alla Contemplatio, Accademia
Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1976; Marco Arosio, Aristotelismo e teologia da Alessandro di Hales
a San Bonaventura, Liamar, Monaco – Roma 2012, p. 316-373; Di Maio, La divisione..., cit. 16 In Hexaëmeron, 1.9: «Non itaque redeundum est in Aegyptum per desiderium vilium ciborum,
alliorum, porrorum et peponum, nec dimittendus cibus caelestis.»; e 19.12: «Non amplius revertendum est
in Aegyptum. [...] Noli comedere pepones Aegypti et porros et allia, sed manna de caelo» 17 Cf Di Maio, Between the Two Biblical Trees, cit.: «‘Philosophus’ means someone who searches for
wisdom (so, their search is finalized to something else); ‘philosophans’ means someone who practices
philosophy for its own sake, not looking for something beyond. Besides, the plural term ‘philosophantes’
recalls the term ‘iudaizantes’, used to mean people who, born as Jews, accepted to be baptised, but
continued to practice Judaism hiddenly. In the mentality of the Middle Ages, they were turning back to an
old and outdated cult. Analogously, philosophantes were officially Christian masters of the University who
expected to practice philosophy as they had in the ancient age before Christ. ‘Philosophantes’ normally has
a negative sense but here in Bonaventure’s response to the Unknown Master, he does not use the term
‘philosophi’, but ‘philosophantes’ [cf De Tribus Quaestionibus, 12]. [...]. Bonaventure plays with the
etymology: philo-sophi meant as ‘amatores sapientiae’ (in a fully positive sense) are welcome. [...]. The
readers of the Itinerarium are required to be sapientiae amatores [Itinerarium, prologus, 4]. [...]. In short,
if a philosopher remains a mere philosopher and does not become a real lover of wisdom, he changes
himself for the worse into a philosophans, according to this taxonymy: Philosophi – going back =
Philosophantes; – going forward = Amatores sapientiae». 18 In Sententiarum libros, 2, praelocutio: «Non enim intendo novas opiniones adversare, sed communes
et approbatas retexere.». 19 De Tribus Quaestionibus, 13: «opera Christi non deficiunt, sed proficiunt».
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 5
Molto attuale è il suo approccio di educazione e animazione. Non basta insegnare:
occorre “condurre per mano” lo spirito non solo nel suo ragionamento20, ma nella sua
stessa direzione per così dire esistenziale21. E per governare occorre mettere in ordine.
In ambito ecclesiale, Bonaventura ha sviluppato il concetto di “gerarchia”, nel senso
di “ordinamento” di Dio o a Dio, da realizzare “tramite conoscenza e azione”: in altre
parole, di comunione ordinata di persone distinte22. Ma come realizzare una “gerarchia”
o comunione interpersonale? “Gerarchizzando”, ossia rendendone comunionale, ogni
appartenente. Formare una comunità di persone è quindi possibile solo formando ogni
persona, da coinvolgere in una comune conoscenza e volizione23.
In ambito propriamente politico, Bonaventura, consapevole della necessità di
elaborare una nuova filosofia politica, oltre i limiti di quella ereditata dal passato, ha
lasciato pochi ma significativi spunti: la comunità politica si sviluppa, a partire dalla
regola iscritta nella coscienza (“fare e non fare ad altri ciò che, rispettivamente, si vuole
o non si vuole sia fatto a sé”), nella “pullulazione” di leggi positive e statuti particolari,
nell’opera di presidenza di governanti eletti, piuttosto che di prìncipi ereditari, e
nell’esercizio dell’attività giudiziaria24.
Alcune frasi di Bonaventura sono indicative della sua attitudine educativa: “questa è
tutta la mia intenzione: che voi concepiate in voi il dono della pietà”25; “a questo Albero
di Vita ho voluto condurvi”26.
MAESTRO DEI DESIDERI (“DOTTORE SERAFICO”)
Questo ci porta a capire l’attualità del terzo aspetto di Bonaventura, quello che oggi
sembrerebbe il più lontano dalla nostra cultura: il “Dottor Serafico”. Sbaglieremmo a
considerarlo una persona compleatamente estranea al mondo, pacifica perché distaccata.
Intanto cerchiamo di capire di più sull’origine e sul significato di questo titolo. I
Serafini sono le creature angeliche più misteriose, che nella celebre apparizione al profeta
20 In Sententiarum libros, 3.24.2.3 co: «scientia manuductione ratiocinationis, licet aliquam
certitudinem faciat et evidentiam circa divina, illa tamen certitudo et evidentia non est omnino clara,
quamdiu sumus in via.»; cf anche Unus est magister vester. 21 Cf ad esempio In Sententiarum libros, 1.34.1.4 co. 22 Tale comunione interpersonale è come quella esistente, secondo la dottrina cristiana, nella Trinità
divina. Il termine ‘hierarchia’, tratto dalle traduzioni latine di Dionigi; a differenza che in Dionigi, e in
continuità con il commento di Ugo di San Vittore, ha un senso di comunione ordinata e non necessariamente
di subordinazione: cf In Hexaëmeron, 21.17 (per la definizione dionisiana), e 2.16 (per la distinzione, con
Ugo, di tre gerarchie – quella umana della Chiesa, quella angelica e quella divina della Trinità): «Hugo
dicit ista vocabula: hierarchia caelestis, supercaelestis, subcaelestis. Quidam dicunt, quod improprie
dicantur; sed falsum est, quia utrobique est sacer principatus.». 23 Tale opera si realizza per Bonaventura nella Chiesa a partire da un centro o un vertice (che è Dio o
rappresenta Dio), in una dinamica di dono (grazia) e risposta (lavorìo personale di rettificazione,
illuminazione e disposizione all’unione di intelletto e volontà). In particolare, la contemplazione del
modello ideale in Dio. A questo è dedicata tutta la visio quarta (collationes 20-24) in Hexaëmeron. Sulla
grazia che purificante (nel senso di rettificante), illuminante e perficiente (nel senso di unificante), cf
Itinerarium, 1.8. 24 Cf In Hexaëmeron, 5.19 (Bonaventura non pensava necessariamente a un suffragio universale); Di
Maio, Secundum dictamen..., cit. 25 De septem donis, 3.2: «Videte tota intentio mea est, quod concipiatis donum pietatis in anima et
discatis, quid sit esse pium.». 26 In Hexaëmeron, 23.31: «ad hoc lignum vitae volui vos adducere».
ANDREA DI MAIO 6
Isaia sono descritti come esseri con sei ali, di cui due chiuse sul volto, due chiuse sui piedi
e due perpendicolari al corpo per volare. In questo modo, i Serafini volavano raffigurando
una Croce. Ebbene, san Francesco, secondo i biografi, sulla Verna aveva avuto la visione
di un Serafino come crocifisso, dalle cui piaghe gli furono impresse le stimmate27.
Secondo la tradizione dionisiana, i Serafini sarebbero inoltre le creature dedite all’unione
più intima con Dio tramite l’amore28. Il loro volo con le ali di mezzo ricordava l’equilibrio
nella ricerca della sapienza: non presumere troppo, ma neanche rinunciare ad osare29!
Quindi, definendolo “Dottore Serafico”, i posteri considerarono Bonaventura
innanzitutto il teologo che più aveva riflettuto sull’esperienza di Francesco sulla Verna e
che quindi poteva essere il maestro per antonomasia della mistica francescana; ma in
senso più ampio (poiché Francesco è un modello e una guida anche per tutta l’umanità),
possiamo considerare Bonaventura come il maestro dell’amore mistico, il maestro dei
grandi desideri unitivi, che elevano la persona. Solo una persona di grandi desideri, può
ricevere grandi visioni, come Daniele nella Bibbia30. Ecco perché Dante (nel canto XII
del Paradiso) fa dire all’anima di Bonaventura: «L’amor che mi fa bella mi tragge a
ragionar»…
La via che Bonaventura propone è quella del primato del desiderio profondo, che è
l’affetto del cuore: non parliamo quindi né dei desideri superficiali, né delle scelte che
facciamo, ma di quella volontà profonda che riscontriamo in noi e che è in qualche modo
una “passione”, in quanto attratta, come da calamita, dal Bene in sé31.
27 Cf Legenda maior, 14.1. Tale esperienza di Francesco diviene paradigmatica per ogni cristiano: cf
Itinerarium, prologus, 2 e 7.3: «illud miraculum quod in praedicto loco contingit ipsi beato Francisco de
visione scilicet seraph alati ad instar crucifixi.»; «Quod etiam ostensum est beato Francisco, cum in excessu
contemplationis in monte excelso, ubi haec, quae scripta sunt, mente tractavi, apparuit Seraph sex alarum
in cruce confixus, [...] ubi in Deum transiit per contemplationis excessum.». 28 Cf In Hexaëmeron, 8.8-9 e 22.22 (ove ai serafini Bonaventura fa corrispondere nella Chiesa l’ordine
serafico “sursumattivo” di chi, come Francesco, è perfettamente e simultaneamente contemplativo e attivo;
i frati minori francescani devono aspirare a questo grado di unione, ma rimanendo come ordine un gradino
sotto, a somiglianza dei “cherubini”, come i frati predicatori domenicani, ma, rispetto a questi, devono
tendere più all’unzione [cf 1Jo 2,20], o conoscenza unitiva, che alla speculazione). 29 Cf De diversis, 54, collatio, 5 (citato sopra). 30 Cf Itinerarium, prologus, 3: «Non enim dispositus est aliquo modo ad contemplationes divinas, quae
ad mentales ducunt excessus, nisi cum Daniele sit vir desideriorum.»; e In Hexaëmeron, 20.1: «hanc
visionem nullus habet, nisi sit vir desideriorum, nec potest eam habere nisi per magnum desiderium.». Il
riferimento biblico è a Dan 9,23: i latini intendevano l’espressione ebraica “uomo dei desideri” come
“soggetto di desideri”, anziché (più correttamente) come “oggetto di desideri” (ossia desiderato o prediletto)
da parte di Dio. 31 Così è ad esempio descritta la dinamica del desiderio del bene in Itinerarium, 3.4. La conoscenza di
Dio è definita inoltre in Breviloquium, 1.1 come oggetto e compimento di ogni desiderio: «Ipsa etiam sola
est sapientia perfecta, quae incipit a causa summa, ut est principium causatorum, ubi terminatur cognitio
philosophica, et transit per eam, ut est remedium peccatorum et reducit in eam, ut est praemium meritorum
et finis desideriorum. Et in hac cognitione est sapor perfectus vita et salus animarum, et ideo ad eam
addiscendam inflammari debet desiderium omnium christianorum.».
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 7
L’OPERA E LA SUA GENESI: UN ITINERARIO IN MOLTI SENSI32
Pochi oggi conoscono Bonaventura: ma quei pochi sanno almeno che è l’autore
dell’Itinerario della mente in Dio.
Si tratta di un’opera fortunata, soprattutto perché è molto breve (un prologo e sette
capitoletti) e sistematica, molto ben architettata33; d’altra parte, è un’opera talmente densa
e piena di riferimenti alla cultura del suo contesto storico, da essere oggi quasi
incomprensibile per un lettore non specialista. Molti sono i commentari anche recenti che
lo presentano34: qui proviamo a proporre alcune chiavi di rilettura lessicografica ed
ermeneutica.
Un primo problema che ci si presenta è che non è chiaro quale sia il vero titolo
dell’opera, perché il titolo comunemente usato è Itinerario della mente in Dio, ma, come
vedremo tra poco, ‘itinerarium’ non è un termine altrimenti usato da Bonaventura, e per
di più all’inizio del libro, tra la lista dei capitoli e il primo capitolo, troviamo invece
l’indicazione: “inizia la Speculazione del povero nel deserto”35.
È possibile che Bonaventura abbia pensato a questa seconda espressione come titolo,
e che siano stati i primi lettori a formulare il primo? Comunque sia, entrambi i titoli sono
molto suggestivi e ci offrono una chiave di attualizzazione.
L’Itinerario è un’opera ben riuscita? Non del tutto: da una parte, è stata e continua
ad essere l’opera bonaventuriana più letta nella storia; dall’altra, non riesce ad offrire al
lettore una guida concreta alla vita interiore36. Ad esempio, il primo passaggio (la
contemplazione delle vestigia di Dio nel mondo esteriore) non è certo la cosa più facile!
L’impressione è che il primo a non esserne rimasto soddisfatto sia stato proprio
Bonaventura, che successivamente ha elaborato l’idea di un ciclo di conferenze che
accompagnasse concretamente il cammino delle persone nelle varie fasi della vita
spirituale37.
32 Si riassume qui quanto trattato diffusamente in Di Maio, Animalitas, Spiritus, Mens, cit., in
particolare p. 96-102. 33 L’opuscolo, redatto nel 1259, era stato concepito da Bonaventura durante la sua visita alla Verna da
nuovo ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori. Pur centrato sull’esperienza mistica di Francesco e
della sua stimmatizzazione, era stato scritto quasi come manifesto di rinnovamento della Chiesa. 34 Tra i commenti esistenti, ci limitiamo a segnalare i principali recenti: Bonaventura, Itinerario
dell’anima a Dio, a cura di Letterio Mauro, Bompiani, Milano 2002; Bonaventura, Der Pilgerweg des
Menschen zu Gott, a cura di Marianne Schlosser, Eos Verlag, Sankt Ottilien 2010; Bonaventura, La
perfezione cristiana, a cura di Claudio Leonardi, Fondazione Lorenzo Valla –. Mondadori, Milano 2012;
Bonaventure, Itinéraire de l’esprit jusq’en Dieu, a cura di Laure Solignac, Vrin, Paris 2019; inoltre Ernesto
Dezza, Itinerarium mentis in Deum. Una lettura guidata, in “Forum” – Supplement [on line] to “Acta
Philosophica” 4 (2018). 35 Itinerarium, tra il prologus e il capitolo primo: «Incipit speculatio pauperis in deserto». 36 Qualcuno pensa che le tappe dell’Itinerario non siano necessariamente sequenziali, ma è invece
proprio quello che l’autore dichiara: cf Itinerarium, prologus, 5: «speculationum progressus». 37 Saranno le collationes parigine De decem praeceptis (predicate nel 1267), De septem donis Spiritus
Sancti (predicate nel 1268) e In Hexaëmeron (predicate nel 1273 e incomplete) di cui abbiamo due
reportationes. Il disegno è chiaro: tracciare prima il progetto ideale che si deve realizzare (la Legge, riletta
in senso cristiano), e poi il percorso di esercizio progressivo della grazia (che si dirama simultaneamente
nelle virtù, nei doni e nelle beatitudini e frutti, ma che si esercita progressivamente), con un’attenzione
maggiore all’esercizio dei doni; infine, l’approfondimento del passaggio più delicato, ossia dall’esercizio
pieno del dono di intelletto a quello del dono di sapienza, nelle sei fasi della vita spirituale: la pratica delle
ANDREA DI MAIO 8
Ricostruendo congetturalmente le intenzioni dell’autore da alcune sue affermazioni,
l’Itinerarium doveva essere un trattato di teologia negativa e ascensiva, complementare
al Breviloquium, pensato invece come un trattato di teologia affermativa e discensiva38.
L’Itinerarium è però un’opera dalla genesi complessa e inconclusa, preceduta da
abbozzi e seguita da riprese e ritrattazioni.
Già in altre opere Bonaventura aveva provato ad abbozzare percorsi analoghi con
finalità diverse39.
Quasi alla fine della sua vita, nel 1273, nelle conferenze sui sei giorni della creazione
(reinterpretati come le sei illuminazioni o fasi progressive della “vita spirituale”)40,
Bonaventura ci ha offerto nella seconda conferenza una magnifica ripresa dei contenuti
dell’Itinerario come una sintesi magnifica della stessa sapienza cristiana41; ma poi, nella
quinta e sesta conferenza ne ha fatto come una ritrattazione (nel senso di seconda
virtù cardinali (nella ricerca di ragione svolta da cristiani) e delle virtù teologali (nella professione di fede),
la meditazione della Scrittura, la contemplazione, la profezia e il rapimento mistico. 38 Cf De Triplici Via, 3.7(11); cf anche In Hexaëmeron, 2.33: «per affirmationem, a summo usque ad
infimum; per ablationem, ab infimo usque ad summum; et iste modus est conveniens magis. […]
Ablationem sequitur amor semper. […]. Qui sculpit figuram nihil ponit, immo removet». In effetti, il
Breviloquium tratta in sette parti tutta la materia teologica “dalla cima – che è Dio, l’Altissimo – al fondo
– che è il supplizio infernale”, e “dall’inizio, che è il primo principio, alla fine, che è il premio eterno”
[Breviloquium, 1.1]; invece l’Itinerarium ripercorre in sette gradi (tre tappe sdoppiate, più la meta) tutto il
compito della teologia come “ascesa non del corpo, ma del cuore” dall’infimo al sommo [Itinerarium, 1.1]. 39 Il primo abbozzo significativo di “itinerario” sembra essere il chiarimento di Bonaventura, ancora
baccelliere sentenziario, su un dubbio su un’affermazione del Lombardo: saldando tradizione agostiniana
e dionisiana Bonaventura descrive il processo di riconoscimento di Dio progressivamente nel suo vestigio,
nella sua immagine, nell’effetto della sua grazia e in Dio stesso; cf In Sententiarum libros, 3.24 ad db 4:
«[…] Augustinus hic loquitur de cognitione experimentali, quam quis habet de Deo sive in patria, sive in
via [...]. Unde haec scientia sapientia est, quia se cum habet iunctum saporem; et per hanc illuminatur
intellectus, et stabilitur affectus. Et ideo dicit, quod Deum scire non est aliud quam mente conspicere
firmiterque percipere. [...]. Cognoscitur enim Deus in vestigio, cognoscitur in imagine, cognoscitur et in
effectu gratiae, cognoscitur etiam per intimam unionem Dei et animae, iuxta ritus est.».
Il secondo abbozzo, già più esteso, di “itinerario” è nelle questioni che il neodottore Bonaventura
disputò sui tipi e modi di conoscenza avuti da Cristo stesso (in tal modo tutta la teologia veniva riletta come
una cristologia dal punto di vista di Cristo stesso); cf De scientia Christi, 4: «Creatura enim comparatur ad
Deum in ratione vestigii, imaginis et similitudinis. In quantum vestigium, comparatur ad Deum ut ad
principium; in quantum imago, comparatur ad Deum ut ad obiectum; sed in quantum similitudo, comparatur
ad Deum ut ad donum infusum.».
Il terzo abbozzo di “itinerario” è in De Mysterio Trinitatis, 1.2 co: «Omnis enim creatura vel est ad Dei
vestigium tantum, sicut est natura corporalis, vel est ad Dei imaginem, sicut est creatura intellectualis.».
Qui il contesto è la trattazione dei tre libri in cui consiste la manifestazione divina: il libro della Natura
esteriore ed interiore (in cui rientrano vestigio e immagine), quello della Scrittura (distinto in Antico e
Nuovo Testamento, a cui corrisponderanno, nell’Itinerarium, i Nomi Essere e Bene) e quello della Vita (a
cui corrisponderà in via l’esperienza mistica).
Una variante abbreviata di questo approccio la si può ritrovare in Breviloquim, 2.12, nella trattazione
del creato: «creatura mundi est quasi quidam liber, in quo relucet, repraesentatur et legitur Trinitas
fabricatrix secundum triplicem gradum expressionis, scilicet per modum vestigii, imaginis et
similitudinis». 40 Cf In Hexaëmeron, 4.4.31. 41 In Hexaëmeron, 2.20: «Item, tertia facies sapientiae est omniformis in vestigiis divinorum operum.».
La sapienza infusa per dono dello Spirito Santo si manifesta progressivamente come uniforme (nei dettami
della legge divina iscritti nella coscienza), multiforme (nei sensi della Scrittura), onniforme (nelle vestigia
e nell’immagine di Dio nel creato) e nulliforme (nella conoscenza mistica).
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 9
trattazione, complementare) in ambito strettamente filosofico, come percorso di ricerca
razionale della sapienza.
Alla luce di tali evoluzioni, l’Itinerario potrebbe essere inteso sia come un trattato di
vita spirituale e di introduzione alla contemplazione; sia come un trattato di antropologia
teologica e di cristologia (sui modi e gradi di conoscenza di Cristo); sia come un trattato
di teologia trinitaria, in quanto la Trinità si rispecchia nel creato42; sia, infine, come una
trattazione originalissima della Filosofia, nel suo senso più profondo. Retroproiettando
quest’ultimo approccio sull’opuscolo e tralasciandone le applicazioni ai riflessi della
Trinità, potremo ora ri-leggerlo e riattualizzarlo filosoficamente e umanisticamente.
L’“ITINERARIO DELLA MENTE IN DIO” (RILETTURA DEL TITOLO)
L’“ITINERARIO”
Esaminiamo la prima parola del titolo comunemente dato all’opera e che già da sola
basta a identificarla; Itinerario. Cosa significa? Il lemma ‘itinerarius’43 in latino era
originariamente un aggettivo che significava “relativo a un iter”, ossia a un viaggio; usato,
come facciamo noi, in maniera sostantivata (‘itinerarium’ in latino), indica la descrizione
di un viaggio già fatto o la prescrizione di un viaggio da fare; in particolare, nel Medioevo,
era chiamato così un libro che fungesse da guida per il pellegrino; eccezionalmente, nel
latino cristiano del tredicesimo secolo, il termine poteva essere utilizzato anche per
indicare l’esodo di Israele e la vita stessa di Gesù, intesa come un “transito” da questo
mondo al Padre.
Ma cosa intende Bonaventura per ‘itinerarium’? Qui abbiamo una grande sorpresa:
nei suoi scritti (almeno quelli finora censiti elettronicamente) Bonaventura non usa mai
questa parola (eccetto una volta nel titolo di un’opera citata)44. Piuttosto, nell’Itinerario
Bonaventura parla (in senso metaforico) di ‘iter’, viaggio, transito, ascesa…, alludendo
al pellegrinaggio verso la Gerusalemme ideale, come metafora di tutta la vita umana: la
stessa filosofia è la ricerca (necessaria ma impossibile) della Sapienza; l’Esodo è il
viaggio di Israele verso la Terra promessa; la vita di Cristo e del cristiano è un Transito
da questo mondo al Padre45. La creatura deve compiere un vero e proprio “cerchio
intelligibile”46, mediante Cristo (che il Filosofo coglie appena come Medio Esemplare),
il quale “è uscito dal Padre e ritorna al Padre”: e in questo circolo consiste tutta la
Metafisica47.
42 Questo approccio (che sviluppa quello del De Trinitate di Agostino), molto apprezzato in passato,
invece al lettore odierno risulta un po’ forzato e desueto. Vedremo però che anche la filosofia moderna e
contemporanea (con Kant, Peirce, Dumézil e Brandt) ha sviluppato un’attenzione alle triadi, sia pure intese
come strutture della mente e della cultura, piuttosto che della realtà. 43 Come risulta dalla Library of Latin Texts, cit. 44 Cf In Sententiarum libros, 2.8b1.3: è il riferimento a un antico racconto romanzato e apocrifo,
abbastanza popolare nel Medioevo: l’Itinerario di Clemente o di San Pietro, descrizione o narrazione del
viaggio di San Pietro a Roma, attribuita apocrifamente a San Clemente. 45 Cf Itinerarium, 1.1, 1.7, 1.9, 7.5. 46 Breviloquium, 2.4 e 5.1. 47 In Hexaëmeron, 1.17: «Verbum ergo exprimit Patrem et res, quae per ipsum factae sunt, et
principaliter ducit nos ad Patris congregantis unitatem; et secundum hoc est lignum vitae, quia per hoc
ANDREA DI MAIO 10
Bonaventura insiste che il viaggio di cui si parla nel suo opuscolo non è “del corpo”
ma “del cuore” e che quindi le ascensioni di cui si parla sono “ascensioni mentali”48. Ecco
perché in questo caso il viaggio (“iter”) e la descrizione del viaggio (“itinerario”)
coincidono. Si tratta di un approccio molto attuale, vicino a quello della moderna
psicologia. Riuscire a cogliere e ad esprimere ciò che abbiamo dentro equivale a far
progredire la nostra vita interiore.
LA “MENTE” CHE FA L’ITINERARIO
Ma cosa è la mens che compie l’itinerario? Sebbene coincidente con l’anima, non si
identifica con essa (ossia denotano lo stesso, ma lo connotano diversamente, anche se
talvolta sono intercambiabili). Mentre infatti ‘anima’ indica il soggetto ontologico (che
ha la funzione di animare il corpo, ma poi sussiste anche senza di esso), ‘mens’ ne indica
piuttosto l’esercizio della funzione49. La mente è distinta in tre fasce o tre cerchi concentrici, ossia animalitas, spirito e
mente (in senso stretto)50. C’è la parte della mente che riflette il mondo esterno, c’è la
parte della mente che riflette sé stessa ossia il mondo interiore, c’è la parte della mente
che riflette il mondo ideale. L’animalitas è la mente rivolta, attraverso il corpo, al mondo
esterno, e dunque è (per dirla oggi) il corpo fenomenologicamente inteso, oppure come
la coscienza sensibile di Hegel. Lo spiritus è la mente rivolta al proprio interno, verso il
mondo minore o interiore, quindi una sorta di autocoscienza nel senso odierno. La mens
in senso stretto è lo sguardo verso l’Assoluto, una sorta di coscienza spirituale e morale
o religiosa. Il fatto che quest’ultimo sguardo si chiami mens come tutta la mens è indice
medium redimus et vivificamur in ipso fonte vitae. Si vero declinamus ad notitiam rerum in experientia,
investigantes amplius, quam nobis conceditur; cadimus a vera contemplatione et gustamus de ligno vetito
scientiae boni et mali, sicut fecit Lucifer. [...]. Sic Adam similiter. –Istud est medium faciens scire, scilicet
veritas, et haec est lignum vitae; alia veritas est occasio mortis, cum quis ceciderit in amorem pulcritudinis
creaturae. Per primariam veritatem omnes redire debent, ut, sicut Filius dixit: Exivi a Patre et veni in
mundum; iterum relinquo mundum et vado ad Patrem; sic dicat quilibet: Domine, exivi a te summo, venio
ad te summum et per te summum. –Hoc est medium metaphysicum reducens, et haec est tota nostra
metaphysica: de emanatione, de exemplaritate, de consummatione, scilicet illuminari per radios spirituales
et reduci ad summum. Et sic eris verus metaphysicus.». 48 Itinerarium, 1.1. 49 Cf In Sententiarum libros, 1.3b ad db 2: ««mens dicitur ab actu essentiali. Propterea est
intelligendum, quod quo est dat animae esse generalissimum, et sic dicitur essentia; vel inquantum dat esse
generale, et sic dicitur vita, quia anima est in genere viventium; aut inquantum dat esse spirituale, et sic
mens. Mens enim non dicitur nisi quod vivit vita intellectiva. - Vel anima in se dicitur essentia, ut actus
corporis vita, ut perfectibilis a Deo mens». In contesto di teologia trinitaria, Bonaventura distingue vari
sensi di mens: ciò che dà all’anima di essere nel senso più generale (cioè di esistere) è detto essenza; ciò
che le dà di essere in senso generale, ossia di vivere, si dice vita; ciò che le dà di essere in senso spirituale
(diremmo noi oggi: di esistere in prima persona) si dice mente. La mente indica sempre la vita intellettiva.
Inoltre, l’anima in quanto perfettibile da Dio si dice mente. Di conseguenza potremmo dire che il concetto
di mens indica non tanto il soggetto ontologico, quanto la sua attività, soprattutto quella più perfetta. 50 Cf In Sententiarum libros, 1.3b.2.1: Bonaventura dice che mente indica l’anima in quanto è soggetta
a mutamento (da ‘mene’, ossia luna); o in quanto è dotata di capacità di giudizio (da ‘metiendo’); o in
quanto è la parte superiore della ragione (da ‘eminendo’); o in quanto sta per la memoria (da ‘meminisse’).
Bonaventura non è d’accordo con quest’ultima accezione. La triade “mente, notizia, amore” non consiste
in potenze dell’anima, né in tre abiti, dato che “la mente non può indicare un abito, in quanto si intende
come agente”. Ma consiste in una triade costituita “quanto alla sostanza dell’anima in ragione della mente
che si conosce e si ama, e quanto agli abiti, in ragione della notizia e dell’amore”.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 11
che per Bonaventura la mente stessa è fatta essenzialmente per conoscere Dio e non solo
altre menti o cose.
LA DESTINAZIONE E L’ORIZZONTE “IN DIO” E LA PACE
L’itinerario della mente è “in Dio”, o meglio «in Deum»: il senso di questa
espressione in latino (con la preposizione ‘in’ seguita dall’accusativo) è che il movimento
figurato della mente è un addentrarsi progressivo all’interno del mistero di Dio: un po’
come quando ci si sprofonda in un mare.
Questo movimento della mente è piuttosto paradossale perché come sta sempre
dentro Dio, così sta sempre dentro sé stessa. Solo alla fine, la mente è invitata a
trascendere sé stessa (mediante l’estasi mistica) e a sprofondare nella Pace51.
D’altra parte la Pace (intesa come nucleo del Vangelo e di tutta la predicazione di
Gesù, e di conseguenza di Francesco), identificata con la requie a cui mira,
agostinianamente, ogni ricerca umana, è il tema del Prologo dell’Itinerario52.
In altre parole, Dio e la Pace sono l’orizzonte in cui si muove e si risolve l’itinerario.
IL RISPECCHIAMENTO (RILETTURA DEL TITOLO ALTERNATIVO E DEL PROLOGO)
LA “SPECULAZIONE” DEL VOLTO ALLO SPECCHIO53
Esaminiamo il secondo possibile titolo dell’opuscolo: “Speculazione del povero nel
deserto”. ‘Speculatio’ è l’atto di ‘speculare’, ossia di guardare attentamente: viene dalla
radice ‘-spec-‘ o ‘-spic-‘, che indica il guardare e da cui derivano tantissime parole54.
L’atto di ‘speculare’ però può essere ricondotto tanto a ‘specula’ (osservatorio), quanto a
‘speculum’ (specchio). Nel primo caso la speculazione sarebbe l’osservazione attenta dei
corpi celesti, oppure, per metafora, la considerazione di un qualsiasi oggetto, o in
particolare la contemplazione delle realtà più nobili. Nel secondo caso invece la
speculazione sarebbe il guardare qualcosa allo specchio. Nell’Itinerario questi due sensi
sono collegati: ogni considerazione e contemplazione avviene tramite un rispecchia-
mento. Più precisamente, Bonaventura qui usa la parola speculazione per intendere il
“riconoscimento” di Dio come attraverso uno specchio e in uno specchio.
51 Itinerarium, 7.1: «De excessu mentali et mystico, in quo requies datur intellectui, affectu totaliter in
Deum per excessum transeunte.». 52 Cf Itinerarium, prologus, 1: «In principio primum principium, a quo cunctae illuminationes
descendunt tanquam a Patre luminum, a quo est omne datum optimum et omne donum perfectum, Patrem
scilicet aeternum, invoco per Filium eius Dominum nostrum Iesum Christum, ut intercessione sanctissimae
virginis Mariae [...] et beati Francisci ducis et patris nostri, det illuminatos oculos mentis nostrae ad
dirigendos pedes nostros in viam pacis illius, quae exsuperat omnem sensum. Quam pacem evangelizavit
et dedit Dominus noster Iesus Christus. Cuius praedicationis repetitor fuit pater noster Franciscus, in omni
sua praedicatione pacem in principio et in fine annuntians, in omni salutatione pacem optans, in omni
contemplatione ad ecstaticam pacem suspirans, tanquam civis illius Ierusalem, de qua dicit vir ille pacis,
qui cum his qui oderunt pacem erat pacificus: Rogate quae ad pacem sunt Ierusalem.» 53 Cf Di Maio, Conoscenza, riconoscimento, riconoscenza, cit. 54 Come anche in italiano ‘specie’, ‘spettacolo’, ‘specola’, ‘specchio’, ‘ispettore’ e così via; perciò la
speculazione finanziaria è detta così perché lo speculatore guarda il proprio tornaconto e quindi osserva
bene il mercato prima di vendere o comprare.
ANDREA DI MAIO 12
Infatti, per Bonaventura lo specchio è una metafora che indica o la sapienza divina,
o la mente o la natura del mondo55. Qui c’è quindi un gioco di specchi: lo specchio di cui
si tratta nell’opera è proprio la mente che rispecchia il mondo e sé stessa e il senso del
mondo; attraverso questo complesso rispecchiamento, la mente può alla fine riconoscervi
Dio.
Perché però lo specchio è un simbolo così importante? Dobbiamo ricordare che la
vista non è solo il senso più sviluppato per l’umanità, ma è anche quello più riflessivo.
L’occhio cerca di guardare un altro occhio. In qualche modo, diceva già Platone
(nell’Alcibiade primo), il primo specchio è la pupilla di un altro occhio.
In effetti il viso (già nell’etimo latino di ‘visus’) indica tanto gli occhi che guardano
quanto quelli che sono guardati. Addirittura, come ci insegnano gli psicologi della
percezione, non solo il nostro sguardo in una folla va subito a cercare un altro volto, ma
tende a vedere volti persino dove non ve ne sono: sulla luna, sulla facciata di una casa…
Ecco perché lo specchio è un grande simbolo. Nella cultura del tempo, lo specchio
era non solo quello che riflette, ma anche ogni “specchietto” illustrativo (schemi
riassuntivi di una disciplina) e ogni manuale enciclopedico (come quello famoso
realizzato da Vincenzo di Beauvais). Se vogliamo rendere oggi il valore dello specchio,
pensiamo al nostro cellulare o terminale portatile. Non a caso lo schermo del cellulare è
paragonato a uno specchio e una delle serie televisive più inquietanti degli ultimi anni,
sui pericoli dei nuovi mezzi di comunicazione telematica, si intitola Black Mirror.
E qui comprendiamo anche la nostra difficoltà: non sapendo più cosa e chi guardare,
teniamo sempre lo sguardo sullo schermo del cellulare, che però ci riporta nell’esteriorità
e nella dispersione. Invece, abbiamo bisogno di uno specchio per cercare il vero volto
delle cose, di noi stessi e degli altri e dell’Altro. Nelle conferenze sui Sei Giorni,
Bonaventura avrebbe spiegato che non sarebbe saggio guardare allo specchio il volto di
qualcuno che mi fosse davanti56. Dunque il fine dello Specchio è di metterci in rapporto
con un Volto 57.
55 Cf Breviloquium, 1.8: «Est igitur liber vitae respectu rerum ut redeuntium, exemplar ut exeuntium,
speculum ut euntium, lux vero respectu omnium.». La metafora dello specchio in teologia è evidenziata
anche nel Prologo. 56 In Hexaëmeron, 17.25: «Si ego viderem faciem tuam et rogarem te, ut apportares mihi speculum
clarum, ut ibi viderem faciem tuam; stulta esset ista petitio.». 57 Cf In Sententiarum libros, 2.8b.1.6 ad 5: «5. Ad illud quod obiicitur, quod speculum repraesentat
aliud speculum et quae sunt in eo contenta; dicendum, quod duplex est speculum, quoddam naturale, et
quoddam voluntarium. Speculum naturale, sicut naturaliter suscipit, ita et naturaliter reddit, et ita nihil
occulat; ideo speculum sibi oppositum non solum ipsum, sed etiam omne quod lucet in eo, repraesentat.
Speculum autem voluntarium non est in actu manifestationis eorum quae in se continet, nisi cum hoc facit
voluntas; et tale est speculum spirituale.». Alla domanda se sia possibile ad altri (in particolare ad entità
sovrumane e maligne come i demoni) conoscere i segreti della nostra mente, Bonaventura risponde che in
effetti, la mente è uno specchio, e se mettiamo uno specchio davanti a un altro specchio, tutto vi si riflette.
Eppure l’analogia non vale, perché mentre lo specchio naturale non può non riflettere, lo specchio spirituale
riflette solo in quanto può e vuole farlo. Certo, ci sono segni esterni che rivelano i segreti del cuore (del
resto, nella tradizione popolare, attestata dal Pinocchio, le bugie si riconoscono dai loro effetti), ma non è
possibile penetrare nelle menti altrui (se non a Dio solo).
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 13
IL DUPLICE PUNTO DI PARTENZA: PRINCIPIO (ESSENZIALE) E INIZIO (TEMPORALE)
Il prologo dell’Itinerario si apre e si chiude con due frasi emblematiche. Si apre con
le parole: “In principio, invochiamo il Primo Principio…”; si chiude con una frase che
può essere sia il motto dell’opera, sia l’indicazione del suo titolo originario: “Comincia
la speculazione (ossia il rispecchiamento, il percorso di riconoscimento) del povero nel
deserto”58. Dunque, vi è un duplice inizio: l’inizio temporale è l’esperienza e coscienza
della propria indigenza; il principio eterno è il Bene che è desiderato e attrae in quanto si
comunica.
Chi è questo povero che si ritrova all’inizio nel deserto? È ciascuno di noi, e siamo
tutti noi insieme, come umanità: il povero è la Mente stessa che comincia il suo iter.
Siamo poveri per condizione, ma dobbiamo diventare poveri per atteggiamento: del resto
il modello proposto nel prologo era Francesco d’Assisi, di cui viene esaltato il tratto più
fondamentale, che non è la povertà, ma la Pace.
Il “deserto” è riferimento biblico all’esodo e soprattutto all’inizio del pellegrinaggio
del pio Israelita a Gerusalemme, descritto dai salmi graduali.
In altri scritti, Bonaventura spiega meglio questa condizione di indigenza. Ogni cosa
materiale è “da altro, secondo altro e per altro”, ma la mente in particolare si rende conto
di questa sua condizione finita: siamo da altro, perché non siamo padroni della nostra
esistenza; siamo secondo altro perché ci regoliamo sempre secondo modelli esterni
(pensiamo alle leggi naturali); siamo per altro perché siamo sempre alla ricerca di uno
scopo, che quindi non possediamo già; ecco dunque che questa nostra condizione ci
proietta verso Qualcosa o Qualcuno che sia “da sé, secondo sé e per sé”, ossia verso un
“Principio originante e Medio esemplante e Fine compiente”59. Anche quando non
sappiamo se questo esista, sappiamo almeno che la mente lo concepisce.
A questa indigenza ontologica, questo essere finiti (essere “da nulla”) si aggiunge la
miseria, ossia l’annullamento proprio del male60.
Come Bonaventura dice in altri scritti, nessuno di noi è come dovrebbe essere;
almeno in qualche circostanza io non ho fatto ciò che avrei potuto e dovuto fare (anzi ho
fatto ciò che avrei potuto e dovuto evitare di fare); non so se potrò ancora essere come
sarei dovuto e potuto essere61.
Posso se e solo se davvero voglio, ossia (dicevamo già) se sono “persona di grandi
desideri”. Pian piano però l’Itinerario ci mostrerà che possiamo desiderare proprio in
quanto siamo già desiderati da Qualcuno. Cosa desideriamo e cerchiamo? La Pace.
Compimento di ogni desiderio, ma anche oltrepassamento dei desideri nell’unione tra
desiderante e desiderato. Così, ci può dar pace scoprire che cerchiamo perché siamo in
realtà da sempre cercati.
58 Cf Itinerarium, prologus, 1; e tra il prologo e l’inizio dei capitoli. 59 Cf In Hexaëmeron, 1.12 e 5.29. 60 Cf De perfectione evangelica, 1.1 co; De regno Dei, 43. Cf anche Di Maio, Evil..., cit. 61 De perfectione vitae, 1.5.
ANDREA DI MAIO 14
LA SCALA E LO SPECCHIO PER RIORIENTARSI, RICENTRARSI, RIALLINEARSI
(RILETTURA DELL’INTRODUZIONE)
Nei primi nove paragrafi del primo capitolo (e nei cenni di anticipazione e
ricapitolazione che troviamo costantemente in ogni parte dell’opera), Bonaventura
definisce l’articolazione del percorso. Proviamo a ricostruire da quanto dice qua e là una
piccola trattazione sistematica62.
RIORIENTAMENTO ED ELEVAZIONE: LA METAFORA DEL MONTE E DELLA SCALA
Disporre di un buon itinerario è fondamentale per compiere l’iter della vita. Ci serve
di capire da dove partiamo (dalla povertà nel deserto) e dove vogliamo arrivare (alla
Pace), ma anche quali sono i movimenti mentali: dall’esteriorità all’interiorità e
dall’interiorità all’ulteriorità.
Questo riorientamento coincide con una elevazione: infatti questo pellegrinaggio è
simbolicamente una salita del Monte Sion (al tempio di Gerusalemme) e anche, con
Francesco, una salita sul monte della Verna. La metafora della montagna (come quella
della scala) ha un duplice valore: da una parte indica la ricerca di una visione più
panoramica (e quindi totale), ma dall’altra indica anche lo sforzo di andare in direzione
opposta a quella a cui naturalmente tendiamo per gravità (verso il “basso”).
Come si è detto, mentre l’anima spirituale indica il soggetto ontologico, la mente
invece ne indica l’attività consapevole, a tre livelli, ossia verso l’esterno (attraverso i sensi
del corpo), verso l’interno ossia sé stessa (attraverso l’“occhio” della ragione) e verso ciò
che è ulteriore e superiore (attraverso l’“occhio” dello spirito, che è la mente in senso più
eminente). Oggi forse possiamo capire meglio intendendo per “mente” ciò che comune-
mente diciamo “coscienza”, che pure si dice a tre livelli: la coscienza sensibile (cioè
l’essere consapevole delle mie sensazioni), l’autocoscienza e la coscienza morale e
spirituale.
Attraverso lo specchio tripartito della mente scopriamo tre mondi: esterno o
maggiore (ossia il mondo fisico della Natura), interno o minore (ossia il mondo mentale
da cui si sviluppa quel mondo nel mondo che è la Cultura), superiore o archetipo (ossia il
mondo ideale dei Valori supremi).
La realtà si rispecchia nella mente e la storia riecheggia nel racconto, in una
fenomenologia ante litteram63 che però, come vedremo, intende uscire dalla mente
tramite l’amore.
La distinzione dei tre mondi, quello fisico, quello mentale e quello ideale, pur
radicata nella tradizione neoplatonica, è forse il contributo più originale di Bonaventura
alla storia del pensiero. Si tratta di una concezione molto attuale: si pensi che uno dei
maggiori cosmologi contemporanei, Roger Penrose, nel suo monumentale libro La strada
verso la realtà, ripropone, senza nulla sapere di Bonaventura, questa distinzione! Ma
possiamo trovare notevoli analogie in vari pensatori moderni: Cusano (che aveva però
letto Bonaventura) distingue, nella Dotta ignoranza, Dio, Mondo e Uomo-Dio; Kant
62 Itinerarium, 1.1-9 (che non richiameremo più nel corso del paragrafo). 63 Cf Emmanuel Falque, Saint Bonaventure actuel ou intempestif? Le “poème” du Breviloquium, in:
Begasse, Deus summe cognoscibilis, cit., p. 11-38.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 15
distingue le tre Idee (del Mondo, dell’Anima e di Dio); Hegel distingue Idea (ossia Dio),
Natura, Spirito (nel senso di umanità e Cultura); Popper distingue un Mondo 1, 2, 3…
Non dobbiamo pensare questi tre mondi come giustapposti: essi sono, per così dire,
coimplicantisi. È a partire dal mondo fisico che scopriamo il mondo mentale e
supponiamo quello ideale; ma è a partire da quest’ultimo che il mondo mentale e quello
fisico possono essere fondati.
I tre mondi sono concatenati per il triplice livello di esistenza delle cose: ogni cosa
(materiale) ha infatti propriamente una esistenza “in materia” o “in natura propria”
(potremmo dire: una esistenza “qui e ora”); ma prima ancora di esistere così, tale cosa
pre-esiste intelligibilmente (quanto alle sue strutture matematiche) in ogni mente
razionale; inoltre, pre-esiste (quanto alle sue strutture metafisiche) in quella che
Bonaventura chiama “arte eterna” e che identifica con il progetto creativo di Dio. Ogni
livello di esistenza si trova in una diversa dimensione di durata: l’esistenza materiale è
temporale (continuamente modificabile), l’esistenza mentale è eviterna (ha un inizio, ma
è capace di decisioni definitive e quindi di non finire mai), l’esistenza in Dio è eterna
(nella perfetta e beata simultaneità).
Come ognuno confusamente sa (e come Kant ha provato a spiegare a suo modo), le
cose materiali rispondono a leggi fisico-matematiche e metafisiche che noi non ricaviamo
dall’esperienza; quando facciamo calcoli sulle cose, riusciamo a prevedere e anticipare
l’esperienza.
Detto in termini moderni, l’esistenza naturale è la piena manifestazione di una
pre-esistenza trascendentale (nella struttura matematica della nostra mente) e una
pre-esistenza trascendente (nella struttura metafisica). Anche qui Bonaventura ha avuto
intuizioni molto attuali.
Torniamo alla mente considerata come uno specchio a tre livelli: il livello più basso
la mette in comunicazione col mondo fisico, quello più alto col mondo ideale.
Considerandolo come attraversata da un movimento in ingresso e in uscita, ogni livello
si sdoppia, così che la mente si presenta come una scala senaria, ossia a sei gradi o gradini:
la sensibilità (attraverso cui il mondo fisico esterno affètta la mente) e l’immaginazione
(in cui il mondo esterno si rispecchia e si ricostituisce nella mente), la ragione (per cui la
mente si conosce verso le realtà inferiori) e l’intelletto (in cui la mente si conosce verso
le realtà superiori), l’intelligenza (per cui il mondo ideale è intuito, o meglio è “co-intuito”
implicitamente in ogni nostra conoscenza) e apice della mente (in cui il mondo ideale si
rispecchia). I primi cinque gradi erano già stati distinti in un opuscolo del secolo
precedente su spirito e anima, erroneamente attribuito ad Agostino; ma il sesto grado è
aggiunto proprio da Bonaventura, che lo identifica con la “sinderesi”64.
Questo apice della mente (che corrisponde a quello che spesso i mistici chiamano
cuore o spirito o fondo dell’anima…) è la porta nascosta e la sorgente segreta che ci mette
in contatto con l’assoluto: trovare questa porta e aprirla, o scovare questa sorgente e
attingervi, significa realizzare la più grande pace.
64 Parola nata dalla storpiatura della parola greca ‘syneidesis’, normalmente tradotta a calco in latino e
nelle lingue neolatine come ‘conscientia’ (“scienza con”, o consapevolezza concomitante). Nel lessico
teologico medievale, mentre la coscienza è la consapevolezza della qualità buona o malvagia di ogni nostro
atto libero (nel senso che oggi diamo alla coscienza morale), la sinderesi è l’attrattiva profonda che abbiamo
verso il Bene.
ANDREA DI MAIO 16
Descrivendo il mondo ideale, Bonaventura individua un’altra triade, più originaria:
quella di Principio (“da cui” si trae origine), Medio (“secondo cui” ci si modella) e Fine
(“a cui” si tende)65. Tale triade però si può riconoscere di riflesso anche nel mondo fisico
(come le tre cause, efficiente, esemplare, finale) e nel mondo mentale (come memoria,
intelligenza e volontà, o come il soggetto da cui emanano intelletto e affetto, a cui si
aggiunge l’effetto fuori di sé). Componendo insieme la triade verticale e quella
orizzontale otteniamo quella che Bonaventura in altri testi chiama la “Croce intelligibile”,
che è forse meglio visualizzabile come una T (o un tau francescano)66.
Ci rendiamo però conto che la scala naturale che avevamo descritto è sgangherata.
Da una parte comprendiamo che la nostra mente debba essere strutturata scalarmente,
dall’altra constatiamo che non è così. Noi non siamo come dovremmo essere. La nostra
buona condizione originaria e costitutiva si coniuga misteriosamente con una cattiva
condizione originale (che ci appartiene già dall’inizio della nostra esistenza, ma che non
ci costituisce).
Per Bonaventura, la nostra malattia più grave è quell’atteggiamento possessivo che
ha fatto “ricurvare su di sé” l’essere umano67: in tal modo è come se le nostre facoltà si
accartocciassero (per così dire) su sé stesse; lo “sguardo” dei sensi corporei rimane sì in
pieno vigore, ma lo “sguardo” della ragione si offusca e lo sguardo dello spirito rimane
del tutto accecato68. Riprendendo una frase di Anselmo d’Aosta, Bonaventura enuncia un
principio che, se lo intendiamo bene, è ancora molto attuale: “la volontà corrotta corrompe
la natura umana e la natura umana corrotta porta la volontà a corrompersi”69. La
corruzione colpisce infatti le tre nostre capacità di intendere, volere e fare e si esplica
nella ignoranza, nella concupiscenza e nella debolezza; e colpisce persino la nostra
dimensione corporea, attraverso la mortalità, infermità e indigenza.
La corruzione diviene anche sociale: quei beni che se tutti fossero generosi e
distaccati potrebbero essere comuni e condivisi, debbono ora essere invece spartiti; e
quelle norme di comportamento che se tutti fossero rispettosi sarebbero spontaneamente
accettate, ora devono essere imposte da un’autorità coercitiva70.
Insomma, dobbiamo non solo riorientarci ed elevarci, ma dobbiamo innanzitutto
raddrizzarci nella nostra stessa mente, così che in essa (come dirà quasi tre secoli dopo
Ignazio di Loyola al principio degli Esercizi) ciò che è inferiore sia davvero sottomesso
a ciò che è superiore. È l’apice della mente a dover dirigere la nostra vita verso l’alto; non
le sensazioni e le passioni, che ci disperdono nell’esteriorità!
Siamo in grado di riparare da soli la scala delle nostre facoltà? Siamo in grado di
congiungere insieme tutti e tre i mondi e i tre livelli di esistenza della realtà? In realtà no,
ma il tentativo è comunque necessario e utile. Ci servirebbe però un’altra scala (ne
65 Cf In Hexaëmeron, 16.9: «Iste autem septenarius sive in mundo sensibili, sive in mundo minori ortum
habet a mundo archetypo, ubi sunt rationes causales secundum rationem septenarii. Deus enim habet
rationem triformis causae: originantis, exemplantis, finientis, nec potest esse pluribus modis; unde
Apostolus: Ex ipso et per ipsum et in ipso sunt omnia.». 66 Breviloquium, prologus 6; per l’interpretazione, cf Di Maio, La divisione..., cit. 67 Cf Breviloquium, 5.2; De septem donis, 5.8. 68 Cf In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.24. 69 Breviloquium, 3.6 «Et sic persona corrumpit naturam et natura corrupta corrumpit personam, salva
in omnibus divina iustitia, cui nullo modo potest imputari infectio animae, licet eam creando infundat et
infundendo uniat cum carne infecta.». 70 Cf In Hexaëmeron, 18.7; e De perfectione evangelica, 1.1; 2.1; 4.1-2.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 17
riparleremo alla fine): Bonaventura si ispira al simbolo della scala di Giacobbe evocato
da Gesù nel suo dialogo con Natanaele.
Siccome nel sogno Giacobbe aveva visto gli angeli salire e scendere sulla scala tra
cielo e terra, Bonaventura precisa che “bisogna prima salire e poi ridiscendere”,
intendendo che al percorso della riflessione e della contemplazione deve seguire sempre
un percorso di aiuto agli altri71. L’itinerario descritto quindi si conclude alla meta, ma la
mente deve continuarlo con un’azione di educazione e animazione. Perciò anche per
quanto riguarda la corruzione globale, dice Bonaventura, la storia deve puntare a una
guarigione sociale, a tendere cioè a un progresso. Ad esempio, lo stile di umiltà, sobrietà
e condivisione predicato e attuato da Francesco è un contributo al superamento di quei
rimedi sociali che però sono solo come mali minori.
RICENTRAMENTO E RACCOGLIMENTO: LA METAFORA DEL TEMPIO A TRE STANZE
Il tempio di Gerusalemme era una imponente costruzione con elementi uno dentro
l’altro. Dopo la seconda distruzione operata da Tito ne erano rimaste solo le rovine e
Bonaventura ne conosceva molto vagamente la struttura architettonica originaria solo
tramite le descrizioni bibliche. Innanzitutto c’era un grande cortile recintato ma all’aperto
che era l’atrio (in realtà vi erano tre atri successivi, ma Bonaventura li considera come un
unico ambiente) dove potevano entrare i pellegrini; poi un edificio coperto chiamato
Santuario (o “Santo”), dove potevano entrare solo i Sacerdoti; e all’interno di questo,
un’ambiente protetto e separato da un sipario (il “Velo del Tempio”) chiamato “Santo dei
Santi” (in latino: “Sancta Sanctorum”), dove poteva entrare una volta all’anno il solo
Sommo Sacerdote. All’interno del Santo dei Santi, fino alla prima distruzione del tempio
ad opera di Nabucodonosor, era custodita l’Arca dell’Alleanza, ossia la cassa contenente
le tavole dei comandamenti e altri oggetti che testimoniavano l’Esodo dall’Egitto,
poggiata su due statue rappresentanti i Cherubini, e con una lastra di rame su cui andava
asperso il sangue del sacrificio chiamata propiziatorio.
Per Bonaventura, questi tre ambienti del tempio simboleggiano tre ambienti della
mente che riflettono tre mondi: innanzitutto l’atrio, delimitato da un portico, ma a cielo
aperto, simboleggia la parte più bassa della mente che è aperta al Mondo esterno e che
oggi chiameremmo “coscienza sensibile”; poi il santuario, in cui può entrare solo la mente
stessa, rappresenta quella che oggi chiameremmo “autocoscienza” e che è come un
Mondo interno; ma all’interno di questa c’è il santuario più segreto, quello che oggi
chiameremmo “cuore” o “spirito” o “coscienza morale” e dove c’è il punto di contatto
con il Mondo trascendente dei Valori e di Dio.
Una bella conseguenza72 di questo approccio è che tutto è Tempio di Dio, tutta la
realtà è sacra, anche se meno o più: la suprema sacertà è nel Santo dei Santi, ma anche
l’Atrio del mondo esteriore è santo. Solo il male morale ne è al di fuori.
Ma andiamo al centro del Santo dei Santi. I due cherubini rappresentano i due modi
con cui Dio si è manifestato (come essere che fa essere ogni cosa e come amore e bene
che si comunica) e con cui noi possiamo parlarne e soprattutto parlargli; il propiziatorio
71 Cf Legenda Maior, 13.1; De diversis, 46.7 e 54.2: «[…] in scala Iacob aut ascendebat in Deum aut
descendebat ad proximum»; cf anche In Hexaëmeron, 9.10. 72 Cf Marco Moschini, Sapienza e bellezza: un’estetica teologica per leggere la creazione, in: Begasse,
Deus summe cognoscibilis, cit., p. 295-302.
ANDREA DI MAIO 18
rappresenta Gesù Cristo; arrivati al centro di tutto il Tempio, non si è però rintanati, ma
ci si apre al Tutto.
Nella prima conferenza sui Sei Giorni, Bonaventura aveva elaborato una bellissima
metafora: la nostra vita è come un cerchio di cui abbiamo smarrito il centro. Come fare a
ritrovarlo? Come in geometria euclidea il centro di un cerchio si ritrova all’incrocio delle
diagonali del quadrato ad esso circoscritto, così per noi il centro della nostra vita si ritrova
attraverso la Croce di Cristo73. Fuor di metafora: solo l’amore davvero gratuito
(dimostrato dalla disponibilità a sacrificarsi) ci fa trovare il senso della nostra vita.
L’itinerario consiste quindi nell’attraversare la l’Atrio per entrare nel Santuario e
infine per penetrare nel “Santo dei Santi”. Si tratta quindi di un esercizio di
“raccoglimento”, che dovremmo fare costantemente, o almeno di tanto in tanto; perlopiù
infatti noi viviamo “fuori noi stessi”, ma dovremmo almeno ogni tanto spostare
l’attenzione al centro: percepire che percepiamo, pensare che pensiamo, per finalmente
cogliere “che siamo” e che siamo amati.
Attenzione: questo entrare sempre più in noi stessi non è però un isolarsi. La vera
intimità non è mai intimismo. La mente non è una monade: quando io entro in me stesso
scopro ciò che mi accomuna a tutte le altre menti, ossia capisco il carattere cooperativo
della mente: il Mondo interiore è intersoggettivo, attraverso la cultura e il sapere e la
comunione.
Alla fine dell’itinerario il rientrare pienamente in sé coincide con l’uscire da sé
tramite l’amore: Bonaventura parla di “eccesso mentale” (estasi, cioè di uscita da sé). A
differenza di una moderna fenomenologia, qui alla fine la mente deve trascendere sé
stessa e tramite l’amore entrare pienamente nella realtà.
RIALLINEAMENTO DELLA VOLONTÀ ESPLICITA E DI QUELLA PROFONDA; RIAPPROPRIAZIONE, RICONOSCIMENTO E RICONOSCENZA
Chi è povero cerca il bene; la mente cerca in particolare la Pace. Ora, per cercare
dobbiamo desiderare e per accendere il desiderio abbiamo due leve: il fulgore della
speculazione e il clamore dell’orazione. In altre parole, la speculazione ci fa vedere
qualcosa di bello che accenda il desiderio; il non conseguire subito questo desiderio ci fa
gemere, chiamare, bussare, ossia cercare più profondamente. Questo esercizio ci porta a
riequilibrare il rapporto tra impegno attivo e recettività del dono.
Se la mente è come uno specchio, allora come ogni specchio deve essere polito e
terso, dice Bonaventura74: l’impegno nostro sarà quello di renderlo tale; dopo di che
rifletterà con chiarezza quello che ci interessa. Guardare allo specchio quindi sarà un
riconoscervi un Volto.
Tra l’inizio e la fine dell’itinerario notiamo un riallineamento di passività e attività75:
all’inizio si dice che servono sia l’impegno che la recettività; progressivamente si capisce
che l’impegno consisterà nel favorire la recettivà; ma alla fine dell’itinerario la mente del
73 Cf In Hexaëmeron, 1.24. 74 Cf Itinerarium, 4.9; In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.25. 75 La dinamica di dono e risposta è interpretata con le categorie di industria e grazia (ossia di attività e
passività), rielaborazione di categorie usate da Tommaso Gallo nei suoi commenti dionisiani. Cf In
Hexaëmeron, 22.24: «Abbas Vercellensis assignavit tres gradus, scilicet naturae, industriae, gratiae. Sed
non videtur, quod aliquo modo per naturam anima possit hierarchizari. Et ideo nos debemus attribuere
industriae cum natura, industriae cum gratia, et gratiae super naturam et industriam.».
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 19
lettore è invitata a sbilanciarsi nella recettività fino al punto di abbandonare ogni impegno
per sprofondare nella fruizione del dono76. Dunque tutto l’itinerario è un percorso di
educazione alla gratuità. Non si capisce il dono se non passando attraverso lo scacco: se
pur facendo tutto il possibile, non posso avere quello che desidero, ma poi lo ritrovo,
questo è solo per dono.
All’inizio c’è il desiderio. Possiamo dire oggi che il nostro desiderio esplicito (che
che altrove Bonaventura chiama volontà deliberata) non è allineato al nostro desiderio
più profondo (che altrove Bonaventura chiama volontà naturale e, nell’Itinerario,
sinderesi). Sicuramente cerco: ma cosa cerco, cosa voglio veramente? E quello che
voglio, è veramente quello che nel più profondo voglio? Questa volontà più profonda è
in realtà non un mio volere arbitrario, ma come il risultato di un’attrazione, ossia un essere
voluto, o forse “benvoluto”. Dobbiamo andare a indagare a fondo nei nostri desideri per
scoprire quello che è fondamentale, accoglierlo, riconoscerlo come un desiderio ricevuto
(un essere desiderati) e quindi liberare la meraviglia, l’esultanza, la gratitudine.
Per concludere, possiamo dire oggi che l’itinerario consista nel riappropriarci della
nostra vita, ossia nel riconoscerla, passando subito però alla riconoscenza. Attenzione
quindi a dare il giusto senso a questa opera di riappropriazione della nostra vita.
Bonaventura, fedele alla vocazione francescana di vivere la forma del Vangelo “senza
alcunché di proprio”, esclude ogni appropriazione che blocchi i beni a sé: se già secondo
Agostino il male è una privazione di bene, secondo Bonaventura il male è una
privatizzazione del bene di per sé comune o comunicabile!
LA PRIMA TAPPA: IL MONDO ESTERNO O MAGGIORE O MACROCOSMO
CHE È LA NATURA (RILETTURA DEI CAPITOLI 1-2)77
Della prima tappa, basti dire che il mondo esterno viene ricostituito dalla percezione
dentro il Microcosmo stesso che è la mente. Ciò che noi percepiamo come esistente al di
fuori di noi, lo vediamo rispecchiato in noi, cioè abbiamo ricostituito nella parte “più
bassa” e “verso l’esterno” della nostra mente.
76 Cf Massimo Tedoldi, L’intellectus si consegna all’affectus: la ricerca di Dio nell’Itinerarium mentis
in Deum, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 93-110, che mette acutamente a confronto
questi tre testi dell’Itinerarium.
Per l’iniziale bilanciamento di attività e passività, cf Itinerarium, prologus, 4: «primum quidem
lectorem invito, ne forte credat quod sibi sufficiat lectio sine unctione, speculatio sine devotione,
investigatio sine admiratione, circumspectio sine exsultatione, industria sine pietate, scientia sine caritate,
intelligentia sine humilitate, studium absque divina gratia, speculum absque sapientia divinitus inspirata.».
Per il finale sbilanciamento verso la passività, cf Itinerarium, 7.5: «Quoniam igitur ad hoc nihil potest
natura, modicum potest industria; parum est dandum inquisitioni et multum unctioni. Parum dandum est
linguae et plurimum internae laetitiae. Parum dandum est verbo et scripto et totum Dei dono, scilicet Spiritui
sancto. Parum aut nihil dandum est creaturae et totum creatrici essentiae, Patri et Filio et Spiritui sancto
[...]».
Per il totale superamento dell’attività nella passività, cf Itinerarium, 7.6: «Si autem quaeras quomodo
haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non intellectum; gemitum orationis, non studium
lectionis; sponsum, non magistrum; Deum, non hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem
totaliter inflammantem et in Deum excessivis unctionibus et ardentissimis affectionibus transferentem.». 77 Cf Itinerarium, 1-2 (a cui si rimanda per tutto il capitolo).
ANDREA DI MAIO 20
Proviamo a catalogare innanzitutto quanto percepiamo. Vediamo cose che esistono
e basta (e che sono quindi solo inerti e passive), cose che esistono e vivono (che quindi
godono di una qualche attività), cose che esistono e vivono e distinguono (e quindi
sembrano godere di un’attività addirittura eccedente, autonoma o libera). Possiamo quindi
concludere che in questo mondo fisico si trovi anche un mondo mentale irriducibile al
precedente; possiamo perfino supporre che oltre a questi due mondi esista un mondo
totalmente spirituale e trascendente.
Normalmente noi viviamo totalmente proiettati all’esterno: percepiamo oggetti ed
eventi e li correliamo e interpretiamo costantemente, senza pensarci; ogni tanto però è
utile spostare la nostra attenzione dalle cose percepite alla nostra percezione delle cose.
Facciamo attenzione, allora, non più a ciò che sento, ma al mio sentirlo. In questo,
Bonaventura precorre la moderna fenomenologia e psicologia della percezione.
Percepiamo continue trasformazioni (generazioni e rigenerazioni), che sono possibili
solo ammettendo che i fenomeni complessi (“generati”) siano il risultato della
ricomposizione di materiali “generanti” e di forze “governanti”.
Alla singola percezione si accompagna una connotazione di piacere o dispiacere che
è fondamentale per l’elaborazione del giudizio. In particolare, il sentimento di piacere
offertoci da gusto e tatto ci insegna a riconoscere ciò che “ci fa bene” (pur con tutti i
possibili “falsi positivi” che il giudizio può correggere) e ci offre un simbolismo da usare
anche in chiave spirituale. Non a caso, infatti, il vero sapere (la sapienza) è così chiamato,
in quanto è il sapore della vita, gustato interiormente.
Il mondo maggiore ricostituito internamente è un po’ un mondo inconscio che però
affiora alla nostra coscienza attraverso dati memorizzati e attrattive o repulsioni.
In generale, tutto il mondo naturale si presenta come una riserva di simboli per la
mente, ossia di realtà sensoriali che cogliamo come rimandi a qualcosa di non sensoriale.
LA SECONDA TAPPA: IL MONDO INTERNO O MINORE O MICROCOSMO
CHE È LA CULTURA (RILETTURA DEI CAPITOLI 3-4)
UN MONDO NEL MONDO: L’AUTOCOSCIENZA E LA “CULTURA” 78
La mente ama, conosce, riconosce sé stessa nella volizione, intelligenza e memoria
che ha di sé.
La memoria non è qui intesa come facoltà sensoriale, ma come il recesso di quanto
sappiamo senza mai averlo imparato; ciò che la filosofia aristotelica chiamava nozioni
prime e primi princìpi del sapere la filosofia odierna chiamerebbe “certezze precate-
goriali” e che in Agostino prende il posto della reminiscenza platonica. Pensiamo anche
a come oggi sappiamo considerare l’istinto del linguaggio: non si sviluppa solo per
imitazione, ma per attivazione di strutture profonde.
L’intelligenza è la capacità di concepire, giudicare e inferire.
La volontà si nutre di tre momenti: il consiglio (ossia la distinzione tra bene e
meglio), il dovere, il desiderio di felicità.
78 Cf Itinerarium, 3 (a cui si rimanda per tutto il paragrafo).
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 21
Molto interessante è l’approccio bonaventuriano alla vita morale: prima ancora di
scoprire i nostri doveri, noi scopriamo le preferenze (il discernimento che ci fa distinguere
tra alternative più o meno buone), ma non potremmo cogliere questa gradazione se non
avessimo in mente almeno confusamente un ideale di sommo bene, rispetto a cui
giudicare qualcosa come migliore o peggiore… Solo a questo punto, cerchiamo di
regolarci con un giudizio certo, che è quello della legge morale, il cui primo dovere, che
esprime implicitamente tutti gli altri, è (secondo le Conferenze sui Sei Giorni) la celebre
regola aurea di fare e di non fare agli altri ciò che nel profondo rispettivamente si vuole o
non si vuole sia fatto a sé79. Ma alla fine, tutto questo si compie nel desiderio supremo di
felicità, che ci porta ad amare (e quindi a cercare il Sommo Bene, il che, se ci pensiamo,
equivale a riconoscere che amiamo perché siamo amati).
Fin qui la considerazione della vita interna della nostra mente. Ma a questo punto
Bonaventura aggiunge che la considerazione del mondo interno “si dilata” alla
considerazione di tutto quell’ambito che oggi chiameremmo Cultura, la cui conoscenza
riflessa oggi chiameremmo Sapere80.
Per capire questo passaggio dall’esteriorità all’interiorità, dobbiamo esplicitare
alcuni cenni che Bonaventura fa nella sua quarta conferenza sui Sei Giorni: a partire dal
mondo naturale delle cose, e anzi al suo interno, si forma un duplice “mondo nel mondo”,
cioè quello del linguaggio e quello delle istituzioni81. Da questa articolazione deriva il
sistema delle scienze: le scienze naturali, ossia delle cose; le scienze razionali del
linguaggio; le scienze morali dei comportamenti umani.
In particolare, le cose sono considerate nella loro materialità dalle scienze naturali
vere e proprie; sono considerate poi nella loro struttura intelligibile, nelle scienze
matematiche; sono considerate infine nella loro struttura ideale, in quelle scienze ideali
che oggi chiameremmo logica e ontologia: invece, come Bonaventura dirà nelle
conferenze sui Sei Giorni, quella che noi intendiamo come Metafisica in senso eminente
è una scienza ulteriore, che in realtà è sapienza, tanto necessaria, quanto (parados-
salmente) impossibile. Tutte le scienze quindi sono intrinsecamente filosofiche, ossia
tendenti alla Sapienza: il Sapere esige infatti il passaggio dalla considerazione degli
oggetti (o, in senso moderno, da una considerazione oggettivante) alla riflessione sul
soggetto stesso e soprattutto alla contemplazione del Principio, la sola che si possa dire
“sapienza saporosa”, conoscenza esperienziale del gusto o senso della vita. Per dirla
infatti con una metafora: “Sapere senza Sapore, a che giova?”82. Questa ricerca rimane
naturalmente inconclusa. “Giustamente perciò i filosofi promisero la Sapienza, ma non
poterono mantenere la promessa”83.
79 Cf In Hexaëmeron, 5.18: « Secundus modus est forma convivendi, ut: “Quod tibi non vis fieri, ne
facias alteri”. Hoc in corde scriptum est per legem aeternam. Ex hac naturali lege emanant leges et canones,
pullulationes pulcrae.». 80 Cf Di Maio, La divisione..., cit. 81 Cf In Hexaëmeron, 4.2: «Veritas rerum est indivisio entis et esse, veritas sermonum est adaequatio
vocis et intellectus, veritas morum est rectitudo vivendi.»; e 4.5: « Omne, quod est, aut est a natura, aut a
ratione, aut a voluntate.». 82 In Hexaëmeron, 22.21: «Multa enim scire et nihil gustare quid valet?». 83 In Hexaëmeron, 5.22: «Postmodum voluerunt ad sapientiam pervenire, et veritas trahebat eos; et
promiserunt dare sapientiam, hoc est beatitudinem, hoc est intellectum adeptum; promiserunt, inquam,
discipulis suis.»; e 5.33; cf anche In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.22: «Promiserunt quidam discipulis dare
sapientiam per quam essent beati sed defecerunt.».
ANDREA DI MAIO 22
La dilatazione del mondo interno nella Cultura e nel suo Sapere è significativa: la
mente non può essere considerata una monade senza relazioni e cooperazione con
l’esterno e con altre menti: essa non solo ha quelle porte sul mondo che sono i sensi
corporei; ma essa è essenzialmente cooperativa e intersoggettiva. Il linguaggio e le
istituzioni, ossia la Cultura, sono la riprova che il Microcosmo interiore non è un Io
separato, ma è la stessa umanità, che in qualche modo precede e in qualche modo segue
ogni individuo umano.
UNA CULTURA CHE NON È SOLO PRODUZIONE DI SENSO: LA RELIGIONE84
Nel mondo della cultura umana troviamo però un fenomeno che non è riducibile a
produzione culturale di senso, ma che può anche arrivare a presentarsi come una
Rivelazione di senso. Si tratta di quella che oggi chiameremmo Religione e che
Bonaventura (nel quarto capitolo dell’Itinerario) identifica con la grazia presentata dal
Cristianesimo.
Come le Scienze (il Sapere) aiutano la mente a esplorare il mondo della Cultura, così
la Bibbia (intesa oggi come Rivelazione)85 aiuta a esplorare e descrive questo mondo
speciale che è la Religione.
Bonaventura ne individua il centro nel Verbo (ossia in quello che oggi chiameremmo
Senso della Vita). La peculiarità del Cristianesimo è di proporre che il Senso della Vita
esista e ci preceda (ossia che è Colui per cui tutto fu fatto ed è, in quanto Verbo increato)
e che tale Senso si sia “fatto” uomo (in quanto Verbo incarnato), ossia che si sia rivelato
pienamente in un Fatto, che è Gesù Cristo, e che è reso presente (in quanto Verbo ispirato)
mediante lo Spirito nel cuore dei fedeli86.
La triplice relazione personale che la mente (quanto alla sua triplice capacità di
intelletto, affetto ed effetto) ha con il Cristo è la fede, la speranza e la carità. Da questa
relazione emerge un nuovo livello di esperienza, o meglio un nuovo livello di
comprensione dell’esperienza: si tratta di “sensazioni spirituali” e di sentimenti o “frutti
spirituali”, descritti con metafore tratte dall’esperienza corporea, ma che hanno una
valenza spirituale. La fede fa per così dire “ascoltare”, “vedere”, “odorare”, “toccare”,
“gustare” cio che trascende ogni sensazione; ma fa anche produrre sentimenti di pace,
gioia, amore…, che pur simili ai sentimenti ordinari, se ne distinguono per la diversa e
misteriosa origine.
Anticipando in qualche modo l’intuizione di Kierkegaard sull’autopsia della fede e
sulla contemporaneità paradossale di ogni discepolo con il Maestro eterno nel tempo,
Bonaventura tratta dell’esperienza cristiana per cui tutti possono e devono esperire
(tramite la Scrittura e l’Eucaristia) il Verbo ispirato, anche se perlopiù non hanno
incontrato storicamente il Verbo incarnato87.
84 Cf Itinerarium, 4 (a cui si rimanda per tutto il paragrafo). 85 Cf Di Maio, Sacra Scriptura..., cit. 86 Cf Itinerarium, 4.3 «Anima igitur credens, sperans et amans Iesum Christum, qui est Verbum
incarnatum, increatum et inspiratum, scilicet via veritas et vita [...]». Cf Di Maio, Sacra Scriptura, cit., p.
127-130. Cf anche Amaury Begasse de Dhaem, Il triplex Verbum bonaventuriano: Cristocentrismo
trinitario e singolarità/universalità della salvezza, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 333-
352: il Verbo in quanto increato rimanda al Padre, in quanto incarnato rimanda a sé, in quanto ispirato
rimanda allo Spirito, in una perfetta integrazione di cristologia e teologia trinitaria. 87 Cf In Hexaëmeron (Delorme), 2.2.6: «Beati quidem qui audierunt Verbum incarnatum, sed nunc
omnes audiunt Verbum inspiratum»; cf In Lucam, 24.39-62 (il differimento accresce il desiderio).
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 23
LA TERZA TAPPA: IL MONDO ULTERIORE O IDEALE O ARCHEOCOSMO DEI VALORI
(RILETTURA DEI CAPITOLI 5-6)88
Mentre il confine tra esteriorità e interiorità è chiaro e costitutivo per la mente, è più
complesso il passaggio alla dimensione della ulteriorità (alla realtà di sopra, dice
Bonaventura) e quindi a quel mondo che nelle Conferenze sui Sei Giorni è definito come
“archetipo”89.
Nel primo capitolo dell’Itinerario, Bonaventura ci arriva con questo ragionamento:
se esistono realtà esteriori e interiori, dovrebbero esserci realtà superiori; se esiste una
temporalità mutevole delle cose materiali ed esiste anche una “eviternità” (una capacità
di decidersi) nelle menti, ci deve essere anche una eternità simultanea e perfetta; se ci
sono in natura entità che esistono e basta, entità che esistono e vivono, ed entità che
esistono e sono capaci di discernimento; ossia ci sono realtà corporali, realtà miste e realtà
spirituali; allora, ci dovrebbero essere realtà spiritualissime.
Prescindiamo al momento dalla questione dell’esistenza di Dio. La mente comunque
riscontra un “al di là” costituito da quel mondo ideali di Valori.
Questi Valori supremi, da cui prende valore ogni cosa, sono fondamentalmente due:
Essere e Bene, li chiama Bonaventura riallacciandosi alla tradizione filosofica (aristo-
telica e platonica) e biblica (veterotestamentaria e neotestamentaria)90. Oggi forse
potremmo intendere meglio questi due Valori supremi come “Esistere” e “Amare”.
Ebbene, arrivato al centro del mio centro, cosa trovo? Sono da solo di fronte a me
stesso e all’enigma dell’essere e dell’amore, oppure trovo là Qualcuno? L’esperienza
cristiana è quella di trovare Qualcuno e di riconoscervi quello che alla fine della
precedente tappa era stato conosciuto, tramite la Bibbia e la Chiesa, come Gesù il Cristo,
il consacrato del Padre in Spirito Santo.
LA CONCLUSIONE: L’USCITA DA SÉ (RILETTURA DEL CAPITOLO 7
E DELLE SEZIONI SUL RICONOSCIMENTO DI DIO NEI PRIMI SEI CAPITOLI)91
Nell’Itinerario, tappa per tappa Bonaventura opera un riconoscimento teologico.
Nella nostra rilettura umanistica, riportiamo tutte le sue esplicazioni cristologiche e
trinitarie solo qui alla fine.
UNO SPECCHIO ANCORA, LA BIBBIA; UNA NUOVA SCALA E IL MEDIATORE
Abbiamo già parlato di tre specchi, ora ne dobbiamo introdurre un quarto. Il primo
specchio è la Natura, il secondo specchio è la mente stessa, il terzo specchio è la Sapienza
divina, che però noi cogliamo solo indirettamente in quanto riflessa nei primi due specchi;
vi è però l’aiuto di un quarto specchio, che è la Bibbia (di cui si parla nella terza sezione
88 Cf Itinerarium, 5-6 (a cui si rimanda per tutto il capitolo). 89 Cf In Hexaëmeron, 16.9. 90 Cf Alessandro Ghisalberti, “Ego sum qui sum”. La tradizione platonico–agostiniana in San Bona-
ventura, in: “Doctor Seraphicus” 40 (1993), p. 17-33. 91 Cf Itinerarium, 7 e delle seconde metà dei capitoli 1-6 (laddove si opera il riconoscimento trinitario
nelle strutture ontologiche e mentali individuate tappa per tappa).
ANDREA DI MAIO 24
o visione delle Conferenze sui Sei Giorni). Antico e Nuovo Testamento sono come la
descrizione della duplice manifestazione di Dio, rispettivamente come Colui che è (e
quindi che fa essere, come Creatore) e come l’unico Buono (e quindi come Amore
trinitario e Salvatore). Ma i due Testamenti si riferiscono a qualcosa che è descritto al
loro interno, ma che esiste al di là di essi: ossia il Cristo, come mediatore e propiziatorio.
Bonaventura, alludendo al sogno di Giacobbe richiamato anche da Gesù a Natanaele,
identifica tale Scala con Gesù stesso, che avendo corpo, anima e divinità, è la perfetta
congiunzione dei tre mondi fisico, mentale e ideale nella sua stessa persona. Senza questa
scala (che appartiene alla fede cristiana) rimane al filosofo l’aspirazione all’ideale di
umanità perfetta, a cui perlomeno tendere indefinitivamente.
Il dogma cristiano dell’incarnazione garantisce che Cristo sia la nuova e definitiva
scala che non solo ripara la scala naturale sgangherata dal peccato, ma la perfeziona. Il
dogma cristiano della redenzione garantisce che Cristo sia il propiziatorio che consenta
la riconciliazione e l’unione con Dio. Cristo è quindi la “chiave di sistema” di tutto il
sapere e di tutto il reale.
RICONOSCIMENTO “PER” E RICONOSCIMENTO “IN”
Bonaventura distingue tra una speculazione “per” (ossia attraverso l’impronta,
l’immagine, il nome Essere, rispettivamente nei capitoli primo, terzo e quinto), e una
speculazione “in” (ossia nell’impronta, nell’immagine somigliante, nel nome Bene,
rispettivamente nei capitoli secondo, quarto e sesto). Questa distinzione sembra
macchinosa, ma se intendiamo la speculazione come il riconoscimento di un Volto allo
specchio, abbiamo due gradi del riconoscimento. Possiamo infatti inizialmente
riconoscere attraverso quanto vediamo allo specchio che ci deve essere un volto;
possiamo poi riconoscere proprio in quanto vediamo nello specchio il Volto cercato. Ad
esempio, un autista di autobus attraverso lo specchio retrovisore può riconoscere che alla
fermata sta salendo qualcuno dalla porta posteriore; però, facendo più attenzione, può
riconoscere che sta salendo proprio Tizio o Caio. Facciamo un altro paragone. Posso
riconoscere attraverso alcuni segni o suoni che essi non sono casuali ma costituiscono una
espressione linguistica; posso poi riconoscere in quei segni e suoni una frase
comprensibile.
Nella sua opera di commentatore biblico e di predicatore, Bonaventura aveva più
volte riflettuto sull’enigmatico preannuncio del Battista: “In mezzo a voi sta uno che voi
non conoscete”92. Il centro della realtà è implicitamente già noto a tutti, ma solo a partire
da alcuni “segni” può essere esplicitamente riconosciuto.
Riguardiamo in questa ottica il mondo fisico, quello mentale e quello ideale. Il
mondo fisico che si specchia nella nostra mente rispecchia a sua volta il mondo ideale e
quindi Dio stesso: possiamo riconoscervi quelle che, metaforicamente, Bonaventura
chiama le impronte di Dio (le sue vestigia). Come le impronte sul terreno indicano
attraverso una mancanza (il vuoto prodottosi nel terreno) una qualche presenza (il piede
che ha lasciato l’impronta), così nel mondo fisico il fatto che, ad esempio, i fenomeni
siano da altro, secondo altro e per altro rimanda a un principio originante, medio
esemplante e fine compiente.
A maggior ragione il mondo mentale che si specchia in sé rispecchia Dio. La mente
con la sua memoria, intelligenza e volontà è immagine di Dio: biblicamente, non bisogna
92 Cf In Hexaëmeron, 1.20; Sermo “Medius vestrum”.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 25
concepire Dio a immagine dell’umanità (questo infatti sarebbe un idolo), ma semmai
concepire l’umanità come immagine di Dio (e questo è quello che oggi diremmo icona)93.
Se poi la mente vive la vita spirituale delle virtù, questa immagine è anche somigliante
(la virtù è, biblicamente, ma anche platonicamente, imitazione di Dio).
Come Bonaventura spiega nella prima conferenza sui Sei Giorni, il peccatore non
perde mai l’immagine di Dio, bensì la sua somiglianza; ecco quindi la massima pena del
peccato: la contraddizione (oggi diremmo l’alienazione) insita nell’essere una immagine
non somigliante di Dio94. Il peccato è una imitazione caricaturale, una scimmiottatura di
Dio, non una sua verace imitazione.
Per concludere, i Valori supremi che costituiscono il mondo ideale possono essere
riconosciuti e usati come i Nomi di Dio: quelle relazioni esistenziali a lui ciò che ci
consentono di parlarne e soprattutto di parlargli. Chiamare Dio “Essere”, ossia “Colui che
è” e che fa essere, è il modo di rapportarsi a Dio di ogni monoteismo creazionista, come
in Mosè e come in alcuni filosofi antichi). Chiamare Dio “Bene” o “Amore” (e quindi
“Padre”, “fratello” in Gesù, “amico” come Spirito95) è il modo di rapportarsi a Dio proprio
del Cristianesimo.
RICONOSCIMENTO E RICONOSCENZA
Ma ora che guardiamo tutto allo specchio, dobbiamo riconoscervi un Volto. E una
volta riconosciuto questo Volto, non possiamo rimanere a guardare lo specchio96; quindi,
lasciando lo specchio, dobbiamo incontrarci con questo Volto misterioso e amabile in un
trasporto d’amore unitivo, come quello tra due sposi.
Bonaventura chiama ‘contuitus’ (“contuizione”) lo sguardo mentale che
progressivamente riconosce Dio in tutto o tutto in Dio: mentre nell’Itinerario alla fine di
ogni tappa (nei capitoli pari) si ha una contuizione di Dio rispettivamente nelle sue
vestigia nel macrocosmo, nella sua immagine somigliante nel microcosmo e nel suo nome
Bene nell’archeocosmo e infine nell’estasi finale, come pure nell’estasi finale, invece
nella trattazione filosofica dello stesso itinerario tale contuizione si ha solo alla fine, nel
93 Quindi, il discorso bonaventuriano risponderebbe alle istanze fatte proprie da Marion, per rispondere
alla critica heideggeriana all’ontoteologia. In effetti, per Bonaventura, Dio non è oggetto della scienza
metafisica, ma principio fontale da cogliere per contemplazione sapienziale [cf In Hexaëmeron, 5-6]. 94 Cf In Hexaëmeron, 1.26: «Diabolus enim paralogizavit primum hominem et supposuit quandam
propositionem in corde hominis quasi per se notam, quae est: creatura rationalis debet appetere
similitudinem sui Creatoris, quia scilicet est imago – unde in damnatis erit maxima poena, quia, cum imago
sit animae essentialis, similiter et talis appetitus erit essentialis in damnatis». 95 Cf Itinerarium, 4.8: «mens nostra repleta a divina Sapientia, tanquam domus Dei inhabitatur, effecta
Dei filia, sponsa et amica; effecta Christi capitis membrum, soror et coheres». 96 Cf In Hexaëmeron, 17.25.
ANDREA DI MAIO 26
passaggio alla sapienza filosofica97; inoltre in ambito teologico retrospettivamente si
riconosce tutto in Dio98.
La terminologia è illuminante: si tratta di contuizione (“visione con”) e non di
intuizione diretta e immediata di Dio (come nell’ontologismo di Gioberti); non si tratta
nemmeno di cogliere il mondo come un tutto (come nel Tractatus di Wittgenstein il
mistico – nel senso di enigmatico ed ineffabile – è che il mondo sia, mentre è scientifico
come esso sia). Si tratta piuttosto di cogliere il mondo come un tutto che necessita di un
principio e risalire per risoluzione al suo principio datore dell’essere, che è Dio99.
Nella descrizione dei tre mondi esaminati e, parallelamente, nella descrizione delle
tre fasce della mente in cui questi tre mondi si riflettono, ritroviamo strutture triadiche, a
volte orizzontali, ossia sullo stesso livello (come “principio”, “medio”, “fine”), a volte
verticali (come “esteriorità”, “interiorità”, “ulteriorità”): se il filosofo li considera solo
come strutture reali o mentali, il teologo cristiano non può non notare una prima
corrispondenza tra la prima triade e la trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e
una seconda corrispondenza tra la seconda triade e la costituzione ontologica di Cristo,
nella cui persona si uniscono corpo, anima umana e divinità100.
Ma l’articolazione in triadi non è una forzatura teologica101: la struttura triadica del
pensare è stata messa in luce anche da Kant, da Hegel, da Peirce… Inoltre, è
particolarmente suggestivo il ricondurre la molteplicità della realtà empirica non ad una
97 Il contuitus di Dio (o il contueri Dio) è menzionato in Itinerarium 2.11, 4.2, 6.1-2, 7.1: alla fine di
ogni tappa (in particolare nel grado dedicato al riconoscimento “in”) e poi alla fine di tutto l’opuscolo.
Invece, nella trattazione filosofica, si trova nel passaggio tra filosofia e sapienza [cf In Hexaëmeron, 5.24:
«Similiter operatio vel potentia divina duplex est: una, quae se convertit ad contuenda divina spectacula;
alia, quae se convertit ad degustanda divina solatia.»; ; 5.33: «Dum haec igitur percipit et consurgit ad
divinum contuitum, dicit, se habere intellectum adeptum, quem promiserunt philosophi; et ad hoc veritas
trahit.»]. Per la visione di Dio in tutto cf anche Maurizio Malaguti, La solarità originaria: La trasparenza
del contuitus in San Bonaventura, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 63-72. 98 Nella riconsiderazione per fede delle generazioni che fanno conoscere la generazione del Verbo,
abbiamo invece vedere tutto nel Verbo; cf In Hexaëmeron, 11.20: «Has duodecim conditiones aggrega, et
habebis speculum ad contuendum exemplar divinum sive Verbum, quod omnia repraesentat: ut splendor
procedens a luce cum perfectione aequalitatis». 99 La resolutio, operazione inversa alla compositio, può avvenire mentalmente attraverso una
intellezione (‘intellectus’ nel senso di atto, non di facoltà) in forma o piena o semipiena. Cf In Sententiarum
libros, 1.28 ad db 4: «Intellectu resolvente semiplene, potest intelligi aliquid esse, non intellecto primo ente.
Intellectu autem resolvente perfecte, non potest intelligi aliquid, primo ente non intellecto.»; In
Hexaëmeron, 11.10: «intellectus duplex est: perfectus et plenus et plene resolvens; et tali intellectu non est
intelligere sic; intelligere autem semiplene potest intellectus defectivus sic, quod resolvat in plura, quae in
Deo sunt unum, aliter non.». La forma piena è quella teologica, che arriva a cogliere nell’azione divina
l’opera delle singole persone della Trinità. 100 Cf In Hexaëmeron, 1.13: «Metaphysicus autem, licet assurgat ex consideratione principiorum
substantiae creatae et particularis ad universalem et increatam et ad illud esse, ut habet rationem principii,
medii et finis ultimi, non tamen in ratione Patris et Filii et Spiritus sancti.». De reductione, 20: «summa
perfectio et nobilissima in universo esse non possit nisi natura in qua sunt rationes seminales et natura in
qua sunt rationes intellectuales et natura in qua sunt rationes ideales simul concurrant in unitatem personae
quod factum est in filii dei incarnatione.» . In Hexaëmeron, 8.9: «sicut in Deo aeterno est trinitas
personarum cum unitate essentiae, ita etiam in Deo humanato sunt tres naturae cum unitate personae.». 101 Una delle cose che più sorprende nell’Itinerario è lo sforzo costante (e quasi eccessivo) a ritrovare
triadi nella struttura del Mondo esterno e di quello interno. Dobbiamo però capire che queste triadi (come
ogni “ennario” o struttura di n elementi) in Bonaventura è in buona parte un espediente retorico e non va
assolutizzato.
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 27
unità solitaria, ma alla comunione tripersonale divina: questo comporta che né l’unità, né
la molteplicità siano l’ultima parola, ma che la uni-pluralità sia il valore supremo102.
Oggi, poi, grazie a quei filosofi comunemente definiti “maestri del sospetto”, ci
rendiamo conto che questa corrispondenza paradossale pone un dilemma: è la mente a
vedere tutto trino perché Dio è trino, oppure Dio è pensato come trino perché la mente ha
una struttura triadica? Più in generale, la nostra mente va alla scoperta del Senso della
Vita, che il Verbo di Dio, oppure questo senso è solo una proiezione della nostra mente?
Siamo noi a proiettarci un Dio a immagine e somiglianza nostra, o è Dio a creare noi a
immagine e somiglianza sua?
Inoltre, la “coincidenza degli opposti”103 di attributi in Dio e il duplice “paradosso”
o “scandalo essenziale” della coesistenza di eternità e tempo, infinità e finitudine,
immortalità e morte in Cristo104, è motivo di stupore, che oggi può risolversi o
nell’ammirazione della fede e della contemplazione o nel rifiuto e nello scandalo. Ma,
sempre oggi, possiamo con Kierkegaard, Blondel, Marcel… rileggere questo dilemma tra
assurdo nichilistico e mistero, in cui possiamo ragionevolmente optare per il mistero.
In tal caso, il riconoscimento si fa riconoscenza: riconoscimento di un Dono e quindi
gratitudine. Wittgenstein consiglia di gettare dietro di sé la scala dopo esservi saliti: ma
si riferiva alla “scala per noi” che è il linguaggio; invece Bonaventura parla di una “scala
in sé” che è il Dio-Uomo: questa è la struttura portante della realtà, pensata dall’eternità
e realizzata nella pienezza del tempo, essa non verrà mai meno e va risalita per giungere
all’unione con Dio105.
Quando riconosciamo l’impronta di Dio nel mondo naturale, la sua immagine nel
mondo interiore (e la sua immagine somigliante nella vita religiosa), i suoi nomi nel
mondo archetipo, allora abbiamo a disposizione tre libri, quello della natura, quello
dell’anima e quello della Scrittura. Leggere questi tre libri significa parlare di Dio
mediante i simboli (e questa sarebbe la teologia simbolica di Dionigi), mediante l’icona
(e questa sarebbe la teologia di Agostino, che noi potremmo chiamare iconica) e mediante
i suoi nomi propri (e questa è la teologia propriamente detta)106.
102 Significativamente, nel De reductione Bonaventura opera una reductio (operazione inversa alla
divisio) non all’unità e basta, come nel neoplatonismo pagano, ma alla Trinità: dunque l’unipluralità
comunionale è un valore originario, a differenza della molteplicità che è una pluralità derivata nel mondo
creato. 103 Come la chiamerà Cusano, lettore di Bonaventura, che li enuncia in Itinerarium, 5.7-8 e 6.3. 104 Come lo chiamerà Kierkegaard, consentaneo, pur senz’averlo letto, con Bonaventura, che li enuncia
in Itinerarium, 6.4-7 e li approfondisce nel famoso “sillogismo di Cristo”, In Hexaëmeron, 1.27. 105 Itinerarium, 1.3: «Haec etiam respicit triplicem substantiam in Christo, qui est scala nostra, scilicet
corporalem, spiritualem et divinam.»; e 4.2: «[...] nisi veritas assumta forma humana in Christo fieret sibi
scala reparans priorem scalam quae fracta fuerat in Adam.». Cf Breviloquium, prologus, 3; De reductione,
20. 106 Cf Itinerarium, 1.7: «Scientiam veritatis edocuit secundum triplicem modum theologiae, scilicet
symbolicae, propriae et mysticae; ut per symbolicam recte utamur sensibilibus, per propriam recte utamur
intelligibilibus, per mysticam rapiamur ad supermentales excessus.».
La teologia mistica è in qualche modo sviluppata progressivamente in tutta l’opera, ma in maniera
esplicita è trattata esplicitamente nel solo capitolo settimo; la teologia simbolica sembrerebbe riferirsi ai
soli primi due capitoli, in quanto finalizzata al retto uso delle realtà sensibili; la teologia propria corrisponde
a quella “piana” e “affermativa” e alla trattazione dionisiana de divinis nominibus, e dunque si riferisce ai
soli capitoli quinto e sesto. Mancherebbe quindi una specificazione della teologia per i capitoli terzo e
ANDREA DI MAIO 28
Possiamo cioè non solo parlare di Dio, ma anche parlare a e con Dio107.
Così si realizza il passaggio spirituale. Infatti, “la preghiera è l’origine e la madre
della sursum-azione”108, ossia di ogni azione e riconduzione verso l’Alto: la preghiera
infatti fa sviluppare la vita della mente verso la trascendenza.
A questo punto l’amore ci fa uscire da noi stessi, dalla mente, in quello che
Bonaventura chiama “eccesso”, nel duplice senso di estasi e di transito pasquale109.
A questo punto, bisogna utilizzare la scala per “passare oltre”110, bisogna lasciare lo
specchio per guardare il Volto, bisogna tralasciare il parlare a Dio, per rimanere in
silenzio: e questa è la teologia misteriosa (o mistica).
quarto, che peraltro si riallacciano alla tradizione agostiniana e non a quella dionisiana; ma in senso lato
sarebbero assimilabili anche essi alla teologia simbolica.
Che gli intelligibili trattati dalla teologia propriamente detta siano proprio i nomi divini (ossia le
perfezioni divine conoscibili dagli effetti nel creato) è chiaro dai passi paralleli: cf In Hexaëmeron, 20.21:
«Haec est secunda pars contemplationis, considerare scilicet Ecclesiam, secundum quod est supervestita
figuris et theoriis, et secundum quod est illustrata a sole, et secundum quod est ordinata ad pugnandum; et
sic habetur luna in firmamento animae, ut consideratur per theologiam symbolicam, per theologiam
mysticam, per theologiam proprie dictam.»; In Hexaëmeron (Delorme): 4.1.20: «Itaque filius ecclesiae ut
assimiletur matri debet considerationem suscipere per theologiam symbolicam, per theologiam mysticam,
per theologiam planam, quae est theorica proprie dicta.».
Questa tripartizione della teologia si radica in una originaria bipartizione tra teologia negativa e
affermativa, resa più complicata dalla considerazione delle metafore, che sono come intermedie tra la
teologia catafatica e quella apofatica; cf In Sententiarum libros, 1.22.1.3 ad 3: «Ad illud quod obiicitur,
quod symbolica et mystica theologia nominant Deum translative; dicendum, quod quamvis mystica nominet
Deum translative quantum ad proprietates excellentiae, tamen non solum sic nominat, sed etiam per
abnegationem; et ideo non solum translative.».
Due secoli dopo, Dionigi il Certosino, commentando la nona epistola dello Pseudo–Dionigi, intenderà
per “teologia” delle proprietà quella affermativa trattata nel De divinis nominibus. 107 Cf Di Maio, Sacra Scriptura..., cit., p. 135-139. 108 Itinerarium, 1.1: «Oratio igitur est mater et origo sursum–actionis.». 109 Il versetto Psal 67,28, che menzionava la tribù di Beniamino che sopravanzava nello schieramento
dell’esercito di Israele, era stato erroneamente tradotto in latino come riferito a Beniamino stesso che era
nell’eccesso della sua mente: («ibi Beniamin adulescentulus in mentis excessu»): questa traduzione aveva
dato modo alla tradizione patristica e poi in particolare a Riccardo di San Vittore di riflettere sulla
conoscenza nell’eccesso della mente: l’excessus mentis è quindi una forma di conoscenza mistica: cf
Barbara Faes de Mottoni, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, SISMEL -
Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007; in particolare cf p. 38-39; Mary Melone, Introduzione a: Riccardo di
San Vittore, La grazia della contemplazione. Beniamino Maggiore, introduzione e note di Mary Melone,
trad. it. di Antonio Orazzo, Diogene, Campobasso 2016, p. IX-XLIX. Sempre per una questione di
traduzione, ‘excessus’ esprime (come fa notare Amaury Begasse de Dhaem) la dipartita di Gesù da questo
mondo. Cf In Lucam, 9,31.54: «“Et dicebant excessum eius, quem completurus erat in Ierusalem”. Excessus
recte nominat passionem, quia in ea fuit excessus humilitatis [...]. Fuit etiam excessus paupertatis [...]. Fuit
excessus doloris [...]. Fuit etiam excessus amoris [...]. Istum excessum complevit in Ierusalem, ubi
crucifixus est, in quo fuit consummatio nostrae redemptionis [...]». 110 Un problema dell’Itinerario è la mancanza di esplicitazione del tema della Resurrezione. Si
menziona appena la resurrezione spirituale (il risorgere dalla condizione di peccato) in Itinerarium 4.2. Al
culmine del percorso si ha un accenno alla Pasqua, ma con maggiore accentuazione della morte mistica per
cui si arriva a vedere Dio: cf Itinerarium, 7.2: «Pascha hoc est transitum cum eo facit [...] tamen quantum
possibile est secundum statum viae [...]. Quod etiam ostensum est beato Francisco cum in excessu
contemplationis in monte excelso [...]. In hoc autem transitu, si sit perfectus, oportet quod relinquantur
omnes intellectuales operationes et apex affectus totus transferatur et transformetur in Deum. Hoc autem
est mysticum et secretissimum, quod nemo novit nisi qui accipit nec accipit nisi qui desiderat, nec desiderat,
La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 29
.
nisi quem ignis Spiritus sancti medullitus inflammat, quem Christus misit in terram. Et ideo dicit Apostolus
hanc mysticam sapientiam esse per spiritum sanctum revelatam.».
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