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L’autore e lo spettatore. La costruzione del punto di vista
Thursday, February 22, 2001
di Massimo Calanca
http://www.cinemavvenire.it/magazine/articoli.asp?
IDartic=327
PIANO PER LA PROMOZIONE
DELLA DIDATTICA DEL LINGUAGGIO
CINEMATOGRAFICO ED AUDIOVISIVO
NELLA SCUOLA
Lezione del Corso Unitario
Il dialogo dello spettatore con il film
di Massimo Calanca
direttore di CinemAvvenire
Nel primo anno del corso integrato di formazione e
sperimentazione della didattica del linguaggio
cinematografico ed audiovisivo previsto dal Piano
Nazionale, sono stati affrontati gli elementi fondamentali
di questo linguaggio, come l’inquadratura, il suo rapporto
con la realtà, il movimento, i primi elementi del
montaggio.
Nella seconda annualità è previsto l’approfondimento del
montaggio, nei suoi vari aspetti e tipologie, per poi
arrivare con il terzo anno ad affrontare a pieno titolo la
narrazione.
La questione del punto di vista dell’autore e dello
spettatore si porrà, evidentemente, nella sua completezza
soltanto affrontando il modo di rappresentare, esprimere e
raccontare del film in tutti i suoi aspetti. Ma è possibile
e utile soffermarci, già alla fine di questo primo anno, su
un primo livello del rapporto tra autore e spettatore nella
costruzione del punto di vista nel testo cinematografico ed
audiovisivo.
Infatti, già le conoscenze acquisite in questo primo anno
ci permettono di intendere la lettura del testo filmico,
analogamente a quella del testo scritto, non come un
semplice passaggio di informazioni da un’emittente
(l’autore) ad un ricevente (lo spettatore), ma come un
rapporto reciproco a due direzioni, nel quale entrambi i
soggetti – anche se con ruoli e poteri diversi – concorrono
attivamente alla creazione del testo.
Nel convegno di avvio del Piano (nel Febbraio 2000) ho
indicato una serie di elementi, indagati dai teorici del
cinema e dalla ricerca psicologica, che concorrono a
rendere particolarmente incisive le opere cinematografiche,
rispetto ad altri tipi di testo: elementi di carattere
strutturale, caratteristici del linguaggio cinematografico,
che si intrecciano ad elementi che riguardano più in
generale la struttura della narrazione.
Ho parlato della identificazione primaria e secondaria
(cioè da un lato con la macchina da presa e con lo sguardo;
e dall’altro con i personaggi e le situazioni); del grande
lavoro mentale necessario a riempire i vuoti tra i
fotogrammi e a ricostruire la realtà esterna
all’inquadratura; della somiglianza con l’ipnosi dello
stato dello spettatore; dell’analogia tra immagini filmiche
e il linguaggio del sogno e dell’inconscio; e infine del
carattere edipico dei racconti e dell’analogia tra la
struttura della narrazione ed il mito dello sviluppo e
della crescita personale di ogni spettatore.
Questi elementi, pur nella loro straordinaria forza
evocativa e trasformativa, suggestiva e catartica, non
agiscono a senso unico (cioè dal film allo spettatore), ma
in entrambe le direzioni. Già i primi teorici del cinema,
da Münstemberg, a Mitry a Kracauer, si erano accorti di
questo. Scriveva già Kracauer nel 1960 che, durante la
visione del film, siamo coinvolti in due direzioni “verso e
dentro il film e in esplorazione verso noi stessi. Il
processo innescato non è più di sola adesione allo
spettacolo filmico, ma di scambio… non più un messaggio ma
un rapporto”.
Questo dipende in parte dalle stesse caratteristiche degli
elementi strutturali del linguaggio cinematografico cui ho
accennato; ed in parte dall’atteggiamento, dalla
disponibilità e dagli schemi mentali dello spettatore.
Gli schemi cognitivi ed emotivi, le immagini interne, il
sistema di conoscenze, esperienze e convinzioni, le
sceneggiature o script interiori (come vedremo), in altre
parole l’intero “mondo interno” dello spettatore, entrano
in un dialogo continuo con tutti gli aspetti del film
(significanti e significati, strutture narrative, ecc.); un
dialogo che non solo modifica, ma ricrea il film stesso,
fino a farne al limite un’opera diversa ad ogni fruizione.
A queste conclusioni sono arrivate, con percorsi diversi,
le varie discipline che hanno affrontato la comprensione
del fenomeno cinematografico ed audiovisivo e la lettura
del film come testo: dalle teorie del cinema cui accennavo,
alle più recenti e meno ambiziose teoriche, alla psicologia
(sia psicodinamica, che cognitiva e psicosociale), alla
semiotica.
In particolare la semiotica, dopo la fase strettamente
strutturalista, è passata ad una impostazione testualista,
che considera lo spettatore non più solo un decodificatore
ma un vero interlocutore.
In questo passaggio, essa si è ulteriormente specializzata
in due diversi approcci, che sono strettamente intrecciati
ma hanno una propria specificità: l’approccio generativo,
più interessato a comprendere come il film e il prodotto
audiovisivo prevedono la presenza dello spettatore e
cercano di entrarci in rapporto; e l’approccio
interpretativo, che indirizza la propria attenzione alle
mosse del fruitore per avvicinarsi al testo, entrarci in
rapporto e dare ad esso un senso.
L’approccio generativo, per grandi linee, si potrebbe
definire come lo studio delle strategie dell’autore per
coinvolgere lo spettatore nel testo.
L’approccio interpretativo, specularmente, come lo studio
delle caratteristiche dello spettatore e dalle strategie da
lui utilizzate per dialogare con il testo.
(Le lezioni di Vito Zagarrio e di Guido Chiesa nell’ultimo
incontro del corso unitario hanno privilegiato il primo,
cioè l’approccio generativo. Io vorrei parlare soprattutto
del secondo, cioè di quello interpretativo, perché la mia
esperienza con i giovani di CinemAvvenire si situa
soprattutto a questo livello. Nel nostro lavoro, infatti,
abbiamo un doppio obbiettivo: creare spettatori più
consapevoli e aiutare i giovani a crescere come persone. Ed
entrambi questi obbiettivi richiedono di focalizzare il
nostro interesse sul fruitore, ad essere –se così si può
dire – “dalla parte dello spettatore”. In questo il nostro
approccio è molto simile, sia sul piano strettamente
didattico, che su quello più ampiamente pedagogico e
formativo, a quello degli insegnanti nella scuola).
Umberto Eco ha scritto un famoso libro, Opera aperta,
teorizzando che l’opera d’arte è un processo che non è mai
compiuto una volta per tutte, ma si rinnova continuamente
ad ogni esperienza di fruizione.
In seguito alle obiezioni degli strutturalisti e dopo aver
approfondito la semiotica, con Lector in fabula Eco
arricchì la sua concezione dell’opera aperta con un metodo
che consentisse di mantenere le infinite possibili letture
entro i limiti della correttezza interpretativa del testo,
evitando letture fantasiose, viziate dalle esigenze o
dall’ideologia del fruitore.
Ma ribadiva il carattere aperto dell’opera, disponibile a
svariate possibilità di lettura, anche se essa stessa
prevede una strategia per sollecitare e indirizzare
l’attività interpretativa del lettore.
Per comprendere questa strategia e il meccanismo di
funzionamento del rapporto opera-lettore, Eco elaborò i
concetti di Autore Modello e di Lettore Modello, diversi
dall’autore e dallo spettatore concreti (o empirici).
“Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare”. Ha
bisogno di un destinatario non solo per comunicare, ma
anche per avere un significato. L’autore, “per organizzare
la propria strategia testuale” ha bisogno di raffigurarsi
un lettore che abbia determinate competenze, le quali
“conferiscano un significato alle espressioni che usa”.
Perciò prevede un Lettore Modello capace di cooperare alla
comprensione del testo e di muoversi nell’interpretazione
come egli si è mosso nella creazione. E mentre traduce
questa ipotesi di Lettore Modello nella strategia del
testo, l’autore “disegna se stesso come soggetto
dell’enunciato”, e ciò si manifesta in vari elementi e
passaggi del testo stesso.
Dal canto suo, “anche il lettore concreto deve disegnarsi
un’ipotesi di Autore (cioè un Autore Modello), deducendola
dai dati della strategia testuale”. E questo modello non
coincide con l’autore reale, perché non è sufficiente
conoscere i dati biografici o la psicologia di
quest’ultimo, o il contesto storico-sociale in cui ha
operato, per comprendere come agisce nel testo e la
strategia testuale che persegue; cioè per comprendere
veramente e profondamente il testo e stesso e cooperare
alla sua attualizzazione.
Ovviamente, la conoscenza dell’autore reale e del contesto
storico e culturale in cui l’opera è stata realizzata
restano elementi fondamentali sia per la comprensione del
testo, sia - in particolare nella scuola - per la
formazione complessiva dello studente. Inoltre, sul piano
della motivazione allo studio, gli adolescenti e i giovani
sono particolarmente interessati al dialogo (se non è
possibile concreto, almeno sul piano ideale e fantastico)
con gli autori, che per loro hanno un’aura particolarmente
suggestiva, come esseri umani “speciali”, che non si
limitano a vivere passivamente, ma vogliono influire
attivamente sul mondo, sulla cultura e sulla storia. La
stessa tendenza adolescenziale alla contestazione
trasgressiva degli assetti culturali ed esistenziali del
mondo adulto (quella che Guido Petter chiama “marginalità
psicologica e culturale volontaria”), rende gli autori
potenziali soggetti di identificazione e la loro conoscenza
un qualcosa di grande interesse.
Ma, ancora più importante, per l’attività didattica degli
insegnanti, è tener conto dei lettori e degli spettatori
reali di un testo, cioè degli studenti concreti.
Infatti, il compito della critica testualista, ed ancor più
dell’educazione estetica e letteraria, è quello di far
corrispondere il più possibile il lettore empirico al
Lettore Modello, cioè di aiutare i lettori e gli spettatori
a svolgere positivamente e completamente il ruolo previsto
per loro dalla strategia testuale dell’autore, partecipando
pienamente alla cooperazione interpretativa ed al dialogo
creativo con il testo.
Non si può favorire la conquista della capacità degli
studenti di giocare fino in fondo il ruolo di Lettori o
Spettatori Modello, senza tener conto di loro come studenti
concreti, cioè della fascia di età, del tipo di scuola,
delle caratteristiche della classe, ecc.; e di loro come
singoli individui e come persone reali.
Questo implica, per l’insegnante, di tener conto di una
serie di conoscenze, di carattere sociologico, psicologico,
pedagogico; e anche di carattere interpersonale - cioè nate
da un rapporto concreto con uno studente concreto - ; le
quali vanno intrecciate con le competenze linguistiche,
narratologiche e metatestuali, che riguardano il linguaggio
e la narrazione cinematografica ed emergono dall’analisi
testuale di ogni singolo film. Tutto ciò per ottenere da un
lato, da parte di ogni studente, la comprensione profonda
del testo filmico; e, dall’altro, per facilitare l’entrata
in risonanza del testo con il mondo interiore del bambino o
del ragazzo e con l’insieme dei suoi schemi cognitivi ed
emotivi, per innescare e facilitare processi di maturazione
e di crescita personale.
In questo processo gli insegnanti, con le loro competenze
pedagogiche ed esperienza didattica, hanno il ruolo
maggiore da svolgere nel quadro della collaborazione
dialettica con gli operatori esperti che è alla base del
corso integrato di formazione-sperimentazione previsto dal
Piano.
Per questo il problema del punto di vista nel testo filmico
non è una questione soltanto filologica o semiologica, ma
diventa una concreta esigenza didattica e pedagogica.
C’è un rapporto stretto, ma non pienamente sovrapponibile,
tra il punto di vista dell’Autore e quello dello
Spettatore. Un rapporto in qualche modo speculare.
Il punto di vista con cui l’autore concreto osserva la
realtà in un dato film diventa il punto di vista che
l’autore implicito (o Modello), attraverso una strategia
testuale che si concretizza in scelte espressive e
linguistiche, propone allo Spettatore Modello della sua
opera e, attraverso di lui, agli spettatori reali. E’ una
proposta in qualche modo cogente, cui lo spettatore reale
non può sottrarsi, se non rifiutando il film. Se la
macchina da presa ha girato la scena da un determinato
angolo di ripresa, sarà quello l’angolo visuale da cui lo
spettatore reale è obbligato a guardare il contenuto della
messa in scena o della realtà riprodotta (analogicamente)
dalle immagini.
Ma questo vale essenzialmente a livello percettivo. Ad
altri livelli le cose si fanno più complicate.
Infatti, in quell’angolo visuale, in quella scelta
dell’inquadratura (che esprime il livello del vedere), si
incarnano anche almeno due altri livelli del punto di
vista:
il livello del sapere, cioè quello che l’autore sa e vuol
far sapere allo spettatore attraverso la messa in scena e
l’inquadratura che ce la mostra;
e il livello del credere, cioè un atteggiamento mentale che
manifesta il giudizio dell’autore sull’avvenimento, il suo
sistema di valori e la sua ideologia.
Qui il punto di vista dell’autore e quello dello spettatore
non coincidono più, anzi possono divergere ed entrare in
conflitto. A livello del sapere, ad esempio, possono
verificarsi operazioni scorrette, di manipolazione
interessata, da parte dell’autore reale (come avviene in
tanta fiction commerciale ed in tanta informazione
televisiva). E, a livello del credere, possono essere
compiute vere e proprie operazioni di condizionamento
suggestivo.
Queste focalizzazioni ottiche, cognitive ed ideologiche si
intrecciano poi nel testo filmico con le cosiddette figure
vicarie che rappresentano l’Autore e lo Spettatore e con
altri elementi emblematici che rappresentano la emissione e
ricezione di messaggi.
Possono essere veri e propri Narratori o ascoltatori della
narrazione (i cosiddetti Narratari);
oppure personaggi che rappresentano la emissione e la
ricezione di informazioni (informatori che raccontano,
testimoni che parlano, persone che ricordano, allestitori
di spettacoli, registi, attori ecc., da un lato; e
,dall’altro, personaggi che ascoltano racconti, le figure
di osservatori, i detective e i giornalisti che indagano,
viaggiatori che si inoltrano in territori sconosciuti, fino
a spettatori di cinema e spettacoli diversi nel film);
oppure ancora elementi emblematici come finestre, specchi,
schermi, o cartelli, didascalie, voci over, fino a
soluzioni stilistiche particolarmente espressive, come
inquadrature e movimenti di macchina irreali; e, sul lato
della ricezione, occhiali, cannocchiali, macchine
fotografiche,lenti, binocoli, ecc. (ricordate La finestra
sul cortile di Hitchcock?).
Tutti questi elementi, ed altri ancora che sarebbe troppo
lungo elencare, sono molto importanti in quanto da un lato
indirizzano lo spettatore ad assumere il ruolo previsto per
lui dall’autore, e dall’altro incarnano, e quindi rendono
espliciti, sia il progetto comunicativo che le condizioni
di lettura previste dalla strategia testuale.
Perciò la conoscenza di questi meccanismi, vere e proprie
“marche” che segnano la presenza dell’autore e dello
spettatore impliciti nel testo, è fondamentale per
mantenere, da parte dello spettatore concreto, una certa
capacità di distacco e libertà di giudizio.
Ma soprattutto questa conoscenza è importante “in
positivo”, cioè per leggere il film in profondità, evitando
il più possibile i fraintendimenti e comprendendone
pienamente tutti i livelli: linguistico, rappresentativo,
narrativo e comunicativo.
E cogliendo – su quest’ultimo piano, cioè quello della
comunicazione – l’intera complessità di messaggi del film.
Perché la costruzione del punto di vista coinvolge tutti i
livelli dell’opera filmica, ma è il risultato del livello
comunicativo che ne è più coinvolto, il fine ultimo a cui
tende.
E qui entra in gioco un rischio che è assolutamente
necessario evitare.
La focalizzazione del Piano nazionale sull’insegnamento
degli elementi linguistici del cinema e dell’audiovisivo,
che è stata indispensabile per la correttezza
dell’approccio didattico, non deve farci dimenticare che il
linguaggio “è un’astrazione metodologica”, utilissima ma
parziale. Perché esso nel film “non appare mai da solo”, ma
strettamente intrecciato “ad altri sistemi di
significazione: culturali, sociali, stilistici,
percettivi”, ed anche cognitivi, emozionali ed etici.
Sono tutti questi ambiti che vengono coinvolti nei processi
attivati dal rapporto tra film e spettatore.
Ed è all’insieme di questi aspetti che è necessario far
riferimento in un’attività didattica che voglia essere sia
efficace che pienamente pedagogica; cioè che voglia da un
lato sviluppare negli studenti la capacità di comprensione
corretta e profonda del film, facendone degli spettatori
consapevoli ed esteticamente maturi; e dall’altro si
proponga di contribuire alla loro formazione complessiva
come persone.
Allora la comprensione dei meccanismi di costruzione – e di
comunicazione – del punto di vista diventa una competenza
(tecnica) importante, in quanto non fine a se stessa, ma
allo sviluppo di un dialogo fecondo tra fruitore ed opera
filmica, tra il film ed il suo spettatore, che trasforma di
continuo e profondamente sia l’uno che l’altro.
In quest’ottica diventa molto più significativo comprendere
il meccanismo dell’identificazione primaria (cioè
l’identificazione con il proprio sguardo e con quello della
macchina da presa e dell’autore implicito); e come essa si
articola nei vari piani e campi di ripresa, nelle diverse
angolazioni dell’inquadratura, nelle diverse profondità di
campo, nei movimenti interni all’inquadratura e in quelli
della macchina da presa (uso di panoramiche, carrellate,
gru, dolly, camera a mano, stady-cam,ecc.). Sono tutti
elementi che, insieme a significati denotativi (cioè
informativi puri), portano con sé anche significati
connotativi (cioè accentuazioni emozionali che coinvolgono
fortemente la soggettività dello spettatore). E sono
segnali del punto di vista che l’autore, più o meno
correttamente, propone allo spettatore, e rispetto al quale
è importante che quest’ultimo decida consapevolmente come
rapportarsi.
E diventa anche molto più significativo comprendere come
questi elementi influiscano sull’identificazione secondaria
(cioè con i personaggi e le situazioni del film); la quale
dipende dalla struttura del racconto (e quindi sarà
affrontata con maggiore approfondimento nella seconda e
nella terza annualità del Piano, quando parleremo meglio
del montaggio e della narrazione), ma è influenzata
direttamente dagli elementi linguistici di base e dai
codici di tipo visivo e sonoro che caratterizzano
l’identificazione primaria.
A questo propositi può essere di grande utilità pratica il
concetto di “forme di sguardo”, che vengono offerte allo
spettatore dal film, e che si suddividono in quatto tipi
fondamentali:
l’inquadratura oggettiva, che “mostra una porzione di
realtà in modo diretto e funzionale, e cioè presentando le
cose senza alcuna mediazione”;
l’inquadratura soggettiva, che coincide con lo sguardo di
un personaggio del film;
l’inquadratura oggettiva irreale, che “mostra una parte di
realtà in modo anomalo” o distorto, con una intenzione
comunicativa che va “oltre la semplice raffigurazione”;
e infine la cosiddetta interpellazione, che attraverso una
voce, “un personaggio, un oggetto o una soluzione
espressiva”, si rivolge allo spettatore chiamandolo
direttamente in causa.
L’uso di questi tipi di sguardo caratterizza rapporti
diversi tra l’autore (l’io enunciatore), lo spettatore (il
tu enunciatario) e l’oggetto rappresentato (l’egli o esso
enunciati, cioè il contenuto della messa in scena, i
personaggi, le situazioni, ecc., e il mondo virtuale che
essi a loro volta rappresentano).
E questi diversi rapporti influenzano direttamente sia il
dialogo comunicativo Autore-Spettatore, sia la
rappresentazione mentale che, da questo dialogo, lo
spettatore concreto ricrea dentro se stesso del mondo
possibile proposto dall’autore.
Per uscire dai discorsi solo teorici, vediamo come essi si
concretizzano in un esempio di testo filmico.
Prendiamo come spunto il film La rosa purpurea del Cairo,
di Woody Allen.
E’ la storia di una donna qualunque, Cecilia, che cerca nel
cinema qualcosa che le faccia dimenticare la sua triste
condizione esistenziale di un matrimonio senza amore e di
un lavoro senza senso; e che aderisce così profondamente al
film che sta guardando, da far innamorare di sé e far
uscire dallo schermo il protagonista, “L’esploratore
avventuroso” Tom Baxter.
Questa situazione paradossale, che sconvolge la normale
distinzione tra fantasia e realtà, arte e vita, innesca una
serie di conseguenze tragicomiche – tra cui l’intervento
dell’attore Gil Sheperd che ha interpretato Tom Baxter –
che conducono prima Cecilia a innamorarsi del personaggio e
ad entrare nel film; e poi ad innamorarsi dell’attore e a
scegliere lui – essere umano reale – rispetto al
personaggio fantastico; ed infine a rimanere abbandonata e
delusa dall’attore, una volta che questi ha risolto i suoi
problemi facendo rientrare Tom Baxter nel film.
Ma questa delusione cocente viene superata di nuovo grazie
al cinema, assistendo al film Cappello a cilindro di M.
Sandrich, 1935 e a Fred Astair e Ginger Roger che cantano e
ballano Cheek to cheek (di Irving Berling).
Vediamo alcune brevi sequenze:
le sequenze iniziali;
quella di Tom Baxter che esce dal film;
la sequenza finale.
Dal punto di vista del linguaggio strettamente
cinematografico il film usa uno stile “classico”:
predominano le inquadrature oggettive (che si limitano a
mostrare le azioni dei personaggi nella messa in scena).
Anche il montaggio è classico (sequenziale, con raccordi
classici sugli sguardi e sull’asse visivo, senza salti o
scarti che si notano, o accostamenti metaforici o
metonimici che aggiungono significati. Prevale, per quanto
è possibile nel cinema, la denotazione sulla connotazione).
Le dissolvenze (tranne una) hanno soltanto il valore di
elementi di punteggiatura (divisione tra sequenze), avverbi
di tempo (intanto…), ellissi temporali (condensazioni del
tempo del racconto rispetto a quello realistico degli
avvenimenti rappresentati).
Non ci sono né inquadrature particolari o “strane” né
movimenti di macchina straordinari (non ci sono oggettive
irreali).
C’è solo una dissolvenza “connotativa” o metaforica: quella
del finale , in cui il volto di Cecilia sfuma in quello di
Gil Sheperd che fugge in aereo, la quale, come vedremo,
oltre al valore di avverbio di tempo, ha anche altri
significati.
E ci sono due soli movimenti di macchina significativi:
il primo nella inquadratura iniziale: una soggettiva di
Cecilia che guarda il manifesto de “La rosa purpurea del
Cairo” in programmazione, esplorandolo con lo sguardo, come
un alter ego dell’“esploratore avventuroso” protagonista
del film;
il secondo nella sequenza finale: una carrellata indietro,
che allontana la macchina da presa da Gil Sheperd, e una in
avanti, che l’avvicina a Cecilia.
Proviamo a ragionare con i concetti prima accennati.
Woody Allen, l’autore reale, costruisce un testo in cui
l’autore implicito (o Modello) si propone come esterno al
racconto stesso, sia dal punto di vista narrativo che
rappresentativo.
Nel racconto non c’è un personaggio narratore che impersoni
l’Autore (anche se il tono ironico e il procedere per
situazioni paradossali sono marche evidenti dell’attività
dell’autore, nella misura in cui si allontanano dal
realismo narrativo e dalla verosimiglianza).
Nella enunciazione, le scelte linguistiche si propongono
come oggettive, neutre rispetto alla messa in scena che
osservano, rappresentano e mostrano allo Spettatore.
Questa scelta è coerente con il linguaggio del cinema
classico degli anni ’30, che Allen ricostruisce nel film in
bianco e nero quasi meglio di un autore dell’epoca; per cui
è una citazione stilistica di genere.
Inoltre consente due cose:
un contrappunto tra la sobrietà del linguaggio e la forte
assurdità del paradosso;
un distacco ironico dell’Autore come osservatore divertito
del suo stesso gioco; atteggiamento che propone anche al
suo Spettatore Modello.
Ci sono però alcune eccezioni importanti a questa scelta di
lasciar fuori l’Autore:
c’è un riferimento ripetuto agli autori del film in bianco
e nero, ironicamente visti come divinità (che rappresenta
una messa in gioco di se stesso da parte dell’Autore
implicito, per quanto filtrato attraverso l’ironia);
ci sono l’attore Gil Sheperd e i produttori del film, che
rappresentano la “istituzione cinematografica”, e quindi
una parte dell’autore che vi partecipa.
Per quanto riguarda lo spettatore, egli ha invece un
rappresentante concreto nel film: Cecilia. E’ lei lo
Spettatore Modello cui l’Autore Modello si rivolge e con
cui dialoga.
Se lo spettatore concreto vuole comprendere profondamente
il film, deve innanzitutto assumere fino in fondo il ruolo
di Spettatore Modello che l’Autore gli propone. Perciò, se
vogliamo comprendere il rapporto tra fantasia e realtà che
il film ci propone, e non rimanere prigionieri dei nostri
schemi mentali precedenti, per il tempo della visione del
film dobbiamo ogni tanto diventare come Cecilia. Solo così
potremo avviare quel dialogo con l’Autore che ricrea
l’opera dentro noi stessi e decidere alla fine quali
aspetti del film vogliamo far nostri, e quali nostri schemi
cognitivi ed emotivi saranno ridefiniti e modificati da
questo rapporto.
Detto in parole più semplici, potremo decidere in che
misura per noi l’arte, il sogno e la fantasia da un lato, e
la realtà dall’altro, sono “mondi separati e
inconciliabili, oppure aspetti diversi della vita che si
arricchiscono di reciproche contaminazioni”
Per Cecilia, come vedremo, sono mondi che comunicano e si
arricchiscono. E per noi? Diventare come Cecilia non
significa alla fine condividere il suo modo di pensare e
vedere la vita: possiamo scegliere di mantenere il nostro,
oppure decidere di cambiarlo integrandolo con il suo. Ma è
solo diventando come lei che potremo dialogare con il film
e con quello che l’autore ci dice e comprenderlo
profondamente; essere per un po’ come lei è necessario per
poi fare liberamente la nostra scelta.
A “diventare come Cecilia” ci aiuta anche il processo di
identificazione secondaria, che dipende dalla struttura
della narrazione e che ci spinge ad identificarci con lei
come personaggio del racconto. Questo elemento ci spinge ad
assumere emotivamente il suo punto di vista e, unito al
sapere che lei, oltre che personaggio della fabula, è anche
rappresentante dello Spettatore Modello previsto
dall’autore, ci aiuta a farlo consapevolmente dialogare con
il nostro punto di vista.
In questo siamo aiutati anche dalla forma di sguardo con
cui il film inizia: l’inquadratura soggettiva di Cecilia
che esplora il manifesto del film. E’ un punto di
congiunzione nodale tra il punto di vista dell’autore,
quello del personaggio che rappresenta lo Spettatore
Modello e quello nostro di spettatori concreti.
Essa ci immette immediatamente, facilitando
l’identificazione proiettiva, nel mondo virtuale creato dal
film e nel cuore del tema che lo anima: il rapporto,
appunto, tra fantasia e realtà e tra cinema e vita.
Altre forme particolari di sguardo, che emergono dallo
stile classico e dal prevalere delle inquadrature
oggettive, ci aiutano a relazionarci al testo filmico e a
dialogare correttamente con esso.
Nella sequenza centrale che abbiamo visto, oltre alle
soggettive di Cecilia che guarda intensamente il film, c’è
una forma esplicita di interpellazione: lo “sguardo in
macchina” di Tom Baxter, che si rivolge al di là dello
schermo attraverso la sala (e quindi verso Cecilia, ma
anche verso di noi), e le parole che egli rivolge a Cecilia
(e, indirettamente, a noi).
Lo “sguardo in macchina” è un tabù fortemente vietato nel
cinema classico, perché rompe la sensazione di assistere
alla rappresentazione oggettiva di un mondo reale. Così
come è normalmente vietato, a differenza del teatro,
chiamare esplicitamente lo spettatore a testimone della
messa in scena o a complice di un personaggio o di un
narratore. Infrangere questi tabù è una scelta estrema
dell’Autore, che accetta il rischio di rompere la magia del
film per proporre un dialogo forte con lo Spettatore.
Non a caso da questo punto ha origine la “situazione
assurda” che è il motore fondamentale di tutti gli sviluppi
del film.
Infine, due altre forme particolari di sguardo ci aiutano a
portare a compimento il dialogo con il film e a
comprenderlo fino in profondità.
Nella sequenza finale, un leggero carrello indietro ci
allontana da Gil Sheperd e un carrello simmetrico in avanti
ci avvicina a Cecilia. Per quanto realizzate con
delicatezza, sono due oggettive irreali, in quanto nessun
elemento della messa in scena le giustifica, ma solo una
scelta di carattere connotativo che l’Autore propone allo
Spettatore.
Con questi movimenti opposti di carrello l’autore “non solo
rivela il suo stato d’animo nei confronti dei personaggi
del film” ma ci suggerisce anche di “avvicinarci” a Cecilia
e di “allontanarci” da Gil, il quale “ha perso quella parte
ideale di sé che è rimasta (con Tom) dentro lo schermo e
che ora appartiene a Cecilia”.
E qui per la prima volta l’autore usa la dissolvenza
incrociata, che fa sfumare il volto di Gil su quello di
Cecilia, non solo come avverbio di tempo (a significare
intanto…), ma anche e soprattutto per suggerirci che
entrambi sono due parti sia dell’autore stesso che dello
spettatore, “e contemporaneamente rappresentano due
modalità e due scelte esistenziali, rispetto alle quali il
regista prende posizione, allontanandosi dall’una e
avvicinandosi all’altra”.… e invitandoci a fare
altrettanto.
Questi elementi sono indispensabili per orientare la
lettura del film non solo come semplice “ringkomposition”,
cioè una struttura ad anello in cui il racconto finisce
com’era iniziato - per cui la vita di Cecilia riprenderebbe
nello squallore iniziale, l’arte è una cosa diversa dalla
vita e non bisogna dimenticarlo, e il senso del cinema è
solo quello di alleviare per un breve attimo il dramma
dell’esistenza reale rendendola più accettabile.
I movimenti di carrello e la dissolvenza incrociata di cui
abbiamo parlato, insieme ad elementi del racconto (per cui
Cecilia lascia il marito e per la prima volta non torna a
casa dopo la delusione); ed insieme al piano simbolico
delle immagini (che ci mostrano Cecilia portare con sé non
solo la sua valigia, cioè il suo bagaglio di esperienze, ma
anche il suo ukulele, cioè la sua creatività ritrovata
durante il film); e lo stesso tema musicale, che all’inizio
era extradiegetico (cioè estraneo alla messa in scena),
mentre alla fine diventa diegetico, cioè interno alla
rappresentazione, poiché appartiene al film che Cecilia sta
guardando: tutti questi elementi sottolineano che, dopo
quanto è avvenuto nel racconto, il cinema “non è più
qualcosa di separato, un mondo a parte nel quale fuggire,
ma appartiene alla vita reale, è stato “introiettato” da
Cecilia e fa parte della sua nuova realtà.
Questa volta, di fronte al cinema che tocca di nuovo il suo
animo, forse Cecilia non è più la stessa, forse lo
spettatore non è più passivo, ma si riconosce una capacità
di immaginazione creativa ed “artistica”, che è stata
stimolata proprio dal suo rapporto con l’opera d’arte
cinematografica”. E forse saprà utilizzare questa
creatività per migliorare la propria vita.
Questo esempio di lettura del testo filmico mostra con una
certa chiarezza l’utilità degli strumenti della semiotica
testualista, e dei suoi approcci generativo e
interpretativo, nel successo del dialogo tra lo spettatore
ed il film.
Ovviamente questo esempio si adatta meglio – per quanto
riguarda la scuola – ai ragazzi più grandi, ma non è
difficile seguire percorsi analoghi con i più piccoli
utilizzando altri film, come è già avvenuto nei moduli
specifici quest’anno (per rimanere nel tema, per esempio,
c’è un bellissimo film di Buster Keaton, Sherlock Jr.,
(1924), da cui pare abbia preso spunto lo stesso Woody
Allen, che si potrebbe utilizzare).
E’ importante però comprendere, insieme all’utilità della
prospettiva semiotica e alle convergenze possibili con la
didattica, anche le differenze che la caratterizzano
rispetto ad una prospettiva pedagogica, psicologica ed
esistenziale. Se per la semiotica, ad esempio, è
indispensabile distinguere nettamente nel testo le figure e
le marche dell’Autore e dello Spettatore - e i percorsi
diversi che le caratterizzano, pur nelle inevitabili
confluenze nelle forme dello sguardo – per la psicologia è
molto importante comprendere anche i momenti di convergenza
e di sovrapposizione.
Dal punto di vista psicologico, ad esempio, Cecilia, oltre
che un rappresentante dello spettatore nel testo filmico, è
anche una parte dell’autore reale che si manifesta, cioè la
parte di Woody Allen spettatore che – nella sua infanzia –
trascorreva interi pomeriggi al cinema vedendo e rivedendo
centinaia di film del genere classico americano; e che ora
– da autore affermato – conserva questo atteggiamento
spettatoriale ingenuo, insieme ad altri aspetti di
disincanto e di cinismo che ha sviluppato con l’esperienza
nel mondo del cinema.
E, in modo analogo, anche Tom Baxter e Gil Shepard – oltre
che rappresentanti dell’autore, l’uno come personaggio
ideale e l’altro come uomo di spettacolo che partecipa
all’istituzione cinematografica – sono anche parti di
Cecilia e dello Spettatore. Il primo una parte ideale che
il cinema aiuta far emergere; il secondo, da un lato una
parte più realistica e disincantata, che è quella che prima
la trattiene nel rapporto col marito e poi le fa scegliere
Gil anziché Tom; e, dall’altro, una parte narcisistica e
creativa che lei ha difficoltà di contattare, ma che è
importante per cambiare la sua vita.
Allora, per un dialogo fecondo con il film, oltre che
distinguere i vari aspetti del punto di vista dell’Autore e
dello Spettatore impliciti, è importante per lo spettatore
reale cogliere come ogni personaggio e situazione è una
parte dell’autore reale che si manifesta; ed è importante
anche ricondurle tutte dentro se stesso, prima per cogliere
le risonanze di ciascuna con i vari aspetti della sua
personalità, e poi per riunificarle in un nuovo equilibrio
dei propri schemi cognitivi, emotivi e relazionali.
Tutto questo, evidentemente, ha ricadute particolari in
campo pedagogico e formativo.
Nel convegno di avvio del piano ho sottolineato come i
diversi moduli intersecano i tre livelli, o “gradini”,
dello sviluppo intellettuale indicati dalla psicologia
evolutiva e dell’educazione:
la capacità rappresentativa, che inizia a 18 mesi, ma
continua a svilupparsi per tutto il periodo scolastico;
il pensiero reversibile e operatorio, che inizia tra i 5 e
i 7 anni e impatta direttamente con il 1° e 2° modulo del
piano;
il pensiero ipotetico-deduttivo e combinatorio, che si
conquista a partire dagli 11 ai 13 anni e impatta col 3° e
4° modulo.
Ora, come è noto, gli sviluppi della psicologia
dell’educazione hanno ridimensionato le caratteristiche di
passaggi evolutivi lineari e progressivi di questi 3
livelli, integrando la teoria di Piaget con altri concetti.
“Da una visione incrementale, tutta fondata sul guadagno di
nuove abilità, si sta passando - da un lato - ad una
visione fondata sulla “perdita ed il guadagno”, nella quale
le conquiste sul piano cognitivo esigono arretramenti e
perdite di capacità precedentemente conquistate..”; e –
dall’altro – alle teorie delle intelligenze multiple,
logica, fantastica, emotiva, ecc., in cui allo sviluppo
delle strutture generali del pensiero si sostituisce lo
sviluppo di moduli e facoltà diverse, ognuna con le sue
modalità di funzionamento ed il proprio ritmo di crescita.
Inoltre, la conquista delle categorie e dei concetti non è
più vista come “cattura logica” delle proprietà degli
oggetti, ma come “cattura ecologica”, cioè inserita in un
contesto storico-sociale e relazionale-esperienziale.
Infine, oltre al pensiero logico e a quello fantastico,
acquista sempre più interesse il “pensiero terziario”, con
cui è stata definita la capacità di coniugare tra loro
fantasia e razionalità, come base di ogni processo mentale
creativo. E, strettamente collegato con quest’ultimo, si
sviluppa l’attenzione al pensiero narrativo, come capacità
indispensabile a dare senso all’esperienza e a strutturare
le relazioni, sia con gli oggetti e la realtà che con gli
altri e la società.
Questi sviluppi della psicologia e della pedagogia si
manifestano anche negli studi sulla capacità di lettura del
testo, in cui assume sempre più rilevanza la continua
interazione tra conoscenze linguistiche, conoscenze sul
mondo e modelli mentali che il lettore è capace di
costruirsi per compiere continuamente le inferenze che
guidano l’interpretazione delle parole, delle frasi e del
racconto.
Questi modelli mentali, al livello più elementare che
riguarda la parola e la frase – o le singole inquadrature
del film – sono formati da schemi, frame, script, cioè
organizzazioni particolari della conoscenza e
dell’esperienza nella memoria; mentre, a livello più
generale del racconto, sono formati da vere e proprie
sceneggiature mentali, che derivano dall’esperienza, dalla
cultura e dalle forme di narrazione conosciute.
Sono concetti che, in forme diverse, interessano sia la
semiotica che la psicologia.
E’ evidente che, lavorare con le immagini filmiche, con gli
elementi del linguaggio cinematografico e con la lettura di
testi audiovisivi, impatta in vari modi con tutto questo.
Lavorare con il cinema a scuola aiuta a sperimentare che:
sviluppare il pensiero logico non comporta la rinuncia a
coltivare il pensiero non verbale e immaginativo e
l’intelligenza emotiva; anzi, lo sviluppo di questi ultimi
può arricchire i processi cognitivi;
che il pensiero ecologico, cioè la capacità di
contestualizzare, può risultare enormemente arricchita
dallo sviluppo delle esperienze di scenari e di mondi
possibili consentite dal cinema e dall’audiovisivo;
che il pensiero terziario si sviluppa aumentando il
rapporto consapevole con le immagini e con i suoni;
che la lettura testuale si modifica sviluppando negli
studenti nuovi schemi, frame e script attraverso le
conoscenze linguistiche;
che il pensiero narrativo si arricchisce insieme alla
modifica delle sceneggiature mentali conseguente alla
conoscenza di nuove forme e generi di racconto; e ciò
modifica a sua volta la lettura della realtà e le relazioni
con gli altri.
Le ricerche psicologiche e pedagogiche su questi aspetti
sono abbastanza sviluppate e approfondite, ma ancora troppo
recenti per fornire un quadro unitario ed esauriente.
Soprattutto sono recenti e da sviluppare le ricerche sulle
esperienze con il linguaggio cinematografico ed
audiovisivo, mentre hanno una storia più lunga gli studi
sul disegno e sulla lettura di testi scritti, anche
integrati con immagini.
Perciò, secondo me, uno degli effetti del Piano dovrebbe
essere la possibilità di avere un quadro più ampio di
esperienze, che consenta di far procedere queste ricerche,
a partire dagli insegnanti, dai pedagogisti, dagli
psicologi e dagli esperti di didattica e di linguaggio
cinematografico e audiovisivo direttamente coinvolti nel
Piano.
Il Piano, in questo senso, si caratterizza anche come un
grande laboratorio di ricerca-azione, dai cui esiti
dipenderanno anche gli sviluppi della psicologia e della
pedagogia riguardanti l’insegnamento del linguaggio
cinematografico e audiovisivo.
Anche da questo punto di vista è una grande responsabilità,
ma anche un’affascinante sfida, per tutti noi.
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