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Premessa
I primi e più importati tentativi di compiere misurazioni/quantificazioni scientificamente fondate in
Psicologia sono da far risalire al 1860 quando Fechner getta le basi della Psicofisica (Fechner, 1860).
Definita come “la dottrina esatta che studia le relazioni tra mondo fisico e mondo mentale”, la Psicofisica
considera il sistema percettivo umano come uno strumento di misura in grado, esattamente come uno fisico,
di fornire risposte (e conseguentemente dati) che possono essere analizzate e che permettano una
quantificazione dell’esperienza sensoriale (Baird e Noma, 1978). Il sistema percettivo umano non è però un
mero registratore di ciò che accade nel mondo fisico, ma partecipa attivamente alla creazione del mondo
mentale. Se si vuole fare della buona Psicologia risulta quindi fondamentale studiare la relazione tra fisico-
mentale.
Se noi vediamo una persona girare ripetutamente il capo e parlare a diverse riprese, ci è ben poco d’aiuto la
constatazione che il comportamento è strano e disadattato in quanto nell’ambiente circostante non c’è
alcunché che giustifichi un simile comportamento. Solo quando ci accorgiamo che costui parla, tramite
auricolare, con un interlocutore telefonico, ragion per cui compie tutti i gesti in modo appropriato per la
conversazione, il comportamento della persona assume significato. Non ha nessuna importanza che
l’interlocutore esista o meno, che sia visibile o a chilometri di distanza: la condotta diventa motivata. La
Psicologia si occupa di studiare i casi in cui mondo fisico e mondo mentale risultano discrepanti. L’uomo
non agisce in base a ciò che “il mondo è”, ma in base a come il “mondo appare”. A tal proposito si è soliti
utilizzare la dicitura “mondo fenomenico” (dal greco phàinomai, “appaio”) al posto della più generica
“mondo mentale” (Vicario, 1994). La Psicofisica è il tentativo di misurare l’entità delle discrepanze tra
mondo fisico e mondo fenomenico. A dimostrazione di come esistano differenti tipi di discrepanze tra
mondo fisico e mondo fenomenico, se ne riportano di seguito alcune. Per semplicità espositiva si
riporteranno esempi “visivi” rappresentabili sulle pagine di un libro.
Nel mondo fenomenico c’è qualcosa, ma nel mondo fisico non c’è nulla: si prenda l’esempio di figura 34 in
cui è riportato il celebre “triangolo di Kanizsa” (Kanizsa, 1980).
Figura 34: il triangolo di Kanizsa
Osservando la figura si nota immediatamente la presenza di un triangolo bianco che poggia su 3 dischi neri e
su un triangolo dal bordo nero. Il triangolo bianco appare, quindi, sopra tutto il resto, più vicino a chi lo
osserva. Il suo colore bianco è più intenso del bianco dello sfondo. Nulla di stupefacente se non che in figura
34 non è stato disegnato alcun triangolo bianco. La reazione più comune, davanti ad una figura come quella
di Kanizsa, è di supporre che si tratti di “immaginazione”, ma basta poco per smentire tale reazione. Se si
osserva la figura 35 si può tranquillamente “immaginare” un triangolo bianco avente come vertici i punti neri
disegnati, ma la resa percettiva non è certo la stessa di figura 34: il triangolo non si staglia sullo sfondo, non
è di colore differente da questo e non gli sta sopra.
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Figura 35: triangolo “immaginato”
Il triangolo di Kanizsa è una esempio evidente di come nel mondo fenomenico possano esistere
oggetti/eventi che non hanno contropartita nel mondo fisico.
Nel mondo fisico c’è qualcosa, ma nel mondo fenomenico non c’è nulla: si prenda l’esempio di figura 36 in
cui è riportato un caso di mascheramento.
A
B
Figura 36: caso di mascheramento
L’esagono della figura 36-A esiste fisicamente anche nella parte 36-B, ma fenomenicamente non è presente:
nella parte B della figura ci sono quadrati, linee oblique, incroci, ma non vi è evidenza di esagoni. La 36-A si
può cercare e trovare nella 36-B, ma non è per nulla presente sulla scena fenomenica, risulta mascherata
dalla struttura stessa della figura 36-B. Questo è un fenomeno ben noto in natura: si pensi a tutti quelli
insetti/animali che sono in grado di mimetizzarsi con l’ambiente.
Nel mondo fenomenico esiste qualcosa che non può esistere nel mondo fisico: si prenda l’esempio di figura
37 in cui è riportato una rappresentazione della nota “scala di Penrose” (Kanizsa, 1958).
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Figura 37: rappresentazione de “la scala di Penrose”
Ad una prima osservazione la figura 37 sembra non avere nulla di speciale, ma se si cominciano a seguire i
gradini della scala ci si rende conto che il punto di partenza della scala corrisponde con il punto di arrivo,
nonostante la scala sembri sempre salire oppure scendere, a seconda della direzione presa. Una tale scala non
è fisicamente costruibile. Ne consegue che l’esistenza reale-fisica degli oggetti non è una condizione
necessaria per la loro esistenza fenomenica.
Nel mondo fenomenico ci sono più oggetti, ma nel mondo fisico ce n’è uno solo: si prenda l’esempio di
figura 38 in cui è riportata la celebre figura ambigua, “la giovane e la vecchia”, di Boring (1930).
Figura 38: immagine ambigua, “la giovane e la vecchia”
La figura 38 è ambigua in quanto in luogo di una unica configurazione fisica (il disegno nero sulla pagina
bianca) è possibile vedere, alternativamente ed in modo interscambiabile, due configurazioni fenomeniche, o
il viso di una giovane donna vista di tre quarti da dietro, con il naso appena visibile, un neo vicino al mento
ed una fettuccia attorno al collo, oppure è possibile vedere il viso di profilo di una donna anziana, con un neo
sulla punta del naso, che coincide con lo zigomo-mento della giovane, che ha per bocca la fettuccia al collo
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della giovane e per occhio l’orecchio della giovane. Quella di Boring è solo una dei tantissimi esempi di
figure ambigue che sono evidenze di come gli oggetti fisici non sono obbligatoriamente la causa diretta delle
sensazioni, del mondo fenomenico.
Nel mondo fenomenico c’è lo stesso oggetto visto da prospettive differenti, ma la prospettiva fisica è sempre
la stessa: si prenda l’esempio di figura 39 in cui è riportato un caso di figura reversibile.
Figura 39: immagine reversibile
La sedia Thonet di figura 39, pur rimanendo fisicamente ferma sul foglio e pur rimanendo identica la
prospettiva di chi guarda, può essere vista sia di fronte (con il sedile davanti e lo schienale dietro), sia da
dietro (con lo schienale davanti ed il sedile dietro). Questo mette in evidenza che il rapporto tra oggetti del
mondo fenomenico ed oggetti corrispondenti del mondo fisico non stanno in una relazione univoca, semplice
e diretta come si può ingenuamente pensare.
Nel mondo fenomenico ci sono oggetti che si mostrano differenti da quello che sono nel mondo fisico: si
prenda l’esempio di figura 40 in cui è riportato un caso di illusione ottico-geometrica, la nota illusione di
Muller-Lyer (1889).
A B
Figura 40: illusione di Muller-Lyer
Il segmento orizzontale della parte A di figura 40 viene visto decisamente più corto del segmento orizzontale
della parte B pur essendo fisicamente identici. Le illusioni ottico-geometriche sono tantissime e riscontrabili
nel quotidiano, non sono, ovvero, solo artifici geometrici disegnati sui libri. Si veda, a tal proposito, la figura
41 in cui l’illusione di Muller-Lyer è inserita in un contesto comune.
5
A B
Figura 41: illusione di Muller-Lyer in un contesto quotidiano
Nel mondo fenomenico ci sono informazioni che non esistono nel mondo fisico: si prenda l’esempio di figura
42 in cui è riportato un caso di isomorfismo proposto da Kohler (1984).
A B
Figura 42: un caso di isomorfismo
Se si deve dire quale delle due immagini di figura 42 si chiami “maluma” e quale “takete”, quasi la totalità
delle persone attribuisce il primo nome all’immagine A ed il secondo a B, eppure quei nomi non sono
fisicamente presenti da nessuna parte. Questo è un caso in cui nel mondo fenomenico sono presenti
informazioni assenti in quello fisico. I casi sono davvero moltissimi. Si presti attenzione ora alla figura 43.
Quale dei due cani si chiama “Briciola” e quale “Ivan”. Anche in questo caso vi son pochi dubbi, eppure non
vi è alcuna medaglietta al collo dei due animali che riporti i nomi leggibili.
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Φ1
Φ2
Φ3
Φ4
Ψ1
Ψ2
Ψ3
Ψ4
A B
Figura 43: un altro caso di isomorfismo
Le discrepanze esistenti tra oggetti descritti dalla fisica ed oggetti descritti dalla fenomenologia sono troppo
numerose ed importanti perché si possa parlare di esse come di errori o anomalie (Vicario, 1994):
semplicemente il mondo fisico non è quello fenomenico, sono due mondi distinti. Lo studio delle relazioni
tra tali mondi è fondamentale in Psicologia e rappresenta l’essenza della Psicofisica.
La relazione psicofisica
Quando si determina una relazione tra un insieme Φ di valori fisici ed un insieme Ψ di valori psicologici, si
parla di “relazione psicofisica” binaria (figura 47).
Relazione
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Figura 47: rappresentazione grafica di una relazione psicofisica
Ciò che può capitare è che ad un determinato stimolo fisico corrisponda una controparte psicologica (ad
esempio una sensazione, come nel caso dello stimolo Φ3 a cui corrisponde Ψ3), che ad uno stimolo fisico
corrispondano più controparti psicologiche (come nel caso dello stimolo Φ4 a cui corrispondono Ψ3 e Ψ4) e
che a più stimoli fisici corrisponda una stessa controparte psicologica (come nel caso degli stimoli Φ1 e Φ2 a
cui corrispondono Ψ1). Di particolare interesse, come si avrà modo di vedere nelle prossime pagine, è quel
sottoinsieme delle relazioni psicofisiche rappresentato dalla “funzioni psicofisiche”.
Se lo stimolo fisico Φ è stabile, è di un valore fisso e ben determinato nel tempo, la stessa cosa non può
essere detta per la controparte psicologica Ψ. Ovvero, nella pratica, la relazione tra Φ e Ψ non è mai 1 a 1,
semmai 1 a molti. Si prenda come esempio il caso di uno stimolo di 1 kg e si supponga di chiedere ad una
persona di valutarne il peso, ovvero di darne una stima a partire dalla propria sensazione di pesantezza
percepita: a seconda dello stato psico-fisiologico della persona, lo stimolo può apparire più o meno pesante.
Se la persona è affaticata lo stimolo apparirà più pesante, se è riposata lo sarà meno. Certamente le due
stime, quella a riposato e quella da stanco saranno abbastanza simili (la persona difficilmente confonderà la
sensazione di un peso di 1 kg con quella di uno di 10 kg), potremmo dire che oscilleranno attorno ad un
valore medio. Lo stesso dicasi per altre modalità sensoriali. Si ragioni, ad esempio, attorno al modo in cui
siamo soliti vivere il trascorrere del tempo. Comunemente, un tempo di 1 ora sembra passare veloce se si è in
una condizione psico-fisiologica positiva (ad esempio se ci si sta divertendo), ma può apparire un tempo
eterno se si vive una condizione psico-fisiologica negativa (ad esempio un disagio). Ci sarà comunque una
sensazione media che starà a metà tra i vari vissuti, che rappresenta al meglio la sensazione che
“normalmente” si ha difronte questo o quello stimolo. Thurstone (1927) definisce “processo discriminale” la
controparte psicologica originata, di caso in caso e di condizione in condizione, da uno stimolo fisico. Più
precisamente un processo discriminale è quel meccanismo attraverso il quale un organismo/persona
identifica, distingue o reagisce agli stimoli. A causa delle continue fluttuazioni psico-fisiologiche
dell’organismo/persona, uno stimolo non è in grado di elicitare sempre il medesimo processo discriminale,
ma scatenerà processi discriminali di entità a volte minore, a volte maggiore. Il processo discriminale che più
frequentemente viene elicitato da uno stimolo prende il nome di “processo discriminale medio” o “processo
discriminale modale”. Se si considerano assieme tutti i processi discriminali (quindi anche quello
medio/modale) elicitati da uno stesso stimolo, si ottiene una distribuzione degli stessi, una distribuzione
discriminale, che ha la forma di una distribuzione normale (detta anche gaussiana).
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Alcune considerazioni sulla distribuzione normale
La più importante distribuzione continua è la curva normale. È stata individuata per la prima volta nel 1733
da Abraham De Moivre (nato in Francia nel 1667, vissuto in Inghilterra e morto nel 1754, la cui opera più
importante The Doctrine of Chance contiene la teoria della probabilità enunciata nel 1718) ed è stata
proposta nel 1797 da Karl Friedrich Gauss (tedesco, nato nel 1777 e morto nel 1855, ha scritto i suoi lavori
più importanti su gravità, magnetismo e elettricità) nell’ambito della teoria degli errori. Nella letteratura
francese è attribuita anche a Laplace (1812), che ne avrebbe definito le proprietà principali prima della
trattazione più completa fatta da Gauss in varie riprese, a partire dal 1809.
Il nome “normale” deriva dalla convinzione che molti fenomeni fisico-biologici si distribuiscono
comunemente-normalmente con frequenze più elevate nei valori centrali e frequenze progressivamente
minori verso gli estremi. Si consideri, ad esempio, la statura degli studenti di una classe, come da figura 48.
A B
Figura 48: esempio della distribuzione della statura in una ipotetica classe di studenti universitari
Nella parte A della figura 48 sono rappresentate le stature in centimetri di 20 studenti universitari. Nella
parte B, le medesime stature sono rappresentate in frequenza, ovvero si mette in relazione la statura in
centimetri col numero di volte che essa è presente all’interno della classe (ossia ogni statura viene relazionata
al numero di studenti cha hanno quella precisa statura).
Se si rappresenta su un piano cartesiano la tabella B di figura 48 (frequenze sull’asse y delle ordinate e
altezze in centimetri sull’asse x delle ascisse) si ottiene quanto mostrato in figura 49.
Persona Statura (altezza in centimetri)
Studente 1 160
Studente 2 145
Studente 3 170
Studente 4 150
Studente 5 173
Studente 6 170
Studente 7 155
Studente 8 173
Studente 9 170
Studente 10 178
Studente 11 158
Studente 12 178
Studente 13 173
Studente 14 158
Studente 15 182
Studente 16 186
Studente 17 160
Studente 18 190
Studente 19 170
Studente 20 160
Statura (altezza in centimetri) Frequenza
145 1
150 1
155 1
158 2
160 3
170 4
173 3
178 2
182 1
186 1
190 1
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Figura 49: esempio della distribuzione statura x frequenza
Si supponga ora che la classe sia composta da un numero grandissimo di studenti universitari, da tutti gli
studenti universitari del mondo o da un numero teoricamente infinito di studenti. Se rappresentassimo
graficamente la statura in relazione alla frequenza, come per la figura 49, di detto campione molto ampio, si
otterrebbe una distribuzione come quella di figura 50 in cui le stature centrali sono le più frequenti e quelle
agli estremi sempre meno: questa è, appunto, una “distribuzione normale”.
Figura 50: esempio di una distribuzione normale
La distribuzione normale mostra come una molteplicità di dati si relazionino gli uni rispetto agli altri. Sotto
tutta l’area della distribuzione normale ci stanno tutti i possibili casi, il 100% delle stature in relazione alla
figura 50. Dalla statistica descrittiva sappiamo, inoltre, che per dire qualcosa circa un insieme di dati è
sempre una buona regola esprimere due indici, uno di “tendenza centrale” ed uno di “dispersione”.
Gli indici di tendenza centrale sono statistiche che consentono di rappresentare in un unico valore
“riassuntivo” una serie di dati. Gli indici di tendenza centrale sono:
- Moda: è il valore che si presenta con la massima frequenza in un insieme di dati.
- Mediana: è il valore che occupa la posizione centrale in un insieme in cui i dati sono stati ordinati in
ordine crescente o decrescente.
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- Media: può essere “media aritmetica”, “media geometrica” e “media armonica”. La media
rappresenta una sorta di centro di gravità dei dati di un insieme.
Dato l’insieme delle stature di figura 48-A,
𝐴 = {160,145,170,150,173,170,155,173,170,178,158,178,173,158,182,186,160,190,170,160} si ha:
- Il valore della moda è pari a 170, in quando appare 4 volte, ha ovvero la frequenza più alta che, nel
presente caso, è pari a 4.
- Il valore della mediana è pari a 170 in quanto, ordinando i dati in modo crescente o decrescente,
quello che sta a metà è 170. Precisamente, l’insieme A ordinato è:
𝐴 = {145,150,155,158,158,160,160,160,170,170,170,170,173,173,173,178,178,182,186,190}.
La mediana è quel valore all’interno della sequenza ordinata che si lascia a sinistra e a destra lo
stesso numero di dati. Siccome l’insieme A contiene 20 numeri la mediana occuperà la posizione
compresa tra il dato in posizione 10 ed il dato in posizione 11 (solo in questo caso, infatti, a destra ed
a sinistra di detta posizione si ha lo stesso numero di dati, ovvero 10 per parte). Nello specifico, in
posizione 10 cade l’altezza 170 ed in posizione 11 cade ancora un’altezza pari a 170. Il valore della
mediana è dato dall’altezza in posizione 10 sommata all’altezza in posizione 11, diviso due. Facile
dire che nel caso qui proposto la mediana vale 170 cm. Se il numero di elementi dell’insieme A fosse
stato dispari, ad esempio 21, il valore della mediana sarebbe stato pari a quella altezza
corrispondente alla posizione 11 dell’insieme ordinato (infatti, con 21 elementi, è la posizione 11
quella che si trova ad avere alla sua sinistra ed alla sua destra il medesimo numero di elementi, ossia
10 per parte).
- Il valore della media aritmetica (MA) è pari a 167,95 calcolato con la formula: 𝑀𝐴 =∑ 𝑥𝑖
𝑛𝑖=1
𝑛, ovvero
se nell’insieme A ci sono 20 stature (quindi n=20) ed ogni statura occupa una posizione i all’interno
dell’insieme (in cui i assume valori che vanno da 1 a 20), il valore della media aritmetica è pari alla
somma di tutte le stature diviso 20.
Il valore della media geometrica (MG) è pari a 167,544, calcolato con la formula: 𝑀𝐺 = √∏ 𝑥𝑖𝑛𝑖=1
𝑛,
ovvero corrisponde al prodotto di tutte le stature sotto radice di 20. La media geometrica è meno
sensibile a valori estremi, il suo valore è quindi più vicino a quello della maggior parte dei dati tra
loro poco distanti.
Il valore della media armonica (MA) è pari a 167,1354, calcolato con la formula: 𝑀𝐴 = 𝑒(
∑ ln 𝑥𝑖𝑛𝑖=1
𝑛),
ovvero è pari alla e-neperiana (una costante che, insieme a pi-greco, è tra le più importanti in
matematica per via delle sue numerose applicazioni. Il suo valore è pari a circa 2,71828) elevata ad
un esponente pari alla media aritmetica dei logaritmi delle stature. La media armonica tende ad
essere utilizzata quando la sequenza dei dati di un certo insieme segue una progressione logaritmica.
Per descrivere un insieme di dati, non è sufficiente conoscere il solo indice di tendenza centrale, ma è
necessario capire anche quanta dispersione ci sia internamente a detto insieme, ovvero come i dati siano gli
uni rispetto agli altri, se sono, ad esempio, tra loro vicini o lontani. Un esempio dovrebbe chiarire. Se
sappiamo che la statura media degli studenti della classe B è pari a 170 cm e quella degli studenti della classe
C è anch’essa 170 cm, non possiamo concludere che i singoli studenti delle due classi hanno uguali stature.
Potrebbe, infatti capitare che 𝐵 = {140,145,150,155,160,165,170,175,180,185,190,195,200} e che
l’insieme 𝐶 = {170,170,170,170,170,170,170,170,170,170,170,170,170}. I due insieme hanno ugual
media, pari a 170, ma in B gli studenti hanno stature differenti, mentre in C gli studenti sono tutti alti uguali.
Ciò che differenzia i due insiemi è la variabilità, evidente in B e pari a zero in C.
Gli indici di variabilità tipicamente calcolati sono:
- La gamma: è la differenza tra il valore massimo ed il valore minimo in un insieme di dati. Nel caso
delle stature degli studenti della classe B, la gamma è pari a 170 – 170, quindi 0. Nel caso della
classe C è pari a 200 – 140, quindi 60 cm.
- La differenza interquartilica: preso l’insieme di dati ordinato in modo crescente, quella
interquartilica è la differenza tra il terzo quartile, ossia il valore che occupa la posizione che lascia
alla sua destra ¼ dei dati (e quindi ¾ alla sua sinistra) ed il valore che occupa il primo quartile, ossia
la posizione che lascia alla sua destra ¾ dei dati (e quindi ¼ alla sua sinistra). La logica per il calcolo
è identica a quanto descritto per la mediana che può anche essere definita secondo quartile. Nel caso
delle stature degli studenti della classe B, il terzo quartile vale 185, il primo quartile vale 155, quindi
11
la differenza interquartilica è pari a 30 cm. Nel caso delle stature degli studenti dell’insieme C, il
terzo quartile vale 170, il primo quartile vale 170, quindi la differenza interquartilica è pari a zero.
- La deviazione standard: esprime una forma di distanza che i singoli dati hanno dalla loro media
aritmetica. La deviazione standard (DS) è, quindi, un indice di distanza media di una serie di dati da
un valore di tendenza centrale. Si calcola per mezzo della formula: 𝐷𝑆 = √∑ (𝑥𝑖−𝑀𝐴)2𝑛
𝑖=1
𝑛. In
riferimento alle stature della classe B, DS vale 19,4722, mentre nel caso della classe A vale zero. Il
quadrato della deviazione standard è noto col nome di varianza (VAR=DS2), un indice molto usato in
statistica. Va tenuto in considerazione che l’entità del valore di DS dipende dall’entità del valore
della media aritmetica di riferimento. Ciò che si vuol dire è che i valori di due deviazioni standard,
DS1 relativa ad un primo insieme di dati e DS2 relativa ad un secondo insieme, se DS1 > DS2 non è
detto che la variabilità interna al primo insieme sia maggiore di quella interna al secondo insieme in
quanto i due insiemi potrebbero avere medie tra loro anche molto differenti. Si veda l’esempio di
seguito riportato: “nel reparto di ginecologia e ostetricia di un ospedale è stato rilevato il peso di un
insieme di 80 neonati maschi e contemporaneamente il peso dei rispettivi papà. I dati ottenuti sono
riportati dicono che il peso medio dei neonati è di 3,6 kg con una deviazione standard di 0,9, mentre
il peso medio dei papà è di 80 kg con una deviazione standard di 12”. Se ci si basasse sui soli valori
delle deviazioni standard di tenderebbe a dire che c’è più variabilità tra i pesi dei papà piuttosto che
tra i pesi dei neonati (12 > 0,9). Come si è detto, tuttavia, deve essere considerato anche il valore
della media: quella dei papà è decisamente maggiore a quella dei neonati (80 > 3,6). Il modo
migliore per capire dove stia la maggior variabilità è quello di computare il coefficiente di variazione
(CV), dividendo la deviazione standard per la relativa media. Nel caso dei papà 𝐶𝑉 =12
80= 0,15,
mentre nel caso dei neonati 𝐶𝑉 =0,9
3,6= 0,25. Ne consegue che la variabilità nell’insieme dei neonati
è maggiore di quella nell’insieme dei papà (0,25 > 0,15).
A partire da quanto ora riportato, è opportuno ricordare che la distribuzione normale:
- è simmetrica rispetto al valore centrale;
- ha moda, mediana e media che coincidono;
- racchiude un’area sotto la curva che, comprendendo il 100% dei casi, corrisponde ad una probabilità
pari ad 1 (si ricorda che una probabilità va da un valore minimo pari a zero, corrispondenze allo 0%
dei casi, ad un valore massimo pari ad 1, corrispondente al 100% dei casi);
- possiede due punti di flesso, ovvero punti in cui la sua curvatura cambia direzione passando da
convessa a concava e viceversa. Questi punti corrispondono rispettivamente al valore centrale
(moda, media e mediana, coincidenti per l’appunto) meno e più una deviazione standard (figura 51):
in questa porzione di area compresa tra i due flessi cade il 68,27% dei casi. Se si considera l’area che
comprende due deviazioni standard sotto la media e due deviazioni standard sopra, si determina una
porzione di distribuzione normale in cui cade il 95,45% dei casi. Se le deviazioni standard sottratte e
addizionate alla media sono tre, si individua una porzione di distribuzione normale che comprende
praticamente tutti i casi, il 99,73%.
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Figura 51: porzioni di area sotto una distribuzione normale
Osservando la figura 51 è facile notare che, a seconda del valore della deviazione standard, ovvero a seconda
della distanza esistente tra i due flessi, la distribuzione normale può apparire più o meno
schiacciata/allargata. Si veda a tal proposito la figura 52.
Figura 52: differenti forme di una distribuzione normale conseguenti a differenti indici di variabilità
Se si rappresenta una distribuzione normale in un sistema di assi cartesiani in cui sull’asse y delle ordinate, al
posto della frequenza dei casi possibili, ci sia la proporzione degli stessi, si ottiene una funzione a forma di
ogiva o distribuzione normale cumulata (figura 53).
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Figura 53: rappresentazione cumulata delle distribuzioni normali di figura 52
Ricollocando la discussione ora riportata nel contesto della relazione psicofisica, si può arrivare a dire che ad
uno stimolo fisico può corrispondere una controparte psicologica rappresentabile da una distribuzione
discriminale di forma normale che ha un indice di tendenza centrale (il già citato processo discriminale
medio/modale) ed una deviazione standard definibile come “dispersione discriminale”. A seconda di detta
dispersione, la distribuzione discriminale relata ad uno stimolo può assumere forme differenti. Se la
distribuzione è alta e stretta, ne consegue che l’entità dei processi discriminali, controparte psicologica di uno
stesso stimolo fisico, sono tra loro piuttosto simili; se la distribuzione è bassa e larga, se ne deduce che la
consistenza dei processi discriminali relati ad uno stesso stimolo fisico sono tra loro alquanto differenti.
La forma di una distribuzione, stretta o allargata che sia, essenzialmente è una rappresentazione di quanto, un
processo discriminale generico dista dal processo discriminale medio/modale. Questa distanza può essere
quantificata utilizzando dei punteggi standardizzati noti come “punti z”. In altre parole si tratta di misurare la
distanza tra un processo discriminale i-esimo (pdi) ed il processo discriminale medio/modale (o media
aritmetica dei processi discriminali MApd) usando come unità di misura la deviazione standard DS:
𝑧 =𝑝𝑑𝑖 − 𝑀𝐴𝑝𝑑
𝐷𝑆
Così, supponendo che pdi = 20, MApd = 23 e DS = 1.5, al processo discriminare di interesse può essere
assegnato il valore, espresso in punti z, pari a -2 che sta ad indicare che quel processo discriminale si trova
due deviazioni standard sotto il valore di tendenza centrale medio, sotto il processo discriminale
medio/modale. I punti z danno il vantaggio di poter rappresentare su un univoco continuum di valori
standardizzati la posizione dei vari processi discriminali e la distanza tra gli stessi. Questo consente di
mettere in relazione anche i processi discriminali medi/modali controparte psicologica di differenti stimoli
fisici. Ossia, una volta quantificato (si vedrà in seguito come) un processo discriminale medio/modale è
possibile convertirne il valore in punti z e confrontare tale punteggio standardizzato con quello derivante dal
processo discriminale medio/modale, espresso in punti z, derivante da un secondo stimolo fisico. Ciò
consente di confrontare lungo un unico continuum di punteggi standardizzati le entità delle sensazioni
scaturite da differenti stimoli fisici.
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Concetti basilari: definizione classica delle “soglie psicofisiche”
Già nel 1824 il filosofo Herbart era convinto dell’idea che un evento mentale per raggiungere lo stato di
coscienza dovesse superare un determinato livello, dovesse, ossia, andare oltre un valore soglia. Per la
neonata Psicofisica fechneriana, questione primaria era, diversamente da Herbart che si limitava al solo
dominio mentale, determinare la relazione esistente tra quantità di stimolazione fisica (Φ) ed il relativo grado
di sensazione (Ψ) provocata. A partire da questo nascono due concetti fondamentali. In Psicofisica, secondo
la tradizione classica, si identificano abitualmente due soglie:
- La soglia assoluta (indicata come AL, absolute limen, o soglia dello stimolo) è definita come la
quantità di stimolo fisico in grado di elicitare (ossia di scatenare) una sensazione il 50% delle volte
che viene proposto ad una persona (oppure alla metà di un gruppo di persone). Si definisce, ad
esempio, soglia assoluta un suono, presentato in cuffia ad un uditore, sentito metà delle volte che
viene proposto. La soglia assoluta è un valore fisico che corrisponde con l’inizio del continuum delle
sensazioni.
- La soglia differenziale (indicata come DL, different limen), è definita come la quantità di variazione
che uno stimolo fisico deve subire per essere percepito come differente il 50% delle volte che viene
proposto. Se una linea di 5 cm osservata a 5 metri di distanza ha bisogno di essere allungata di
mezzo centimetro per essere vista come differente la metà delle volte rispetto ai 5 cm iniziali, si dirà
che la soglia differenziale vale 0,5 cm.
In altri termini è possibile definire la soglia assoluta come lo stimolo fisico che ha come controparte
psicologica un processo discriminale medio/modale che corrisponde ad un profilo di risposte date da una
persona (o da un gruppo di persone) del tipo: “SI, il 50% delle volte percepisco lo stimolo; NO, il 50% delle
volte non percepisco lo stimolo”.
La soglia differenziale può essere definita come la distanza tra le grandezze di due stimoli fisici che hanno
come controparte psicologica due processi discriminali medi/modali tra loro minimante differenti, ovvero
corrispondenti ad un profilo di risposte date da una persona (o da un gruppo di persone) del tipo: “SI, il 50%
delle volte noto una differenza tra il primo stimolo fisico ed il secondo; NO, il 50% delle volte non noto
alcuna differenza tra il primo stimolo fisico ed il secondo”. Si ha una soglia differenziale nel caso in cui
esiste, quindi, una “minima differenza percepibile”, solitamente indicata come JND (Just Noticeable
Difference), tra due processi discriminali medi/modali differenti.
Se si mettono in relazione il continuum Φ, ossia una rappresentazione tramite una retta orientata (quindi
senza interruzioni della continuità e con una gradualità al suo interno) di una proprietà fisica (es.: un peso,
una altezza, etc.) ed il continuum Ψ della sua controparte psicologica (es.: sensazione di peso, di altezza,
etc.) si ottiene una rappresentazione come quella di figura 54.
Figura 54: relazione tra continuum fisico e continuum psicologico
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La distinzione tra soglia differenziale ed assoluta ricalca la diversità esistente tra compiti di
“discriminazione” e compiti di “detezione”: si ha un compito di discriminazione quando ad un soggetto viene
chiesto di confrontare, per una o più caratteristiche, due o più stimoli. Determinare, per esempio, quale delle
due linee di figura 44 sia più lunga è un compito di discriminazione. Dire se un suono è più o meno acuto di
uno di confronto sentito poco prima è ancora un compito di discriminazione, etc. Chiaramente il termine
“discriminazione” ha a che fare con il concetto di discrepanza/uguaglianza tra caratteristiche di stimoli. Nei
compiti di detezione, invece, diventa prioritario cogliere la presenza di uno stimolo o di una sua
caratteristica, contro il non cogliere nulla. Per semplicità, si può intendere un compito di detezione come un
caso specifico di discriminazione in cui lo stimolo di confronto è nullo. Dire se si vede una luce accendersi, o
se si sente un sapore, etc. sono casi di detezione.
L’equazione di Weber
Storicamente si considera fondamentale, per la nascita della Psicofisica, la discussione sviluppatasi, a partire
dalle ricerche di E. H. Weber (1834), intorno al problema riguardante il tipo di relazione esistente tra soglia
differenziale (DL) ed il livello di intensità della stimolazione, ovvero l’entità di una proprietà dello stimolo
fisico. Per avere un’idea di quale tipo di fenomeni la legge di Weber consideri, si immagini di trovarsi in una
stanza buia. Viene accesa una piccola lampada e subito ci si accorge che le nostre sensazioni cambiano: si
cominciano a vedere attorno a noi oggetti, alcuni colori, etc. Viene quindi accesa una seconda lampada, che
aggiungendosi alla precedente rende tutto ancor più nitido. Si immagini di procedere in questo modo fino ad
arrivare ad accendere la cinquantesima lampada: è molto probabile che le nostre sensazioni prima e dopo
l’accensione di detta lampada rimangano identiche (non vi è, ovvero, alcuna JND), che non vi sia differenza,
ovvero, tra la quantità di luce percepita quando le lampade accese erano 49 e quando son diventate 50. Se
non si registra alcun cambiamento rispetto a prima significa che l’aumento di luminosità totale che la
lampadina numero 50 ha prodotto è sotto il valore della soglia differenziale DL. Se si parte dalla lampada 49
per ottenere una variazione di sensazione si dovranno accendere più lampade, supponiamo 6, arrivando ad
averne 55. Si noti come la quantità di stimolo da aggiungere, il numero di lampade in questo caso, aumenta
proporzionalmente all’entità dello stimolo da cui si è partiti: se si comincia da una lampada, ne basta solo
un’altra per modificare la sensazione di luminosità; se si comincia con 49 lampade, ne servono 6 per
produrre una modificazione della sensazione.
Weber intuì che esiste una relazione di proporzione diretta tra l’entità di DL e quella degli stimoli fisici: a
stimoli di forte intensità, corrispondono DL dal valore alto e viceversa per stimolazioni poco intense (figura
55).
Figura 55: relazione tra entità 𝚽 dello stimolo fisico e soglia differenziale DL secondo l’equazione di Weber
Volendo essere più precisi, si dovrebbe dire che l’entità di una DL è una funzione lineare dell’intensità dello
stimolo. L’equazione di Weber è quindi:
𝐷𝐿 = 𝑐Φ
dove c è una costante moltiplicativa (quindi corrisponde allo slope/inclinazione di una funzione lineare) che
cambia di valore a seconda della modalità sensoriale considerata. Si veda, a tal proposito, la tabella xxx
sottostante.
Φ1 Φ2 Φ3 Φ4
DL1 < DL2 < DL3
Continuum fisico
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Modalità sensoriale Costante di Weber (c)
Sensibilità al tatto sulle dita 0,02
Saturazione cromatica del colore rosso 0,02
Sensibilità alla correte elettrica sulla pelle 0,03
Posizione spaziale di punti 0,03
Lunghezza apparente di linee 0,04
Estensione di aree 0,06
Pesantezza 0,07
Chiarezza 0,08
Volume sonoro (tono a 1000Hz) 0,10
Volume sonoro (rumore bianco) 0,10
Gusto salato 0,14
Gusto dolce 0,17
Vibrazioni applicate alla pelle 0,20
Odore 0,24
Tabella xxx: valore della costante c in funzione della modalità sensoriale
Se il valore di c è quindi pari a:
𝑐 =𝐷𝐿
Φ
in riferimento alla figura 55 ne consegue:
𝑐 =Φ2 − Φ1
Φ1=
Φ3 − Φ2
Φ2=
Φ4 − Φ3
Φ3
I dati di tabella xxx sono utili per dire che, lo si prenda come esempio, per notare una minima variazione di
peso tra due stimoli, uno dei due deve aumentare o diminuire del 7%. Se lo stimolo Φ1 vale 100 grammi, lo
stimolo Φ2 dovrà essere almeno pari a 107 grammi per essere percepito come minimamente più pesante.
Ovvero, se:
𝑐 =Φ2 − Φ1
Φ1
allora:
Φ2 = 𝑐Φ1 + Φ1 = (0,7 × 100) + 100 = 107
Deve essere tenuto in considerazione che la relazione di linearità esistente tra DL e Φ vale solo per valori
centrali: per Φ molto piccoli o molto grandi, si registrano cambiamenti di pendenza della retta e variazioni
imprevedibili del valore di c.
L’equazione di Fechner
La relazione tra stimolo e sensazione che deriva dalla percezione dello stesso studiata inizialmente da Weber,
è stata poi riesaminata da Fechner (1860) che cercò di descrivere il legame esistente tra eventi fisici ed
esperienza cosciente suggerendo che a progressioni aritmetiche dell’intensità dei fatti mentali, corrispondono
progressioni geometriche dell’energia dei fatti fisici. Secondo Fechner la grandezza di ogni sensazione
esperibile può essere quantificata indirettamente mettendo in relazione il valore di DL sul continuum fisico
con il corrispondente valore della minima differenza percepibile (JND) in termini di sensazione lungo il
continuum psicologico.
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L’assunzione fondamentale consiste nel ritenere tutte le JND derivanti dai differenti valori di DL come
incrementi costanti lungo il continuum Ψ delle sensazioni, una sorta di unità di misura psicologica (figura
56).
Figura 56: relazione tra JND e DL nell’equazione di Fechner
Secondo Fechner risulta quindi possibile costruire una scala per la quantificazione delle sensazioni
semplicemente contando le JND a partire dalla soglia assoluta (AL), ovvero da quella quantità di stimolo
fisico a cui corrisponde una sensazione pari a zero sul continuum psicologico. Ne consegue, ad esempio, che
uno stimolo che produce una sensazione pari a 4 JND sopra AL, dovrebbe essere percepito come doppio
rispetto ad uno che ne produce una di 2 sopra AL e la metà rispetto a quello che ne produce una di 8 sopra
AL. Assumendo come vera l’equazione di Weber, Fechner calcolò il numero di JND sopra AL per specifici
valori della stimolazione fisica. Se la costante c di Weber fosse, ad esempio, pari a 0.2 ed il valore di AL
corrispondesse ad uno stimolo di partenza pari a 10 unità (arbitrarie), il valore dello stimolo fisico
corrispondente alla prima JND risulterebbe pari a:
Φ1 = (10 × 0.2) + 10 = 12
Il valore dello stimolo fisico corrispondente alla seconda JND sarebbe uguale a:
Φ2 = (12 × 0.2) + 12 = 14.4
La stessa logica vale per gli stimoli fisici riportati in tabella yyy.
Numero di JND sopra AL Intensità dello stimoli fisico
0 10
1 12
2 14.4
3 17.28
4 20.79
5 24.89
6 29.86
7 35.83
8 43
9 51.60
10 61.92
Tabella yyy: numero di JND sopra la soglia assoluta ed intensità dello stimolo fisico corrispondente in unità arbitrarie
Se si rappresentano sul piano cartesiano i valori di tabella yyy, si ottiene una funzione logaritmica (figura 57)
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Figura 57: relazione/funzione logaritmica tra JNG sopra la soglia assoluta ed intensità dello stimolo fisico
Data la relazione di tipo logaritmico osservata tra continuum fisico e continuum psicologico, ne consegue
l’equazione di Fechner:
Ψ = k × log Φ
ovvero, la grandezza della sensazione è pari al logaritmo dell’intensità dello stimolo moltiplicato per una
costante k il cui valore dipende dalla particolare modalità sensoriale presa in esame. Due sono le assunzioni
su chi poggia l’equazione di Fechner:
- la costante c di Weber è sempre uguale a se stessa (assunzione vera, come si è visto, solo per valori
intermedi della stimolazione);
- i valori di JND sono sempre costanti all’aumentare dell’intensità degli stimoli fisici.
Stevens (1936) dimostra che la seconda assunzione è da considerarsi falsa. L’importanza dell’equazione di
Fechner non viene comunque meno nonostante sia oggi ritenuta inadeguata per descrivere la relazione Φ - Ψ:
l’idea sottostante fu rivoluzionaria e ritenuta comunque corretta per almeno 100 anni dagli psicologi del
passato.
L’equazione di Stevens
Stevens (1957), pur accettando la funzione logaritmica di Fechner come una buona approssimazione quando
gli stimoli fisici non assumono valori estremi del continuum, ripropose con successo le osservazioni a cui già
Plateau (1872) era giunto prima. Secondo Stevens la funzione che meglio descrive la relazione tra continuum
fisici e continuum sensoriali è di tipo potenza:
Ψ = 𝑘Φℎ
dove k è una costante moltiplicativa, h è l’esponente, dipendente dalla modalità sensoriale considerata, a cui
Φ è elevato. L’idea basilare è che al variare dell’intensità di una serie di stimoli generici secondo un preciso
rapporto, anche l’intensità delle relative sensazioni elicitate varia in base la medesimo rapporto. Ovvero, se
per Fechner è vera l’espressione:
𝑠𝑒Φ2
Φ1=
Φ3
Φ2 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎 Ψ2 − Ψ1 = Ψ3 − Ψ2
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per Stevens, invece, vale:
𝑠𝑒Φ2
Φ1=
Φ3
Φ2 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎
Ψ2
Ψ1=
Ψ3
Ψ2
In tabella zzz vengono riportati gli esponenti più importanti calcolati per l’equazione di Stevens.
Modalità sensoriale Esponente (h) Stimolo adoperato
Volume sonoro 0.67 Segnale 3150 Hz
Chiarezza 0.33 Oggetto al buio
Chiarezza 050 Flash luminoso
Odore 0.60 Eptanolo
Gusto 1.30 Saccarosio
Gusto 1.40 Sale
Temperatura 1.00 Stimolo freddo al braccio
Temperatura 1.50 Stimolo caldo al braccio
Vibrazione 0.95 Vibrazione da 60 Hz su un dito
Durata 1.10 Rumore bianco
Tatto 1.30 Spessore di piccoli mattoni
Pressione sul palmo 1.10 Forza statica sulla pelle
Pesantezza 1.45 Pesi da sollevare
Stretta di mano 1.70 Dinamometro a mano
Sforzo vocale 1.10 Pressione del suono
Shock elettrico 3.50 Corrente elettrica sulle dita
Ruvidità 1.50 Sfregamento carte smerigliata
Lunghezza visiva 1.00 Linee
Area visiva 0.70 Quadrati
Accelerazione angolare 1.40 Stimoli della durata di 5 secondi
Tabella zzz: esponenti dell’equazione di Stevens in relazione alla modalità sensoriale
Se l’esponente è inferiore ad 1 la funzione potenza rappresentata graficamente assume la forma di una curva
negativamente accelerata, se è superiore ad 1 positivamente accelerata. Quando l’esponente è pari ad 1, la
funzione potenza equivale a quella di una retta (figura 58).
Figura 58: differenti esponenti della equazione potenza di Stevens messi a confronto
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Dal grafico di deduce che alcuni sistemi sensoriali funzionano come attenuatori al crescere della
stimolazione fisica (l’esempio della “chiarezza”), altri come esaltatori (l’esempio dello “shock elettrico”) ed
altri sono neutri (l’esempio della “lunghezza apparente”). Vi è una spiegazione biologica a tale fenomeno: è
vitale che l’organismo reagisca sempre con maggiore intensità a stimoli che possono diventare dannosi
(quale lo “shock elettrico”) oppure che di adatti a stimolazioni la cui gamma di informazione “utile” è molto
ampia (l’esempio della “chiarezza”). Anche all’equazione di Stevens non sono state risparmiate le critiche, le
principali delle quali contestano l’eccessiva artificiosità sperimentale della procedura e la non veridicità della
funzione potenza per valori estremi.
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