soggetto. lacan con winnicott.centropsicoanaliticodiroma.it/wp-content/uploads/2020/01/...2...
Post on 21-Mar-2021
6 Views
Preview:
TRANSCRIPT
1
LE ORIGINI DEL RICONOSCIMENTO NELLA COSTRUZIONE DEL
SOGGETTO. LACAN CON WINNICOTT.
Cristiana Cimino
In omaggio all’assioma di Rimbaud caro ai surrealisti, nel testo del 1949 Lo
stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io1 (rivisitazione
di una comunicazione tenuta nel 1939 al congresso di Marienbad dell’IPA
che è andata perduta), è già chiaro a Lacan che io è un altro. In piena fedeltà
al lascito freudiano sul narcisismo, secondo Lacan l’Io originario costruisce
se stesso sull’immagine idealizzata dell’altro. La propria gestalt colta in
quello specchio che l’altro è per lui, rimanda all’Io in formazione il
vagheggiamento della propria originaria e presunta perfezione. Lacan
attinge qui sia agli studi di Wallon sulla percezione che a quelli di etologia
dell’epoca. Il potere morfogeno e necessario dell’immagine speculare
permette così una prima strutturazione dell’Io. Essa contiene e tiene a bada
il rovescio della medaglia, costituito dal reale dell’incompiutezza corporea,
dal fantasma del corpo in frammenti che nasce dalla prematuranza reale del
bambino. Essa lo differenzia da tutti gli altri animali rendendolo un animale
irrimediabilmente disadattato e costringendolo a sperimentare il freudiano
vissuto di Hilflosigkeit. L’impotenza, la derelizione, nella lettura lacaniana
che vede l’altro nelle sue varie declinazioni, grande o piccolo che sia, come
preesistente (sia in senso logico che cronologico) per definizione al
1 Lacan J. (1949), Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, volume I, Einaudi, Torino, 2002.
2
soggetto, è dovuta essenzialmente al vissuto di dipendenza dalla potenza che
l’altro è per lui. Non più <<sua maestà il bambino>> (Freud, 1914) dunque,
il bambino onnipotente come stato era per Freud. Lacan affermerà con forza
nel Seminario IV2che è l’adulto il vero onnipotente, è da lui che l’infans
dipende in tutto e per tutto, e soprattutto dal dono del suo amore. L’idea
lacaniana di una nascita precoce, anzitempo, del piccolo umano precorre
quella di Reale, di qualcosa che sfugge radicalmente ad ogni presa che tanto
lo occuperà nell’ultima parte del suo percorso. Al punto dello sviluppo che
coincide con lo stadio dello specchio, l’infans si vede illudendosi di essere
come non è, ma questo gli è necessario perché gli fornisce la prima forma
di soggetto nel caos in cui si trova. Detto altrimenti, la vista del proprio
corpo intero e perfetto fornisce all’infans una padronanza immaginaria che
anticipa quella reale3. Tale momento originario in cui il piccolo di uomo si
guarda e si concepisce come altro da quello che è, è una dimensione
essenziale dell’essere umano. Essa strutturerà tutta la vita fantasmatica e
resterà come registro psichico sempre presente. La dialettica lacaniana dello
specchio attribuisce dunque all’Io una doppia alienazione: da un lato l’Io è
costitutivamente fuori di sé perché si struttura sull’altro (Io è un altro), ed è
in questo altro che trova la propria origine ed una possibile forma iniziale.
Questa è la lettura lacaniana del narcisismo freudiano. Dall’altro lato l’Io è
condannato a non poter mai corrispondere alla perfezione immaginaria
dell’altro in cui si specchia. All’epoca di questa prima teoria
dell’alienazione per Lacan è dunque già chiaro che soggetto e Io non
corrispondono. Il soggetto è per Lacan, evidentemente, il soggetto
2 Lacan J., Il Seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto, 1956-57, Einaudi, Torino, 1996. 3 Lacan J., Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud 1953-54, Einaudi, Torino, 1978.
3
dell’inconscio, quello che si esprime nelle sue formazioni: sintomi, atti
mancati, sogni, motti di spirito. In esso risiede la verità del soggetto e la sua
sovversione, l’eredità freudiana che Lacan raccoglierà annunciando il suo
ritorno a Freud. L’assimilazione del soggetto all’Io operata dalla
psicoanalisi post-freudiana sarà il tradimento e lo asservimento della
psicoanalisi alla psicologia. Per Lacan l’Io è quello che si costituisce così
come descritto nella dialettica immaginaria dello specchio: esaltato e
impotente, rapace e fragile, fondamentalmente alienato, catturato
dall’appetizione e dalla rivalità aggressiva verso l’altro. Paranoico. Eppure
la dialettica immaginaria resta centrale nella costruzione del nucleo del
soggetto grazie a quell’illusione che contiene il reale e che consente di
immaginarizzarlo nel fantasma inconscio. Anche quando Lacan, più tardi
(nel corso degli anni ’50), assegnerà un primato assoluto al simbolico e al
potere del significante, o quando (già dalla fine degli anni ’50) attraverserà
le ambasce legate al tema del godimento e del reale. Da un certo momento
in poi, anche rispetto alla relazione speculare, per Lacan conterà questo: la
posizione del soggetto nel Simbolico. La tripartizione lacaniana dello
psichismo in Simbolico, Immaginario e Reale costituirà un transito epocale
inaugurato, con formalizzazione dello stadio dello specchio, dalla lettura
della teoria freudiana del narcisismo che ormai si configura come dialettica
dell’immaginario. Non solo l’Io si costituisce sull’esteriorità dell’immagine
idealizzata, ma l’oggetto investito libidicamente è collocato nel luogo
dell’idealizzazione: non si ama che il proprio ideale, insomma. Lacan
esplicita la portata di questa enunciazione freudiana e sottolinea, sulle tracce
di Freud, tutta la valenza ingannatoria della tensione desiderante verso
4
l’altro a livello dell’Io. Essa, tutta declinata sul piano delle identificazioni
immaginarie, prevede la coincidenza del soggetto con l’Io eludendone
l’intima divisione che ne fa il soggetto dell’inconscio. Soggetto come luogo
dell’Altro dunque, come luogo della parola anziché come termine di un
gioco di infiniti rimandi immaginari. Da un certo momento in poi la
questione per Lacan sarà chi parla a chi, chi è l’Altro (a questo punto
grande) a cui la parola è rivolta. Tuttavia, la relazione immaginaria
primordiale fornisce non solo la prima strutturazione dell’Io, ma anche il
modello per ogni possibile legame erotico che <<ad essa si deve
sottomettere>> (Lacan, 1953-54, p. 217) per poterla trascendere. Essa
inoltre permette, come del resto era stato per Freud, la valorizzazione
dell’oggetto in quanto oggetto idealizzato, perfetto (fallico).
L’immagine speculare (dell’altro) produce dunque quell’illusione di
padronanza, il giubilo del bambino nel vedere se stesso nella forma che
l’altro gli rimanda di sé, di cui parla Lacan nel testo del ’49. Nel Commento
Lacan si spinge a dire che ciò che conta è il testimone a cui lo sguardo del
bambino si rivolge (la madre) per avere conferma di ciò che vede. Ma non
è l’<<aneddoto>> (Ibid.) del personaggio madre che conta: proprio perché
è un’illusione, secondo Lacan, ciò che vede non può essere veramente
assunto dal soggetto al proprio interno. Prima che intervenga il simbolo, la
parola che attraversa il corpo e introduce le rappresentazioni facendone un
corpo parlante, e prima che il proprio desiderio venga riconosciuto
dall’Altro (dalla sua parola), <<esso può essere colto solo nell’altro>>
(Ibid., p. 212). Evidentemente qui Lacan si sforza come sempre di mettere
in logica e uscire dai cascami psicologistici. Per questo il movimento duale
5
Io/altro-immaginario (l’altalena, la pura specularità) è indefinito e
costituisce quell’alienazione a cui non c’è via di uscita. Se si mantenesse
solo questo piano, non sarebbe possibile nessuna convivenza tra esseri
umani. Essa diventa possibile con l’introduzione della mediazione
simbolica, con il riconoscimento del proprio desiderio attraverso la parola.
La rivalità aggressività è dunque componente costitutiva ed esiziale della
dialettica immaginaria. All’altro ci lega l’amore ma, immancabilmente,
anche l’odio, condizione di ambivalenza costitutiva per cui Lacan creerà il
termine di hainamoration. L’origine dell’aggressività risiede nella rivalità
immaginaria e non, come sosterrà la Ego Psychology, nella frustrazione.
Essa è dunque componente ineliminabile, strutturale di ogni legame con la
quale si devono fare i conti. La presa immaginaria che l’altro esercita su di
noi come fascinazione e come rivalità distruttiva non solo è componente
integrante del legame con l’altro, essa rappresenta il modo essenziale
attraverso il quale l’Io entra in relazione con il mondo, lo conosce, tesi che
spingerà Lacan ad affermare che <<la conoscenza è fondamentalmente
paranoica>> (Lacan, 1932). E che, portata alla estreme conseguenze, darà
luogo alla paranoia conclamata, che Lacan ha illustrato nella sua tesi di
dottorato4 con l’analisi del caso di Aimeé. Aimeé, le sorelle Papin, (l’altro
caso commentato da Lacan e non solo: esso è stato celebrato da artisti, poeti,
uomini di lettere, dall’intero mondo surrealista) tutti modi di essere nel
mondo che in fondo radicalizzano quello che per Lacan è l’unico modo
possibile per l’Io di essere nel mondo. Un modo che è insieme bisognoso e
violento, tragico e commovente. Che talvolta può spingersi sino al tentativo
4 Lacan, J. (1932) Della psicosi paranoiaca nei suoi rapporti con la personalità, Torino, Einaudi, 1980.
6
di recuperare e/o distruggere nel reale il proprio doppio idealizzato, la
perfezione irraggiungibile. Sin dall’inizio del suo insegnamento Lacan ha
adottato la lettura di Hegel mediata da Kojève, che è centrale per la sua
concezione della costruzione del soggetto. Tuttavia, la dialettica
immaginaria che caratterizza lo stadio dello specchio è piuttosto lontana
dalla dialettica hegeliana del riconoscimento nella lettura fornita da Kojève,
perché tutta attorcigliata intorno alla dualità rivalitaria e alle istanze violente
di impossessamento. La componente aggressiva che è in primo piano ha
come unico sbocco il puro desiderio di annientamento dell’altro, ricettacolo
e sostegno del desiderio del soggetto stesso. Il desiderio di riconoscimento
in Hegel e l’assioma che Lacan ne trarrà con la mediazione di Kojève – il
desiderio è il desiderio dell’Altro - caratterizza il passaggio a ciò che è
culturale, umano, ed ha a che fare con il Lacan successivo. Il Lacan della
dialettica immaginaria è molto più radicale rispetto a quello seguente:
l’alienazione nell’alterità speculare è insanabile. La prospettiva lacaniana è
qui semmai più vicina a quella kleiniana5 sull’angoscia persecutoria indotta
originariamente e inevitabilmente dall’incontro con l’altro, che diventa
motore di tutto lo psichismo. Come per Lacan, anche per Melanie Klein
siamo da subito precipitati nel campo dell’altro (o Altro). E anche per
Winnicott, come vedremo. Fin dalla sua formalizzazione della prima
alienazione Lacan è comunque preoccupato dello statuto dell’alterità, del
posto che essa occupa rispetto al soggetto e alla sua costruzione. L’essere
umano sin dall’origine struttura se stesso fuori di sé, attraverso un altro che
a questo stadio funziona come forma idealizzata, perfetta, miraggio di se
5 Vedi anche Di Ciaccia A., Recalcati M., Jacques Lacan, Milano, Mondadori, 2000.
7
stesso. Essa gli fornisce quel tanto necessario di padronanza che tenga a
bada la sua frammentazione, il corpo in pezzi reale che è legato
all’impotenza primitiva dell’essere umano. Tale immagine idealizzata
dell’altro/Io è il luogo dove l’oggetto d’amore è collocato e/o dove l’ideale
è proiettato. Tuttavia, anche nell’ambito della dialettica immaginaria –che a
questo punto perde la sua originaria virulenza – presto è la parola a
indirizzare e a decidere il grado di corrispondenza o di perfezione
dell’immagine speculare. E già si parla di desiderio, anche a livello
immaginario, a patto che esista un indicatore che vada oltre l’immaginario
stesso, che lo trascenda. Lacan attribuisce questa funzione all’Ideale dell’Io
che rappresenta <<l’altro in quanto parlante, in quanto ha con me una
relazione simbolica.>> (Lacan, 1953-54, p. 177)”. In quello che Lacan
chiama <<desiderio non domato>> (ibid. p. 185), spezzettato, alienato in un
altro – l’intermediario – il soggetto trova un’ideale e illusoria padronanza.
Nell’ambito di questa altalena di scambio con l’altro immaginario, grazie
all’introduzione della parola, a poco a poco l’essere umano ri-conosce se
stesso inizialmente come corpo, come forma che può sempre essere
rimaneggiata, che oscilla in continuazione. Questa è l’identificazione, l’Io
freudiano strutturato come una cipolla, fatto di successivi strati di
identificazioni con gli oggetti amati che gli hanno conferito quella forma.
Ogni volta che questo accade, dice Lacan, quando insomma si deve nutrire
l’Io Ideale, lì dove si produce lo stesso giubilo dello stadio dello specchio,
nasce il desiderio – che di per sé punterebbe alla distruzione dell’altro- che
può tornare, invece, indietro al soggetto come desiderio verbalizzato,
simbolizzato. L’identificazione immaginaria e l’amore sono dunque
8
percorsi da un doppio movimento: da una parte il soggetto resta comunque
intrappolato in un’economia libidica di tipo narcisistico che vede l’oggetto
d’amore come coincidente con le richieste dell’Io Ideale –Lacan suggerisce
per loro una <<esatta equivalenza>> (Ibid.) - dunque come una ripetizione
di ciò che è stato. Questo è il narcisismo freudiano. E’ quello che accade nel
colpo di fulmine, un esempio per tutti: Werther con Carlotta. Dall’altra si
apre, grazie alla funzione del simbolico, a un continuo rimaneggiamento
della struttura che lo rappresenta, cioè l’Ideale dell’Io. Al corto circuito
narcisistico al livello dell’Io Ideale fa da contraltare la rinegoziazione e
ristrutturazione dell’Io e del suo Ideale. Essa può avvenire nella misura in
cui ambedue sono esposti agli effetti dell’oggetto d’amore che ne modifica
la forma. Quella cipolla che è l’Io permette, nell’amore o nella cura, un
continuo rimaneggiamento delle sue stratificazioni. Da subito il legame con
l’Altro per Lacan non è dunque solo un’operazione che lo colloca al posto
dell’Ideale dell’Io ma anche la possibilità di rinnovare la struttura dell’Io e
del suo Ideale lasciandosi sconvolgere dall’oggetto. L’alienazione
nell’altro, immaginaria o simbolica che sia, ha dunque un versante di
potenzialità che Lacan dichiara molto presto, a cui è affidata la possibilità
del cambiamento, tema che segnerà in modo quasi ossessivo la ricerca
lacaniana.
Nel 1967 Winnicott pubblica il suo saggio fondamentale La funzione di
specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile6, dichiarando
esplicitamente in apertura di avere tratto ispirazione da quello lacaniano del
1949. Egli tiene a precisare, tuttavia, che egli pensa lo specchio
6 Winnicott D. W. (1967), La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile, in Gioco e realtà, Roma, Armando, 1990.
9
letteralmente in termini di volto della madre (della realtà). Winnicott si
riferisce, infatti, soltanto ai bambini che hanno l’uso della vista. Lacan
provvederà a far tradurre in francese il testo di Winnicott, pretesto per un
breve carteggio tra i due e di un unico incontro. Lacan, già in grande
difficoltà con l’IPA, spera nell’intercessione di Winnicott ai fini di un invito
al congresso della Società Britannica di Psicoanalisi che non si
concretizzerà.
La funzione di specchio è un testo esemplare in cui sono rintracciabili in
modo esplicito o implicito quasi tutti i concetti chiave del pensiero di
Winnicott, primo tra tutti quello di ambiente inteso essenzialmente come
madre-ambiente con la quale il bambino è inizialmente tutt’uno (<<non
esiste un bambino, esistono solo una madre e un bambino>>) e da cui ha il
compito di separarsi fino a poterla percepire oggettivamente. La madre-
ambiente sufficientemente buona ha i compiti cosiddetti di contenere,
manipolare, presentare l’oggetto, ad es. il seno (holding, handling, object
presenting). Queste tre funzioni costruiscono e sostengono quella che
Winnicott ritiene la legittima esperienza di onnipotenza infantile necessaria
all’illusione che gli oggetti del mondo che circondano il bambino, primo fra
tutti la madre e il seno che lo nutre sono oggetti soggettivi, ossia creati dal
bambino stesso. Questo esercizio necessario di onnipotenza richiede che
l’oggetto (la madre) venga trovato in un tempo e in un luogo quasi esatti a
quelli in cui l’infans si aspetta di trovarlo. Ciò rende possibile l’esperienza
di illusione (che non è una fantasia, ma un’esperienza, insiste Winnicott)
che il mondo sia creato da lui. Essa costituisce la base di una accettabile
10
salute mentale che permetterà di muoversi nel mondo e di usare gli oggetti7.
Quando il bambino attaccato al seno comincia a guardarsi intorno cosa
guarda? E’ assai probabile che egli guardi il volto della madre, e cosa vede
nel volto della madre? Se le cose vanno bene il bambino si vede come in
uno specchio, o meglio, vede ciò che la madre vede, ossia se stesso visto
(riconosciuto) dallo sguardo materno. Ci sono, tuttavia, madri che guardano
e non vedono, madri irrigidite nelle proprie difese o chiuse nel lutto che
altrettanto non permette loro di vedere, ecc. Se le cose non vanno bene,
dunque, ciò che il bambino vede è semplicemente la faccia della madre,
anziché la propria immagine riflessa in essa, faccia che a quel punto non è
più uno specchio ma semplicemente una faccia. La percezione ha preso il
posto di un iniziale e significativo scambio con il mondo circostante e con
la futura possibilità del bambino di costruire il proprio Sé, concetto più caro
a Winnicott rispetto a quello di Io. Il volto della madre diventa dunque, da
<<una cosa in cui guardare, una cosa da guardare>> (Winnicott, 1967).
L’infans sviluppa così uno stato di allarme, una sorta di onnipotenza maligna
(che Winnicott chiamerà falso Sé) nella forma di un eccesso di attenzione
che tende a prevenire gli eventi anziché lasciare che essi accadano, una
tensione al limite della sostenibilità, vicina al caos psichico. La vita che
inizia a costruirsi assumerà un carattere di <<futilità>> (Ibid.) perché il Sé
non riesce ad avere un vero contatto con la realtà in quanto non si è potuta
sperimentare l’illusione come esperienza strutturante della soggettività.
Winnicott chiama i primi momenti della distinzione tra me e non-me (di
soggettivazione, insomma), quando il bambino <<si arrischia a dire io
7 Winnicott D. W. (1969), L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni, in Gioco e realtà, Roma, Armando, 1990.
11
sono>> (Ibid.), momenti a nudo, in cui il bambino si sente “infinitamente
esposto” (al reale?). Ha bisogno di <<braccia che lo tengano>> (Ibid.). Ha
bisogno dell’illusione. Le stesse spinte pulsionali, in presenza di una madre
holding e che funziona come specchio, vengono sentite non come
provenienti dall’esterno ma come parte del Sé. La tutela dell’infans
finalizzata a metterlo in condizioni di padroneggiare ciò di cui fa esperienza,
a prevenire l’angoscia legata al trauma, nella prospettiva winnicottiana è
possibile. Questo è forse il punto in cui egli è più distante dalla prospettiva
lacaniana (ed evidentemente anche da quella freudiana). Winnicott ha una
concezione dichiaratamente armonica dell’impatto del soggetto con il
mondo, il trauma non è fisiologico, si può prevenire e neutralizzare. Per
Lacan (e per Freud) il trauma, che sia pulsionale o di linguaggio, non solo è
sempre previsto, ma stutturale. Se per Winnicott la presenza di un buon
oggetto reale preserva dalla nostalgia, diremmo dalla mancanza, per Freud
e per Lacan in modo ancora più radicale, l’oggetto è per sempre (o da
sempre) perduto (e insostituibile) e sempre da ritrovare. La nostalgia non
può che connotare il rapporto con l’oggetto che si muove comunque su un
fondo di assenza. Il negativo (la castrazione, la perdita) introduce la
mancanza e permette il movimento, il desiderio, la vita stessa. Sono
prospettive piuttosto incommensurabili. Lo sguardo di Winnicott è a metà
tra uno sguardo da neurofisiologo (da empirista) e uno sguardo da
psicoanalista che ha presente la portata dei movimenti inconsci e delle
fantasie (anche se sottolinea il concetto di esperienza che effettivamente
riesce a coniugare il versante psichico con quello somatico) corrispondenti
all’incontro con il volto materno come specchio e alla sua funzione. Ma
12
Winnicott lo dice chiaro e forte: la realtà conta di più e un dato essenziale
della realtà (intesa come dato oggettivo) è la dipendenza assoluta del lattante
dalla madre. L’indipendenza dall’altro non è mai assoluta, mai compiuta.
La soggettività si costituisce (come per Lacan, con le evidenti differenze) su
quella stessa alterità da cui ci si deve separare ed è un processo che non si
arresta mai. La madre (reale) sufficientemente (passabilmente) buona e
l’ambiente mediamente prevedibile o facilitante è un ambiente che non
costringe il bambino a reagire ad esso dando luogo alla strutturazione del
falso Sé, ma si adatta a lui e alla sua necessità di credere che il mondo e
tutti gli eventi, compresa la nascita, siano inizialmente creati da lui perché
possa sperimentare l’illusione. A poco a poco l’adattamento quasi perfetto
della madre al bambino deve anche venire meno perché il piccolo possa
iniziare a disilludersi, come, osserva Winnnicott, in una malattia (quella
materna) necessaria che deve tuttavia guarire. Pur rivendicando la continuità
con Freud, Winnicott insiste sul creare (concetto estremamente originale, in
ambito psicoanalitico) a fronte del freudiano allucinare. Il rapporto con
l’oggetto primario è marcato dal suo collocarsi quasi esattamente lì dove il
bambino si aspetta di trovarlo. Secondo Winnicott la fase di illusione
precede quella di allucinazione, è necessario saperla cogliere, farci caso. Da
questo spazio potenziale di illusione o spazio transizionale ha origine il
gioco, poi la creatività e ogni forma espressiva. La strutturazione di uno
spazio transizionale prevede l’utilizzo di un cosiddetto oggetto
transizionale: esso, <<a metà tra pollice e orsacchiotto>> (Winnicott (1951),
Oggetti transizionali e fenomeni transizionali), non è né mio né tuo, <<non
è un oggetto interno, né un oggetto esterno, è un possesso>> (Ibid.). Occupa
13
un’area intermedia tra creatività primaria (l’illusione) e percezione
oggettiva. Senza la possibilità di sperimentare lo spazio transizionale non
c’è possibilità per l’essere umano di sperimentare un rapporto significativo
con l’oggetto percepito come esterno e quindi di usarlo. Quella transizionale
è un’area che non va messa in dubbio. Il piccolo non si deve chiedere da
dove viene l’oggetto, se da dentro o da fuori e questa esperienza è cruciale
per la costituzione della soggettività. Non basta, ad es., la dinamica
kleiniana di proiezioni e rentroiezioni in cui consiste la relazione di oggetto
(fantasmatica), qui si tratta di esperienza di realtà. Questo è il nucleo del
pensiero di Winnicott: la possibilità di sperimentare l’illusione a cui
contribuisce in modo fondamentale l’uso dell’oggetto, che si trova a metà
strada: fuori dal controllo onnipotente ma nemmeno del tutto fuori dal
controllo. Quando non serve più esso semplicemente decade, non viene
introiettato, perde semplicemente valore mentre la sua influenza si esercita
su tutto il campo del gioco e poi di ogni esperienza creativa.
Nel Seminario IV, Lacan cita Winnicott in modo sbrigativo e un po’
condiscendente non mancando di bollare l’oggetto transizionale come
oggetto immaginario8. Egli rovescia la prospettiva winnicottiana: quando
viene meno la madre in quanto istanza simbolica, ossia come quella che
trasforma il grido del bambino in appello e che ad esso risponde, istituendo
l’alternanza di presenza-assenza (fort-da) e quindi il desiderio, la madre
diventa reale (primo Altro reale) e dunque una potenza per il bambino che
lì sperimenta tutta la sua derelizione. Ma questo, per Lacan non solo non è
evitabile, è, anzi, necessario all’infans perché abbia la misura del dono
8 Lacan J., op. cit., pp 31-33.
14
d’amore che la madre fa di se stessa e dunque dell’amore in generale. Per
Winnicott invece ciò che è strutturante è l’illusione, il non accorgersi da chi
viene il dono, perché il dono, almeno inizialmente, deve essere creato dal
soggetto stesso. Senza avere sperimentato l’esperienza dell’illusione non si
riuscirà ad usare veramente gli oggetti, analista compreso. L’uso di un
oggetto, secondo Winnicott, prevede il riuscire a collocarlo fuori dall’area
dei fenomeni soggettivi, illusione compresa, accettandone l’esistenza
indipendente, di cosa in sé, ossia <<la proprietà di essere stato sempre là
dove si trova>> (Winnicott, 1969). Il nucleo dell’esperienza dell’illusione
consiste insomma in quel paradosso per il quale l’oggetto è creato dal
bambino ma allo stesso tempo era lì per essere creato, per essere investito
di carica. Qui, declinato in modo del tutto personale, ritroviamo il Freud
della negazione, del ri-trovamento dell’oggetto, oggetto che è dentro ma che
è anche fuori pronto ad essere ri-trovato.
In conclusione, la prospettiva lacaniana e quella winnicottiana rispetto alle
origini della costruzione del soggetto appaiono al tempo stesso
curiosamente vicine e lontane. Da un lato il potere morfogeno e necessario
che Lacan attribuisce all’immagine non è molto differente da quello,
altrettanto strutturante, attribuito da Winnicott alla funzione del volto
materno come specchio. Per Lacan, come abbiamo visto, si rende quasi da
subito necessaria l’introduzione nella dialettica immaginaria di un terzo
polo che presto acquisterà il suo primato. La relazione che lega l’Io al
proprio oggetto, pur nel suo valore strutturante, è per Lacan una relazione
intrappolata nella presa che esercita l’immagine dell’altro, alimentando così
un legame (immaginario, egoico) che è all’insegna del reciproco
15
impossessamento e della reciproca ambivalenza, quell’altalena da cui non
si esce se non per una terza via. La presenza reale della madre scandita
dall’intermittenza di presenza-assenza la rende una potenza per il bambino
che da lei dipende non (solo) per i suoi bisogni, ma per il dono del suo
amore. L’alternanza di cure e di amore permette al bambino di trasformare
il bisogno in domanda d’amore, passaggio cruciale che avviene su un piano
simbolico. Il punto non è, secondo Lacan, fornire all’infans (o
all’analizzante) oggetti di soddisfacimento, ma trasformarli in oggetti che
sono segni d’amore, o meglio, fare dello stesso segno d’amore un oggetto9.
Lo scarto è dunque quello tra bisogno e domanda, tra la madre che nutre e
la madre che fornisce quel quasi nulla che è il suo amore. La madre offre se
stessa in quanto mancante, offre il (segno del) suo amore, e trasforma la
domanda che immaginariamente può sempre essere colmata, in domanda
d’amore sempre insoddisfatta, beante. Il passaggio a un piano simbolico è
segnato dalla trasformazione del bisogno in domanda (d’amore) da parte dei
significanti forniti dall’Altro. Nessuna apertura è prevista all’oggetto
armonico, quello destinato a sanare ogni ferita, a riempire ogni mancanza.
La mancanza non può essere riempita semplicemente perché essa è
costitutiva dell’essere umano, il reperimento di un oggetto che colmi la
mancanza è solo illusione intesa in modo assai diverso da quello
winnicottiano. Lacan radicalizza la concezione freudiana di oggetto perduto,
che diventerà perduto da sempre. L’oggetto, sempre perduto e sempre da
ritrovare non potrà essere, per definizione, che mancante o mancato nel
senso di non ritrovato, evidentemente rispetto alla possibilità di ritrovare
9 Recalcati M., Dal complemento al supplemento. Versioni dell’amore in Freud e Lacan, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998.
16
proprio quello stesso oggetto. Questa ricerca che si svolge all’insegna della
nostalgia sarà dunque sempre inappropriata perché si svolgerà sempre
altrove.
Lacan, nella sua Lettre à Winnicott10 che non riceverà una risposta in merito
alle questioni che pone, cerca di convincere Winnicott che l’oggetto
transizionale si colloca nel luogo dove il bisogno diventa desiderio, lì dove
Lacan collocherà l’oggetto causa di desiderio ossia l’oggetto a. Questa
lettura è spaesante proprio perché da un lato essa convince, da un altro è
evidente che le due prospettive, pur così vicine non solo nascono da
premesse teoriche del tutto differenti ma approdano anche a differenti esiti.
Se l’oggetto transizionale sta lì a rappresentare un legame, l’oggetto a sta al
posto di un’assenza, occupa il posto di un vuoto, è ciò che resta dell’oggetto
originario, il misterioso das Ding. Il primo porta la traccia della presenza
reale della madre, ne acquista le caratteristiche, testimonia della prospettiva
positiva (positivista) di Winnicott. Contano i fatti, ciò che si vede, ciò che
c’è. L’oggetto transizionale rappresenta un’unione, l’oggetto a sta al (nel)
posto di una mancanza, quella dell’oggetto da sempre perduto, mancanza su
cui si costituisce il soggetto e il suo desiderio. La madre della realtà, quella
che conta per Winnicott, per Lacan può tutt’al più soddisfare un bisogno,
ma il dono, il segno d’amore sono un’altra cosa perché prevedono
l’introduzione dell’istanza simbolica. Ed effettivamente la tripartizione
lacaniana dello psichismo è unica e apre prospettive piuttosto straordinarie.
Winnicott, d’altra parte, molto concede alla percezione per quanto riguarda
l’esperienza che il soggetto fa dell’oggetto, rischiando di ricollocare ciò che
10 Lacan J. (1969), Lettera a Winnicott in La Psicoanalisi n. 6, 1989, pp. 13-16, trad. di A. Davanzo.
17
intercorre tra di essi su un piano conscio, o almeno di farlo sembrare. Credo
tuttavia che i fenomeni transizionali vadano ben oltre la percezione
sensoriale, nella misura in cui inaugurano un’esperienza della realtà (o
dovremmo parlare di reale?) in cui è immerso il soggetto che ha
conseguenze profonde. Essi trascendono l’esperienza della pura realtà
percettiva con tutto ciò che, come abbiamo visto, ne consegue. Ed è
effettivamente a questo livello che si può collocare l’introduzione
dell’istanza simbolica, che è un po’ quello di cui Lacan cerca di convincere
Winnicott nella sua lettera. La soluzione winnicottiana è tuttavia, unica nel
suo genere: Winnicott è infatti l’unico analista a parlare di uso dell’oggetto
direi proprio in quanto costitutivo dell’ontogenesi e che ha le sue radici
nell’esperienza di illusione che ne è la condizione. Essa istituisce la realtà e
fornisce la misura del contatto del soggetto con essa. Winnicott ricorda che
l’impatto con la realtà (ancora una volta: dovremmo dire reale?) è sempre
in corso. Che è indefinitamente necessario un sollievo fornito da un’area
intermedia per affrontarlo, ossia lo spazio di illusione che permetta l’uso
degli oggetti della realtà.
Bibliografia
Lacan J. (1949), Lo stadio dello specchio come formatore della funzione
dell’io, in Scritti, Torino, Einaudi, 2002.
Lacan J. Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-54. Torino,
Einaudi, 1978.
18
Lacan J., Il Seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto. 1956-57. Torino,
Einaudi, 1996.
Lacan J. (1932), Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità,
Torino, Einaudi, 1980.
Lacan J. (1969), Lettera a Winnicott, in La Psicanalisi n.6, 1989, pp.13-16.
Winnicott D.W. (1967) La funzione di specchio della madre e della famiglia
nello sviluppo infantile, in Gioco e realtà, Roma, Armando, 1990.
Winnicott D.W. (1951) Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in
Gioco e realtà, Roma, Armando, 1990.
Winnicott D.W. (1968) L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso
identificazioni, in Gioco e realtà, Roma, Armando, 1990.
top related