ampio raggio - esperienze d'arte e di politica n.5

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esperienze d’arte e di politica ampio raggio numero 5 laminarie editrice

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esperienze d’arte e di politica

DOM la cupola del pilastro

Laminarie editrice Ampio raggio Esperienze d’arte e di politica Numero cinque Novembre 2013 Premessa Laminarie • pag. 8

Quattro anni Massimo Marino • pag. 14

Programma. Quello che si ha Laminarie • pag. 18

Proiezione verticale o la storia di un’avventura artistica Doïna Lemny • pag. 23

Brâncuși e l’Italia Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan • pag. 29

((( Conversazione Conversazione con Franco Farinelli Febo Del Zozzo, Bruna Gambarelli, Federica Rocchi • pag. 36

((( Il racconto Dante Cruciani • pag. 58

((( Incontri Le parole non bastano Oscar De Pauli • pag. 62

((( La recensione Un prezioso compagno di strada Franco Arminio • pag. 74

((( La striscia Giulio Bergami • pag. 78

ISSN 2037-3147 € 8.00

ampio raggio

numero 5laminarie editrice

Ampio raggio

Ampio raggioEsperienze d’arte

e di politica numero 5

Ampio raggioEsperienze d’arte

e di politica numero 5

Ampio raggioEsperienze d’arte e di politicaNumero cinque | novembre 2013 Laminarie editrice ISSN 2037-3147 Direzione Bruna GambarelliCura Federica Rocchi Hanno collaborato Franco Arminio, Giulio Bergami, Dante Cruciani, Oscar De Pauli, Doïna Lemny, Franco Farinelli, Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan, Massimo Marino Un ringraziamento a Febo Del Zozzo, Tazio Ferrari, Giancarlo GaetaTraduzioni in inglese Federica Rocchi con la consulenza di Gabriele Ferri. Traduzione dal francese del testo di Doïna Lemny Giancarlo GaetaProgetto Grafico Alex WesteFotografie Le fotografie di questo numero sono state realizzate in occasione del viaggio di Laminarie sulle orme di Brâncuși – Giugno/Luglio 2013Tutti i diritti sono di proprietà di Laminarie. pag. 22 Colonna senza fine, Targu Jiu, foto di Laminariepag. 28 Incontro con Sorana-Gorjan, foto di Laminariepag. 34 - 35 Partenza dal Pilastro, foto di Mario Carlinipag. 42 - 43 Cantiere per la costruzione della Colonna senza fine,

1937 Archivio Gorjanpag. 51 Romania, cartelli stradali, foto di Laminarie pag. 56 - 57 Allestimento dello spettacolo all’Avant-Rue, Parigi,

foto di Laminariepag. 72 - 73 visita alla casa di Brancusi, Hobita, foto di Noemi

PiccorossiHanno partecipato al viaggio dedicato a Brâncuși Febo Del Zozzo, Bruna Gambarelli, Agnese Del Zozzo, Sofia Del Zozzo, Laura Martorana, Noemi Piccorossi. Li hanno raggiunti a Parigi Federica Rocchi, Ada Ferrari, Nicola Ferrari

Logistica Silvia Palmia; ufficio stampa Alessandra FarnetiIl viaggio è stato realizzato in collaborazione con Teatrul Bulandra; Istituto Italiano di Cultura di Bucarest, Museo Nazionale di Bucarest, Teatrul Elvira Godeanu di Targu Jiu, Consolato di Timisoara, Bakelit Multi Art Center di Budapest, Avant Rue di Parigi, Tornabuoni Art di Parigi, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di BolognaUn ringraziamento a Elena Pirvu; Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan; Sorina Jecza; Jerovetz György; Doïna Lemny.Con il contributo di Regione Emilia-Romagna – Assessorato alla Cultura.

Questo numero è stato chiuso il 15 novembre 2013 © Laminarie Associazione Culturale 2013 Associazione Culturale LaminarieCorte de’ Galluzzi 11, 40124 Bologna www.laminarie.it

DOM la cupola del Pilastrovia Panzini 1, 40127 Bolognawww.lacupola.bo.it

AbbonamentiÈ possibile sottoscrivere l’abbonamento a tre numeri della rivista al costo di 20 Euro. Per informazioni e sottoscrizioni: [email protected] | T 051.6242160

DOM la cupola del Pilastro

Premessa p. 08Laminarie

Quattro anni p. 14Massimo Marino

Programma p. 18Quello che si ha

Proiezione verticale p. 23o la storia di un’avventura artistica

Doïna Lemny

Brâncuși e l’Italia p. 29Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan

((( La conversazioneConversazione con Franco Farinelli p. 36Febo Del Zozzo, Bruna Gambarelli,

Federica Rocchi

((( Il raccontoDante Cruciani p. 58

((( IncontriLe parole non bastano p. 62

Oscar De Pauli

((( La recensione Un prezioso compagno di strada p. 74

Franco Arminio

((( La striscia Giulio Bergami p. 78

indice

�Salutiamo Tiziana Sgaravatto,protagonista al Pilastro delle più importanti battaglie per il miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi.Ci mancherai gentile e utopica amica di DOM.�

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Premessa • Laminarie

Nel febbraio 2013 abbiamo presentato a DOM il primo episodio di un progetto di ricerca dedicato al grande scultore rume-no Constantin Brâncuși. Questo primo

avvicinamento consisteva in una performance tea-trale dal titolo Proiezione Verticale, che ha inaugurato la rassegna 2013 di DOM Quello che si ha, proseguita poi fino a maggio con l’ospitalità di spettacoli, residen-ze, incontri.

Dopo pochi mesi, alla fine di giugno, abbiamo in-trapreso un viaggio di oltre 6.000 km su un furgone per attraversare l’Europa sulle tracce dello scultore rumeno, che all’inizio del Novecento compì un leg-gendario viaggio a piedi per rag giungere Parigi dal suo paese natio, la Romania.

Il nostro lento viaggio, che ci ha portato ad attra-versare l’Europa da est a ovest collegando le città di Craiova, Bucharest, Timisoara, Bu dapest e Parigi, è stato innanzi tutto un percorso di ricerca teatrale volto ad approfondire la vita e l’opera di Brâncuși, in vista delle successive tappe produttive dello spettacolo.

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Abbiamo scelto con questo progetto di confrontarci con l’impresa compiuta da un’altra “figura esem-plare”, che va ad arricchire il percorso seguito negli scorsi anni attraverso produzioni teatrali dedi cate ad alcuni artisti straordinari come Jackson Pollock, Elias Canetti, Varlam Šalamov, Sim one Weil, Bobby Fischer.

Un’impresa che cerca il confronto con un tempo e un ritmo diversi, nonché con l’imprevisto e la difficoltà, nella consapevolezza che percorrere fisica-mente le distanze sia un importante mezzo per per-mettere al lavoro artis tico di sostanziarsi attraverso l’esperienza diretta.

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Ecco in sintesi i contenuti di questo numero della rivista:

— I primi due interventi, dedicati a Brâncuși, sono firmati da Doïna Lemny e Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan, due persone che abbiamo incon-trato in viaggio e che hanno dato un apporto fonda-mentale alla nostra ricerca.

— Segue una conversazione con il geografo Franco Farinelli, che ci aiuta a comprendere, anche at-traverso l’esperienza degli artisti viaggiatori come Brâncuși, ciò che è avvenuto e sta avvenendo in Europa sul fronte della mobilità e delle migrazioni.

— La consueta rubrica Il racconto, in cui ci avvici-niamo al linguaggio della letteratura contempora-nea, ospita un testo inedito di Dante Cruciani.

— Per la sezione Incontri pubblichiamo la testimo-nianza di Oscar De Pauli, uno dei primi abitanti del Pilastro e protagonista delle battaglie per il migliora-mento di questo rione dagli anni Sessanta a oggi.

— La recensione è affidata allo scrittore Franco Arminio, che ci racconta il film Una piccola impresa meridionale, di Rocco Papaleo, dalla sua prospettiva di paesologo, studioso e poeta dei paesi dell’Italia meridionale.

— La striscia di Giulio Bergami è tratta da un nu-mero della storica rivista Linus del 1967.

Pubblichiamo inoltre in apertura di questo numero un intervento di Massimo Marino che, oltre a de-lineare ciò che DOM ha cercato di mettere in atto in questi brevi quattro anni, ci spinge a riflettere sulla sostenibilità del progetto di Laminarie. Nello

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spirito di Ampio Raggio, che vuole avvicinare pratiche e riflessioni, pubblichiamo volentieri il generoso intervento di Massimo Marino, attento spettatore di DOM fin dagli inizi, perché crediamo utile avviare un confronto sul Teatro nella nostra città. Apriamo ai nostri lettori la discussione e anticipiamo di se-guito alcuni spunti di riflessione, senza la pretesa di dare in questa sede una risposta esaustiva alle complesse tematiche sollevate da Massimo Marino. Suggeriamo ai lettori di continuare qui sotto dopo la lettura del testo di Marino che segue.

* * *

Concordiamo con Massimo Marino che l’avventura di DOM, così come di tutti i teatri bolognesi e non, richieda la ricerca di formule innovative, non solo dal punto di vista artistico, ma anche gestionale.

Le risorse economiche sulle quali si basa attual-mente la gestione di DOM non sono sufficienti per permettere a Laminarie di portare avanti, in una prospettiva di lungo periodo, un progetto cultura-le che ha origini in un’esperienza teatrale ormai ventennale.

Naturalmente, il nostro impegno quotidiano va nella direzione di cercare la soluzione economica che permetta a DOM di continuare il suo lavoro: uno sforzo che deve essere condiviso dalle Istituzioni e dalla città.

Ma non riteniamo che “chiedere alle persone che lo seguono, agli spettatori, di addossarsi l’indipen-denza di questo teatro” possa costituire una risposta

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realistica e strutturale.I cittadini del Pilastro hanno già dimostrato la

loro adesione a DOM firmando nel 2010, a pochi mesi dall’apertura del teatro, una petizione cui era associata una donazione. Anche grazie al loro picco-lo, ma significativo, contributo economico abbiamo realizzato nell’ottobre 2010 la rassegna Monopolio.

Ma questo sostegno, a nostro avviso, può essere soltanto simbolico. Aggiungiamo che i cittadini di Bologna partecipano attraverso le tasse al finanziamento di tutte le istitu-zioni culturali della città. Perché DOM, diversamen-te dagli altri teatri, dovrebbe essere ulteriormente finanziato dai cittadini? Oltre a pagare un biglietto per partecipare alle attività, il pubblico di DOM do-vrebbe pagare due volte il suo teatro?

Massimo Marino ci invita inoltre a dimostrare l’in-dispensabilità di DOM: “Dom, se vuole vivere e non sopravvivere nella scarsezza e nella lamentela, deve dimostrare, ancora di più di quanto non faccia, di essere indispensabile”.

Si può dire che il teatro, al pari di ogni altra arte, sia indispensabile? Riteniamo che il concetto di “in-dispensabilità” sia sfuggente: varia enormemente in base al contesto e in base alla soggettività dei singoli. A nostro avviso, alcuni teatri bolognesi con-corrono alla costruzione di un percorso che dialoga con la città, altri teatri preferiscono (o si possono permettere di) non farlo.

Si può dire invece che DOM sia necessario? Crediamo che la nostra risposta stia nel merito delle

pratiche che abbiamo scelto di mettere in atto quo-tidianamente al Pilastro e nel resto della città, oltre che in Europa. Noi non crediamo che sia possibile dimostrare la necessità del nostro progetto con le parole, ma pos-siamo cercare di sostenerla con i fatti. Crediamo stia agli spettatori, ai cittadini, alla critica e alle Istituzioni riconoscerla e valutarla, concorren-do alla ricerca di soluzioni per permetterne la sopravvivenza.• • Introduction• Laminarie

Last February, we presented at theatre DOM the first episode of a research project dedicated to the great Romanian sculptor Constantin Brâncuși. The first step was realized through a theatre performance called “Proiezione Verticale”, which had its premiere at DOM during the opening of “Quello che si ha”, a calendar made of shows, residences, lectures. After a few months, at the end of June, we left for a 6000 km journey across Europe on the tracks of Brâncuși, following the legendary trip that the romanian artist made by foot at the beginning of the XXth century to reach Paris from his home country, Romania.Our adventure stood for a slower rhythm and a richer awareness of time: this project is a declaration that artistic work can be nourished by physical experiences such as covering a geographical distance or facing unexpected difficulties.Through this project, we chose to face the long haul of such an “exemplar figure” as Brâncuși, whose profile will enrich the gallery of Laminarie’s theatre productions dedicated to extraordinary artists such as Jackson Pollock, Elias Canetti, Varlam Šalamov, Simone Weil, Bobby Fischer.

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Quattro anni• Massimo Marino

Stare sul bordo, sul margine. Sottrarsi, quan-do tutto è inutile? Farsi riottosi ai riti itera-tivi e inutili della società dello spettacolo e della politica spettacolo? O semplicemente

scoprire fuori dal centro le infinite possibilità che abbiamo ancora di stupirci, di creare, di incontrarci?

Il teatro sta morendo. Forse è già defunto e non ce ne siamo accorti, tra istituzioni senza anima e tentativi spocchiosi di rendersi autosufficienti con un’arte linguisticamente modaiola e snobistica. Il discorso è sommerso dalla chiacchiera. Il pensiero avvilito nel luogo comune, senza la dolcezza della banalità che aiuta a vivere.

Per salvarsi forse bisogna mettersi fuori, per stra-da, fuori strada, e ritornare a qualcosa, in qualcosa d’antico. Bisogna riscoprire il sudore dell’attore che gareggia con l’attenzione del pubblico tutte le sere e vince se lo rapisce: con l’intelligenza, però, oltre che con l’emozione, altro passpartout sbiadito, trasa-limento buono per essere dominati. Bisogna tornare a guardare la città, meglio se dai suoi punti estremi, esterni, di sofferenza, di emarginazione, di stato nascente.

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Mi sembra quest’ultima strada quella che ha seguito Laminarie a Dom, al Pilastro, in questi pochi quattro anni, cercando di tessere fili d’Arianna in una peri-feria tante volte abbandonata, che spesso ha trovato la forza di lottare per affermare la propria dignità e la propria necessità, e poi è stata tradita, poi abbelli-ta, e il luogo di emarginazione è diventato cemento stemperato dal verde, impianti sportivi e contraddi-zioni, ghetto e città radiosa.

Dom ha provato a farsi coscienza critica e estetica della periferia più abbandonata, uno spazio di resi-denza artistica con il fare materiale e intellettuale del teatro, una dimora comune, una scena ipotesi di nuova socialità - se non società - basata sulla intran-sigenza della visione e la tenacia del lavoro giorna-liero, capace di dialogare con tutti, bambini, rom, migranti, cittadini, teatranti, intellettuali, abitanti dei centri e dei bordi. Crogiolo, luogo dove si fondo-no materiali comuni in cerca di un oro ancora da in-ventare. Dom ha tessuto e messo insieme, in modo alchemico, gli opposti: residenza e viaggi, reale e immaginario, bambini e adulti, spettatori del teatro di ricerca e abitanti dei margini estremi della città, esclusi e intellettuali. Cinema e danza, lavoro fisico e manuale del teatro e astrazione piacevole della mu-sica, improvvisazione e rigore, discorsi e azione.

C’è spazio ancora per una tale avventura? Sappiamo che l’ossigeno intorno è poco. Gli

“aiuti” scarsi. Forse la bontà del lavoro deve fare un salto successivo, acrobatico, mirabolante, doloroso: chiedere alle persone che lo seguono, agli spettatori,

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di addossarsi l’indipendenza di questo teatro, e ri-schiare offrendo un lavoro ancora più necessario, del quale si possa sentire forte la mancanza se dovesse cessare.

L’impegno faticoso a cercare la chiarezza delle do-mande, a coniugare lo slancio del sogno, la coscien-za della crisi e la pratica delle differenze devono tro-vare una strada atta a sconvolgere le visioni rassicu-ranti e gli stessi risultati già raggiunti, delineando con rigorosa, densa semplicità una strada alternati-va a quelle di un’arte che non vede la disgregazione, l’estinzione della civitas e un’altra arte che si isola

nell’autocompiacimento, tutte e due accomu-nate solo dalla prontezza della mano a tendersi per chiedere l’elemosina. Senza assolvere l’ipocrisia di amministrazioni che celano dietro la maschera della penuria la loro incapacità di porre la questione della primarietà della cultura, e un sistema teatrale, quel-lo bolognese, sbilanciato verso un centro che appare sempre più esausto e inefficace, Dom, se vuole vive-re e non sopravvivere nella scarsezza e nella lamen-tela, deve dimostrare, ancora di più di quanto non faccia, di essere indispensabile. Compito gravoso, questo, non richiesto certo ad altri, in città e altrove, in un sistema in cui quasi nessuno deve dimostrare di meritare le posizioni che ha acquisito. Ma il reali-smo, oggi, può consistere solo in due vecchie parole del teatro: crudeltà (nel senso artaudiano di rigore capace di incrinare le visioni esistenti) e utopia.• •

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Massimo Marino, critico teatrale e saggista. Scrive per il “Corriere di Bologna”, per il blog “Controscene” e per riviste

specializzate; coordina la sezione “Scene” della rivista “Doppiozero.com”.

Dal 1998 al 2003 è stato condirettore del Festival di Santarcangelo. Ha pubblicato diversi libri e articoli sulla critica

teatrale e su diversi aspetti del teatro contemporaneo. Ha insegnato al Dipartimento di Musica e Spettacolo

dell’Università di Bologna.

Four years• Massimo Marino

To be on the borders, on the margins. When everything seems to be useless, should we back out? Should we fight the repetitive rituals of showbusiness? Or, more simply, should we move to the outskirts of the city to discover endless possibilities of wonder, creation and meeting of other people?Maybe we should go outside to be saved, in the streets, off the tracks, to go back to something more ancient. We need to rediscover the sweat of the actor struggling every night with his public: he wins when he enchants it with intelligence besides emotions. We need to look back at our cities, better if we gaze at them from its extreme and external points, where emargination and suffering lie, together with something new.The latest one seems to be Laminarie’s choice for DOM’s project at Pilastro during the last four years. They tried very hard to weave Ariadne’s threads in a too-often-forsaken suburb.DOM weaved and brought together the opposites, as a sort of alchemy: residence and travelling, reality and imaginary, children and adults, contemporary theatre public and inhabitants of the city’s extreme margins, intellectuals and outcasts. Cinema and dance, the physcal and hand labor of theatre and the pleasant abstraction of music, improvisation and accuracy, reflection and action. Is such adventure still possible?

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Quello che si ha• Laminarie

Quello che si ha è un calendario unico che ha raccolto gli spettacoli, gli incontri, le re-sidenze e gli imprevisti ospitati al teatro DOM la cupola del Pilastro da febbraio a

maggio 2013, per il quarto anno di programmazione a cura di Laminarie.

Questo programma è nato dal desiderio di conti-nuare a mettere al centro del progetto di DOM due elementi: l’opera e il pubblico. In questi quattro anni abbiamo lavorato cercando un senso preciso nella costruzione di un progetto culturale, e ne ab-biamo ricavato molte importanti relazioni: con gli abitanti della città e del Pilastro, con gli studenti, con compagnie e artisti di grande importanza e giovani gruppi, con le scuole e l’Università, con gli altri teatri, con i critici e gli studiosi. Il progetto che abbiamo presentato, e che scaturisce da questo lavo-ro, vede la periferia del Pilastro al centro di molte re-lazioni feconde con altri spazi della città, di cui con piacere abbiamo scelto di segnalare alcuni appunta-menti connessi al nostro calendario. Una rete per il pubblico, che ci auguriamo continui a intensificare le sue maglie, nella convinzione che per il teatro non abbia senso pensare in termini di concorrenza, bensì di moltiplicazione.

Questo è quello che si ha.• •

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DOM la cupola del Pilastro

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Q U E L L O C H E S I H A

S P E T T A C O L I E I N C O N T R I

DOM ospita alcune esperienze che abiteranno lo spazio per la produzione di spettacoli e progetti site-specific. Laura Gibertini seconda tappa della residenza produttiva per lo spettacoloIO, VIRGINIE [DOM segnala > 15 e 16 marzo Laura Gibertini Io, Virginie c/o Teatro delle Passioni, Modena]

Associazioni del Pilastroresidenza per la produzionedello spettacolo VIVO A BOLOGNA, MA ABITO QUI

Archivio Zetaresidenza per la produzione site-specific dello spettacoloEUMENIDI di Eschilo

14 - 15 febbraio ore 21.30Laminarie – PROIEZIONE VERTICALEprimo avvicinamento a Constantin Brancusi di e con Febo Del Zozzo; prologo Silvia Evangelisti prenotazione obbligatoria 21 - 22 - 23 febbraio ore 21.30Socìetas Raffaello Sanzio/Teatro delle Albe - POCO LONTANO DA QUIdi e con Chiara Guidi e Ermanna Montanarinell’ambito di BilBOlbul - Festival Internazionale di fumetto[DOM segnala > 22 febbraio c/o Laboratori delle Arti/teatro, La Soffitta – Università di BolognaGeometrie della distanza: la figura è un prisma, incontro con Chiara Guidi e Ermanna Montanari] 12 marzo ore 17Incontro con Teatro Valdocacoordina Piersandra di Matteo – Dipartimento delle Arti - Università di Bolognanell’ambito di In contemporanea, progetto di ERT-Emilia Romagna Teatro e Università di Bologna[DOM segnala > 11 e 12 marzo c/o Pubblico. Il Teatro di Casalecchio di RenoTeatro Valdoca, Ora non hai più paura, seconda parte della Trilogia della gioia] 27 marzo ore 10.30 e ore 21VIVO A BOLOGNA, MA ABITO QUIin scena i giorni di adolescenti, bambine e bambini del Pilastro a cura delle associazioni Laminarie, CVS, Circolo “La Fattoria”, Associazione Virgola in collaborazione con IC11

R E S I D E N Z E

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13 aprile ore 21La Pesatura dei Punti - QUESTO ROSSO E’ UN’INTRUSIONE ATOMICAin collaborazione con Centro La Soffitta - Dipartimento delle Arti – Università di Bolognanell’ambito del progetto “L’unica sera in cui non c’ero” Ricordando Francesca Alinovi a cura di Fabio Acca[DOM segnala > 6 aprile c/o Laboratori delle Arti/teatro, La Pesatura dei Punti, Non più di due ore e a seguire incontro con la compagnia; 1 maggio c/o MAMbo, La Pesatura dei Punti, Tonight it’s electric] 24 aprile dalle ore 18.30CENTO DI QUESTI GIORNI: ALBERT CAMUSL’opera di Camus nel centenario della sua nascitaore 18.30 Letture di brani dall’opera di Camus a cura di Laminarieore 19 Conversazione con Mauro Boarelli, Giancarlo Gaeta e Matteo Marchesini a seguire aperitivoore 21 Proiezione de IL PRIMO UOMO di Gianni Amelio (durata 98’ Italia, Francia, Algeria 2011)

1 maggio ore 18 IL PATTO - Lettura pubblica della Costituzione 4 - 5 maggio ore 18Archivio Zeta - EUMENIDI di Eschilo una tragedia itinerante dal tempio di Apollo a Delfi fino ad Atene, dal Parco Pasolini a DOMritrovo alle ore 18 a DOM, prenotazione obbligatoria

Alcuni spazi bianchi nel programma di DOM: coincidenze che forse accadranno o forse no, spazi non confezionati che rimangono in attesa di nuove domande.

Possibili imprevisti >

25 - 28 febbraio

1 - 3 marzo

14 - 17 marzo

21 - 24 marzo

1 - 10 aprile

D O M l a c u p o l a d e l P i l a s t r of e b - m a g 2 0 1 3

S P E T T A C O L I E I N C O N T R I I M P R E V I S T I

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Proiezione verticaleo la storia di un’avventura artistica• Doïna Lemny

L’opera di Brâncuși è legata alla sua espe-rienza personale, al suo percorso nell’arte, all’avventura della sua vita. Compiuta la sua formazione artistica in Romania, a

Craiova, poi a Bucarest, il giovane artista sogna nuo-vi orizzonti e decide di attraversare l’Europa verso i centri artistici più importanti. Attratto inizialmente da Roma, città simbolo per i Rumeni nostalgici delle origini nonché depositaria di una ricca statuaria an-tica, il giovane artista s’interroga sul suo desiderio di confrontarsi con l’antichità. Ma non ne resta pie-namente convinto.

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Parigi gli appariva lontana, tuttavia decide di andarvi seguendo il corso del Danubio. Arriva a Vienna, città in cui era già stato in anni più giovani. Prosegue quindi il suo viaggio, godendo della bellez-za del paesaggio e degli splendori architettonici delle città bavaresi. A Monaco si ferma brevemente prima di proseguire il cammino per Zurigo e Basilea dove lavora per qualche mese come tagliatore di pietre in alcuni cantieri edili. Vi attinge forze nella sua sma-nia di vincere. È pronto a qualsiasi sacrificio pur di raggiungere la capitale francese, dove giunge infine il 14 luglio 1904, sfinito ma pieno di meraviglia.

Avendo trovato a Parigi un ambiente che gli sem-bra adatto alle sue aspirazioni, il giovane Rumeno decide di stabilirvisi definitivamente. Entra in contatto con gli artisti giunti da tutti gli angoli del mondo e che partecipano, recando la loro esperienza dei paesi d’origine, alla modernizzazione dell’arte all’inizio del ventesimo secolo. Dopo una breve espe-rienza con Rodin (gennaio-aprile 1907), Brâncuși si ritira nel suo atelier e, abbandonata la modellatu-ra, si appropria del taglio diretto che gli consente di entrare in dialogo con la materia. Passa lunghi momenti a riflettere su «l’essenza delle cose» e a cer-care di dare corpo alle idee piuttosto che riprodurre delle forme. Diverse serie lavorate simultaneamente nel corso di decine di anni, quali Il Bacio, La Musa addormentata, La Signorina Pogany, L’Uccello nello spazio e soprattutto La Colonna senza fine, testimoniano del suo lavoro appassionato e della sua volontà di raggiun-gere «la cosa vera» – come amava precisare. Questa ricerca lo conduce a trasgredire i limiti di genere,

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di tempo, di spazio e lo iscrive nell’universalità e nell’atemporalità.

I membri della compagnia Laminarie, affascinati da questa avventura europea dello scultore rumeno e desiderosi di comprendere meglio le tappe di una creazione che ha sconvolto la scultura, hanno rifatto in carovana il viaggio dell’artista come una sorta di pellegrinaggio alle fonti dell’arte moderna. Il loro progetto ha incontrato la mia riflessione sull’uni-versalità di Brâncuși, sulla sua forza di andare oltre ogni sorta di limiti, illustrata nel mio ultimo libro: Brâncuși au-delà de toutes les frontières, pubblicato da Fage a Lione nel 2012. Questo viaggio attraverso l’Europa sulla scia di Brâncuși centodieci anni dopo, ha con-sentito loro di nutrirsi di molteplici esperienze e di approfondire la loro ricerca teatrale, sfociata in uno spettacolo, «Proiezione verticale», magnificamente curato da Bruna Gambarelli e meravigliosamente messo in scena e interpretato da Febo Del Zozzo.

Simbolicamente, La colonna senza fine di Brâncuși, che Mircea Eliade considerava come un «asse che sostiene il Cielo e contemporaneamente assicura la comunicazione tra Terra e Cielo», allude a uno spa-zio infinito. Questo axis mundi, secondo Eliade, «lo si pensa collocato al Centro del Mondo, così da consen-tire all’uomo di comunicare con le potenze celesti. […] L’immagine […] era parte del simbolismo dell’a-scensione, del volo, della trascendenza».1

1 M. Eliade, Brâncuși e les mythologies, in P. Comarnesco, M. Eliade, I. Jianou, Témoignages sur Brâncuși, Arted, Parios 1967, p. 15.

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Il viaggio reale attraverso l’Europa e quello imma-ginario negli spazi lontani compiuto dall’artista rumeno, è servito da punto di partenza agli artisti di Laminarie che – coincidenza felice – sono arrivati a Parigi – ultima tappa della loro esperienza – il 14 luglio 2013 e hanno dato il via alle loro rappresen-tazioni nella galleria italiana Tornabuoni dove si concludeva un’esposizione, «Bianco Italia», di opere monocrome dell’avanguardia italiana. Un ambiente evocatore dell’esperienza del «non colore» che degli artisti italiani hanno vissuta e ricreata come un’e-vocazione della purezza delle forme di Brâncuși. Ancora una volta l’universalità dell’opera dell’artista rumeno si è trovata in comunicazione con la creazio-ne plastica contemporanea come pure con la creazio-ne teatrale, che Brâncuși ammirava senza riserve. • •

Doïna Lemny Studiosa di storia dell’arte, specializzata nella scultura del XX secolo, è curatrice al Museo nazionale d’Arte Moderna Centro Pompidou a Parigi. Ha pubblicato numerosi libri e

articoli, e curato diversi cataloghi, dedicati a indagare diversi aspetti dell’opera di Brancusi, tra cui: Brancusi (Paris, Oxus,

2005), Lizica Codréano, une danseuse roumaine dans l’avant-garde parisienne (Fage, 2011), Brancusi au-delà de toutes les

frontières (Fage, 2012) e Brancusi (Éditions du Centre Pompidou, 2012).

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“Proiezione Verticale” or the story of an artistic enterprise• Doïna Lemny

Brancusi’s work is strongly bounded to his personal experience and his artistic journey. The Romanian artist’s real trip across Europe, together with his imaginary trip in a far away space, were the inspiration for Laminarie’s artists to travel on his tracks. They arrived in Paris, the last step of their experience, on the 14th of July 2013 – what a coincidence! – and they started their Parisian project at Tornabuoni Art gallery during the finissage of the exhibition “Bianco Italia” composed of monochrome works of Italian avant-garde. A very evoking ambiance of the “non-colour” art experience, lived and re-created by these Italian artists as an evocation of Brancusi’s pureness of forms.

Once again, the universal character of Brancusi’s work found itself in communication with contemporary sculpture as well as the theatre language, which Brancusi loved without reserve.

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Brâncuși e l’Italia• Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan

L’impresa di oltre 6.000 km della compa-gnia Laminarie per onorare il viaggio di Constantin Brâncuși a piedi mi ha real-mente impressionato.

Brâncuși non è mai stato a Bologna, ma Bologna è venuta da lui! Ho buttato giù alcune note che ri-guardano il rapporto tra Brâncuși e l’Italia, come un gesto di gratitudine a Febo e Bruna, che si sono im-barcati in questo viaggio insieme a Laura e Noemi, Sofia e Agnese.

Constantin Brâncuși si è diplomato alla Bucharest School of Fine Arts il 24 settembre 1902. Il 30 Novembre fece richiesta al consiglio di amministra-zione della Chiesa della Madonna Dudu a Craiova per ottenere una borsa di studio in Italia. Una copia di quel documento è oggi con la compagnia Laminarie. Alla scuola di Bucharest, Brâncuși studiò la lavorazione del gesso a partire dalle sculture espo-ste nei più importanti musei italiani.

A Bucharest è possibile ammirare la statua in marmo dello studioso e poeta Heliade Rădulescu, creata dallo scultore italiano Ettore Ferrari. Questa opera potrebbe aver giocato un ruolo nella sua decisione di studiare in Italia. Ma Brâncuși non ottenne la borsa di studio e così partì per Parigi nel maggio 1904. Visse lì fino alla morte. Nella sua biografia, troviamo i nomi di diversi italiani che

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hanno attraversato la sua strada. In Francia studiò alla Scuola di Belle Arti ed espose nel 1906 al Grand Palais. Medardo Rosso era un membro della giuria. Influenzò l’opera di Brâncuși per l’attenzione posta nell’uso dei materiali e per l’abitudine di fotografare le sue stesse opere. Paola Mola ha sottolineato la re-lazione Brâncuși/Rosso nei suoi libri nel 2003, 2005 e 2006. Nel 1908, Amedeo Modigliani fece la conoscen-za di Brâncuși, che divenne suo amico e mentore artistico. Modigliani usava il “taglio diretto” nelle sue sculture, sotto la guida di Brâncuși. Modigliani dipinse anche due ritratti del suo amico. Nel 1909 visitarono assieme la città natale di Modigliani, Livorno.

Nel 1910, alle “Serate del martedì” di Paul Fort, Brâncuși incontrò il teorico del futurismo Filippo Tommaso Marinetti. I manifesti del futurismo in pittura e scultura, e alcuni saggi sulla poesia futuri-sta furono ritrovati tra i libri di Brâncuși.

Nel 1912, la galleria Bernheim Jeune di Parigi ospitò una mostra di pittori italiani futuristi. Gino Severini e lo scultore Umberto Boccioni visitarono l’atelier di Brâncuși.

Alle “serate” di Léonie Ricou, lo scultore incon-trò il critico cinematografico Ricciotto Canudo. Nel 1921, lungo la strada per un viaggio in Romania, si dice che Brâncuși si fermò brevemente a Napoli. Nel 1922, una cartolina inviata da Roma alle so-relle Codreanu testimonia la visita di Brâncuși al Colosseo.

Probabilmente vide le sculture di Michelangelo, che non gli piacquero. Tra i suoi libri, si può

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trovare il volume di Ascanio Condivi sull’opera letteraria di Michelangelo, studi su Donatello, Botticelli, Leonardo da Vinci, disegni fiorentini del Quattrocento, i Maestri italiani.

Nel 1924, la Testa di bambino in bronzo e la Testa di bambino in pietra di Brâncuși vennero esposte alla 14° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ospita-ta nel palazzo dei Giardini di Castello.

Nel 1925 gli artisti Fortunato Depero ed Enrico Prampolini visitarono l’atelier di Brâncuși.

Negli anni Trenta, durante una visita a Bucharest, Brâncuși vide le sculture di Raffaello Romanelli (il monumento a Barbu Catargi e le sta-tue che coronano il monumento per i “Sanitary Heroes”).

In 1947 lo scultore Berto Lardera visse in un atelier vicino a quello di Brâncuși.

Nel 1948, la 24° Biennale di Venezia espose il bronzo Maiastra e l’Uccello nello spazio, dalla collezione Peggy Guggenheim.

Nel 1957, l’anno della morte dell’artista, Vanni Scheiwiller di Milano pubblicò il primo libro in ita-liano su Brâncuși, comprendente una traduzione del saggio di Ezra Pound del 1921, aforismi brancusiani e foto da “This Quarter”. Nel 1958, a Venezia, il critico d’arte Giuseppe Marchiori pubblicò un articolo dal titolo “Le sculture di Brâncuși”.

Nell’ottobre 1967, Marchiori partecipò al primo International Colloquium organizzato a Bucharest in onore di Brâncuși e in quella occasione affermò che Brâncuși era il più grande scultore del secolo. Giulio Carlo Argan dichiarò che Brâncuși era il genius loci

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rumeno, in grado di trovare la radice umana comu-ne a tutte le tradizioni.

Alla sessione internazionale “Brâncuși nell’arte del ventesimo secolo”, tenutasi a Bucharest nel set-tembre 1976, parteciparono Giuseppe Marchiori e Corrado Maltese.

Nel maggio 1994, a Treviso, la fondazione Benetton assegnò il premio internazionale Carlo Scarpa al parco di Targu-Jiu che ospita le opere di Brâncuși.

Nel 1996, il 120° anniversario della nascita dello scultore fu celebrato attraverso due simposi, cui par-teciparono Paola Mola e Paolo Gallerani, a maggio a Milano e a dicembre a Bucharest.

Nel 2001, Paola Mola partecipò all’Internatio-nal Colloquium “Brâncuși al suo Zenit”, tenutosi a Bucharest e a Targu-Jiu.

La professoressa Mola contribuì con alcuni semi-nari su Brâncuși, poi raccolti in volumi pubblicati in italiano nel 2000, 2001, 2003 e 2005.

Questo piccolo saggio dovrebbe includere due impor-tanti promemoria.

Nel 1937, le fondamenta della Colonna senza fine di Targu-Jiu furono realizzate grazie all’aiuto di una squadra guidata da due specialisti italiani – i fratelli Augustin e Victor Perini di Petroșani.

Il monumento fu salvato dalla distruzione grazie al report dell’Unesco del 1998 firmato dagli speciali-sti romani Giorgio Croci e Alessandro Bonci.

Grazie, Italia! • •

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Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan è nata a Petroșani in Romania nel 1939. Suo padre, Ștefan Georgescu-Gorjan

(1905-1985), fu l’ingegnere che firmò la realizzazione tecnica della monumentale Colonna senza fine e che supervisionò la

costruzione a Petroșani e Targu-Jiu. Il nonno di Sorana, Ion Georgescu-Gorjan (1869-1951), fu un caro amico dello scultore,

che fece un suo ritratto a Craiova nel 1902. Nel 1962, Sorana Gorjan si laurea al Dipartimento di Filologia (Inglese e Rumeno)

dell’Università di Bucharest. Tra il 1965 e il 1996, è stata senior editor e capo del dipartimento di Lingue Straniere al Publishing House della Accademia Rumena. È curatrice dell’Archivio Gorjan

sulla Colonna senza fine e membro del comitato editoriale dei giornali di Targu-Jiu “Brâncuși” and “Portal-Măiastra”. Ha tradotto

molti testi da e per l’inglese e ha pubblicato più di 150 saggi e cinque libri sull’opera di Brâncuși. Ha ricevuto il Premio Brâncuși

nel 1998, 2001, 2005 e 2011.

Brâncuși and Italy• Sorana-Constanța Georgescu-Gorjan

The initiative of the Laminarie company to honour Constantin Brâncuși by a 6000-km journey on his footsteps greatly impressed me. Brâncuși never went to Bologna but Bologna came to him! I have jotted down a few notes concerning Brâncuși and Italy, as a token of gratitude to Febo and Bruna, who embarked on that travel, together with Laura and Noemi, Sofia and Agnese. […]This brief survey should include two important reminders. In 1937, the concrete foundation of the Endless Column of Targu-Jiu was achieved with the help of a team headed by two Italian specialists – the brothers Augustin and Victor Perini from Petroșani.The integrity of the monument was saved from destruction, thanks to the 1998 report of Unesco specialists from Rome, Giorgio Croci and Alessandro Bonci.Thank you, Italy!

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((( La conversazioneLa scultura è un globo Conversazione con Franco Farinelli

• Febo Del Zozzo, Bruna Gambarelli, Federica Rocchi

Bruna Gambarelli: Vorremmo parlare con lei del viaggio dedicato a Brâncuși che abbiamo intrapreso quest’estate, attraversando l’Europa da Est a Ovest. Abbiamo fatto quasi 6.500 km su un furgone, spetta-coli, montaggi e smontaggi, incontri… Il fatto è che avevamo bisogno di partire. Lei è già stato al nostro teatro DOM l’anno scorso.

Lì stiamo portando avanti questa esperienza di radicamento su un territorio come il Pilastro, realiz-zando una serie di attività che coinvolgono i cittadi-ni. Questo progetto ha comportato una nostra stan-zialità, noi che eravamo nomadi, girovaghi. Negli anni precedenti abbiamo fatto progetti in giro per il mondo, siamo stati a Tokyo tre volte, a New York, in Europa. Poi, nel 2009 abbiamo deciso di fermarci a DOM e siamo rimasti qui, per più di tre anni, a fare un lavoro quotidiano sul un territorio: e l’operazione ha portato i suoi frutti, siamo contenti di quello che abbiamo fatto e del piccolo miracolo che è successo in quel teatro…

Federica Rocchi: Poi abbiamo avuto di nuovo l’esigenza di partire, di ridare un nuovo slancio e un’apertura alla nostra presenza al Pilastro, per

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riprendere fiato insomma…Franco Farinelli: Un grande poeta del Novecento, Osip Mandel’štam, disse una frase molto bella in proposito, cioè che c’è stato un tempo in cui chi non osava viaggiare, non osava scrivere. Scrisse cioè che la stessa scrittura, quindi l’arte, era in rapporto con il viaggio…

Bruna Gambarelli: Sì, la nostra esperienza artistica ha avuto bisogno di stanzialità per molto tempo. Ma dopo un po’ questa stanzialità deve essere rotta, o meglio interrotta. Tra l’altro, uno dei punti su cui avevamo fatto convergere il progetto di DOM era la relazione forte con un territorio e allo stesso tempo una grande apertura.

Franco Farinelli: Proiezione verso l’esterno…

Bruna Gambarelli: Sì, soprattutto verso l’Europa, attivando relazioni con centri culturali simili al no-stro all’estero.

Febo Del Zozzo: Così, dopo aver messo in scena lo spettacolo su Brâncuși a DOM, nel febbraio 2013 de-cidiamo di partire. Un colpo di follia.

Bruna Gambarelli: Siamo riusciti a mettere insie-me, in relativamente poco tempo, diversi partner interessati e trainati dall’idea di Brâncuși, dalla sua vita, la sua opera.

Ora lui partì dalla Romania e arrivò a Parigi, per-ché sentiva che lì era il luogo dove poteva realizzare

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il suo lavoro. Noi invece abbiamo fatto un viaggio non orizzontale ma rotondo, l’arrivo e la partenza coincidevano, in un certo senso la partenza era la meta: siamo partiti dal Pilastro, sperando che il Pilastro ci mancasse. Ci piacerebbe parlarne con lei, innanzi tutto perché ci ha detto di amare Brâncuși.

Franco Farinelli: Sì, fin da piccolo.

Febo Del Zozzo: Tutto questo viaggio è stato un guadagnarsi il terreno chilometro dopo chilometro. Sentiamo che questo ha molto a che fare con la diffe-renza tra immaginare le cose nelle carte e quello che si guadagna con l’esperienza, l’idea di conoscere un artista andando a vedere le case dei contadini cui lui si ispirò nella Colonna senza fine ad esempio. Si tratta di una scelta generata dal desiderio di conoscere un artista non attraverso l’intelletto, ma attraver-so la permanenza in un luogo e anche un tempo. Ad esempio, quanto tempo ci vuole per percorrere questo spazio da un punto all’altro della mappa per raggiungere un luogo, su queste strade, in questi villaggi…

Federica Rocchi: Abbiamo il desiderio di confron-tarci sul senso di questa nostra esperienza con lei, che sulle mappe e sullo spazio ha studiato e riflettu-to molto…

Franco Farinelli: Il discorso cade a proposito con Brâncuși. Ciò che sta avvenendo, da qualche de-cennio, dal punto di vista della comprensione del

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funzionamento del mondo, è che si è alla ricerca di nuovi modelli rispetto a quello della modernità. Uno di questi modelli, potentissimo, è il superamento di quella divisione tra materia e mente che da Cartesio in poi, cioè dalla metà del Seicento, siamo stati abi-tuati a pensare come separate. Ecco perché l’espres-sione artistica secondo me diventa e diventerà molto importante: nel fare artistico mente e materia sono la stessa cosa. Per questo dico che Brâncuși è esem-plare in questo senso. Se mente e materia non sono più distinguibili, succede che comprendere qualcosa significa averne un’esperienza materiale. Inoltre, un secolo fa, all’inizio del Novecento, è accaduto nella cultura europea un fatto molto im-portante, che ancora più direttamente ci riporta a Brâncuși: è finito il mondo moderno.

Ma ci è voluto del tempo per accorgersene. Per esempio, è finita la fisica classica, quella di Galileo, ed è nata la fisica atomica. E il pensiero europeo ha impostato in maniera diversa una serie di vec-chi problemi. Non sto dicendo naturalmente che Brâncuși fosse consapevole di processi così profondi e vasti, ma l’artista in qualche modo va per conto suo, è percettivo, e comunque precede sempre il di-scorso scientifico.

Bruna Gambarelli: In che modo la scultura di Brâncuși è in relazione con queste scoperte scientifi-che secondo lei?

Franco Farinelli: Cito soltanto due nomi, senza i quali non si comprende Brâncuși: Saussure e Frege.

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Saussure per la sua distinzione tra significato e si-gnificante, che lui applica nel campo del linguaggio. Ma quasi negli stessi anni, negli stessi mesi direi, un matematico che si chiamava Gottlob Frege fonda la logica contemporanea, distinguendo tra senso e significato. Frege diceva che il significato è la cosa – ad esempio questo barattolo – quindi è un unico. Però questo barattolo si può presentare in tante ma-niere diverse, e questo è il senso. Ogni cosa ha un significato, che corrisponde alla cosa stessa, ma ha molteplici sensi. Sostanzialmente la stessa cosa dice Saussure quando distingue tra significato e signifi-cante. Per me, la chiave per comprendere Brâncuși è questa: lui è l’artista che più si avvicina a far coinci-dere il significato e il significante, il senso e il signi-ficato delle cose. Tutta la sua opera va esattamente in questa direzione e da questo punto di visto lui è davvero straordinario. Proprio perché, fin dall’inizio (come capita naturalmente anche per molti altri artisti, ma non per tutti) Brâncuși non distingue tra corpo e mente, tra materia e spirito. E qui c’è il suo viaggio, in ciò vale l’esperienza importante del suo viaggio. Se lui non fosse arrivato viaggiando in quel-la maniera, la sua idea di Parigi sarebbe stata com-pletamente diversa. A Parigi, Brâncuși, come anche voi, si è avvicinato attraverso una serie di tappe che hanno comportato un’esperienza fisica, proprio per-ché come dicevo prima comprendere qualcosa è un processo che ti coinvolge totalmente.

Naturalmente poi il viaggio a piedi di Brâncuși riprende una tradizione che faceva parte dell’educa-zione borghese tra Sette e Ottocento in Germania.

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Penso ad esempio a un altro artista viaggiatore, Hölderlin. Sarebbe interessante lavorare su questo rapporto tra il viaggio e l’esperienza artistica, sia po-etica che rappresentativa…

Febo Del Zozzo: Quindi per Brâncuși questa scel-ta del viaggio, e di un viaggio di questo tipo, che è anche un’impresa, un rischio, un’esperienza tota-lizzante, è in qualche modo un tutt’uno con la sua opera artistica…

Franco Farinelli: Il viaggio significa esattamente questo - tenere insieme il corpo e l’anima, l’intelli-genza e l’esperienza concreta.

Brâncuși del resto è uno scultore, non a caso: la scultura è esattamente quella forma di linguaggio che non ti consente mai di separare le cose. È la più difficile tra le arti proprio perché non consente nes-sun momento di separazione, devi tenere sempre in-sieme le cose, il corpo e la mente. E intendo proprio il corpo, non soltanto la mano, attenzione!

E qui si apre la questione di tutto ciò che vanno scoprendo oggi le neuroscienze dal punto di vista di cosa sia una mente.

Cartesio ci ha convinti che la mente stia qui, in un punto preciso dentro al cranio. Oggi naturalmen-te gli scienziati cognitivi non pensano più che que-sta sia una rappresentazione credibile della mente umana. Ma il problema è: dov’è la mente? La mag-gior parte di coloro che riflettono su questi temi sono convinti che la mente non sia da nessuna parte, sia del tutto esterna al corpo, cioè sia esattamente

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quella capacità che il corpo ha nella sua totalità di interagire con l’ambiente.

Per tutto l’Ottocento e il Novecento si è consu-mato il tentativo di fare una mappa della mente, cioè far corrispondere le specifiche funzioni a pre-cisi punti di una mente che sarebbe stata dentro il nostro cervello. Ma oggi sappiamo che la mente è una relazione che esiste tra il nostro corpo e ciò che ci circonda. La famiglia di modelli che si richiama a questo principio che oggi sta avanzando prende il nome di “la mente estesa”. È indubbio che la mente estesa implica il viaggio, lo spostamento, quella che Gibson nelle scienze psicologiche ha chiamato la “ri-voluzione ecologica”.

Federica Rocchi: Cosa si intende con “rivoluzione ecologica”?

Franco Farinelli: Gibson fu uno scienziato che negli anni ‘60 - quindi solo mezzo secolo fa – mise in discussione il metodo di sperimentazione utiliz-zato fino ad allora dagli psicologi. Secondo lui era assurdo pretendere di fare esperimenti che fossero rivelatori del funzionamento della mente umana prendendo come dato sperimentale un soggetto del tutto artificiale, statico, fermo su una sedia, che guarda davanti a sé.

È stata una vera e propria rivoluzione. L’idea del soggetto statico è molto radicata nella nostra cultura, e secondo me è anche la ragione pro-fonda per l’impossibilità attuale di formulare una politica decente nei confronti dei flussi migratori.

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Tutta la modernità si fonda sul presupposto che il soggetto stia fermo. Può sembrare paradossale perché ci hanno insegnato che la modernità è l’e-poca dei grandi viaggi per l’Occidente, la scoperta del globo. Questo è vero ma… il soggetto moderno nasce in un luogo molto preciso, sotto il Portico degli Innocenti a Firenze. Lì nasce lo spazio, o meglio la relazione tra soggetto e spazio, la grande sintassi del territorio moderno, un’invenzione fiorentina. E lì, perché il trucco della prospettiva funzioni, dando l’illusione della profondità su una rappresentazione che ha solo due dimensioni, è necessario che il sog-getto stia fermo.

Bruna Gambarelli: È stato un disastro! Io ho sem-pre tifato per Florenskij!

Franco Farinelli: Sì, stavo per farlo io quel nome…. Da questo punto di vista, il Rinascimento è stata una tragedia autentica. Se non fosse stato così, nel Canale di Sicilia oggi la gente non morirebbe. E non sto scherzando! Oggi si muore nel Canale di Sicilia perché tutta l’organizzazione della realtà è re-golata sulla base della sintassi spaziale, il cui primo presupposto - Florenskij insegna - è esattamente che il soggetto deve stare fermo… Ed ecco perché l’arti-sta, in questo caso Brâncuși, ha bisogno del viaggio.

Bruna Gambarelli: E anche noi…

Franco Farinelli: Questa è una delle grandi rivolu-zioni che fanno parte di ciò che pomposamente, ma

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anche in maniera sbrigativa, si chiama post-moder-nità. La post-modernità, nei suoi tratti essenziali, è questo: che si è costretti a costatare che il soggetto si muove… è banale no?

Federica Rocchi: Mi viene in mente l’atelier di Brâncuși a Parigi, un luogo concepito dall’artista pensando a uno spettatore che si muoveva intorno, a 360 gradi, in modo che le opere entrassero in una relazione sempre diversa tra di loro.

Franco Farinelli: Certo, assolutamente, se il sog-getto si muove… Attenzione, se il soggetto si muove crolla tutto!

Bruna Gambarelli: Penso anche ai piedistalli di Brâncuși, alcuni sono fatti per essere girati, l’opera non è ferma.

Franco Farinelli: Sì, questo è un supplemento della scultura rispetto alla modernità. È con la mo-dernità che le statue hanno quattro dimensioni. Per esempio, Vasari raccomandava di costruire statue che fossero viste da un osservatore che si muoveva da sedici punti diversi. Una grande conquista della modernità. Infatti, quando i turisti vanno in Piazza dei Signori a Firenze a vedere le copie enormi delle statue, nessuno spiega loro che sono le prime statue in cui ciò che sta dietro è molto più importante di ciò che sta davanti, cioè che il retro è fatto apposta per eliminare ogni differenza con ciò che sta di fronte, con la facciata delle statue stesse. È un processo che

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culmina con il Perseo di Cellini, dove la porzione più ricca ed elaborata della statua sta dietro e, per vedere la maschera che Perseo si è calata dietro la nuca dopo aver ammazzato la Medusa, lo spettatore deve fare una torsione. È fatto apposta. La statua classica ha come due dimensioni, davanti e dietro, non ha i lati, per così dire. Le statue romaniche, indicativamente medievali, sono addossate ai muri, come aggrappate, hanno quasi paura di cadere. C’è come una sorta di horror vacui. Le statue di Piazza dei Signori invece sono messe all’aria aperta, per la pri-ma volta, a segno del fatto che si comincia a pensare lo spazio infinito.

Quindi, mentre funzionalmente nella modernità il soggetto è statico, è l’arte, soprattutto l’arte ma-nierista, che continua da sola a dire che il soggetto si muove. E Brâncuși viene in seguito a tutto ciò, evi-dentemente. Brâncuși non è soltanto un artista che concepisce statue per un soggetto che possa girarci attorno a 360 gradi, ma prima ancora è un’artista che si muove. È un artista mobile.

Bruna Gambarelli: Quindi lei sta dicendo che è toccato all’arte il compito di mantenere vivida la co-scienza circa la mobilità del soggetto?

Franco Farinelli: Sì, e questo per un motivo pro-fondamente iscritto nella cultura occidentale, fin dall’antichità. Bisogna risalire a Tolomeo, secondo secolo dopo Cristo, il grande geografo alessandrino che insegna a fare le mappe.

Tolomeo diceva qualcosa di questo tipo:

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“Sappiamo perfettamente che il mondo è una sfera”. Ma aggiunge una cosa formidabile. “Ma cosa ce ne facciamo di un modello troppo fedele della realtà? È inservibile. È scomodo. Se utilizziamo un grande globo per rappresentare il mondo, per trovare quello che ci interessa, bisogna o girargli attorno oppure farlo continuamente ruotare con la mano. Facciamo invece delle mappe, sono molto più semplici e como-de! Stando fermi, subito a colpo d’occhio possiamo conoscere tutto!”. Siamo nel secondo secolo dopo Cristo.

Lui sta dettando in questa maniera i criteri dell’e-pistemologia moderna: a conoscere basta la vista, non più il tatto o gli altri sensi. E il soggetto è stati-co. La partita della modernità la imposta e la gioca Tolomeo nel secondo secolo dopo Cristo. Poi, per mille anni l’opera di Tolomeo scompare, e riappare nel Quattrocento, proprio nel Rinascimento. Dodici anni dopo la sua riedizione, a Firenze Brunelleschi e compagni inventano la prospettiva, cioè lo spazio, che nient’altro è che ciò che Tolomeo insegna. E na-sce questo formidabile modello che colonizza tutto l’Occidente, e anche l’Oriente.

Febo Del Zozzo: Lo scultore però lavora, come dice-vamo, sulle tre dimensioni…

Franco Farinelli: Una scultura non è mai una mappa. Una scultura è un globo. Presuppone uno spettatore che circoli. Se guardi una mappa, è la mappa che ti detta il suo punto di vista. Tu non scegli niente, semplicemente ubbidisci al dettato

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cartografico, al punto di vista che è iscritto nella mappa e che tu assumi. Non lo sai, ma lo assumi.

Se invece hai di fronte un globo, una scultura tridimensionale, allora tu devi scegliere il tuo punto di vista, e sei costretto a dichiararlo, a enunciarlo. E scegliendo il tuo, sei anche costretto ad ammettere che esiste un’altra persona, dall’altra parte, che la pensa diversamente da te, perché il suo punto di vi-sta è opposto.

Bruna Gambarelli: Comporta la responsabilità del-la scelta di quel che si vuole vedere, e la consapevo-lezza dell’esistenza dell’altro…

Franco Farinelli: Esattamente! Altro che identità… L’identità è un problema che nasce sulla mappa. Ma se il mondo è un globo, invece…

E oggi tutto il funzionamento dell’economia mondiale ci costringe a dover ripensare alla nostra visione cartografica della terra…. abbiamo sempre saputo, ripeto, l’Occidente ha sempre saputo che il mondo fosse una sfera, così come l’Oriente. Sempre si è saputo, in tutte le epoche, però si è preferito ado-perare la strategia di Tolomeo. Fare a fette il globo è più comodo. Non il prosciutto intero, ma le fette di prosciutto, una alla volta. Adesso il funzionamento del mondo non ci permette più di restare in questa prospettiva, perché per la prima volta tutta l’eco-nomia globale funziona all’unisono, anche poi con l’ulteriore interconnessione della Rete.

E allora siamo costretti a tornare alla scultura, cioè al globo...

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Bruna Gambarelli: Cioè all’esperienza...

Franco Farinelli: Sì, al viaggio e al soggetto mobile...

Bruna Gambarelli: Anche perché la complessità dell’esperienza impedisce che questa sia raccontata a fette. Noi stessi ci siamo trovati in questa difficol-tà, ad esempio di raccontare il viaggio che abbiamo fatto, non riusciamo a raccontarlo scrivendolo op-pure con delle foto, ma solo attraverso un’esperienza artistica…

Franco Farinelli: Sì, un’esperienza artistica è priva di mediazioni… Ma il problema delle narrazioni ci coinvolge tutti. Ad esempio, è un problema che ab-biamo anche oggi, ad esempio a Bologna. Come fare per raccontare ai bolognesi che non esistono più, o meglio che l’idea che i bolognesi hanno di sé stessi non vale più, perché Bologna è piena di persone che sono arrivate dall’altra parte del mondo. Oppure perché tra poco nascerà la Città Metropolitana e Bologna sarà un’unica città che va dalla bassa fino alla cima dell’Appennino. Del resto, la Provincia non è nient’altro che il vecchio municipio romano che nel frattempo, dopo che l’Impero Romano è andato in frantumi, ha mantenuto la propria strut-tura come diocesi. Vai a far capire ai bolognesi che Bologna ormai è una città che arriva fino alla cima dell’Appennino!

Bruna Gambarelli: Sì, a volte è persino difficile far

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rientrare nell’idea comune di città quello che sta ol-tre il ponte dell’autostrada, come il Pilastro!

Franco Farinelli: Il problema è anche che a Bologna non c’è una visione internazionale, ampia delle cose. Quante persone oggi a Bologna saprebbe-ro parlare di Brâncuși?

Bruna Gambarelli: Questa è una domanda interessante.

Federica Rocchi: All’estero me lo hanno chiesto

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durante un’intervista in Romania, quanto fosse co-nosciuto Brâncuși in Italia. Ero un po’ imbarazzata nel rispondere…

Franco Farinelli: Eppure qui ci sono stati dei gran-dissimi intellettuali. Solo due nomi su tutti: Carlo Ginzburg e Tomas Maldonado. Entrambi maltrattati dalla città nel peggiore dei modi.

Febo Del Zozzo: Tornando a Brâncuși. A volte mi chiedo se il suo viaggio sarebbe replicabile da un’ar-tista oggi. Intendo dire che Brâncuși era un uomo straordinario, completamente privo di paura, che lasciò la sua terra natia e riuscì dal nulla a ricostrui-re tutto in una città sconosciuta, Parigi. Ma oggi un artista che volesse fare la stessa cosa, avrebbe qual-che possibilità di successo?

Franco Farinelli: Il mondo è certamente più complicato di allora. E la Parigi di inizio secolo era veramente un luogo straordinario, piena di un fer-mento forse irripetibile. Però bisogna anche ricor-dare che la fortuna di Brâncuși e Duchamp non fu la Francia, ma l’America. La genialità di Brâncuși si vede anche in questo, oggi non conosco personaggi simili, che riescono a capitalizzare, a valorizzare la loro differenza autentica. Che non è mai volta all’indietro, al contrario, persone che hanno capito il mondo come funziona… Ora come possa aver fatto un contadino rumeno a capire come funzionava la grande città di Parigi, questo è miracoloso, geniale. Ma fu Brâncuși che rivelò a Duchamp che esisteva il

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mondo americano… e Duchamp in Francia non era molto conosciuto.

Il fatto è che allora l’Europa si apriva all’America, mentre oggi il mondo si chiude su se stesso, con una dimensione della realtà, che è la Rete, di cui ancora nessuno capisce molto.

Lo spazio sta finendo. Sta tornando prepotente-mente il luogo. E questo vale anche per il Pilastro… e quindi io penso che radicarsi, come state facendo voi a DOM, è davvero l’unica cosa sensata da farsi.

Federica Rocchi: Questo tema del radicarsi è inte-ressante anche in relazione a Brâncuși, perché lui ebbe proprio questa capacità di radicare fortemente le sue origini rumene, ad esempio i tratti architet-tonici tipici della sua terra, in un’opera che però va oltre il primitivismo, diventando assolutamente moderna e universale...

Franco Farinelli: Su questo punto mi viene in mente Morandi. A tutti quelli che vogliono capire Bologna, io consiglio di leggere la monografia che su Morandi scrisse Arcangeli, rimettendoci la vita letteralmente.

È un libro straordinario, dove si ricostruisce tutta la vita culturale di Bologna tra le due guerre. E lì si capisce anche che Morandi non si muoveva di casa, non viaggiava, ma a differenza degli altri sapeva tut-to quel che passava nella cultura pittorica europea. Aveva a disposizione solo delle riproduzioni di scarsa qualità, in bianco e nero, non certo le edizioni dei “maestri del colore”, ma il genio di Morandi aveva

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capito l’essenziale. E anche Morandi, da un lato era consapevole di una grandissima tradizione italiana, e dall’altro però sapeva perfettamente che la sua arte doveva giocarsela nei confronti dei linguaggi che in quel momento si stavano organizzando in Europa…

Federica Rocchi: Anche questo è un modo di viag-giare, stando fermi nella propria stanza…

Franco Farinelli: Sì, come quando eravamo piccoli e si leggevano i libri nella propria camera... • •

Franco Farinelli. Professore di Geografia presso l’Università di Bologna. Nei suoi studi si è occupato di geografia culturale e

della comunicazione, analizzando i sistemi di rappresentazione spaziale per decifrare il nesso tra sapere e potere stratificato

nelle elaborazioni cartografiche. Tra i suoi libri: I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età

moderna (Firenze 1992); Geografia del mondo arabo e islamico (con P. Dagradi, Torino 1993). Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo (Torino 2003). Ha curato: Limits of

Representation (München 1994); Un’Europa, una moneta (Bologna 2001), L’invenzione della Terra (Palermo 2007) e La

crisi della ragione cartografica (Torino 2009).

Sculture is a globe• Conversation with Franco Farinelli

A great poet from XX century, Osip Mandel’štam, said that there was a time where those who didn’t dare to travel, they didn’t dare to write neither. He thought that writing, and art, are in direct relationship with travelling. […]

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This is central in regard to Brancusi. We are looking for new paradigms for the comprehension of the world’s operating principles since a few decades, in order to replace the model of “modernity”. One of these new models, that are becoming more and more established, fights against the idea of the separation of mind and matter, an idea that we learnt from Descartes back in the XVII century. This is why the artistic expression is going to become more and more important: in the arts, mind and matter are the same thing. If mind and matter are the same thing, to understand something means to have a physical experience of it. To travel means exactly to keep together body and soul, intelligence and concrete expertise.

During the XIX and XX century, there were many attempts to map human mind: to find a exact correspondence between a function of our mind and a particular point of the brain. But nowadays we know that the mind is a living relationship between our body and the environment. The psychological models founded on this principles are known as “extended mind”. It’s out of question that the extended mind implicates travelling and moving. This model was created by Gibson in the Sixties with the “ecological revolution”. Gibson questioned the fact that the subject in the psychological experiments was always static – looking ahead, sitting in an empty room. It was a real revolution. The idea of the subject as static is deeply grounded in our culture and – I believe – is on of the reasons why we can’t get a serious policy on immigration. Modernity is based on the idea that the subject stands still. The relationship between the subject and the space was born in Firenze with the use of perspective. The optical illusion of Renaissance’s perspective works only with a static subject. From this point of view, Renaissance was a real disaster! Nowadays people die in the Sicilian sea because all the organization of our world is based on a special syntax whose base is a static subject.

And that’s why the artist, Brancusi is this case, needs to be on a journey.

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((( Il raccontoBatuffolo di polvere• Dante Cruciani

Era dove voleva essere… Si stupì di se stesso e non volle più pensare che fosse tutto lì quello a cui voleva arrivare.

Si girò di scatto e prese in mano, da sotto il letto, un batuffolo di polvere formatosi negli anni. Il batuffolo di polvere sostava dentro la sua mano destra, stretto e al buio. La mano destra, con il batuffolo dentro, ciondolava lungo la costa della cucitura esterna dei pantaloni di stoffa ruvida e usurata. Lui si girò di scatto, si abbassò, e incominciò a mettere ordine tra i fili elettrici fuori posto sotto lo scrittoio. La mano destra per un attimo si aprì e il batuffolo si rigonfiò. La polvere più sottile racchiusa nel batuffolo cadde a terra, ma lui non la notò e continuò a mettere a posto i fili elettrici appiccicaticci. Lo scotch messo tempo prima per tenere uniti i cavi si era staccato, lasciando tracce di colla sui cavi elettrici. Era chinato sotto lo scrittoio intento nel riassetto

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dei cavi elettrici, la mano sinistra li compattava, allineandoli uno a uno. La mano destra, chiusa a pugno attorno al batuffolo, teneva il peso dell’uomo robusto sulle sole nocche. I cavi elettrici avevano preso un altro assetto e senza adesivo non stavano più allineati, il lungo tempo senza scotch aveva dato loro la libertà di curvarsi e ricurvarsi. Voleva dominarli senza l’uso del nastro, per lui da tempo era un elemento in disuso (non gli piaceva più andare per negozi, lo trovava inutile e ideologicamente sbagliato). La mano sinistra stringeva e stringeva i cavi nel tentativo di compattarli ma rimaneva appiccicata di tanto in tanto sulla colla residua, emettendo un rumore ritmato di chewing gum biascicata. Era un amante del ritmo sonoro, quindi si concentrò sulla ricerca del ritmo emesso muovendo la mano trattenuta dalla colla usurata sui cavi, dimenticando quasi il motivo per cui era chinato ricurvo sotto lo scrittoio. Il compiacimento che provava nel sentire il ritmo che ne usciva fu tale che non si accorse del male alle giunture che gli provocava quella postura totalmente innaturale. Il suono cominciò a essere articolato e lui cercava combinazioni ritmiche sempre più raffinate; modulava il tempo strattonando la mano attorno ai cavi con intensità diversa a seconda del ritmo che ne usciva. Il suo corpo rannicchiato non era allenato a stare in quella posizione, avvertiva dolore ma rimase ancora

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lì, appassionato a quello che stava facendo. Non sapeva più se fosse giorno o notte, vedeva solo i cavi sul pavimento vicino al battiscopa sotto lo scrittoio. Poteva essere qualsiasi ora: per lui era indifferente. La polvere dentro la mano destra era strizzata e soffocata al buio completo; le nocche su cui faceva peso tutto il corpo erano livide, ma lui non sentiva, era troppo concentrato. A un tratto si udì il rumore assordante dell’allarme della gioielleria sotto casa sua. Lui si alzò di scatto, disturbato da quel rumore brutale che aveva rovinato la sua composizione sonora per cavo elettrico con colla usurata. Arrabbiato, aprì la finestra imprecando contro l’allarme del negozio. Senza pensarci aprì la mano destra, la polvere fu accecata dalla luce e si rigonfiò. Il batuffolo cadde a terra. La finestra aperta fece entrare una folata d’aria. Il batuffolo ritornò dove era prima che lui lo prendesse. Ma l’allarme continuava imperterrito a suonare e lui chiuse la finestra. Imprecò di nuovo, sentendo l’insopportabile rumore dell’allarme ovattato che arrivava all’interno della stanza. Si rese conto che gli facevano male le articolazioni, e cominciò a fare alcuni movimenti per lenire il dolore. Finalmente il fastidioso rumore cessò, e si sentirono cinque rintocchi di campana.

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Questa scansione del tempo data dal campanile fu come una frustata: era in ritardo, sua figlia era uscita da scuola già da tempo. Corse via dalla stanza, vestito alla bene e meglio e uscì come un razzo dall’appartamento, ansimando. Mentre il batuffolo di polvere poteva rivedere il letto di lui: da sotto.• •

Dante Cruciani è nato nel 1960 a Cremona dove ha vissuto fino all’età di ventidue anni. Ha abitato in diverse città europee

tra cui Budapest, Stoccolma, Madrid. Si è sempre dedicato alla scrittura, ma non ha mai

pubblicato testi.Non ha mai lavorato.

A dust puff • Dante Cruciani

He was where he wanted to be...He surprised himself and did not want to think that what he wished to reach was already there.He turned around suddenly and he picked up a dust puff from under the bed, …..The dust puff was in his right hand, tightly and in the dark.The right hand, with the dust puff inside, hung along the seam’s line of his trousers, made of a rough and waisted fabric.He turned around suddenly, he kneeled down and started to tidy up the mess of electrical wires under the writing-desk.The right hand opened up for a second and the dust puff blew up.

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((( IncontriLe parole non bastano• Oscar De Pauli

Sono arrivato al Pilastro nel 1966 con i primi insediamenti, le prime 411 famiglie. La mia famiglia partecipò al concorso per l’assegna-zione delle case popolari, allora IACP. Non

eravamo stati tra i primi in graduatoria, ma poiché il Pilastro allora era una zona estremamente peri-ferica e priva di tutti i servizi, parecchie famiglie, davanti a noi in graduatoria, rinunciarono e così siamo subentrati noi. Entrammo in questo apparta-mento nuovo in via Deledda, che allora si chiamava via Pilastro. Allora tutte le strade di questo rione, che oggi si chiamano per lo più con nomi di scrittori italiani famosi, si chiamavano via Pilastro, con nu-merazioni civiche oltre il centinaio…

A quell’epoca non c’erano i servizi e il riscalda-mento nelle case non funzionava. Non c’erano scuo-le, non c’era una farmacia, un negozio di alimen-tari, non c’era niente. All’inizio non c’era neanche

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una linea dell’autobus, bisognava andare a San Donnino a prendere il bus. I nostri figli andavano a scuola a San Sisto, San Donino, oppure alle medie andavano in via Irnerio.

Io lavoravo all’Officina Deposito Locomotive delle Ferrovie e in officina era stato il partito a suggerirci di partecipare al bando del PEEP, uno dei primi che venne fuori. E così ci ritrovammo in tre – diciamolo pure! – compagni comunisti e colleghi alle Officine a vivere qui al Pilastro: io, Giuseppe Ceccotti, entram-bi friulani, e Luigi Spina di Avellino. Ci aiutammo a vicenda nel trasloco. Un piccolo nucleo di colleghi e amici che, facendo seguito all’esperienza di attività politica nel partito, pensò subito di darsi da fare per creare un comitato inquilini. Ci riunimmo la prima volta nel settembre ‘66 nell’allora prefabbricato adi-bito a Chiesa che non era ancora stata consacrata, e dove nel frattempo avevo montato io l’impianto elettrico temporaneo, e facemmo un’assemblea alla quale parteciparono tutti i capofamiglia residenti in questo rione. In quella riunione eleggemmo un co-mitato provvisorio, così per alzata di mano, chieden-do chi era d’accordo a far parte di questo comitato. E l’unico problema che scaturì in quel momento fu che c’erano troppe mani alzate!

Il comitato era democratico, nel senso più na-turale possibile, cioè accoglieva qualsiasi persona purché dimostrasse buona volontà ad affrontare i problemi. C’erano dei cattolici, socialisti, comuni-sti, gente senza partito, c’era persino una prostitu-ta, battagliera come una tigre! Con il comitato per prima cosa iniziammo ad affrontare il problema del

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riscaldamento e accelerammo parecchio, se non fos-simo intervenuti probabilmente avremmo passato l’inverno al freddo, e avevamo tutti dei bambini pic-coli… E poi questo comitato si strutturò, organizzò delle elezioni, con la commissione elettorale e tutte le cose fatte per bene. Subito dopo l’emergenza del riscaldamento, affrontammo il problema delle scuo-le. Iniziammo a dialogare con le Istituzioni, proprio in quel periodo erano stati istituiti i Quartieri a Bologna, siamo intorno al 67/68 circa.E in questa battaglia per avere le scuole al Pilastro, il Comune tramite l’allora Presidente di Quartiere, il compianto Cavalazzi, non ci diede solo una mano, ma era proprio al nostro fianco come interlocutore privilegiato, sia a livello del quartiere che della città. Dopo poco iniziarono la costruzione delle scuole al Pilastro.

Questo comitato inquilini allora acquistò un alo-ne di mito, di santità (laica intendiamoci!). Per tutti i problemi, la gente si rivolgeva a noi. Diventò fa-moso per le manifestazioni in piazza, facemmo cose memorabili. Andammo in piazza con i tutti i bam-bini con i grembiuli bianchi, per chiedere le scuole. E piano piano sono stati costruiti tutti i servizi, dopo la scuola anche la biblioteca (che all’inizio era den-tro la scuola elementare) e il poliambulatorio, dove ai bambini venivano montati gli apparecchi per i denti.

Io, Ceccotti e Spina, che era diventato presidente del comitato, ci eravamo organizzati dividendoci i compiti. Luigi seguiva il comitato inquilini, Ceccotti seguiva il partito e io le attività sportive. Fondammo

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subito una polisportiva, e non iniziammo col calcio ma, tanto per dare un’idea, proponemmo l’atletica leggera. Lo spunto lo diede il Provveditorato che or-ganizzava delle mini olimpiadi per le scuole. Allora noi eravamo qui con tutti questi ragazzini, saranno stati sette-ottocento, che giocavano liberi nei prati, scalzi, proprio liberi come indiani! Pensammo: par-tecipiamo anche noi. E c’era uno di questi ragazzini, proveniente da una nota famiglia malavitosa del Pilastro, che era straordinario. Sembrava di vedere Maradona da giovane, piccolino, nero come il carbo-ne, scalzo con un paio di calzoncini che gli cadevano sempre, ma quando era in pista batteva tutti, allo stadio arrivò in finale e vinse su tutti ai 100 metri. Il calcio venne molto dopo. Appena abbiamo avuto a disposizione la palestra della scuola, attivammo, pensa un po’, la danza classica! Una nostra allieva fece carriera e arrivò a esibirsi in Giappone. Poi il pattinaggio e la ginnastica artistica. Questo per dire che c’era un afflato culturale notevole, che era già presente anche nello sport, nella proposta di attivi-tà nobili, per così dire. C’era questo pensiero qui: i nostri bambini non sono da meno, non devono solo giocare a calcio, noi al Pilastro facciamo la danza classica, ecco! Un po’ come fate voi oggi al Dom col teatro…

Un altro compagno poi fondò il circolo cultu-rale, organizzando gite e una marea di iniziative. Insomma c’era un fermento veramente irripetibile.

Nel 1991 arrivò l’Università per la Terza Età “Primo Levi” che ci chiese degli spazi per fare un corso di poesia. Noi mettemmo a disposizione una

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sala e partecipai anche io al corso, che era tenuto da Guido Armellini. Da quell’esperienza fondammo il Laboratorio di parole - Gruppo di Poesia, con venti parteci-panti. Da vent’anni questo gruppo si incontra per leggere e scrivere poesie.

Ma tornando agli anni Settanta, a un certo punto iniziammo a guardare le cose dall’alto e ci accorgemmo che il piano regolatore che prevedeva il completamento del Pilastro, era concettualmente sbagliato, nel senso che non era fatto per i cittadi-ni. L’architetto Trebbi l’aveva concepito come borgo “neo-medievale”, quindi tutti questi palazzi erano disposti a raggiera attorno a una piazza con tutti i servizi, ma non c’erano spazi verdi, e c’era scarso spazio tra i vari edifici. Studiammo questo piano regolatore e iniziammo a dialogare con i vari urbani-sti, architetti, assessori. Allora c’era Campos-Venuti e poi Cervellati, comunque ci siamo incontrati con tutti e due in tempi diversi e abbiamo fatto in modo che ci fosse una variante al piano regolatore che non era solo architettonica, perché affrontammo il pro-blema anche dal punto di vista sociale. Il Pilastro in-fatti comprendeva una abitabilità mono-categoriale, cioè tutti i disagiati, tutti gli sfigati della città e della provincia, tutti gli ultimi nella classifica avevano diritto di abitare in queste case popolari, con le conseguenti aberrazioni, tra cui concentrazione di delinquenza minorile. Tra l’altro, tra gli assegnatari c’erano anche ex confinati di mafia, una decina di famiglie. Gli annali della cronaca di Bologna dimo-strano che qui in quegli anni era diventata una zona di delinquenza minorile, e anche organizzata. In

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seguito i giornali ci hanno anche marciato su questa cosa della delinquenza al Pilastro, e hanno costruito un’immagine sbagliata del quartiere.. ma questo è un altro discorso. All’inizio, i primi anni, sono stati duri e si lottò duramente contro questa situazione, anche lì mitiche manifestazioni, sfilate, fiaccolate, delegazioni… tanto per dire, nei momenti più caldi, l’allora Sindaco Renzi Imbeni e il Prefetto Sica veni-vano qui, quando avevano un po’ di tempo libero, venivano a giocare a carte nel nostro circolo, per di-mostrare la vicinanza dello Stato e delle Istituzioni al quartiere. Posso dire che anche questo avveniva gra-zie al nostro impegno, che fu reale e anche rischio-so, che tenne viva l’attenzione sulla questione.

Insomma, alla fine ottenemmo la variante al Piano Regolatore nel ‘75. Furono inseriti il Parco Pier Paolo Pasolini, il Virgolone, via Larga e le Torri, che in origine non erano previste. E inoltre, in mezzo a questi edifici, è stata costruita anche dell’edilizia sovvenzionata o delle cooperative, nel senso che è arrivato anche un ceto medio, artigiani, commer-cianti, piccoli proprietari, ed è stato aggiunto molto verde pubblico.

In altre città dove la questione urbanistica e quel-la sociale non sono state affrontate insieme, vedia-mo ancora oggi i disastri. Ad esempio San Basilio a Roma, o Le Vele a Napoli, Quarto Oggiaro a Milano. Il nostro comitato inquilini è andato in questi posti a portare l’esempio della nostra esperienza, fummo anche tra i precursori del sindacato inquilini Sunia (Spina era nel comitato nazionale), ma probabil-mente in quelle città non c’erano istituzioni che

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recepivano e il disastro lo vediamo ancora tutti i giorni.

Bisogna dire che allora la politica era una faccen-da declinata sui problemi reali, sulla risoluzione di questioni importanti per la vita dei cittadini. Però non si era mai sganciati dal contesto generale, perché quando si facevano le riunioni di partito, la discussione partiva sempre da una relazione costru-ita diciamo così “a gradini”. Il primo gradino era la situazione internazionale, poi quella nazionale, poi quella cittadina, poi quella locale. Ogni tanto ci pen-so a questa impostazione che avevamo nell’affron-tare i problemi, e ne sono molto grato, perché era di un’apertura culturale che oggi non è immaginabile da nessuna parte, neanche alle massime responsabi-lità del partito.

L’attività del comitato andò avanti per un bel po’. Nel ‘75 eravamo ancora attivi, perché ricordo che il 25 aprile 1975, quando gli americani lasciarono il Vietnam, eravamo qui al Pilastro tutti contenti a festeggiare. Poi il comitato piano piano ha cessato le sue attività, vuoi per ragioni naturali, di invec-chiamento, ma anche perché i problemi erano stati risolti in gran parte, compreso quello della malavita, che è stato l’ultimo. A questo poi si aggiunge che piano piano c’è stata una sempre minore partecipa-zione dei cittadini alla vita pubblica e alla politica, perché è la politica che fa la sintesi. Tanto è vero che oggi, su questo quartiere, non esiste di una struttu-ra organizzata politica di qualsiasi colore. Ci sono i Democratici… ma non producono un’azione politica rilevante sul territorio. E il risultato è che le persone

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non sanno più a chi rivolgersi. Oggi ci sono le Istituzioni preposte ad esempio al disagio sociale ma non hanno un rapporto quotidiano, stretto con le persone fisiche. Il problema è: chi fa oggi il “Cristo”? Chi si dedica al prossimo? I politici si dedicano alle carriere…intendiamoci anche una volta i politici ci tenevano alle carriere, ma avevano dedizione, spiri-to di servizio, rispetto per gli impegni presi…

Oggi ci sarebbe un grande bisogno di collegamen-ti, di ripensare alle persone come parte di un tutto, ma è difficile.

Da qualche mese è iniziata l’esperienza del Tavolo di Progettazione Partecipata Permanente del Pilastro, di cui anche il nostro Circolo La Fattoria fa parte. Riunisce le 33 associazioni del Pilastro in un unico tavolo di coordinamento che pensa delle azioni da realizzare sul territorio. Io spero che questa iniziativa – che è agli inizi - diventi un’occasione per far capire a coloro che partecipano… Insomma, che si rendano conto che le parole non bastano. Sono im-portanti, importantissime… insostituibili. Però se non ci si spende, se non si è conseguenti alle parole dette, non può cambiare nulla. • •

Oscar De Pauli è nato a Udine nel 1937, dal 1961 vive a Bologna e dal 1966 al Pilastro.

Cofondatore di: Comitato inquilini, Polisportiva, Sezione P.C.I. del Pilastro “Umberto Sabatini” e del Circolo “La Fattoria”.

È referente del “Laboratorio di parole - gruppo di poesia” del Circolo la Fattoria.

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Words are not enough• Oscar de Pauli

I came to live at Pilastro in 1966 with the very first urban settlements and the first 411 families. We met with all other inhabitants of this village for the very first time in September 1966 in the prefabricated building of the church, not yet sanctified, and there was a great partecipation from all breadwinners. During the meeting we voted for a commitee, asking all partecipants who wanted to be part of it. And the only problem we had in that moment was that there were too many hands up!

This lodger commitee bacame soon almost mithical. People came to us for any kind of problem. It became famous for its memorable meetups: we took to the streets with all children wearing white smocks to ask the Municipality to build the schools at Pilastro. And one by one, we obtained all public services at Pilastro: the schools, the library, the health facility and so on.

[…] A few months ago, we started a new experience at Pilastro: a Partecipatory round table that gather 35 associations of the area with the aim of organizing actions in the neighbourhood. I hope that this pioneering venture is a good occasion for all partecipants to understand the fact that words alone are not enough. Words are very important, unique. But if there isn’t any

action following the words, nothing can change.

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((( La recensioneUn prezioso compagno di strada• Franco Arminio

Esiste il Sud, esistono i film sul Sud, ma non si può dire che ci siano dei film che siano essi stessi meridionali. Il secondo film di Rocco Papaleo dichiara già dal titolo la sua

provenienza. È in tutto e per tutto Una piccola impresa meridionale.

Ho recensito pochissimi libri. È la prima volta che recensisco un film. Lo faccio perché sono un paeso-logo e perché i film di Papaleo sono in qualche modo paesologici. Lui non racconta il Sud urbano e non racconta neppure il Sud che fa più notizia, quello mafioso e malfamato.

Qui siamo in Sardegna, ma siamo lontani dai luoghi famosi dell’isola. Vediamo una bellezza pro-digiosamente appartata e incontaminata. In questo paesaggio, dentro una luce buona e accogliente, si muove una compagnia di falliti e semifalliti, puro materiale paesologico. La costa sarda diventa un palcoscenico. Va in onda una commedia umana

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raffinata e popolare, sempre fornita di quel garbo naturale che è il tratto peculiare del regista e del pro-tagonista del film.

Immagino che a qualcuno non piacerà il finale. Immagino che a Papaleo sarà rimproverata qualche tirata moralistica. Ma sono osservazioni che possono venire da chi il Sud non lo conosce e non lo capisce. Papaleo non fa un film pieno di buone intenzioni perché così passa all’incasso. Lui è un uomo pieno di buone intenzioni. E ogni suo lavoro reca impresso non il marchio di uno stile, non una scelta di poeti-ca, ma semplicemente la traccia di una necessità, la verità della sua vita.

Vediamo un cinema lietamente necessario, un cinema che non si traveste da capolavoro, che non vuole stupirti con la patina dell’eccezionale. Siamo nel campo della vita ordinaria, ma in questo campo soffia un’energia strampalata, un filo di bonarietà per le vicende degli umani.

Nel film scena dopo scena si crea una comunità provvisoria che dà lungo alla trasformazione di un vecchio faro abbandonato in un resort molto acco-gliente. Le emozioni di ogni personaggio non sono mai imperiose, mai totalmente egocentriche. Ogni esigenza è mitigata dalle esigenze degli altri.

Papaleo costruisce uno spettacolo che sembra vo-ler alludere al bisogno di uscire dall’autismo corale che ha dominato gli ultimi decenni del nostro paese. Ci dà la sensazione che il Sud oltre a essere un pro-blema è anche una soluzione. La soluzione di stare all’aria aperta, di condurre la propria vita a servizio di una passione più che di un calcolo. Una moderata

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follia sembra essere il suo vangelo, più che l’estre-mismo della moderazione a cui sembra affiliata la piccola borghesia meridionale che non compare mai nel film, ma da cui i personaggi sembrano pedinati.

Papaleo mostra le miserie brucianti della chiesa, degli usi e costumi consumistici a cui nessuno fa più caso, come se fossero naturali e non il risultato di un conflitto che a Sud ha fatto molti danni.

L’Italia di oggi è dominata dal cinismo e dal di-sincanto e non si può chiedere a un film di fare la rivoluzione, ma Una piccola impresa meridionale ci fa venire voglia di una vita giocata all’aperto. Questo è un film che ha fiducia nella vita che c’è fuori. Il paesaggio, il piacere dell’amicizia, la dismissione dell’arroganza. Ecco tre piccole leve su cui agire per smuovere la trave che ci è caduta da decenni sulle gambe. Siamo creature zoppe, ci dice il bravissimo attore e regista lucano. Forse nel nostro caso è inuti-le provare a camminare, più facile che ci mettiamo a volare. Il Sud che abbandona la festa nella scena finale del film ha sempre voltato le spalle ai puri di cuore, agli affamati di amore. Forse però chi rimane non è più solo come una volta. Io ho lasciato il cine-ma con la bella convinzione di avere in Papaleo un prezioso compagno di strada. • •

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Franco Arminio È nato a Bisaccia in Irpinia d’Oriente nel 1960.

Ha pubblicato sei raccolte di versi.

In prosa ha pubblicato, tra l’altro, Diario civile (Sellino, 1999), L’universo alle undici del mattino (D’if, 2002), Viaggio nel Cratere

(Sironi, 2003), Circo dell’Ipocondria (Le Lettere, 2007), Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza, 2008), Nevica e ho le prove

(Laterza, 2009), Cartoline dai morti (Nottetempo, 2010), Oratorio Bizantino (Ediesse, 2011), Terracarne (Mondadori, 2011), Geografia

commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori, 2013).

È anche autore di  documentari: Un giorno in edicola, La terra dei paesi, Scuola di paesologia, Giobbe a Teora, Terramossa. Collabora con “il Manifesto”,  e “ il Fatto quotidiano”. È direttore artistico di

La luna e i calanchi (un anno di azioni paesologiche ad Aliano).

A precious travel mate • Franco Arminio

The movie “Una piccola impresa meridionale (a small southern business)” directed by Rocco Papaleo declares its origins from the title. […]It is an happily essential movie. It’s a movie that doesn’t dress up as a masterpiece, a movie not intended to astonish you with a polish of an extraordinary story. We are in the field of ordinary life, but in this field there’s an odd energy flowing, a grain of goodwill for humans’ events. […]This movie let us desire to play our life outdoors. This is a movie that believes in the outdoors life. The landscape, the pleasure of friendship, the refusal of arrogance: we should operate these three little levers in order to remove the beam that fell on our legs a few decades ago. “We are lame creatures”, tells us the great actor and director from Lucania. Maybe it’s useless to try to walk, we are more likely to learn flying. […]I left the cinema with the idea that I had found a precious travel mate.

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((( Una strisciaGiulio Bergami

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Giulio BergamiHo 76 anni. Grafico e disegnatore del non-sense da sempre,

sto ancora tentando di dare un un senso alla mia vita. Saltando le esperienze precedenti, nel 1970 approdo al

Messaggero di Roma con la mansione di giornalista grafico. Gli anni d’oro del quotidiano. E lì resto, diventando redattore

capo. Contemporaneamente lavoro, spesso, al Pais a Madrid. Ora sono a riposo ma continuo a divertirmi facendo

per me e per gli amici quello che non ho mai considerato un lavoro ma un passatempo, meravigliandomi perché mi

pagassero per divertirmi.

•finito di stampare nel mese di novembre 2013 a Bolognapresso la tipografia Rabbi