animal (segnavia n. 1)
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Il n. 1 di "segnavia" (animal), dedicato al rapporto con il mondo animale, alle scelte etiche e alimentari. Scritti e poesie di Luca Rando e Nicola SgueraTRANSCRIPT
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segnavia raccoglie gli scritti “a tema” di Luca Rando e Nicola
Sguera, amici da anni insieme “lungo la via”. Tali parole sono,
per l’appunto, “segnavia”.
I volumetti sono tirati in un numero limitato di copie (mai
più di 50) e distribuiti in occasione della presentazione. Succes-
sivamente saranno resi disponibili on line in formato pdf.
Il volumetto è stato stampato in proprio presso Grafiche
Iuorio, Via Rummo 37, Benevento, in 50 copie, nel gennaio
2016.
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1 La vita degli animali (L.R.)
«Mi interessano le vicende in cui uno stato di
privazione ci costringe a sentire più intensamente,
a pensare in modo inconsueto, ad agire senza
margini di scelta, a usare gli spiccioli, le energie
residue» (E. Albinati)
Questo testo è nato più di 10 anni fa. Lo riporto qui con
minimi cambiamenti visto che il nucleo del pensiero espresso
è ancora oggi per me valido, anzi, ulteriori approfondimenti
e letture mi hanno convinto ancor di più della correttezza
della scelta vegetariana fatta ormai trent'anni fa.
1. È singolare come si incontrino certi libri e taluni
autori.
Ho letto per la prima volta J. M. Coetzee, romanziere e
critico letterario sudafricano riservato e distante (premio
Nobel per la letteratura nel 2003) nel dicembre 2001.
Mi trovavo a Bergamo dove mia moglie, alla ricerca del
miraggio dell’entrata in ruolo, si era trasferita da
Potenza. Nei giorni liberi da impegni per entrambi,
quando io da Melfi, dove insegnavo, la raggiungevo dopo
ore di macchina o di treno, trascorrevamo il tempo
girando per la provincia o nella città vecchia. A volte, tra
cinema e paesaggi montani, ci fermavamo anche in
libreria. Lì, appunto nel dicembre 2001, tra i tanti libri,
scovo un titolo che mi attira: La vita degli animali di J.
M. Coetzee (per una strana coincidenza insieme comprai
anche Del mangiare carne di Plutarco dell’Adelphi, che
lessi nel viaggio di ritorno in treno fino a Potenza).
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2
«Io mi domando con stupore in quale circostanza e con
quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta
il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto;
e imbandendo mense di corpi morti e corrotti diede altresì il
nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che
poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e
vivevano» (Plutarco).
2. Sono vegetariano ormai da quasi due terzi della mia
vita (ho 48 anni) e in qualche modo l’esserlo a un certo
punto è diventata per me un’abitudine: la scelta era stata
lunga e travagliata (cercare di far accettare la mia scelta
ai familiari la cosa più difficile, astenermi dalle carni di
animali quella più semplice) dopo alcune letture e
discussioni con amici. Trovare quel (quei) libro era, in
qualche modo ricercare le radici della mia scelta,
verificare la tenuta delle mie posizioni, del mio mondo
interiore.
L’essere vegetariano non è mai stato per me scelta
religiosa, non credo nella reincarnazione, né è stata scelta
salutista. È stata, piuttosto, scelta morale e, in qualche
misura, politica. «Non fare agli altri quello che non
vorresti fosse fatto a te». Ma quali altri? Tutti, tutti gli
esseri viventi. Nel rapporto tra gli uomini e gli animali
intravedevo quello tra uomo e uomo (violenza,
oppressione, sopraffazione…). Era la mia una protesta
contro un modello economico e sociale che comporta
degrado. Protesta contro un antropocentrismo che già
Plutarco attaccava con queste parole:
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3
«Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo
siete spronati ad aver sete di sangue, voi che disponete del
necessario con una tale sovrabbondanza»
3. Per tornare al libro (pubblicato per la prima volta
nel 1999): Coetzee immagina che una scrittrice, Elizabeth
Costello, sia invitata all’Appleton College a tenere due
conferenze su un tema a sua scelta. Sorprendentemente
ella pronunzia due discorsi sul maltrattamento degli
animali (i due discorsi suddividono il libro in due parti
che hanno per titolo: “I filosofi e gli animali” e “I poeti e
gli animali”). Ovviamente la discussione provoca
difficoltà di rapporti (sia con i familiari che con i colleghi)
che portano la scrittrice ad assumere atteggiamenti
sempre più intransigenti verso i suoi ascoltatori
spingendola ad affermare una sorta di rapporto tra lo
sterminio degli animali e quello perpetrato contro gli
ebrei nei campi di sterminio («L’orrore scaturisce dal
rifiuto da parte degli assassini, e di tutti gli altri, di
immaginarsi al posto delle vittime. […] In altre parole
hanno chiuso i loro cuori. Nel cuore risiede una facoltà,
l’empatia, che talvolta ci permette di condividere l’essere
di un’altra persona. […] Ogni giorno ha luogo un nuovo
olocausto, e tuttavia, a quanto vedo, il nostro essere
morale non ne viene neppure scalfito. Non ci sentiamo
contaminati»).
Il libro non ha un vincitore: le posizioni della Costello
sono spesso efficacemente contraddette da altri
personaggi. Ma lo scopo di Coetzee non è quello di
animal
4 indicare la ragione o i torti rispetto alla problematica
affrontata, è piuttosto quello di porlo, il problema, di
porre domande e dubbi su un modo di comportarsi: gli
animali hanno diritti? Hanno coscienza? Siamo liberi di
usarli per i nostri fini? Siamo liberi di ucciderli?
Proprio per questo il libro è concluso da quattro
riflessioni su forma e contenuto delle conferenze di
Coetzee/Costello. Le riflessioni sono della teorica della
letteratura Marjorie Garber, del filosofo Peter Singer,
della studiosa delle religioni Wendy Doniger e della
primatologa Barbara Smuts. I quattro, dai loro diversi
punti di vista, affrontano il rapporto tra uomini e
animali.
«La sofferenza è sofferenza, non importa di che specie sia
l’essere che la subisce.» (P. Singer)
4. Se uccidere un animale è un male, è ovvio, però, che
non arrivo a dire che sia un male assoluto. Non è
pensabile porre gli animali al di sopra dell’uomo (come
dice Singer: «il valore che si perde quando si vuota un
recipiente dipende da cosa c’era dentro quando era pieno,
e nell’esistenza umana c’è di più che nell’esistenza di un
pipistrello»). Ma non è neanche pensabile trattare gli
animali come cose (forse dovremmo imparare il loro
linguaggio, saperli ascoltare, impareremmo anche ad
ascoltare di più i nostri simili). «Gli animali hanno pagato
caro il nostro desiderio di avere tutto in qualunque
momento a un prezzo irrisorio», scrive J. Safran Foer in
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5 Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? Dalla
lettura di quest'ultimo libro acquistano significato anche
le parole della Costello sullo sterminio degli animali, per
la vividezza e la forza con la quale vengono raccontate le
condizioni in cui sono fatti vivere gli animali negli
allevamenti intensivi, la morte di quelli più deboli, le loro
sofferenze.
E alla fine di tutto, in fondo
«Noi sappiamo che essi moriranno, e per questa ragione
è male ucciderli.» (W. Doniger)
[2015]
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6 Senza idillio (N.S)
1. Diario
21 gennaio 1984
[...]. Alle 5 io e papà siamo andati alla Casa del cane
per fare visitare i due bellissimi gatti siamesi che
Antonella Tresca ci ha regalati l’8 gennaio [...]. Poveri
gatti: chi sa come hanno sofferto. In fondo, la loro
sofferenza fisica non ha neanche il valore di catarsi
spirituale; chi sa perché sono stati creati se la loro vita si
conclude con la morte dei corpi [...].
17 novembre 1984
Io non ho un sentimento della natura, come si dice,
idilliaco: quello che fu di Virgilio e di tanti poeti latini,
quello che è stato di Hölderlin e di tanti poeti romantici.
Io mi sento estasiato di fronte alla straordinaria bellezza
di un tramonto rosato, di fronte a un campo verde che è
l’immagine della gioia, di fronte alla campagna bagnata
e, dunque, malinconica, ma vedo anche il dolore di quegli
animali che trascorrono la loro inutile vita in gabbia,
vedo il dolore che è nelle grida di un maiale, nella cui
pancia si infila una lama tagliente, vedo la morte che,
incessante, rende partecipe se stessa di tutti gli esseri,
vedo il cane che crudele dilania il gatto indifeso, il gatto
crudele che gioca col topo e lo dilania. Dicono: questo è il
cammino della natura, questa è la selezione delle specie,
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7 ma io dico. e quale sarà la ricompensa per mille dolori che
i miliardi di esseri che sono esistiti, i miliardi che esistono
e i miliardi che forse esisteranno hanno patito, patiscono
e patiranno? Sono lacerato continuamente dalla mia
aspirazione alla vita e il continuo contatto che ho con la
morte. Anche quando mangio spaghetti alla carbonara
soffro. La sofferenza di ogni essere è la mia sofferenza, la
morte di ogni essere è la mia morte.
26 novembre 1984
[Per la prima volta ho disertato la messa
volontariamente].
Come un Essere perfetto potrebbe creare esseri
destinati inutilmente a soffrire e a gioire? Io non posso
credere in questo Dio, e se anche fossi certo della sua
esistenza, non potrei venerarlo perché sarebbe un Dio di
morte e non di vita. [...] Il dolore ha lasciato il posto
all’amara constatazione che siamo polvere e che polvere
torneremo, ubbidendo alle esigenze di una Natura che
non riesco neanche ad odiare.
4 gennaio 1985
Da tre settimane non mangio carne. A me la carne
piace, ma se la mangiassi ancora morte entrerebbe in
me... ne ho già troppa.
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8 22 gennaio 1985
La vita è l’inno più bello alla morte.
Io di solito con il rasoio mi taglio la barba, loro, invece,
depilano la rosea pelle di un porco morto. Sono venuto
dalla serena contemplazione della vita nella natura, e
davanti casa mia ho ammirato in tutto il suo splendore la
morte nella natura. Come si fa ad avere un sentimento
idilliaco della natura quando le grida di migliaia di essere
mi straziano.
Le montagne in lontananza erano azzurre e bellissime.
I fringuelli nascosti allietavano la campagna ridente.
Le nuvole all’orizzonte si addensavano minacciose.
Le colombe volavano al sole.
E intanto un’altra tragedia si consumava con le lame
affilate che straziavano la pelle. Io, intanto, vuoto di
pensiero, fissavo l’orologio che, indifferente, diceva:
«Anche per te verrà il momento che chiuderai gli occhi e
mai più li riaprirai».
Un dio maledetto sei, un dio di morte: «Condoglianze
sentite per la morte del vostro caro Maiale, si augura alla
signoria vostra di farne salsicce prelibate e zamponi
sopraffini. Vostra Natura».
Che stronzi gli uomini, che pensano di avere un destino
diverso da quello dei conigli.
Quando il nulla creò il mondo, sulla volta dell’Universo
apparve questa epigrafe: «Tutto ciò che ora è, è destinato
a soffrire; tutto ciò che soffre, è destinato a finire».
Che cos’è la vita se non un abisso di dolore senza alcun
appiglio.
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9 Sederono intorno ad un tavolo e ruminarono.
Affondarono le fauci nella carne di un grasso maiale,
bevvero vino stagionato e risero a crepapelle (sputando
cibo dalla bocca per la foga delle risate). Dal mento colò
il sugo e le mani unte si infilarono furtivamente (anche se
non troppo) nelle corpose cosce della nobildonna romana.
L’altra mano intanto infilava nella bocca (ancora
profumata di menta?) la coscia appetitosa di una gallina.
«Allontaniamoci da questo volgare banchetto».
Andarono in una delle grandi camere della grande tenuta
di campagna. La donna si spogliò e lui le infilò nella bocca
(ancora piena di patate e maiale) il cazzo. Lo sperma le
scorre in bocca, come il Lete nell’Inferno. La sua lingua
impertinente cerca ancora, lui gliene dà sempre di più, fin
quando i suoi occhi non si chiuderanno in attesa di
rivedere i fasti della sua splendida vita, così piena di
interessi e gioie.
I sogni non volano più sulle ali del gabbiano, anch’essi
sono precipitati, giù nel mare del nulla; ora si avviano
negli abissi imperscrutabili di quel mare; io, intanto, li
aspetto nel fondo di quegli abissi che da tempo ho
toccato, nell’attesa di ricongiungermi a loro e godermi lo
spettacolo di quelle abissali grazie, così nere, così belle.
Le mie lacrime si confondono con l’acqua, che non filtra
più la luce del sole. Il mio pianto è solo una tetra melodia,
conforto di piccoli pescecani e nobili polipi dormienti.
Siamo quattro miliardi di stronzi alla ricerca di un
impossibile perché.
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10 2. La mia storia
Mi ha fatto una certa impressione rileggere alcune
pagine del Diario che, in maniera altalenante, mi
accompagna dal 1984, che considero un anno chiave della
mia esistenza, con tutte le sue novità. Eppure, al netto di
una “saggezza” che naturalmente porta con sé l’età,
ritrovo in quel ragazzo di diciassette anni, la stessa
persona che ora sta scrivendo. Ritrovo l’intreccio di
problemi che ancor oggi mi interpellano e una visione
della sessualità che mescola condanna e tentazione.
Certo, quel ragazzo aveva letto solo qualche libro (ad
esempio, per quel che poteva capirne, Il mondo come
volontà e rappresentazione) e, soprattutto, aveva poca vita,
poca esperienza alle spalle. Era tutto aneliti, conati,
aspirazioni. Eppure, ripeto, quel ragazzo sono io, sono
ancora io nella tensione, non nelle idee, che sono molto
cambiate nel tempo. In quell’adolescente ἄτοπος, che
poco si riconosceva nelle pratiche dell’epoca e preferiva i
boschi e la solitudine a Piazza Risorgimento, in
quell’adolescente cresciuto nell’Associazione cattolica di
S. Anna, con l’inseparabile amico Luca, la questione
“animale”, sorta per empatica compassione nei confronti
di uccelli, gatti e maiali, si intrecciò inevitabilmente alla
questione “Dio”, scardinando l’apparentemente
granitico blocco di certezze prodotto dal suo ambiente
familiare. «Si Deus est unde dolor?». Era la sofferenza
insensata dell’animale ad interpellarmi, che si intrecciava
ovviamente con i minimi accadimenti biografici (la morte
animal
11 di gatti amati, la visione di un passero congelato nella
neve, la fuga nei boschi per non ascoltare lo straziante
grido di dolore del maiale sgozzato...). La mia scelta
vegetariana fu graduale, anche per renderla accettabile
in una famiglia in cui il consumo della carne era normale
e mai messo in discussione. Non ebbi maestri né alcuno
con cui parlarne, se non Luca, che poco dopo mi fu sodale
anche in questo. Questa scelta mi rese ancora più ἄτοπος rispetto ai miei coetanei, in un momento in cui la mia
identità era ancora in costruzione. Sicuramente quella
scelta ha contributo in maniera decisiva a far sì che
divenissi “ciò che ero”. Non mi addentro nella complessa
questione del destino e della libertà. So solo che l’aver
scelto, quando di solito si pensa solo a come riempire il
cuore bisognoso d’amore, di non uccidere esseri viventi,
pur avendo un rispettabile trascorso di assassino di
lucertole e carnivoro da combattimento, mi ha reso ciò
che sono anche adesso. Dopo quella scelta, istintiva,
empatica, emotiva, cercai di dare un fondamento di
pensiero, iniziai a leggere libri (ricordo in particolare I
diritti degli animali trovato su una bancarella all’interno
della Sapienza), a discutere con chiunque mi capitasse a
tiro dell’argomento, nella foga del neofita che oggi mi fa
tanto sorridere. Anche perché, bisogna dirlo, il
vegetariano a tavola è piacevole oggetto di lazzi e
provocazioni di ogni tipo (che oggi sono transitate su
Facebook).
Momento “alto” di questa storia (che ha a che fare con
la mia vocazione “testimoniale”) fu il matrimonio, in cui
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12 – dando l’avallo al rito religioso, sebbene con dispensa
vescovile per me in quanto ateo – ebbi da mia moglie
l’autorizzazione a predisporre una cena vegetariana per
gli ospiti.
Come docente non ho mai cercato di fare proseliti. Pur
incuriosendo i miei alunni, quando emergeva la mia
scelta, non ho mai creduto che la scuola fosse il luogo per
portare avanti questa battaglia. So che a molti attivisti
per i diritti animali può sembrare una scelta di comodo,
ma io sono convinto che il lavoro primario, ancora tutto
da fare, sia una tabuizzazione culturale dello
sfruttamento sugli animali. Anche perché sono convinto
che tutte le svolte dell’umanità siano precedute da
avanguardie consapevoli. Certo, si potrebbe obiettare che
sin dall’antichità (orientale e occidentale) ci sono state
pratiche vegetariane, ma esse erano incardinate su
metafisiche difficilmente condividibili dall’intera
umanità (la metempsicosi). Purtroppo era ed è necessario
che, un po’ per volta, si ampli quella capacità empatica
cui Rifkin ha dedicato un magnifico libro. Le scoperte
delle neuroscienze (in particolare la funzione dei
cosiddetti “neuroni-specchio”) mostra come sia
totalmente erronea la dicotomia natura/cultura su cui si
reggono la maggior parte delle argomentazioni contro il
vegetarianesimo. La prima obiezione che muove, infatti,
l’onnivoro è: l’uomo è nato carnivoro. Al di là della facile
obiezione fondata sul confronto fra la dentatura di un
animale carnivoro e quella umana, mi interessa, invece,
mostrare come l’uomo abbia mostrato, nel corso dei
millenni, una straordinaria capacità evolutiva che ha
animal
13 modificato radicalmente la sua “natura”. Anzi, direi che
l’unico tratto rimasto uguale dell’uomo nel tempo è
proprio la capacità di evolvere, e questo sia livello
filogenetico che ontogenetico.
3. Diario II
5 maggio 2014
Sono sicuramente giorni importanti in cui sta
accadendo qualcosa, come il portato di riflessioni
sottotraccia. La svolta “vegan” ha qualcosa di epocale,
nella storicizzazione della mia vita, che predilige
evidentemente le decadi. Trent’anni dopo la scelta
vegetariana, con una coerenza vanificata solo dalla
debolezza della volontà ho escluso latte e uova dalla
dieta. Ne parlo avvertendo la profonda trasformazione
psicofisica che questa scelta, troppo a lungo rinviata, sta
producendo. Come sempre il senso di fame... Le rinunzie
sono davvero tante. I dolci, in particolare. La pizza,
almeno nelle sue varianti più appetitose per me. Molti
formaggi.
7 giugno 2014
Ho sempre fame: il veganesimo è una sfida vera.
14 giugno 2014
La scelta vegana è molto impegnativa. Senso di fame
animal
14 frequente e tristezza nel vedere cibi che ho molto amato
nella mia vita...
4. Come prosegue la storia...
Dunque, da un anno e mezzo, dopo un onorata vita da
vegetariano, divoratore di formaggi e dolci, durante una
corsa ho maturato la consapevolezza che potevo farcela a
rendere assolutamente coerente la mia scelta del 1984,
rimasta a metà del guado per debolezza. Il
vegetarianesimo, per quanto scelta nobile, finge di non
vedere che non basta non uccidere, in linea di principio,
ma è necessario eliminare tutte le precondizioni di una
vita spaventosa per gli animali: la detenzione in
condizioni orribili e la tortura fisica. Questo vale
soprattutto per gli animali detenuti in allevamenti
intensivi, siano galline o mucche o maiali. La serialità
della morte (Ford imitò il concetto di “catena di
montaggio” da una fabbrica di insaccati...) porta con sé
anche una serie inaudita di dolore.
Sollecitato in rete, ho scritto: «Provo a dire cosa vuol
dire essere vegan, dopo trent’anni circa di
vegetarianesimo e due circa di veganesimo. Prima di
tutto dico che ci vuole un certo equilibrio “spirituale” per
fare questa scelta, che io strutturalmente non ho, pieno
come sono di desideri che non invecchiano quasi mai con
l’età, con un cavallo nero nell’anima che mi tira sempre
verso il basso. Allora, mi sono detto, sarà l’età, come uno
scatto di anzianità sul lavoro, che mi ha donato un po’ di
saggezza e datomi la forza di essere fedele all’aspirazione
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15 dell’adolescente che fui: non far soffrire altri esseri
senzienti. Il resto, in fondo, è accademia. La seconda cosa
che vorrei dire [...] è che mentirei a me stesso e a lui se
dicessi che ci sono cibi che non mi mancano. Mentre da
vegetariano provavo profonda repulsione fisica per la
carne e qualunque cosa fosse stata viva, il sapore della
mozzarella di bufala è un oasi nel deserto. C’è bisogno, in
questo caso, di un surplus di volontà. Insomma, come la
monogamia. Detto questo, ho notato una straordinaria
metamorfosi fisica. Ho bisogno di dormire meno (e dormo
meglio), quando gioco a pallone ho risorse di fiato
pressoché illimitate».
In mezzo, dunque, e non posso non notarlo mentre lo
scrivo, c’è stata una rivoluzione nel mio rapporto con il
mondo. L’adolescente che empaticamente divenne
vegetariano lo fece tutt’uno con la negazione del Dio della
sua infanzia. Gli sembrava una scelta disperata, una
rivolta contro l’ingiustizia di una Natura matrigna o di
un funesto Demiurgo. L’uomo maturo che, dopo anni,
decide di cancellare cappuccini e Mont Blanc dalla sua
vita, si è riconciliato con il cosmo, nel quale intravede,
sotto forma di speranza più che di fede, un filo rosso, non
tanto guidato dall’alto ma intessuto nella stessa sostanza
di cui sono fatti gli alberi, i cani e gli uomini. E lo chiama
Dio, senza neanche bisogno di pregarlo perché lo
riconosce in un filo d’erba e nel volto amico di un cavallo.
Senza certezza, senza fedi... Sola spe. Ancora, sempre. Ma
di questo parleremo in Deus l’anno prossimo... [1984-
2015].
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16 Dopo un sogno (L.R)
Non chiedono vendetta
i corpi di animali maciullati sull'asfalto,
ma solo un occhio non
indifferente al dolore del mondo.
Ne ho viste sulle strade
membra spezzate di gatti incoscienti e cani
abbandonati, al volo scontrati
contro auto veloci
che avranno come segno
un graffio - un po’ di sangue.
No. Non chiedono vendetta
ma solo un’attenzione - un amore? -
di diversa natura. Forse solo
una cura altruista della vita
intorno all'uomo.
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17 Ora (N.S.)
Grazie per lo scroscio d’acqua, inquinata.
Grazie per il frinire dei grilli, divorati.
Grazie per il canto d’uccelli, gelati.
Che sia il mio abitare luogo illume,
soglia incerta d’oscuro e chiarità.
Aperti gli occhi, il cuore accordato,
con carità e virtù guerriera,
fra dedizione e decisione.
Quanto il mondo richiede
sia il tuo lavoro quotidiano.
Mercede non attendere. Sei il più inutile
servo. E non ambire erede.
Qui ed ora, abita l’attimo.
[In bicicletta, il dì 28 dicembre 2012. Ora prima]
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18 Animal (L.R)
1. Anima. Nella profondità degli occhi vedevo la sua
anima che mi parlava di affetto, di dolore, di perdita. Il
mugolio saliva dal profondo. Trattenuto fino a quel
momento esplose come un grido. Era una richiesta a cui
non potevo rispondere, non più.
Nei lunghi giorni estivi precedenti quel momento
eravamo stati tanto insieme, troppo forse, C'è
un'abitudine nel condividere giorno dopo giorno le ore,
che fa credere che quei momenti non finiranno mai, che
l'affetto, l'amore, le carezze dureranno per sempre. Non è
così, non è mai così.
Un uomo, un ragazzo se ne fa una ragione, l'inverno
riporta i ritmi della vita, la routine quotidiana spegne il
ricordo del sole estivo, delle corse, dell'odore dell'erba,
tanto più per me che vivevo in città, nel ventre
accogliente della bestia, alle prese con i primi umori
dell'adolescenza.
Ma lei... Lei non poteva rassegnarsi. Lei che sarebbe
rimasta lì, per sempre. Questo diceva quel grido, tutto il
rimpianto per ciò che era andato perduto, tutto l'amore
che, nonostante tutto, continuava immutato, E niente
sarebbe più stato come prima, anche se fossi tornato
l'anno seguente e quello dopo ancora.
Piangeva? Non so dirlo, perché a quel punto Yuba
venne chiusa da mio nonno nella stanza in basso, da dove
proseguì il suo guaito, il suo pianto disperato. Nella notte
in cui stavamo partendo, nel silenzio della villa, quel
pianto era atto d'accusa all'abbandono. Ma quale
animal
19 abbandono se anch'io ero straziato? Io, che non avevo mai
avuto un cane (se non un cucciolo di cane lupo per un
breve periodo prima di regalarlo a mio zio, Katmandu
l'avevamo chiamato), io che non avevo mai avuto un
gatto o un pesce rosso...
No, in città, nelle strette stanze di una famiglia
numerosa non poteva trovare posto un animale. Non solo
per noi, come ripeto oggi anche ai miei figli, ma anche per
lui. Un animale deve essere libero di correre, di vivere
all'aria aperta, non recluso in un appartamento. Eppure,
come oggi mio figlio, io quell'aspetto proprio non lo
capivo. L'avrei voluto portare con me, condividere i miei
pomeriggi, abbracciarla.
Mentre la macchina si allontanava, al grido di Yuba
rispose il verso del cuculo ed un singhiozzo. Poi più nulla.
2. La macchina correva su una strada percorsa tante
volte. La serata era stata piacevole, eravamo stati a
Caserta per uno spettacolo. I pensieri lievi, le chiacchiere
liete nel ritorno notturno a Benevento. Nessun pensiero
grave pesava sugli animi, nessuna rabbia o violenza nelle
nostre parole. Si scherzava, come altre volte. Sul sedile di
dietro Enzo sonnecchiava.
Fu un attimo: un cane fermo, in mezzo alla strada,
bloccato dalle luci improvvise dei fari, guardava senza
potersi allontanare, senza voce, nel silenzio, nessun
avvertimento urlato. C'era solo quel “no” ripetuto di
Domenica che mi sedeva a fianco.
Avrei potuto fare qualunque cosa: frenare, sterzare,
anche solo rallentare. Niente di tutto questo, solo
animal
20 guardare quel cane urtare dolcemente la macchina in
corsa e solo dopo fermarmi, inutilmente, quando tutto
era già avvenuto, quando non c'era più niente da fare se
non guardare quel corpo sull'asfalto e maledire la mia
incapacità.
In silenzio sono risalito in macchina, in silenzio sono
ripartito. Rimaneva indietro una macchia di sangue
sull'asfalto, un'ombra scura a bordo strada. Nei pensieri
il ricordo di un altro cane che guaiva [2015].
animal
21 Se niente importa... (L.R)
Sono vegetariano dal 1986.
Non fu una scelta semplice e scontata. Ritrovo nei diari
del tempo i dubbi, la sfiducia, le paure che
accompagnarono quella scelta. L'Ottantasei fu un anno
di svolta: l'università, la fede, l'alimentazione, il politico-
sociale. Lentamente prendevano piede in me quelle scelte
che poi mi avrebbero accompagnato negli anni seguenti.
Diventare vegetariano fu una di quelle. Tutto nacque
dalla scelta di Nicola, ma ci volle più di un anno di letture
e riflessioni prima di approdare in modo consapevole alle
mie scelte di vita. Tra il rifiuto del mangiar carne e
improvvise cadute figlie non tanto di debolezza quanto di
senso di inutilità del tutto, passò tutto il 1985 e parte del
1986. Una volta fatta quella scelta non sono più tornato
indietro, consapevole che fosse nata non da una esigenza
salutista ma dall'orrore di uno stile di vita. Se all'inizio la
scelta era stata emozionale, per un sentimento di
condivisione di sofferenza, in seguito la scelta è diventata
etica, contro un modello di sviluppo, contro una
concezione del vivere che considera animali e uomini
come oggetti, come cose da usare. «Gli animali hanno
pagato caro il nostro desiderio di avere tutto in
qualunque momento a un prezzo irrisorio» (Jonathan
Safran Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli
animali?, Guanda, 2010). Tutto è solo una questione di
soldi: il maggior guadagno non tiene conto della
animal
22 sofferenza degli animali, della sofferenza degli uomini.
Questo che segue è un dialogo tra l'io di ieri, ancora
incerto e dubbioso sulla strada da intraprendere, ed il
testo di Jonathan Safran Foer che ho letto l'anno scorso.
«Da bambini impariamo il significato della sofferenza
dalle interazioni con altri esseri viventi, sia umani, specie i
nostri familiari, sia animali. La parola sofferenza implica
sempre l'intuizione di un'esperienza condivisa con altri, di
un dramma condiviso». (Jonathan Safran Foer)
«Intorno gli alberi sono vuoti, scossi dal vento e dalla
pioggia, si abbassano e si piegano con tremendi scricchiolii.
Il dolore proviene da ogni pianta oggi, da ogni roccia
frantumata, da ogni fiore schiacciato… Un uccellino morto
su un muretto, piccolo pappagallino con le zampine
rattrappite a cercare di fermare una vita che non c'è più. Gli
occhi spenti, le piume sparse… Ecco quello che dice la
natura, morte. […] Piango per l'uccellino, una buca poi
ricoperta. […] Tutto urla, intorno, tutto geme e ride
beffardo» (9/2/1986).
«Le malattie imperversano sempre; la sofferenza è sempre
la regola; gli animali sono sempre e solo un articolo, un peso;
la morte è invariabilmente crudele. Sono somiglianze che
contano più delle differenze». (Jonathan Safran Foer)
«Eppure basta un gatto morto a farmi ripiombare nella
più nera angoscia e tutti i propositi sono dimenticati… Dio,
quale Dio? E guardo negli occhi un gatto ancora vivo e rivedo
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23 l'altro con la testa maciullata, il sangue raggrumato… A che
serve parlarne? E subito dopo si gioca a pallone, si dimentica
la morte […] E grido e mi dispero e poi vado di là a
mangiare carne, che potrebbe essere anche di quel gatto di cui
poco fa ho pianto la morte, e non cambierebbe niente,
continuerei a mangiarla… […] E mangio la carne e non ho
alcun rimpianto, sono soddisfatto di me, del mio stomaco
pieno. La carne fa bene… E mi pulisco la bocca piena di
sugo, succo che viene dal sangue dell'animale, e rido e mi
lecco le labbra e ne chiedo ancora… E mangio con gusto e
non ne provo schifo… E poi torno in camera e piango la
morte del gatto, piango il destino […]. Potrei mangiare
anche la carne di un uomo se fossi abituato. E poi sempre
più di rado mi sovviene del gatto, dell'uomo sotto il ponte, del
cane con la testa sfasciata. […] Per un attimo provo
ribrezzo per la carne che ho mangiato, poi passa: oggi ci sono
bistecche di vitello!» (1/3/1986)
«Stiamo letteralmente riducendo la biodiversità e la
vivacità della vita marina nel suo complesso. […] Per
ricordare gli animali e l'importanza che ha per me il loro
benessere forse devo perdere alcuni gusti e trovare altri
appigli per i ricordi che un tempo mi aiutavano a
conservare». (Jonathan Safran Foer)
«Ci deve essere qualcosa, qualcosa nell'inconscio che ci
spinge a fare determinata scelte, che determina il corso della
nostra vita futura. Esperienze fatte da bambini ormai
radicate dentro di noi, le nostre radici, il nostro substrato su
cui poi tutto il resto cresce e si solidifica, l'humus che fa
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24 sviluppare i nostri pensieri, che fa maturare le nostre
decisioni. Come si spiegherebbe altrimenti la tua difficoltà a
mangiare il pesce più di ogni altro genere di carne? Un
ricordo: quegli occhi mi guardavano e c'era qualcosa che
gridava di dolore anche se era morto. Quelle mattinate a
pescare, i pesci guizzanti appesi alle lenze e quando, per
togliere l'amo, le viscere se ne venivano con esso… Ricordi
tutto questo? Ecco da cosa deriva la tua difficoltà. Così come
per l'urlo del maiale, quell'esplosione di dolore: l'urlo di un
bambino è forse più terribile? No, non l'ho mai sentito,
eppure è come se ogni giorno della mia vita l'avessi udito
mentre lo scannavano, ho la scena davanti… Un coniglio
ricorda un neonato, e non si riesce più a mangiare; come gli
animali visti prima vivi, un capretto, un pulcino… E tutte
le nostre, le mie paure vengono da lì, la vergogna,
l'indifferenza...» (24/5/86)
«Quanto dev'essere distruttiva una preferenza culinaria
prima di decidere di mangiare qualcos'altro? Se contribuire
alle sofferenze di miliardi di animali che vivono vite
raccapriccianti e (spessissimo) muoiono in modi altrettanto
raccapriccianti non è motivo d'ispirazione, che cosa può
esserlo? Se contribuire al massimo grado alla minaccia più
seria che il pianeta deve affrontare (il riscaldamento
globale) non è sufficiente, che cosa lo è? E se hai la tentazione
di mettere a tacere questi tarli della coscienza dicendo “non
ora”, allora “quando”?» (Jonathan Safran Foer)
«… Troppi suicidi, troppe tragedie e non solo di
uomini… Quanti animali morti… Perché dobbiamo
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25 mangiare quella carne insanguinata e poi rabbrividire
ascoltando alla radio di tribù di cannibali? Perché
continuiamo a camminare senza voltarci di fronte ad un
cane morto ed invece il corpo di un uomo ci fa paura, ci
blocca, ci si chiede la ragione della sua morte? “Gli animali
sono stati creati in funzione dell'uomo”. No, non ci credo, è
troppo semplice. […] Il disprezzo per noi stessi a volte può
essere una buona arma per tentare di cambiare… […] Ed
ecco che ritorna il pensiero della carne mangiata dopo tre
giorni, e senza pensare l'addentavo… Non dici però che
avevi già mangiato del pesce, non era carne anch'esso? E le
uova? […] Ma ora confondo. Vomito, sperma, merda e pus,
tutto si mischia con la terra, col fango, con l'acqua e la terra
è concimata. Nasceranno frutti che poi mangeremo, irrorati
dal sudore, dal sangue delle bestie, dalle loro carni in
putrefazione lasciate lì a marcire. Ed ecco il teschio del cane
in una maschera tremenda di terrore… L'attimo prima della
morte. Se il feto capisce che lo si voglia uccidere, perché non
lo dovrebbe capire un pollo? Se è delitto uccidere un bambino,
perché non è delitto uccidere un uccello, un coniglio, un
pesce? “E per vivere come facciamo? Ci dobbiamo forse
mangiare i nostri figli?” Già. Vivere. La salute, il governo,
il lavoro e sempre più si accumula la fatica e lo schifo.»
(10/3/1986)
«Si suole dire che gli animali non hanno emozioni e
sentimenti: non c'è cosa più sbagliata di questa. […] Sono
solo deboli rispetto a noi e sono i più deboli quelli che non ce
la fanno, che si lasciano cadere e trascinare dalla marea,
insensibili, oramai, a tutto. […] un pesce è incastrato tra le
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26 rocce, morto ormai; le onde spostano il suo corpo in una
sembianza di vita che vita non è. Sbatte la pinna sugli scogli
e dal corpo escono le viscere ed i vermi. […] Eccoli gli
ultimi, i vinti: stanchi si lasciano andare… Ma siamo noi,
siamo noi in loro» (aprile 1986)
«Siamo noi quelli a cui chiederanno a buon diritto: «Tu
che cos'hai fatto quando hai saputo la verità sugli animali
che mangiavi?» […] Decidere che cosa mangiare (e che cosa
rifiutare) è l'atto fondante della produzione e del consumo
che determina tutti gli altri. Scegliere vegetale o animale,
agroindustria o fattoria a gestione familiare, non cambia il
mondo di per sé, ma insegnare a noi stessi, ai nostri figli,
alla comunità in cui viviamo e alla nostra nazione a optare
per la coscienza invece che per la comodità può farlo. Una
delle maggiori opportunità di vivere i nostri valori - o di
tradirli - sta nel cibo che mettiamo nei nostri piatti. E
vivremo o tradiremo i nostri valori non solo come individui,
ma come nazioni. […] Per quanto oscuriamo o ignoriamo
questo fatto, sappiamo che l'allevamento intensivo è
inumano nel senso più profondo del termine. E sappiamo
che la vita che creiamo per gli esseri viventi più in nostro
potere ha un'importanza profonda. La nostra reazione
all'allevamento intensivo è in definitiva un test su come
reagiamo all'inerme, al più remoto, al senza voce; è un test
su come ci comportiamo quando nessuno ci costringe ad
agire in un modo o nell'altro. Essere coerenti non è
obbligatorio, ma confrontarsi con il problema sì.» (Jonathan
Safran Foer)
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27 «La sofferenza, il dolore fisico degli animali e delle
persone che ti sono accanto ti portano sempre una pena nel
cuore, uno struggimento, un'angoscia senza voce. È allora
che ti rendi conto della miseria delle tue grida, della profonda
pagliacciata, della inutilità dei tuoi lamenti. Di fronte al
dolore degli altri, di tutti gli altri, non si può fare altro che
chinare la testa e piangere per le proprie ipocrisie. […] E
allora basta, basta parole!» (14/6/1986)
Dopo tutto, è dal 1986 che sono vegetariano [2015].
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28
Bibliografia
- S. Castignone (a c. di), I diritti degli animali,
il Mulino, 1985.
- J. M. Coetzee, La vita degli animali, Adelphi,
2000.
- J. M. Coetzee, Elizabeth Costello, Einaudi,
2004.
- Plutarco, Del mangiare carne, Adelphi, 2001.
- J. Rifkin, La civiltà dell'empatia. La corsa
verso la coscienza globale nel mondo in crisi,
Mondadori, 2010.
- J. Safran Foer, Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali?, Guanda, 2010.
Note biografiche
Luca Rando nasce nel centro dell’Italia l’11 febbraio 1967.
Non ha patria se non quella che di volta in volta gli offrono i libri che
legge in solitudine, spesso in campagna, dove arriva dopo lunghe
camminate.
Cresce con due amori, la poesia e il teatro, per malinconico isolamento
il primo, il secondo per ansia di comunità.
Nell'amicizia e nelle associazioni di cui ha fatto (e fa) parte ha trovato
il luogo del pensiero e dell'azione; nella famiglia e nella scuola il luogo
dell'incontro e dell'amore.
Il 1 febbraio 2002 coniuga pensiero e incontro cullando suo figlio.
Oggi quando guarda i figli o i suoi alunni prova un moto di felicità, lo
stesso della domenica mattina ad occuparsi dei beni comuni vicino casa.
* * *
Nicola Sguera nasce a casa sua il 20 giugno 1967.
Vive un'infanzia senza ombre, se non quelle che la sua fantasia bizzarra
trasforma, di notte, in orchi e vampiri.
Nel 1984 nasce a nuova vita: smette di mangiare carni per empatica
compassione, rompe il patto con il Dio della sua tradizione familiare e co-
nosce la sua futura moglie. Meglio sarebbe non essere mai nati, ripete
spesso.
Il 24 gennaio del 1990 sua madre decide di impartirgli l'ultimo memo-
rabile insegnamento: «nella mia fine è il tuo inizio».
Nel mercoledì delle ceneri del 1998 si inginocchia nuovamente, e prega
un Dio sconosciuto: per la prima volta comprende il senso della parola
“amen”.
Quando la sera osserva sua figlia, raccolta in un sonno finalmente se-
reno, e pensa a sua madre, ai suoi alunni, al vino, alla poesia di Char, alle
canzoni di Nick Cave e all'Inter, benedice e «sì, in fondo, altissimo, non
onnipotente buon Signore, grazie».
Luca Rando e Nicola Sguera hanno animato, insieme, «la rosa necessaria», uscita
dal 1993 al 1999. Nicola Sguera ha pubblicato una raccolta di brevi saggi (In quieta
ricerca, Percorsi Editore, 2012) e una raccolta di poesie (Per aspera, Delta 3 Edizioni,
2013).
Insegnano entrambi: il primo Lettere nel Liceo Classico di Potenza, il secondo Fi-
losofia e Storia nel Liceo Classico di Benevento.
2
segnavia, n. 1, gennaio 2016 LUCA RANDO
La vita degli animali p. 1
Dopo un sogno p. 16
Animal p. 18
Se niente importa p. 21
NICOLA SGUERA
Senza idillio p. 6
Ora p. 17
Bibliografia p. 28