anno iii - n. 3/2010 quadrimestrale issn 2036-4180

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Anno III - Numero 3Settembre-Dicembre 2010

Quadrimestrale

Direttore responsabileRaffaele Salvati

Area pubblicitàPatrizia Arcangioli, responsabile [email protected]

Area marketing e sviluppoArea Nord Italia: Antonietta Garzonio, responsabile [email protected]: Fabio [email protected]

Coordinamento editorialeSandra [email protected]

CopertinaOsvaldo Saverino

Aut. Trib. di Roma n. 327/2008 del 18/9/2008

R.O.C. 6905/92380

Prezzo a copia € 20,00 - Abbonamento annuo € 50,00Il giornale viene inviato in omaggio ad un indirizzario di speciali-sti predisposto dall’Editore. L’IVA condensata nel prezzo di ven-dita, è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma,lett. c), D.P.R. 633/72 e D.M. 29/12/89.È vietata la riproduzione parziale o totale di quanto pubblicatocon qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.

Finito di stampare nel mese di dicembre 2010

Stampa LITOGRAF TODI srl - Todi (PG)

Gli articoli firmati esprimono esclusivamente l’esperienzadegli Autori.

La pubblicazione dei testi e delle immagini pubblicitarieè subordinata all’approvazione della direzione del gior-nale ed in ogni caso non coinvolge la responsabilitàdell’Editore. Ai sensi del Decreto Legislativo 30/06/03 n.196 (Art. 13) informiamo che l’Editore è il Titolare deltrattamento e che i dati in nostro possesso sono oggettodi trattamenti informatici e manuali; sono altresì adottate,ai sensi dell’Art. 31, le misure di sicurezza previste dallalegge per garantirne la riservatezza. I dati sono gestiti in-ternamente e non vengono mai ceduti a terzi, possonoesclusivamente essere comunicati ai propri fornitori, oveimpiegati per l’adempimento di obblighi contrattuali (ades. le Poste Italiane). Informiamo inoltre che in qualsiasimomento, ai sensi dell’Art. 7, si può richiedere la confer-ma dell’esistenza dei dati trattati e richiederne la cancel-lazione, la trasformazione, l’aggiornamento ed opporsi altrattamento per finalità commerciali o di ricerca di mer-cato con comunicazione scritta.Ogni possibile sforzo è stato compiuto nel soddisfare idiritti di riproduzione.L’Editore è tuttavia disponibile per considerare eventualirichieste di aventi diritto.

CIC EDIZIONI INTERNAZIONALI S.r.lC.so Trieste, 42 - 00198 Roma

Tel. 068412673 (r.a.) - Fax [email protected] www.gruppocic.com

Area Nord ItaliaVia Matteotti, 52/a - 21012 Cassano Magnago (VA)

Tel. 0331282359 - Fax 0331287489

© Copyright 2010

DIRETTORE SCIENTIFICO Tonino Cantelmi

COORDINAMENTO SCIENTIFICOMaria Beatrice Toro (area Psicologia)Valentina Faia (area Psichiatria)

COMITATO DI REDAZIONE Michela Pensavalli (coordinamento)Martina AielloFrancesca Ciucciovino Giuseppe CongedoEmiliano Lambiase Pasquale Laselva

COMITATO SCIENTIFICOFederico Bianchi di Castelbianco Francesco BrunoBruno CallieriVincenzo Caretti Rosanna CerboMassimo Di Giannantonio Stefano FerracutiFrancisco Javier Fiz PerezAnna Maria GianniniLuigi JaniriDaniele La BarberaMarco LongoMarisa Malagoli Togliatti Stefania MarinelliLuciano MasiClaudio MencacciArrigo Pedon Piero PetriniGino PozziVincenzo RapisardaRoberta RossiPier Luigi ScapicchioStefano Vicari

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ALI I lavori debbono essere inediti. La loro accettazione e pubblicazione

sono di esclusiva competenza del Direttore e dei Comitati editoriale escientifico-redazionale. I testi vanno inviati a Tonino Cantelmi, Via Livorno 36 - 00162 Roma, [email protected], corredati dell’in-dirizzo dei singoli Autori. Le figure, ad alta risoluzione, devono essereinviate, in un file a parte, in uno dei seguenti formati: Tif, Jpeg o Eps.Si raccomanda di conservare un’altra copia del lavoro, in quanto laRivista non si ritiene responsabile dell’eventuale smarrimento dell’ori-ginale. Non è prevista la correzione delle bozze degli Autori. La pro-prietà artistica e letteraria di quanto pubblicato è riservata alla Rivistacon l’atto stesso della pubblicazione e ciò viene accettato implicita-mente dagli Autori.

I lavori dovranno essere così presentati: titolo, nome e cognome peresteso degli Autori, Istituto Universitario o di Ricerca od Ospedale diappartenenza, riassunto in lingua italiana ed inglese di 200-250 paro-le, parole chiave.Esempi di compilazione bibliografica: Fried LP, Ferrucci L, Darer J, Williamson JD, Anderson G. Untanglingthe concepts of disability, friality and comorbidity: implication for im-proved targeting and care. Journal Gerontolog 2004; 59: 255-263.

Kahn SE, McCulloch DK, Porte D jr. Insulin secretion in the normaland diabetic human. In: Alberti KG, Zimmet P, DeFronzo RA, KennH, eds. International textbook of diabetes mellitus. 2nd ed Chichester,John Wiley 1997:337-53.

Mencacci C, Straticò E. L’utente la famiglia, l’empowerment, il con-tratto di cura, la libertà di scelta, l’advocacy. In: Bassi M, Di Giannan-tonio M et al, eds. Politiche Sanitarie in Psichiatria. Norme, manage-ment ed economia. Milano: Masson, 2003.

Racamier PC. Gli schizofrenici. Milano: Raffaello Cortina Editore,1980.

Le indicazioni bibliografiche vanno elencate secondo l'ordine di cita-zione nel testo e numerate progressivamente.

Ogni figura deve essere presentata su singolo foglio, numerata pro-gressivamente in numeri arabi e richiamata nel testo. Per ogni figurao tabella va indicata una breve ma chiara didascalia.

Quando vengono pubblicate sperimentazioni eseguite su soggettiumani, occorre indicare se le procedure seguite sono in accordo conla dichiarazione di Helsinki del 1975, con relative aggiunte del 1983,e comunque con la normativa etica vigente.I Comitati editoriali e scientifico-redazionale si riservano di apportaremodifiche strutturali al lavoro per uniformarlo alle norme redazionali edi intervenire o di far intervenire altri autori a commento del contenutoe delle argomentazioni esposte negli articoli pubblicati. La pubblicazione dei testi e delle immagini pubblicitarie è subordinataall’approvazione della Direzione del giornale ed in ogni caso noncoinvolge la responsabilità dell’Editore.

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EDITORIALEMaria Beatrice ToroPsiconcologia: un approccio globale, 5

SEZIONE MONOGRAFICA: IL CANCRO E LA PERSONA Lopez E, Torelli S, Menichetti E, Faia V, Cantelmi T.Progetto VALES: ascoltando il paziente. Prime evidenze dello studio condottoa Roma presso gli Istituti Regina Elena e San Gallicano sul vissuto emotivoe sui bisogni dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico, 7

Lopez E, Torelli S, Menichetti E, Faia V, Cantelmi T.Il vissuto del paziente oncologico attraverso l’arte pittorica: un’esperienza di “umanizzazione” del percorso di cura in oncologia, 17

Capezzani L, Cantelmi T.L’area dell’emergenza-urgenza e della psicotraumatologia oncologica.Teoretica protocolli e trasversalità funzionali entro l’area di supporto alla persona dell’IRE-ISG di Roma, 23

Menichetti E, Lopez E, Torelli S, Faia V, Cantelmi T.Case management in oncologia: dati preliminari e prime evidenze, 37

Capezzani L.Applicazioni dell’EMDR in chirurgia oncologica. Descrizione di un casoclinico ed implicazioni per i processi di umanizzazione dell’IRE, 41

Capezzani L, Valle M.Elementi e processi di umanizzazione in chirurgia oncologica. Intervista al prof. Mario Valle, 55

modelli per la mente

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CONTRIBUTI ORIGINALID’Andrea A, Poggioni P, Brancati V, Fratocchi S, Epifani I.Intervento terapeutico-riabilitativo di Pet-therapy nella disabilitàneuromotoria e comportamentale. Come l’alleanza tra un cane ed un disabile diventa cura, 63

Giannini AM, Cordellieri P.La rappresentazione della malattia mentale nelle opere cinematografiche di Alfred Hitchcock, 83

RUBRICHE

Libri e psiche Michela Pensavalli, 91

Cinema e psiche Pasquale Laselva, 92

Arte e psiche, Martina Aiello, 93

Web e psiche Maria Beatrice Toro, 94

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Modelli per la mente 2010; III (3): 5 5

Psiconcologia: un approccio globaleMaria Beatrice Toro

Medicina Interna – Dipartimento di Fisiopatologia Medica – “Sapienza” Università di Roma

I l florido sviluppo di ricerca e pratica clinica in Psiconcologia mostra quanto – e come – accoglierenella sua specificità la persona malata di cancro possa migliorarne la qualità e anche la duratadella vita. Medicina e psicosomatica – se si assume la centralità della persona come punto di

partenza del percorso di cura – possono trovare, sul terreno clinico, ma anche nella teoresi, ampie areedi convergenza, laddove gli aspetti soggettivi di ogni malato di cancro rappresentano una variabile noneliminabile né riducibile. Includere, allora, il senso che l’esperienza del cancro assume all’interno delpercorso esistenziale del paziente ci appare oggi come una delle chiavi di un approccio comprensivoed efficace. La monografia Il cancro e la persona illustra, da diverse angolazioni e punti di vista, il senso di unosguardo e di un dialogo globale con il paziente. In ragione del legame mente-corpo, infatti, vissuti ebisogni soggettivi, in ogni fase della malattia, rappresentano un serbatoio carico di criticità, ma anche dirisorse, alle quali attingere. Attivare e risvegliare il potenziale che tale serbatoio contiene, fronteggiandoi punti critici, aiuta, inoltre, a riportare in luce la continuità del progetto esistenziale dell’individuo,interrotta dall’evento del cancro.Entrare in dialogo con la dimensione personale non è, tuttavia, come leggeremo nei diversi articoli, néuna tecnica né una strategia. Non è qualcosa che sia, in automatico, a disposizione del curante. È,piuttosto, l’esito di un percorso di “umanizzazione” che coinvolge tutti e due gli attori del dialogoterapeutico. Un’umanizzazione che avviene nella reciprocità, con i rischi e le opportunità che ciò,naturalmente, comporta. L’obiettivo da perseguire, corrisponde, in tale ottica, all’affrontare lacomplessità di un “passaggio stretto” di vita, per rendere più efficace la cura e più gestibili la paura e ildolore psichico che la malattia - e la dimensione del limite che essa richiama – sempre evocano inciascun essere umano.

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Editoriale

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Introduzione

La diagnosi di cancro, patologia cronico-grave che minacciala vita stessa, può generare nell’individuo che la riceve unvissuto di profondo stress. La vita del paziente e della suafamiglia è rivoluzionata, gli equilibri spesso si deteriora-no di fronte alla gravità di questa diagnosi, nonché al-l’impatto e alla durata dei trattamenti proposti. Dati epi-demiologici sul disagio psichico causato dal cancro rile-vano che circa un paziente su due presenta una sinto-matologia inquadrabile in una diagnosi di disturbo psico-logico, generato dall’impatto con questa situazione trau-matizzante (Guarino & Lopez, 2007).Tra i vari trattamenti, la chirurgia ha spesso un ruolo fon-damentale, sia a scopo diagnostico che terapeutico. Il suc-cesso della chirurgia è influenzato da variabili fisiche e me-diche, ma anche dalle caratteristiche psicologiche dell’in-dividuo. La preoccupazione per il successo della chirurgia,la paura dell’anestesia e del dolore postoperatorio, oltre airumori forti, gli odori sgradevoli, i dolori, ecc., hanno unagrande influenza sul livello di ansia preoperatoria. Il livel-lo di ansia preoperatoria comunque dipende anche da al-tri fattori: sociodemografici (età, sesso, presenza di un par-tner, istruzione), caratteristiche dell’intervento chirurgico (ma-lattia sottostante, aspettativa di successo, possibili com-plicazioni, interventi precedenti, durata del ricovero, tipo diinformazione preoperatoria, tipo di anestesia), variabili psi-cosociali (livello generale di ansia, stile di personalità, co-morbilità psicologica e psichiatrica, sensibilità al dolore, sup-porto sociale, soddisfazione di vita e stile di coping)(Berth et al., 2007). A livello psicologico, l’operazione chi-rurgica rappresenta un momento di stress acuto, in cui ilpaziente si trova a dover fronteggiare molteplici difficoltàfisiche, psicologiche e pratiche. La chirurgia oncologica,come quella generale, implica, a livello psicologico, reazionirelative al percepirsi minacciati nella propria integrità psi-cofisica, alla preoccupazione di affidarsi completamente adun estraneo, la separazione dalla famiglia, la paura di mo-rire sotto anestesia e il timore per il danno al proprio cor-po o a parti di esso. Queste si associano alle paure e alleangosce legate alla diagnosi, potenziale o già effettuata,di cancro (Cascinelli et al., 2002; Chan et al., 2004). No-nostante questi dati gli effetti psicologici della chirurgia han-

no finora ricevuto poca attenzione, in quanto considerati se-condari rispetto ai bisogni fisici, così non è chiaro quale equanto supporto psicologico sia necessario a questi pazienti(Lien et al., 2009, Schulman-Green et al., 2008; McCorkleet al., 2003). Recentemente, alcuni studi hanno valutato l’im-patto degli interventi chirurgici sui pazienti. Al momento del-la chirurgia, i pazienti hanno livelli moderati di incertezza,che decrescono significativamente prima della dimissionedall’ospedale (Lien et al., 2009). Più specificamente nei pa-zienti con cancro del polmone, l’ansia-tensione migliora si-gnificativamente dopo la chirurgia, mentre il livello della fa-tigue cresce significativamente. I punteggi della depressione-abbattimento e della confusione sono elevati tanto primaquanto dopo l’intervento (Oh et al., 2007). In un altro stu-dio è stato rilevato che l’ansia è maggiore prima della chi-rurgia, mentre la depressione è maggiore immediatamentedopo l’intervento. Parallelamente la QoL, negli ambiti so-matici e in aree specifiche per il tipo di tumore, diminuisceimmediatamente dopo la chirurgia, migliorando in molti am-biti un mese dopo la dimissione (Mochizuki et al, 2009). Ingenerale l’ansia è significativamente associata con la pre-cedente storia medica, oltre che con l’invasività chirurgi-ca attuale (Bulfone & Simone, 2005; Lien et al., 2009). Go-erling et al. (2006) hanno evidenziato che i pazienti che sonoin ospedale per procedure diagnostiche per confermare oescludere il sospetto di tumore, sperimentano un maggiordisagio psicologico rispetto ai pazienti che sono ricovera-ti per un’operazione programmata e definita. Parallelamenteil bisogno psicologico è maggiore per i pazienti con un se-condo tumore.Un fattore di miglioramento rispetto allo stato psicologicodei pazienti è il supporto sociale: livelli crescenti posso-no migliorare il grado di incertezza, ansia e depressionenei pazienti più anziani (Lien et al., 2009). Secondo Chanet al. (2004), sebbene i membri della famiglia e il partnerrappresentino la maggiore fonte di supporto sociale, laquantità globale di supporto sociale ricevuto dai pazien-ti dopo la chirurgia è basso. Inoltre, durante il periodo po-stoperatorio il supporto tangibile e informativo appaionopiù rilevanti per un coping efficace del supporto emotivo.In tal senso l’inclusione dei membri della famiglia nella curadel paziente durante il periodo postoperatorio sembra cru-ciale, così come migliorare la comunicazione e potenzia-

Progetto VALES: ascoltando il paziente.Prime evidenze dello studio condotto a Roma presso gli Istituti Regina Elena e San Gallicano sul vissuto emotivo e sui bisogni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico

Lopez E, Torelli S, Menichetti E, Faia V, Cantelmi T.

1 Professore Ordinario (Regina Apostolorum, Roma), Direttore Scientifico SCINT2 Psicoterapeuta, Direttore Didattico SCINT3 Psicoterapeuta, Docente SCINT

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A re il livello di informazioni di cui il malato è consapevole.Una speciale attenzione deve essere posta per i pazien-ti più anziani e con un basso livello d’istruzione, in quan-to essi possono essere maggiormente a rischio di un ina-deguato supporto sociale (Chan et al., 2004). Contraria-mente a questo dato, uno studio recente mostra che nonci sono significative differenze nei primi risultati tra pazientigiovani ed anziani nei primi 6 mesi dall’intervento per can-cro al polmone (Möller et al., 2010). Questo aspetto me-rita un maggiore approfondimento negli studi futuri. La QoLmigliora spontaneamente entro i 6 mesi dall’intervento chi-rurgico, a fronte di un significativo peggioramento nel-l’immediato postoperatorio (Barlési et al., 2006).In letteratura, secondo l’analisi di Andolhe et al. (2009), sonopochi gli studi che approcciano la malattia cancro dal pun-to di vista del vissuto globale del paziente e che sottoli-neano come questa diagnosi, con i suoi trattamenti, rap-presenti fondamentalmente un evento stressante, tuttavianon si può non considerare che i pazienti con cancro sonogli esperti riguardo la vita con la malattia e le loro espe-rienze possono dare un contributo significativo a pianifi-care e gestire il trattamento (Worster & Holmes, 2008). Glistudi che utilizzano un’ottica fenomenologica riportano varidati interessanti. Lo studio di Kim et al. (2004) si è propostodi descrivere l’esperienza perioperatoria dei pazienti concancro, sottolineando il loro punto di vista; dai contenutipresentati durante i colloqui sono emerse 5 aree di con-tenuto significative: shock, aspettative e desideri, dispe-razione, senso di fatica e dolore continuo. Le esperienzepreoperatorie, spesso caratterizzate da paura, dubbi, iso-lamento e incertezza, esercitano una significativa influenzasui pazienti; inoltre i pazienti sembrano considerare il can-cro come il “proprio problema”, rispetto al quale non pos-sono chiedere aiuto ad altri (Worster & Holmes, 2008). Unostudio successivo degli stessi Autori evidenzia che i temipiù rilevanti per i pazienti chirurgici con cancro del colonsono, dopo l’intervento, “tubi e drenaggi”, le conseguen-ze dell’anestesia epidurale, il dolore, le limitazioni funzionalie i disturbi del sonno, ma anche la perdita di dignità e dicontrollo, la difficoltà a discutere e ad affrontare i propri pro-blemi intestinali in un ambiente comune, soprattutto in re-parti misti uomini-donne. Inoltre lo stato emotivo inizialmenterifletteva la condizione fisica, per poi lasciare il posto al pro-blema cancro, con la relativa paura e ansia, man mano cheriguadagnavano la propria autonomia (Worster & Holmes,2009). Lo studio di Cepeda et al. (2008) ha mostrato chei pazienti che nel raccontare danno spazio alla propria emo-tività hanno significativamente meno dolore e punteggi dibenessere maggiori, rispetto ai pazienti che sono più chiu-si rispetto ai vissuti emotivi. Alla luce dei vari dati si ritie-ne appropriato includere uno screening di routine per il di-stress e far riferimento ad appropriati servizi psicologici esociali, così da migliorare la qualità del trattamento globale(Schulman-Green et al., 2008).Gli assunti da cui si muove chi scrive sono che il malatoè una persona e non una patologia e che per prendersicura di lui nella sua globalità sono fondamentali principiquali il rispetto dell’altro e il riconoscimento della dignitàdell’essere umano (Cacace & Cantelmi, 2009). Questo de-termina anche la necessità di considerare che ogni pazienteè se stesso, con la sua storia, i suoi investimenti, le sueconoscenze, le sue aspettative: ogni paziente ha il suomodo di sentire, pensare e comportarsi e il suo sistemadi riferimento, più o meno supportante. Saper individua-

re le peculiarità individuali permette di rispondervi piutto-sto che mettere in atto un unico rigido modello motivatodal proprio modo di pensare e agire.Il progetto Vales, che coniuga l’interesse per l’eccellenzatecnica e per le capacità di presa in carico globale dellapersona malata, trova il suo campo d’applicazione nel per-corso (fisico ed emotivo) del paziente dal reparto al bloc-co operatorio fino al ritorno in stanza di degenza e nelleinterazioni che si stabiliscono con il personale medico, in-fermieristico e “non medico”. L’obiettivo generale del pro-getto è il rispetto e la soddisfazione di tutti gli utenti (in-terni ed esterni, cioè professionisti e pazienti). La perso-na, variabile tutt’altro che secondaria eppure spesso mi-sconosciuta, con il suo vissuto diventa il parametro che puòdistinguere tra un intervento tecnicamente ben riuscito eun servizio al paziente, in altri termini è ciò che differen-zia il curare dal prendersi cura. È importante minimizza-re la disfunzione mentale perioperatoria dei pazienti sot-toposti a chirurgia ed evitare l’abbassamento postopera-torio delle loro capacità di coping. Il progetto dunque tiene in considerazione la persona coni suoi bisogni e il suo vissuto, mantenendo altresì la fo-calizzazione sull’intervento medico: a tal fine gli strumentidi rilevazione sono radicati sulla conoscenza delle pras-si attuali dei reparti coinvolti e del blocco operatorio.

Scopo

Lo studio presente si pone i seguenti obiettivi:• Analisi delle aspettative, dei bisogni e dello stato emo-

tivo pre-intervento;• Analisi della soddisfazione dei bisogni e dello stato emo-

tivo post-intervento;• Identificare i punti di forza e di debolezza dei reparti coin-

volti e della sala operatoria.

Metodologia

I soggetti sono stati reclutati tra i pazienti ricoverati pres-so i reparti di Chirurgia Toracica e di Ginecologia. È sta-ta loro richiesta la disponibilità a partecipare e si è procedutoa 2 incontri, uno precedente e uno successivo all’interventochirurgico: il primo incontro si è tenuto il giorno precedentel’intervento o il giorno stesso, il secondo, invece, alcuni gior-ni dopo, in base soprattutto alla disponibilità del pazien-te, legata alla situazione fisica e psicologica del decorsopostoperatorio. La raccolta dei dati avviene attraverso l’uti-lizzo di un’intervista semistrutturata, che rappresenta unagriglia di riferimento utilizzata in modo flessibile, tenendoin considerazione lo stato psico-emotivo del paziente edesplorando la ricchezza dell’esperienza individuale, sti-molando in questo modo anche la partecipazione attivae il coinvolgimento della persona.

Strumento

Per indagare i vissuti emotivi, le aspettative e i bisogni, non-ché la loro soddisfazione, si è scelto di creare apposita-mente un’intervista semistrutturata che tenesse in consi-derazione le prassi attuali specifiche dei reparti coinvoltie del blocco operatorio.

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Progetto VALES: ascoltando il paziente

L’intervista analizza i vari momenti critici che il paziente sitrova ad affrontare prima e dopo l’operazione chirurgica:Emozioni prevalenti; Gestione del corpo: preparazione al-l’intervento, gestione delle medicazioni e del dolore dopol’intervento; Tempi: lista operatoria, attesa prima dell’in-tervento; Luoghi: percorsi di andata e ritorno tra repartoe sala operatoria, blocco operatorio; Anestesia; Atto chi-rurgico; Terapia intensiva eventuale; Risveglio; Relazionicon l’anestesista, il chirurgo, gli infermieri di sala e gli oss.Delle diverse aree viene valutata la consapevolezza deipazienti relativamente a quanto accade loro, la rappre-sentazione mentale precedente l’intervento e la percezionedopo lo stesso, il vissuto emotivo, i bisogni e le aspetta-tive precedenti e la loro soddisfazione dopo.

Campione

Il campione è composto da 20 soggetti, afferenti ai repartidi Chirurgia Toracica e Ginecologia. La Tabella 1 descri-ve il campione coinvolto.

Risultati

Analisi descrittiva

Vissuto emotivo generalePrima dell’intervento, il vissuto emotivo riportato dai pa-zienti è stato per il 45% di “serenità-normalità”, per il 45%di ansia e per il 5% di “tristezza-depressione”; il restante5% non ha risposto a questa domanda.

Dopo l’intervento, il vissuto emotivo riportato è stato peril 70% di “serenità-normalità”, per il 20% di depressionee per il 5% di ansia; anche in questo caso il 5% non harisposto a questa domanda.

Procedure pre – interventoL’85% dei pazienti intervistati conosce le procedure di pre-parazione intervistate ed il 70% emotivamente vive que-ste richieste serenamente.La totalità dei pazienti si mostra soddisfatto, nell’intervistapost-operatoria, di come queste procedure sono state ef-fettuate, tanto quando sono state svolte dal personale quan-to quando sono state eseguite autonomamente.

Attesa nel giorno dell’intervento

Emozioni prevalentiIl 75% dei pazienti intervistati è informato dell’ordine del-la lista operatoria; i vissuti emotivi relativi sono variegati:il 40% si definisce “sereno-normale”, il 30% “ansioso” e il10% “depresso-triste”, mentre il restante 20% non rispondeo afferma di non saper dire come sta.Dopo l’intervento alla domanda “come ha vissuto l’attesa?”risponde in modo diverso: il 35% si definisce “sereno-nor-male”, il 40% “ansioso” e il 20% “depresso-triste”, mentreil restante 5% si è sentito arrabbiato. Da notare che il 45% afferma di aver aspettato molto perl’intervento così come si aspettava che fosse, il 20% haaspettato molto e più di quanto si aspettasse, il 35% rife-risce di non aver aspettato molto.

Bisogni, desideri e aspettative e loro soddisfazioneEsplorando le attese e i desideri relativi a come trascor-rere l’attesa in modo che sia meno spiacevole possibile,prima dell’intervento il 40% risponde che gradirebbe

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ATab 1. Descrizione del campione.

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avere accanto almeno una persona cara (A), quindi conun’attenzione prevalente all’aspetto relazionale ed emo-tivo, il 20% che vorrebbe essere tempestivamente e co-stantemente aggiornato del tempo di attesa rimanente edei cambiamenti possibili (B), con una focalizzazione esclu-siva sull’aspetto operativo, un ulteriore 20% riporta en-trambe le opzioni di risposta su esposte (E), il 15% ritie-ne che niente può essere utile o non risponde (D), men-tre il 5% dichiara di voler stare da solo (C).Nell’esplorazione successiva all’intervento emerge che il45% dei pazienti ha trascorso l’attesa da solo e il 40% conun familiare; il restante 15% non ha aspettato, essendo ilprimo operato della giornata. Inoltre alla domanda “cosale è stato utile?” il 55% risponde “niente in particolare” eil 40% riporta l’importanza della presenza di un familiare,il restante 5% ritiene sia stato di particolare utilità il col-loquio psicologico avuto per l’intervista stessa (da consi-derare che questa persona veniva da un’esperienzaanomala per il reparto di Chirurgia Toracica quale quelladella pre-ospedalizzazione). Infine alla domanda relativaad ulteriori desideri non espressi, sempre dopo l’intervento,il 25% degli intervistati che afferma di aver desiderato qual-cosa di diverso, torna a far riferimento alla possibilità di ave-re familiari vicini, anche in camera, e di essere aggiorna-to con regolarità e tempestività, una persona fa riferimentoal desiderio di poter essere solo non rispettato dai fami-liari.

Lista operatoriaPrima dell’intervento il 60% del campione era consapevoledel fatto che la lista operatoria poteva essere modificatae che l’intervento sarebbe potuto slittare anche ad un al-tro giorno, mentre il 25% non ne era consapevole e il 15%aveva un punto di vista completamente diverso perché ilcolloquio si svolgeva nel giorno dell’operazione e la per-sona sapeva di essere il successivo. Il vissuto emotivo re-

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lativo degli intervistati consapevoli e non (tra i pazienti nonconsapevoli, alcuni hanno espresso il loro vissuto rispet-to alla fantasia anticipatoria che potesse accadere) è sta-to di ansia nel 37,5% dei casi, di depressione nel 31,3%,di “serenità-normalità” nel 18,8% e di rabbia nel 12,5%.La lista operatoria prevista secondo i pazienti è stata ri-spettata nel 55% dei casi considerati e non rispettata nel20%, il 25% dei pazienti non sa se essa è stata rispetta-ta (coerentemente con il fatto che il 25% del campione nonconosceva in partenza la propria posizione nella lista ope-ratoria). Il vissuto emotivo di coloro che sanno che la li-sta operatoria non è stata rispettata o lo suppongono è di“serenità” quindi di accettazione normalizzante nel 33,3%dei casi e di “depressione”, connotata come impotenza erassegnazione, nel 33,3% dei casi; il 16,7% riferisce un vis-suto di ansia reattiva e un ulteriore 16,7% di rabbia.

Spostamenti tra reparto e blocco operatorioIl 60% dei pazienti è consapevole di come avverrà il per-corso operatorio verso la sala operatoria, mentre il 40%afferma di non saperlo o ha aspettative diverse dalla re-altà degli Istituti (recarsi già addormentati o quasi addor-mentati in sala operatoria).Dopo l’intervento tutti i pazienti riferiscono che lo sposta-mento è stato come se lo aspettavano. La contraddizio-

ne che si può rilevare da questi dati può essere spiega-ta da ulteriori informazioni ricevute nel tempo intercorsotra l’intervista e l’operazione o un’incoerenza nel sogget-to stesso. Inoltre dopo l’intervento i pazienti riferiscono diaver vissuto emotivamente questo percorso “serena-mente” nel 40% dei casi, sentendosi ansiosi nel 35% e de-pressi e tristi nel 20%; il restante 5% non risponde a que-sta domanda.Relativamente al percorso operatorio di ritorno abbiamo,dall’intervista postoperatoria, poche informazioni: il 40%dei pazienti infatti non ricorda, mentre il 35% lo definiscenel complesso positivo e il 25% spiacevole, perché si sen-tiva agitato, solo o non considerato o perché avvertiva do-lore.

Conoscenza della struttura e dell’organizzazione del blocco operatorioIl 60% dei pazienti ha una rappresentazione abbastanzacorretta della struttura e del funzionamento della sala ope-ratoria, specificamente relativamente all’esistenza della re-covery room e al suo ruolo, mentre il 40% immagina unadiversa strutturazione.Dopo l’intervento si è verificato in modo abbastanza pun-tuale la percezione della recovery room, ottenendone unavalutazione molto positiva: il 95% dei pazienti la ritiene or-ganizzata e adeguata per la privacy; il 90% pulita, cura-ta e adeguata per la temperatura; l’80% adeguata per i tem-pi; il 75% confortevole e silenziosa o comunque adegua-tamente rumorosa.

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A AnestesistaIl 75% dei pazienti è soddisfatto dell’incontro avuto conl’anestesista, sia per la quantità dell’informazione ricevu-ta che per il modo in cui è stata offerta, il 5% non è sod-disfatto di come è stata fornita l’informazione, mentre il 5%avrebbe preferito non sapere, il restante 15% non ha po-tuto rispondere perché il colloquio con l’anestesista nonera stato ancora effettuato.

Dopo l’intervento, il 90% del campione si dichiara soddi-sfatto del momento di induzione dell’anestesia, mentre ilrestante 10% non ricorda o è confuso.

Intervento chirurgicoAl momento dell’intervista, il 90% degli intervistati ha avu-to informazioni sull’intervento cui verrà sottoposto, men-tre il 10% non le ha avute; la rappresentazione relativa chei pazienti forniscono è corretta nell’80% dei casi.

Relativamente alla procedura di intervento, il 75% dei pa-zienti riferisce di esserne stati informati e riporta una rap-presentazione corretta.Il 60% dei soggetti, inoltre, è consapevole che l’interven-to potrà subire delle variazioni, mentre il 40% non mani-festa segni che indichino una qualche consapevolezza chel’intervento previsto potrà evolvere diversamente duran-te la seduta operatoria. Il vissuto emotivo esplorato aper-tamente con le persone consapevoli ed espresso in variomodo da alcune delle persone che comunque si mostra-vano non consapevoli, è di serenità e/o accettazione nor-

malizzante per il 35,7% dei casi, di ansia per il 28,6% edi depressione nel 14,3%; il 21,4% dei soggetti non espri-me il proprio vissuto emotivo rispetto a questa variabilitào riferisce di non saperlo dire.

Dopo l’intervento, il 90% dei pazienti ha una rappresen-tazione corretta dell’intervento realmente effettuato, anchese diverso da quello previsto, il 5% ha una rappresenta-zione errata e il restante 5% non sa rispondere a questadomanda.

RisveglioRelativamente al risveglio, le rappresentazioni corrette sonominori: il 50% dei pazienti pensa di risvegliarsi in stanzae/o di svegliarsi da solo o con i familiari, ma non prevedela presenza degli operatori sanitari al suo fianco.

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Dal punto di vista dei desideri, prima dell’intervento il 45%delle persone afferma di non desiderare niente in particolareo non risponde, il 30% fa riferimento all’attenzione per gliaspetti medici (“che avvenisse con i medici in sala”, “nonavere dolore”), mentre il 25% segnala il desiderio di vici-nanza relazionale ed emotiva.

All’intervista postoperatoria, il 60% degli intervistati rife-risce che il risveglio è stato positivo (senza dolore, sere-no), il 25% invece riferisce diverse difficoltà, sia medicheche relazionali, il 10% non ricorda e il 5% risponde espli-citando una precedente fantasia di morte.

Accoglienza in sala operatoriaPrima dell’intervento, è stato chiesto “come le piacereb-be essere accolto in sala operatoria?”: il 65% del campioneha risposto facendo riferimento esclusivo all’aspetto re-lazionale ed emotivo e di questi il 50% richiedeva vicinanza,mentre il 15% richiedeva un distanziamento emotivo daparte del personale di sala operatoria; il resto del campioneha risposto facendo riferimento esclusivo all’aspetto pro-fessionale per il 20% e includendo contemporaneamen-te l’aspetto relazionale e quello professionale per il 15%.Dopo l’intervento invece il 40% riporta un contemporaneoriferimento all’aspetto relazionale e a quello professionale,il 35% riferisce un atteggiamento relazionale ed emotivo ca-ratterizzato da vicinanza, il 5% un atteggiamento volto al di-stanziamento emotivo e relazionale e il 10% risponde ri-portando esclusivamente l’aspetto professionale del rapporto;infine il 10% dei pazienti non risponde a questa domanda.

VolontariPrima dell’intervento durante l’intervista è stata presentataai pazienti la possibilità che nella recovery room fosseropresenti dei volontari ed è stato chiesto loro se pensava-no che questo sarebbe stato piacevole per loro: il 40% harisposto che immaginava che questo potesse essere pia-cevole, il 20% ha risposto che pensava fosse spiacevolee ancora il 20% si è dichiarato indifferente a questa pre-senza; il restante 20% non ha risposto.Dopo l’intervento il 70% dei pazienti ha riferito che i vo-lontari non erano presenti, nei restanti casi la presenza èrisultata piacevole, salvo un caso in cui la persona ha ri-ferito indifferenza alla loro presenza.

Atteggiamento del personale di reparto nel decorso postoperatorioIl 95% del campione si dichiara soddisfatto sia dell’atteg-giamento del personale di reparto durante le medicazio-ni che del rispetto percepito nei confronti del loro dolore.

Discussione

I colloqui semistrutturati svolti nei reparti di Chirurgia To-racica e Ginecologia permettono di cominciare a delineareun quadro dei bisogni, delle aspettative e dei vissuti emo-tivi dei pazienti ricoverati per intervento chirurgico; attra-

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verso di essi, inoltre, è possibile rilevare la percezione chei pazienti hanno dell’operato dei professionisti sanitari.L’evento “intervento chirurgico” risulta essere, soprattuttoprima dell’intervento, l’organizzatore centrale del vissutoemotivo dei pazienti durante il ricovero, indipendentementedalla consapevolezza o meno della malattia, quindi dalladiagnosi. Il 45% e il 70% delle persone, rispettivamenteprima e dopo l’intervento, riferisce di sentirsi sereno o “nor-male”: questo dato, in parte controintuitivo, si presta a di-verse spiegazioni, in quanto da una parte potrebbe di-pendere dall’effetto di contenimento emotivo che il ricoveroe la programmazione dell’intervento può avere sul vissu-to soggettivo (in opposizione all’incertezza del periodo pre-cedente), dall’altra è possibile che derivi da un meccani-smo di difesa normalizzante attuato dai pazienti in un mo-mento di destabilizzazione delle routine personali e familiarie di perdita, anche se temporanea, del proprio ruolo fa-miliare, lavorativo e sociale. Del resto è rilevante che il 50%degli intervistati, prima dell’operazione, riconosca un vis-suto di ansia o di depressione: la metà del nostro campionericonosce un’attivazione emotiva reattiva che è importantetenere in considerazione nel relazionarvicisi. Nel decor-so postoperatorio questi vissuti si presentano con frequenzecapovolte: l’ansia riferita passa dal 45% al 5% e la de-pressione dal 5% al 20%. Ciò può essere spiegato comeeffetti di più fattori: una progressiva maggiore consape-volezza della diagnosi (molti interventi sono diagnostici ocomunque forniscono una diagnosi conclusiva), la perdi-ta di autonomia e altri aspetti peculiari del decorso ope-ratorio (vissuto relativo al proprio corpo “violato”, dolore,senso di vulnerabilità). Pur riconoscendo il valore spessoreattivo e fisiologico di questi vissuti, la presenza quotidianain reparto di uno psicologo, professionista capace di co-gliere questi segnali di disagio anche quando sono sot-tosoglia rispetto all’identificazione di un disturbo, può age-volare l’elaborazione dei vissuti ed evitare il cronicizzar-si di fantasie catastrofiche o di vissuti altrimenti depres-sivi e ansiogeni.È stata rilevata l’informazione fornita e il grado di consa-pevolezza che i pazienti hanno circa quanto viene loro det-to: relativamente all’intervento e all’anestesia il 75-80% deipazienti ha una rappresentazione corretta dell’interventoche dovrà effettuare e della procedura con cui si svolge-rà e si dichiara soddisfatto del colloquio con l’anestesista,il 90% dei pazienti ha nel postoperatorio una rappresen-tazione corretta dell’intervento realmente effettuato. Menofrequente è, invece, la consapevolezza che l’intervento po-trà subire delle variazioni durante la seduta chirurgica: con-sapevolezza vissuta con un atteggiamento sereno (o for-se normalizzante, nel senso attribuitogli anche prece-dentemente) nel 35,7% dei casi, con vissuti di ansia o de-pressione nel 43,9% dei casi. Anche relativamente alla li-sta operatoria appare rilevante il 25% di pazienti che nonè informato o almeno non è consapevole del fatto che lalista operatoria può non essere rispettata. Se da un lato,dunque, sono buoni i risultati sull’informazione fornita, inquanto evidentemente questa informazione è ben assi-milata dai pazienti, resta il dubbio sul significato da attri-buire alla mancata informazione di quei pazienti che nonimmaginano che l’intervento può subire delle variazioni.Ipotizziamo, anche se per ora non è dimostrabile, che laconsapevolezza dell’imprevedibilità relativa alla lista ope-ratoria o all’intervento stesso possa aiutare ad affrontarein modo più efficace l’eventuale cambiamento e a gesti-

re meglio le emozioni provate, anche se il paziente con-sapevole può, quando viene informato, apparire emoti-vamente più coinvolto, meno sereno.Altre informazioni fornite al paziente, spesso in sede di ri-covero, sono più facilmente dimenticate: in particolare inriferimento all’attesa preoperatoria, al percorso verso la salaoperatoria o al risveglio. Relativamente alla prima, il 65%dei pazienti riporta, esclusivamente o meno, il desideriodi avere accanto un familiare, ma solo il 40% riferisce, du-rante il colloquio postoperatorio, di aver realmente trascorsoin questo modo l’attesa e ne riconosce l’efficacia per sé.Vari pazienti riferiscono di sapere che i familiari non pos-sono stare in reparto durante la mattina e non immaginanodi poter sostare nelle sale d’attesa prima di essere chia-mati, in quanto esse sono poste fuori dal reparto. Inoltrespesso non è chiaro per i pazienti che un familiare può ac-compagnare il paziente fino all’ingresso del blocco ope-ratorio, così come non lo sono altri aspetti dello sposta-mento (il 40% degli intervistati non ha una rappresenta-zione corretta). Relativamente al risveglio, ancora menopazienti sanno come questo avverrà; dal punto di vista del-l’analisi dei bisogni in questa fase è importante sottolineareche ¼ dei pazienti segnala il desiderio di vicinanza rela-zionale ed emotiva, richiedendo la presenza di un fami-liare o di essere in stanza. Nell’intento di voler persegui-re degli obiettivi di umanizzazione ci sembra doveroso in-terrogarsi su come migliorare questi aspetti, per renderepiù efficace la comunicazione relativamente ai diritti già ri-conosciuti di avere i familiari vicini sia prima che dopo l’in-tervento.Molto buono è il riscontro relativamente alla percezione del-la recovery room, che viene per lo più percepita adegua-ta, efficiente, comoda ed organizzata. Sempre nell’inten-to di voler ulteriormente migliorare il rapporto con i pazienti,consci degli effetti positivi, come riportato in letteratura, del-la consapevolezza e della conoscenza, può essere inte-ressante pensare a come fornire le informazioni mancantisulla struttura e l’organizzazione del blocco operatorio.Relativamente all’operato degli anestesisti, valutato comeottimo al momento dell’intervento, i pazienti ribadisconol’importanza della qualità del colloquio preliminare e in par-ticolare dell’attenzione agli aspetti relazionali: sempre nel-l’intento di voler ottimizzare la presa in carico della personanella sua globalità, si può approfondire l’analisi delle va-riabili coinvolte in questa percezione e invitare questi pro-fessionisti a incrementare la loro formazione sulle capa-cità empatiche e sulle abilità comunicative e relazionali.Quest’attenzione alla relazione è centrale anche rispettoall’accoglienza in sala operatoria: sia prima (85%) che dopol’intervento (80%) i pazienti ne fanno esplicita menzione,come dato esclusivo o in associazione all’interesse perl’aspetto professionale. Dalle interviste post-intervento emer-ge come dato positivo l’attenzione posta dal personale disala operatoria a questo aspetto: successive analisi pos-sono rilevare l’adeguatezza dell’intervento del personaleverso i bisogni dello specifico paziente, cioè la capacitàdi riconoscere il bisogno individuale di vicinanza, piutto-sto che di distanza, così da rilevare la capacità empaticaeffettiva dei professionisti coinvolti.L’intervista postoperatoria prevede, inoltre, delle doman-de a risposta aperta sulla soddisfazione/non soddisfazionenei singoli momenti: la risposta prevalente “niente in par-ticolare” tanto alla domanda “cosa le è proprio piaciuto” chealla domanda “cosa non le è piaciuto”, insieme alla diffi-

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coltà ad avere risposta alla domanda “avrebbe dei sug-gerimenti da darci per migliorare il servizio” depongono peruna difficoltà del paziente a permettersi di dire apertamentequello che pensa o almeno per una difficoltà a riconoscersiparte attiva del percorso di cura, identificandosi piuttostocon il paziente che deve affidarsi alle cure del medico eaccettare quanto gli viene proposto fiducioso che ciò sia“per il suo bene”, in un atteggiamento fondamentalmen-te passivo. Probabilmente non è ancora avvenuta la rivo-luzione culturale necessaria!Nel presente lavoro vengono presentati i dati relativi ad uncampione pilota: la numerosità è insufficiente per effettuareelaborazioni statistiche inferenziali adeguatamente affidabili,per le quali si rimanda al lavoro conclusivo che permet-terà, tra l’altro, il confronto tra i reparti.D’altra parte, questo lavoro testimonia di un atteggiamentonuovo dell’istituzione, che va verso l’apertura ai bisogni deipazienti. La metodologia scelta è uno dei punti di forza diquesto lavoro: il paziente viene messo al centro, interpellatoe ascoltato, gli viene dato spazio e viene sollecitato rispettoal proprio vissuto e ai propri bisogni; in questo spazio eglipuò darsi anche la possibilità di esplicitare dubbi e per-plessità. L’intervista diviene, in questo modo, un atto cli-nico di consulenza, di riconoscimento di bisogni latenti, difacilitazione della comunicazione anche con medici ed in-fermieri.

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Introduzione

Il seguente contributo rappresenta solo il frutto di un pro-getto di più ampio respiro che ha generato, in questi ulti-mi anni, notevoli trasformazioni nell’ambito dei Servizi ri-volti ai malati oncologici. Nello specifico, si fa riferimentoa tutta quella serie di interventi di umanizzazione volti aporre il paziente, in quanto “Persona”, e i familiari al cen-tro del percorso terapeutico, attraverso una serie d’iniziativetese a migliorare il più possibile la permanenza degli uten-ti in ospedale, affinché siano aiutati nella dimensione psi-cologica e privata della malattia e della cura.Chiunque abbia assistito malati affetti da cancro conoscebene, infatti, l’angoscia che questa diagnosi provoca nelmalato e nelle persone che gli sono vicine, così come losconvolgimento della vita che le procedure terapeutichea volte impongono, indipendentemente dai risultati otte-nuti. È un’esperienza che inevitabilmente non può non coin-volgere nel profondo anche chi “sta dall’altra parte”.Umanizzare il percorso di cura in oncologia significa, quin-di, riconoscere ed accogliere anche questo bagaglio emo-zionale e porsi al servizio dell’utente sintonizzandosi suun ventaglio più ampio di bisogni, direttamente o indiret-tamente espressi, attraverso interventi concreti che re-stituiscano un senso autentico alla sua sofferenza e allasua dignità umana. A questo proposito, a seguire, verrà presentata una par-ticolare esperienza di umanizzazione, che abbiamo avu-to il privilegio di vivere e osservare da vicino in qualità dipsicologhe-partecipanti, ovvero un’iniziativa, chiamata “uncolore al giorno”, nata da un accordo tra gli Istituti Re-gina Elena (IRE) e San Gallicano (ISG) con la Libera Ac-cademia di Belle Arti di Roma che ha promosso e realiz-zato, all’interno delle due strutture capitoline, un labora-torio di pittura dedicato ai degenti. Non è una novità che anche l’arte possa essere d’aiutoper avvicinare i pazienti alla quotidianità di una vita nor-male nonostante i disagi della malattia, specie nel casodi patologie gravi come il cancro. Essendo infatti tutte learti, nella loro essenza originaria, legate a specifiche fun-zioni espressive dell’uomo, non possono, a nostro avviso,essere estranee ai processi generali di simbolizzazione edi costituzione di speciali universi di significato. Questo si-

gnifica che c’è una parte importante e attiva della perso-nalità che ogni individuo affida a questo particolare mez-zo di comunicazione. L’arte è dunque un essenziale mo-dello espressivo e come tale anch’essa può essere rico-nosciuta come un bisogno, un bisogno che può diventa-re, al contempo, un prezioso campo di rivelazione, un uti-lissimo canale per la ripresa del dominio sopra noi stes-si e, perciò di ripristino degli equilibri.

Il laboratorio di pittura “un colore al giorno”: obiettivi e descrizione dell’esperienza

Sulla base delle riflessioni precedentemente condivise,l’idea alla base dell’iniziativa “un colore al giorno” è sta-ta: in primis, quella di offrire ai pazienti un’ulteriore for-ma di supporto e avvicinamento alla normale quotidianità,con l’intento di stimolare la socializzazione e il confron-to, creando nuove possibilità di contatto, di scambio uma-no e di svago; in secondo luogo, di dare loro la possibi-lità di conoscere e sperimentare il mondo dell’arte in pri-ma persona sotto la guida attenta e sensibile dei docentidell’accademia che nell’arco di cinque mesi, per due le-zioni alla settimana da un’ora e mezza ciascuna, hannocercato di insegnare tutte le tecniche per esprimere emo-zioni e vissuti attraverso la pittura e il suo peculiare lin-guaggio non verbale fatto di forme, colori e pura espres-sione creativa.Ogni lezione veniva dunque scandita da tre momenti: ini-zialmente un docente proponeva un tema su cui lavora-re; seguiva poi la produzione artistica individuale o in grup-po accompagnata da indicazioni tecniche relative alla pit-tura ed alla teoria di base del colore; la condivisione in grup-po dell’esperienza creativa vissuta chiudeva poi la lezione. Pro-prio al fine di favorire lo scambio tra le persone, la parte-cipazione al laboratorio, che era libera di volta in volta enon richiedeva l’impegno di una continuità nel tempo, è sta-ta limitata ad un numero massimo di 10 persone ad in-contro.Spiegato in questi termini, quindi, appare evidente che nonsi è trattato di un vero e proprio laboratorio di arte-tera-pia, in cui l’arte diviene strumento di cura nelle mani con-

Il vissuto del paziente oncologicoattraverso l�arte pittorica: un�esperienza di �umanizzazione� del percorso di cura in oncologiaLopez E, Torelli S, Menichetti E, Faia V, Cantelmi T.

1 Professore Ordinario (Regina Apostolorum, Roma), Direttore Scientifico SCINT2 Psicoterapeuta, Direttore Didattico SCINT3 Psicoterapeuta, Docente SCINT

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A sapevoli di un terapeuta esperto in questo tipo di psico-terapia che orienta il lavoro artistico in base alle difficol-tà e alle risposte di ciascun singolo paziente. Stiamo par-lando piuttosto di atelier, in cui l’arte è stata utilizzata inmodo abbastanza inconsapevole sia dall’insegnante chedal paziente, dove tutto è stato lasciato alla spontaneitàed alla sensibilità dei singoli, che hanno potuto trovare lagiusta maniera per orientare l’atto creativo verso un per-corso finalizzato al recupero delle risorse psichiche e diun pieno benessere psicologico, compatibilmente con lapatologia organica di base. La nostra presenza in vestedi psicologhe-partecipanti, pertanto, scevra da ogni ruo-lo intenzionalmente arte-tarapeutico, si è limitata all’os-servazione-partecipe, al monitoraggio dell’esperienzastessa, nonché alla realizzazione di alcuni momenti (a ca-denza mensile) formativi, di confronto e di riflessione coni docenti, ovvero i reali conduttori del laboratorio, al finedi sensibilizzarli rispetto ad alcune criticità emotive, ca-ratteristiche del paziente oncologico. I benefici indubbiamente ci sono stati comunque, anchein maniera superiore alle nostre aspettative se facciamoriferimento a quanto espresso dai pazienti che hanno ac-cettato di lasciarci la loro testimonianza anche attraversodelle interviste individuali, e a giudicare dalla sorprendenteproduzione artistica che ne è derivata.Per meglio dare l’idea sia della portata artistica che del-la valenza catartica dell’esperienza pittorica sperimenta-ta dai pazienti partecipanti, verranno di seguito presentatialcuni dei tanti lavori significativi raccolti in questi mesi dilaboratorio per raccontare, attraverso i loro meravigliosi di-pinti e le loro riflessioni, le storie di Giovanna, di Rita e Mau-ro, la loro esperienza umana, la loro lotta contro il cancro,l’universo delle loro emozioni e dei loro vissuti.

La storia di GIOVANNA

Tra le tante abbiamo scelto questa storia perché mai, comein questo caso, arte e cancro sembrano essersi intrecciatinel destino di questa persona.Giovanna è una giovane donna di 37 anni, la cui storia cli-nica è caratterizzata da un’iperplasia atipica curata per anni,sfociata poi in un cancro dell’utero e dell’ovaio. Un percorsoin cui, come nel più amaro dei paradossi, per diverso tem-po, il controllo dei marker tumorali è andato di pari passocon il controllo dei valori della fertilità. Giovanna disegnafumetti per passione sin da quando è una bambina e, comeprofessionista, organizza eventi per una casa farmaceu-tica, per la quale spesso ha curato la realizzazione di con-vegni proprio sul tema oncologico/ginecologico.

Questo è il suo dipinto: si intitola “Il centro della vita:20/05/2010”, eseguito il giorno prima dell’intervento radi-cale di isterectomia e annessiectomia bilaterale. Giovan-na ha tratto ispirazione da un’opera di Lucio Fontana daltitolo “Concetto spaziale” (1960).A seguire, invece, verranno riportate le parole di Giovan-na, esattamente così come sono emerse durante un col-loquio, perché riteniamo che siano molto più esplicativee suggestive di qualsiasi ulteriore elaborazione.

Le parole di Giovanna:“Per me questo dipinto è nato come uno sfogo. E pensa-re che quel giorno, quando una delle volontarie mi ha pro-

posto di partecipare al vostro laboratorio pomeridiano dipittura, nonostante la mia passione per il disegno, ho ac-cettato controvoglia, mi sembrava quasi una forzatura, nonavrei mai pensato che, invece, sarei uscita da lì così leg-gera, quasi svuotata da un peso. All’inizio, quando gli in-segnanti mi hanno suggerito di sfogliare un album di ope-re per trarne qualche spunto, sono stata attratta da un nudodi Modigliani, ma poi la mia attenzione è stata improvvi-samente rapita da un’altra opera più astratta, di un auto-

Giovanna - Il centro della vita: 20/05/2010.

Lucio Fontana - Concetto spaziale - 1960.

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re a me sconosciuto. Vi ho visto dentro qualcosa di ‘or-ganico’ e da lì è nata la mia ispirazione. Questa immagi-ne aveva evocato in me qualcosa di forte ma ancora sco-nosciuto. Così ho trovato coraggio: ho i preso il pennello,ho miscelato i colori che mi servivano, rosso, nero, gial-lo, e poi ho “spinto giù” con delle pennellate pesanti. Nonavevo un’idea chiara in quel momento, poi gradualmentemi sono resa conto di ciò che volevo realizzare: volevo rap-presentare l’organo femminile, il simbolo della femminili-tà, della fertilità, il centro della vita appunto. Ma a dire il vero,questo dipinto per me ha un doppio significato: simboleggiaanche il mio dolore, la mia ferita, il sangue, la mia malat-tia, la fine di qualche cosa, il mio lutto, il lutto per una par-te del mio corpo che non ci sarà più, il lutto per il figlio chenon ho potuto mai avere. Purtroppo temo che sarà anchetutto ciò, d’ora in poi, a stare al centro della mia vita. Que-sto è il motivo per cui vi ho messo la data di domani e nonquella di oggi, perché l’intervento di domani segnerà perme, inevitabilmente, la fine e l’inizio di qualcosa. Ed eccololì, nel mezzo del quadro, il mio dolore. Il materiale pittori-co più denso e spesso mi è servito per dare risalto alladrammaticità che stavo vivendo ed io avrei voluto metternedell’altro e dall’altro ancora per dare sfogo al mio impul-so: questo quadro è “figlio” di quel momento. Se me lo aves-sero detto prima che avrei dipinto questo soggetto non ciavrei creduto, ma ora posso dire che null’altro avrebbe po-tuto prendere forma e consistenza. Sebbene io sappia di-segnare e riprodurre con facilità, non avrei potuto copia-re nessuna delle opere a disposizione perché nulla di tut-to ciò mi apparteneva. Il senso di questo gesto, invece, stanel percorso di esternazione ed elaborazione che fino adallora non aveva preso ancora avvio in me così chiaramentecome in quell’istante. Il dolore è un lutto che devi elabo-rare, e con il quale imparare a convivere. E forse ora sonoanche più consapevole che con l’intervento mi sto salvandola vita e questo mi dà la forza di andare avanti. Voglio tor-nare a truccarmi, a vestirmi bene, voglio recuperare unaforza estetica che non è effimera ma mi fa sentire in pri-ma linea. Mi piacerebbe poi pensare a questo dipinto comea un “dono”, in senso simbolico, spirituale, non concreto.Lo vorrei dedicare alle persone a me più care, alla mia ni-potina. In fondo lo stesso Modigliani diceva che la vita èun dono: ‘la vita è un dono, dei pochi ai molti, di coloro chesanno e che hanno a coloro che non sanno e non han-no’…”.

La storia di RITA e MAURO

Dopo il contributo di Giovanna, presentiamo l’esperienzadi Rita e Mauro, due veri e propri compagni di viaggio nel-la vita, nella malattia e nell’arte.Rita è una straordinaria settantenne con una storia clini-ca che l’ha messa a dura prova nella vita, contrassegna-ta da ben 15 interventi chirurgici, in uno dei quali ha vis-suto l’esperienza del coma. La sua ultima battaglia vintaè stata quella con il cancro al naso. Nonostante la sua re-sistenza iniziale e benché non avesse mai dipinto in vitasua sino ad allora, Rita è stata senz’altro la partecipantepiù produttiva e premiata del nostro laboratorio: un’autenticarivelazione! Riportiamo, a seguire, l’immagine del suo qua-dro più rappresentativo, da lei intitolato “L’apparizione” edalcune delle sue riflessioni personali emerse durante uncolloquio a posteriori.

Le parole di Rita“Mi ero interessata a questo laboratorio per mio marito nonper me. Lui da sempre ha l’hobby della pittura, e questainiziativa mi era sembrata un’ottima idea per farlo distrarreun po’ da tutta la pesantezza tipica delle giornate trascorsein ospedale per via delle mie terapie. Solo in un secondomomento mi sono fatta convincere da lui a partecipare econ grande sorpresa ho trovato un ambiente che mai misarei aspettata: un’atmosfera di grande accoglienza, ca-lore umano, collaborazione, sostegno e condivisione. In-gredienti che mi hanno permesso di realizzare questo di-pinto che per me avrà per sempre un valore speciale. Quel-lo che ho rappresentato altro non è che una visione cheho avuto durante l’esperienza del coma: una dimensionein cui sono stata per un momento in bilico tra la vita e lamorte. In questo luogo mi ritrovavo al vertice di un conodi luce, ogni anello di questa spirale luminosa era un gi-rone dantesco, ed io stavo bussando alla porta del para-diso, dalla quale intravedevo una bella luce filtrare. Vole-vo raggiungere mio padre e mia madre, ma nessuno miha sentita bussare, nessuno mi ha aperto la porta. Quan-do mi sono risvegliata dal coma ho come avuto l’impres-sione di essere precipitata da lassù. Questa visione, da al-lora, ha accompagnato sempre i miei pensieri, sebbenenon ne parlassi con nessuno. Ed il fatto di essere riusci-ta a tirarlo fuori, ad immortalarlo, mi ha fatto sentire comeliberata, perché per me è stato come dire al mondo e ame stessa: ‘io sto su questa terra!’. Ci tengo a precisareche da sola non ce l’avrei mai fatta. Se la mia bizzarra idea,che cullavo dentro di me sin dal primo giorno di laboratorio,non fosse stata sostenuta dai docenti che mi hanno in-coraggiata ed aiutata anche nella realizzazione, inse-

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Rita - L’apparizione - maggio 2010.

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gnandomi le tecniche per rendere la luminosità, la pro-spettiva, questo dipinto a me così caro ora non ci sareb-be. Non so quindi come esprimere la mia riconoscenza perquesta bellissima esperienza.” Questo è un altro quadro di Rita, si intitola “Serenità”.

Rita ha voluto dipingere la sua rappresentazione del pa-dre (anch’egli passato attraverso l’esperienza del cancro)in Paradiso, immaginato mentre legge in tranquillità il gior-nale in un parco.Questi sono, invece, due quadri particolarmente significatividi Mauro, il marito di Rita: “La partenza” e “L’arrivo”. In que-sto caso è sembrato importante mettere in rilievo questaproduzione, oltre che per l’indubbio valore estetico, per-ché straordinariamente evocativa del “viaggio” che deveaffrontare anche chi sta accanto ad una persona malatadi cancro. Un viaggio che comincia con una “partenza”, ap-punto, verso qualcosa di incerto, oscuro, ignoto, come sem-brano suggerire le tonalità cupe utilizzate – notiamo infattiil ricorso al blu, al viola, ecc. – e la dinamicità del tratto pit-torico, indicativa dell’agitazione interiore, dell’aspetto“perturbante”. Ma un viaggio fatto anche, fortunatamen-te in alcuni casi, di un “arrivo” verso la meta desiderata,

un ritorno alla serenità della quotidianità, rappresentata inquesto caso da Mauro attraverso questa bellissima im-magine, intitolata appunto “L’arrivo”, in cui le tonalità si fan-no chiare, lucenti e definita da lui stesso con queste pa-role “un angolo di pace, un’oasi di serenità dove poter ap-prodare, e agganciarsi alla solidità della terra ferma”. Questo è un altro dipinto di Mauro, senza titolo, ma al-trettanto evocativo del suo “viaggio interno”.

Riflessioni conclusive

Quando abbiamo avuto modo di intervistare i pazienti inrelazione ai loro lavori, ai loro dipinti, ci siamo immedia-tamente rese conto che ci stavamo approcciando ad essicon lo stesso “assetto interno”, con la stessa predispo-

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Rita - Serenità - maggio 2010.

Mauro - senza titolo - maggio 2010.

Mauro - La partenza - maggio 2010.

Mauro - L’arrivo - maggio 2010.

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sizione con cui noi terapeuti accogliamo i sogni dei no-stri pazienti. Il momento della “narrazione” intorno al qua-dro per noi è stato simile all’esperienza della narrazionedella produzione onirica: per la delicatezza del materia-le, così intimo e personale; per il tipo di linguaggio utiliz-zato – un linguaggio analogico, fatto di immagini meta-foriche, dove forme e colori sembrano riferirsi a catego-rie e icone dell’anima –; ma anche per l’attenzione, l’ac-cortezza a non “saturare”, con l’interpretazione, la pro-duzione figurativa. Il più delle volte, infatti, erano le immagini a “parlare da sole”.Esse sembravano svelare un mondo diverso, impenetra-bile agli sguardi superficiali perché più prossimo alla di-mensione interiore profonda, ed erano in grado, già di persé, di attivare e rilanciarne l’elaborazione ogni volta checi si accostava ad esse, attraverso un immediato rispec-chiamento. Inoltre, nei dipinti, proprio come avviene nei sogni, dallaloro morfologia incerta - talvolta inquietante eppure pro-fondamente attraente - sembravano animarsi ed emergereimmagini arcane, enigmatiche materializzazioni di archetipi,di memorie ancestrali, di angosce, di paure, di energie psi-chiche, che, mediante il processo di esorcizzazione e ca-tarsi rappresentato dall’arte, affioravano in superficie la-sciando la loro traccia. Questi dipinti, quindi, come finestre spalancate sul mon-do interno, hanno consentito una via d’accesso privilegiataai vissuti dei loro autori, alle loro fragilità, alle loro speranze,alle loro risorse. Al di là delle loro peculiarità, ci sono temi vissuti ed emo-zioni che sono sembrati ricorrere frequentemente, comela paura della morte, il dolore, il rapporto con il corpo – alcontempo “oggetto buono”, protetto, amato, agognato, e“oggetto cattivo”, malato, mutilato, limitato –, la dimensionespirituale ma anche quella disperatamente terrena, l’at-taccamento alla vita, alla bellezza, alla semplicità dei ge-sti e dei momenti della quotidianità, nonché il recupero de-gli oggetti interni d’amore più importanti – il figlio, il padre,la madre –.Alla luce di queste considerazioni, volendo tirare le fila neitermini di una riflessione “scientifica” sull’esperienza, è sta-to per noi fondamentale, muovendoci dalla ormai conso-lidata e condivisa consapevolezza dell’importanza del so-stegno psicologico nella presa in carico dei pazienti on-cologici, porci alcuni interrogativi: “Qual è l’elemento ag-giuntivo del supporto attraverso l’arte? Cosa ha dato que-sta esperienza a questi pazienti? Quali sono i bisogni cheessa sublima?”Riteniamo che la risposta a queste domande sia ricon-ducibile in primo luogo, alla straordinaria capacità dell’artedi riuscire ad offrire una forma di linguaggio e di co-municazione immediata rispetto agli aspetti più profon-di ed autentici di sé, in un momento in cui, inevitabilmen-te, si intraprende un “viaggio” verso luoghi sconosciuti, estra-nei, spaventosi, rappresentato appunto dall’esperienza delcancro. Un momento di vera e propria “crisi”, in cui spes-so il malato si trova ad essere straniero, estraneo persi-no a se stesso. In secondo luogo, l’esperienza artistica, con il suo po-tenziale catartico ed elaborativo, sembra contrapporre allapossibilità di una chiusura in se stessi, al nichilismo, allosmarrimento, una riuscita creativa dal buio e dalla paura,attraverso la riappropriazione non solo di alcune par-ti importanti di sé, ad esempio della propria femminili-

tà, sia pure mutilata, come ci insegna la storia di Giovanna,ma soprattutto della dimensione della condivisione congli altri. È come se l’esperienza artistica avesse in un certo sen-so costretto a “tirar fuori”, ad esprimere vissuti ed emo-zioni in maniera immediata ed istintiva (cosa che spes-so non avviene nei tradizionali percorsi di psicoterapia,in cui i processi elaborativi richiedono tempi più lunghi),acquisendo inaspettatamente una valenza comunque te-rapeutica. Sebbene, infatti, questi pazienti non dovesse-ro essere sostenuti nell’uscita da condizione psico-pa-tologica, ma fossero piuttosto protagonisti di un momentodi acuta fragilità psicologica, la loro testimonianza dimo-stra come essi siano stati aiutati a “navigare” attraversol’esperienza del tumore in modo se non altro meno pro-blematico. Il cancro rende tutto più urgente e richiede una rispostapiù immediata non solo rispetto all’intervento strettamente“sanitario”, ma anche in termini squisitamente psicologi-ci. L’esperienza artistica vissuta in questo modo sembraoffrire proprio questa immediatezza, attraverso una ri-scoperta ed un’espressione di sé positiva che è in pri-mo luogo comunicazione-condivisione con gli altri piùche un percorso solipsistico. Questi sono i bisogni impli-citi che l’arte sembra sublimare, travestendosi inconsa-pevolmente da ausilio psicologico. In tal senso, “Un colore al giorno” ha rappresentato nonsolo un’attività dilettosa e di svago, bensì, quasi sfug-gendo di mano agli operatori stessi, si è dimostrata unutile strumento di contenimento del dolore, un suppor-to emotivo a tutti gli effetti; un ponte che ha consentito,ad una paziente di essere traghettata da una fase di as-soluta emergenza – come quella della vigilia di un’ope-razione chirurgica così importante, nel caso di Giovan-na, in cui spesso il tempo per elaborare “chi si è e cosasi sta affrontando” è estremamente ridotto – verso unasituazione post-emergenziale quanto meno con una mag-giore consapevolezza di sé, dei propri bisogni, delle pro-prie vulnerabilità, ma anche dei propri punti di forza. Main che modo l’arte può consentire un tale processo ditrasformazione psichica? Qual è il meccanismo psichicoche ne sta alla base? L’espressione artistica, che nondeve essere necessariamente arte, sembra rispondereanche ad un altro bisogno profondo, da sempre con-naturato all’uomo, ovvero quello di “ri-rappresentarsila realtà”, per poter accedere ad altri racconti di sé e del-la realtà stessa, nel tentativo di dominarla, di darle unaconsistenza, una dimensione spazio-temporale per-manente. Questo processo, squisitamente individuale epersonalizzato, permette di superare l’angoscia dellaframmentazione del Sé e getta le basi per la costruzionedell’identità.In questi termini, i nostri pazienti sembrano averci dimo-strato come l’arte possa essere definita a pieno titolo unitinerario verso la libertà interiore dell’individuo, attraver-so un processo di intuizione profonda e immediata inte-so come possibilità di “andare oltre”.L’auspicio è che questa esperienza “pilota” possa esserenuovamente riproposta ed articolata in modo persino piùstrutturato nei vari reparti oncologici, per l’importanza del-la sua valenza terapeutica nel percorso di elaborazione delvissuto da parte dei pazienti e dei loro familiari e nell’ot-tica di una progressiva umanizzazione delle esperienzedi ricovero in oncologia.

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Presso l’IRE-ISG di Roma è stata recentemente costitui-ta l’Area di Supporto alla Persona. Essa si articola attra-verso 5 sottoaree:- l’area di accoglienza e pre-ospedalizzazione- l’area di prossimità ai pazienti - l’area clinica- l’area di formazione agli operatori sanitari- l’area dell’emergenza urgenza e della psicotraumato-logia oncologicaLo slogan che sintetizza la mission dell’intera area di Sup-porto è “la persona prima di tutto”.Si intende cioè soddisfare i bisogni dei pazienti oncologi-ci secondo la rappresentazione e definizione che essi me-desimi ne danno, oltre a quelle proposte dai medici. Scopo di questo articolo è presentare l’Area dell’Emergenzae della Psicotraumatologia Oncologica ed in particolare mo-strare:1) gli aspetti teoretici sia dell’emergenza sia della psi-

cotraumatologia, che legittimino in oncologia le ne-cessità di fondare la medesima area, e che quindi con-tribuiscono a diagnosi differenziali dei disagi psicolo-gici riferiti ed osservati in questo ambito come distur-bi post-traumatici da stress e/o dello spettro post-trau-matico, prevedendo infine per essi interventi psicolo-gici e psichiatrici specifici e mirati;

2) l’EMDR come strumento elettivo per i disturbi dello spet-tro post-traumatico da stress ed in particolare del Di-sturbo Post Traumatico da stress (PTSD) in oncologia;

3) i protocolli di intervento specifici dell’area secondo unaproiezione di funzionalità trasversale all’interno dell’Areadi Supporto alla Persona e delle sue restanti 4 sot-toaree;

4) gli elementi che allineano l’Area dell’Emergenza e del-la Psicotraumatologia Oncologica agli attuali proces-si di umanizzazione dell’IRE-ISG e quindi alla missiondell’Area di Supporto alla Persona.

Aspetti teoretici dell’emergenza e della psicotraumatologia in oncologia

Sono due le domande che rispondono degli aspetti teoreticidell’emergenza e della psicotraumatologia oncologica:

1) Che cosa significa parlare di emergenza in oncologia?2) Che cosa significa parlare di psicotraumatologia clinica

in oncologia?Le risposte a questi quesiti possono aiutare a capire quan-do ed in che modo i bisogni ed i disagi dei pazienti on-cologici, nelle varie fasi della malattia, contemplino even-tuali disturbi dello spettro post-traumatico da stress o ad-dirittura un disturbo da stress post-traumatico (PTSD) epossono conseguentemente fornire indicazioni specifichedi trattamento sia preventivo che terapeutico.

Che cosa significa parlare di emergenza in oncologia?

Nell’ambito della psicologia dell’emergenza la FederalEmergency Management Agency (1988; 1994) e L’Emer-gency Management Institute assumono che: “Un’emer-genza è un evento che minaccia, o effettivamente rischia,di danneggiare persone o cose”. Ne deriva che:1) lo stato di minaccia e non di danno è la dimensione

psicologica entro cui si definisce la condizione di emer-genza.In oncologia si consideri come esempio lo stato psi-cologico di chi aspetta l’esito di un accertamento dia-gnostico, di chi ha alta familiarità per un cancro ma nonne è stato ancora colpito, o di chi, avendo superato ilcancro stesso, non smette di temere per una recidi-va anche a distanza di molti anni;

2) l’emergenza colpisce non solo chi ha avuto un impattodiretto con un evento traumatico, ma anche chi ne hasubìto in vario modo una minaccia con ricadute sul pia-no della propria integrità fisica e psichica.Le minacce vissute dai familiari dei pazienti oncologicio dai pazienti medesimi non sempre attengono alla ma-lattia in sé soltanto, ma anche alle ricadute sulla qua-lità di vita, agli aspetti economici, ai cambiamenti di ruo-lo sociale. Oppure si consideri il burn-out degli operatorisanitari che sono esposti quotidianamente al rischiodi morte e al dolore dei loro pazienti e familiari;

3) l’emergenza, coinvolgendo cose e persone in mododiffuso, rappresenta un fenomeno sistemico sociale.Da un’indagine realizzata nel 2006 dal Forum per laricerca Biomedica sulle malattie “temute” per la pro-

L�area dell�emergenza-urgenza e della psicotraumatologia oncologica.Teoretica protocolli e trasversalita` funzionali entro l�area di supportoalla persona dell�IRE-ISG di Roma

Capezzani L.1, Cantelmi T.2

1 Psicologa-Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, Psicooncologa, Coordinatrice dell’ Area della Psicotraumatologia ed EmergenzaOncologica (Area di Supporto alla Persona) - UOSD Psichiatria IRE-ISG, Roma2 Psichiatra-Responsabile UOSD Psichiatria IRE-ISG, Roma

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A pria salute e qualità di vita, il 67, 5% del campione in-tervistato indicava il tumore come la principale fontedi preoccupazione, il 23, 9% le malattie del cuore, ea seguire il 21,8% le malattie cerebrali. Ciò nonostantel’andamento dei tassi di mortalità per causa eviden-ziava una percentuale di decessi molto maggiore perle malattie del sistema circolatorio rispetto a quelleascrivibili ai tumori (rispettivamente 41,5 decessi per10.000 abitanti nel 2002 contro 28.5 per 10.000). Inaltri termini, il dato significativo che emerge dalla ri-cerca è che la comparazione tra le paure percepiteè avulsa dall’incidenza statistica delle patologie mor-tali. A spiegare questa forte differenza tra timori ed in-cidenza delle cause di morte sta il fatto che da un latole neoplasie costituiscono il principale fattore di de-cesso in fascia d’età inferiore ai 75 anni, (possono es-sere quindi associate a decessi inaspettati in giova-ne età), e dall’altro lato possiedono natura spessoasintomatica, silenziosa, trasversale, determinandouna forte ricaduta emotiva ed un impatto sociale stig-matizzato.

Parlare di emergenza in oncologia significa allora parla-re di quegli aspetti della malattia, ma anche delle relazioniche intercorrono tra pazienti, familiari, medici ed istituzioni,1) che hanno potenzialità traumatiche e si presentano:

- oggettivamente come aggressivi, traumatici, - soggettivamente come imprevisti/inaspettati ed im-

provvisi,- stereotipicamente, culturalmente gravi e temibili;

2) che possono indurre uno stato di crisi, acuto e/o cro-nico, più o meno a seconda dei fattori di rischio biop-sicosociali, e quindi delle caratteristiche personali deipazienti o dei soggetti coinvolti, del loro eventuale sta-to pre-morboso, della rete sociale, della qualità dellarelazione medico-paziente-istituzione;

3) che soprattutto hanno bisogno di interventi non soloimmediati ma sostenuti longitudinalmente, dalla pre-ospedalizzazione alla post-dimissione, efficaci, di ri-soluzione stabile, ma anche preventivi dell’esordio sul-l’evoluzione.

1) Le potenzialità traumatiche dell’evento oncologico

Si definiscono nello specifico in rapporto: • alla sua gravità oggettiva, da quanto cioè minaccia la

vita e la sua qualità. In letteratura la malattia oncolo-gica è considerata uno di quei “life events” oggettiva-mente gravi perché universalmente eccezionali nel cor-so dell’esistenza di un individuo, stressanti, dolorosie a rischio di vita o della sua integrità;

• alla gravità soggettiva ed individuale. Essa dipende daquanto la persona è preparata ad interagire con la ma-lattia, quindi dalla presenza e conoscenza probabili-stica dei fattori di rischio soggettivo per la persona, dal-le precedenti esperienze di vita ad alto impatto di stress,dalle risorse psicologiche e sociali maturate per gestirle,dai costrutti personali e culturali di valore. In partico-lare la gravità soggettiva dipende da quanto la malattiaoncologica si presenta alla persona come:•• imprevista, inaspettata, non rientra cioè nel calcolo

delle probabilità immaginate degli eventi di vita, so-prattutto per particolari cicli di vita. Questa condi-zione rende conto degli stati di ansia generalizzatache si osservano nei pazienti anche dopo la gua-

rigione dalla malattia: il soggetto non è in grado dirassicurarsi perché manca della certezza proba-bilistica in quanto i ragionamenti probabilistici o sisono rivelati fallaci al momento dell’esordio dellamalattia, o non sono mai stati formulati;

•• improvvisa, coglie cioè la persona, il suo stato psi-cofisico, la sua mente, il suo corpo, impreparati.Questa condizione rende conto invece degli sta-ti di allerta ed iper-arousal acuti e/o cronici, con-tingenti o prossimi alla malattia, a volte di attacchidi panico, o anche di molti sensi di colpa dei sog-getti oncologici, perché ciò che risulta a loro fal-lace ed inaffidabile è il proprio sistema percettivo.Esso potrebbe, nell’idea del paziente, non aver se-gnalato in tempo utile eventuali sintomi o prodro-mi della malattia prima che questa si esprimessein modo conclamato. Il meccanismo è tale per cuiin seguito all’apprendimento della fallacia senso-riale, si sviluppa un’ipersensibilità ai segnali somaticiche farebbe percepire anche come più alta la pro-babilità che possa accadere nuovamente qualco-sa. I segnali cominciano ad identificarsi con la ma-lattia stessa, ma siccome questa non correla ne-cessariamente con i segnali quando i sistemi di al-lerta vengono stressati, il paziente viene a trovarsinella disperata condizione di non essere “padro-ne della situazione” ed avverte con i sistemi di al-lerta in tilt un forte senso di impotenza. Da qui lapaura costante ed inconsolabile di una recidiva, op-pure l’espressione di comportamenti ipocondria-ci e la ricerca assidua di informazioni sul propriostato, la crisi abbandonica vissuta nei confronti deimedici al momento delle dimissioni ed il succes-sivo attaccamento nei loro riguardi. Sul versanteopposto si possono osservare anche comporta-menti di fuga/evitamento da luoghi e persone, con-dizionate ai significati soggettivi di impotenzaalla malattia e condizionanti perciò somatizzazio-ni d’ansia postume. Tali evitamenti avrebbero in-fatti la funzione di innalzare la soglia di attivazio-ne della risposta da iper-arousal ma sono soste-nuti da una soglia di risposta dello stato di allar-me molto bassa;

• al modo in cui si verifica la malattia, con riferimento siaa come ha impattato l’individuo sia alla sua condizio-ne di preparazione.

L’interazione di questi primi tre fattori a sua volta influenzao può essere quindi influenzata da:- la percezione somatica, più o meno aggressiva e do-

lorosa dell’esordio clinico della malattia; - la percezione della gravità oggettiva della malattia e

di ciò che essa comporta per il soggetto sul piano biop-sicosociale;

- la percezione degli stereotipi dell’immaginario collet-tivo riguardo alla malattia prima di esserne coinvolti eche i soggetti possono aver maturato attraversoesperienza vicaria e le paure da essa evocate in modopiù o meno condizionato, più o meno tacito;

- la presenza o assenza di altre esperienze preceden-ti di malattia che possono aver aiutato la persona adesplorare e consolidare strategie più o meno funzio-nali di coping, cioè di gestione ed adattamento di fron-te al processo di malattia e guarigione possibile;

- gli stati premorbosi o psicopatologici che riguardano

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Modelli per la mente 2010; III (3): 23-36 25

L’area dell’emergenza-urgenza e della psicotraumatologia oncologica

la persona e preesistenti alla malattia, che sempre necondizionano la percezione e gestione;

- la conoscenza dei fattori di rischio;- l’alone di non concernenza della malattia, quando per-

cepita come evento grave. Esso si esprime più fre-quentemente nella domanda: “perché proprio a me?”.Secondo Castrogiovanni e Traverso (2006), l’alone dinon concernenza potrebbe essere assunto come nu-cleo della traumaticità, “poiché accomuna il contenu-to dell’evento alle modalità con cui esso ha investitol’individuo: il primo, il contenuto che verrebbe quindia connotarsi per la sua eccezionalità, o universale oalimentata individualmente dal rifiuto, difensivo erassicurante, di riconoscere le probabilità per sé del-l’evento stesso, e quindi la concernenza dell’eventoin sé; la seconda, la modalità, improvvisa e non pre-vista dal sistema di rassicurazione probabilistica delsingolo, che non consente di costruirsi, volenti o meno,nel necessario tempo, la concernenza dell’evento nelmomento in cui si sta verificando…più ampio è l’alo-ne di non concernenza, più alto è il rischio che gli even-ti acquistino, nel singolo o nella sua cultura, potenzialitàtraumatiche” (pag. 141). Quand’anche perciò la malattia oncologica perdesseil suo attributo di eccezionalità per via della norma-lizzazione che gli stereotipi sociali o le stesse espe-rienze pregresse vicarie e personali possono avernematurato, viene tuttavia a riacquisirlo, non più in sen-so di eccezionalità universale, ma di eccezionalità in-dividuale, come di qualcosa che esce dalla prevedi-bile esperienza di quel particolare momento;

- quindi, dai processi di elaborazione cognitiva e di sim-bolizzazione soggettiva, che negoziano una dialetticatra costrutti personali e culturali di valore in riferimentoall’evento possibile di malattia;

- dalle risorse sociali, comprese quelle di accoglienzaed assistenza all’interno dei setting medesimi di cura(presenza di associazioni di volontariato, psicologi, at-tività di umanizzazione…, servizi che consentono divivere i luoghi di cura, non più come aree di sosta esospensione, ma di continuità rispetto a qualche set-tore della vita quotidiana. Possibilità per esempio peri pazienti di vedere film, di svolgere attività creativecome pittura, musica, ecc…).

2) Lo stato di crisi nell’emergenza psicologica in onco-logia

Tradizionalmente nella letteratura psicologica si definisce“crisi” quel momento particolare di scompenso dell’equi-librio biopsicosociale di una persona, in cui le domande“emergenti” superano di gran lunga le risorse disponibiliper far fronte ad esse e richiedono al soggetto la mobili-tazione di altre strategie, “nuove, inusuali, o difficilmentefruibili” (Cusano, Napoli, in Giannantonio 2003, pag.230). Rispetto alla precedente definizione di emergenzaproposta dal FEMA, l’introduzione del concetto di stato dicrisi aggiunge una considerazione su:- le circostanze scatenanti;- i processi di coping, cioè di adattamento e gestione del-

l’emergenza critica e quindi di reazione più o meno fun-zionale al suo superamento da parte del soggetto;

- la mobilitazione delle risorse, intesa sia come attiva-zione di quelle già possedute ma bloccate nel soggettoper via degli eventi, sia come esplorazione di nuove.

La criticità dello scompenso è spesso raccontata nei vis-

suti di chi ha affrontato una malattia oncologica come unoshock iniziale. Questo rappresenta una discontinuità o unainterruzione della fluidità degli stati di coscienza del sog-getto esposto ad una crisi. Si raccolgono evidenze di que-sto tipo tutte le volte che in una qualunque fase della ma-lattia oncologica il paziente riferisce di aver modificato ilsenso non solo della propria progettualità futura, ma an-che quello degli scopi inseguiti nel passato. Non sono rarigli esempi in cui, in seguito alla diagnosi di una malattiagrave, i pazienti sentano il bisogno di confessare eventi del-la propria vita mai confessati prima ai propri coniugi, o diriparare a tali eventi ed ai correlati sensi colpa (per esem-pio tradimenti coniugali passati), o stimino diversamentei propri compagni di una vita (prima idealizzati e poi rap-presentati come incapaci di sentire il dolore di chi lo vive,di condividerne l’aspetto intrinsecamente più esistenzia-le). Né è raro ascoltare pazienti che percepiscono un sen-so di vuoto, di anedonia di disorientamento spazio-tem-porale e non hanno più una chiara definizione delle pro-prie preferenze, desideri e priorità. Tutto ciò scompensaquindi, oltre all’assetto psicofisico del paziente, anche lesue relazioni familiari, sociali, professionali, i ruoli agiti inesse fino a quel momento. Lo shock iniziale può presen-tarsi in seguito ad una qualunque delle circostanze che ri-guardano la malattia oncologica ed il suo iter di guarigio-ne. La situazione emblematica è quella della diagnosi, mapuò realizzarsi ancora in fase di pre-ospedalizzazione edaccoglienza, quando il soggetto impatta con la struttura,la sente estranea e magari ci si perde sentendosi disso-ciato dalla realtà. Oppure in fase post-chirurgica, quandopur avendo superato un intervento di asportazione comenella mastectomia, la persona altera la percezione dellapropria immagine corporea e non si riconosce più, o hadisagi di adattamento nei postumi operatori che possonoesacerbare le richieste al personale sanitario infermieri-stico, rendere sgradevoli le interazioni reciproche e far ma-turare un senso di costrizione ed impotenza traumatiche.Per non parlare poi degli scenari chemioterapici, o delleradioterapie nucleari che prevedono soste di isolamentopiù o meno prolungate nel tempo. Lo shock iniziale è me-diato sin dall’inizio dalle caratteristiche di personalità, da-gli stati psicopatologici pre-morbosi, esperienze pregres-se di malattia e/o stress, dalle risorse sociali, dal copyngin senso stretto più o meno funzionale e quindi evolve suc-cessivamente secondo uno schema più volte descritto inletteratura e ripreso da Culberg (1975) in:- fase dell’impatto:

shock, reazioni fisiologiche, reazioni adeguate o ina-deguate con stati confusionali e in qualche caso bre-vi episodi psicotici. Questi stati rendono conto per esem-pio della percezione catastrofica di una diagnosi di can-cro;

- fase della reazione: recupero della lucidità, partecipazione emotiva o re-gressione verso comportamenti infantili, dipendenza,passività, difese maniacali, proiezioni, isolamento;

- fase di elaborazione:si avvia un processo di riflessione sulla propria vita edi indebolimento o cambiamento della progettualità;

- fase di riorientamento: vi è la messa in atto di strategie di copying, si intra-vede una risposta di adattamento di riorganizzazio-ne o espressione dei sintomi a distanza di tempo dal-l’evento.

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In generale nella fase di reazione c’è un alto grado di flui-dità delle reazioni emotive, con alterazioni dell’umore, percui si passa da uno stato di abbattimento ad uno quasi dieuforia. Le fasi chirurgiche, per esempio, sono spesso vis-sute con energia, senso di attivazione, ma possono na-scondere rimozioni dell’angoscia di dolore, per sé e per ifamiliari, o addirittura di morte, che vengono a galla in unsecondo tempo e fanno precipitare la persona in stati disconforto e pessimismo diffuso. Questa fluidità rende con-to di una distribuzione temporale delle reazioni lungo duedimensioni: una più contingente agli eventi, per cui le rea-zioni hanno forme acute, l’altra più differita per cui esseassumono forme di risposta croniche. La risoluzione del-la fase di adattamento e riorganizzazione dipende fon-damentalmente dai fattori ed i processi che contribuisco-no all’accettazione costruttiva.

3) Interventi sulla crisi ed emergenza oncologicaSi comprende come l’emergenza in oncologia sia deter-minata da una funzione multivariata di variabili poten-zialmente traumatiche e/o critiche dell’evento malattia, inparte autonome ed in parte interdipendenti.Attivarsi ed intervenire in funzione dell’emergenza onco-logica vuol dire perciò arginare uno stato di crisi, non soloquando vi sia evidenza di una precipitazione dello statopsicofisico del paziente, quando si possa osservare unodei disturbi dello spettro post-traumatico da stress e/o del-lo stesso PTSD conclamato, ma anche e soprattutto quan-do si rilevino fattori di rischio della crisi o di un PTSD sot-tosoglia. Questo implica, oltre al lavoro terapeutico, pureun lavoro su un piano preventivo e trasversale a tutte lefasi della malattia oncologica, di tipo sia informativo/psi-coeducazionale ai pazienti ed agli operatori sanitari sui me-desimi fattori di rischio e disturbi del PTSD sottosoglia,sia tecnico contenitivo quando quei fattori di rischio sia-no stati rilevati.Possono essere perciò realizzati:- interventi preventivi.

Si articolano attraverso formazioni psicoeduca-zionali per gli operatori sanitari in grado di renderlicapaci di riconoscere i fattori di rischio ed i segnaliclinici e relazionali, prodromi di un disturbo psi-copatologico e/o dello spettro post-traumatico dastress e del PTSD medesimo. La capacità di ri-conoscere tali indicatori consente di sollecitare laconsulenza da parte di psichiatri e psicoterapeu-ti per una valutazione più specifica e la presa di de-cisioni terapeutiche appropriate, se necessarie. Inrealtà la prevenzione maggiore è quella di informareil paziente nel modo più utile ed accettabile per lui.Questo consente alla persona di integrare le in-formazioni corrette, fornite da medici e psicologi,con quelle già da lui possedute e spesso distor-te, o addirittura non possedute. In realtà ancora mol-to spesso il paziente non è sufficientemente beninformato sulla sua malattia e l’iter terapeutico, sul-le opzioni di scelta terapeutiche ed il loro iter. Que-sto comporta grossi rischi di traumatizzazione ag-gravati dal fatto che l’evoluzione della malattia stes-sa non è sempre facilmente prevedibile nemme-no per i medici;

- interventi psicofarmacologici.Sono di competenza della psichiatria;

- interventi psicotraumatologici.

Si considera che l’EMDR sia lo strumento eletti-vo per i disturbi dello spettro psicotraumatico. Ver-rà presentato nei paragrafi successivi;

- un servizio di emergenza urgenza 24/24 che possa in-tervenire sulle situazioni critiche in tempo reale attra-verso il più opportuno degli interventi precedenti.

Che cosa significa parlare di psicotraumatologia clinica in oncologia?

Significa in primo luogo introdurre due concetti, quello dievento traumatico e di trauma, in secondo luogo consi-derare la malattia oncologica come un evento di vita conun forte rischio di “traumatizzazione” ed infine significa trat-tare tale rischio con gli strumenti clinici operativi della psi-cotraumatologia.L’evento di una malattia oncologica nella vita di una per-sona è spesso descritto sia nella letteratura scientifica chenei resoconti dei pazienti e dei loro familiari come un “even-to traumatico”. La condivisione del concetto di evento trau-matico nei linguaggi di pertinenza scientifica e di quelli del-l’esperienza idiosincratica soggettiva nasce dallo specifi-co significato di minaccia alla propria vita che la malattiaoncologica evoca nel vissuto di chi l’attraversa. Più sin-teticamente alcune riviste scientifiche assumono che “è trau-matico quell’evento che determina un PTSD” (Castrogio-vanni, Traverso; 2006, pag. 125). Di uso più ambiguo è invece il termine “trauma”. In essospesso si annovera:- sia il significato del linguaggio ordinario di “evento trau-

matico”, cioè di un evento che possiede la proprietàdi traumatizzare, che ha caratteristiche di universali-tà e gravità e che può quindi implicare morte, o minacciadi morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fi-sica propria o di altri. Date queste implicazioni, le ca-ratteristiche di universalità e gravità dell’evento trau-matico sono inoltre tali da potersi accompagnare adespressioni e forme soggettivamente diverse della trau-matizzazione - (per esempio una calamità naturale, cuipuò seguire un disturbo post-traumatico da stress, undisturbo acuto da stress, un disturbo dell’adattamen-to, un disturbo d’ansia da separazione) -;

- sia il significato di vissuto traumatico soggettivo che puòmanifestarsi nelle stesse eventuali forme sintomato-logiche della traumatizzazione, prodotta dagli “eventioggettivamente traumatici”, senza perciò essere ne-cessariamente e contingentemente derivate da un even-to solitamente, universalmente, cosiddetto “traumatico”(per esempio la perdita del lavoro può essere imme-diatamente seguita da un trauma, ovvero da una co-stellazione di sintomi annoverati nell’ambito dello spet-tro dei disturbi post-traumatici da stress, fra cui la co-mune percezione di una minaccia alla propria vita, sen-za che con ciò la perdita di lavoro rappresenti in sé unrischio imminente di morte della persona. Diversamente,può capitare che un abuso sessuale, che di per sé im-plica una minaccia nonché un danno alla salute ed allavita della persona, susciti una forma di trauma o di vis-suto traumatico solo a distanza di anni dal suo acca-dimento). In altri termini, la definizione del vissuto trau-matico è sostenuta da costrutti come quelli di:✓ Imprevedibilità e perdita di controllo (Cantor,

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L’area dell’emergenza-urgenza e della psicotraumatologia oncologica

✓ Vulnerabilità ( “Stress traumatico” a cura di Van derKolk et al., 2005)

✓ Trauma e significato (Cantor, 2005)✓ Scopo. Per comprendere cosa sia psicologicamente

traumatico, bisogna conoscere quali obiettivi di basela mente persegua oltre a quelli dell’incolumità: unevento o catena di eventi sono traumatici se li osta-colano gravemente, durevolmente o imprevedibil-mente. Traumatico diventa tutto ciò che nega i va-lori evoluzionistici in maniera durevole, impreve-dibile, incontrollabile, improvvisa. Così la diagno-si di cancro e l’iter terapeutico che comporta puòinterferire o bloccare o sospendere tutta una se-rie di attività e piani d’azione, che la persona sta-va percorrendo per raggiungere scopi tipici del pro-prio ciclo di vita o interni alle proprie relazioni quo-tidiane.

Ciò vuol dire che mentre un “evento traumatico” potreb-be non essere seguito dallo sviluppo di un trauma, o evi-denziare un vissuto di “trauma”, il trauma invece dovrebbeavere sempre dietro di sé un evento traumatico o perce-pito dal soggetto come tale, anche quando l’evento nonsia di per sé potenzialmente traumatico.In altri termini la malattia oncologica è un evento di vita conforte “rischio” di traumatizzazione per tre fondamentali ra-gioni:1. perché possiede le caratteristiche dell’evento trau-

matico, nel senso specifico di esperienza che implicaoggettivamente ed universalmente una minaccia di mor-te, gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica pro-pria o di altri;

2. perché a tale tipo di evento potrebbe seguire un trau-ma nel senso di vissuto soggettivo traumatico con i di-sturbi dello spettro post traumatico da stress;

3. perché tale traumatizzazione può:- sia essere acuta, cioè immediatamente successiva

all’evento, come quando alla diagnosi di cancro se-gua uno dei disturbi dello spettro post-traumaticoda stress,

- sia essere sottosoglia e slatentizzarsi o esprimersiin differita nel tempo attraverso configurazioni sin-tomatologiche uguali o diverse dal PTSD e non-dimeno limitanti per la persona. Per esempioquando, pur non avendo uno shock alla diagnosio pur avendo superato la malattia con adeguatestrategie di coping e compliance nelle sue varie fasi,si cominciano ad osservare reazioni forti d’ansia,disturbi del sonno, dell’umore, pensieri intrusivi, sen-si di impotenza, evitamenti ai controlli medici peruna paura di recidiva a distanza di tempo dalla ma-lattia medesima.

La malattia oncologica è quindi uno degli eventi trauma-tici a cui più frequentemente, prima o dopo è correlato undisturbo dello spettro post-traumatico da stress.Il DSM-IV elenca sei criteri per la formulazione di una dia-gnosi di disturbo post-traumatico da stress.

A. La persona è stata esposta ad un evento traumaticonel quale erano presenti entrambe le caratteristi-che seguenti:1. La persona ha vissuto, ha assistito, o si è con-

frontata con un evento o con eventi che han-no implicato morte, o minaccia di morte, o gra-vi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica pro-pria o di altri.

1. La risposta della persona comprendeva pau-ra intensa, sentimenti di impotenza o di or-rore.

Da osservare che la malattia oncologica secondoil criterio A1 rimane un “evento traumatico” a pre-scindere dalla condizione A2, che rappresenta larisposta della persona.

B. L’evento traumatico viene rivissuto persistentementein uno (o più) dei seguenti modi:1. Ricordi spiacevoli ricorrenti ed intrusivi del-

l’evento, che comprendono immagini, pensierio percezioni.

2. Sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento.3. Agire come se l’evento traumatico si stesse ri-

presentando (ciò include sensazioni di rivive-re l’esperienza, illusioni, allucinazioni, ed epi-sodi dissociativi di flashback, compresi quelliche si manifestano al risveglio o in stato di di-sintossicazione).

4. Disagio psicologico intenso per esposizione afattori scatenanti interni o esterni che simbo-lizzano o assomigliano a qualche aspettodell’evento traumatico.

5. Reattività fisiologica o esposizione a fattori sca-tenanti interni o esterni che simbolizzano o as-somigliano a qualche aspetto dell’evento trau-matico.

C. Evitamento persistente degli stimoli associaticon il trauma ed attenuazione della reattività ge-nerale (non presenti prima dell’evento traumatico)come indicato da tre (o più) dei seguenti elemen-ti:1. Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o con-

versazioni associate con il trauma2. Sforzi per evitare attività luoghi o persone che

evocano ricordi del trauma3. Incapacità di ricordare qualche aspetto im-

portante del trauma4. Riduzione marcata dell’interesse o della par-

tecipazione ad attività significative5. Sentimenti di distacco od estraneità verso gli

altri6. Affettività ridotta (per esempio incapacità di pro-

vare sentimenti d’amore)7. Sentimenti di diminuzione delle prospettive fu-

ture (per esempio aspettarsi di non poteravere una carriera un matrimonio o dei figli ouna normale durata della vita).

D. Sintomi persistenti di aumentato arousal (non pre-senti prima dell’evento traumatico) come indicatoda almeno due dei seguenti elementi:1. Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il

sonno2. Irritabilità o scoppi di collera3. Difficoltà a concentrarsi4. Ipervigilanza5. Esagerate risposte di allarme

E. La durata del disturbo (sintomi ai criteri B, C,e D,)è superiore a 1 mese.

F. Il disturbo causa disagio clinicamente significati-vo o menomazione nel funzionamento sociale, la-vorativo o di altre aree importanti.

• Acuto: se la durata dei sintomi è inferiore ai 3 mesi.• Cronico: se la durata dei sintomi è 3 mesi o più.

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A È da notare che il fattore A, implicando la presenza di unevento traumatico, configura il PTSD come unico disturbodi cui sia riconosciuto o di cui sia possibile assumere un agen-te eziologico. Ciò richiama necessariamente l’attenzione del-la psichiatria che, come tutte le discipline mediche, può di-chiararsi interessata alla conoscenza dei fattori eziologici“non solo per finalità diagnostiche, ma anche epidemiolo-giche, terapeutiche, preventive” (Castrogiovanni, Traverso,2006, pag. 125). Il criterio A1 allarga però la rosa degli even-ti in grado di dare un PTSD (la persona ha vissuto, ha as-sistito o si è confrontata…), sfuma la loro gravità che per-de la connotazione generale, universale di eccezionali e lilimita a situazioni pericolose fisicamente. Il criterio A2 poirende la gravità dell’evento, previsto nel criterio A, neces-saria ma non sufficiente al PTSD, perché introduce il rico-noscimento di aspetti soggettivi idiosincratici che rendonoconto della gravità dell’evento solo nello specifico singolocaso. La perdita dei capelli non è per tutte le donne un even-to soggettivamente grave: c’è anche chi omologa l’assen-za di capelli ad un fatto di moda. Delle tre principali rispo-ste della persona all’evento traumatico descritte nel crite-rio A2, paura intensa sentimenti di impotenza o di orrore,la seconda sembra rappresentare maggiormente lo statomentale prevalente dei pazienti oncologici. L’esordio spes-so subdolo e/o aggressivo, ma anche eccezionale della ma-lattia oncologica all’interno del ciclo di vita della persona,non consente alla maggior parte dei soggetti di anticipar-ne la minaccia, il pericolo, la gravità e le misure difensive.Poiché solo l’impotenza, non la paura e non l’orrore, apparecorrelare con la gravità dei sintomi del PTSD, “essa sem-bra sostenere il modello che sottolinea il significato eziologicodella non prevedibilità e non controllabilità dell’evento trau-matico” (Foa EB. et al., 1989). Il soggetto fa esperienza difallimento dei propri sistemi di allerta, questi diventano perlui inaffidabili rispetto agli eventi futuri. Quindi essi cesse-ranno di svolgere la loro funzione e diventeranno via via sem-pre più vulnerabili per altri traumatismi: l’apprendimento ge-nerale che ne risulterà sarà per l’appunto un più diffuso sen-so di impotenza (helpnessness). Dall’impotenza appresa allarabbia impotente il passo è breve: il paziente traumatizza-to, sicuro di non poter fare nulla da solo, si aspetta che siaqualcun altro a farlo star bene, investe medici, operatori sa-nitari a volte anche i familiari di poteri salvifici e doveri chepotrebbero non competere loro. Si sviluppano così convinzionie pretese altre dove l’impotenza appresa non genera co-munque l’abbandono dello scopo di sopravvivenza e qua-lità di vita. Opposto è invece il caso di quei pazienti, che con-vinti pure loro di non poter fare nulla da soli, appreso un for-te senso di impotenza, temono di dover dipendere dai fa-miliari o gli stessi operatori medici, o, se percepiscono di ri-schiare la vita temono il dolore che possono infliggere a loro:ne segue che la rabbia è prevalentemente diretta in molticasi verso se stessi a cui si aggiunge un ritiro comunicati-vo e relazionale che ha le caratteristiche dei sintomi del-l’evitamento o più spesso della rinuncia dello scopo di so-pravvivenza e qualità di vita. Il paziente oncologico, che per-ciò abbia avuto uno shock iniziale durante l’esposizione al-l’evento traumatico, in seguito alla fallacia del sistema di al-lerta ed alla conseguente frammentarietà del dato senso-riale, ad esempio la lettura di un referto medico, il camicebianco, un odore tipico dei farmaci, affronterà qualunque al-tro momento dell’iter terapeutico con un senso di costrizione,rabbia, metterà in atto reazioni di evitamento, ottundimen-to, iper-arousal, sarà paradossalmente esposto ad intrusioni

cognitive e mnestiche… come flash-back, incubi, o cercherà,come pure potrebbe non farlo affatto, rassicurazioni conti-nue nelle forme di dipendenza da medici e familiari e del-la ricerca di informazioni sul proprio stato clinico. Darà cioèevidenza dei sintomi elencati negli altri criteri diagnostici peril PTSD secondo il DSM-IV.Tuttavia si riscontrano durante e dopo le fasi di ospeda-lizzazione quadri psicopatologici diversi dal PTSD dove iltrauma però svolge un ruolo eziologico e/o patogeneticodeterminante. Si tratta cioè molto spesso di patologie chedefiniscono lo “spettro post-traumatico” o un PTSD sot-tosoglia.Horowitz (1997) include nello spettro post-traumatico di-sturbi clinicamente molto vicini al PTSD: i disturbi disso-ciativi, il Disturbo Bipolare di personalità, la Depressionepost-traumatica, il lutto normale e patologico, il Disturboacuto da stress, il Post Traumatic Character Disorder, i Di-sturbi dell’Adattamento, la Psicosi reattiva breve, alcunefobie specifiche, come la fobia sociale, disturbi somatoformi.Rispetto a una possibile diagnosi differenziale tra distur-bo acuto da stress e un disturbo post-traumatico da stressva tenuto in considerazione il fatto che mentre nel primosi possono osservare sforzi da parte dei pazienti, più omeno consapevoli, e più o meno orientati specificamen-te alla gestione, all’adattamento funzionale nella malattia,indipendentemente dall’eventualità che questo riesca, nelsecondo invece si osservano più frequentemente una fasedi shock e meccanismi che potremmo chiamare anche didifesa, e che bloccano abbastanza a lungo la gestione deiproblemi e l’elaborazione dei vissuti pertinenti.Per quanto invece riguarda i sintomi del PTSD sottosogliasi ritiene che possano rappresentare o i prodromi di unasituazione completa o i sintomi residui di un PTSD in re-missione parziale. Nel primo caso i soggetti che reagisconoal trauma con sintomi dissociativi sono ad alto rischio diPTSD conclamato (Yehuda, 1998). Nel secondo caso in-vece, individui con sintomi residui potrebbero sviluppareuna sindrome completa in seguito a traumi successivi, piùfacilmente rispetto ai soggetti che presentano una guari-gione completa dai sintomi e una piena ripresa funzionale(Marshall e al.; 2001).La ricerca dovrebbe indagare se lo sviluppo di un PTSDo di un altro disturbo dello spettro dipenda da specifichevulnerabilità o da fattori come il sesso e l’età, in cui si espri-me la malattia oncologica, ed analizzare il rapporto tra fasedella malattia e/o correlato processo di guarigione e tipodi disturbo traumatico ad esso conseguente. Evidenze pre-liminari di una ricerca condotta presso l’IRE-ISG (Ca-pezzani, in preparazione) mostrerebbero per esempio cheil PTSD è più frequente nelle forme acute nelle fasi di pre-ospedalizzazione e degli accertamenti diagnostici, nelleforme croniche nelle fasi di follow-up postume alla dimis-sione, mentre durante le fasi di ospedalizzazione in regi-me di ricovero sarebbero più frequenti PTSD sottosogliae disturbi dello spettro post-traumatico.Ad ogni modo, dall’analisi dei criteri diagnostici del DSM-IV emerge una visione di contenuto e longitudinale delPTSD, ma anche dei disturbi dello spettro post-traumati-co da stress, che legittima per l’ambito oncologico anco-ra una volta la necessità e l’urgenza di un intervento siadi prevenzione primaria che di tipo terapeutico secondogli strumenti concettuali e tecnici applicativi, specifici del-la psicotraumatologia. Tale legittimazione di intervento ri-sulta funzionale non solo ai pazienti nelle varie fasi della

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malattia, ma anche ai loro familiari, se necessario, e aglioperatori sanitari che si occupano di loro. Sebbene in Italia vi sia sufficiente letteratura psichiatricae psicologica che concorda nel vedere la malattia onco-logica come un evento traumatico ed un trauma, tuttaviaè scarsa quella che documenta l’uso in oncologia degli stru-menti psicotraumatologici. Per questo, sull’onda dei processi di umanizzazionepresso l’IRE-ISG di Roma è stato ritenuto opportuno ave-re un’area dedicata all’emergenza e alla psicotraumato-logia oncologica che possa intervenire trasversalmente ri-spetto alle altre aree di supporto alla persona, quella del-l’accoglienza, della prossimità, quella clinica e quella de-dicata alla formazione degli operatori sanitari, in modo ef-ficace in termini di rapidità dei risultati e stabilità dei me-desimi. Tra gli strumenti clinici di cui quest’area può avvalersiin modo sicuramente trasversale abbiamo quello del-l’EMDR, della psicoterapia sensorimotoria e quello dellanegoziazione, che deve poter essere gestito da una figurapsicologica capace di mediare durante situazioni di stressconflittuale intra-ospedaliero.

L’EMDR: strumento elettivo per la psicotraumatologia oncologica

L’EMDR

Ideato da Francice Shapiro nel 1989 (1989, a), l’EMDR (EyeMovement Desensitation Reprocessing) è stato riconosciutodall’International Society for Traumatic Stress Studies(Chemtob, Tolin, Van der Kolk & Pitman, 2000) e dallo Uni-ted Kingdom Department of Health (2001) trattamento ef-ficace per il PTSD con una classificazione A/B. Molti stu-di attestano una significativa riduzione, tra il 70% ed il 90%della sintomatologia legata alla diagnosi di PTSD (Marcus,Marquis, Sakai 1997; Rothbaum, 1997; Wilson, Beker, Tin-

ker, 1997), compresa una rapida riduzione dei sintomi(Scheck, Schaeffer, Gillette,1998), e che l’EMDR abbia lastessa efficacia della Terapia Cognitivo Comportamenta-le ma con un numero minore di recidive lungo due annidi follow-up. Anche l’American Psychological Associationha affermato nel 2002 che sembrano esserci ormai datisufficienti per considerare l’EMDR un trattamento effica-ce del PTSD in popolazioni civili. Tra le ricerche di letteratura che possono essere citate, al-cune fra le più importanti sono quelle di• Bisson J. et al. 2007

L’EMDR è insieme alla TFCBT la più efficace per ilTFCBD

• Van der Kolk B. et al. 1997Scansioni pre/post trattamento indicano migliora-menti a livello neurofisiologico

• Studi di neuroimaging (Spect) prima e dopo EMDRDurante EMDR si dimostra una maggiore attività delgiro cingolato anteriore e del lobo frontale sinistro

• Heber, Kellner, Yehuda, 2002Aumento e normalizzazione dei livelli basali di corti-solo dopo il trattamento con EMDR.

EMDR è l’acronimo di Eye Movement Desensitation Re-processing, cioè riprocessamento desensibilizzante at-traverso il movimento bilaterale degli occhi. Vediamo neldettaglio.Che cosa viene riprocessato? Vengono riprocessate tut-te quelle informazioni di un evento traumatico – (memo-rie traumatiche) – che, in seguito a fenomeni di dissocia-zione traumatica rimangono isolate dal resto della rete mne-stica neurale e sono private perciò della naturale inte-grazione con altre informazioni. Tali componenti riguardanoquattro aspetti:- Aspetti percettivi: l’immagine peggiore dell’evento- Le cognizioni negative innescate dall’evento- Le emozioni negative - Le sensazioni fisiche disturbanti

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LE COMPONENTI DELLA MEMORIA TRAUMATICA:Un esempio in oncologia

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Questo riprocessamento nello specifico si sviluppa in ottofasi:1) Anamnesi e pianificazione della terapia: sono valuta-

ti i fattori di sicurezza, l’idoneità del soggetto all’EMDRe gli obiettivi dell’intervento.

2) Preparazione: è la fase in cui si crea l’alleanza tera-peutica, si danno spiegazioni del processo e degli ef-fetti dell’EMDR, si gestiscono le preoccupazioni, e siiniziano le procedure di stabilizzazione, rilassamentoe sicurezza.

3) Assessment:- Identificazione degli elementi del target- Individuazione dell’immagine peggiore, cioè del trig-

ger traumatico- Individuazione della cognizione negativa- Individuazione della cognizione positiva- VOC: validità della cognizione positiva- SUD: unità di disagio soggettivo- Individuazione dell’emozione associata all’imma-

gine ed alla cognizione negativa- Individuazione delle sensazioni fisiche, delle aree

somatiche maggiormente sensibili all’emozione.4) Desensibilizzazione: si ripetono i set di movimenti ocu-

lari fino a che il SUD è 0 o 1.5) Installazione: ci si concentra sull’installazione e sul-

l’aumento della forza della cognizione positiva.6) Scansione corporea: focalizzandosi sia sul trigger del-

l’evento target sia sulla cognizione positiva, si esplo-ra mentalmente il proprio corpo dall’alto in basso perindividuare eventuali sensazioni di disagio residue.

7) Chiusura: si registra quello che emerge tra una sedutae l’altra.

8) Rivalutazione: all’inizio di ogni seduta si rivaluta il tar-get precedente.

“Individuati i quattro tipi di informazioni, si chiede al pazientedi valutare-attraverso una scala di misurazione soggetti-va, la SUD- il livello di disagio percepito di fronte al ricor-do. Si individua anche una cognizione positiva da affian-care al ricordo (come obiettivo ideale) e se ne valuta l’ade-sione del paziente attraverso una scala di misurazione sog-gettiva, la VOC. Il paziente viene quindi invitato a con-centrarsi sul ricordo ed intanto a seguire una stimolazio-ne bilaterale visiva o tattile o acustica. Periodicamente ven-gono eseguite le misurazioni soggettive del disagio per-cepito. I ricordi disturbanti hanno così un’alterazione: l’im-magine tende a cambiare nei contenuti, nel modo in cuisi presenta, i pensieri intrusivi in genere si attutiscono ospariscono, le cognizioni del paziente diventano più adat-tative e le emozioni e le sensazioni fisiche disturbanti si at-tutiscono. Soprattutto sembrano crescere le capacitàmeta-cognitive del paziente, di riflettere sull’evento, cosìda ricordarlo o pensarlo secondo prospettive nuove.” (Ono-fri, 2008). Aumenta inoltre il senso di fiducia e di maste-ring del paziente, con una ricaduta, per quanto riguarda lamalattia oncologica, sulle modalità di coping ad essa e diaderenza ai trattamenti e controlli diagnostici.Schematicamente gli esiti dell’EMDR riguardano:

- Aspetti fenomenologici.Nell’immediato i pazienti riferiscono di non riuscirepiù a mettere a fuoco l’immagine target, di vederlalontana in senso spazio/temporale di percepirsicome fuori dalla scena, osservatori e non più at-tori della medesima. Ricollocazione dell’eventonel passato.

- Aspetti somatici.Scomparsa o riduzione (frequenza durata in-tensità) degli aspetti sintomatologici nei confrontidel ricordo, aumento del volume del corpo cal-loso, normalizzazione dei livelli di cortisolo.

- Aspetti emotivi.Il ricordo della scena non evoca più disagio, o al-meno non più lo stesso, l’elaborazione potrebbespostarsi verso altri target.

- Aspetti cognitivi.Aumenta il senso di autoefficacia e mastery, edin funzione di questo gli aspetti nucleari del sé(responsabilità, identità, sicurezza, scelte). Nar-rativa.

- Aspetti comportamentali.Riduzione degli evitamenti, facilitazioni nellescelte.

L’EMDR viene inoltre impiegato secondo un approccio tem-porale tridimensionale che si rivolge alle esperienze pas-sate, agli elementi stressanti attuali, ai pesnieri e le azio-ni desiderabili per il futuro; il trattamento può durare da 1a 3 sedute, ciascuna di 60-90 minuti.L’EMDR si basa su un modello, fisiologicamente innato,di elaborazione adattiva delle informazioni precedentementedissociate (Shapiro, 1995a, 2002b).La dissociazione delle componenti mnestiche è stata spes-so documentata dipendere dalla disgregazione diretta eprimaria delle funzioni mentali superiori che si realizza du-rante l’esperienza traumatica. Ciò blocca la generazione di nuovi apprendimenti e ren-de evidenza della tendenza del trauma a infrangere con-vinzioni radicate (Janoff-Bulman, 1992), “il che comportache molti pazienti trovino difficile accettare il fatto che l’even-to sia realmente accaduto” (Brewin, 2009, in Williams R.,pag. 179), e si domandino, come accade nel fenomeno dinon concernenza, “perché proprio a me?”.La resistenza ai nuovi apprendimenti è sostenuta da mec-canismi di attenzione selettiva e focalizzata sul materia-le disturbante, che è a sua volta mantenuto in modo di-sfunzionale sia da forme eccitatorie di iper-arousal, e chedi conseguenza stimolano quel materiale più facilmentedi altro, sia da forme inibitorie di ipo-arousal che impedi-scono la giusta attivazione per orientare diversamente l’at-tenzione. In questo modo l’attenzione selettiva e focalizzata sul ma-teriale disturbante riverbera due forme comuni di distor-sioni cognitive post-traumatiche:1) L’iperassimilazione, nella quale la realtà dell’evento è

distorta o minimizzata.2) Iperaccomodamento, nel quale le implicazioni del-

l’evento vengono ingrandite, in modo che il pericolo siapercepito come universale.

Inoltre tale disgregazione delle funzioni superiori cause-rebbe un recupero frammentato dei ricordi delle medesi-me componenti, che risultando scarsamente integrate aglischemi generali della persona, sono caratterizzati da sen-sazioni ed affetti intensi e frammentati, spesso accom-pagnati da uno scarso o nullo contenuto narrativo verba-le.Attraverso la stimolazione bilaterale prevista dall’EMDR sicreano le necessarie associazioni affinché il materiale ri-masto isolato venga reintegrato nella rete mnestica e visia così un riapprendimento dell’esperienza traumatica insenso adattivo: cambia la prospettiva con cui il soggetto

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guarda all’evento, cambia il meccanismo e la qualità (fre-quenza intensità e durata) di risposta somatica ed emo-tiva collegate al ricordo e cambiano le convinzioni nuclearinegative su di sé che riguardano identità, responsabilitàsicurezza e scelta.Ad essere desensibilizzate sono perciò tutte quelle com-ponenti della memoria o quegli elementi contingenti del-la realtà percepita che sono soggettivamente associate al-l’evento traumatico ed hanno il potere di riattivare una ri-sposta dalle qualità traumatiche e disfunzionali. Tale de-sensibilizzazione avviene attraverso un modello di dual at-tention, in cui il soggetto deve prestare attenzione sia almateriale traumatico, a cui viene esposto all’inizio della se-duta di EMDR, che alla stimolazione bilaterale tipica del-l’intervento.Come mai tale desensibilizzazione è ottenuta tramite sti-molazione bilaterale (movimenti oculari, tamburella men-ti, suoni acustici)? Le spiegazioni offerte assumono diverseprospettive:1) Neurofisiologica: si sostiene l’ipotesi che i movimen-

ti oculari sollecitino una risposta di orientamento, o unriflesso di esplorazione, che stimola stati fisiologici istin-tivi in grado di inibire o modificare la risposta d’ansiaappresa (Barrowcliff, Gray, MacCulloch, Freeman, Mac-Culloch 2003). Sembra inoltre che i movimenti ocula-ri, attivando le stesse componenti fisiologiche del son-no REM, facilitino l’integrazione multimodale ed inte-remisferica dei ricordi frammentati che perdono la qua-lità intrusiva ed incontrollabile.

2) Neuropsicologica: il passaggio dall’attenzione foca-lizzata sostenuta (sul materiale disturbante e quello cheviene successivamente associato sotto stimolazione)ad una focalizzata divisa (fra quella orientata al ma-teriale e quella orientata spazialmente nei due emicarpivisivi seguendo il movimento bilaterale delle dita del-le mani), quindi il passaggio ad un meccanismo di at-tenzione duale, favorirebbe processi di inibizione re-ciproca sugli stati d’ansia per induzione di una rispo-sta di rilassamento.

3) Psicologiche: si fa riferimento alla soppressione del-l’evitamento per mezzo di una serie ottimale di stimolidi distrazione che consentono di affacciarsi ai ricordi trau-matici in modo graduale e personalizzato. Per esempiola teoria della rappresentazione duale di Brewin e Dal-gleish (1996) considera l’attenzione alla stimolazione bi-laterale del terapeuta come un elemento distintivo, in-novativo e distraente che per via di queste connotazioni,inserendosi nel quadro dell’elaborazione del materia-le traumatico bloccato, ne favorisce il trasferimento al-l’interno della memoria accessibile verbalmente (VAM)e quindi un riapprendimento del medesimo materiale(Brewin, 2009, in Williams R., pag. 196).

In questo senso sull’EMDR si ottengono interessanti con-vergenze teoriche tra:

- Approccio biochimico (Learned helplessness: di-minuzione della funzionalità biochimica del cervello)

- Approccio comportamentale (Esposizione diretta,flooding, implosion, desensibilizzazione sistema-tica, rilassamento)

- Approccio neuropsicologico: attenzione focalizzatasostenuta e focalizzata divisa: meccanismi di at-tenzione duale

- Approccio cognitivo (Stress inoculation, ristruttu-razione cognitiva)

- Approccio cognitivo-evolutivo (Modelli operativi in-terni, Sistemi motivazionali, metacognizione)

- PNL.Va a questo punto sottolineato che la nuova attribuzionedi significato ed il nuovo apprendimento dell’evento trau-matico non avviene chiedendo al soggetto di raccontarela propria storia, piuttosto incoraggiandolo a “sentirequello che sente”. L’EMDR è stata la prima psicoterapiaa non fondarsi sulla parola: le esperienze, le sensazionifisiche possono essere presenti senza il bisogno di spie-gare al terapeuta cosa accada: il terapeuta deve comunqueessere ben formato all’uso dell’EMDR per saper ricono-scere gli indicatori somatici del paziente che trasmettonotracce traumatiche o una loro elaborazione durante il trat-tamento. Le tracce del trauma non elaborate sono infattiveicolate dal sistema limbico e dal tronco encefalico, chesono le aree in cui transitano gli aspetti emotivi, e finchéla traumatizzazione non viene risolta, non vi sarà passaggiodelle medesime tracce alla corteccia prefrontale dove esseacquistano una simbolizzazione e una ricognizione ver-bale. Questo è il motivo per cui non è utile far parlare i pa-zienti del proprio senso di impotenza appreso o della pro-pria rabbia impotente, accennate nel precedente paragrafo,perché per quanto medici, operatori, familiari e psicologipossano comprendere ed adoperarsi non risolveranno maidel tutto quel sentimento, che da un lato è sostenuto dauna fissità neuronale, e dall’altra è mantenuto dalle fun-zioni che assolve ai processi di attaccamento: dipenden-za/attaccamento e/o ritiro come forma di rinuncia e con-temporaneo accadimento/protezione verso i propri fami-liari. È utile invece in questi casi lavorare in senso fisico,come quando l’EMDR chiede al paziente di “sentirequello che sente” ed il terapeuta si limita a guidare il pro-cesso intervenendo solo per operazioni di integrazionecognitiva. In questo senso “l’EMDR può dirsi centrata sulpaziente: aiuta la persona ad esprimere quello che pro-va dentro di sé senza chiederle di spiegare quello che, co-munque, non sarebbe in grado di dire con esattezza” (Vander Kolk, in Giannantonio, 2003, pag. 304). Non solo: masbloccando gli stati neuronali attraverso l’attivazione del-la rete mnestica, l’EMDR si pone anche come comple-mentare, se non in molti casi addirittura come alternativaal trattamento psicofarmacologico.Per quanto attiene all’oncologia, l’EMDR dispone già di pro-tocolli di intervento specifici. Fra essi si annoverano:

- Protocolli standard- Protocolli per il dolore cronico- Protocolli per l’elaborazione del lutto nei familiari- Protocolli per la ristrutturazione dell’immagine

corporeaTra gli eventi traumatici che nelle varie fasi della malattiaoncologica possono essere trattati con EMDR, quelle chevengono rappresentate di seguito sono solo alcuni degliesempi più emblematici:

FASE DELLA DIAGNOSITarget: lo shock alla comunicazione della diagnosi,

i problemi del sonno, i pensieri intrusivi…l’an-goscia

CN:“sto per morire”, “sono impotente” “è colpa mia”“non valgo più”

CP:“posso farcela” “posso gestire la situazione, sce-gliere” “sono responsabile del mio presente”“sono sempre io”

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FASE DEI TRATTAMENTITarget: danni fisici, dipendenza interna o esterna,

confronti con altri pazienti ospedalizzati, disturbidel sonno, nausea, vomito anticipatorio

CN: “sono un peso per gli altri” “ sono inaccetta-bile” “non lo sopporterò”

CP: “sono capace di affidarmi” “mi posso accet-tare” “posso sopportare il dolore”

FASE DELLA REMISSIONE Target: un momento in cui non riesco più a fare le

cose come prima—(identità ruolo sociale), CN: “non valgo” “sono solo”.CP: “valgo anche se non posso” “ qualcuno mi aiu-

ta, io appartengo…”

FASE RECIDIVA/METASTATICATarget: diagnosi di recidiva, consapevolezza me-

tastaticaCN: “stavolta non ce la farò”CP: “posso guarire ancora”

FASE DEL LUTTO (per i familiari e pazienti)Target: morte di cancro di una persona importan-

te per il paziente o familiareCN: “sono esposta anch’io”CP: “ognuno ha la propria storia ed il proprio de-

stino”

FASE DI FOLLOW-UP Target: affrontare i controlli medici, paura della re-

cidivaCN: “sono in pericolo, sono impotente rispetto alla

malattia”CP: “sono protetto, posso prevenire”.

Protocolli di intervento e trasversalità funzionali dell’area dell’emergenza e della psicotraumatologia oncologica all’interno dell’area di supporto alla persona

L’area dell’emergenza e della psicotraumatologia oncologicapuò rendersi funzionale in senso trasversale alle altre quat-tro aree ascritte alla più generale Area di Supporto alla Per-sona. Gli obiettivi e le procedure funzionali alle restanti quat-tro aree vengono così definiti.

Obiettivi funzionali all’area dell’accoglienzaL’area dell’emergenza e della psicotraumatologia in sen-so trasversale all’area dell’accoglienza avrà come obiet-tivo quello di intervenire in tutte le situazioni di crisi, più omeno acute, che esordiranno o si ripresenteranno nel tem-po in senso specifico all’area dell’accoglienza.L’area dell’accoglienza o della pre-ospedalizzazione è quel-la in cui il paziente entra nella struttura ospedaliera o peruna visita ambulatoriale di accertamento o per le pratichedi ricovero in regime di degenza e day-hospital. Si carat-terizza in senso temporale come una fase della malattiain cui il paziente o arriva già con la propria diagnosi o staper riceverne una.Secondo la definizione data da Capezzani et al. (in pre-parazione) di accoglienza, intesa cioè come sistema diorientamento, di comunicazione, di qualità e quantità dei

servizi alberghieri, dei processi di partecipazione attiva,le situazioni critiche che nell’area di accoglienza e pre-ospe-dalizzazione possono essere accolte e trattate dagli stru-menti della psicotraumatologia sono:

1) l’impatto con la struttura medesima, il sistema diorientamento. Esso è considerato una delle cin-que componenti definenti l’accoglienza, come con-cettualizzato nel manuale di valutazione dell’ac-coglienza in oncologia da Capezzani et al. (in pre-parazione). A volte l’impatto con la strutturaospedaliera ed il suo sistema di orientamento puòcreare un senso di derealizzazione, di assenzapercettiva, ansia da disagio, stress per il solo fat-to di trovarsi in un posto nuovo di cui non si co-noscono logisticamente gli spazi, le aree, o a cuid’altra parte si attribuiscono connotati semanticiprofondamente negativi e catastrofici. Ad esem-pio il letto d’ospedale può di per sé essere per-cepito come un luogo possibile di morte, di dolo-re, di non ritorno, e a volte avere come compagnodi stanza, nel letto affianco al proprio, un pazientepiù grave può creare disagio a stare nel “proprio”,che “proprio”, nel senso di personale, esattamentenon è.

2) L’impatto con le prime informazioni ricevute: l’uten-te non sa se ha capito bene ciò che gli viene det-to in merito a quanto chiede, a quanto gli viene co-municato e non sempre i suoi interlocutori si ac-certano se lui ha capito bene. Spesso la sensazioneè di confusione, di solitudine prima ancora che diaccoglienza, di incapacità di inserimento. L’impattocon l’eventuale comunicazione della diagnosi ri-sente molto dello stile comunicativo, della relazioneche si instaura tra medico e paziente, ma non sem-pre tutto questo può essere monitorato in temporeale da un osservatore esperto come uno psi-cologo presente nel luogo. Se le dinamiche sonopoco funzionali al coping del paziente, possono ma-turare vissuti traumatici, pensieri di profonda ina-deguatezza ed impotenza che vanno via via strut-turandosi in una sofferenza più o meno tacita, piùo meno agita in tempi differenziati.

3) L’impatto con i servizi di tipo alberghiero. I pazienti,una volta ospedalizzati potrebbero trovare insuf-ficiente la qualità dei servizi igienici, di vittoecc…, e incorrere in situazioni di conflitto con l’isti-tuzione medesima. In questo caso l’area dell’ac-coglienza provvede tramite sportello apposito a ge-stire le difficoltà ma potrebbe essere necessariol’intervento di uno psicologo esperto in mediazionedella crisi.

4) L’impatto con i processi di partecipazione attiva allavita istituzionale dell’ospedale e alle decisioni cheattengono alla propria malattia e guarigione.Spesso l’ospedale propone occasioni di svago edinteresse culturale, come proiezioni di film, ospettacoli di intrattenimento in apposite aree, cisono pazienti che possono aderire godendo an-cora delle proprie abilità motorie ed altri no: si pos-sono in questi casi osservare sentimenti di invidia,di solitudine. In altri casi ci sono pazienti che di fron-te alla comunicazione di una diagnosi rimangonoimpassibili ed altri che fuggono, altri ancora che nonsi rassegnano e cercano mille altre fonti di infor-

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mazione. In tutti questi casi è bene prevedere sem-pre un colloquio anche con uno psicologo del-l’emergenza e della crisi.

Obiettivi funzionali all’area di prossimitàObiettivi dell’area della psicotraumatologia trasversali a quel-li dell’area di prossimità sono anche in questo caso defi-niti dalle situazioni di crisi, forte stress ed emergenza, chesi presentano al paziente ospedalizzato in regime di day-hospital o di degenza e che possono essere trattati congli strumenti tipici della medesima psicotraumatologia. Og-getto di trattamento saranno quindi:

1) Situazioni da stress per le attese prechirurgiche.I pazienti sono in lista di attesa ma spesso slitta-no in giornata per via degli interventi in corso cheprendono più tempo e non sono a conoscenza delfatto che potrebbero essi medesimi essere rinviatial giorno successivo. Ciò comporta per il pazien-te ed il familiare una forte tensione, agitazione, avolte uno sconforto che può sfociare in attacco dipanico e rifiuto dell’intervento.

2) Sentimenti di paura nei riguardi dell’anestesia cheprovocano evitamenti nei confronti del setting chi-rurgico. Non sono rari i casi in cui molti pazienti af-frontano un intervento già di per sé molto com-plesso per la prima volta e temono non tanto la mu-tilazione fisica, amputazione di un arto, l’asporta-zione di un seno per cancro…, quanto piuttosto irischi correlati all’anestesia. È capitato di osservarepazienti in preda ad inconsolabili crisi di pianto oattacchi di panico per la paura di non potersi ri-svegliare dall’intervento, o pazienti che decideva-no all’ultimo minuto di non fare più l’intervento me-desimo.

3) Effetti delle anestesie: vi sono fenomeni di anestesiacosciente durante l’intervento chirurgico che la-scerebbero memorie di dolore traumatiche, oppurefenomeni di percezioni ipnopompiche che nelpost-operatorio ed in particolari soggetti più pre-disposti favorirebbero ideazioni paranoidee, oforme di dissociazione, depersonalizzazione e de-realizzazione.

4) Sentimenti invalidanti di impotenza e paura per lemutilazioni fisiche in seguito all’asportazione di or-gano, un seno, un arto, la lingua se viene trattatala zona orofaringea.

5) Crisi in seguito ai cambiamenti della percezionecorporea, per esempio per la perdita dei capelli,o addirittura non tanto per la stessa perdita di unseno ma per la sua ricostruzione che disattendele attese.

6) Sentimenti invalidanti di impotenza ed intolleran-za al dolore per via delle chemioterapie o delle ra-dioterapie.

7) Crisi per via della relazione con lo staff ospedaliero.8) Difficoltà invalidanti nel relazionarsi con i familia-

ri.9) Disagi da adattamento post-operatori, dovuti per

esempio all’interazione con gli elementi invasivi del-la chirurgia come i drenaggi dopo l’intervento.

10) Difficoltà nell’accettare di rientrare nel proprio quo-tidiano in previsione delle dimissioni, che sonospesso accompagnate da crisi di abbandoni chedarebbero del PTSD e dello spettro post-trauma-

tico una lettura in chiave di stili di attaccamento di-sfunzionali.

Obiettivi funzionali all’area clinicaObiettivi dell’area psicotraumatologica trasversali a quel-li dell’area clinica riguarderanno il trattamento di quelle si-tuazioni di crisi che colpiranno pazienti oncologici ospe-dalizzati in regime di day-hospital o di degenza, pazien-ti oncologici dimessi che richiedano un trattamento psi-chiatrico o psicoterapico, familiari di pazienti oncologici de-ceduti e pazienti psichiatrici non oncologici. Le situazio-ni di crisi oggetto di trattamento sono:

- per i pazienti oncologici:1) Disturbi post traumatici da stress cronici2) Forti paure di recidive3) Disadattamenti nell’ambiente familiare e sociale4) Sintomatologie da attacchi di panico5) Disturbi dei ritmi circadiani

- per i familiari di pazienti oncologici deceduti1) Crisi da lutto2) Disturbo post- traumatico da stress acuto3) Disturbo post-traumatico da stress cronico4) Conflitti con i medici curanti l’ex-congiunto

- per i pazienti non oncologici psichiatriciTutti le situazioni osservabili.

Obiettivi funzionali all’area di formazione/informazionee sostegno agli operatoriObiettivi dell’area psicotraumatologica trasversali a quel-li della formazione e sostegno degli operatori saranno didue tipi:

1) Clinico. Trattare tutti gli operatori che abbiano si-tuazioni di crisi organizzate come:a. Attacchi di panico, improvvisi o dovuti a si-

tuazioni stressanti maturate nel corso della gior-nata o a causa di contingenze strutturali e dipersonalità. Situazioni queste in cui faremo ri-cadere le crisi da burn-out.

b. Conflitti interpersonali ad alto contenuto distress psicofisico e di emotività espressa.Per esempio quando si innescano dinamicheaggressive tra infermieri e familiari di un pa-ziente che vogliano accedere alle visite in ora-ri non consentiti, o vogliano incessantementeavere informazioni sull’esito di un intervento chi-rurgico quando ancora non sono disponibili. Op-pure quando i conflitti si innescano tra opera-tori medesimi: situazioni queste in cui faremoricadere le crisi dovute a mobbing professio-nale.

Non necessariamente queste situazioni evolvonoin un disturbo post-traumatico da stress acuto mapossono rappresentarne gli indicatori iniziali, op-pure essere segnali di PTSD cronico mai emersosintomaticamente fino ad allora. Si lavora quindi congli strumenti della psicotraumatologia in senso siapreventivo che terapeutico.

2) Formativo/Informativo. Si tratta di dare agli operatorisanitari, medici infermieri e volontari gli strumen-ti concettuali ed una più matura sensibilità psico-logica per riconoscere se e quando un pazienteesprime un disturbo post-traumatico da stress acu-

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to o cronico. Ciò consente l’immediato interventodi uno psicologo competente al trattamento delPTSD e /o della crisi.

ProcedureL’accesso all’intervento psicotraumatologico per la rea-lizzazione di tutti gli obiettivi, rappresentati anche nelle al-tre quattro aree e che in questa quinta sono assolti, puòavvenire secondo le seguenti modalità:

1) Tramite attività ambulatoriale al servizio dell’areapsicotraumatologica. L’invio all’ambulatorio può es-sere fatto su segnalazione di ciascuna dellequattro aree, quella dell’accoglienza, della pros-simità, quella clinica e della formazione agli ope-ratori.L’invio può avvenire in maniera pertinente in varimodi possibili:a. Fornendo gli psicologi che lavorano in ciascuna

delle quattro aree di check-list per la valutazionedei PTSD cronici/acuti da usarsi sempre ne-gli screening di routine.

b. Formando gli psicologi che lavorano in ciascunadelle quattro aree: - all’uso e alla valutazionedelle check-list per PTSD - al riconoscimentoclinico di un PTSD cronico o acuto e di una si-tuazione di crisi che necessiti più di un inter-vento da parte dell’area della psicotraumato-logia e dei suoi strumenti che non di un sem-plice sostegno psicologico.

c. Formando gli operatori sanitari al riconosci-mento del PTSD cronico/acuto e delle situa-zioni di crisi in atto così che possano inviare ipazienti.

d. Potendo disporre di uno psicotraumatologo perciascuna delle quattro aree e che possa svol-gere sia compiti di diagnosi che di terapia suiPTSD e situazioni di crisi ed emergenza. Inquesto caso le figure degli psicotraumatologiverebbero dall’area della psicotraumatologia eriferirebbero al suo responsabile del lavoro svol-to tramite raccordi settimanali. Può essere av-viata anche una formazione continua internaall’ospedale per gli psicotraumatologici daparte del responsabile dell’area della psico-traumatologia.

2) Servizio di Emergenza-Urgenza 24h/24h.Si tratterebbe di un servizio che disporrebbe almenodi una figura psichiatrica e di più figure psico-traumatologiche. Esse opererebbero in modo dif-fuso sia attraverso una presenza diurna che unareperibilità notturna. Verrebbero rese disponibilisomministrazioni psicofarmacologiche ed interventicon EMDR su crisi in atto.

StrumentiOltre all’EMDR possono essere inclusi

LA NEGOZIAZIONEAltra tecnica utile per le dinamiche dei disturbi post-traumatici da stress e lo spettro post-traumatico è lanegoziazione. Essa si configura come quel processofinalizzato alla risoluzione di conflitti interpersonali che,partendo da posizioni diverse, arriva al raggiungimento

della cooperazione, dell’accordo e del consenso tradue o più parti interdipendenti su obbiettivi comuni,realizzabili e accettati unanimemente come necessarialla massima realizzazione possibile dei rispettivi bi-sogni.Secondo Kurt Lewin (1976) il conflitto è quella situa-zione che si determina tutte le volte che su di un in-dividuo agiscono contemporaneamente due forze psi-chiche di intensità più o meno uguale, ma di oppostadirezione. Il conflitto costituisce un elemento di crisinel rapporto tra due individui, per uscire dal quale ènecessario uno sforzo di reciproco attivo adattamento.In ambito sanitario possono agire più o meno a tre li-velli:1) intrapersonale: ogni volta che dobbiamo effettua-

re una scelta fra bisogni, desideri o doveri differenti.Per esempio il paziente deve scegliere tra due pos-sibili terapie ma vorrebbe rinviarle entrambe.Questa situazione può bloccare la persona edesporla a forti fonti di stress;

2) interpersonale: due persone sono in disaccordoperché hanno esigenze ed obiettivi differenti e perquesto non si accordano. È il caso per esempiodel medico che considera opportuno dal suo pun-to di vista che il paziente faccia determinate ope-razioni per la sua salute mentre il paziente con-sidera più adattivo per la propria salute e qualitàdi vita fare altre scelte o rinviare o dare priorità adaltre necessità. Sono molto frequenti i casi di con-flitti esacerbati tra medico e paziente e di rischiodi burn-out da una parte e disturbi dello spettropost traumatico da stress o dell’adattamentodall’altro;

3) intergruppo: per esempio tra familiari di un pazienteed istituto ospedaliero. Nei casi di denunce.

Oggetto della negoziazione è quella parte del conflit-to che resta fuori dall’osservazione oggettiva, che nonè cioè contrattuale, che non si occupa dei contenuti,ma è invece processuale e si occupa delle ambigui-tà percettive e quindi soggettive degli attori in conflit-to. Perché ci sia una buona negoziazione occorre:1. Essere credibili. Mantenere una buona equidistan-za tra la parte e la propria controparte.2. Separare le persone dal problema: diverse motiva-zioni possono essere alla base del modo diverso di pre-sentare un problema, e di creare quindi un conflitto. Ilconflitto non dipende cioè dalle persone in sé ma dal-le motivazioni che hanno.3. Chiarire gli obiettivi che si intendono raggiungere.È necessario definire i risultati attesi, in modo concretoe misurabile così che l’obiettivo sia chiaro e condivi-so dai membri. Ciò determina impegno del proprio si-stema di competenze per raggiungere quei risultati eper far funzionare al meglio tutte le parti coinvolte, ac-cettando i vincoli imposti dalla presenza e dai bisognidegli altri membri. 4. Avere la competenza di intervenire tecnicamente incondizioni di crisi in atto.

LO PSICOFARMACOSarà compito dello psichiatra scegliere la terapia far-macologica più adatta al caso e per tipo di disturbo del-lo spettro post traumatico da stress.

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Quali elementi allineano l’area dell’emergenza e del-la psicotraumatologia oncologica alle attuali linee stra-tegiche dei processi di umanizzazione dell’ire-isg equindi alla mission dell’area di supporto alla persona?

Conclusioni

Recentemente si è definita la qualità dell’umanizzazionein medicina in rapporto alla capacità di rispondere ai bi-sogni portati nelle domande del paziente, soprattutto dalpunto di vista del paziente e non solo da quello del me-dico. La psicotraumatologia risponde alla mission dei proces-si di umanizzazione per le seguenti fondamentali ragioni:

1) interviene sulla condizione, acuta o cronica, di cri-si del paziente considerandola come l’esito di unamancata congruenza tra bisogni e risorse dispo-nibili a soddisfarli. Le stesse esperienze comuni-cative, in cui un paziente oncologico può trovarsicoinvolto con gli attori che partecipano del suo pro-cesso di guarigione, possono risultare a lui trau-matiche e beneficiare di un intervento a caratte-re psicotraumatologico quando i messaggi e le in-formazioni scambiate restano incongrue rispettoalle attese personali. In questi casi si osserva pri-ma un’ambiguità dello scambio e poi un’interruzionedell’integrazione naturale delle informazioni se-mantiche, percettive, somatiche ed emotive entrorappresentazioni sintetiche e funzionali. Quandociò che risulta frammentato e congelato viene in-tegrato in nuovi apprendimenti da parte del pazientetraumatizzato, si può dire che egli abbia rivisitatol’efficacia delle proprie risorse, della propria au-tostima e che le consideri come sufficienti per po-ter cominciare a reagire alle situazioni disattese edinsoddisfatte. Ciò inoltre restituisce alla persona unsenso di potere che la attiva, la autodetermina neiriguardi dei processi di guarigione e la trasformain primo attore anche del contesto ospedaliero. Vie-ne in mente l’esempio di una paziente anziana, psi-cologicamente non scompensata, ricoverata perun cancro al colon ed in attesa di intervento chi-rurgico, che, aspettando i medici durante il giro vi-sita di reparto sulla soglia della porta della propriacamera, ricevette l’équipe medica pronunciando laseguente frase: “Prego accomodatevi”. Non sfug-gì a nessuno la sensazione gradevole che la si-gnora si sentisse come a casa propria e stesse perricevere degli ospiti.

1) Fare un intervento di informazione, prevenzione eterapeutico di tipo psicotraumatologico significa ri-stabilire i giusti processi di apprendimento e quin-di di adattamento alla malattia e guarigione del pa-ziente. Conseguentemente significa riconoscerequei bisogni e quelle attese che, non soddisfatte,hanno bloccato i processi suddetti.

1) L’EMDR, fondandosi su processi innati di auto-gua-rigione e prevedendo perciò uno scarso interven-to basato sulle parole da parte del terapeuta, puòessere considerato come strettamente “centrato sul-la persona”. Non rischia cioè, come altre forme dipsicoterapia dialettiche, di aggredire più o menoviziatamente, per un bias interno della comuni-cazione, le strutture di valore, di significato ed i bi-

sogni, funzionali e/odisfunzionali, del paziente: an-che quando l’EMDR realizzi interventi cognitivi in-tegrativi specifici, se ben eseguiti, il processo di in-tegrazione resta sempre guidato dal pazientemedesimo.

1) La trasversalità funzionale dell’Area di Emergen-za-Urgenza e della Psicotraumatologia Oncologicarispetto alle altre quattro sottoaree dell’Area di Sup-porto alla Persona consente il riconoscimento e lasoddisfazione dei bisogni del paziente in senso dif-fuso e specifico per tutte le fasi della malattia.

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Introduzione

La gestione della salute pubblica è costantemente sotto-posta al rinnovamento delle sue modalità di intervento; ra-gioni sociali, economiche e politiche complesse determi-nano questo costante cambiamento.Lo strumento del “Case Management” nasce negli anni‘70 negli U.S.A. come modalità d’intervento della Com-munity Care. Il Case Management è definibile come un pro-cesso integrato finalizzato ad individuare i bisogni degli in-dividui ed a soddisfarli, nell’ambito delle risorse disponi-bili, partendo dal riconoscimento della loro unicità. Il ter-mine “case management” deriva dall’insieme di due diversiapprocci rispetto ai problemi presentati dalle persone af-fette da disturbi mentali. La parola “case” deriva dalla tra-dizione medico clinica, centrata sulla necessità di prestarele cure necessarie alla singola persona sofferente. La pa-rola “management”, d’altra parte, deriva da una cultura eda una tradizione assai distanti, che esaltano la necessi-tà di organizzare un programma che permetta di siste-matizzare gli interventi nei confronti dei pazienti più gra-vi e gravosi in un certo contesto, per ottenere la massimaefficacia possibile. Possiamo considerarlo come un modooperativo economico ed efficiente teso all’efficace rag-giungimento degli obiettivi di assistenza individuale (Ro-sen A., Teesson M. 2002). È un intervento orientato allapersona e pensato sulla persona superando, così, tutte ledifficoltà di un’assistenza disaggregata, antieconomica einefficiente, che rischia di lasciare l’assistito solo con i suoiproblemi. La letteratura mostra come effettivamente il lavoro in teame il case management siano aspetti importanti e facilitantinel percorso di cura e come tale modello sia stato effica-ce nella cura della patologia mentale (Simpson A. 2007).

Si è dimostrato che un approccio individuale è più efficacedi un approccio standard, tale dato è emerso attraversol’analisi della riduzione dei giorni di degenza, della sod-disfazione del paziente, del livello di autonomia e della com-pliance (Smith L., Newton R. 2007). “Costruire una rela-zione di fiducia” è risultato essere alla base del Case Ma-nagement e della riuscita dello stesso (Yamashita M., For-chuk C., Mound B. 2005). Il progetto degli Istituti IRE-ISGnasce dai metodi e dai processi del Case Management eli applica nei percorsi di oncologia; l’Area di Supporto allaPersona degli Istituti IRE-ISG, lavorando in équipe con ilpersonale medico e paramedico ha realizzato per la pri-ma volta, in Italia, un progetto che definisce in modo espli-cito il Case Management in oncologia.

Oncologia e psicologia

Il percorso compiuto da una persona che si ammala di can-cro è spesso incerto e prevede fasi alterne: la malattia,le perdite e le situazioni stressanti da affrontare posso-no mettere in gioco il benessere psico-fisico della persona,tuttavia tali eventi possono essere affrontati e gestiti ri-correndo all’uso di risorse sia di tipo personale che so-ciale. Proprio a queste ultime si è rivolto lo studio pilotadell’Area di Supporto alla Persona degli Istituti IRE-ISG:“Case Management in Oncologia”. Adattarsi alla malat-tia e acquisire consapevolezza sono processi che cam-biano nel tempo e in funzione di diversi fattori (sociali, co-gnitivi, ambientali). Modalità di reazione più primitive vol-te all’evitamento possono, con il tempo e con l’aiuto di per-sonale specializzato, sostituirsi con modalità più adatti-ve, consapevoli e mature. La risposta dell’ambiente, inol-tre, gioca un ruolo molto importante nel processo di con-

Case management in oncologia: dati preliminari e prime evidenzeMenichetti E.*, Lopez E.**, Torelli S.**, Faia V.***, Cantelmi T.***

* Psicologo, ** Psicoterapeuta, *** Psichiatra

RiassuntoIl progetto degli Istituti IRE-ISG nasce dai metodi e dai processi del Case Management e li applica nei percorsi di oncologia;l’Area di Supporto alla Persona degli Istituti IRE-ISG, lavorando in équipe con il personale medico e paramedico ha realizza-to per la prima volta, in Italia, un progetto che definisce in modo esplicito il Case Management in oncologia. L'obiettivo del pro-getto è riassumibile nello slogan “perché nessun paziente si senta solo in ospedale”. Infatti, lo scopo principale è quello di “uma-nizzare” e rendere “calda” un' esperienza di per sé traumatica e spesso accompagnata da sentimenti di solitudine, disperazionee dalla fredda distanza dagli operatori e dai servizi. L’obiettivo primario è stato quello di collegare il paziente e i suoi bisogni aidiversi Servizi, già esistenti, in modo efficace, efficiente e non dispersivo, mediante un tutor individuale durante il percorso.

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A sapevolezza e di cura. Tra i meccanismi di difesa messiin atto dal paziente troviamo frequentemente la negazione;sicuramente questo meccanismo nelle prime fasi della ma-lattia aiuta la persona a gestire l’emotività, tuttavia il ricorsoesclusivo a questa difesa interferisce con il tempo con ilpercorso di cura.Weal e Goldgerg (1986) propongono l’esi-stenza di quattro tipi di negazione: negazione delle ma-nifestazioni fisiche della malattia, negazione della diagnosi,negazione delle implicazioni della malattia, negazione de-gli aspetti emotivi conseguenti alla malattia. Alla luce diciò appare evidente quanto l’uso privilegiato anche solodi questo meccanismo difensivo qualora non sia sostituitoda strategie di coping adattive impedisca all’individuo difar ricorso a risorse e supporto sociale indispensabile nel-l’affrontare l’iter della malattia. Dunque la negazione puòessere vista come la fase iniziale di un processo di adat-tamento durante la presa di consapevolezza della malattiama tuttavia tale meccanismo deve essere valutato at-tentamente al fine di evitare che la persona agisca scel-te irrazionali, come l’abbandono delle cure, ma affronti iltrattamento in modo efficace. Stimolare strategie di co-ping, ovvero “gli sforzi cognitivi e comportamentali per ge-stire richieste specifiche che sono valutate come ecce-denti” (Lazarus e Folkman, 1984), risulta essere in am-bito oncologico un obiettivo doverosamente perseguibi-le. Weisman e Worden (1976-1977) classificano l’uso di15 possibili strategie di coping nei 3 mesi dalla diagno-si, affermando che le più efficaci sono quelle riguardan-ti un’aperta accettazione della malattia contro quelle vol-te all’evitamento e alla passività (Ridefinizione, Sop-pressione, Spostamento, Proiezione, Razionalizzazione,Compliance, Confronto, Riflessione, Minimizzazione, Ri-duzione dei sintomi, Rassegnazione fatalistica, Interna-lizzazione, Riduzione della tensione, Condivisione dellepreoccupazioni, Acting out).Aspetto da non sottovalutare lungo il processo di accet-tazione e lotta della malattia è il significato che i pazientidanno all’informazione loro comunicata. Affrontare leemozioni, le preoccupazioni e il disorientamento del pa-ziente è il nuovo impegno richiesto all’équipe multidisci-plinare e che il progetto ha valutato di grande interesse.La conoscenza del paziente si aggiorna continuamente,affrontare il percorso di cura con un tutor aiuta la gestio-ne della trasmissione delle informazioni e delle emozionicorrelate.L’organizzazione dell’accoglienza del malato oncologico,di qualunque età, sesso, condizione sociale, deve esse-re ben strutturata, deve nascere da un’attenta lettura del-le necessità della persona e va verificata in modo dinamicocon accordi progressivi tra chi opera a diretto contatto conmalati e familiari.Il sostegno psicologico, il tutoraggio personalizzato e unabuona comunicazione rappresentano un momento stra-tegico importante dell’assistenza al malato, intesa comeelemento qualificante del servizio offerto.La consapevolezza di avere una patologia cronico-gravedi seria entità può generare nella persona un vissuto di pro-fondo stress.Nella patologia oncologica non possono essere trascuratitre aspetti: la gravità, la cronicità e la minaccia di morte.Questi tre aspetti hanno un effetto stressogeno importantesulla vita del malato e sulla sua famiglia, dato conferma-to dall’esperienza clinica che rivela che il disagio psichi-co diagnosticato – causato dal cancro – sia rilevabile in

circa un paziente su due (Scicchitano C., Cacace C., Can-telmi T., 2008).Il disturbo psicologico vissuto e la sua intensità dipendo-no dalla personalità del soggetto, dall’età, dall’ambientecon cui si relaziona, dal tipo di tumore diagnosticato e dal-le esperienze pregresse. I sintomi psicopatologici sono pressoché costanti: profondosenso di paura e di stress, ansia, depressione e distur-bo di adattamento. I sintomi sono spesso correlati alle mo-dificazioni dello stile di vita, al senso di ineluttabilità del-la malattia e di impotenza. Il malato di cancro vede scon-volto il proprio progetto di vita e i rapporti sociali e fami-liari che lo riguardano (Guarino A, Lopez E, 2006).Gli aspetti relazionali nel percorso di cura andranno pre-si in considerazione: il rapporto tra il malato ed i curantideve essere improntato al rispetto della persona, dei vis-suti emotivi e simbolici della malattia, e dei tempi di ac-cettazione: l’équipe sanitaria, nel percorso di cura, non puòesimersi da ciò. Monitorare sempre la comprensione delmalato è necessario per permettergli di affrontare la ma-lattia e i suoi trattamenti consapevolmente (Cacace C., Can-telmi T., 2009).

L’oncologia geriatrica

Visto l’incremento crescente della popolazione anziana,l’oncologia si è dovuta confrontare anche con la specifi-cità delle cure, delle risposte cliniche e della complianceche tale fascia di popolazione richiede. Nel paziente an-ziano la gestione della malattia assume caratteristiche pe-culiari; la stessa compliance terapeutica è strettamente le-gata a fattori come quello culturale, economico, sociale ecognitivo. Spesso le condizioni di fragilità economica, so-ciale, il basso livello culturale, la morte del coniuge, l’as-senza o lontananza dei figli, il deterioramento cognitivo de-terminano un ridotto interesse nei confronti della propriasalute e delle cure mediche: iter terapeutico che spessosi conclude con l’abbandono e la rinuncia alle cure stes-se. Anche il ricovero si presenta come un momento di com-plessa gestione, poiché è frequente riscontrare disorien-tamento spazio-temporale, stati confusionali, modificazionedel tono dell’umore e dei ritmi circadiani.

Disabilità psico-fisica

Affrontare la malattia oncologica e la disabilità psico-fisi-ca nell’ottica di un’integrazione, implica lo sviluppo di un’im-portante e indispensabile collaborazione sinergica tra on-cologi, psichiatri, psicologi, infermieri e volontari. Obietti-vo principale è quello di contribuire a migliorare la quali-tà della vita tenendo in forte considerazione le specifichenecessità di questa fascia di popolazione. Lo sviluppo diun approccio bio-psico-sociale alla sofferenza e alla curaè risultato essere l’approccio più rispondente alle neces-sità del malato, avviando un processo che consideri l’uni-tà tra mente e corpo, l’importanza dei simboli e dei signi-ficati, la comunicazione e la dimensione emotiva (BelliniM., Marasso G., Amadori D., Orrù W., Grossi L., Casali P.G.,Bruzzi P., 2002).Il progetto presentato vuole farsi carico di questi aspettidi fragilità intervenendo trasversalmente sulle fasce più de-boli: anziani, disabilità psico-fisica e socio economica.

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Case management in oncologia: dati preliminari e prime evidenze

Progetto “Case Management in Oncologia”

L’ospedale può sembrare al paziente una sorta di “labirinto”impersonale, dove i servizi di cui hanno bisogno posso-no apparire non facilmente accessibili. Inoltre la patologiaoncologica, per il suo specifico impatto sulla vita del pa-ziente, presenta una speciale complessità di gestione chepuò ulteriormente ampliare il senso di smarrimento dei pa-zienti. In questo contesto, il paziente oncologico può per-cepirsi particolarmente solo ed in balia di servizi poco ac-cessibili, nonostante gli sforzi messi in atto dai medici edal personale sanitario. Questo progetto, che si inseriscenel processo di umanizzazione dell‘ospedale messo in attodagli Istituti IRE-ISG, nasce dall’esigenza di garantire alpaziente una giusta e calda accessibilità ai servizi di cuiha bisogno in modo coordinato, efficace ed efficiente, at-traverso una équipe di facilitatori che si assumono il com-pito di coordinare il percorso del paziente. Il processo vie-ne effettuato attraverso un “tutoraggio personalizzato”, as-sicurando una corretta risposta ai bisogni attraverso unamaggiore vicinanza, con riduzione del grado di solitudinepercepito e un monitoraggio attivo dei servizi erogati.Il progetto ha previsto la creazione di un équipe multidi-sciplinare attraverso la quale è stato possibile utilizzare co-noscenze ed interventi in modo coordinato ed integrato alfine di rispondere in modo ottimale ai bisogni della personamalata e dei suoi familiari. Un team di psichiatri e psico-logi ha supportato i volontari preparando e supervisionandoil loro lavoro di “tutoraggio personalizzato”. L’approccio la-vorativo in équipe offre diversi vantaggi soprattutto per co-loro che hanno ulteriori difficoltà nelle cure e nell’acces-so ad esse. Il modello Case Management in Oncologia siconfigura come progetto fortemente innovativo essendostato per la prima volta applicato a fasce di popolazioneclassificate come “fragili”, ovvero con forti difficoltà ad ac-cedere e a seguire in autonomia le cure mediche e gliaccessi in ospedale. Il modello si delinea come un nuovostrumento nel percorso di cura della malattia; la personae la sua centralità sono state poste alla base della rea-lizzazione del programma: “non esiste cura della malattiasenza la cura della persona”. Accogliere, accompagnare,seguire e monitorare il percorso e gli accessi per coloroche presentano difficoltà aggiuntive si è riscontrato esseredi grande utilità e supporto.

Metodologia

Il campione preso in esame per lo studio pilota è compostoda 13 pazienti (6 M e 7 F), con un’età compresa tra i 25e i 78 anni (età media 52,77 anni). Il livello di scolarizza-zione è di tipo eterogeneo (7,69% licenza elementare,53,85% licenza media inferiore, 23,08% licenza media su-periore e 7,69% laurea), mentre lo studio del campione ri-guardo lo stato civile evidenzia la totale mancanza di le-gami affettivi stabili, risultando il 61,54% celibe/nubile, il15,38% vedovo e il restante 23,08% senza famiglia.Sono state individuate 3 Aree d’intervento seguendo laClassificazione Internazionale del Funzionamento, delleDisabilità e della Salute (ICF), proposta dall’OMS nel 2001.

1. Anziani fragili (15,38%)2. Fragilità psico-sociali (30,77%)3. Handicap fisico e psichico (53,85%)

Nel campione oggetto d’esame rientrano nella categoria

Anziani fragili le persone affette da demenza di tipo Al-zheimer, in quella Fragilità psico-sociale i pazienti senzafissa dimora e gli extracomunitari con disagio sociale, men-tre della categoria Handicap fisico e psichico fanno par-te le persone affette da Sindrome di Down, Schizofrenia,Disturbo della Personalità e Tetraplegia senza ritardo men-tale.Le persone in cui è osservabile un problema in una del-le aree succitate di gravità media (cioè che interferisce sen-sibilmente nella vita quotidiana e/o occorre frequente-mente), grave (cioè che è molto frequente, forte e distur-bante) o completa (inabilitante, totalmente disturbante econtinua) rappresentano il target d’elezione del progetto.Il progetto è realizzato, nell’ambito dell’Area di Supportoalla Persona, dai servizi di psichiatria in collaborazione conle Associazioni di Volontariato ospedaliero (AMSO, ARVASe FONDAZIONE GIGI GHIROTTI) mediante il tutoraggiodei pazienti attraverso la presa in carico nei servizi am-bulatoriali e di day hospital o nei reparti durante i ricove-ri chirurgici e/o oncologici.L’efficacia del progetto è stata verificata con schede di va-lutazione all’ingresso e all’uscita compilate dal tutor.Sono state rilevate e valutate le seguenti caratteristiche:Adesione al Trattamento (AT), Capacità di Adattamento alloStress Ospedaliero (ASO) e Rischio di Ricadute (RR) conuna scala Likert a 4 punti (alta-media-bassa-scarsa).

Scopo

L’obiettivo del progetto è riassumibile nello slogan “perchénessun paziente si senta solo in ospedale”. Infatti, lo sco-po principale è quello di “umanizzare” e rendere “calda” un’esperienza di per sé traumatica e spesso accompagna-ta da sentimenti di solitudine, disperazione e dalla freddadistanza dagli operatori e dai servizi. Gli obiettivi saran-no l’ individuazione precoce dei pazienti con fragilità , lafacilitazione del percorso ospedaliero, l’umanizzazione delpercorso di cura, la promozione di una valutazione con-giunta, l’ ottimizzazione del trattamento medico, la riduzionedei tempi di degenza, il miglioramento della funzionalitàe della qualità di vita del paziente e dei familiari, l’orga-nizzazione della gestione dell’assistenza a lungo termine.Il progetto “Case Management” da noi proposto vuole con-figurarsi come un nuovo modo di concepire la cura. L’analisi del campione secondo l’adesione iniziale al trat-tamento per sesso non ha evidenziato differenze di genere,partendo indistintamente maschi e femmine da un’adesionescarsa. Lo studio dell’adesione finale al trattamento ha sot-tolineato invece una migliore risposta da parte delle don-ne rispetto agli uomini, in quanto, sebbene entrambi rag-giungano livelli di adesione superiori a quelli iniziali, il cam-pione femminile mostra una maggiore frequenza della mo-dalità alta rispetto a quella media. Concentrando l’anali-si alla sola componente maschile del campione, si notacome esista una relazione inversa tra lo stato civile e l’ade-sione al trattamento finale: i pazienti senza fissa dimoramostrano una maggiore compliance al trattamento sotto-lineando come la completa mancanza di legami affettivistabili permetta al paziente di usufruire al meglio del per-corso di tutoraggio proposto.L’efficacia del progetto presentato è inoltre dimostrata dal-la capacità di adattamento allo stress ospedaliero da par-te del campione e dalla bassa frequenza di rischio di ri-

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cadute dello stesso. La totalità dei pazienti mostra, infat-ti, frequenze medio- alte in entrambe le modalità a pre-scindere dalla struttura del campione esaminato.

Conclusioni

Il riconoscimento dei bisogni dei pazienti con fragilità haguidato lo studio pilota condotto dall’Area di Supporto allaPersona dell’Istituto IRE-ISG, studio volto allo sviluppo diuna nuova funzione del servizio di cura nella gestione diprogrammi individualizzati.La ricerca ha portato al riconoscimento di un nuovo mo-dello che prende le mosse dal Case Management utiliz-zato in psichiatria negli Usa negli anni ’70 e lo ha appli-cato trasversalmente ai malati oncologici con fragilità ag-giuntive.Il Case Management in Oncologia vuole essere un mo-dello nella cura del paziente che veda integrati i vari Ser-vizi in un programma coesivo, che venga incontro alle rea-li esigenze e necessità del malato, andando ben oltre latradizionale gestione della patologia oncologica. Un Ser-vizio intorno alla persona e alla cura della malattia. L’obiettivo primario è stato quello di collegare il pazientee i suoi bisogni ai diversi Servizi, già esistenti, in modo ef-ficace, efficiente e non dispersivo, mediante un tutor in-dividuale durante il percorso.Il percorso di tutoraggio si è articolato nei seguenti pas-

saggi: la valutazione del caso, la progettazione dell’inter-vento, il collegamento ai servizi e il controllo-monitorag-gio della validità e della qualità del servizio erogato. “Ma di fronte ad una persona che soffre quale parola puòessere d’aiuto? La legge di gravità non serve più, poichéla realtà umana non ha quell’obiettività che la scienza pre-tende dal suo oggetto” (Carotenuto, A. Il labirinto verticale,1982).Rispondere a questa domanda è stata la sfida del équi-pe degli Istituti IRE-ISG; accostarci alla cura della perso-na non prestando solo Servizi e cure ma accoglienza e so-stegno contro lo smarrimento e il disorientamento che lamalattia produce.

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E. Menichetti et al.

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Breve presentazione di C.M.

DATI ANAGRAFICINome e Cognome: C.M.Data di nascita: 5-7-1953Stato civile: ConiugatoDue figlie: 21 e 10 anni: la più grande iscritta al secondoanno di Psicologia.Professione: medico di famiglia

INVIOC.M. è ricoverato presso la chirurgia digestiva dell’I.R.E.ed è in attesa di intervento chirurgico per un carcinomaperitoneale. Mi viene segnalato dall’équipe medica comeun soggetto in apprensione, con una depressione croni-ca, autogestita farmacologicamente in modo discontinuoe apparentemente senza evidenti risultati. L’interesse concui l’équipe domanda il mio contributo è valutare se nonsia opportuno proporre a C.M. un sostegno psicologico erichiedere per lui anche una consulenza psichiatrica. L’équi-pe medica mi segnala anche due caratteristiche fisiche delpaziente: l’obesità (oltre i 100 Kg) ed un dismorfismo po-sturale del collo e della testa, che in seguito ad un incidentestradale sono rimasti stabilmente lateralizzati a sinistra.

DIAGNOSI OCNOLOGICACarcinosi peritoneale da adenocarcinoma del colon. C.M.è in attesa di intervento chirurgico presso la Chirurgia Di-gestiva Oncologica dell’I.R.E di Roma.

PROBLEMI PSICOLOGICI PREGRESSI e NUOVI TEMIPSICOLOGICI EMERGENTIC.M. dichiara di avere uno stato depressivo cronico da cir-ca 25 anni e di essere angosciato dall’idea che il proprio

corpo, per il fatto di essere obeso, non riuscirà a supe-rare l’intervento chirurgico. La paura dominante è quelladi morire sotto i ferri. Quando, durante il primo colloquiopsicologico, l’idea di non riuscire a superare l’interventoassume i tratti di una convinzione radicata, la paura di nonfarcela si alterna ad uno stato di rassegnazione malinco-nica, accompagnata da pianti silenziosi.

PSICOFARMACI ASSUNTIC.M. si prescrive da solo, ed in modo discontinuo, 25 mgdi Alzalopram senza mai aver sentito il parere di uno psi-chiatra.

PSICOTERAPIE PRECEDENTIC.M. riferisce di soffrire di una depressione cronica da cir-ca 25 anni, per la quale solo 5 anni fa inizia una psicoa-nalisi, che interrompe con insuccesso dopo tre anni. Dal-le parole di C.M. l’interruzione avviene quando l’analistadichiara:1) “lei non si vuol far aprire”;2) “lei è come se andasse in giro con un taglio aperto alla

pancia”.Queste due espressioni creano in quel momento nel pa-ziente forte senso di frustrazione ed incomprensione percui abbandona l’analisi; oggi evocano in lui qualcosa di sug-gestivo in senso negativo nei riguardi dell’intervento chi-rurgico.

Primo incontro 12-05-2010: colloquio psicologico

Il primo impatto con C.M. avviene quando l’équipe medi-ca, durante una visita mattutina di reparto, mi introduce nel-

Applicazioni dell�EMDR in chirurgia oncologica.Descrizione di un caso clinico ed implicazioni per i processi di umanizzazione dell�IRE

Capezzani L.

Psicologa-Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, Psicooncologa, Coordinatrice dell’ Area dell’Emergenza-Urgenza e Psicotraumatologia Oncologica (Area di Supporto alla Persona) – UOSD Psichiatria IRE-ISG, Roma

RiassuntoScopo di questo articolo è presentare un caso clinico di un paziente oncologico, ricoverato presso la Chirurgia Digestiva On-cologica dell’IRE di Roma e trattato psicologicamente con EMDR. I disturbi per i quali il paziente viene assistito psicologica-mente sono legati in fase prechirurgica sia alla rappresentazione negativa di un corpo incapace di sostenere e superare l’in-tervento, sostenuta da uno stile cognitivo diffidente verso le proprie risorse, sia alla rappresentazione tacita della catastrofici-tà dell’intervento chirurgico. Nel descrivere il caso saranno sottolineati anche quegli aspetti della multidisciplinarietà interna al-l’équipe medica che possono avere risvolti sui processi di umanizzazione, avviati recentemente presso l’I.R.E.

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L. Capezzani

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A la stanza di C.M. e mi presenta come figura psicologicache afferisce alla UOSD di Psichiatria, interna all’ospedale,e che affianca il reparto due giorni la settimana.Il primo colloquio psicologico con C.M. avviene invece ilpomeriggio dello stesso giorno. In quel momento mi ri-presento al paziente e legittimo il mio ritorno come do-vuto al fatto di aver notato in lui espressioni di apprensionee scoraggiamento durante la visita del mattino. Chiedo aC.M. se ha piacere che mi intrattenga sia per una cono-scenza reciproca sia per capire se ci siano richieste chelui potrebbe avanzare alla mia disponibilità, sia infine perconsiderare in che modo, dal mio punto di vista, potrei ren-dermi eventualmente a lui utile. C.M. accetta volentieri ilcolloquio.Durante il colloquio vengono raccolte le seguenti infor-mazioni.

BREVE ANAMNESI PSICOLOGICA

1) A 5 anni si perse in una spiaggia. C.M. raccontache, quando la madre lo ritrovò, venne rimpro-verato gravemente e che ciò procurò in lui sen-timenti confusi: al senso di perdita/abbandono, pa-nico, colpa ed autosvalutazione si aggiunsequello di delusione/rabbia nei confronti dellamadre. Si sarebbe infatti aspettato da lei un at-teggiamento rassicurante e protettivo inveceche punitivo. Di tutti questi sentimenti quello chenegli anni accompagnerà con maggiore fre-quenza C.M. è – come lui afferma – “un senso dicolpa ingiusto”. Va detto che i sensi di colpa ma-turati nei bambini in seguito ad eventi scioccanti,traumatici, quando siano disattesi e non diretta-mente provocati dai bambini medesimi, o in se-guito ad atteggiamenti non accudenti/rassicurantida parte delle figure di riferimento, che tradisco-no scopi evoluzionistici come quello della sicu-rezza e sopravvivenza, hanno una duplice fun-zione nell’organizzazione mentale:- preservare la bontà delle intenzioni delle figure

di riferimento e sostenere quindi un’illusione ne-cessaria, o la speranza credibile, che quelle fi-gure restano ancora risorse affidabili per la pro-pria sopravvivenza;

- costruire un’illusione di controllo su una real-tà imprevedibile: finché resto o mi sento col-pevole devo poter assumere di aver avuto unpotere, esercitato male o non esercitato affatto,ma che comunque ho avuto a disposizione,che posso reiterare nel presente in una sor-ta di alone percettivo in cui il sentimento di col-pa si sovrappone ed associa al sentimento dipotere.

Già dal racconto di questo primo episodio si in-travede come C.M. possa psicologicamente strut-turarsi entro stili di attaccamento insicuri, orga-nizzazione di personalità e toni dell’umore preva-lentemente depressivi e stili di copy attivi-passivi,ovvero dipendenti/manipolatori.

2) A 7 anni bevve dell’acido che era stato conservatoin frigorifero. Anche in questo caso la madre lo rim-proverò. C.M. oggi considera che la madre lo fa-cesse sentire in colpa delle sue proprie inade-guatezze: in psicologia si direbbe che la madre ave-

va una struttura extra-punitiva, mentre il figlio in-tra-punitiva.

3) A 10 anni mise in bocca una canna fumaria e sibruciò. A partire da questo episodio C.M. apprendeun giudizio stabile che gli altri formulano su di lui,e cioè che è imbranato, che “è fragile, che da solonon ce la fa e non sa stare.”

È importante sottolineare che questi primi dati anamne-stici sono elicitati spontaneamente da C.M. durante il pri-mo colloquio e non sollecitati dallo psicologo. Questo fat-to è importante per due ragioni:

1) L’approccio psicooncologico adottato nei confrontidel paziente è inizialmente, specie nei reparti didegenza, sempre orientato al presente, anchequando si preveda di usare strumenti di interventotipici di una qualunque psicoterapia. Diversamente,l’indagine volontaria e iniziale diretta su specificieventi e temi di vita passata, che allo psicologopossono anche sembrare correlati ai vissuti emo-tivi del paziente oncologico, rischia di indurre nelpaziente un sentimento di intrusività e di inade-guatezza psicologica personale, di farlo sentire cioè“osservato”, pregiudicato e “malato mentale” a prio-ri. Per amor di chiarezza l’approccio psicoonco-logico iniziale dovrebbe esplorare come si sentela persona, quali conoscenze possiede sul proprioquadro clinico, quali attese ha rispetto alla malattia,la guarigione, i possibili trattamenti, se ha avutoaltre esperienze passate di malattia, come le haaffrontate, quali possono essere quindi le risorseattuali, psicologiche, familiari, sociali, per fron-teggiare il processo di guarigione. Si esplorano inol-tre le convinzioni personali riguardo al cancro, lasalute, la religione, le relazioni instaurate fino a quelmomento con la struttura ed il personale sanita-rio, eventuali precedenti approcci con psicolo-gi/psichiatri, gli atteggiamenti verso di essi e le re-lative disponibilità ad incontrare alcune di questefigure durante l’ospedalizzazione. Solo in un se-condo tempo, quando il paziente avrà espressoil piacere di avere altri incontri, si potrà formula-re qualche discreta domanda di vita personale. Nonè il paziente oncologico che va dallo psicoonco-logo, a meno che non ne faccia esplicita richiesta,ma è lo psicooncologo che è proposto o si proponecome eventuale utile supporto di accompagna-mento ai processi di guarigione. Da notare quin-di l’apertura con cui C.M. si relaziona allo psico-logo già dal primo incontro.

2) Gli episodi di vita riferiti spontaneamente da C.M.appaiono a prima vista non correlati con i temi on-cologici in lui dominanti e potrebbe sembrare per-ciò fuorviante in questa sede parlarne. In realtà lascelta di presentarli è guidata dalla considerazio-ne ragionata che essi aiutino a comprendere suquali basi si sia organizzata la struttura di perso-nalità di C.M., quali costrutti di significato essa ab-bia maturato da tali eventi e come tali costrutti in-teragiscono oggi con la malattia oncologica. Unarappresentazione longitudinale di tali eventi anam-nestici offre l’opportunità di delineare scelte stra-tegiche di trattamento psicologico con EMDR e disuggerire all’équipe medica modalità interattive fun-zionali per il paziente.

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Applicazioni dell’EMDR in chirurgia oncologicaDescrizione di un caso clinico ed implicazioni per i processi di umanizzazione dell’IRE

PENSIERI DOMINANTI IN RELAZIONE AL PROBLEMAONCOLOGICO:Dalle frasi pronunciate da C.M. durante il colloquio è pos-sibile evincere alcuni dei costrutti di significato personaliche attengono anche al suo vissuto di malattia:

1) “Non mi fido del mio corpo….c’è la possibilità chenon regga all’intervento chirurgico”→ Costrutto di debolezza somatica.

Questo costrutto sembra possa essere so-stenuto da una percezione:• sia di precarietà/vulnerabilità – (con-

dizionata probabilmente dalle espe-rienze pregresse di ferite traumatichedi natura fisica e psicologica) –

• sia di scarsa prontezza reattiva, cioè diattivazione – (condizionata dal peso ec-cessivo di C.M.) –

delle risorse fisiche necessarie per far frontead eventi “improvvisi”, o clinicamente definibilicome d’urgenza e d’emergenza” nell’ambito delcontesto chirurgico.

→ Costrutto catastrofico dell’evento chirurgico ecorrelato costrutto di impotenza.C.M. si immagina che durante l’interventochirurgico possano accadere eventi:

• certi ma improvvisi, per cui il suo cor-po, non disponendo delle risorse na-turali necessarie, sarebbe imprepara-to;

• gravissimi di per sé, per cui l’équipemedica non sarebbe in grado di farcinulla: in generale ci si può anche nonfidare completamente del proprio cor-po, ma poi per compensare la perce-zione del rischio si considerano anchele risorse esterne, cioè in questo casol’assistenza medico-chirurgica pre-sente. Ora, siccome C.M. è medico,verrebbe da pensare o che non si fididella medicina in generale, quindi an-che della chirurgia e della rianimazio-ne, o che non si fidi delle competenzedell’équipe medica. In realtà, come ve-dremo sotto, la relazione e la stima neiconfronti dell’équipe medica è moltobuona, come pure è buono l’attacca-mento alla propria professione medi-ca. Ciò farebbe pensare che la cata-stroficità, prevista negli eventi chirurgici,sia il prodotto di un costrutto di signi-ficato che attiene al senso soggettivodi impotenza appresa, addirittura an-tecedente al senso di catastroficità me-desima dell’evento.

Va detto comunque che l’équipe considera ilquadro clinico abbastanza complesso e l’obe-sità di C.M. un’aggravante. In qualche modo,sebbene nessuno dei medici esponga una si-tuazione impossibile da trattare, la percezio-ne dei rischi sembra comunque abbastanza at-tendibile.

2) “…Se anche supero l’intervento mi rimane forse

la “sacchetta”… non l’avrei mai pensato io… epoi… io… un medico…”→ Costrutto di vulnerabilità dell’integrità fisica e

dell’immagine corporea.L’idea di rimanere con la “sacchetta”, in-corporata esternamente al proprio corpo,è vissuta da C.M. come una minaccia al-l’integrità fisica, che crea già nelle sue rap-presentazioni una frammentazione del-l’immagine corporea. In più, questa fram-mentazione altera nella propria organiz-zazione di significati anche l’integrità diun’identità professionale e di ruolo: quel-la cioè del medico. L’intervento chirurgiconello scenario di C.M. è perciò devastan-te, perché minaccia o già anticipa una per-dita della stabilità:• dell’identità fisica,• dell’identità professionale;• quindi anche parte di quella sociale.

3) “Sono incazzato perché mi sarei aspettato un can-cro ai polmoni… visto che fumo tanto da sem-pre..invece m’è venuto questo… che c’entra?→ Costrutto di imprevedibilità e non concernen-

za.L’imprevedibilità si riferisce non tanto al-l’occorrenza del cancro in sé, quanto deltipo di cancro e dell’organo colpito, che C.M.considera non concernenti alle proprie abi-tudini di vita. Ciò sottende una preesistente considera-zione e valutazione dei propri stili di vita edei rischi per la salute ad essi correlati.Quindi sottende anche un certo grado diattesa e controllo su un’eventuale esordiodi neoplasia - (almeno quella ai polmoni)e sull’andamento della propria salute. Il can-cro al colon disatteso rende fallace quel co-strutto di controllo e perciò lo invalida. Nesegue un’autosvalutazione personale per-ché sarebbero state trascurate altre pro-cedure di diagnosi e controllo preventive.Infatti C.M. dirà:

4) “ Mi sento in colpa perché avrei dovuto capire i sin-tomi, ...essendo medico..., del mio problema”.→ Costrutto di controllo e potere invalidato.→ Costrutto di competenza invalidato.

La colpa implica un assunto di potere ge-stito male o non gestito. In questo caso C.M.fa riferimento al potere di prevedibilità, cheattiene alla proprie competenze mediche.Ciò comporta, oltre ad un senso di colpa,anche una depressione autosvalutativa cheminaccia la propria identità di ruolo.

5) “La fregatura è che il tumore l’ho fatto diventaremio” “ Mi vivo il tumore come una parte di me”.→ Costrutto di concernenza.

Contrariamente a quanto accade in moltipazienti oncologici, che si chiedono “per-ché proprio a me?”, C.M. identifica ad uncerto punto il tumore come una parte di sé,

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che lo riguarda, non come qualcosa diesterno, ma come qualcosa di interno. Taleidentificazione però non avviene in modoautomatico, perché C.M. dice: “l’ho fatto di-ventare mio… una parte di me”. Sembre-rebbe cioè esserci un processo attivo, e nonnecessariamente consapevole, di identifi-cazione, guidato con molta probabilitàdalle funzioni da cui psicologicamenteesso può essere sostenuto. Si ipotizza chetali funzioni siano quelle di:• ridurre il senso di improvvisazione

dell’evento tumorale, che, in quanto fat-to interno e non esterno, può mag-giormente attenere alla conoscenza egestione del proprio corpo;

• aumentare il senso di controllo e re-sponsabilità, così come avviene per isensi di colpa infantili, susseguenti adeventi di umiliazione, trascuratezza eabuso, comunque traumatizzanti, quan-do essi dipendano da circostanzeesterne non attribuibili al bambino.

L’identificazione concernente col tumore,rafforzandosi vicendevolmente col bisognodi incrementare la sensazione di control-lo e responsabilità, può invece bloccare inmodo paradossale la stima emotiva versoqualunque prospettiva di recupero, guari-gione, benessere ed acquisizione dellaqualità di vita nella convivenza col tumo-re. In questi casi è perciò necessario se-parare i processi di identificazione con-cernente col tumore dalle correlate funzionidi controllo che li supportano. Per C.M. di-venta assolutamente importante, quindi, ri-conoscersi reali capacità e possibilità di ge-stione della malattia o del processo di gua-rigione. Poiché C.M. fa il medico di pro-fessione, uno dei modi per sollecitare in luiazioni funzionali e concrete di gestione delproprio processo di guarigione è quello difavorire soprattutto l’alleanza terapeuticacon l’équipe medica, se non addirittura unacerta complicità reciproca. È importante diconseguenza che i medici in questi casi ab-biano conoscenza dei processi psicologi-ci dei pazienti, perché possano interveni-re nella relazione con essi in modo fun-zionale alla loro partecipazione attiva edalla traduzione pratica del loro senso di con-trollo sulla malattia. È possibile, comunque,che in C.M. la concernenza del tumorecome parte di sé derivi anche dalla pro-spettiva di rimanere con la “sacchetta”esterna, dopo l’intervento.

→ Costrutto autocommiserativo/passivo.Descrivendo la propria identificazione coltumore come una fregatura, C.M. rappre-senta la concernenza del tumore sotto-forma di autogol. Essa si configura cioècome una specie di sventura, che, puravendo nell’assetto depressivo di C.M. lefunzioni di conoscenza e controllo elencate

nel punto precedente, genera delle soffe-renze - trattandosi di una fregatura, non èdesiderata ed è perciò autodeterminata inmodo apparentemente inconsapevole.Tale inconsapevolezza riguarda l’inten-zionalità del processo di identificazione, cheper essere inconsapevole diventa anchenon voluto e passivo, quindi autocommi-serato. Non riguarda invece l’autodeter-minazione dell’effetto, inteso per l’appun-to come fregatura, del processo identifi-catorio. In altri termini, la fregatura diC.M. sta nell’impossibilità di scegliere, inmodo consapevole, di evitare di mantenereun’idea di sé come intrinsecamente malata:questa idea gli è necessaria per conservareun potere conoscitivo e di controllo attivosu quegli aspetti del tumore che, prima didiventare parte di sé, erano percepiticome improvvisi e non conoscibili. Si trat-ta di ciò che in psicoterapia cognitivo-com-portamentale è chiamato paradosso ne-vrotico: il paziente vorrebbe liberarsi del-la propria sofferenza, ma poi mostra resi-stenza al cambiamento perché quella sof-ferenza ha dei vantaggi secondari, dimaggiore rilevanza rispetto agli scopi per-seguiti in quel momento dall’assetto psi-cologico della persona. A questo tipo di pa-radosso nevrotico si possono ascriverecomportamenti di C.M. sia di continuo ri-chiamo e dipendenza dagli operatori sa-nitari sia di controllo su di sé, come con-trollo del proprio tumore. Ancora una vol-ta, adeguati e differenziati stili di alleanzeterapeutiche con i medici e le altre figuresanitarie possono risultare fondamentali pertrovare escamotage che sciolgano anchequesti tipi di paradossi nevrotici. Ad esem-pio, per il caso specifico di C.M. viene sug-gerito che i medici di riferimento, i chirur-ghi, abbiano un atteggiamento flessibile trail direttivo autorevole, se necessario, ed ilcollaborativo partecipativo, mentre gli in-fermieri dovrebbero rispondere solo per esi-genze prettamente cliniche, trascurandoqualsiasi altro tipo di richiesta, e lo psico-logo oltre al lavoro più tecnico e pertinen-te dovrebbe prevalentemente contenere tut-ti gli sfoghi a cui C.M. può dare adito. Ciòconsente a C.M. di ridistribuire meglio leproprie risorse in senso funzionale adobiettivi concreti e raggiungibili e gli resti-tuisce perciò un senso adeguato di effi-cacia.

In merito alla consapevolezza va inoltre fattonotare che in tutti i costrutti di significato di C.M.esiste un livello di metacognizione, di ricono-scimento e gestione cioè dei propri processimentali.Frasi come “non mi fido”, “mi sarei aspettatoun cancro ai polmoni”, “…avrei dovuto capi-re…essendo medico…”, “la fregatura è che iltumore l’ho fatto diventare mio”, “mi vivo il tu-

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more come…” hanno:- verbi di tipo cognitivo, ad esempio fidarsi,

capire, aspettarsi,- rappresentazioni metaforiche, che sotten-

dono sempre processi di trasformazioneemotiva/cognitiva, ad esempio quandoC.M. descrive come si vive il tumore,

- propongono infine un giudizio: “la fregatu-ra è che…”.

La metacognizione è uno dei criteri con cui sivaluta se un soggetto può favorevolmente es-sere trattato con EMDR per eventuali sofferenzeo blocchi traumatici, ed essere quindi espostoad essi. Grazie alla metacognizione durantel’EMDR è possibile infatti creare due rappre-sentazioni distinte e ugualmente presenti deicontenuti traumatici e dei processi di osser-vazione dei medesimi, abbassando così il ri-schio di ri-traumatizzazioni vicarie e dissocia-zioni ulteriori conseguenti. La metacognizionegarantisce cioè un livello di co-coscienza, unlivello di lavoro profondo e consapevole sul ma-teriale disturbante e un’adesione al piano di re-altà presente. Quindi C.M. appare per questaragione già al primo colloquio idoneo al trat-tamento con EMDR.

EMOZIONI ESPRESSE DA C.M. Le emozioni espresse da C.M. in questo primo incontro esottese dai costrutti di significato sono:

• Ansia da incertezza sulla precarietà delle ripostedel proprio corpo

• Senso di impotenza rispetto alla catastroficità per-cepita dell’evento chirurgico

• Rabbia per la non concernenza del cancro al co-lon, date le insane abitudini al fumo

• Senso di colpa per non aver saputo intendere damedico i sintomi prodromi del cancro

• Depressione autosvalutativa in relazione alle pro-prie competenze

• Depressione autocommiserativa per il fatto disentire come una fregatura che il tumore è statotrasformato in una parte di sé.

ATTEGGIAMENTO VERSO LO PSICOLOGOL’atteggiamento di C.M. è prevalentemente collaborativo,ma in qualche momento anche valutativo, date le prece-denti esperienze fallimentari con l’analista. Tuttavia le co-municazioni sono molto assertive, curiose anche nei ri-guardi della mia professione. È possibile che parte del-l’accoglienza incondizionata, che C.M. via via matura sem-pre più nei miei riguardi nel corso dell’incontro, sia favo-rita anche dalla preoccupazione ed interessamento per lafiglia, che studia psicologia e per la quale mi chiede suc-cessivamente una disponibilità a lasciarle delle informa-zioni ed approfondimenti per i propri studi.

ATTEGGIAMENTO VERSO LA POSSIBILE CONSU-LENZA PSICHIATRICAViene chiesto a C.M., come suggerito dall’équipe medi-ca, se desideri rivedere la propria terapia psicofarmaco-logica. C.M. rifiuta questo tipo di supporto, che tuttavia èprescritto in fase post-chirurgica per gli esiti ansiosi indottidalla sedazione della rianimazione. Successivamente

C.M. sospende comunque la somministrazione dello psi-cofarmaco. L’atteggiamento ambivalente verso lo psico-farmaco, che in passato è sempre stato autogestito, mo-stra in questo caso una forma di controllo sul proprio sta-to psicofisico ed una difficoltà ad affidarsi. Lo psicofarmacoè probabilmente vissuto da C.M. come una minaccia adun costrutto più o meno solido di identità, personale/pro-fessionale, autosufficiente e non dipendente, che il pazientesostiene a sua volta boicottando una terapia psicofarma-cologica sistematica e gestita da uno specialista.

INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO DEL PROBLEMA PRESENTATO SECONDO IL DSM-IV.Gli elementi emersi durante il primo colloquio sembranosoddisfare almeno in parte alcuni dei criteri diagnostici delDSM-IV per il Disturbo Post-Traumatico da Stress. Sei sono i criteri per la formulazione di una diagnosi diPTSD secondo il DSM-IV.

A. La persona è stata esposta ad un evento traumaticonel quale erano presenti entrambe le caratteristi-che seguenti:1. La persona ha vissuto, ha assistito, o si è con-

frontata con un evento o con eventi che han-no implicato morte, o minaccia di morte, o gra-vi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica pro-pria o di altri.

2. La risposta della persona comprendeva pau-ra intensa, sentimenti di impotenza o di or-rore.

Da osservare che la malattia oncologica secondoil criterio A1 rimane un “evento traumatico” a pre-scindere dalla condizione A2, che rappresenta larisposta della persona.

B. L’evento traumatico viene rivissuto persistentementein uno (o più) dei seguenti modi:1. Ricordi spiacevoli ricorrenti ed intrusivi del-

l’evento, che comprendono immagini, pensierio percezioni.

2. Sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento.3. Agire come se l’evento traumatico si stesse ri-

presentando (ciò include sensazioni di rivive-re l’esperienza, illusioni, allucinazioni, ed epi-sodi dissociativi di flashback, compresi quelliche si manifestano al risveglio o in stato di di-sintossicazione).

4. Disagio psicologico intenso per esposizione afattori scatenanti interni o esterni che simbo-lizzano o assomigliano a qualche aspettodell’evento traumatico.

5. Reattività fisiologica o esposizione a fattori sca-tenanti interni o esterni che simbolizzano o as-somigliano a qualche aspetto dell’evento trau-matico.

C. Evitamento persistente degli stimoli associaticon il trauma ed attenuazione della reattività ge-nerale (non presenti prima dell’evento traumatico)come indicato da tre (o più) dei seguenti elemen-ti:1. Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o con-

versazioni associate con il trauma2. Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che

evocano ricordi del trauma3. Incapacità di ricordare qualche aspetto im-

portante del trauma

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4. Riduzione marcata dell’interesse o della par-tecipazione ad attività significative

5. Sentimenti di distacco od estraneità verso glialtri

6. Affettività ridotta (ad esempio incapacità di pro-vare sentimenti d’amore)

7. Sentimenti di diminuzione delle prospettive fu-ture (ad esempio aspettarsi di non poter ave-re una carriera, un matrimonio o dei figli o unanormale durata della vita).

D. Sintomi persistenti di aumentato arousal (non pre-senti prima dell’evento traumatico) come indicatoda almeno due dei seguenti elementi:1. Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il

sonno2. Irritabilità o scoppi di collera3. Difficoltà a concentrarsi4. Ipervigilanza5. Esagerate risposte di allarme

E. La durata del disturbo (sintomi ai criteri B, C,e D,)è superiore a 1 mese.

F. Il disturbo causa disagio clinicamente significati-vo o menomazione nel funzionamento sociale, la-vorativo o di altre aree importanti.

• Acuto: se la durata dei sintomi è inferiore ai 3 mesi.• Cronico: se la durata dei sintomi è 3 mesi o più.

L’evento traumatico a cui C.M. sembra essere esposto nonè, come già detto, l’esordio del cancro in sé, o la sua dia-gnosi, quanto piuttosto altre due condizioni:

1) il fatto che il cancro abbia colpito imprevedibilmenteil peritoneo: un organo cioè non sospetto rispettoad altri possibili – i polmoni nello specifico, a cau-sa della frequente abitudine al fumo;

2) la rappresentazione stabile e catastrofica di un in-tervento chirurgico, a cui C.M. si deve ancora sot-toporre e durante il quale immagina un improvvi-so cedimento del proprio corpo, destinato “a ri-manerci sotto”.

Mentre la prima condizione soddisfa il criterio A1, perchéconsiste di un fatto oggettivamente accaduto, che può im-plicare o minacciare la morte, gravi lesioni, la seconda con-dizione invece soddisfa il medesimo criterio per il fatto cheC.M. “si confronta” con l’immagine di un evento futuro. Taleevento deve ancora realizzarsi, ma ha comunque la pro-prietà di minacciare sia la morte – “ci rimango sotto” – siala propria integrità fisica (C.M. è al corrente che con mol-ta probabilità l’intervento gli lascerà la “sacchetta esterna”).Il criterio A2 alle analisi del colloquio clinico appare inve-ce sostenuto dai costrutti di impotenza, che C.M. avreb-be in vario modo esplicitato.Il criterio B sembra soddisfatto prevalentemente dalla con-dizione che lo scenario catastrofico dell’intervento è ab-bastanza intrusivo, stabile e pervasivo nelle rappresen-tazioni di C.M. Inoltre il paziente si comporta non tanto comese l’evento stesse per capitare di nuovo, come descrittonel criterio B3, ma come se fosse già accaduto. Siccomenon è accaduto, perché l’evento possa avere una rap-presentazione remota, occorre che C.M. anticipi costan-temente un fatto che deve accadere – come se si trattassedi un ricordo che riattualizza l’evento nel tempo presen-te. La funzione di queste anticipazioni, come già accen-nato, è quella di evocare un dominio, un controllo sul-l’esperienza – tenendola presente; ma ciò di cui tale fun-zione rende conto è solo un forte senso di frustrazione ed

impotenza, perché, oltretutto, non è possibile trovare so-luzioni ad un problema se il problema non si rivela anco-ra nelle sue caratteristiche.Il criterio C appare soddisfatto per gli aspetti di ottundimentoo “numbing” nella considerazione paraverbale dell’eloquiodi C.M. Esso infatti risulta rallentato e sostenuto da un tonodi voce sbiadito, a tratti monotonico.Il criterio D pare definirsi per C.M. in quei momenti in cuia tratti il senso di impotenza e la rassegnazione è alter-nato all’ansia da incertezza per la precarietà delle me-desime risposte fisiche, attese in fase di intervento chi-rurgico.Risulta chiaro che dei due vissuti traumatici possibili perC.M., quello relativo alla rappresentazione della fallacia del-l’intervento e delle simultanee risposte fisiche soggettiveesaurisce maggiormente i criteri diagnostici per il PTSDe, data l’incombenza dell’intervento chirurgico dopo 5 gi-roni dal colloquio, ottiene una priorità di trattamento psi-cologico, quando anche C.M. ne abbia considerato l’utili-tà e fornito il consenso.Le osservazioni cliniche di tipo diagnostico saranno co-munque corroborate, dopo il consenso di C.M. al tratta-mento con EMDR, dalla valutazione strumentale delPTSD con il questionario CABS.

RESTITUZIONE A C.M. E DEFINIZIONE CONDIVISADEL PROBLEMA PRESENTATO

Alla fine di questo primo incontro, chiedo a C.M. quali sia-no le emozioni ed i pensieri per lui più disturbanti in quelmomento. La risposta attiene rispettivamente al senso divulnerabilità fisica e al susseguente giudizio di mancan-za di fiducia nei riguardi del proprio corpo.Spiego quindi a C.M. come queste due caratteristiche sia-no tipiche nel contesto oncologico e che, proprio per que-sto, vengono tenute in considerazione suggerendo per essedegli interventi psicologici specifici. Introduco quindi a C.M.qualche concetto riguardo al trauma e alla traumatizzazione,senza fare ovviamente riferimento alla diagnosi di PTSD– tra l’altro non ancora accertata – e ai suoi criteri. Descrivopoi l’EMDR come strumento utile ed efficace a scioglie-re alcuni blocchi, alcune angosce o pensieri intrusivi, chepossono creare disagi vari, compresi quelli del sonno. Chie-do inoltre a C.M.:

1) se gradisce poter accogliere un intervento che lopossa aiutare a sentirsi meglio prima dell’interventochirurgico;

2) se nello specifico avrebbe considerato prioritarioincrementare un “senso” di sicurezza e fiducia ri-spetto al proprio sé corporeo. Specifico che si trat-ta della possibilità di rafforzare un sentimento di si-curezza e fiducia e non di creare delle “certezze”ottimistiche sull’intervento chirurgico ed i suoi po-stumi;

3) se è favorevole all’uso di alcuni strumenti psicologicitestistici per l’osservazione delle variazioni dellesue risposte prima e dopo l’eventuale interventocon EMDR;

4) se offre il consenso perché i suoi dati relativi al-l’intervento con EMDR siano collezionati insiemea quelli di altri pazienti all’interno di un progetto diricerca sull’EMDR in oncologia, promosso dall’IRE.Viene specificato a C.M. che l’adesione al tratta-

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mento psicologico è indipendente da quella per ilprogetto di ricerca con EMDR e che può benefi-ciarne, anche senza scegliere di rendere disponibilile osservazioni ricavate per finalità scientifiche.

C.M. offre il consenso a tutte e quattro le richieste.

Secondo incontro 13-05-2010

Il secondo incontro avviene il giorno successivo al primocolloquio ed è preceduto da una breve restituzione ai me-dici di quanto osservato al primo incontro con C.M.

RESTITUZIONE AI MEDICILa restituzione all’équipe medica è data alla fine di ogniincontro con C.M. tramite resoconto verbale. La prima vol-ta consegno a tutti i membri dell’équipe brevi appunti scrit-ti relativamente:

- ai temi dominanti di C.M. correlabili alla malattia on-cologica,

- a qualche considerazione sulla funzionalità di talitemi entro l’organizzazione di personalità de-pressiva,

- ad alcune ipotesi sugli sviluppi possibili del com-portamento di C.M. durante la degenza,

- ad alcune indicazioni sulle strategie relazionali pro-babilmente migliori da adottare.

In particolare annoto che C.M. potrebbe non dichiarare maiabbastanza di star bene, anche quando ci stia, e avere at-teggiamenti sia di dipendenza che di controllo nei riguar-di degli operatori sanitari. Suggerisco quindi:

- un atteggiamento assertivo sulle comunicazioni delpaziente, in grado di sollecitare collaborazione,

- di differenziare lo stile relazionale: più direttivo ea tratti complice da parte dei chirurghi, solo ri-spondente ai bisogni fisici concreti da parte dellostaff infermieristico, privo cioè di qualunque tipo dicollusioni, e più contenitivo da parte dello psico-logo.

SOMMINISTRAZIONE DEI QUESTIONARIViene presentata nel dettaglio la tecnica dell’EMDR e sichiede il consenso informato sia alla raccolta delle infor-mazioni tramite questionari, sia all’intervento con EMDR,sia infine al trattamento dei dati personali per finalità scien-tifiche.Viene successivamente compilato il CABS, che è un que-stionario eterosomministrato, per la valutazione del disturbopost-traumatico da stress. Tutti gli altri questionari, essendoautosomministrabili, vengono lasciati a C.M. e ritirati il gior-no successivo quando verrà applicato l’EMDR. Inoltre tut-ti i questionari somministrati sono quelli previsti all’inter-no del progetto di ricerca “Valutazione degli esiti medico-clinici e psicologici in seguito all’applicazione dell’EMDRin pazienti oncologici con PTSD o disturbi dello spettro post-traumatico da stress”, promosso dalla direzione scientifi-ca dell’I.R.E. I questionari sono:

• CABS: Clinical Administrated PTSD Scale: Sca-la di valutazione del PTSD eterosomministrato

• QPF: Questionario psicofisiologico• Hamilton Anxiety Scale: Scala dell’Ansia di Ha-

milton• Irritability Depression Anxiety Scale: Scala

dell’Irritabilità dell’Ansia della Depressione. Sitratta di un questionario usato per la valutazionedegli stati indicati in condizioni di malattia fisica

• STAY1: State –Trate Anxiety Inventory: per l’ansiadi stato

• STAY2: State –Trate Anxiety Inventory: per l’ansiadi tratto

• BDI: Beck Depression Inventory• Scala d’impatto dell’evento• COPE: Questionario sulle modalità di gestione ed

adattamento alle esperienze stressanti.

Terzo incontro 14-05-2010

TRATTAMENTO CON EMDR

Scopo del trattamentoConvengo con C.M. che scopo del trattamento è ottene-re:

• di pensare all’intervento chirurgico con una sen-sazione ed una prospettiva di fiducia;

• un incremento di fiducia e sicurezza sulla “possi-bilità” che il proprio corpo superi appropriatamente,seppur con fatica, eventuali incombenze negativedurante o dopo l’intervento chirurgico;

• di attivare e riconoscere emozioni di calma in re-lazione alla percezione fisica;

Strategie terapeuticheViene applicato il protocollo standard dell’EMDR.

Applicazione dell’EMDRIl trattamento ha impiegato un’ora ed ha compreso comeda prassi:

• l’installazione del “posto al sicuro”, funzionale allastabilizzazione introduttiva del paziente, al recu-pero della medesima stabilizzazione per i momentiin cui viene persa durante le altre fasi del proto-collo standard dell’EMDR, ed infine funzionale an-che alla presentazione della procedura in sé.

• La procedura dell’EMDR.• Chiusura dell’intervento tramite l’esercizio del

“raggio di luce”.

Scheda di lavoro EMDR

Pre-EMDRImmagine peggiore: Scenario dell’intervento chi-rurgico e previsione di non sopravvivere ad esso.CN: negative cognition: “Non mi fido del mio cor-po” → “Ci rimango sotto” CP: positive cognition: “Io posso fidarmi che ilmio corpo ha qualche chance di superare l’inter-vento”.VOC: value of positive cognition: 1 (da 1 a 7) -[Risponde alla domanda: “ Quando pensa all’im-magine peggiore o all’evento, quanto vere “sen-te” le parole (si ripete la cognizione positiva) ora,in una scala da 1 a 7, dove 1 significa completa-mente falso e 7 completamente vero?].Emozione disturbante: Ansia-Angoscia.SUD: desase unit scale: 7-8 (da 0 a 10)Somatic position: Plesso solare.

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Post-EMDRImmagine peggiore: Scenario dell’interventochirurgico e previsione di non sopravvivere ad esso.CN: negative cognition: /PS: positive cognition: “Perché non dovrei far-cela? Perché peso di più? Perché fumo? Tanti cirimangono per molto meno e tanti altri come mece l’hanno fatta, ce la posso fare pure io”.VOC: value of cognition: 7 (da 1 a 7)Emozione disturbante: “no… sto bene… vogliorifarlo dopo l’intervento chirurgico”.SUD: desase unit scale: 1 (da 0 a 10)Somatic position: /

Atteggiamento verso l’intervento con EMDRLe comunicazioni di C.M. sono durante tutto l’interventogrosso modo attendibili. Quando però tra un set e l’altrodi stimolazione bilaterale con EMDR si tratta di valutarela percezione soggettiva del disagio psicofisiologico e delsuo miglioramento, ogni tanto C.M.:

1) usa l’espressione: “più o meno… come prima…”e mostra difficoltà a riconoscere quei miglioramenti.Poi, chiedendo di ricordare di associare il valoreestremo della scala Likert pari a 10 al peggior di-sagio percepito fino a quel momento, C.M. diventamaggiormente più fine nelle discriminazioni di in-tensità delle proprie sensazioni fisiche ed emoti-ve;

2) mostra un rifiuto a priori della possibilità di rag-giungere un valore di assenza di disagio pari a 0su una scala 0-10, dove 0 rappresenta assenza didisagio, 10 massimo livello di disagio. “Tanto nonci arriverò mai a 0 …se lo scordi”. La frase venivapronunciata non con atteggiamento di sfida ma conironia e contemporaneo senso di benessere e sod-disfazione. Data la condizione oncologica del pa-ziente e dell’incertezza che questa implica già pri-ma dell’intervento chirurgico, ritengo accettabile unlivello di SUD pari a 1. Nonostante il livello di SUDrimanga ad 1 e non scenda sotto lo 0, sorprendetuttavia la direttività con cui C.M. comunica di sen-tirsi soddisfatto di quell’1 e del benessere acquisi-to, quasi che un margine di disagio sia per lui co-munque necessario ai vantaggi secondari, descrittiprima, entro la sua organizzazione depressiva.Il mio atteggiamento è quello di accettare le suedimensioni, le sue scale. Non oltre. Non formuloinoltre conclusioni, che delego invece al confron-to tra gli esiti dei questionari prima e dopo l’EMDR.

Quarto incontro 18.05.2010

Il quarto incontro avviene a distanza di quattro giorni daltrattamento con EMDR: vengono risomministrati tutti in-sieme i questionari per il re-test.

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Nella fase pre EMDR tutti i criteri necessari alla diagnosidi un PTSD sono soddisfatti.Nella fase post EMDR invece il criterio C, che riguarda isintomi di evitamento ed ottundimento, non è soddisfatto:

poiché per la diagnosi di PTSD è necessario che venga-no contemplati tutti i criteri A-F, è possibile sostenere nel-la fase di post trattamento una remissione del PTSD. In particolare il criterio C9, cioè il ridotto interesse o par-

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tecipazione ad attività, viene a mancare. Ma anche i cri-teri C11 e C12, che fanno rispettivamente riferimento al-l’affettività ridotta e al senso di diminuzione delle prospettivefuture, sebbene ancora presenti, ottengono nella fase re-test dei punteggi di frequenza e gravità molto ridotti. Essipassano da valori di 3 (molte volte) e 3 (molto grave) perentrambi i criteri a 2 (qualche volta) e 1 (lieve gravità) perl’affettività ridotta, e ad 1 (poche volte) e 2 (moderata gra-vità) per la diminuzione delle prospettive future. D’altra par-te livelli di 2 e 1 possono essere comprensibilmente pre-senti, perché comunque abbiamo a che fare con un pa-ziente oncologico che deve ancora affrontare tutto l’iter te-rapeutico, incluso l’intervento chirurgico. I cambiamenti os-servati nel criterio C sembrano correlabili anche alle va-riazioni che si realizzano con EMDR sul piano delle co-gnizioni: C.M. riacquista fiducia nella possibilità di averedelle chance di superare l’intervento chirurgico, conse-guentemente aumenta il livello di coinvolgimento e par-tecipazione e decresce il senso di diminuzione delle pro-spettive future. Inoltre, considerando i sintomi di rievocazione (criterio B),il criterio B3, inteso non come sensazione di rivivere l’epi-sodio, ma come sensazione che l’evento futuro sia già ca-lato nell’immediato presente, è percepito qualche voltacome molto grave nel pre EMDR e completamente assentenel post EMDR. In qualche modo la rappresentazione cheil proprio corpo rimanga sotto i ferri non intrude più, spa-rendo completamente nei tre gironi successivi al tratta-mento. I sintomi di iperarousal del criterio D, segnano una mar-cata risoluzione delle difficoltà di addormentamento: pri-ma dell’EMDR sono qualche volta presenti con intensitàdi disturbo moderato, mentre dopo l’EMDR non vengonopiù segnalati. Tuttavia, dopo il trattamento è registrata una lieve rara pre-senza dei sintomi di ipervigilanza: essa può correlarsi allariduzione dei sintomi di ottundimento del criterio C e allostato di maggiore interesse e partecipazione attiva.In generale, per tutti gli altri criteri si osserva una riduzionedella frequenza e della gravità con cui vengono percepi-ti i sintomi. Va tuttavia argomentato che, non trattandosi di una psi-coterapia, ma di un intervento singolo e breve, dove tra laregistrazione pre e post EMDR intercorrono solo 5 gior-ni, gli esiti positivi possono essere considerati come at-tendibili, anche se non consolidati, mentre quelli che in-dicano soltanto una tendenza positiva al cambiamento, purnon marcandolo, andrebbero intesi come da rafforzare ul-teriormente. È utile ricordare tuttavia che l’EMDR si basa su mecca-nismi fisiologici innati di auto guarigione, che, una voltasbloccati, riattivati, anche solo con una singola seduta di

EMDR, progrediscono secondo un effetto alone in modoautonomo, e dal terapeuta e dal paziente e dal tempo cheintercorre tra una seduta di EMDR e l’altra.Sta di fatto che nei giorni successivi al trattamento e cheprecedono l’intervento chirurgico, C.M. mantiene uno sta-to di vigilanza funzionale, sostenuta ancora dalla perce-zione, maturata con l’EMDR, di avere chance di farcela. Le osservazioni raccolte da tutta l’équipe medica sull’umorepositivo di C.M. durante quei giorni si dimostra indipendentedall’osservatore e convergente con quelle dello psicolo-go e dei familiari.Quell’umore fiducioso consente a C.M. di migliorare in queigiorni la qualità delle relazioni con gli operatori sanitari, diapprossimarsi all’intervento chirurgico con serenità e di sa-lutare, infine, con identica calma i familiari, i quali d’altraparte riflettono su di lui il suo stesso senso di fiducia e se-renità. Si devono aggiungere altre due note.La prima è che l’équipe medica segue C.M. con molta at-tenzione anche da un punto di vista psicologico. Ciò fa-vorisce sicuramente in C.M. prima dell’intervento chirur-gico un grado di partecipazione e di sicurezza emotiva.La seconda è che C.M. resta in rianimazione per oltre unmese. Quando rientra in reparto esprime altri disagi cheattengono al ricordo di effetti allucinatori, probabilmentedovuti ai processi biochimici, normalmente implicati nel-la sedazione che viene somministrata durante la riani-mazione. Il tema dominante si rivela in questo caso quel-lo della vulnerabilità psicologica. C.M. chiede: “quello chesentivo, quello che mi sembrava di vedere, era reale o no?Sto diventando pazzo per caso?”. È stato sufficiente co-municare al chirurgo queste preoccupazioni e decidere difornire a C.M. delle spiegazioni tecniche riguardo processied effetti della sedazione, che in rianimazione può esse-re di prassi, per normalizzare lo stato di dubbio. Succes-sivamente, realizzo un secondo intervento di “installazio-ne delle risorse” con EMDR, per rafforzare il riconoscimentoin C.M. della personale capacità di monitorare i propri pro-cessi mentali (in qualche modo le sue capacità metaco-gnitive) e di saper in quel momento discriminare un pia-no di realtà da uno meno reale.Anche in questo caso va rilevata l’importanza della mul-tidisciplinarità, dell’alleanza non solo tra medici e pazienti,o pazienti e psicologi, ma anche tra medici e psicologi, trapsicologi ed infermieri, in funzione del benessere sia delpaziente medesimo che degli operatori sanitari che lavo-rano per lui. L’integrazione multidisciplinare aumenta in tut-ti, anche nel paziente, il senso di autoefficacia e l’effica-cia medesima delle proprie azioni.Vengono di seguito presentate le schede riassuntive deipunteggi raccolti per tutti gli altri questionari prima e dopol’EMDR.

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I punteggi del Cope prima e dopo il trattamento con l’EMDRsembrano grossomodo simili. Si nota una leggera variazione nel copying della pianifi-cazione, i cui punteggi aumentano dopo l’EMDR.Diminuiscono inoltre i punteggi che riguardano il copying

della soppressione di attività interferenti, del disimpegnomentale e del trattenersi. Queste quattro più evidenti va-riazioni sembrano in linea con i cambiamenti osservati nelcriterio C9 del CABS, dove è mostrato un significativo au-mento dell’interesse e della partecipazione ad attività.

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In tutti i dati raccolti dai questionari si notano sia primache dopo l’EMDR punteggi che rientrano nei valori medi.Tuttavia, la tendenza dopo il trattamento indica una di-minuzione dei punteggi sulle scale che rappresentano in-dici psicofisiologici ed emotivi negativi.Solo l’Irritation Depression Anxiety Scale evidenzia un cam-biamento in senso normativo dei punteggi della depres-sione e dell’ansia dal pre al post trattamento con EMDR:

prima si osservavano punteggi superiori alla media e dopoentro la media.Inoltre si osserva un significativo cambiamento su due del-le tre scale dell’Impatto all’Evento tra il pre ed il post EMDR:l’evitamento passa da 10 a 7, l’intrusione dei pensieri da13 a 9, mentre l’iperarousal sembrerebbe stabile. Questopassaggio è in linea con i cambiamenti osservati nel cri-terio C (sintomi di evitamento ed ottundimento) del CABS.

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Si deve considerare che i questionari diversi dal CABS sonostati somministrati a C.M. perché previsti dal protocollo diricerca - “Valutazione degli esiti medico-clinici e psicolo-gici in seguito all’applicazione dell’EMDR in pazienti on-cologici con PTSD o disturbi dello spettro post-traumati-co da stress”- in cui il paziente ha acconsentito di esse-re incluso. I punteggi di tali questionari andrebbero letti in-tegrandoli a quelli del campione totale reclutato nel pro-getto. Perciò i dati di C.M. osservati in questi test, esclu-so il CABS specifico per la valutazione del PTSD, hannoun valore descrittivo e di andamento. Ai fini degli obietti-vi clinici condivisi con C.M. e dell’analisi del singolo caso,non possono cioè essere fatte generalizzazioni di signi-ficatività statistica sulle inferenze e correlazioni tra gli esi-ti di tutti i questionari usati.

Conclusioni

Quali aspetti dell’intervento psicologico con EMDR nel casoillustrato di C.M. traducono elementi dei processi di uma-nizzazione recentemente avviati all’IRE-ISG di Roma?In che modo l’applicazione dell’EMDR, quando indicata peri disagi psicofisici ed emotivi dei pazienti oncologici, fa-vorisce e sostiene quei processi anche nell’ambito dei re-parti di chirurgia oncologica?Considerando che le strategie di umanizzazione intendonorispondere ai bisogni del paziente per come sono espres-si, più o meno implicitamente, dal paziente medesimo sipossono formulare tre risposte.

1) L’EMDR è sempre un intervento centrato sulla per-sona.Si è ritenuto opportuno proporre a C.M. un tratta-mento psicologico con EMDR, non solo perché dalprimo colloquio emergevano le caratteristiche di unpossibile PTSD, di cui l’EMDR è la tecnica eletti-va, ma soprattutto perché C.M. era disfunzional-mente condizionato dalla rappresentazione di uncorpo fallace e di uno scenario futuro di morte, an-ticipato quasi come certo con stile depressivo/ras-segnato. In altri termini l’EMDR è intervenuto sudifficoltà prodotte da un evento non certo e non an-cora accaduto. Date le incombenze clinico fisiche e quindi psi-cologiche dell’esperienza di malattia oncologica,specie nei reparti di chirurgia oncologica, i pazientivengono spesso spontaneamente soccorsi quan-do diano evidenti segnali di disagio in relazione aqualche evento contingente precipitante: nonsono tuttavia compresi o non sono trattati, e se losono vengono trattati frequentemente in modo su-perficiale, quando siano esposti alle angoscedell’incertezza di eventi futuri solo immaginati. Sitende cioè in questi casi, quando il problema è co-munque segnalato, a dare un supporto psicologi-co rassicurante, che tradisce la reale comprensionedelle paure del paziente ed anzi rischia di sminuirle.Il rischio a tale tendenza è anche da parte deglipsicologi.L’EMDR è strutturato di per sé in vari protocolli che,come mostrato anche per C.M., dispiegano l’in-tervento lungo i tre assi temporali del passato, pre-sente e futuro. Questo consente di intervenire inmodo puntuale anche su quelle difficoltà, molto fre-

quenti d’altra parte nei pazienti oncologici, che sonoprodotte dall’incertezza degli eventi futuri o da unaloro rappresentazione negativa e soggettivamen-te attendibile.Inoltre, fondandosi su processi innati di auto-gua-rigione e prevedendo perciò uno scarso uso del-le parole da parte del terapeuta, l’EMDR restitui-sce dignità ontologica a queste difficoltà, in quan-to non le violenta con interventi che propongonoil sistema di significati dello psicologo e invece nerispetta la consistenza soggettiva.Per queste sue due caratteristiche, possibilità di in-tervenire lungo una proiezione temporale dei pro-blemi del paziente e assenza dell’intrusività strut-turale da parte del terapeuta nei processi di ela-borazione integrativa del soggetto, l’EMDR favo-risce il riconoscimento delle esigenze della personamalata e sostiene perciò i processi di umanizza-zione.

2) L’EMDR implica anche interventi contingenti, bre-vi, di efficacia ed efficienza dimostrata, che ben siintegrano alle esigenze e ai tempi di lavoro di unastruttura oncologica.C. M. è stato trattato una sola volta col protocollostandard dell’EMDR e per la durata di un’ora, po-tendo sciogliere alcuni blocchi che lo rendevanoincapace di aspettare ed affrontare l’intervento chi-rurgico serenamente. Altri tipi di supporti psicolo-gici e/o terapeutici avrebbero impiegato tempi dirielaborazione molto più lunghi, rischiando diconfiggere con le esigenze ed incombenze fluttuantidi una struttura o di un reparto di chirurgia onco-logica. La possibilità di offrire uno strumento di in-tervento efficace ed efficiente nel tempo crea per-ciò i presupposti per processi di umanizzazione dipiù ampio respiro, che contemplino anche i biso-gni e le esigenze dell’istituzione ospedaliera.

3) L’EMDR dispone di protocolli di intervento diversi-ficati che favoriscono un’articolata e diffusa sod-disfazione dei bisogni psicologici del paziente.Il trattamento di C.M. con EMDR si è avvalso ini-zialmente del protocollo standard, elettivo per iPTSD, che ha prodotto un cambiamento nello sta-to e nel senso di vulnerabilità soggettiva.Ma l’EMDR non si propone solo come tecnica elet-tiva per i PTSD. Dispone infatti di protocolli specificidi intervento che consentono di aiutare i pazientioncologici anche per i disturbi somatoformi, perquelli del dolore, per le dispercezioni dell’immaginecorporea ecc.L’EMDR sostiene perciò i processi di umanizza-zione nella misura in cui riesce a discriminare inmodo fine le esigenze ed i bisogni dei pazienti econseguentemente anche a trattarli.

4) L’EMDR favorisce processi di re-identificazioneIl secondo protocollo EMDR usato con C.M. per l’in-stallazione delle risorse ha incrementato il rico-noscimento delle proprie capacità metacognitive.Ciò vuol dire che l’EMDR incontra i processi di uma-nizzazione non solo quando produce un cambia-mento nell’assetto psicologico dei pazienti, ma an-che quando restituisce loro ciò che già hanno, aiu-tandoli a fidarsi di se stessi per questo. Soddisfacioè il bisogno del paziente di reidentificarsi con

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se stesso, se e quando l’evoluzione della malat-tia oncologica crea stati di confusione e deperso-nalizzazione.

5) L’EMDR, usato nei setting dei raparti oncologici,implica un consenso multidisciplinare che integrale sinergie professionali e favorisce la soddisfazionedei pazienti in modo più sostenuto, stabile e cre-dibile.Poiché l’applicazione di un protocollo standard del-l’EMDR consuma più o meno un’ora, l’interventoha necessità di avvalersi di un tempo ed uno spa-zio definiti. Quando viene proposto per un pazienteoncologico ricoverato in condizioni di degenza, ènecessario condividere con l’équipe medica gli sco-pi di tale intervento per poter legittimare l’uso di unsetting che appartiene tipicamente ai reparti. Ciòcrea l’occasione per avviare e maturare unoscambio multidisciplinare che nel caso di C.M siè rivelato funzionale inizialmente sia alla sua esi-genza di sentirsi bene, fiducioso, in previsione del-l’intervento chirurgico, sia a quella dei medici di in-contrare un paziente collaborativo e non rasse-gnato. Questo ha consentito a C.M. di chiedere dipoter essere seguito ancora psicologicamente dopole sue dimissioni e quindi di intendere l’ospeda-lizzazione non solo come un tempo dissociato osospeso, interrotto rispetto al fluire della sua vita,ma anche come intermedio lungo un continuum fat-to di un prima e di un dopo. Ha consentito inoltredi sentire la struttura ospedaliera come un luogo

dove acquisire risorse di cui avrebbe potuto av-valersi anche fuori o oltre l’iter dell’ospedalizzazione.Ciò risponde esattamente al nuovo concetto deipercorsi di umanizzazione dell’ospedale, avviatopresso l’IRE-ISG recentemente, che intende coin-volgere i pazienti in attività importate dalla routi-ne quotidiana o da esportare in essa, come l’ar-te della pittura, la musicoterapia, lo yoga ed altreancora.

Ringraziamenti

Ringrazio l’intera équipe della Chirurgia Digestiva Onco-logica dell’I.R.E, il primario Prof. Alfredo Garofalo, il Prof.Mario Valle, la Dott.ssa Orietta Federici, il Dott. Fabio Car-bone, il Dott. Franco Graziano, tutto il personale infer-mieristico, per aver adeguatamente e precocemente se-gnalato C.M come una persona sensibile di attenzione psi-cologica, per aver quindi prestato questa attenzione lor me-desimi durante tutta la degenza di C.M., ed aver infine datotempo anche allo psicologo di condividere con loro ri-flessioni e pareri sull’andamento terapeutico di C.M., siada un punto di vista medico-clinico che psicologico.

Bibliografia

1. American Psychiatric Association. DSM-IV (1994). Diagno-stic and Statistical Manual of Mental Disorder. Washington,DC: American Psychiatric Press.

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Quali elementi della relazione medico-paziente possonoin chirurgia oncologica mediare un processo di umaniz-zazione e favorire la soddisfazione dei bisogni impliciti edespliciti del paziente?Ci è sembrato utile ascoltare il parere di un chirurgo, Il prof.Mario Valle, chirurgo della chirurgia digestiva dell’IRE, perproporre qualche risposta alla domanda e tentare di av-viare una riflessione sul tema.

Lei fa il chirurgo ormai da 30 anni e tratta più spessopatologie oncologiche avanzate: come si pone di fron-te ai suoi pazienti affetti da tumore?L’impatto è diverso a seconda del momento in cui il pazienteviene da me, ovvero se è una prima visita chirurgica ef-fettuata su consiglio del curante o se il paziente viene in-viato per consulenza da un collega oncologo. Oppure seil rapporto inizia direttamente con il ricovero per intervento.

Spieghi meglioIl paziente che viene a prima visita, inviato dal curante, vuo-le una diagnosi e soprattutto una cura, e quando si parladi tumore è proprio il chirurgo che “porta via il cancro” e ilpaziente si aspetta la guarigione. Bisogna essere chiari manon crudi, amichevoli ma non consolatori. Soprattutto pro-fessionali, non nel senso di tenere a distanza il paziente quan-to “clinicamente professionali”, ovvero dire la verità, non darefalse speranze ed ergersi al salvatore o ancor peggio mi-nimizzare: il malato non vuole essere tranquillizzato, vuo-le guarire. Cercare sempre di creare un rapporto extra, par-lando anche d’altro: “dove abita?” “io abitavo in quella zonafino a 10 anni fa”. Creare cioè un elemento in comune cheproduca empatia, che renda meno dura la notizia dell’in-tervento e della malattia, restando sempre con i piedi in ter-ra e definendo le eventuali complicanze possibili, i risulta-ti incompleti, la necessità di effettuare una terapia adiuvante.Spiegare soprattutto oggi come il chirurgo è solo l’anello diuna catena, un passaggio fondamentale ma non sufficienteper risolvere il problema e che quindi non finisce tutto dopol’intervento: ci saranno la chemioterapia, i follow up, le ripresedi malattia dubbie o vere. Insomma il paziente non deve es-sere solo preparato psicologicamente ad accettare un in-tervento, ma deve essere conscio di tutto l’iter sapendo peròche con il tumore “si può vivere”.

E che differenza c’è con il paziente inviato dall’onco-logo?È tutta un’altra cosa. In questo caso il malato sa tutto, leterapie che ha fatto, le risposte della TC e della PET, l’evo-luzione della malattia. Ha letto tutto e forse troppo su in-ternet e sa che se si trova lì è perché tu sei l’ultima spiag-gia, sarà l’intervento a modificargli la qualità di vita e pro-babilmente a renderla più lunga. Quindi è speranzoso efiducioso e vuole solo che tu gli dica che si può fare qual-cosa di chirurgico, visto che la terapia medica non può faredi più. Ti fa domande quasi mediche di tecnica chirurgica,e devi spiegare, fare disegni, dare alternative tecniche, cre-ando anche in questo caso una certa complicità con fra-si a cui credo fermamente, tipo: “ io faccio la mia parte dichirurgo ma se vogliamo che tutto fili liscio Lei deve farela sua” ,“cioè?”, “ essere incazzato e voler guarire, se sisente stanco dopo l’intervento e non le và di alzarsi, lo fac-cia come cura, tenga sempre presente che senza il suoaiuto la degenza si allunga e lei guarisce più tardi”.

Ho capito, ma non tutti i malati sono ugualiÈ vero: ogni malato ha una sua storia, un suo approccio allamalattia, ma sempre quello che vuole dal chirurgo è una ri-sposta chiara, non necessariamente positiva, ma chiara. Tidomandano se l’intervento è doloroso, come sarà la cica-trice, come per deviare il discorso dal cancro ad altro e allafine ti chiedono: “…ma poi guarisco?” Ci sono pazienti com-battivi che farebbero qualunque cosa pur di tornare a “gio-care a calcetto”, altri che si sentono già morti e tocca a noiammorbidire i primi e spronare i secondi a combattere.

Quali altri elementi entrano in gioco al primo approcciocon un paziente oncologico?I parenti. Come li vedi ti rendi conto quanto i familiari, gliamici e comunque le persone vicine al malato siano spes-so la causa diretta o indiretta del suo stato psicologico.Spesso i pazienti si fanno accompagnare dalla moglie odal marito, dal figlio e dall’amico e il paziente non parla…Chi racconta è l’accompagnatore, un atto di interessamentoe gentilezza che però fa sentire il malato ormai quasi “in-capace” di badare a se stesso. Indaghi sulla presenza diun sintomo e risponde il marito o la moglie, chiedi gli esa-mi fatti e sono in una cartellina che tiene in mano l’ac-

Elementi e processi di umanizzazionein chirurgia oncologica. Intervista al prof. Mario ValleCapezzani L.1, Valle M.2

1 Psicologa-psicoterapeuta cognitivo comportamentale, psicooncologa, responsabile Area della Psicotraumatologia ed Emergenza Oncologica– UOSD Psichiatria IRE-ISG, Roma2 Chirurgo Chirurgia Digestiva IRE-ISG, Roma

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A compagnatore. In questi casi il mio approccio è diretto conil malato, lo guardo in faccia e pongo le domande diret-tamente a lei/lui, disinteressandomi di quanto dice l’ac-compagnatore e noto come man mano ci sia un risvegliodella sua identità, si crei un rapporto di complicità tra mee lui/lei. Come dire: “il medico parla con me, allora sonoio che decido, sono ancora in grado di gestire la cosa” equesto stringe il rapporto tra me e lui/lei, tanto che spes-so, dopo la visita, è il malato – e non il parente, che mi chie-de “…allora? Aspetto la sua chiamata per il ricovero? Miraccomando!”. Spesso i parenti di questi malati tornano aparlare dopo la visita e mi chiedono “ mi dica la verità” ela risposta è sempre la stessa: “l’ho detta prima davantial malato”.

Non crede sarebbe utile instaurare una forma diffe-renziata di empatia anche con i familiari del paziente,per favorire il processo di adattamento alla malattia edi guarigione del paziente medesimo?Sì, certamente, ma in un secondo tempo, non alla primavisita. Ovvero quando il paziente è ricoverato: è più faci-le, riesci a conoscere i vari parenti, a discernere tra chi siinteressa veramente al malato, chi lo segue ed è preoc-cupato e chi invece viene a chiedere notizie solo per farvedere che “lui” riesce a farsi dire qualcosa di più dal chi-rurgo. Credo che l’empatia si crei con il parente veramentepiù legato al malato e in genere è una sola persona, nontutte quelle che vengono a chiedere notizie che poi nonsi scambiano tra di loro.

Invece qual è l’approccio e quali sono le eventuali dif-ficoltà se il rapporto inizia direttamente con il ricoveroper intervento?In genere si tratta di malati visti in prima visita da altri col-leghi, e in questo caso hanno un medico di riferimento, chenon sei tu. Quindi il loro rapporto fiduciario è con un altromedico, e al primo impatto non ritengono utile creare unrapporto con te. In questi casi l’empatia si crea solo se ca-pisci il “tipo” e riesci a dargli quello di cui ha bisogno e nonnecessariamente quello che vuole. Mi spiego meglio. Il pa-ziente che vive la malattia negativamente e vorrebbe es-sere consolato e compatito non ha bisogno di consolazionee compassione, ma, come dicevo prima, di essere spro-nato a vedere lontano. Devi dargli obiettivi giornalieri tipo“domani togliamo il drenaggio e starai meglio” “tra poco sa-rai dimesso”, non guarito ma dimesso. Ovvero devi spo-stare il suo obiettivo non alla guarigione completa ma aldomani, che sarà sicuramente migliore. Un’ ultima cosa:non sempre il medico che lo segue è presente. In questicasi il paziente si sente perso, come non avesse nessu-no che lo assiste, e solo se hai creato un gruppo medicoforte, univoco, dove l’uno vale l’altro, il malato si sentirà co-munque “protetto”. A tutto questo si aggiunge perciò l’im-portanza di un gruppo più vasto di professionisti, il pazientesi deve sentire come su un’autostrada che lo guiderà intutto il suo percorso, deve sapere che tutto sarà conca-tenato: dal trattamento chirurgico al supporto psicologico,dalla fisioterapia alla chemioterapia, al follow up è tutto pro-grammato e che chi lo prenderà in cura, ragiona e operacome il medico che lui ha scelto come referente iniziale.

Quali atteggiamenti o comportamenti aiutano secon-do il suo punto di vista e la sua esperienza ad in-staurare un rapporto di empatia con il paziente?

Mah!, sono molto personali, c’è il medico che dice battu-te, quello che racconta barzellette, quello distaccato e mol-to professionale che non sa neanche il nome del malato.Posso dire che, per quanto mi riguarda, cerco di portareil camice in reparto il meno possibile perché ho semprevisto il camice bianco come una specie di scudo tra me-dico e malato, una specie di “io sono il medico e sono tuopadrone! Farai l’ecografia, la TC e gli esami del sanguesolo se sarò io a richiederli…” “…sei mio ostaggio!” For-se non è così, ma devo dire che non portarlo sempre, aiu-ta. Come pure instaurare il dialogo con il “tu”, fare un ge-sto amichevole: certo senza mancare mai di rispetto al pa-ziente, ma mettendolo a suo agio dove tu medico sei unsuo pari, però esperto per quello che a lui serve in quelmomento.

Presso l’IRE, dove lavora, recentemente sono stati av-viati dei processi di umanizzazione la cui mission in-tende rispondere ai bisogni del paziente così come lidefinisce il paziente medesimo. Lo slogan che li rap-presenta recita così: “ la persona prima di tutto”. Miviene in mente un altro slogan, di un chirurgo famo-so – cinematografico –, Il Dott. House: “Sono diven-tato medico per curare le malattie, non i malati”. Quan-to c’è di vero e/o di falso in questi slogan nella prati-ca della sua professione?Sicuramente “la persona prima di tutto”, nel rispetto del-le regole cliniche però. È chiaro che una mamma ricove-rata vorrebbe vedere il figlio di 2 anni durante il ricovero,ma sapendo che far entrare in un ospedale un bimbo pic-colo lo pone al rischio di venire a contatto con germi ospe-dalieri spesso resistenti, sarà meglio per il bene del bam-bino che la mamma non riceva la sua visita. Insomma uma-nizzare, porre al centro del discorso la persona è sicura-mente l’obiettivo di tutti, ma è necessario porre attenzio-ne a non fare scelte demagogiche, avere rispetto della per-sona e nel contempo rispettare la sua malattia. Perquanto riguarda il Dott. House, lui sa di essere fragile e sabene che creare un rapporto umanizzato di empatia conil paziente potrebbe innescare una serie di problematichesulla propria persona, ed ecco che per difesa “cura le ma-lattie e non il malato”. In fondo questo è il problema del-l’empatia.

È un’eresia, secondo Lei, considerare anche i bisognidella “persona” del chirurgo all’interno dei processi diumanizzazione? In che modo il chirurgo può avere bi-sogno – come persona e come professionista – del-l’empatia, di cui parlava all’inizio, da parte del paziente,del familiare, dei collaboratori, per rispondere ai bisognidel paziente medesimo, e facilitare la propria attività?L’empatia con il paziente non fa bene al chirurgo e al me-dico in generale, serve al malato non al chirurgo. Tanto piùil paziente è “una persona”, tanto più il chirurgo si sentepartecipe della sua sofferenza, dell’eventuale complicanza,dell’eventuale insuccesso e lo vive con senso eccessivodi responsabilità, quasi di colpa: a volte sentendosi col-pevole anche di un evento inevitabile e questo vale so-prattutto per il chirurgo. In alcuni paesi come ad esempiola Finlandia, dove un mio ex specializzando fa il primariocardiochirurgo, il chirurgo non ha nessun rapporto con ilpaziente, è il cardiologo che lo segue, da indicazione al-l’intervento, lo prepara e il chirurgo è solo l’operatore di unintervento quanto mai delicato -ed ecco di nuovo il Dott.

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Elementi e processi di umanizzazione in chirurgia oncologica. Intervista al prof. Mario Valle

House: questo permette all’operatore di operare la malattiae non il malato. Una volta un collega radiologo, fratello diun paziente molto grave al IV intervento per complican-ze, mi disse: “Collega complimenti, per il coraggio e la te-nacia io non ce la avrei mai fatta, infatti ho fatto il radio-logo” e poi, al decesso del paziente, mi ha denunciato ci-vilmente per avere un risarcimento… Denuncia che arri-vò quando il mio stato d’animo era dei peggiori, visto cheavevo perso un paziente con cui si era creato un rappor-to di amicizia, ovvero qualcosa di più dell’empatia. Forseho divagato dalla domanda principale, ma la risposta è nel-l’aneddoto che ho raccontato: l’empatia reciproca serve alchirurgo per avere al suo fianco il malato ed essere sicu-ri che lui sa che tu farai tutto il possibile per il suo bene.

A volte il paziente rafforza la propria alleanza tera-peutica e si affida all’intento del chirurgo di fare tut-to il possibile per non nuocerlo e aiutarlo a stare me-glio, se empaticamente capisce che il chirurgo ha giàesperienza di dolore – non necessariamente fisico –,è un uomo, può avere determinate fragilità, incertez-ze o anche difese e fa il proprio lavoro come se dovesse“prendersi cura” di se stesso e non semplicemente diun’altra persona. Sapendo gestire – quindi – quelle fra-gilità, andando oltre il proprio caso personale e ri-manendo presenti al paziente con una vocazione al-meno consapevole. Il problema infatti secondo me nonè che l’evidenza in sé della fragilità del Dott. House po-trebbe compromettere il suo lavoro di fronte al paziente,o la loro reciproca alleanza, ma è se, nonostante le fra-gilità evidenti, egli continua nell’intento di fare il pro-prio lavoro e di farlo aderendo alle responsabilità af-fermate in quell’antico giuramento ippocratico dinon nuocere e far bene. Dott. House funziona e pia-ce a tutti, chirurghi e pazienti, perché ha fragilità fisi-che e psicologiche ma offre sempre soluzioni vincenti,rapide. E questo purtroppo è l’aspetto cinematogra-fico, perché nella realtà le soluzioni, anche se ben pen-sate, costruite entro processi adeguati di “empatia”,“amicizia”, alleanze terapeutiche e comprensione fi-duciaria di quei fondamentali intenti ippocratici del me-dico, non sempre sono vincenti…Perciò, quando in questi casi la malattia ha il so-pravvento anche su questi processi empatici e di ac-cordo alle finalità terapeutiche, il chirurgo che cosa e/ocome si esprime?Se il chirurgo ha creato un rapporto di empatia con il ma-lato ed un familiare allora quello che sta peggio è il chi-rurgo, poiché sia il malato che il parente sapevano già dal-l’inizio che la situazione poteva precipitare o non andarea buon fine, ma il chirurgo no. Il chirurgo nel suo delirio dionnipotenza, pur consapevole e informando di tutte le com-plicanze e di tutti i problemi che potevano sorgere nel cor-so della malattia, non credeva, lui stesso, all’esito nega-tivo, o era certo che avrebbe potuto risolvere qualsiasi even-to nefasto con la sua esperienza e con le sue professio-nalità. Dico sempre che su oltre 4000 interventi fatti, ricordoa memoria i nomi di quei pazienti che hanno avuto com-plicanze fatali mentre degli altri neanche ricordo di aver-li operati.

Come vengono gestiti i vostri eventuali sensi di col-pa e frustrazioni? O almeno, da chi vorreste essere as-sistiti in questi casi?

In un altro ospedale dove ho lavorato per più di 20 annisono riuscito a organizzare dal 2004 al 2006 dei gruppiBalint per i medici e per il personale infermieristico, gui-dati da uno psichiatra ed una psicologa. Come effetto im-mediato hanno compattato dal punto di vista psicologicomedici e infermieri, evidenziando come gli uni e gli altrifossero coinvolti insieme emotivamente nel rapportocon il paziente, rendendo la figura del chirurgo più uma-na e meno tecnica, risolvendo le ansie, i timori, le insi-curezze e perché no? – a volte anche i sensi di colpa de-gli uni e degli altri, avvicinandoli tra loro. Ciò ha portatoad evidenziare nel medio termine come solo un lavoro digruppo ed una mission comune, consenta di non di-menticare l’obiettivo olistico: “malato-malattia-qualità di vita”.Questa esperienza ha fatto capire ad alcuni di noi, di nonessere i soli ad avere alcuni pazienti sempre presenti nel-la giornata, o portarseli “ a casa”come dico io, quali al-tre domande porsi al di là dei protocolli internazionali ela codificazione dei trattamenti, “ho fatto bene?” “era me-glio se…” “forse se…” .

Quali altri vantaggi ha ricevuto dall’organizzazione delgruppo Balint?Il chirurgo e il medico attento, si rende conto che il suo con-tatto con la malattia e la sofferenza, che da giovane ri-specchia quel senso di poter fare qualcosa per gli altri, disentirsi utile e a volte indispensabile, con il passare deglianni diventa invece un peso: il paziente non operabile permalattia avanzata, lo vive come una sua diretta sconfitta,il rapporto con la morte, inizialmente visto come un ine-luttabile andamento delle cose, lo fa suo, giorno dopo gior-no, e se non prende le distanze da tutto ciò, effettua trat-tamenti eroici, interventi impossibili che spesso rischianodi essere insuccessi e come un boomerang ritornano in-dietro. È chiaro che ciò avviene soprattutto per i chirurghiche si occupano di oncologia e trattano pazienti con ma-lattia avanzata. Il gruppo Balint che organizzai è servito an-che a questo, a tornare indietro nel tempo e a capire, ineffetti, che da una parte l’evento “complicanza o deces-so” fosse a volte veramente ineluttabile e che dall’altra inalcuni casi, anche se sei “vecchio ed esperto”, non hai armi.Insomma ci ha riportati con i piedi sulla terra, purtroppoè stata per noi un’ esperienza breve che però consiglie-rei a tutti i gruppi oncologici.

In quali altri casi ritiene utile l’intervento integrato diuno psicologo come pure quello di uno psichiatra?Posso dire come mi comporto io attualmente: se il pa-ziente che si ricovera ha già in atto una terapia psi-chiatrica, che dovrà essere sospesa o modificata primadell’intervento o nel postoperatorio (vista l’impossibili-tà di somministrare terapia orale), è indispensabile unacollaborazione con lo psichiatra in prima istanza. Perquanto riguarda lo psicologo credo fermamente che tut-ti i pazienti affetti da neoplasia abbiano bisogno di un sup-porto psicologico in termini di assistenza, sostegno e in-tervento preventivo, sia nel preoperatorio che nel po-stoperatorio. Quindi sarebbe molto utile la presenza inreparto di uno psiconcologo che si prenda cura del pa-ziente, il quale deve comunque affrontare una malattiaancora vista nell’immaginario collettivo come un “maleincurabile” e ad impatto devastante nel quotidiano e nel-la visione del futuro del malato. Nei fatti così non è in nes-sun ospedale, quindi la richiesta di un supporto dello psi-

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cologo viene effettuata secondo la sensibilità del chirurgoa capire i casi in cui si manifestino disturbi dell’adatta-mento e difficoltà nell’accettazione della malattia. Que-sti possono essere causati dal trauma psicologico delricovero (accettazione dei presidi chirurgici, drenaggi,sondino naso gastrico, catetere), come pure dal sensodi costrizione o difficoltà nell’accettare il rapporto di di-pendenza dagli operatori sanitari, o dalla consapevolezzache l’intervento porterà una modificazione o in alcuni casiuna mutilazione del proprio corpo (chirurgia della mam-mella, utero, prostata, stomaco ecc.) e comunque,sempre una violazione dell’integrità fisica. Nei pazien-ti oncologici spesso riaffiorano alla mente ricordi, per-cezioni negative derivanti da pregressi contatti con la ma-lattia di amici, colleghi e parenti che hanno subito lo stes-so intervento ed hanno avuto complicanze, o non lo han-no superato o che comunque non ne hanno avuto un be-neficio in termini di sopravvivenza. Il chirurgo per sua in-dole cura il corpo e la malattia e spesso tralascia l’im-portanza dello stato psicologico del paziente, pensan-do che quando sarà risolto il problema chirurgico si ri-solverà anche il suo stato di “depressione, angoscia osolo disagio”. Purtroppo non è così, il paziente con unequilibrio psicologico, una consapevolezza della malattiache lui stesso ha “voglia di guarire”, di fatto guarisce pri-ma, è più collaborativo e reagisce meglio agli eventi av-versi. Mi viene in mente adesso, mentre parlo con Lei,che forse, se l’ospedale non ha i mezzi per mettere a di-sposizione uno psicologo in ogni reparto, potrebbe es-sere utile un colloquio in fase di preospedalizzazione,tale da permettere uno screening preoperatorio dei pa-zienti che durante il ricovero potrebbero avere necessitàdi un supporto. Sono fermamente convinto che se il ma-lato affronta l’intervento - parliamo sempre di malati on-cologici – con una serenità psichica, supererà meglio l’im-patto con il ricovero e l’intervento, e soprattutto non vi-vrà, come spesso succede, la dimissione come un ab-bandono. Quest’ultimo concetto non lo abbiamo affrontatoma va detto che il paziente che ha subito un ricovero lun-go vuole sicuramente essere dimesso e tornare acasa, ma vive la sindrome da abbandono che il chirur-go recettivo ad alcuni atteggiamenti percepisce da fra-si tipo: “…Ma adesso che vado a casa…se succede qual-cosa …posso chiamare?”. Oppure che con una scusao con un’altra ritorna in reparto, “ho portato i ‘dolcetti’ pergli infermieri”, “ho ripreso le analisi, sono passato per unsaluto”, “vorrei che mi controllasse la cicatrice”, “possoprendere la novalgina se ho mal di testa” ecc. Insomma,come diceva Giovenale “mens sana in corpore sano”: nonè possibile che oggi ci si prenda cura dell’esteriorità, del-l’accoglienza ma non dello stato psicologico del mala-to oncologico, il compito che deve essere svolto sul ma-lato oncologico è a tutto tondo, multidisciplinare ed oli-stico, pensando al corpo e alla mente.Mi sono dilungato forse troppo, ma debbo dire un’ultimacosa. Il chirurgo spesso non è in grado di capire se il ma-lato ha bisogno di un supporto farmacologico per risolverei problemi di adattamento alla malattia ed affrontarla conserenità. In questi casi la presenza dello psicologo saràfondamentale nella valutazione dei risultati, e qualora nonfossero ottimali con il solo supporto psicologico potrà chie-dere lui stesso un aiuto allo psichiatra, che, valutato il caso,potrà intervenire farmacologicamente per facilitarne il la-voro.

Riflessioni conclusive dello psicologo

Prima riflessione. La stadiazione della malattia, quindiil tipo di invio con cui il paziente arriva a colloquio dalchirurgo, può generare un differenziato stile comuni-cativo e atteggiamento da parte del chirurgo medesimo,condizionare la relazione medico-paziente e in modopiù o meno funzionale anche una corretta e robustaalleanza terapeutica.La qualità delle dinamiche relazionali e comunicative tramedico e paziente può dipendere in larga misura da quan-to un chirurgo esperto testa e/o anticipa in modo più o menoeuristico le conoscenze, anch’esse più o meno appro-fondite, che il paziente è venuto collezionando prima di ac-cedere alla visita chirurgica attraverso i confronti con al-tri medici e terapie e in rapporto alla stadiazione della suamalattia. Una tale verifica consente al chirurgo sia di di-scutere eventuali attese salvifiche, che il paziente riponenella sua figura di medico così come nel suo intervento,sia di trasmettere conseguentemente le giuste informazioninel giusto modo, sia, infine, di mediare e diversificare il pro-prio approccio al paziente e la sua malattia in modo utilead una collaborazione partecipata ed attiva da parte di tut-ti gli attori al processo di guarigione. Essere consapevo-li di ciò che il paziente può già sapere nei diversi tipi di in-vii, così come descritti dal Prof. Valle, ed indagarlo, non met-te però al riparo il chirurgo da alcuni rischi, presenti in cia-scuna condizione di invio, di compromettere un buon rap-porto terapeutico con il paziente.Vediamo nel dettaglio.Se il paziente arriva direttamente dal medico curante è mol-to probabile – salvo casi di precedenti malattie oncologi-che, personali o vissute dai propri familiari –, che abbia an-cora poca conoscenza della malattia, poca tolleranza aidisagi psicologici che essa evoca, come ansia, depressione,paura, angoscia, poca dimestichezza alla relazione conil medico. Questo è il caso in cui il chirurgo si gioca il piùampio margine di libertà ed autonomia nell’esprimersi conil paziente e nell’ instaurare un’alleanza reciproca del tut-to personale. Tuttavia è anche il caso in cui il chirurgo hail più ampio rischio o di colludere con il paziente o di di-staccarsi troppo precocemente dalle variabili emotive chelui espone, delegando ad altro momento la costruzione dielementi relazionali utili alle finalità cliniche. Infatti il paziente,che ancora in questa fase resta un po’ naive, potrebbe sen-tirsi particolarmente angosciato e arrivare con una richiestafondamentale di rassicurazione di guarigione, senza im-maginare il necessario processo per arrivare ad essa. Èpossibile in questi casi che i chirurghi diano risposte trop-po rassicuranti e frettolose perché prendono in carico quelpaziente fin dall’inizio e sentono di poter disporre dell’at-tenzione del paziente in qualunque altro intervallo di tem-po, che segua i processi di diagnosi e cura, o che, pur di-cendo la verità, restino distaccati e mettano in soggezio-ne il paziente, perdendone l’attivazione ad una collabo-razione partecipativa. È adeguato in questi casi dire cer-to la verità, ma prendersi anche il tempo per mostrare leeventuali complicanze possibili, ridimensionare l’interventochirurgico come unico fattore di soluzione e mostrare, comesostiene il Prof. Valle, che l’intervento è solo l’anello di unacatena. Cominciare così a creare uno scenario nel pazienteche può essere molto diverso da quello con cui è entra-to nella sua stanza. L’impatto sarà meno duro se anchel’atteggiamento del medico tenderà ad esplorare delle ap-

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partenenze…dove abita?… anch’io abitavo in quellazona fino a…”. Tali espressioni riducono il senso di soli-tudine conseguente all’impatto e promuovono un investi-mento collaborativo sui processi di guarigione. Se il paziente arriva inviato dall’oncologo, è già meno nai-ve, può aver già provato una chemioterapia, radioterapieo terapie ormonali, aver conosciuto il dolore fisico ed il di-sagio che questo può comportare anche sul piano rela-zionale, avere inoltre tentato forme psicologiche di ac-cettazione e tolleranza della malattia e di ciò che comporta.Questo significa che il paziente approccerà alla visita chi-rurgica con minori fantasie idealizzanti e salvifiche, un pia-no di realtà più maturo, e quindi con uno spirito o più com-battivo o più rassegnato. Da un certo punto di vista se ilpaziente è combattivo, il chirurgo potrebbe in questa fasemostrarsi più rilassato, meno direttivo, sentire meno ne-cessario di elaborare o evitare ulteriori forme personali divicinanza emotiva al paziente, che siano utili ai processidi decisione terapeutica e alla relativa alleanza. Il rischioche corre è di perdere l’opportunità di discutere in modopiù fine con il paziente delle opzioni chirurgiche fra cui sce-gliere, quando in fondo il paziente non solo ha già matu-rato un pur vulnerabile atteggiamento di accettazione del-la propria malattia e di adesione alle procedure di guari-gione, ma è anche arrivato in molti casi con una certa fa-miliarità al linguaggio tecnicistico, agli strumenti diagno-stici. Perde cioè la possibilità di trasformare il consensoinformato in un processo dialettico al “consenso consa-pevole” fra due neoesperti: il chirurgo della storia oncologicadel paziente ed il paziente dei mezzi e dei linguaggi cheusa il chirurgo. Se invece in questa fase il chirurgo incontranel paziente più maturo una persona provata e rassegnata,dovrà non tanto ricreare delle fantasie salvifiche quantoimpegnarsi in un compito più psicologico e delicato comequello di motivare il paziente “a fare la sua parte”, spes-so mediante un approccio diretto non mediato dai familiario altre persone. Questo significa paradossalmente evi-denziare le differenze di ruolo e compiti, perché ciò resti-tuisce al paziente un senso di potere, rivisitato sulla pro-pria malattia, e al chirurgo la legittimazione spontanea daparte del paziente di proporre e motivare le proprie scel-te terapeutiche. Il consenso informato/consapevole in que-sta condizione arriva come forma partecipata di un lavo-ro ben differenziato da parte di entrambi e ugualmente ne-cessario. Il rischio che molti chirurghi possono correre conquesto secondo tipo di pazienti è di dare per scontata lanecessità o non necessità di un intervento chirurgico, e diomettere di considerare che occorre rinnovare costante-mente la collaborazione attiva da parte del paziente.Se il paziente infine arriva per la prima volta al chirurgodirettamente con il ricovero per intervento, il loro rappor-to potrebbe sembrare condizionato da quello instaurato pre-cedentemente con altre figure mediche-chirurgiche. Il pa-ziente può, nonostante i precedenti approcci, presentar-si più rassegnato che mai perché si sarebbe anche al-lontanato dalla figura medica di riferimento che prima sene prendeva cura. Come spiega il Prof. Valle in questi casiè bene dare al paziente degli obiettivi quotidiani, rinnovabili,praticabili nella propria stanza, o addirittura nel proprio let-to, come nel caso degli esercizi di riabilitazione post-ria-nimatori, o illustrargli giorno per giorno l’avanzamento delsuo processo di guarigione… “domani toglieremo i dre-naggi…” “Spostare il suo obiettivo non alla guarigione com-pleta ma al domani che sarà sicuramente migliore”. Inte-

ressante un concetto che passa il Prof. Valle secondo cuialcuni di questi obiettivi, per esempio alzarsi dal letto, rap-presentano di per sé non una guarigione, ma la cura perla guarigione. Non è l’intervento chirurgico, non è il farmaco,che in questi casi curano la malattia, ma la possibilità dirappresentarsi, per ogni segmento della fase di degenza,uno scopo, apparentemente minimalista ma faticoso peril paziente, e che per entrambe queste ragioni il pazien-te trascura di scegliere e praticare. Come dire che non siguarisce mai fino in fondo se costantemente durante l’iterdella malattia non si ridefinisce e rinnova il concetto di sa-lute e di autodeterminazione per il suo miglioramento: sa-lute non più intesa come assenza di malattia, ma come gua-dagno di qualità di vita nonostante il tumore. “Con il tumoresi può vivere”- dice il prof. Valle. Questo messaggio resti-tuisce al paziente un senso molto forte di indipendenza,anche dalle figure di cura, di autonomia, di potere so-prattutto. È comunque in questa fase che risulta funzionaleun approccio multidisciplinare dove, in assenza del me-dico di riferimento, il paziente possa sentire ciascuna al-tra figura ugualmente utile, protettiva, interessata e quin-di interscambiabile alla sua guarigione all’interno di un pro-cesso conosciuto da tutti perché programmato. Il rischiodi molti chirurghi ed operatori sanitari in questa fase è quel-lo di non considerare il paziente come un proprio paziente,e quindi di delegare le decisioni ad altri, spostando in avan-ti il processo medesimo di guarigione. Ciò vuol dire cheoccorre sollecitare, valorizzare, talvolta anche con strategiedi profilo istituzionale, la motivazione degli operatori e del-l’équipe presa nel suo insieme, occorre considerare sel’équipe funziona nel suo interno, se c’è un’alleanza con-divisa da tutti, una mission interna ciclicamente rinnova-ta verso un paziente o quello successivo. Perché, se man-ca, qualcuno dovrà provvedere. O al paziente o all’équi-pe medesima.

Seconda riflessione. L’empatia: non sempre è unaquestione di linguaggi e comunicazione e non sem-pre è necessaria al chirurgo come invece la “simpa-tia” verso il paziente.Che cos’è l’empatia che corre nella relazione tra medicoe paziente? Come si crea e mantiene? Che finalità ha? Citoin primo luogo le parole dello psicologo psicoterapeuta Ro-gers, secondo cui provare empatia verso un altro essereumano significa: “entrare nel mondo percettivo dell’altro,comporta una sensibilità istante dopo istante, verso i mu-tevoli significati percepiti che fluiscono in quest’altra per-sona. Significa vivere temporaneamente nella vita di unaltro muovendosi delicatamente senza emettere giudizi;significa intuire i significati di cui l’altro è solo vagamen-te consapevole” (Rogers, 1980, p.122). “Essere empati-ci” – continua – “significa mettere da parte le vostre con-cezioni e i valori personali, onde entrare nel mondo di unaltro, in un certo senso significa che voi stessi vi mette-te da parte” “l’empatia è un processo che si realizza quan-do si parla lo stesso linguaggio” (Rogers, 1980, p. 123).Dalle parole del Prof. Valle sembrerebbe che anche peril chirurgo l’empatia si realizzi creando o raffigurando ele-menti di comune appartenenza con il paziente e che aduna prima conoscenza attengono allo scambio comuni-cativo ed al linguaggio sia verbale che non verbale ( “doveabita? …anche io abitavo lì…”- portare o non portare il ca-mice…). Ciò implica che l’empatia abbia linguaggi e tem-pi di maturazione diversi da paziente a paziente e per pa-

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zienti e familiari. In altri termini l’empatia si configura an-che per il chirurgo sensibile come uno stile ed un processo.Ma la finalità dell’empatia tra medico e paziente in chirurgia,è la stessa di quella che si può osservare in generale e/oin particolare nelle relazioni psicoterapiche?Se attraverso l’empatia si entra nel mondo percettivo di unaltro e si sente ciò che l’altro sente, cioè in qualche modosi entra in risonanza, allora l’effetto che l’empatia in ge-nerale dovrebbe sortire è quello di comprensione intuiti-va immediata dell’altra persona. Sia in psicoterapia che nel-la pratica medica, quindi anche chirurgica, tale com-prensione facilita l’instaurarsi di una relazione terapeuti-ca, a patto però che in entrambi i casi i pazienti siano ingrado di realizzare ciò che chirurgo o psicoterapeuta col-gono. Tuttavia, mentre in psicoterapia, in alcuni tipi di psi-coterapie psicoanalitiche ad indirizzo relazionali/inter-personali soprattutto, la relazione terapeutica è essa stes-sa sia strumento che l’oggetto di lavoro, in medicina puòconfigurarsi solo come uno strumento. Ma lo strumento delchirurgo che si trova al tavolo operatorio non è certo la re-lazione che ha con il paziente, bensì il bisturi. Perciò la re-lazione empatica in chirurgia, ma in generale in quasi tut-ta la medicina, può diventare uno strumento se funzionalealla creazione e mantenimento dell’alleanza terapeutica:cioè prevalentemente della compliance del paziente al pro-cesso decisionale degli obiettivi e strategie terapeutichee a quello della partecipazione attiva per la loro adegua-ta realizzazione. Quando invece in altri tipi di psicoterapie,come la cognitivo comportamentale o la cognitivo inter-personale, la relazione è osservata strumentalmente peraccedere ai significati del paziente e non è intrinsecamenteoggetto di lavoro, allora essa non può prescindere dal-l’alleanza terapeutica, cioè dalla definizione degli scopi.Quindi la relazione empatica come strumento, in medici-na è prioritaria per l’alleanza terapeutica, in certe psico-terapie è invece un prodotto di quest’ultima. Ciò para-dossalmente significa che la relazione terapeutica è mol-to più importante in medicina che non in certe forme di psi-coterapia ai fini della collaborazione. Per il chirurgo e la suaalleanza terapeutica con il paziente quanto è importanteperò entrare così in empatia con lui e dimenticarsi di sestesso, come suggeriva Rogers per i processi empatici,mettendosi da parte rispetto al paziente medesimo ed aisuoi bisogni? Credo che un profondo processo di empa-tia sia pericoloso per chiunque in qualunque tipo di rela-zione: si rischia di colludere con la persona e le sue emo-zioni, siano esse positive che negative, verso cui si è em-patici, e di non riuscire a soddisfare i bisogni per i quali in-vece quella persona ci chiama. Più utile della relazione em-patica potrebbe essere di conseguenza la sintonizzazio-ne empatica. “Sintonizzarsi in modo empatico significa riu-scire ad aprirsi allo stesso stato emotivo del paziente man-tenendo allo stesso tempo, il proprio senso di sé nel pre-sente” (Dworkin pag. 21, 2010). La sintonizzazione em-patica include: - l’allineamento, che implica la capacità del clinico di co-gliere o anticipare lo stato del paziente (si può essere an-che in allineamento reciproco, quando ciascuno si orien-ta verso lo stato mentale dell’altro);- la risonanza, che è la capacità di sentire ciò che l’altrosente anche in momenti diversi da quando lo sente e quin-di la capacità di rievocarlo; - la percezione di sé come diverso dall’altro, per qualchefattore.

Ora il chirurgo può allinearsi ed anticipare lo stato men-tale emotivo e le attese del paziente già sapendo in chemodo viene a lui inviato, può risuonare, riconoscere ed av-vertire “empaticamente” ciò che il suo paziente sta provandoo soffrendo, ciò che vuole sapere o non sapere il suo pa-ziente, come vorrebbe saperlo, – (questo è quanto al mas-simo “empaticamente “ il chirurgo può fare) –. Ma deve so-prattutto riconoscere, vedere una distanza tra sé e l’altronella possibilità di poter fare qualcosa per lui, che il pazientenon può da solo. Questo ha delle importanti implicazionisul chirurgo:- Il chirurgo ha bisogno di riconoscersi un “potere” te-

rapeutico, chirurgico in questo caso- Il chirurgo ha bisogno di vedersi riconosciuto, con lo

stesso allineamento e sintonizzazione empatica da par-te del paziente, che con tale “potere” “farà tutto il pos-sibile per il suo bene”. Anche il chirurgo in questo modosente il paziente come un alleato e non solo il pazientepercepisce il chirurgo come tale.

- Se tale potere venisse frustrato – tutti i casi in cui unintervento non funziona o si rivela non più utile solodopo aver aperto il paziente – il chirurgo è a rischiodi collusione verso il paziente, di sensi di colpa, di sen-so invalidante di incomprensione ed inadeguatezza.

- La distanza e percezione di sé rispetto al paziente tra-sforma la qualità empatica della relazione medi-co/chirurgo–paziente e la rende “simpatica”. Nella re-lazione simpatica, uno sente qualcosa verso qualcu-no che si trova in una condizione di sofferenza, e puòsentirlo “verso” quel qualcuno solo se tra i due c’è ri-conoscimento di un segmento di distanza. Ciò vuol direche il chirurgo rinnova più attraverso la “simpatia”, chenon attraverso “l’empatia”, la sua spinta collaborativae terapeutica “verso” il paziente. È così che il chirur-go può curare le malattie al modo del Dott. House econtemporaneamente farsi sentire presente e non di-staccato dal malato in modo funzionale alla sua gua-rigione.

Terza riflessione. Pazienti e familiari reagiscono alla ma-lattia oncologica con strategie differenziate di coping,cioè di adattamento e gestione della malattia mede-sima, a seconda della struttura di personalità di cia-scuno, dello stato psicofisico, a volte del ciclo di vitae delle risorse sociali con cui ciascuno si presenta almomento dell’evento oncologico, a seconda anche deiruoli di interdipendenza che intercorrevano tra pazientie familiari prima della malattia, e soprattutto a secondadello scopo che ciascuno vuole vedere realizzato contali strategie. Non sempre questo scopo è rappre-sentato nella mente di ciascuno come obiettivo tera-peutico e anche alleanza terapeutica. È invece moltospesso identificato con la realizzazione dei bisogni per-sonali di ciascuno.Si è detto che il paziente vuole primariamente guarire. Maè anche vero, secondo le osservazioni che ho potuto rac-cogliere personalmente nella mia esperienza di psicoon-cologa, che gli stessi pazienti che inizialmente avevano chie-sto al chirurgo di guarire, poi di fatto durante la degenzao nel post-operatorio hanno paura di porre domande, disapere. Lo scopo di guarire non coincide esattamente peril paziente con il suo bisogno di rassicurazione, che invecepuò esprimersi in modo diverso durante le diverse fasi del-la sua malattia, a volte con una comunicazione assertiva,

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altre con una passiva, con l’evitamento. Può dipendere an-che dalla relazione che nel frattempo è venuta maturan-do con il chirurgo o il suo staff sanitario, dalla necessitàad esempio di richiamare, anche passivamente, l’attenzionedel medico per prevenire ed evitare quella crisi abbandonicadi fine degenza, di cui parlava il Prof. Valle. Può dipende-re soprattutto dall’atteggiamento dei familiari rispetto al pa-ziente e la sua malattia. A volte i familiari sono più allar-mati del paziente, il quale per riuscire a tranquillizzarli eproteggerli, o per non soffrire del loro dolore, potrebbe nonvoler sapere, e non voler far sapere, di più di quanto giàsa. Dall’altra parte, l’allarmismo dei familiari non esprimenecessariamente una loro reale preoccupazione per la sa-lute del loro congiunto malato, o un atteggiamento orien-tato concretamente agli obiettivi terapeutici. Così quandoil Prof. Valle fa notare che il familiare si sostituisce al pa-ziente nell’interazione col medico, offre le risposte che do-vrebbe dare il malato, tiene in mano le cartelle cliniche chedovrebbero essere consegnate direttamente al medico dalmalato stesso, ritorna dal chirurgo per sapere la suppo-sta “altra verità” non detta di fronte al malato; quando il fa-miliare durante la degenza non si rassegna agli orari di vi-sita obbligati nel reparto, in tutti questi casi il familiare, an-che lui, esprime un bisogno molto personale. Ad esempiodi sentirsi preso in carico, o “in cura” anche lui dal perso-nale sanitario, per sopperire ad angosce emotive che po-trebbe non voler mai dichiarare allo psicooncologo, per-ché ha necessità di convincersi che può ancora reiterareun ruolo di accudimento e controllo sul paziente, forse giàpreesistente alla malattia. Nel loro stile di coping più o menofunzionale alla malattia i familiari esprimono molto più spes-so un proprio bisogno di rassicurazione/ autorassicurazione,implicita e non delegata. Il chirurgo o gli operatori sanita-ri d’altra parte possono sentire tutti questi comportamentinon funzionali al buon andamento del lavoro ed al rag-giungimento dello scopo terapeutico. Tanto più che mol-to probabilmente per il chirurgo ed il suo staff, diversamenteche per pazienti e familiari, lo scopo terapeutico coincidegrossomodo con un bisogno personale e professionale:cioè quello, sostenuto dal Prof. Valle, che il paziente restial suo fianco, sicuro che gli verrà fatto il possibile per il suobene. Anzi: data l’esistenza del consenso informato, peril chirurgo ed il personale sanitario lo scopo terapeuticopuò anche sovrapporsi “completamente” con il bisogno delmedico che il paziente sia compliant e si affidi in modo co-struttivo/attivo. Vorrei appunto segnalare nell’ottica dei pro-cessi di umanizzazione che, mentre i bisogni del medico,corrispondendo in buona parte agli obiettivi e all’allean-za terapeutici, hanno una rappresentazione visibile nellaformalizzazione del documento del consenso informato,i bisogni invece del paziente e del familiare, ma anche quel-li reciproci della relazione medico-paziente, raramente ven-gono comunicati come atto preliminare alla firma del con-senso informato, e comunque non dispongono di una lororappresentazione scritta che possa circolare nelle mani de-gli operatori sanitari. Una tale formalizzazione avrebbe in-vece anche il vantaggio di preservare l’alleanza terapeu-tica medico/paziente. Questa infatti è compromessa nonsolo da un’alterata condivisione della definizione degli obiet-tivi, delle scelte e degli esiti terapeutici, ma anche da un’er-rata o mancata rappresentazione dei bisogni emotivi/psi-cologici di pazienti e familiari, che spesso sfuggono allaconsapevolezza dei medici e creano in essi maggiori am-biguità di rapporto.

Quarta riflessione. L’inserimento dello psicologo edello psichiatra all’interno di un lavoro multidiscipli-nare che accolga e conosca il paziente dalla preo-spedalizzazione e lo segua nelle successive fasi del-la malattia ed il suo ricovero, sembrerebbe all’internodell’I.R.E. di Roma già essere stata pensata secondol’organigramma dell’area di supporto alla persona, ar-ticolata in altre cinque sottoaree, di recente costitu-zione. Mi preme sottolineare, tuttavia, che la presen-za in ogni reparto, di uno psicologo e uno psichiatra,o la loro disponibilità/reperibilità solo per specifici pa-zienti in degenza, in molti casi non crea esattamentela dimensione entro cui garantire un cambiamento del-lo stato emotivo del paziente, nonché un lavoro “a tut-to tondo, multidisciplinare ed olistico”nei suoi riguardi.Ciò dipende da due fattori. Il primo è di carattere isti-tuzionale. Il secondo più etico.L’aspetto istituzionale. Spesso l’intervento dello psicologoe lo psichiatra è richiesto per disagi da adattamento allamalattia ed alla degenza che dipendono non tanto da er-rate scelte terapeutiche, da una relazione non “empatica”/“simpatica” tra medico e paziente, ma da dinamiche isti-tuzionali che possono decidere per esempio dei tempi diattesa di un intervento chirurgico, quando già il pazienteè stato ricoverato, o dalla disponibilità del personale chepuò fare turn-over e favorire una migliore o peggiore qua-lità di vita di reparto, quindi di soddisfazione anche dei bi-sogni del paziente e familiari. Quando perciò parliamo dicoesione e condivisione della mission olistica al pazien-te da parte dell’intera équipe medica in un’ottica multidi-sciplinare e secondo i nuovi processi dell’umanizzazione,dobbiamo tener conto anche del burn-out degli operato-ri, del loro stress. Non basta far loro della formazione checonsegni sterili informazioni sui retroscena psicologici deipazienti. Tutte le figure coinvolte nel processo di guarigioneal paziente, dovrebbero sentirsi garantite, protette, valo-rizzate, a prescindere comunque dall’impegno che han-no su uno o sull’altro specifico paziente. Ritengo perso-nalmente che le figure strettamente mediche necessarieal paziente, siano date talvolta per scontate, non tanto daipazienti, quanto dai colleghi medesimi o dalle rappre-sentanze istituzionali. Ho l’impressione che non siano va-lorizzate nel giusto modo, che manchino, quando siano one-sti, dei feedback positivi, visibili, e che questo provochi inalcuni medici, quelli magari più o meno giovani o comunquecon minore coscienza dei propri talenti, una percezionedello spessore della propria professionalità a volte un po’sbiadita. Se da una parte questo non produce necessa-riamente una perdita di eticità e motivazione al proprio la-voro, dall’altra può indebolire il senso di necessità della pro-pria partecipazione al lavoro multidisciplinare, e soprattuttoquello di un ruolo anche psicologicamente “attivatore” neiconfronti del paziente più rassegnato. Non solo: ma ancheil chirurgo che “simpaticamente” è capace di riconoscer-si un “delirio di onnipotenza”, se non avesse percezionee riflesso dello spessore naturale della propria professionerischierebbe di autoescludersi da quella medesima par-tecipazione multidisciplinare. Quindi, contro-intuitiva-mente, sostengo che anche il delirio di onnipotenza del chi-rurgo vada “simpaticamente” nutrito per le finalità multi-disciplinari, umanizzanti e terapeutiche nei confronti delpaziente. Va però, secondo me, adeguatamente nutrito, conun riconoscimento anche umano oltre che di merito, so-prattutto dai settori istituzionali.

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Elementi e processi di umanizzazione in chirurgia oncologica. Intervista al prof. Mario Valle

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L’aspetto etico. Il paziente segnalato come bisognoso diun supporto psicologico potrebbe non volere essere aiu-tato in tal senso. Il chirurgo o lo staff medico potrebbe tro-varsi nelle condizioni di non riuscire ad indagare questoaspetto prima di chiamare in consulenza lo psicooncolo-go e/o lo psichiatra. Questi due invece hanno il dovere eti-co di farlo, e di non precipitare un intervento sul pazien-te solo perché c’è stato un mandato di consulenza da par-te dei medici. Il rischio di tale omissione ed errore è altoper colleghi giovani con molta buona volontà, ma non an-cora identificati con un ruolo istituzionale, che deve co-munque ricordare che il paziente è arrivato in quell’ospedaleper curarsi primariamente una malattia oncologica. D’al-tra parte la probabilità di commettere questi errori è altaanche quando il mandato per l’intervento psicologico/psi-chiatrico è di tipo euristico/scientifico: - vale ancora lo slo-gan “la persona prima di tutto”. Quando la ricerca scien-tifica riguarda le nuove terapie sperimentali antineoplastiche,il paziente che decida di aderire ai protocolli di terapia deveessere incluso secondo criteri rigidamente controllati, comel’età, il fattore di tossicità, la stadiazione della malattia, edeve obbligatoriamente essere informato dei rischi a cuiè esposto, e messo perciò nelle condizioni di rifiutarsi. Seinvece la ricerca scientifica è di natura psicooncologica,essa generalmente non incontra alte probabilità di peg-giorare le condizioni psicofisiche del malato. E’ quindi fa-cile mostrarsi incauti e tentare di forzare la sua parteci-pazione, oltre la spontanea accettazione e tolleranza chein certi casi potrebbe non avere e non riuscire in temporeale a comunicare. Una certa sensibilità psicologica daparte sia dello psichiatra che dello psicooncologo con-sentirebbe di intuire tale disagio e di riconoscere il biso-gno che sottende, di prendere tempo per conoscere la per-sona, come se non si trattasse di ricerca, offrirgli tempi espazi di riflessione. O addirittura scegliere di rinunciare adottenere quell’adesione se si comprende che il pazientepossa avere in un secondo momento resistenze nel-l’esprimersi e/o iniziare a mettere in discussione aspettidella propria identità. In questi casi l’unico intervento utile e possibile nei riguardidel malato per cui si è stati chiamati in consulenza è la-sciare a lui un riferimento telefonico sia dello psicologo chedello psichiatra, e allo staff medico comunque una pre-scrizione farmacologica, se davvero necessaria, che il pa-ziente potrà accettare di prendere in un secondo momento.

Riflessioni conclusive dello psichiatra

Lavorare nel campo dell’oncologia con la necessaria con-sapevolezza degli aspetti relazionali e personali che l’in-

contro tra curante e malato comporta mi appare, oggi, unaconcreta sfida a ragionare in modo più attento sull’inter-faccia mente-corpo. I disturbi psichiatrici, come evidenzianola letteratura italiana e internazionale, tendono ad esse-re più frequenti nelle persone che presentano una malattiafisica. In particolare, per quanto riguarda il cancro, oltre alpossibile disturbo post traumatico, si osserva una maggioreprevalenza di ansia e disturbi depressivi (Wells K.B., Gol-ding J.M., Burnam, M.A., 1988; Creed F., Dickens C., 2007). Umanizzare la cura, nel caso si renda necessario l’inter-vento psichiatrico, significa per noi assolvere a una richiestache avviene in un momento estremamente specifico del-la storia di vita della persona, come spiega il Prof. Vallenell’intervista che precede e come approfondito dallaDott.ssa Capezzani. Il carattere, la personalità, il modo diessere e di fare esperienza, l’approccio stesso alla malattiasono, infatti, fattori del tutto individuali, che hanno un pesoda valutare in modo accurato e rispettoso dell’unicità delmodo di affrontare la malattia di chi abbiamo di fronte. Ilsenso di una valutazione approfondita ha un valore par-ticolare nel caso del paziente oncologico, in quanto con-sente al medico di evitare di porre la terapia farmacolo-gica come un passaggio impersonale, volto a tampona-re uno stato di disagio che in fondo percepiamo come ine-vitabile. Questo significherebbe privare la persona del di-ritto alla sua unicità nel vivere la sua vita e la malattia. Il disagio non è un dato impersonale, ma un elemento cheassume il suo senso all’interno di un quadro di vita da te-nere in debito conto, pena l’inadeguatezza della propostaterapeutica e la mancata compliance del paziente. La com-pliance è, invece, un elemento fondamentale, specialmentese si guarda al disadattamento temporaneo della perso-na dopo la diagnosi come a un fattore peggiorativo dellaqualità della vita, che influenza le funzioni comportamentaliquotidiane, amplificando le reazioni soggettive ai sintomisomatici e riducendo la motivazione a curare il cancro. Ciòpuò determinare effetti fisiologici diretti e diminuire la ca-pacità di affrontare la malattia, peggiorandone l’esito. Sia-mo dunque “provocati” dall’incontro con il paziente onco-logico, a migliorare le nostre modalità di porci in dialogoe l’assunzione la centralità della persona è per noi la chia-ve del percorso di cura, laddove gli aspetti soggettivi e ibisogni profondi di ciascuno rappresentano, a nostro av-viso, una variabile irriducibile.

Bibliografia

1. Dworkin M. (2005), “La relazione terapeutica nel trattamen-to con EMDR”. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2010

2. Rogers C. (1980), “Un modo di essere”. Tr. It. Martinelli, Fi-renze 2001.

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L. Capezzani

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Introduzione

Vieni a giocare con me “ dice il Piccolo Principe allavolpe”. Ed ecco che la volpe dice qualcosa di sor-prendente: “Non posso giocare con te (…) non sonoaddomesticata”, ma il Piccolo Principe ne vuole sa-pere di più e chiede: “Che cosa vuol dire addome-sticare?” e la volpe sapientemente risponde “vuoldire creare dei legami (…) io non sono che per te unavolpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addo-mestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sa-rai per me unico al mondo ed io sarò per te unica almondo”.

Il nome Pet-therapy deriva dell’unione di due parole inglesi,pet o animale d’affezione e therapy o cura, ed è comu-nemente usato per indicare le “ attività e terapie assistitecon animali”. Questa forma di terapia punta ad utilizzareun animale domestico sfruttandone le innate capacità “te-rapeutiche” partendo dall’idea che gli animali possano mi-gliorare in generale la qualità della vita delle persone so-prattutto quelle che presentano alcune problematiche.Le origini sono lontane e già nel 1972 William Tuke inco-raggiava i suoi pazienti, malati mentali, a prendersi curadegli animali, in quanto tale attività li invogliava all’auto-controllo.Ufficialmente la Pet-therapy nasce negli Stati Uniti neglianni ’50-’60 da un incontro casuale tra un bambino auti-stico, in cura da uno psichiatra infantile Boris Levinson, edil suo cane Jingles che aiutava il piccolo ad esternare leproprie sensazioni interiori e ad esprimersi attraverso unoscambio affettivo e giocoso. Levinson ne dedusse che l’ani-male fosse un mediatore utile a ristabilire i contatti socialie a migliorare lo stato psicofisico dei propri pazienti e loutilizzò in modo sistematico nella relazione psicoterapeuticaottenendo risultati soddisfacenti. Utilizzò, quindi, il suo canecome co-terapeuta e successivamente parlò di questa spe-rimentazione nel suo libro “Il cane come co-terapeuta” chefu pubblicato nel 1962.Tra gli altri autori che con le proprie ricerche contribuiro-

no allo studio di questa nuova forma di terapia è dovero-so citare Samuel ed Elizabeth Corson. Essi, a partire dal1981, cominciarono ad applicare la Pet-therapy alla curadi pazienti psichiatrici adulti ed anziani ricoverati in ospe-dali geriatrici. Parlando di Pet-therapy si deve fare una distinzione tra le“Attività svolte con l’ausilio di animali” (AAA) oppure “Te-rapie effettuate con l’ausilio di animali” (AAT): le prime han-no come obiettivo il miglioramento della qualità della vitadi alcune categorie di persone (anziani, ciechi, malati ter-minali, ecc.) ed in questo caso si tratta di interventi di tipoeducativo senza obiettivi specifici, se non un miglioramentogenerale dello stato di benessere dell’individuo; le secondesono, come dice lo stesso termine, vere e proprie terapiedirette, ad esempio, a pazienti autistici oppure a pazien-ti soggetti a varie forme di depressione. Il metodo AAT èinfatti utilizzato da professionisti ed è finalizzato al rag-giungimento di specifici obiettivi di salute che possono es-sere di natura cognitiva, psicosociale, comportamentalee psicologica.Recentemente si impiega la sigla UTAC per indicare unaparticolare forma di Pet-therapy che si avvale dell’utilizzodi animali non domestici.La scelta dell’animale da utilizzare viene effettuata in baseagli obiettivi terapeutici che si vogliono raggiungere e te-nendo conto delle caratteristiche del paziente. Non sonoconsiderati idonei gli animali selvatici o gli animali esoti-ci. Abitualmente nella Pet-therapy sono utilizzate le seguentispecie animali: uccelli, criceti, conigli, cani, gatti, cavalli,delfini, asini, capre e pesci rossi.L’animale da compagnia è una buona fonte addizionale diintimità e calore e attraverso la sua vicinanza ogni indivi-duo può trovare dei benefici psico-fisici: l’atto di accarez-zare, a livello fisiologico, può contribuire a ridurre il ritmocardiaco con una conseguente diminuzione del ritmo re-spiratorio, nonché della pressione arteriosa e del tono mu-scolare. Difatti il rapporto uomo-animale, quando è ras-sicurante, interviene sulla produzione di adrenalina e al-tri ormoni corticosteroidei o ormoni dello stress, con il ri-sultato finale di una minore pressione arteriosa. Inoltre, un

Intervento terapeutico-riabilitativo di Pet-therapy nella disabilita`neuromotoria e comportamentale.Come l�alleanza tra un cane ed un disabile diventa curaD’Andrea A.*, Poggioni P**.,Brancati V**., Fratocchi S.***, Epifani I.****

*Psichiatra e Psicoterapeuta, Medico Responsabile Settore Residenziale Centro di Riabilitazione “Villaggio E.Litta”. Docente di PsichiatriaUniversità degli Studi di Roma “Tor Vergata”** Terapista, Corso di Laurea in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva***Pet Operator, Centro di Riabilitazione “Villaggio E. Litta”****Supervisor, Associazione O.A.S.I

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I intenso rapporto uomo-animale rappresenta uno stimolopsicologico che coinvolge il comportamento sociale e i mec-canismi di relazione, gli elementi caratteriali e gli aspetticognitivi. Recenti documentazioni sul lavoro svolto con gli animalihanno dimostrato una relazione tra emozione, rilassamentoed effetti benefici come quelli indotti dalla Pet-therapy: fis-sare l’attenzione su di un singolo elemento uditivo o visi-vo dell’animale o vivere con lui un rapporto tranquillizzantedetermina una serie di modificazioni fisiologiche che sonoopposte rispetto alle risposte causate dallo stress. La Pet-therapy può essere impiegata per diversi obiettivie su diverse aree d’intervento. Nell’area cognitivo-com-portamentale si mira al raggiungimento di uno stato di be-nessere generale e di rilassatezza psico-fisica tramite ilcontrollo dell’aggressività e il miglioramento delle capacitàdi attenzione. Nell’area emotiva si favorisce il controllo de-gli stati d’animo cercando di instaurare un rapporto em-patico con l’animale, che nelle ipotesi migliori può arriva-re ad essere accudito, determinando l’accrescimento del-l’autostima che porta all’acquisizione di maggior sicurez-za. Nell’area socio-comunicativa l’obiettivo è quello del-l’accrescimento della capacità di entrare in relazione congli altri utilizzando una serie di giochi che tendano ad au-mentare il numero di esperienze positive e la fiducia in sestessi. Nell’area motoria, quando è possibile, si tentano dimigliorare le competenze motorie e percettive attraversouna serie di esercizi mirati.La Pet-therapy si rivolge a soggetti adulti che presentanodiverse patologie di tipo neurologico e psichiatrico ed inparticolar modo agli anziani affetti da morbo di Alzeimer;ma i maggiori benefici vengono tratti dai bambini affetti dagravi disabilità caratterizzate da disturbi neuro psicomo-tori, per lesioni riportate nelle aree deputate alla coordi-nazione, al movimento, alla percezione e all’integrazione,che inevitabilmente ostacolano lo sviluppo cognitivo,emozionale, motorio ed adattivo. Ne consegue una ina-deguata percezione e conoscenza del proprio corpo e scar-se esperienze sensoriali, che riducono i vissuti limitandonela crescita cognitiva.L’intervento di Pet-therapy, con soggetti particolarmentecompromessi, oltre a possedere delle caratteristiche par-ticolari, quali l’ambiente e l’uso esclusivo di animali do-mestici, è impostato in modo tale che vi siano degli obiet-tivi specifici individuati in base alle peculiari esigenze delpaziente tenendo conto della storia, della patologia, de-gli strumenti a disposizione, del trattamento farmacologi-co eventualmente assunto. Tra gli animali spicca per importanza, in questo metodoterapeutico, il cane, che ha un rapporto unico con l’esse-re umano da sempre. Il cane viene utilizzato spesso nelle Pet-therapy nel ruo-lo di co-terapeuta, soprattutto se sono coinvolti i bambi-ni, per favorire momenti di interazione e gioco che spes-so contribuiscono alla costruzione di legami di attacca-mento.L’intensità dell’attaccamento è determinato da molteplicivissuti emozionali, da fattori ambientali, da esperienze vi-sive e tattili e dalla percezione dei significati che si dan-no alla realtà. Se è così allora l’animale come co-terapeutapuò creare nuove esperienze emozionali attraverso il gio-co e favorire uno scambio reciproco di stimoli attraversola relazione che si viene a creare comportando cambia-menti ed effetti positivi per entrambi. Il cane diventa un me-

diatore emozionale in grado di comprendere e condividerei sentimenti umani, divenendo un soggetto empatico e at-tivo creando una forma di comunicazione non conven-zionale ma più autentica. Tale dialogo non conosce, infatti,rigide regole sociali né, soprattutto, atteggiamenti com-petitivi. La comunicazione con l’animale, attraverso un lin-guaggio non verbale, garantisce un effetto calmante e agi-sce positivamente sulla psiche umana. Con persone conparticolari problemi il cane trova un canale preferenziale,una sorta di accesso facilitato per entrare in contatto conesse riuscendo a volte a sbloccare condizioni patologiche.In generale, la Pet-therapy si prefigge di migliorare le fun-zioni fisiche, sociali ed emotive delle persone. Quale chesia l’animale scelto dai responsabili del programma (cani,gatti, conigli…) sembrerebbe che solo con la sua presenzasi faciliti una diminuzione del disagio determinando unaqualità di vita migliore. A motivo della sua complessità que-sto tipo di intervento richiede, per la sua attuazione, l’uti-lizzo di un’équipe multidisciplinare. Negli ultimi anni, questa forma di terapia si sta diffondendoanche in Italia e più precisamente, solo nel 1987, a se-guito di un Convegno Interdisciplinare svoltosi a Milanosu “Il ruolo degli animali nella società”. Nel 1996, pressola Fondazione Robert Hollman di Cannero Riviera, è sta-to proposto uno dei primi programmi di terapia con l’ani-male utilizzato su bambini con deficit visivo e plurihandicap.Tra il 1997 e il 1999, L’Istituto Sperimentale dell’Abruzzoe del Molise “G. Caporale” ha realizzato un programmasperimentale di terapie assistite dagli animali, finanzia-to dal Ministero della Sanità come progetto di ricerca. Nelprogetto sono stati presi in considerazione 20 ragazzi, trai 5 e i 15 anni, di cui 7 portatori di handicap e 13 con pro-blemi legati di apprendimento, di relazione e di comuni-cazione. Nel progetto sono stati utilizzati diversi anima-li, per la precisione sono stati utilizzati gatti, conigli nani,caprette tibetane, e dopo un anno, nel 1998 anche i cani.I risultati ottenuti su quasi tutti i ragazzi campione sonostati soddisfacenti, soprattutto sul piano emotivo-rela-zionale.Nel febbraio del 2003 un decreto del Presidente del Con-siglio dei Ministri introduce la Pet-therapy negli ospeda-li e nelle strutture residenziali.Successivamente, il 21 ottobre 2005, lo stesso Consigliodei Ministri emana un secondo decreto dove tratta problemibioetici relativi all’impiego di animali in attività correlate allasalute e al benessere umano.

Materiali e metodi

Costituzione del gruppo di lavoroAlla luce di quanto riportato il presente studio si è postol’obiettivo di valutare l’efficacia di un intervento di Pet-the-rapy su un gruppo selezionato di pazienti ricoverati in re-gime residenziale presso un centro di riabilitazione per di-sabili di Grottaferrata, il Villaggio Eugenio Litta.L’équipe di lavoro interessata al progetto è stata costitui-ta da: un Medico Psichiatra responsabile del progetto, unSupervisor, un Pet Operator, due Psicologi, tre Terapistidella neuro psicomotricità dell’età evolutiva, un Medico ve-terinario. La presenza delle suddette figure professiona-li è data dalla necessità che vi sia uno scambio interdi-sciplinare tra i membri per arricchire e complementare lespecifiche competenze professionali.

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Intervento terapeutico-riabilitativo di Pet-therapy nella disabilità neuromotoria e comportamentale

Selezione e costituzione del gruppo campioneIl progetto pilota di “Pet-therapy” presso l’Istituto di Riabi-litazione “Villaggio Eugenio Litta” ha interessato il repar-to A2 del settore residenziale, i cui ospiti sono affetti daRitardo Mentale e presentano un’importante compromis-sione neuro-motoria con deficit nelle aree della visuo-motricità e dell’orientamento.È stata effettuata la selezione tra i 13 pazienti ricoveratinel suddetto reparto dei quali ne sono stati scelti 6 sullabase di profili psicologici e di valutazioni effettuate all’ini-zio ed alla fine del progetto durato nove mesi. Il campio-ne così ottenuto è costituito dai seguenti pazienti:

M.V. (1998)Sindrome da distress respiratorio neonatale; prematurità;doppia emiplegia spastica-distonica maggiore a destra; epi-lessia generalizzata; ritardo mentale medio.

F.I. (1980)Emorragia endocranica postnatale; quadriplegia spasticaprevalente a sinistra, ritardo mentale profondo; epilessia;deficit visivo (strabismo convergente e nistagmo).

N.C. (1989)Anomalie congenite multiple; ritardo mentale profondo; epi-lessia; lussazione congenita anca sinistra e sublussazio-ne dell’anca destra.

R.P. (1990)Tetraparesi spastica; ritardo mentale grave/profondo; epi-lessia; assenza del linguaggio.

L.T. (1980)Ritardo mentale grave; assenza del linguaggio; ipoacusiebilaterali; strabismo convergente; malformazioni multipledel massiccio facciale; disturbo della condotta; stereotipie.

P.F. (1987)Ritardo mentale grave; trisomia 19; scoliosi; piede piattodestro.

Scelta dell’animale idoneoPer il progetto ci si è avvalsi dell’ausilio di un cane Labradordi 5 anni circa che risponde ad una serie di caratteristiche:

• la necessità di un animale contenuto,• la riproducibilità del dato di esperienza nella quo-

tidianità,• le capacità di adattamento dell’animale ad uno spa-

zio chiuso.Il Labrador scelto, inoltre, aveva già seguito in passato unpercorso formativo per lo svolgimento delle attività di Pet-therapy ed è quindi certificato.È stata fatta una serie di incontri preparatori ed individuatele “zone di ristoro” per l’animale, migliorate le condizionidi salute e riproposto un rapporto di relazione con il con-duttore e gli altri operatori.Il cane è stato inserito come co- terapeuta in senso pro-prio: così, come una terapia medica viene somministra-ta e dosata a seconda delle risposte individuali del paziente,così il cane è stato “somministrato” ai singoli ragazzi in dosivariabili a seconda delle loro risposte personali. È evidenteche in questo caso si è trattato di una terapia “in crescendo”,invece che a scalare.

Definizione degli obiettiviGli obiettivi specifici del presente progetto riabilitativo sonomirati ad ampliare le capacità relazionali, migliorare i pro-blemi comportamentali, massimizzare lo sfruttamento del-le capacità fisiche residue attraverso:

1. Meccanismo affettivo - emozionale: le emozio-ni e l’affettività che si sviluppano nel rapporto uomo-animale agiscono positivamente sulla malattia.

2. Meccanismo di stimolazione psicologica: il rap-porto uomo-animale rappresenta un forte stimo-lo psicologico che coinvolge diversi aspetti, che van-no dal comportamento socio-relazionale alle com-ponenti caratteriali e cognitive.

3. Meccanismo ludico: il gioco con un animale com-porta divertimento, rilassamento, risate, l’esperi-re emozioni e sensazioni positive che agiscono sulbenessere. Il gioco agisce anche nella stimolazionedell’attività motoria.

4. La comunicazione: il rapporto uomo-animale è re-golato da un linguaggio non verbale, che, favorendouno scambio reciproco di stimolazioni sensoriali, fa-cilita le espressioni delle emozioni nella relazione. Ifeed-back positivi di un animale, che è accarezzatoo che asseconda le verbalizzazioni o i gesti di unapersona in terapia, costituiscono un rinforzo positivoall’espressività emotiva. Il rapporto con l’animale è ca-ratterizzato dall’accettazione incondizionata che fa-vorisce il senso di fiducia e di autostima, aumenta lasicurezza personale e riduce i livelli d’ansia.

5. Meccanismi psicologici inconsci: i processi in-consci (di difesa quali l’identificazione, la proiezionee la compensazione) che intervengono nel rapportouomo-animale aiutano l’individuo a raggiungere unequilibrio a livello psichico.

Obiettivi comuni: • “Potenziamento dell’interazione sociale” tramite

la relazione con l’ambiente mediata dal cane. Ciòè stato effettuato trovando un canale comunicati-vo con il cane specifico per ogni paziente che po-tesse dare gratificazioni tramite esperienze posi-tive cercando di far acquisire maggior sicurezza efiducia. Fondamentale è instaurare un rapporto po-sitivo paziente-operatore affinché questo si pos-sa affidare totalmente e trovare fiducia nell’af-frontare la nuova esperienza. L’interazione con ilcane ha inoltre permesso di aumentare la socia-lizzazione e migliorare la relazione.

• “Miglioramento della comunicazione non ver-bale”: la nuova esperienza ha permesso il mani-festarsi di nuovi stati emotivi. Per condividere conl’operatore queste nuove emozioni il paziente hamostrato una migliore e nuova capacità comuni-cativa ,manifestando in modo corretto le nuove sen-sazioni ed emozioni sia tramite lo sguardo che tra-mite la mimica facciale.

• “Tolleranza alla frustrazione e gestione dei tem-pi d’attesa”. I pazienti posti in nuovi contesti mo-strano ansia e una bassa soglia alla frustrazione.L’esperienza positiva con il cane mediata dal-l’operatore con cui si è instaurato un rapporto difiducia hanno mostrato un innalzamento della so-glia alla frustrazione ed una maggiore capacità ditolleranza all’attesa.

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Obiettivi individuali:• “Potenziamento della capacità di produzione e

comprensione del linguaggio”. Tramite eserci-zi specifici si è tentata l’acquisizione di nuovi vo-caboli e un miglioramento della produzione; si è la-vorato sullo stato emotivo tramite il gioco e sem-pre tramite esso sono stati promossi esercizi chemigliorassero la comprensione verbale.

• “Modellamento del comportamento confor-me”. Su pazienti oppositivi e disattenti si è lavo-rato sull’attenzione e la concentrazione in un set-ting chiuso in totale assenza di stimoli esterni. Il rap-porto con il cane ha permesso di abbassare il li-vello di oppositività.

• “Distacco dall’oggetto transazionale”. In uncaso specifico, l’oggetto transazionale (un telefonogiocattolo) era di ostacolo per l’esplorazione del-l’ambiente e l’interazione con gli operatori ed il cane.Si è pertanto tentato di ridurre tale modalità allo sco-po di favorire l’apertura del paziente verso l’ester-no fisico ed emotivo-relazionale. L’obiettivo del di-stacco è stato attuato proponendo giochi che per-mettessero il suo graduale allontanamento. Inizial-mente l’oggetto veniva posto nel collare dell’animalecosì da permettere un contatto con il cane e la riu-scita dell’esercizio (passeggiata con il cane) per ar-rivare gradualmente a dare il guinzaglio in cambiodell’oggetto fino poi a far lasciare al paziente il gio-co in reparto prima della terapia avendo come for-te motivazione la possibilità di vedere il cane.

Valutazione del campionePrima di iniziare il progetto ed al termine dello stesso (no-vembre 2008-giugno2009) il campione è stato sottopostoa valutazione al fine di monitorare i risultati raggiunti e pre-vedere un’eventuale ridefinizione degli obiettivi attraver-so la somministrazione di due scale di valutazione:

• “Scala di valutazione sui livelli interni della gra-vità”

Le scale e le subscaleLa Scala di valutazione dei livelli interni di gravità si arti-cola in sette scale e undici subscale:

1. Autonomia: suddivisa in 5 subscale comprendenti:- Alimentazione: composta da 7 items indici del li-

vello di gravità da profondo a grave- Igiene personale: composta da 7 items indici del

livello di gravità da profondo a grave- Spogliarsi: composta da 7 items indici del livello di

gravità da profondo a grave- Vestirsi: composta da 7 items indici del livello di gra-

vità da profondo a grave- Controllo sfinterico: composta da 6 items indici del

livello di gravità da profondo a grave2. Postura, mobilità, locomozione: composta da 12

items indici del livello di gravità da profondo a gra-ve

3. Visuo-morticità: composta da 10 items indici dellivello di gravità da profondo a grave

4. Orientamento ed esplorazione spaziale: com-posta da 7 items indici del livello di gravità da pro-fondo a grave

5. Attenzione: composta da 9 items indici del livel-

lo di gravità da profondo a grave6. Memoria: composta da 9 items indici del livello di

gravità da profondo a grave7. Comunicazione: suddivisa in 6 subscale com-

prendenti- Comprensione verbale: composta da 5 items in-

dici del livello di gravità da profondo a grave- Comprensione non verbale: composta da 4 items

indici del livello di gravità da profondo a grave- Produzione verbale su imitazione: composta da 6

items indici del livello di gravità da profondo a gra-ve

- Produzione verbale su richiesta: composta da 6items indici del livello di gravità da profondo a gra-ve

- Produzione verbale spontanea: composta da 6items indici del livello di gravità da profondo a gra-ve

- Produzione non verbale: composta da 4 items in-dici del livello di gravità da profondo a grave

• “Vineland Adaptive Behavioral Scales (VABS)”

Valuta l’autonomia personale e la responsabilità socialedegli individui dalla nascita fino all’età adulta. È applica-bile sia a normodotati sia a soggetti con disabilità cogni-tiva e permette la programmazione di interventi individualieducativi o riabilitativi. La scale non richiedono la direttasomministrazione delle prove al soggetto in esame, ma lacompilazione dei materiali da parte dell’intervistatore e diuna persona che conosca in modo approfondito il soggettoda valutare. La Forma completa consta di 540 item, 261dei quali tratti dalla Forma breve, e si somministra trami-te un’intervista semistrutturata da parte di un intervista-tore addestrato a un genitore o all’operatore che si occu-pi del soggetto. Durante la somministrazione devono essere presentisolo l’intervistatore e l’intervistato ed è preferibile che l’in-tervista possa essere conclusa in una sola seduta. Il ma-teriale utilizzato per condurre l’intervista è composto dalquestionario, dal protocollo per il conteggio, sul quale van-no registrate le informazioni subito dopo l’intervista, e dalmanuale, che contiene le linee guida per la somministra-zione e l’attribuzione dei punteggi, informazioni tecnichesullo sviluppo e la standardizzazione, tabelle normative eistruzioni per interpretare i punteggi. Il comportamento adattivo è misurato secondo quattro sca-le, a loro volta suddivise in undici subscale. Ogni subscalaè a sua volta suddivisa in cluster (da 2 a 8 items) elencatiin ordine evolutivo e ogni cluster è ordinato in base ad unitem target. Agli item può essere attribuito un punteggiovolto ad indicare se l’individuo pratica l’attività “abitual-mente”, “qualche volta” o “mai”; sono contemplate anchele risposte “assenza di opportunità” o “non so”. La Formacompleta indica pertanto i punti di forza e di debolezza delsoggetto in specifiche aree del comportamento adattivo,permettendo allo psicologo o all’educatore di seleziona-re il programma più adatto al soggetto ed esplicitare le at-tività da enfatizzare nel programma, monitorarne i progressidurante la sua applicazione e valutarne l’esito finale.

Le scale e le subscaleLe Vineland Adaptive Behavior Scales si articolano in quat-tro scale e undici subscale:

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1. ComunicazioneRicezione: ciò che il soggetto comprende;Espressione: ciò che il soggetto dice;Scrittura: ciò che il soggetto legge e scrive.

2. Abilità quotidianePersonale: come il soggetto mangia, si veste e cural’igiene personale;Domestico: quali lavori domestici il soggetto com-pie;Comunità: come il soggetto usa tempo, denaro, te-lefono e proprie capacità lavorative.

3. SocializzazioneRelazioni interpersonali: come il soggetto intera-gisce con gli altri;Gioco e tempo libero: come il soggetto gioca e im-piega il tempo libero;Regole sociali: come il soggetto manifesta sensodi responsabilità e sensibilità verso gli altri.

4. Abilità motorieGrossolane: come il soggetto usa braccia e gam-be per il movimento e la coordinazione;Fini: come il soggetto usa mani e dita per mani-polare oggetti.

Setting dell’interventoL’ambiente di lavoro dove si è svolto l’intervento di Pet-the-rapy è stato la palestra, sita all’interno della struttura “VillaggioEugenio Litta”, scelta per essere silenziosa e per l’assenzadi stimoli esterni e quindi facilitante la concentrazione. Il set-ting è stato strutturato in maniera tale da permettere la rea-lizzazione degli obiettivi specifici. Il gioco è stato il canale co-municativo principe in questo tipo di setting. Winnicott vedevanel gioco quello “spazio potenziale” dove può ri-avvenire l’at-tivazione della ri-scoperta di sé e delle proprie potenzialitàda parte del soggetto: un tipo di relazione sicura che si in-staura tra l’animale, il paziente ed il terapeuta che sembracrearne i presupposti. Il solo prendersi cura del cane con-tribuisce a restituire al paziente un’immagine valida e posi-tiva della propria persona e del proprio valore individuale svi-luppando il proprio senso di responsabilità. Il setting è stato strutturato in maniera tale da permette-re la realizzazione degli obiettivi precedentemente indi-viduati e descritti:

➮ È stato creato un percorso composto di curve e ret-tilinei, adatto per dimensioni e forma per essere per-corso anche dai pazienti in carrozzina. In questasituazione l’esperienza di condurre il cane a guin-zaglio favorisce l’uso della manualità e la mobi-lizzazione degli arti superiori e per i pazienti condeambulazione autonoma anche degli arti inferiori.Il Pet Operator dà informazioni verbali al pazien-te della prossimità delle curve e questo, a secon-da della concavità o convessità della curva, dovràaddurre o abdurre l’avambraccio nella cui mano tie-ne il guinzaglio per avanzare nel percorso ac-compagnato dal cane; ciò allo scopo di massi-mizzare lo sfruttamento della motilità residua. Peri pazienti con deambulazione autonoma il percorsoè stato modificato con l’aggiunta di pedane così dacreare salite e discese.

➮ La presenza di un animale contribuisce, dal pun-to di vista fisico, a stimolare l’attenzione ed a sta-bilire un contatto visivo e tattile; pertanto è statacreata una pedana sulla quale far salire il cane per

migliorare questo tipo di interazione.➮ Per aumentare la fiducia in loro stessi, i pazienti, da

un’apposita postazione danno da mangiare all’ani-male. Ciò costituisce il primo passo per stabilire unrapporto di fiducia, poiché è grazie al cibo che si creatutta una serie di informazioni e di emozioni che le-gano vicendevolmente gli uomini e gli animali.

➮ È stata creata un’ulteriore postazione su cui far se-dere i pazienti con un adeguato sviluppo motoriodalla quale potessero prendere una palla posta sulpavimento e tirarla al cane mantenendo il contat-to visivo con l’oggetto e con l’animale, favorendocosì una “triangolazione” dello sguardo.

Descrizione della seduta di Pet-therapyLa seduta è individuale: la durata è di 30 minuti a settimanaper paziente. La seduta inizia con il Terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva che si reca in reparto perandare a prendere il paziente a cui comunica verbalmen-te che dopo poco inizierà la seduta e che “Si va da Petty”(così si chiama il Labrador scelto per l’intervento). Nor-malmente il paziente non verbale si dimostra contento sor-ridendo ed emettendo suoni gutturali mentre quello verbaleafferma la sua felicità. Giunto in palestra, il paziente è ac-colto dall’operatore cinofilo e dal cane. La seduta è su-pervisionata dallo psicologo e dai terapisti che assieme al-l’operatore cinofilo, sulla base degli obiettivi individuali, orien-tano l’attività e la scelta degli esercizi da proporre.

COMPILAZIONE SCHEDE DI OSSERVAZIONE (vedi al-legato)È stata costruita una scheda al fine di documentare e mo-nitorare i progressi e il raggiungimento degli obiettivi deipazienti. Questa è individuale e giornaliera ed è compilataal termine di ogni seduta. Punti in cui si articola la Scheda di osservazione:

■ Nome paziente, nome osservatore, data della se-duta;

■ Aspettative/ Obiettivi■ Informazioni generali: - ambiente di lavoro- durata della seduta- animale presente■ Bambino:- riconoscimento dell’ambiente- esplorazione contesto- eventuali presenze di difesa tattile- modalità di interazione con l’animale■ Postura:- tipo di contatto intrattenuto con l’animale- eventuali difficoltà presenti■ Operatore: - comunicazione a livello verbale- comunicazione attraverso gesti, sguardi, movimenti

corporei- modalità di mediazione tra l’animale e il bambino■ Cane: - tipologia del comportamento di base ■ Osservazioni

RIUNIONI ÉQUIPE: Le riunioni tra i membri del grupposono state periodiche ed effettuate per la valutazione deirisultati conseguiti e per ricalibrare gli obiettivi una voltache essi siano stati raggiunti.

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RISULTATI

Descrizione del campioneDi seguito, per ciascuno dei pazienti, vengono riportati gliobiettivi specifici ed una descrizione, anche grafica, dellecompetenze individuali sulla base dei risultati ottenuti dal-la somministrazione delle scale di valutazione scelte.

PAZIENTE P.F. (Fig. 1)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane■ miglioramento della comunicazione non verbale■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ modellamento del comportamento conforme■ migliorare la postura sia nel mantenimento della

stazione eretta che nella deambulazione

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un’età complessiva minore di1 anno e 6 mesi. Nella scala della comunicazione risultaassenza del linguaggio e comunicazione dei bisogni consuoni vocalici, lamenti e portando l’adulto dove c’è l’oggettoo la situazione desiderata. La comprensione del linguag-gio parlato è limitata a semplici indicazioni. Autonomia: coo-pera adeguatamente con chi si prende cura di lei ma è co-munque dipendente dall’adulto.

PAZIENTE F.I. (Fig. 2)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane

■ miglioramento della comunicazione non verbale ■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ facilitare l’interazione con l’ambiente■ massimizzare lo sfruttamento delle capacità fisi-

che residue, in particolar modo dell’arto superio-re destro

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un’età complessiva minore di1 anno e 6 mesi. Il linguaggio verbale è limitato alla pro-nuncia di “sì”, migliore è la comprensione del linguaggioverbale. Le abilità quotidiane rappresentano un punto didebolezza, infatti necessita di continua assistenza per ciòche riguarda l’autonomia personale. L’area motoria è for-temente compromessa.

PAZIENTE L.T. (Fig. 3)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane■ miglioramento della comunicazione non verbale ■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ modellamento del comportamento conforme■ distacco dall’oggetto transizionale■ aumentare il numero delle sue esperienze■ migliorare le competenze verso l’esterno

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un’età complessiva minore di1 anno e 6 mesi. Il linguaggio verbale è assente, la com-

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Figura 1 - Scala dei livelli interni digravità. Il paziente presenta nellamaggiore un livello gravissimo nel-le diverse aree dell’autonomia tran-ne nel controllo sfinterico e nel-l’igiene personale che presenta in-vece un livello di gravità profondo enell’alimentazione con un livellograve. Buon livello nell’area Postu-ra, mobilità, locomozione. L’areadella comunicazione è più com-promessa rispetto alle precedenti,presentando carenze di gravitàprofonde in tutte le subscale sia dicomprensione che di produzioneverbali e non verbali. Dalle due som-ministrazioni si evince un migliora-mento nella comprensione verbale.

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Figura 2 - Scala dei livelli interni digravità. La paziente presenta nellamaggiore un livello gravissimo nel-le diverse aree dell’autonomia tran-ne nel controllo sfinterico, in cui haun livello di gravità profondo cosìcome nella scala postura, mobilità,locomozione. Livello grave nellescale attenzione e memoria. Nellascala di comprensione risulta di en-tità grave la comprensione verbale,gravissimo il livello nella compren-sione e produzione non verbale, unlivello di gravità profondo nella pro-duzione verbale spontanea, su imi-tazione e su richiesta. Dalle due som-ministrazioni si evince un migliora-mento nell’area dell’attenzione.

Figura 3 - Scala dei livelli interni digravità. La paziente presenta nellamaggiore livelli gravissimi nellesubscale dell’autonomia. Buon li-vello nell’area postura, mobilità,lo-comozione. L’area della comunica-zione è più compromessa rispettoalle precedenti, presentando ca-renze di gravità profonde in tutte lesub scale sia di comprensione chedi produzione verbali e non verba-li. Dalle due somministrazioni sievince un miglioramento nell’at-tenzione e nella comprensione ver-bale.

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prensione del linguaggio parlato è legato ai bisogni primari.È in grado di eseguire ordini semplici indicazioni. Autonomia:necessita di assistenza per quanto riguarda le attività diautonomia personale e quotidiana. Socializzazione: risultapunto di forza ricerca il contatto con l’adulto. Abilità mo-torie: difficoltà delle abilità fini motorie.

PAZIENTE R.P. (Fig. 4)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane■ miglioramento della comunicazione non verbale ■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ aumentare il numero delle esperienze per ridurre

gli stati d’ansia■ massimizzare lo sfruttamento delle capacità fisi-

che residue

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un’età complessiva minore di1 anno e 6 mesi. Nella scala della comunicazione si notacome la produzione verbale sia assente, sono presenti suo-ni gutturali. C’è una forte intenzionalità comunicativa,espressa prevalentemente mediante lo sguardo, l’emissionedi suoni e la mimica facciale. Buona comprensione del lin-guaggio verbale. Autonomie: totalmente dipendente dal-l’adulto.

PAZIENTE M.V. (Fig. 5)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane

■ miglioramento della comunicazione non verbale ■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ potenziamento in produzione e comprensione

del linguaggio■ massimizzare lo sfruttamento delle capacità fisi-

che residue

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un età complessiva di 1 annoe 7 mesi. La scala comunicazione registra un’assenza diabilità di letto-scrittura, compaiono però capacità ricetti-ve ed espressive: è in grado di seguire istruzioni sempli-ci e istruzioni che richiedono due azioni in sequenza.L’espressione verbale è punto di forza: utilizza frasi com-plete e sufficientemente contestualizzate. Le abilità quo-tidiane rappresentano complessivamente un’area puntodi debolezza: coopera con chi si occupa di lui ma neces-sita di continua assistenza per ciò che riguarda l’autono-mia personale. La scala di socializzazione evidenzia ca-pacità espressive delle principali emozioni, ricerca atti-vamente la presenza e soprattutto l’attenzione dell’altro.

PAZIENTE N.C. (Fig. 6)■ potenziamento dell’interazione sociale tramite la

relazione con l’ambiente mediata dal cane■ miglioramento della comunicazione non verbale■ tolleranza alla frustrazione e gestione dei tempi d’at-

tesa■ aumentare il numero delle esperienze tattili

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Figura 4 - Scala dei livelli interni digravità. Il paziente presenta nellamaggiore un livello di gravità pro-fondo nelle diverse aree dell’auto-nomia. Livelli di gravità profondasono presenti anche nelle areedella postura, mobilità, locomozio-ne in cui la capacità di controllo delproprio corpo è solo nella regola-zione del capo. Nell’attenzione il li-vello è grave così come nella me-moria: riconosce oggetti, persone eciò che comprende le sue abitudi-ni. Diversi sono invece i livelli nel-le subscale della comunicazione:vanno da un livello profondo nellaproduzione verbale e non verbale,ad un livello grave nella compren-sione verbale non verbale. Dalle duesomministrazioni si evince un mi-glioramento nell’attenzione e nellamemoria.

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Figura 5 - Scala dei livelli interni digravità. Il paziente presenta nellamaggiore un livello gravissimo nel-le diverse aree dell’autonomia tran-ne nel controllo sfinterico che pre-senta invece un livello di gravità pro-fondo e nell’alimentazione con un li-vello grave. È completamente di-pendente dall’adulto nell’area po-stura, mobilità e locomozione il cuilivello è di gravità profondo. Sub-scala visuo-motoria è meno com-promessa. Nell’area della comuni-cazione i livelli sono diversi: vannoda livelli gravi (aspetti verbali sia dicomprensione che di produzione) agravissimo (aspetti non verbali siain comprensione che in produzione).Dalle 2 somministrazioni si evinceun significativo miglioramento intutte le aree tranne per il controllosfinterico e la comprensione nonverbale in cui il risultato è rimastoinvariato.

Figura 6 - Scala dei livelli interni digravità. La paziente presenta livel-li gravissimi nelle subscale dell’au-tonomia. L’area maggiormente com-promessa è quella relativa alla co-municazione con un livello di gravitàprofondo sia in comprensione chein produzione verbale e non. Dalledue somministrazioni si evince unmiglioramento nell’attenzione.

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■ migliorare la coordinazione bimanuale■ migliorare i tempi d’attenzione rinforzando l’ag-

gancio visivo

Vineland: dal punteggio ottenuto nelle diverse scale rag-giunge nell’area funzionale un’età complessiva minore di1 anno e 6 mesi. Nella scala della comunicazione si nota

come la produzione verbale sia assente. Nella socializza-zione si evince una continua ricerca e contatto dell’altro.Il percorso terapeuticoDi seguito viene riportata graficamente per ciascunpaziente la modalità di intervento specifica messa in attoallo scopo di raggiungere uno degli obiettivi individuati perogni singolo utente appartenente al campione.

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PAZIENTE P.F.MODELLAMENTO DEL COMPORTAMENTO CONFORME

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IESPLORARE L’AMBIENTE TRAMITE IL MANTENIMENTO DELLA STAZIONE ERETTA

PAZIENTE F.I.CORRISPONDENZA DELLE EMOZIONI CON LA MIMICA FACCIALE

MIGLIORAMENTO DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALEIN COMPRENSIONE E PRODUZIONE

➪ esplorazione del contesto tramite lo sguardo➪ manifestazione corretta di nuove sensazioni/emozioni tramite lo sguardo

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I PAZIENTE L.T.POTENZIAMENTO DELL’INTERAZIONE SOCIALE

AUMENTO DELLA SOCIALIZZAZIONE E

DELL’INTERAZIONE CON L’AMBIENTE

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IPAZIENTE R.P.RINFORZO POSITIVO DELL’ESPRESSIVITÀ EMOTIVA

MIGLIORA LA CAPACITÀDEL LINGUAGGIO IN COMPRENSIONE

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I PAZIENTE M.V.POTENZIAMENTO DELLE COMPETENZE LINGUISTICHE

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IPAZIENTE N.C.RIDUZIONE DELLA CHIUSURA AUTISTICA

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Sintesi grafica dell’andamento terapeutico Di seguito viene riportato il grafico nel quale si evidenzial’andamento della terapia per ciascuno dei pazienti tramitel’analisi dell’interazione dei soggetti con l’ambiente mediatadal cane, uno degli obiettivi comuni individuati all’inizio delprogetto.

Nell’asse delle ascisse vengono indicati i mesi della du-rata della somministrazione della terapia tramite la Pet-the-rapy e nell’asse delle ordinate sono stati inseriti valori, da-4 a +6, per indicare concetti:- 4 Il paziente è oppositivo all’ambiente ed alla relazio-

ne con il cane- 3 Il paziente è indifferente all’ambiente ed alla relazione

con il cane- 2 Il paziente ha poca motivazione ad interagire con l’am-

biente e con il cane- 1 Il paziente ha scarso interesse ad interagire con l’am-

biente e con il cane1 Il paziente inizia a dimostrare un lieve interesse ver-

so l’ambiente ed il cane2 Il paziente dimostra un medio interesse verso l’am-

biente ed il cane3 Il paziente dimostra un forte interesse verso l’ambiente

ed il cane4 Il paziente inizia ad avere una lieve interazione con

l’ambiente e con il cane5 Il paziente ha una media interazione con l’ambien-

te e con il cane6 Il paziente dimostra una forte interazione con l’am-

biente e con il cane

Dal grafico si evince che per ogni paziente si è avuto unmiglioramento nell’interazione con l’ambiente mediata dalcane che ovviamente ha portato ognuno dei soggetti adun miglioramento del tono dell’umore e dell’autostima gra-zie al numero sempre maggiore di esperienze positive avu-te tramite gli esercizi eseguiti con il cane, e ad un ab-

bassamento del livello di frustrazione che ha permesso unconseguente miglioramento della comunicazione nonverbale e verbale quando possibile.I maggiori risultati si sono ottenuti con la paziente L.T. conla quale si è lavorato sul distacco dall’oggetto transazio-nale (un telefonino giocattolo) che le impediva inizialmentequalsiasi tipo di attività di interazione con l’ambiente, conil cane e con l’operatore.È sicuramente interessante confrontare, tramite il graficoriportato di seguito, come l’andamento della curva soprariportata sia direttamente proporzionale all’andamento diquanto nel tempo L.T. sia riuscita a distaccarsi dall’oggettonell’arco della somministrazione della terapia.

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DISTACCO DALL’OGGETTO TRANSIZIONALE

Possiamo quindi osservare come a novembre l’attacca-mento all’O.T. (un telefonino giocattolo) durante la terapiaimpedisce di svolgere al meglio l’attività.Tra dicembre e gennaio l’alternanza del suo O.T. con unosimile (un altro telefonino non uguale) aiuta, grazie ad unsemplice esercizio, a trovare un canale comunicativo conil cane che fa da tramite con l’ambiente.A febbraio l’alternanza del suo O.T. con uno diverso (pan-nocchia, palla…) da a L. la possibilità di imparare un gio-co e di essere gratificata. Questo produce una riduzionedel senso di frustrazione sostituito da un sentimento di gio-ia e felicità nell’eseguire l’attività.A marzo il distacco parziale dal suo O.T. determina in L.l’acquisizione di maggiore sicurezza e fiducia che la por-ta nei mesi successivi (aprile-giugno) al distacco totale dalsuo O.T. che spesso viene lasciato in reparto per la du-rata della terapia. Questo ha permesso a L. di acquisireesperienza e nuova conoscenza determinando la riduzionedella sua chiusura e un conseguente aumento della so-cializzazione e dell’interazione con l’ambiente.

CONCLUSIONI

L’intervento di Pet-therapy si è dimostrato valido suppor-to e contributo fra gli interventi terapeutico-riabilitativi at-tuati nell’arco di 8 mesi su 6 utenti di un centro di riabili-tazione ex art.26 affetti da ritardo mentale e grave com-

promissione neuro-motoria. Si evidenzia, infatti, un gen-eralizzato miglioramento (5 pazienti su un campione di 6)delle competenze attentive; in 2 dei 6 pazienti è emersoanche un miglioramento della performance nella com-prensione verbale ed in particolare in uno dei pazienti ap-partenenti al campione (M.V.) si è potuto apprezzare unsignificativo incremento dei punteggi alle scale di valu-tazione dei livelli interni di gravità inerente tutte le aree es-plorate, in particolare quelle attinenti l’aspetto della visuo-motricità e dell’ attenzione-memoria. Le uniche scale chenon hanno subito variazioni, nonostante l’intervento,sono quelle inerenti alterazioni provocate da danni neu-rologici non modificabili per la patologia di base dell’utentein esame (M.V.) affetto da doppia emiplegia spastico-dis-tonica e la scala della comprensione non verbale, funzioneche probabilmente il paziente mette in secondo piano po-tendo utilizzare, dato il livello medio di ritardo mentale, unacomunicazione di tipo verbale. In quest’ultima area, gra-zie alla somministrazione della terapia, si è potuto osservareun significativo potenziamento delle competenze linguis-tiche, come si evince dal grafico sotto riportato.

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POTENZIAMENTO DELLE COMPETENZE LINGUISTICHE

Con M.V. si parte, per quanto riguarda l’area presa in esa-me,da una buona comprensione di frasi e ordini sempli-ci contestuali. All’inizio della terapia, nel mese di novem-bre, questo ha permesso l’inserimento di comandi quali“PRENDI” “LASCIA” “CHIAMA” base fondamentale degliesercizi da eseguire con il cane. Con M. è stato facile tro-vare il canale comunicativo con il cane e questo è statodi grande aiuto per l’inserimento di nuovi vocaboli da ac-quisire. Quello che possiamo osservare dal grafico è chesi è partiti dal mese di dicembre con uno scarso livello diapprendimento/produzione di nuove parole per arrivare almese di febbraio ad un alto apprendimento/produzione diparole nuove tramite l’aiuto di esercizi specifici utilizzati an-che per potenziare le capacità fisiche residue del paziente.Dal mese di marzo fino al termine della terapia, la grati-ficazione che M. ottiene dall’esecuzione di questi eserci-zi genera nuova esperienza positiva che lo aiuta ad ac-quisire fiducia e sicurezza, sentimenti positivi che lo aiu-tano nell’allenamento della memoria del nuovo vocabolarioacquisito con un conseguente miglioramento della pro-duzione di nuove frasi semplici contestuali determinando,come si evince dalla curva riportata sul grafico comune atutti i sei pazienti del campione, l’apertura e l’interazionecon l’ambiente esterno. Ma lo stesso paziente al follow-up a sei mesi ha eviden-ziato un netto peggioramento della performance verbaleed una riduzione dell’interazione con l’ambiente esternoevidenziata sia nell’ambito di cura, di vita, sia in quello sco-

lastico. La valutazione specialistica ha ipotizzato una prob-abile fase di chiusura depressiva e dato indicazione di unintervento sia di tipo farmacologico antidepressivo sia disostegno psicoeducativo comportamentale (TEACH). Daquesto appare evidente quanto positivi erano stati gli ef-fetti conseguenti all’intervento di Pet-therapy sul pazientein esame ed anche su tutti i soggetti appartenenti al cam-pione. Ciò è di stimolo perché un progetto pilota come quel-lo descritto possa aprire la strada ad ulteriori esperienzedi trattamento che ci auspichiamo possa interessare altripazienti nella nostra struttura generalizzando l’interventoanche agli altri reparti del Settore Residenziale.

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Intervento terapeutico-riabilitativo di Pet-therapy nella disabilità neuromotoria e comportamentale

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Introduzione

Alfred Hitchcock è da tutti riconosciuto come uno dei piùgrandi maestri della suspense, tanto che certa critica, so-prattutto francese, è arrivata ad attribuirgli un’ascenden-za filosofica. I suoi film sono costruiti con una meticolosi-tà impeccabile, divenuta quasi leggenda nella letteraturacinematografica, fatta di rigidi storyboard, di un’attenta ge-stione degli attori, e di puntigliosi sopralluoghi negli am-bienti che dovevano ospitare le riprese. Nei suoi film, le si-tuazioni tensiogene si mescolano benissimo al mistero eall’angoscia, risolvendosi soltanto nel finale. Va subito det-to che la suspense in Hitchcock assume una valenza psi-cologica del tutto particolare: non si tratta di eventi sor-prendenti che improvvisamente irrompono nella scena. Sia-mo lontani dalle classiche trame del giallo, dove nel cor-so delle rappresentazioni cinematografiche viene offertauna serie di indizi, attraverso i quali lo spettatore può ope-rare un proprio processo di ricostruzione retroattiva deglieventi, ed arrivare a formulare delle ipotesi sull’identità del-l’assassino. Nei film di Hitchcock, invece, lo spettatore co-nosce a fondo la realtà dei fatti diegetici; sa per esempio

chi sia l’assassino, e soprattutto quali rischi stiano correndoi personaggi implicati nella rappresentazione. È proprio nel-l’attesa dell’evento emozionale, ricostruita dallo spettato-re, che si genera la tensione. Lo spettatore è invitato adun duro lavoro: assistere “impotente” ai rischi corsi dal per-sonaggio, al quale magari si vorrebbe tendere una manomettendolo al corrente delle minacce che incalzano su dilui. Quindi non rimane che restare “timorosamente sospeso”nell’attesa che si realizzi il pericolo, caricandosi di nume-rose tensioni emotive. Nel caso della rappresentazione del disagio mentale varivelato innanzitutto un dato quantitativo, ovvero sono si-curamente molti i film al cui interno vengono rappresen-tati personaggi affetti da disturbi psichici. Questo interes-se nasce principalmente dal fatto che i disturbi psichici pos-sono giustificare una serie di comportamenti devianti; ti-pico ne è l’utilizzo in molta letteratura thrilling, come con-dotte criminose ed istinti omicidi. Anche nel genere noirritroviamo spesso rappresentata la malattia mentalecome generatrice di comportamenti violenti. La devianzapsichica diviene in tali rappresentazioni costitutiva della de-vianza criminale, la malattia foriera del male.

La rappresentazione della malattiamentale nelle opere cinematografichedi Alfred HitchcockGiannini A.M., Cordellieri P.

Dipartimento di Psicologia, “Sapienza” Università di Roma

RiassuntoRiassunto - L’indagine ha riguardato un’attenta analisi del con-tenuto delle rappresentazioni cinematografiche di Alfred Hit-chcock. In particolare ci si è soffermati sulle narrazioni, spes-so reiterate, con le quali l’Autore ha rappresentato la malat-tia mentale. Quello che ci interessava era la ricostruzione del-le modalità narrative attraverso le quali il regista risolveva neisuoi racconti l’insorgere della malattia mentale, il suo mani-festarsi, e in alcuni casi la felice remissione. Numerosi sono stati gli esempi raccolti dalle trame dei suoifilm. In particolare si è constatato come i racconti si risolva-no con delle costanti narrative, che abbiamo voluto anche ri-costruire ed esemplificare con numerosi esempi. Tali invarianti,costitutivi delle fabule hitchcockiane, sono arricchiti, in ogniopera cinematografica, da aspetti specifici e contestuali. I ri-sultati vengono discussi anche in riferimento ad alcune rap-presentazioni culturali diffuse all’epoca, alle quali l’Autore hafatto ampio riferimento nel comporre le proprie opere.

Parole chiave: psicologia del cinema, malattia mentale, Hi-thcock.

SummaryAbstract - The research focused on a content analysis ofAlfred Hitchcock’s movies. In particular, we concentratedour attention on narratives, often repeated, where the au-thor represented the mental illness. Our aim was to recon-struct narrative modalities through which the director illu-strated, in his stories, the onset of mental illness, its mani-festation, and in some cases the successful remission. Nu-merous examples have been collected from the plots of hisfilms. In particular, we noted that stories are often illustratedand developed with constant scripts, that we described andshowed with plenty of examples. These invariant constituentof the fable Hitchcock, are enriched in all aspects of filmwork and context specific. Results are discussed also rela-ting to some cultural representations, wide spread in the hi-storical contest of the author, to which the author himselfhas made extensive reference in composing works.

Key words: psychology of the cinema, mental illness, hi-thcock movies.

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I Più avanti si vedrà come il disturbo psichico sia stato uti-lizzato da Hitchcock asservendolo completamente alle ne-cessità drammaturgiche del film. Questo anche a costo dinumerose semplificazioni e velature rispetto alla realtà cli-nica della malattia mentale. È lo stesso Autore a ricono-scere che nei suoi film la qualità documentaristica delleimmagini è subordinata alla capacità di essere racconto:“Certi registi filmano dei pezzi di vita, io filmo pezzi di tor-ta” (Truffaut, 1981; p.283). In realtà gli elementi ideo-nar-rativi più reiterati e manifesti delle sue opere, sono il risultatodi un utilizzo sapiente di significati e racconti culturalmentecondivisi. Modalità ricorrenti attraverso le quali la culturaamericana ed europea, in quegli anni, si rappresentava-no aspettative ed ansie intorno alla malattia mentale; con-vinzioni diffuse riguardo ad alcuni aspetti di funzionamentopsichico, e al tipo di pratiche di intervento e cura, come l’uti-lizzo della psicoanalisi. In particolare gli elementi narrati-vi invarianti, con i quali egli descriveva la psicologia dei suoipersonaggi, rappresentano, come meglio vedremo inseguito, un’interessante commistione di aspetti apparte-nenti alla grande tradizione cattolica anglosassone e le sug-gestioni provenienti dalla diffusione di massa della cultu-ra psicoanalitica. Sostanzialmente, le sue opere continuanoad essere un importante serbatoio di psicologia popola-re.

Metodo

Il nostro obiettivo era quello di verificare la possibilità dirintracciare strutture narrative invarianti nel modo di rap-presentare la malattia mentale. E indagare così anche sul-le forme prototipiche con cui veniva rappresentato il disagiopsichico da Alfred Hitchcock. Per raggiungere tale scoposono state visionate 20 tra le più significative opere del re-gista inglese (vedi filmografia). Per ogni opera si è ricostruitala struttura narrativa (soggetto del film), ovvero una sca-letta dove sono stati riportati in ordine gli eventi rappre-sentati. Nel caso di rappresentazioni inerenti alla malat-tia mentale sono stati anche ordinati all’interno di una gri-glia di lettura i comportamenti tipici dei personaggi affet-ti da disturbi mentali.

Discussione sulle principali osservazioni sviluppate

Un primo aspetto interessante che si può rintracciare nel-la rappresentazione del disagio psichico, è che questo nonè mai descritto come totalmente invalidante. I personag-gi dei suoi film, portatori di un disturbo psichico, sembra-no più impediti in alcuni comportamenti specifici o coar-tati in altri, senza mai coinvolgere aspetti più generali del-la personalità. Più spesso Hitchcock preferisce descrive-re casi di disagi circoscritti, come fobie specifiche, che di-vengono estremamente funzionali al racconto. È il caso diLa donna che visse due volte (1958), dove un poliziotto(James Stewart), nel tentativo di inseguire un criminale finsui tetti della città, rimane appeso ad una grondaia. Un col-lega, nel tentativo di salvarlo, cade nel vuoto e muore al-l’istante. La paura per essere rimasto sospeso in aria, edil sentimento di colpa per aver in qualche modo causatola morte del collega, lo costringono ad una grave fobia peril vuoto, che gli impedisce anche di salire pochi gradini. Ve-dremo più avanti come il trauma ed il sentimento di col-

pa, siano due temi narrativi molto cari ad Hitchcock. An-che nella rappresentazione di disturbi di maggiore gravi-tà, come in Psyco (1960), dove viene raccontata una gra-ve forma di schizofrenia, che porterà il giovane affittaca-mere (Antony Perkins) ad una serie di omicidi, la malat-tia si accompagna ad un’apparente lucidità, capace di in-gannare gli ospiti della pensione. È anche grazie all’al-ternanza tra condotte normali e devianti che Hitchcock co-struisce le tensioni narrative nei suoi film, attraverso unasapiente opera di mascheramento e svelamento. Fobie specifiche o disturbi di natura psicotica costringo-no alcuni personaggi ad una serie di comportamenti, de-terminando l’intrecciarsi degli eventi. Successivamente ilracconto si dipana o con la guarigione dalla malattia men-tale, come nei noti happy ending sentimentali di Io ti sal-verò (1945), o Marnie (1964); diversamente, se la malat-tia mentale ha generato condotte di particolare efferatezza,si giunge alla cattura dell’assassino da parte della polizia,come in Psyco (1960), o Frenzy (1971), con finali altret-tanto rassicuranti, visto che il “male”, anche se non estir-pato, una volta consegnato alla giustizia, viene messo incondizione di non nuocere più.

Composizione narrativa: il trauma e la colpa

Nei film di Hitchcock vi è un’attenzione particolare ai pro-blemi della sceneggiatura. Il conflitto inscenato riguardasempre un personaggio schiacciato da un peso morale.Molto spesso il peso morale che il personaggio albergain sé è proprio quello della colpa. Una colpa a volte “im-meritata”, come nei casi degli innocenti accusati ingiu-stamente dalla polizia, che soltanto nel finale riescono adimostrare la propria innocenza. Altre volte si tratta di unacolpa “meritata”, ovvero il comportamento colpevole è sta-to realmente messo in atto dal personaggio, intenzional-mente o meno. I concetti di colpa, peccato e confessioneci avvicinano alla grande tradizione cattolica, che molto pesoha avuto sulla formazione del giovane Hitchcock. Va ri-cordato che egli, di famiglia cattolica, trascorse la sua gio-vinezza nel Saint Ignatius College di Londra, un collegiotenuto dai Gesuiti. È lo stesso Hitchcock ad attribuire a quelperiodo la formazione delle proprie ossessioni angoscio-se: “Probabilmente è stato durante il periodo passato daiGesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato conforza dentro di me. Paura morale, come di essere asso-ciato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23). I per-sonaggi da lui raccontati sembrano ospitare una colpa mo-rale, quasi ontologica, data da un’iniziale condizionetraumatica, un peccato originale dal quale liberarsi. Nonè la malinconia o l’assunzione di aspetti depressivi il risultatodi tale condizione ospitata, ma l’incrinarsi di alcune fun-zioni psichiche, che costringono in alcuni casi a compie-re condotte criminali. Nei film dove viene rappresentata la malattia mentale, comeaccennato, il tema della colpa è arricchito dalle influenzedi un’altra grande tradizione culturale del Novecento: quel-la psicoanalitica. È doveroso precisare che probabilmen-te Hitchcock non ha conosciuto in profondità le lezioni diFreud e dei suoi epigoni, né attraverso una lettura ap-profondita, e né tanto meno con un personale percorso te-rapeutico. La sua conoscenza era probabilmente legataalla descrizione che ne faceva la cultura media america-na. L’industria hollywoodiana, in particolare tra gli anni ’50

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La rappresentazione della malattia mentale nelle opere cinematografiche di Alfred Hitchcock

e ’60, ha dedicato alla psicoanalisi numerosi lavori (Gab-bard & K. Gabbard, 1999) con rappresentazioni spesso en-tusiastiche, ricche di formulazioni stereotipizzate: come psi-coanalisti investiti di potere oracolare e salvifico. In Hitchcockritroviamo spesso questo slancio entusiastico. Ricordia-mo brevemente che la colpa all’interno della dottrina psi-coanalitica diviene senso di colpa, ovvero vissuto deter-minato dal conflitto tra istanze egoiche e super egoiche;le spinte pulsionali orientate verso la naturale realizzazionesessuale o aggressiva vengono censurate da condizio-namenti normativi interiorizzati, assunti principalmente at-traverso i processi educativi, che Freud aveva radunato sot-to il costrutto di Super Io. In Hitchcock. con una lettura ametà fra tradizione cattolica e psicoanalitica, il conflitto sor-ge da un’originaria condizione traumatica che costringenell’oblio dell’inconscio l’evento doloroso-peccaminoso. Ac-coglie con entusiasmo, e molta semplificazione, le inizia-li convinzioni di Freud riguardo il ruolo di un evento trau-matico nell’evoluzione eziopatogenica della malattia men-tale. Nella prima letteratura psicoanalitica1 il trauma vie-ne inteso come qualsiasi evento capace di dar vita ad unarappresentazione mentale incompatibile con le idee do-minanti dell’Io, che in seguito viene escluso dalla coscienza.Questo gruppo psichico esonerato dalla coscienza, por-ta con sé una carica d’affetto che non trova vie d’uscita,determinando così il formarsi del disturbo psichico. Tale as-sunto fu modificato profondamente dallo stesso Freud, enella psicoanalisi attuale riveste un ruolo indubbiamentemeno significativo2, ma questo non è stato sufficiente adimpedire che nella cultura di massa si diffondesse la con-vinzione di rintracciare in un unico evento originario la cau-sa dello sviluppo in senso patologico dell’attività menta-le. La facilità con cui il pensiero rincorre rigide ed univo-che spiegazioni di tipo causa ed effetto, hanno contribui-to indubbiamente ad accreditare tale convinzione. L’even-to traumatico diviene nella trasposizione cinematograficache ne fa Hitchcock, un elemento doloroso, spesso delit-tuoso, allontanato dalla memoria del personaggio, che, nu-trendo angosce di colpa persecutorie, ne determina unapsiche turbata.Un film dove è possibile rintracciare questo nodo narrati-vo è Io ti salverò (1945), tratto dal romanzo di Francio Bee-din. Almeno nelle intenzioni del regista il film doveva ispi-rarsi proprio alla psicoanalisi, ma che neanche l’interventodello sceneggiatore Ben Hecht, profondo conoscitore del-la psicoanalisi, riuscì a salvare. Sono infatti molte le sto-nature e le licenze rispetto alla realtà psicoanalitica, giàmesse in luce da altri Autori (S. Argentieri, A. Sapori, 1988).Nel film, in un manicomio chiamato Villa Verde si attendel’arrivo del dottor Edwardes (Gregory Peck), che dovrà pren-dere il posto dell’anziano dottor Murchison (Leo G. Carol).Intanto ci viene mostrata la dottoressa Costance (IngridBergman), brillante ma algida studiosa di psicoanalisi (Fig.1), che all’arrivo del dottor Edwardes, tradendo la sua na-tura, se ne innamora pazzamente. Fin qui l’antefatto. Suc-cessivamente, il dottor Edwardes comincia a dare segnievidenti del proprio squilibrio, fino a confessare a Costancedi non essere il vero dottor Edwardes, e, anche se afflit-to da una profonda amnesia, di ritenere di essere l’as-

sassino del dottor Edwardes. Attraverso una terapia psi-coanalitica, non propriamente ortodossa, riesce a fargli tor-nare alla memoria l’episodio accadutogli durante l’infan-zia che lo costringe alla malattia. Durante un gioco ha pro-curato incidentalmente la morte di suo fratello. Il risveglioalla memoria di quell’episodio lo convince che si sia trat-tato di una tragica fatalità, di cui egli non è colpevole. Li-bero finalmente dal senso di colpa che lo aveva afflitto finoad allora, la sua memoria si riaccende di ricordi. Il trauma pertanto, anche se rivelato solo alla fine, è la cau-sa di tutte le turbe psichiche del protagonista, dall’amne-sia, alla sostituzione d’identità, fino alla fobia per gli og-getti bianchi con righe nere che in qualche modo riattivanoil ricordo doloroso relegato in un angolino dell’inconscio.Curioso che gli oggetti fobici siano costituiti da superficibianche con righe nere, capaci di procurare dei turbamentidella coscienza. Solitamente nella realtà clinica l’oggettofobico ha un carattere meno definito, più legato a conte-sti o eventi, piuttosto che a singoli oggetti. Nel film, inve-ce, gli oggetti divengono fonte fobigena per la loro somi-glianza formale con alcuni elementi della scena luttuosavissuta nell’infanzia del falso dottor Edwardes. La super-ficie bianca ricorda la neve, mentre le righe nere evoca-no i solchi impressi dallo scivolare. Come se la rappre-sentazione angosciosa relegata nell’inconscio avesse na-tura primariamente visiva, e potesse essere evocata sem-plicemente dagli oggetti per “similarità percettiva”. Siamolontani da quei sintomi fobici elaborati attraverso una com-plessa procedura di costruzione e sostituzione simbolica.Nella pratica psicoanalitica si osserva spesso come la fon-te fobigena si leghi ad una rappresentazione interna delpaziente per mezzo di particolari strutture associative, chepossono coinvolgere oltre a elementi formali, anche par-ticolari direttrici linguistiche e di significato (Carli, 1987).L’intento di Hitchcock è anche quello di utilizzare gli oggettifobici come delle “metonimie”, ovvero in senso narrativo,delle piccole tracce che incuriosiscano lo spettatore, an-nunciandogli qualcosa che soltanto nel finale si sarebberivelato.Interessante è anche la soluzione narrativa adottata perrisolvere la patologia del personaggio interpretato da Pecke chiudere con un happy end. La dottoressa Costance loconvince a scendere con gli sci dalla montagna dove è sta-to ucciso il vero dottor Edwardes, ripercorrendo l’eventodelittuoso. Il risultato è quello sperato. Lo shock genera-to dal rivivere la condizione traumatica permette il rie-mergere della rappresentazione angosciosa. In questo casoci troviamo di fronte ad una vera e propria abreazione, conun brano della memoria, precedentemente relegato nel-l’inconscio, eruttato violentemente, che trova posto nellacoscienza. Fortunatamente, giunti in prossimità di un pre-cipizio, i ricordi riemergono nel falso dottor Edwardes, li-berandolo finalmente dei propri fantasmi del passato. Il pri-mo gesto che compie una volta libero è quello di frenarela corsa della Bergman con un abbraccio virile che la sal-va dal precipitare (Fig. 2). In sostanza la guarigione del pro-tagonista è ottenuta dalla possibilità di confessare le pro-prie colpe “immeritate”, attraverso due cose: l’amore ro-mantico e incondizionato della Bergman, ed il potere in-

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vestigativo della psicoanalisi, rappresentato come una pro-cedura di tipo magico-religiosa.Stesso procedimento narrativo nel rappresentare la ma-lattia mentale, fatto di trauma, colpa ed abreazione-con-fessione finale è reperibile in Marnie (1964): film tratto dalromanzo di Winston Grahan. Questa volta è una donna asoffrire di disturbi mentali. Marnie (Grace Kelly) è una la-dra che si fa assumere come segretaria contabile per poiscappare con dei soldi della società. Ogni volta è costrettaa cambiare identità camuffando il suo aspetto. Hichcockci dà delle indicazioni precise riguardo la cleptomania diMarnie. Dopo l’ennesimo furto ci fa vedere come ella im-pieghi i soldi nel tentativo di conquistare l’affetto della ma-dre, attraverso numerosi regali. Marnie nel frattempo hadato prova della propria psiche turbata anche da una for-te fobia per il colore rosso e da un incubo ricorrente chela perseguita. Mark Rutland (Sean Connery), marito di Mar-nie, attraverso delle letture psicoanalitiche si convince chela causa del disturbo di sua moglie risieda in un evento trau-matico del passato. Dopo una crisi violenta, Mark la tra-scina a Baltimora dalla madre per conoscere il segreto del-

la sua malattia. L’accoglienza della madre non è certo po-sitiva, ma da una sua violenta reazione Marnie ricorda tut-to attraverso una profonda abreazione. Siamo di nuovo difronte ad eventi attuali che per similarità riescono ad evo-care eventi passati. Quando aveva cinque anni, per di-fendere la madre – allora una prostituta – da un marina-io ubriaco, lo uccise a colpi di attizzatoio da caminetto. An-che qui, come in Io ti salverò, il riemergere dell’evento do-loroso e segreto permette la guarigione dalla malattia. Inquesto caso Hichcock rende l’abreazione non solo un pro-cesso privato del pensiero, attraverso la classica tecnicanarrativa del fuori sincro, ma un atto manifesto, forse ri-cercato per coinvolgere di più il pubblico e rendere più chia-ro il processo, facendo parlare Marnie con la voce da bam-bina, mentre è impegnata a rievocare i ricordi dolorosi (Fig.3).Nei film dove il trauma viene presentato come la causa di-retta della malattia, la sua rievocazione comporta semprel’estinzione della malattia, ma soprattutto la riabilitazionedel personaggio, finalmente libero dal peso morale dellacolpa, e di nuovo padrone di sé.Trauma e colpa, con un procedimento narrativo legger-mente diverso, li ritroviamo anche nel film Il ladro (1957).Opera, forse tra le più psicologiche di Hitchcock, intera-mente dedicata alla colpa. Nella storia, un musicista (Hen-ry Fonda) viene arrestato con l’accusa di essere il colpe-vole di una rapina. Inizia un lungo e doloroso processo connumerose circostanze che sembrano mostrare la sua col-pevolezza. Sua moglie (Vera Miles) per il dolore impazziscee finisce in manicomio. Alla fine, per fortunate circostan-ze il vero colpevole viene catturato ed il musicista tornain libertà.Qui ritroviamo uno dei temi narrativi più cari ad Hichcock,quello dell’innocente accusato ingiustamente. Spesso sol-levato dalle immeritate accuse da un brillante e tenace po-liziotto che indaga oltre le apparenze; o, come in questocaso, da un destino che in qualche modo riequilibra il giu-sto e l’ingiusto. È lo stesso Hichock a fornirci una spie-gazione sull’origine della sua ossessione, raccontando nel-la già citata intervista rilasciata a Truffaut un episodio ac-cadutogli all’età di tre o quattro anni, quando suo padre,uomo severo ed irritabile – così almeno ce lo descrive Hit-chcock – lo costrinse ad andare al commissariato di po-

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Fig. 1 - Da Io ti salverò (1940). La dottoressa Costance (I. Ber-gman) nel suo studio.

Fig. 3 - Da Marnie (1964). Marnie (G. Kelly) mentre rievoca il ri-cordo traumatico.

Fig. 2 - da Io ti salverò (1940). Il falso dott. Edwardes abbracciala dottoressa Costance (I. Bergman) dopo aver ricordato il pro-prio passato.

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lizia con una lettera. Una volta letta la lettera il commis-sario lo costrinse a restare per una decina di minuti in unacella, esaudendo il desiderio del padre che desiderava im-partire al piccolo Hitchcock un pena esemplare. Non menotraumatiche devono essere state le punizioni, spesso in-giuste, subite durante la sua permanenza all’istituto tenutodai gesuiti che lasciamo raccontare allo stesso Hichcock:“I Gesuiti adoperavano la sferza, e credo che la usino an-cora oggi. Era di gomma molto dura. Non la sommini-stravano così a caso; era una sentenza che eseguivano.Ti dicevano di passare da un prete alla fine della giorna-ta. Questo prete scriveva in modo solenne il tuo nome sulregistro insieme alle punizioni che dovevi subire e per tut-ta la giornata vivevi in questa attesa” (Truffaut, 1981; pag.24). Le spiegazioni che il regista stesso ci fornisce sem-brano fin troppo plausibili, e vicine al rapporto sequenzialetra trauma, colpa e malattia, rappresentato tante volte neisuoi film. Ne Il ladro non siamo di fronte ad un singolo evento trau-matico. La malattia ha un corso più progressivo, con unquadro sindromico per molti versi simile a quello della schi-zofrenia. Sempre più evidenti divengono il ritiro sociale, l’ap-piattimento affettivo con condizione di anedonia, e ricchecostruzioni deliranti. Soprattutto i suoi eloqui si arricchisconoa tratti di deliri paranoidei, dove interpreta le sfortunate coin-cidenze che sembrano incastrare suo marito come un pro-getto, attuato non si sa da chi, per distruggerli.Trascorsi due anni dal ritorno in libertà del marito scagionatodalla colpa, la donna esce dal manicomio sollevata dallasua malattia. La guarigione però è raccontata da Hitchcockda una semplice scritta in sovrimpressione, che chiude ilfilm in un doveroso lieto fine.

Dipendenza affettiva come generatrice di disturbi sessuali e condotte aggressive.

In alcuni film di Hitchcock la struttura narrativa legata aduna condizione di trauma e conseguente colpa si complica.Come per Psyco (1960), film tra i più amati dal regista in-glese. Nel racconto, una giovane donna, Marion Crane (Ja-net Leigh), fugge in auto dopo aver rubato quarantamiladollari al suo datore di lavoro. Costretta a fermarsi di not-te per la pioggia decide di riposare in un motel. Il giova-ne proprietario, Norman Bates ( Anthony Perkins), le pre-para qualcosa da mangiare. A questo punto il film ci re-gala delle indicazioni precise riguardo la personalità di Nor-man. È timido, impacciato, sessofobico, preferisce con-sumare la cena con Marion nel suo ufficio piuttosto chenella sua camera. Trova occasione di confessare a Marionche vive solo con sua madre, una donna che adora an-che se di carattere difficile. La condizione di dipendenzacostrittiva in cui vive il giovane Norman ci è raccontata di-rettamente dalle sue parole: “Sapete cosa penso, che ognu-no di noi è stretto nella propria trappola, avvinghiato, e nes-suno riesce mai a liberarsene; e mordiamo, e graffiamo,solo l’aria, solo il nostro vicino, e con tutti i nostri sforzi nonci spostiamo neanche di un millimetro”. Terminata la cena,Marion torna nella sua stanza con il desiderio di farsi unadoccia. Norman ne approfitta per spiarla da un buco nelmuro, mentre indossa la vestaglia. Comprendiamo che lesue inibizioni sessuali lo spingono a surrogare un com-portamento sessuale maturo con un appagamento voye-ristico.La sequenza successiva è una delle più famose nel-

la storia del cinema. Marion fa la doccia (Fig. 4), quandoimprovvisamente irrompe la vecchia madre di Norman ela uccide sferrando numerose coltellate. Hitchcock ha vo-luto profanare uno dei “tempi” moderni del piacere. Unospazio interamente dedicato alla nostra cura personale,in cui, in assoluta intimità, si addormentano le tensioni eci si ricarica: la doccia.

La scomparsa di Marion allarma sua sorella (Vera Miles)e il suo compagno (John Gavin), i quali investigando, ar-rivano nel motel dove è avvenuto l’omicidio. La scopertaè atroce. Norman era contemporaneamente se stesso ela madre defunta, dentro di sé ospitava entrambe le per-sonalità. Siamo di fronte ad un vero e proprio disturbo mul-tiplo di personalità.Alla fine del film lo psichiatra, dottor Richmond (Simon Oa-kland), con molta saccenteria, spiega alla polizia, e di con-seguenza a noi spettatori, l’eziologia della malattia. Nor-man viveva con la madre possessiva e dominante, che,soprattutto dopo la morte di suo marito, si è legata mol-tissimo a lui. Questo però non le ha impedito di avere unastoria con un uomo. Oltraggio che ovviamente Norman nonha potuto accettare. Di conseguenza ha avvelenato en-trambi gli amanti. A questo punto diviene chiaro il riferimentoa quel complesso psichico fondato sulla dipendenza af-fettiva, designata da Freud come complesso di Edipo. Con-tinua poi la sua ricostruzione sostenendo che la colpa peraver provocato la morte della madre lo ha costretto a pren-derne il posto. Ad indossarne gli abiti, la parrucca, e adimitarne la voce. Sia Marion che Abogart sono stati ucci-si da Norman, meglio sarebbe dire dalla madre ospitatain lui.Il tema dell’identità instabile è molto caro ad Hitchcock chespesso costruisce personaggi che in qualche modo la smar-riscono, la camuffano, se ne liberano, o a volte, come inquesto caso, si appropriano di un’altra. Il camuffamentodell’identità nasce solitamente come atto teso a nascon-dere verità profonde, aspetti segreti della propria perso-nalità. Come abbiamo visto in Marnie, con Grace Kelly co-stretta a cambiare il proprio aspetto e le proprie genera-lità, pur di poter realizzare le sue compulsioni. Diverso èil caso dell’appropriazione di un’identità, come atto di ne-

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Fig. 4 - Da Psyco (1960). Marion nella doccia.

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gazione dell’evento tragico. In Io ti salverò, abbiamo vistocome Peck si sostituisca al dottor Edwardes per negarnela morte. È un modo per escludere dalla coscienza unaporzione di realtà estremamente dolorosa e colpevolizzante.In Psyco però vi è qualcosa di diverso che probabilmen-te segna il degenerare in senso psicotico della malattia.Norman non assume semplicemente le sembianze dellamadre sostituendosi a lei, ma ne ospita dentro di sé le istan-ze più restrittive e castranti, mantenendo viva la propriaoriginaria personalità, attraverso una rigida scissione. Sirealizza pertanto dentro di lui un profondo conflitto tra quel-le che sono le sue genuine spinte libidiche e le barrierecensorie introiettate. Un conflitto raccontato da Hitchococksoprattutto dal gioco delle due diverse voci assunte da Nor-man, la sua personale e quella della madre, sempre in litetra di loro.In sostanza in Psyco, il regista inglese, introduce un ele-mento narrativo in più nella rappresentazione della malattiamentale. Non vi è soltanto il trauma dovuto all’omicidio ela colpa che ne è seguita, ma è soprattutto la dipenden-za affettiva dalla madre ad aver determinato l’evoluzionedella malattia in Norman. Ne ha in particolare impedito lamaturazione sessuale, l’evolvere della sessualità verso unapersonalità adulta. Il comportamento voyeuristico che gliabbiamo visto assumere all’arrivo di Marion e proprio laconseguenza di questo fallimento evolutivo. Sembra qua-si inevitabile che una bellezza così seducente come quel-la di Janet Leigh possa aver turbato una psicologia cosìfragile ed immatura, incapace di gestire un interesse ero-tico.La dipendenza affettiva in chiave psicoanalitica consistesoprattutto nella fissità delle rappresentazioni di sé e del-le proprie figure genitoriali; non si vuole ostinatamente rie-laborare alcuni oggetti interni perché vissuti come mi-naccianti o viceversa troppo gratificanti. In Psyco questaidea di voler mantenere immodificate alcune rappresen-tazioni interne è figurata dall’imbalsamazione. Norman,nella sua visione delirante, arriva ad imbalsamare il ca-davere di sua madre pur di mantenere in vita la sua im-magine. L’ostinazione di voler a tutti i costi conservare den-tro di sé un’immagine alla quale non si vuol rinunciare laritroviamo anche in La donna che visse due volte (1958),film già citato. Qui vi è una bella metafora della dipendenzaaffettiva. Nel racconto i turbamenti del poliziotto John Scot-tie (James Stewart), si legano alla sua ferma volontà dinon rinunciare ad un’immagine di donna, rappresentatadalla Novack. La sordità di Scottie ad altri richiami eroti-ci è dimostrata dalle insistenti avance della sua amica Mid-ge (Barbara Bel Geddes), di cui egli non tiene assoluta-mente conto. Non è un caso che la sua guarigione si ac-compagni alla scomparsa, per la seconda volta, della stes-sa immagine di donna. Come a voler significare la ne-cessità per Scottie di rinunciare a inseguire i propri fan-tasmi. La dipendenza affettiva come abbiamo visto in Psyco minafortemente la virilità dell’uomo e di conseguenza la sua sa-lute mentale. In Frenzy (1971), film ambientato a Londra,un maniaco sessuale (Barry Foster) strangola le donne conuna cravatta. Un uomo, di nome Bob Rusk (John Finch),viene ingiustamente incolpato e processato. Anche in que-sto caso un abile poliziotto riuscirà a ristabilire la verità.La dipendenza affettiva del maniaco omicida ci viene of-ferta da poche ma significative sequenze, sufficienti a sug-gerirci che la causa dei suoi atti violenti risiedano nel rap-

porto morboso con sua madre. A differenza di Norman, l’as-sassino di Frenzy non è afflitto da temi deliranti; appa-rentemente è persona sana e socialmente ben integrata,è addirittura a capo di una società che commercia frutta.Siamo lontani dagli effetti clamorosi rappresentati dai di-sturbi dissociativi di Psyco, anche perché il cinema neglianni ’70 ha smorzato l’interesse verso i clamori dell’in-conscio e dei turbamenti dell’attività psichica, ed anche Hit-chcock sembra concedere meno spazio alle suggestionipsicoanalitiche. Quando vediamo l’assassino impegnatonel suo primo omicidio, ci rendiamo conto di come sia per-sona arrogante con le donne, privo di freni inibitori (Fig.5). Non è un caso che l’omicidio avvenga con la cravat-ta, simbolo della virilità maschile. L’uomo sembra incapacedi arginare le proprie passioni. Una volta consumata la vio-lenza sessuale, appare come destarsi dal piacere e sca-ricare sulla donna la propria rabbia omicida, accusata qua-si di essere lei la causa dei propri turbamenti. Come in Psy-co la donna paga l’essere l’involontaria evocatrice di undesiderio schiacciante.

La morbosa dipendenza affettiva, sembra suggerirci Hit-chcock, può pregiudicare la nostra salute psichica, o at-traverso la creazione di condizioni costrittive, che inibisconoqualsiasi manifestazione di interesse sessuale, o viceversapuò renderci incapaci di contenere e procrastinare le ri-chieste pulsionali, servendo l’arroganza e la violenza. Inogni caso genera una profonda immaturità, che precludela possibilità di incontrare affettuosamente e in profondi-tà l’altra. Rispetto ai comportamenti devianti innescati da una con-dizione traumatica, la dipendenza affettiva genera solita-mente una maggiore efferatezza nelle condotte crimina-li, e non vi è occasione di riabilitazione. Il personaggio èsegnato da una colpa inalienabile.

Conclusioni

Ricostruendo i temi narrativi ricorrenti, utilizzati da AlfredHitchcock nel rappresentare la malattia mentale, ne ab-

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Fig. 5 - Da Frenzy (1978). L’assassino uccide la sua vittima conla cravatta dopo averla violentata.

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biamo esemplificato gli script impiegati in una riassunti-va rappresentazione schematica (Fig. 6).Abbiamo in particolare verificato come i personaggi pro-tagonisti si muovano ospitando in sé un peso morale, unacolpa. Determinato in particolare da una condizione trau-matica accorsa incidentalmente, dimenticata, e posta nel-l’oblio. Il percorso della narrazione assume significato so-prattutto nel tentativo tortuoso di liberare il personaggio datale condizione opprimente. Questo si può realizzare at-traverso la presa di coscienza, una restituzione alla con-sapevolezza dell’evento drammatico. Alla fine si arriva adun ricordo che violentemente torna alla mente, attraver-so spettacolari forme di abreazioni, che permettono unaricostruzione retroattiva capace di ricomporre l’unità psi-chica. Restituita coerenza interna e messe a tacere que-ste tracce inconsce, anche la malattia scompare. Comemostrato, si tratta sostanzialmente di rappresentazioni sem-plificate e spettacolari di modelli di funzionamento men-tale provenienti dalla diffusione culturale della psicoana-lisi. In particolare, negli anni dal ’40 al ’60, vi era un con-senso condiviso, ed un po’ facilone, da parte dell’industria

cinematografica, verso la pratica psicoanalitica. Attraevanole bizzarrie della mente, il potere attribuito alle elaborazioniinconsce, le funzioni oracolari riconosciute spesso agli psi-coanalisti. In Hitchcock tutto assume un carattere particolare. Abbiamodocumentato come queste suggestioni diffuse si sovrap-pongono alla sua rigida formazione cattolica, ed ecco com-parire affascinanti forme di commistioni narrative dove lacondizione traumatica diviene colpa, peccato, le forme diabreazione, confessione ed espiazione, e la guarigione re-missione dalla colpa.Altro tema rintracciato caro ad Hitchcock è quello della di-pendenza affettiva, vista come condizione castrante ed in-validante. Il personaggio affetto da legami affiliativi mor-bosi è impedito nella maturazione sessuale, e costretto allachiusura della relazione. In alcuni casi, dove le forze co-strittive sono particolarmente opprimenti, si può giunge-re a comportamenti criminali attuati nel tentativo di met-tere a tacere conflitti interni (cfr. Psyco, 1960). Esempiodi madre ingombrante e possessiva, solo accennato, lo ri-troviamo riproposto anche in Frenzy (1971), dove la vio-

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Fig. 6 - Illustrazione degli script utilizzati da Hitchcock nel rappresentare la malattia mentale.

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lenza sessuale si manifesta come mancanza di inibizio-ni e desiderio di porsi sempre in una condizione di pote-re-controllo. Anche il rimanere legati ad un’immagine di don-na che non si vuole abbandonare, può essere il segno evi-dente di una fissazione affettiva (cfr. La donna che vissedue volte, 1958).I film del regista inglese sono stati particolarmente ama-ti dal grande pubblico, e continuano ancora oggi ad esserevisti e ricercati, dimostrando un interesse non ancora so-pito. Segno evidente che le costruzioni narrative, compresequelle riguardanti la malattia mentale, continuano ad ap-parire verosimili, ancora vicine a significati culturalmentecondivisi e negoziati. Il cinema è spesso calderone dovefiniscono per animarsi aspettative, convinzioni, desideri epiù generali rappresentazioni sociali. Soprattutto se il re-gista è Sir Alfred Hitchcock, uno degli autori più rappre-sentativi ed amati nella storia del cinema.

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RECENSIONE DEL LIBRO “UN BAMBINO MALEDUCATO: IL BAMBINO DISATTENTO CHIEDE LA NOSTRA ATTENZIONE” (M.B.Toro,T.Cantelmi,M.R.Parsi; Edizioni Salani,2007)di Michela Pensavalli

I DDAI (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività) oADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) sono

acronimi da poco entrati nel linguaggio comune per de-scrivere un problema piuttosto diffuso, che riguarda siai bambini che gli adulti. Questa sindrome, per definizione, è un disturbo del com-portamento caratterizzato da inattenzione, impulsività eiperattività motoria che rende difficoltoso (e in taluni casi impedisce) il normale sviluppo e l’integrazio-ne sociale dei bambini. Dalla fine degli anni ’70, la ricerca scientifica sui disturbidel comportamento ha iniziato a spiegare agli insegnan-ti delle scuole che alcuni fra i loro alunni “caratteriali” ave-vano forse qualcosa di diverso da un’indefinita alterazio-ne del temperamento. Quei bambini che proprio non riu-scivano a rispettare le regole e a stare attenti durante lalezione soffrivano probabilmente di un disturbo specificocon manifestazioni caratteristiche piuttosto ben definite.Ad oggi ancora ci si domanda se sia possibile individuaresenza errore la presenza del Disturbo da Deficit di At-tenzione/Iperattività: questo perché non esistono per i bam-bini iperattivi e disattenti test di laboratorio, né valutazio-ni neurologiche, né analisi del sangue, radiografie, elet-troencefalogrammi e simili, che abbiano ciò che viene det-to “valore diagnostico”. È molto facile confondere un bam-bino che soffra per questa sindrome con un bambino vi-vace e un po’ impulsivo, “allergico alle regole” perché cre-sciuto in una famiglia problematica e conflittuale. Ciò ha perfino fatto ipotizzare ad alcuni che si tratti di unasindrome inventata: la nostra attenzione può vagare, cidistraiamo, possiamo avere difficoltà a portare a termine

un impegno, ma non per questo siamo in diritto di chia-mare in ballo il concetto di malattia. Secondo gli Autori, non tutte le situazioni sono uguali edesistono bambini “normalmente difficili”, come pure,bambini che presentano un problema vero e proprio didisattenzione e iperattività. Trattare disturbi che non crea-no problemi significativi può rivelarsi una scelta sbaglia-ta, deleteria quanto trovare disturbi dove non ci sono. Allimite, qualora si volesse comunque intervenire, si potrannosempre attivare sostegni sociali e psicoterapeutici che,pur non intaccando quasi per nulla i sintomi dell’ADHD,daranno al ragazzo e ai suoi familiari quegli strumenti in-terpretativi e correttivi che gli permetteranno di affronta-re la vita con speranza e serenità. Toro,Cantelmi e Par-si, propongono, nel libro delle linee guida che seguonol’idea di Barkley, che il disturbo abbia sì importanti cau-se biologiche e genetiche, ma la sua gravità e il suo svi-luppo nel tempo dipendano dalla qualità delle relazioniumane e delle situazioni di apprendimento in cui il bam-bino si viene a trovare. L’apporto che il testo fornisce riguarda prevalentemen-te la conoscenza dei metodi di intervento che vedono l’in-terrelazione tra approcci di tipo psicoterapeutico indivi-duale o familiare, di coppia (tra cui il più importante è ilparent training), farmacologico unito al sostegno appli-cato all’ambito scolastico. Ci viene fornita un’occasioneper riflettere, che ci aiuti ad entrare nel vissuto del bam-bino DDA e nel suo mondo, offrendoci una chiave di let-tura e di interpretazione per conoscerlo e capirlo meglio.Il libro è uno stimolo a fare, del dubbio su questa sindrome,uno strumento di messa in discussione; nella lettura vi èl’opportunità di allenare la propria capacità di osserva-zione, la sensibilità alla comprensione e all’accoglienzadella richiesta di empatia ed attenzione verso questi bam-bini che nient’altro chiedono se non comprensione e ca-pacità di collaborazione tra le parti (famiglia, scuola, edu-catori e figure parentali tutte) che di loro si occupano.

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Libri e psiche

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Cinema e Psiche (Modelli per la Mente – Ed. CIC)Pasquale Laselva

Con un incasso di oltre centonovanta milioni di dollari,a fronte di un budget di circa quindicimila dollari, erachiaro che la Paramount avrebbe intrapreso la stradadel sequel. Paranormal Activity 2 (regia di Tod Williams), film horrorgirato in stile “falso documentario”, è costruito anch’es-so in maniera semplice ma efficace, giocato sul filo del-la tensione, tanto da procurare brividi di terrore nono-stante non si vedano scene di violenza o esseri mo-struosi. Paranormal Activity 2 ci mostra gli eventi accaduti al-cuni mesi prima della morte di Micah (avvenuta in Pa-ranormal Activity), introducendo il personaggio di Kristi(la sorella di Katie) e la sua famiglia. A seguito di dannialla casa, considerati inizialmente come opera di alcu-ni vandali, viene installato un sistema di sorveglianza e,tramite le registrazioni, i protagonisti scoprono di esse-re perseguitati da una presenza paranormale, ossia undemone che vuole il piccolo Hunter (figlio di Kristi) co-me tributo a seguito di un patto stretto con la zia di Ka-tie e Kristi.Da sempre i film horror dividono il pubblico, da una par-te coloro che collezionano tutti i dvd più terrificanti del-la storia del cinema di paura e dall’altra quelli che nestanno alla larga perché facilmente suggestionabili op-pure hanno altro a cui pensare.Quello che è certo è che quando siamo coinvolti emoti-vamente il nostro cervello non distingue più la finzionedalla realtà e inizia ad attivare tutte le reazioni alla pau-ra. Chi li va a guardare spesso lo fa con un atteggiamentodi sfida: “sarò in grado di reggere la visione di questofilm?… Sarò in grado di dominare la paura?”.Ad accogliere questa sfida sono soprattutto gli adole-

scenti, del resto le azzeccate strategie di marketingpubblicitario non fanno altro che aumentare la loro cu-riosità e morbosità verso questo genere di film. Uno studio condotto da B. Cohen e B. Andrade del-l’Università della California (2007) dichiara che la paurapercepita durante la visione di un film horror viene vis-suta, da alcuni soggetti, come uno stato d’animo di ten-sione positiva, che li fa sentire vivi e gioire delle propriereazioni. Se nella mente si crea una sorta di spazio nonreale, che distingue ciò che è vero da quello che non loè, questo è sufficiente a creare il distacco necessarioper godere di sensazioni di paura in tutta tranquillità. Inpoche parole, la psiche è consapevole che è una fin-zione o che non c’è alcun pericolo serio e si diverte per-tanto ad immedesimarsi e a farsi beffa della paura stes-sa, traendone emozioni positive. La stessa spiegazione è valida, secondo gli studiosi,per l’eccitazione che si prova per gli sport estremi o peraltre situazioni di rischio in cui il terrore e la paura nonfanno che amplificare stati d’animo positivi facendoprovare una certa euforia.La società contemporanea, d’altronde, tende a valoriz-zare tutte le forme di ricerca del rischio e del pericolo.Queste sono le manifestazioni della moderna “culturadella sopravvivenza”; comportamenti che hanno in co-mune l’assunzione di un rischio, la volontà di “osare”, ildesiderio di spostare sempre un po’ più in là i propri li-miti.Ciò che caratterizza questa tendenza potrebbe esserelegata anche all’ammirazione altrui, di una conferma al-la propria bravura e al proprio coraggio, che appaionocosì fondamentali per poter esistere oggi. Percepire la paura per sentire di esistere, dunque, persentire di esserci nel mondo.Tornando al nostro Paranormal Activity 2: certo, la novi-tà se n’è andata, ma questo era inevitabile, dunque si-tuazioni in parte già viste ma che giocano sapiente-mente sulle attese creando un naturale senso di paura.Gli effetti speciali sono minimali, ma efficaci.

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Cinema e psiche

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L’anniversario della scomparsa di Alda Merini Martina Aiello

“Di solito parlo delle cose che ho vissuto sulla mia pelle. Qualsiasi cosa mi è andata bene, una volta l’amore, una vol-ta il manicomio…Il poeta crea di notte, quando tutto tace e annaspando nell’angoscia trova qualcosa di chiaro. Il poeta non è mai solo, è sempre accompagnato dalla me-raviglia del suo pensiero”

(Alda Merini)

In questi giorni a Milano si commemora, con tre spetta-coli teatrali e due mostre di libri, l’anniversario della scom-parsa di Alda Merini avvenuta il 1 Novembre 2009. Un anno fa moriva la grande poetessa dei navigli che ama-va definirsi “una piccola ape furibonda”, lasciando un cor-pus poetico quanto mai vasto e l’impronta di una perso-nalità complessa ed affascinante.Alda Merini era nata a Milano il 21 Marzo 1931, una datasignificativa, il primo giorno di primavera che la ispirò nel-lo scrivere: “Sono nata il ventuno a primavera ma non sa-pevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenartempesta”.La poesia della Merini, sin dai primi scritti, si caratteriz-za per un forte tratto malinconico ed il tessuto narrativomostra elementi tipici della letteratura novecentesca, come“il male di vivere”, ma anche tratti prettamente persona-li, quali l’inconoscibilità della vita ed il mistero della suastessa persona, arricchiti da una marcata vena contem-plativa.Esordisce giovanissima ad appena 15 anni, grazie a Gia-cinto Spagnoletti che ne individuò da subito il talento poe-tico. Nel corso della sua vita conoscerà altri grandissimi let-terati del calibro di Salvatore Quasimodo, con cui lavo-rerà per un breve periodo e Giorgio Manganelli, al qua-le resterà legata sentimentalmente per qualche anno. La vita intensa e tribolata di Alda Merini conobbe, oltrealla guerra e alla miseria, la malattia mentale e la scon-volgente ed indelebile esperienza del manicomio. Infatti quando si parla di lei, si parla anche della follia: unaferita sempre aperta che ha inghiottito la scrittrice per anni

consumati in ospedali psichiatrici, ma che ha prodotto tan-tissimi testi oggi considerati autentici capolavori.L’esperienza del manicomio è stata centrale non solo nel-la sua esistenza ma anche nell’opera della Merlini la qua-le, dopo essere stata restituita al mondo, ha intrapreso unariflessione sulla vita all’interno dell’istituto che ha prodottoliriche e prose di grande intensità.La poetessa rientrò tra i “vivi” agli inizi degli anni Ottan-ta, dopo aver soggiornato per quasi un decennio nellestrutture psichiatriche. Nel 1984 venne dato alle stampe“La terra santa”, opera che racconta la sua drammaticaesperienza. Leggere le opere di Alda Merini significa entrare nella cru-dezza della sofferenza umana attraverso tristi memorie difughe dal niente per non restare imbrigliati nel vuoto.Tuttavia, i dolori cupi e le tristezze lasciano germogliareuna voglia di vivere, una ricerca del bello e della ricchezzaanche quando si fa fatica a contrastare l’incedere delleavversità.Due anni dopo fu la volta di “L’altra verità. Diario di unadiversa”, una sorta di autobiografia lucidissima, sfronta-ta e liberatoria, in cui nella prima pagina scrive “Del re-sto ero poeta”, ad evidenziare, anzitutto, la sua più verae peculiare condizione. Il suo essere poeta era primario rispetto all’essere rinchiusain manicomio e, grazie ad esso, riesce a sopravvivere atale esperienza di emarginazione, come si evince dal suopensiero: “Il mio animo era rimasto semplice, pulito, sem-pre in attesa che qualche cosa di bello si configurasseal mio orizzonte”.Ed effettivamente, attraverso l’apertura alla vita, la poe-tessa ha vissuto intensamente la propria esistenza com-binando in maniera creativa ed affascinante forti contra-sti quali gioie e dolori, luci ed ombre, fragilità e forza, vi-talità ed inerzia che le hanno permesso di scandagliaregli aspetti più reconditi dello stato umano e dell’esisten-za stessa. Lei stessa, interprete di un’esistenza contraddistinta dadolori e passioni, ci ha lasciato un messaggio rassicurante,parlando di sé disse: “Io la vita l’ho goduta tutta, a dispettodi quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’hogoduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vitaè spesso un inferno… per me la vita è stata bella perchél’ho pagata cara”.

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Arte e psiche

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Digital Identity Assessment (DIA)Maria Beatrice Toro

La DIA ovvero la “Digital Identity Assessment” (Valutazionedell’Identità in ambiente Digitale) è una nuova branca del-la cyber psicologia, proposta da Cantelmi, Toro, Talli nellibro Avatar (Magi 2010), volta ad indagare e delineare lareale identità dell’internauta partendo dall’analisi dei soli“indizi digitali”. Si tratta, in breve, di compiere inferenze re-lativamente attendibili sulla personalità dell’internauta

mediante l’esame delle seguenti categorie dimensionali:- Dimensione estetica. L’avatar e il nickname rappre-

sentano una sorta di “biglietto da visita” dell’utente, ingrado di fornire importanti informazioni personali, comeil sesso o l’età.

- Dimensione situazionale. Anche il contesto spazio-tem-porale nel quale avviene la comunicazione può forni-re molti dati personali e un’idea sul grado di attendibilitàdell’indagine che stiamo effettuando.

- Dimensione relazionale. La modalità e il contenuto del-

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Web e psiche

Avatar di seduzione (Fig.1) - Avatar di potenza (Fig. 2) - Avatar idiosincrasici (Fig.3) - Avatar di facce reali (Fig.4) - Avatar demoniaci(fig.5) - Avatar di celebrità (Fig.6) - Avatar di cartoni animati. (Fig.7) - Avatar di animali (Fig.8) - Avatar scioccanti (Fig.9) - Avatar astrat-ti (Fig.10).

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la comunicazione rappresentano senza dubbio la fon-te informativa più importante. Dal loro esame derivanoimportanti informazioni relative alla psicologia e/o allapsicopatologia dell’utente.

Nella presente rubrica, mi soffermerò, per esigenze di spa-zio, sulla prima dimensione, estetica, presentando una se-rie di categorie di avatar e le loro corrispondenze psico-logiche.Questi avatar rivelano diverse tendenze della personali-tà: dalla voglia di scioccare propria delle persone più istrio-niche, alla fragilità mascherata da potenza che qualificai narcisisti. Gli avatar, poi, possono evidenziare anche lapossibile patologia del navigatore. In altre parole, gli in-ternauti nevrotici o psicotici possono dare vita ad avatar‘disturbati’. Cloni malati riconoscibili da segnali precisi.In linea teorica, un avatar femminile è pericoloso quan-do è eccessivamente seduttivo e disponibile, immotiva-tamente disinibito e manipolatorio. La sua versione al ma-

schile è un personaggio che fa riferimento a gesta epi-che ed eroiche, si definisce senza macchia e senza pau-ra e si attribuisce qualità assolutamente all’apice, senzamanifestare mai alcuna contraddizione o difficoltà. “Il pa-tologico si riconosce anche dai colori che usa per il pro-prio avatar, come quelli violenti o a forte contrasto,come il viola per il mondo maschile e il blu elettrico perquello femminile. Nuance che identificano l’ipereccitabilitàinteriore” (Giannantonio, 2007).Anche nella tipologia di nickname possiamo individuarealcune classi a cui probabilisticamente corrispondono spe-cifici profili anagrafo-psicologici:In possesso di queste informazioni, si incomincia un per-corso di identificazione dell’autore, a partire dal suo ava-tar, attrezzandoci così a un nuovo tipo di assessment cheriteniamo sarà irrinunciabile - data la tecno-mediazionedell’identità alla quale la società “liquido-moderna” ci staormai abbondantemente abituando.

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Web e psiche

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