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Anno IX - N° 3, maggio/giugno 2014 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com Anno IX - N° 3, maggio/giugno 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno IX - N° 3, maggio/giugno 2014

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

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Extra moeniaI PREDONI DELLA TERRAdi Rino DUMA 4

Personaggi del RisorgimentoLIBORIO ROMANOdi Maurizio Nocera 8

Epistolario cittadinoLETTERE DI CESIRA POZZOLINI...di Rosamaria DELL’ERBA 10

Premi e riconoscimentiPREMIO “CITTÀ DI GALATINA”di Salvatore CESARI 14

Pittori galatinesiGAETANO MINAFRAdi Raffaele Gemma 17

Terra nosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Artisti salentiniRAFFAELE DEL SAVIOdi Giuseppe MAGNOLO 22

Correva l’anno...EMANUELE PERRONEdi Giuseppe ALBAHARI 26

Freschi di stampaa cura della Redazione 29

Viaggio in Terra d’OtrantoSANTA MARIA DELL’ALTOdi Mauro DE SICA 30

Su e giù per il SalentoOTRANTO - NELLA VALLE DELLE MEMORIEdi Massimo NEGRO 32

Il Salento dei non salentiniIL SALENTO DI RENATO GRILLIdi Paolo VINCENTI 34

Sul filo della memoriaMESCIU CICIdi Pippi ONESIMO 37

SOMMARIO

Non fu il libro muto,ma la coperta militaredel partigiano ritornatoa dirci per primadell’agnello immolato,del piombo e del gelo,di miserecarnidolenti,di roghie di rastrellamenti,di un popolo alla macchiache cercava libertà.Un soldod’elemosinata memoriasquarciavadi tanto in tantol’orrida nottedel lupo alsaziano.Colavano i ricordicome stille di sangue.Ed a quel sanguenoi ci abbeverammo,per non dimenticare.

Franco Melissano

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

COME STILLE DI SANGUE

COPERTINA: Serena D’Amato, ballerina di pìzzica - Foto tratta da “internet”

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Inizio questo scritto utilizzando uno dei più famosi slo-gan che l’uomo abbia mai concepito. Mi riferisco a Pri-mo Levi e al suo “Se questo è un uomo”, che ritengo

sia un pensiero straordinario dello scrittore piemontese neldescrivere il dramma dell’olocausto nei campi di concen-tramento nazisti.

Oggi l’umanità si trova a vivere in condizioni quasi simi-li nelle città-lager sparse in tutto il mondo, dove impera ildisordine, la convulsione, l’arbitrio, il ricatto, la violenza,la sopraffazione, la corru-zione, dove si vive in unaimmensa camera a gas acielo aperto, con enfisemipolmonari a garanzia illi-mitata, dove, a pioggia,viene regalato il cancro,come premio-fedeltà.

Sotto queste inquietan-te “forche caudine” devo-no soggiacere perma-nentemente i cittadini,nonostante che le cartecostituzionali dei vari Sta-ti si ispirino ai miglioriprincipi democratici e allenorme di salvaguardiadella salute umana e dell’ambiente.

Prendo in prestito il pensiero di Levi e lo trasferisco pa-ri pari ai giorni d’oggi, accostandolo ad una certa parte del-l’imprenditoria, esattamente a quella del malaffare edell’immoralità, ai “briganti dai colletti bianchi”, che im-perversano nei mercati economici e finanziari, stravolgen-doli e asservendoli alle spietate leggi del “profitto”.

L’iperliberismo economicoÈ noto a tutti che le sorti attuali dell’umanità sono nelle ma-

ni di pochi gruppi imprenditoriali, che tessono, disfanno e in-trecciano a loro piacimento la tela della vita dell’intero pianeta.

Pur essendo pochi, si fanno sentire e fanno male, moltomale. Sono più cinici e brutali dei signorotti medievali chein Europa, e soprattutto in Italia, si davano battaglia persottomettere i loro avversari, annetterne le proprietà, al-largare i confini del proprio feudo e lanciare contro altrifeudatari chiari segnali di belligeranza.

Sono appena quattrocento le “famiglie-alfa” che impe-rano nel mondo e lottano, contro chiunque e senza esclu-

sione di colpi, per accaparrarsi l’egemonia del mercato incui operano e trarne ricchezze, prestigio, potere, coman-do. Sono amministrate da uomini senza scrupoli e senzacuore, che vivono unicamente per arricchirsi a dismisura,per sentirsi “primi tra i potenti”, per essere osannati, vene-rati e temuti come un Dio. Di simili personaggi ci sonomolti in giro, anche in Italia, ma di umano hanno soltantol’aspetto fisico. Per arrivare a tanto, essi si servono di gen-te corrotta, senza alcuna dignità, disposta a tutto, finanche

a compiere azioni delit-tuose, pur di ricevere incambio una vita comodae consistenti vantaggi. So-no i valvassini e valvassoridel neo-principe, sono iprofittatori, i faccendieri, iparassiti, i mercenari d’ognispecie che, attratti da lucro-si guadagni, si lasciano an-dare ad ogni nefandezza ebanchettano senza mai sa-ziarsi. Il gioco, d’altra parte,vale la candela.

Il ventaglio di costoro èampio. Si trovano in ogniambiente: tra i tanti diri-

genti sparsi nelle pubbliche amministrazioni e istituzioni,tra i politici nazionali, locali ed anche internazionali, tra ifunzionari delle grandi banche e degli istituti finanziari eassicurativi, tra i vertici dei vari partiti, sino a trovarli - seoccorre - tra i “padrini” delle cosche mafiose, dei qualihanno lo stesso DNA e con i quali stringono ferree ed in-dissolubili alleanze.

Le multinazionaliSpesso le “famiglie” si aggregano tra di loro per forma-

re una solida e inossidabile “casta”, un “cartello”, un “po-ol” multinazionale per operare con maggiore sicurezza espeditezza su tutto il pianeta, all’insegna de “l’unione fa laforza”. Pertanto, si sono venuti a creare veri e propri “bu-chi neri” dell’industria e della finanza, che stanno manipo-lando e divorando ogni cosa, anche gli stessi governinazionali, che ormai si limitano a curare esclusivamentegli interessi delle grandi “famiglie” e a loro sono sottomes-si. Si dia uno sguardo all’Europa, si analizzi con molta at-tenzione l’andamento della politica economica e ci si

4 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

EXTRA MOENIA

Lo scenario al quale non vorremmo mai assistere

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renderà conto che gran parte della sovranità delle singolenazioni è stata abdicata in favore di tali “mostruose aggre-gazioni”. E non c’è Dio che muova foglia, se non c’è la lo-ro preventiva autorizzazione.

Sono vortici impetuosi e impietosi ai quali non sfuggenulla. Il mitico gorgo Cariddi, tanto temuto dai navigantiche un tempo s’apprestavano a doppiare lo stretto di Mes-sina, sarebbe, a loro confronto, il piccolo vortice che si creageneralmente nell’imbuto, quando il liquido defluisce nelsottostante recipiente.

Di fronte a simili strutture ben organizzate ed efficienti,la base cittadina non sa far nulla e non può far nulla: devesoltanto accettare, obbedire e subire supinamente il diktatche viene dall’alto, dai Padroni della Terra, anzi no, daiPredoni della Terra.

Negli ultimi cinquant’anni, il sistema economico mon-diale ha assunto una struttura economica a forma di pira-mide, sulla quale si agitano freneticamente i grandi gruppimultinazionali. Essi lottano in continuazione con ognimezzo per mantenere quanto meno la supremazia o sfer-rare un attacco per guadagnare qualche posizione verso lavetta, là dove ci sisente “Signori delMondo”. Sono guer-re dure, spietate, im-placabili, fratricide,condotte con qualsia-si arma. Chi arretradi un solo passo, chinon sta ai patti, chinon corrompe, chi harimorsi, chi tentenna,è fatto fuori inesora-bilmente. Ma, al tem-po stesso, chi nons’innova, chi non ottiene confortanti risultati dalla ricerca,chi non investe in nuovi modelli, è destinato a scompariree a cedere lo spazio vitale a coloro che hanno avuto “bril-lanti idee” ed “efficaci sistemi innovativi” di produzione.Almeno quest’ultimo aspetto è pienamente positivo, per-ché fa da molla per migliorarsi in continuazione.

In questi modi e con questi mezzi si conquista il merca-to globale, la ricchezza… la gloria.

La libera concorrenza Da universitario, ricordo di aver studiato che l’economia

di mercato da sempre si è data un codice etico di compor-tamento, che ogni imprenditore è tenuto ad osservare. Inpratica, si chiede alle imprese di confrontarsi con quel sen-so di “umanità”, che deve contraddistinguere ogni ambi-to e ogni momento della competizione. Era il pensiero deigrandi economisti dei primi del ‘900, dei quali ricordol’italiano Federico Caffè e l’inglese John Maynard Keynes.

“La competizione è socialmente fruttifera…” – asserivanoquesti economisti – “…solo quando è ben condotta, cioè quan-do si rispettano i criteri e le regole che sottendono ad una corret-ta economia, che deve essere “guidata” dai governi centrali,qualora i mercati scantonino e fuoriescano dal seminato”.

Questi erano i principali cardini sui quali si muovevanole economie nella prima parte del secolo scorso.

Chi non ricorderà le grandi imprese di tanti validi im-prenditori degli anni ’50, dei quali mi è doveroso ricorda-re il grande Adriano Olivetti (proprietario della Olivetti), di

Enrico Mattei (presidente dell’Eni), di Giovanni Borghi (pro-prietario della Ignis), che si prodigarono con ogni energiaper dare un volto umano all’economia?

I loro esempi, però, sono andati via via svanendo, per la-sciare il posto ad imprenditori-avventurieri, che puntanosolo a facili ed immediati guadagni, rischiando poco.

Tutto è dipeso dal graduale cedimento delle istituzionipolitiche alle continue pressioni esercitate da imprendito-ri spregiudicati, truffaldini, poco seri e, il più delle volte,collusi con il mondo malavitoso. Via via, il turpe e loscoandazzo ha determinato uno stravolgimento di tutte le re-gole politiche ed economiche. La situazione attuale, soprat-tutto in Italia, la conosciamo bene. D’altra parte, i recentifatti dell’Expo di Milano, della Carige di Genova, dell’UBI-Banca e dello scandalo Mose si commentano da soli.

Nell’economia attuale, purtroppo, non vi è più alcunatraccia di etica, di rispetto e di deontologia imprenditoria-le. Non c’è più spazio per l’imprenditore pater familias d’untempo, dell’imprenditore (Olivetti) che era sempre vicinoai suoi operai e seguiva in silenzio l’andamento delle lorofamiglie, dell’imprenditore (Borghi) che anticipava le mos-

se dei sindacati, con-cedendo agli operail’aumento salariale inanticipo, dell’im-prenditore (Mattei)che si prodigava, aldi là dei propri inte-ressi, per quelli dellanazione.

Oggi, valgono benaltri principi; oggi vi-ge la regola del piùfurbo, del più forte,del più disumano. In-

trighi a qualsiasi livello, politiche inter- nazionali e nazio-nali tese ad avvantaggiare alcuni Stati a danno di altri oalcuni gruppi aziendali piuttosto che altri, spionaggi e con-trospionaggi industriali, sfruttamento abnorme delle risor-se naturali, induzione di grandi masse a consumaredeterminati prodotti invece di altri, istigazione delle gran-di potenze nei confronti di alcuni popoli per indurli allaribellione e conquistare i loro mercati o sfruttare le risorsenaturali di quei luoghi, hanno caratterizzato in negativo lapolitica economica internazionale, indirizzandola a per-correre strade molto pericolose.

Sta di fatto che la qualità stessa della vita ha accusato ungraduale peggioramento. L’aumento della disoccupazio-ne, della povertà e del graduale aggravamento delle con-dizioni generali di vita stanno ad attestare l’arretramentosociale delle varie genti.

Tutto è regolato dalla “spirale economica” che si muovesecondo come è stata programmata dall’alto. È una catenache si riavvolge in continuazione e deve produrre “profit-to”, costi quel che costi. “Produzione-vendita-consumo”sino all’infinito e con un’accelerazione continua. Questo èil motto delle “famiglie”. È un congegno che non deve maiarrestarsi, perché il loro appetito non conosce fine, anzitende ad essere sempre più aggressivo e vorace.

La devastazione della naturaDa qui la formazione dei “buchi neri dell’economia”, di

cui si accennava in precedenza, che spolpano, aspirano ed

maggio/giugno 2014 Il filo di Aracne 5

Adriano Olivetti Enrico Mattei Giovanni Borghi

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inglobano tutto ciò che si trova nei loro paraggi. La natu-ra, su ogni cosa, è stata violata e devastata nelle sue partipiù intime e vitali, purtroppo con il tacito consenso dei go-vernanti. Si dia un attento sguardo alla foresta amazzoni-ca, dilaniata e disboscata già per un terzo della sua im-mensa superficie. Sia dia un attento sguardo alla tempera-tura globale, già aumentata di 0,8 gradi nel giro di quindi-ci-vent’anni, e agli effetti devastanti che ne sono scaturiti.La prima disastrosa conseguenza è rappresentata dal gra-

duale scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari e dalconseguente aumento del livello dei mari e degli oceani, chedall’inizio del secolo si è innalzato di venti centimetri. Si ècerti che, se l’attuale situazione dovesse andare avanti contale ritmo, il livello delle acque del pianeta salirebbe, neiprossimi 60-70 anni, di oltre un metro. Alcune città costierecorrerebbero il rischio di scomparire. Penso già alla fine diMiami, Venezia, Bangkok, Shangai, New Orleans, le Maldi-ve, il Bangladesh, i Paesi Bassi ecc. Alcuni splendidi atollidel Pacifico sono spariti e tanti altri stanno per essere in-ghiottiti definitivamente. Eppure nessuno ne parla.

Oltre agli ambienti terresti e marini, la stessa atmosferacorre il rischio di subire uno sconvolgimento nella suacomposizione. Essa si arricchisce in continuazione di ani-dride carbonica, mentre si impoverisce di ossigeno, anchese di poco. I fumi industriali sono eccessivi e tendono sem-pre più ad aumentare l’effetto-serra, che è una delle conse-guenze principali della follia umana.

Anche il peggioramento graduale delle condizioni di la-voro non va trascurato. Ormai i lavoratori sono considera-ti come gli “ingranaggi umani” del processo produttivo.Sono soltanto dei numeri, un po’ come lo erano gli ebreinei lager. Come dire che lo “schiavismo” sul lavoro conti-nua ad essere applicato, anzi questa pratica è maggior-mente utilizzata oggi rispetto ai secoli scorsi. Si vada inCina, in India, in Indonesia, nelle Filippine, in Romania,Bulgaria, Croazia, in molti stati africani, per rendersi con-to delle condizioni disumane in cui lavorano gli operai,sottopagati e sfruttati per diverse ore al giorno. L’Italia nonè da meno. Il problema si fa sentire maggiormente in To-scana. Prato su tutti, dove i lavoratori del tessile sono trat-tati peggio delle bestie e costretti a produrre ogni giornoun considerevole quantitativo di manufatti.

L’aumento della popolazione mondialeL’aspetto, che più d’ogni altro fa temere per l’immediato

futuro, è che l’attuale modello di sviluppo ha bisogno diprodurre e vendere sempre di più, in modo che le multi-

nazionali possano reggere la competizione, che si fa sem-pre più affannosa e pressante.

Per realizzare questo importante imperativo, i vari grup-pi imprenditoriali hanno deciso di agire su una sola com-ponente. Quale? Basta puntare sull’aumento delladomanda globale di beni e servizi, perchè conseguente-mente aumenti la loro produzione industriale e, a seguire,la vendita dei prodotti. Ma in che modo si può incideresulla domanda globale e provocarne l’aumento? La rispo-sta anche qui è semplice: aumentando la popolazionemondiale. In questo modo il cerchio si chiude e tutto qua-dra, con la buona pace delle multinazionali.

Però, a quali condizioni e con quali rischi si ottiene tutto ciò?La Cina, che ormai ha un’economia di mercato di tipo

occidentale, ha capito bene che, per mantenere competiti-va la propria immagine e tener testa alle varie problemati-che interne deve produrre di più e vendere di più. Per talemotivo, il governo centrale ha stabilito di puntare tutto sul-l’aumento della popolazione nazionale, che, di conseguen-za, comporterebbe un aumento della domanda interna.

Ma come? Semplicissimo: aumentando il limite massi-mo dei figli per singola coppia, che passerebbe da uno (at-tuale) a due. In questo modo, nel giro di pochi anni, ilproblema legato alla lenta diminuzione della domanda in-terna sarà risolto. Una simile decisione verrà adottata pre-sumibilmente da tante altre nazioni. Anche all’Italiainteressa che la popolazione nazionale aumenti in mododa risolvere il problema legato alla domanda interna. Al-lora è spiegabile il motivo per cui il governo nazionale ècosì “buono e tollerante” con gli immigrati, i quali, nell’im-mediato, rappresentano una fonte di ricchezza per gestirela loro accoglienza, mentre, per il futuro, diventano poten-ziali lavoratori e, al tempo stesso, buoni consumatori.

Considerazioni finaliConcludendo: all’aumento della popolazione mondiale cor-

risponderà un aumento della produzione di beni e servizi che,come logica conseguenza, comporterà un aumento indiscri-minato dello sfruttamento della natura in ogni suo ambito.

Viene allora da chiedersi: “Sino a quando la natura si la-scerà aggredire dall’uomo?”.

Ed inoltre: “C’è un modo per rimediare ad una catastrofe im-mane che già bussa alla porta?”.

Credo che l’umanità abbia a disposizione non più di 20-30 anni per cambiare tendenza alla sua vita sregolata.

Il rimedio c’è, ma bisogna fare in fretta, altrimenti si in-nesca una situazione dalla quale sarà difficile tornare in-dietro.

Di tutto ciò, però, parleremo nel prossimo numero. •

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Sarà così affollata la Terra nel prossimo futuro?

Rino Duma

Una recente inondazione di New Orleans

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Sembra proprio difficile togliere dalla mente della gente,soprattutto qui nel Meridione, l’idea che Liborio Roma-no (Patù, 27 ottobre 1794 – 17 luglio 1867) sia stato un

personaggio voltagabbana (trasformista) e traditore di più pa-trie. Sono stati, e tuttora continuano a farlo, i borbonici e i neo-borbonici a propalare tale idea e, come si sa, lo fanno non pernobili motivi, ma semplicemente perché contrari a tutto ciòche significa patria, valori patriottici, ideali di condivisionepopolare e, in ultima analisi, tutto ciòche significa Unità d’Italia, che sia chia-ro, quella realizzata nel 1861 non fuquell’Unità per la quale i risorgimentali-sti repubblicani e socialisti lottarono, maun compromesso monarchico a sfavoredel Sud. Noi stessi oggi critichiamo ilcomportamento colonialista e predato-re di Casa Savoia e lottiamo perché ven-ga riaffermato il concetto che ilMezzogiorno d’Italia non è mai statouna palla al piede dello sviluppo eco-nomico della nazione, piuttosto occorredire che fu la borghesia del Nord e l’ari-stocrazia sabauda ed ex borbonica che,depredandolo di non poche ricchezze,l’hanno tenuto in un continuo stato disoggezione.

Liborio Romano, docente di Diritto civile e commerciale al-l’Università degli Studi di Napoli, fu in primo luogo un risor-gimentalista della prima ora. Si conosce la sua partecipazioneai moti insurrezionali a partire dal 1820 fino ad arrivare aquelli della vigilia della cacciata dei Borbone da Napoli. Eglifu tenuto sotto osservazione per decenni e fu più volte impri-gionato nelle carceri borboniche, più volte confinato e, in al-cuni periodi, dovette riparare in Francia per evitare pericolimaggiori per la sua vita.

Sul piano professionale, poiché fu uno degli avvocati piùrinomati del foro partenopeo, Romano difese non pochi ma-lavitosi, fra i quali anche degli appartenenti alla camorra. Perquesto suo ufficio, il suo nome fu spesso associato alla crimi-nalità campana ma, anche in questo caso, egli fece solo il suodovere d’avvocato. La sua conoscenza del mondo criminalenapoletano, nel momento in cui le cose andavano precipitan-do e la monarchia borbonica stava per essere abbattuta, in unultimo tentativo di salvare il salvabile, il re delle Due Sicilie,Francesco II di Borbone, e la sua corte, nonostante conosces-sero le idee politiche del Nostro, anzi proprio per questo, agliinizi del 1860, con Garibaldi che era già partito da Quarto con

i Mille, gli affidarono la direzione della Polizia e, il 14 lugliodello stesso anno, anche il Ministero dell'interno.

È stato proprio in qualità di tali incarichi che il Romano eb-be l’opportunità di conoscere più da vicino e dall’interno lacamorra napoletana, una delle organizzazioni criminali piùpericolose e allo stesso tempo più radicata nel territorio percui, quando si trattò di impedire un ulteriore spargimento disangue, non tentennò nel coinvolgere tale organizzazione nel

mantenimento dell’ordine pubblico nel-la capitale. D’altronde cosa era rimastoda fare al governo dei Borbone, nonavendo più un esercito che tal si dices-se e men che meno aveva la disponibi-lità di un apparato poliziesco. Tutti gliapparati governativi si erano disente-grati e Napoli rischiava di subire unodei genocidi più pesanti della sua mil-lenaria storia.

In quel momento drammatico, tuttal’Europa sapeva già come sarebbe anda-ta a finire quella campagna di moti in-surrezionali nella penisola, con Gari-baldi che, dopo essere sbarcato in Sici-lia, stava risalendo vittorioso le regionimeridionali. Non c’era più nulla da sal-vare dell’antico regime, per cui Liborio

Romano cercò di salvare il salvabile, soprattutto la popola-zione civile e i beni materiali e immateriali del regno attra-verso non una resa incondizionata a Cavour ma un pattodignitoso per il Sud. È noto che fu lo stesso Romano, in quan-to ministro del regno delle Due Sicilie, a consigliare FrancescoII di Borbone a lasciare Napoli e riparare a Gaeta prima del-l’ingresso a Napoli di Garibaldi il quale, il 7 settembre 1860,entrò in città ricevuto proprio dal ministro Romano. La storiaci dice che l’Eroe dei Due Mondi entrò trionfalmente a Napo-li con i suoi 28 ufficiali, ma avendo al fianco la moglie del ri-sorgimentalista salernitano Nicola Ferretti e la rivoluzionariamazziniana gallipolina Antonietta de Pace.

Oggi si dibatte ancora su quanto e di che tipo fu il coinvol-gimento della camorra da parte del ministro dell’Interno Li-borio Romano. Tuttavia, aldilà della pericolosità del pattoRomano-De Crescenzo (capo dei camorristi), che va semprecriticato, è da costatare che effettivamente a Napoli non ci fu-rono moti popolari, né vendette, né le migliaia di morti am-mazzati previsti, e perfino lo stesso re, con l’intera famiglia eil resto della corte, se ne andarono a Gaeta, vale a dire a po-che decine di chilometri dalla capitale, con un corteo regale

8 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

PERSONAGGI DEL RISORGIMENTO

Liborio Romano

Liborio RomanoFigura ambigua e controversa per alcuni, salvatore della patria per altri

di Maurizio Nocera

Il 7 settembre 1860 accolse trionfalmente Garibaldi a Napoli

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che nessuno osò toccare. Vale proprio la pena di considerare oggi come finì il regno

borbonico delle Due Sicilie a confronto con le conclusioni del-le tante guerre del Novecento, dove abbiamo assistito (assi-stiamo ancora) alle più immonde atrocità, commesse damercenari senza patria e senza ideali e nel disprezzo di qual-siasi convenzione internazionale. Certo, occorre considerare ilfatto che, dopo la fuga da Napoli di Francesco II, e nel turbi-nio dei nuovi poteri connessi all’annessione del Sud allo Sta-terello sabaudo, non tutto fu rispettato come concordato daLiborio Romano col Cavour (per colpa di quest’ultimo e diVittorio Emanuele II, che continuò ad essere re di uno Statoche non era quello unitario), per cui, proprio nelle regioni me-ridionali si innervò il fenomeno del brigantaggio, che non vaconsiderato come una dannazione di questa parte del Paese,ma come una conseguenza inevitabile dello scombussolamen-to post risorgimentale. Anzi occorre dire che l’annessione al-la Casa Savoia senza il rispetto di quelle condizioni poste dalRomano, significarono il tradimento di tante lotte e di tantisacrifici che i risorgimentalisti mazziniani e garibaldini aveva-no condotto sin dal 1799, anno della rivoluzione partenopea.

Che dire ancora di Liborio Romano, quando verifichiamooggi che egli, tutto sommato, non fu affatto quel “maledetto”ministro di cui i neo borbonici hanno cianciato e ciancianotanto? La storia ci dice che egli fu confermato allo stesso mi-nistero da Garibaldi e che, alle elezioni politiche unitarie delgennaio 1861, fu eletto deputato in otto diverse circoscrizioni.Il popolo napoletano non dimenticò mai che Liborio Romano,in un momento drammatico della capitale, salvò il salvabile;per questo lo elesse deputato fino al 1865. Il 25 luglio di quel-lo stesso anno, don Libò (così lo chiamava il popolo di Napo-li e di Patù) si ritirò dalla vita politica e ritornò al suo paesello,

dove visse ancora per qualche altro anno.Ma a proposito di giudizi politici, per me vale soprattutto

quello che su Liborio Romano hanno espresso due valenti cat-tedratici. Il primo è Nico Perrone, per anni docente di Storiacontemporanea e di Scienze Politiche all’Università degli Stu-di di Bari il quale, per primo, nell’ambito di quell’alta istituzio-ne, non ebbe remore ad affermare che Liborio Romano vainserito a tutti gli effetti nel panorama del Risorgimento ita-liano. Egli è autore del libro L’inventore del trasformismo. Libo-rio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli(Rubettino editore, 2009). Il secondo cattedratico è il galatine-se Giancarlo Vallone, ordinario di Storia delle Istituzioni Po-litiche presso l’Università del Salento (autore del volumeDalla setta al governo. Liborio Romano, Jovene editore) ilquale, anch’egli, nell’introduzione al libro di Liborio Roma-no, Scritti politici minori (sua cura, Lecce, Centro Studi Salen-tini, 2005), scrive: «Si tratta anzitutto di restituire Romano alsuo ruolo vero nel Risorgimento del Mezzogiorno continen-tale, del quale egli, nel Sessanta [1860], è certamente il mag-giore protagonista, dopo Garibaldi e Cavour» (p. VII).

Come si vede non si tratta di due giudizi improvvisati e ma-gari di persone sprovvedute, ma di due straordinari espertidel settore che, prima di scrivere una riga ci pensano e riflet-tono sulla base di approfonditi studi. E a questi giudizi dieminenti storici, non va sottaciuta la passione di GiovanniSpano di Patù, fondatore dell’Associazione culturale intitola-ta al suo illustre compaesano, associazione che si prefiggel’obiettivo «di rivalutare la figura di don Liborio attraverso lostudio della storia e delle tradizioni di Patù, del Salento e delSud». Anche lo studioso tricasino Francesco Accogli ha dedi-cato un volume al Personaggio Liborio Romano (Il laboratorioeditore, Parabita). •

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La pubblicazione della bella e curatissima opera diFrancesco Luceri sul carteggio del filosofo galatine-se Pietro Siciliani (1832-1885) (1), impone questa bre-

ve aggiunta, relativa ad un piccolo carteggio tra CesiraPozzolini Siciliani (1839-1914) e Luigi Mezio(1812-1877)che, nella sua esiguità, testimonia un esempio di life docu-ment, documenti non ufficiali che hanno acquisito rilevan-za documentaria: carteggi, contabilità, scritture private,materiale proveniente dagli archivi privati, di recente va-lorizzati dalla storiografia ai fini dello studio della fami-glia.(2)

Le sei lettere, datate dal 1869 al1876, fanno luce sui reali rapportiesistenti tra il filosofo e una dellefamiglie galatinesi che partecipò,nel corso dell’Ottocento, alle aspi-razioni liberali, quali si andavanoattuando, anche nel Salento, con lapresenza e l’opera delle vendite car-bonare. Michelangelo Mezio, padredi Luigi, compare nell’elenco dei“Novelli Bruti” del 1830, forse lapiù influente vendita carbonara, traquelle di Terra d’Otranto, fondatada Giacomo Comi e “gestita secon-do le regole degli Statuti Generalidella Carboneria”(3); Galatina, gra-zie alla sua posizione geografica fuscelta, infatti, per ospitare la grandedieta carbonara del 25 novembre1817. Michelangelo fu sindaco diGalatina dal 3 aprile 1839 al 25 febbraio 1842, dopo la riso-luzione di un lungo contenzioso con l’Arcivescovo diOtranto Vincenzo Andrea Grande, riguardante l’attualechiesa di San Biagio.

L’esistenza della vendita galatinese fu scoperta nel 1851all’atto dell’inventario dei beni del Comi, primo cospira-tore salentino: il suo nome compare nel verbale datato 27gennaio 1813 e pubblicato nel 1967 da Michela Pastore.

Luigi Mezio fu capitano della seconda compagnia dellaGuardia Nazionale, istituita con dispaccio del 15 novem-bre 1860 che, abolita la vecchia Guardia Urbana, “dovevasorgere dal seno dell’elemento liberale, di carattere nazionalistae popolare, e come tale si fece dipendere direttamente dal Comu-

ne, per la sicurezza della città; dal Prefetto della Provincia, peril servizio di pubblica sicurezza; e dal Generale Comandante ilCorpo d’Armata, Generale Lamarmora, per la salute generaledello stato”.(4)

Nelle lettere di seguito pubblicate, il tono spiccatamen-te familiare e avaro di notizie sui grandi eventi della storianazionale e municipale, ci permette - anche se solo nell’im-pressione che ne riceve Cesira - di aggiungere dei dati al-la personalità, scarsamente delineata, del “carbonaro”Luigi Mezio dalla locale storiografia.

Come risulta dall’atto di battesimoconservato nella parrocchia dei SS. Pie-tro e Paolo in Galatina, Luigi nacque il25 marzo del 1812 da Michelangelo eMaria Teresa Calò (5) ebbe sei figli, nel-l’ordine: Giovanna (n. 1844), Giulia(n.1846), Rosa (n.1849), Michele (n.1851), Francesco (n.1854), Pietro(n.1862).

Michele studiò giurisprudenza a Na-poli e fu sindaco di Galatina dal 5 apri-le 1891 al 24 settembre 1894. Dei figlimaschi si sposò solo Francesco con An-giola Caputi-Jambrenghi di Ruvo diPuglia, ma non ebbero figli. La discen-denza fu assicurata dal figlio di Rosa edi Gaetano Galluccio: Luigi, che ag-giunse il cognome della madre al suoper eluderne l’oblìo.

La pubblicazione di documenti checonfermerebbero l’appartenenza del

Mezio alla setta degli Ellenisti, insieme al fratello Giovan-ni, e “riunioni settarie, nel 1826,” compare nel 1972, anchese, sulla questione delle sette è imprescindibile punto diriferimento il lungo studio di G. Vallone che ha per esito ilcorredatissimo volume su Liborio Romano.(6)

Il tono poco ufficiale presente nelle lettere, conferma unrapporto autentico, di cui vi è traccia anche nel carteggiodi Luceri e ciò grazie alla non intenzionalità delle fonti dicui la scrittura epistolare è esempio.

La prima lettera reca la data del 7 settembre 1869, fu spe-dita da Firenze; non erano ancora trascorsi dieci anni dal-lo sbarco di Garibaldi a Marsala e dunque alla parte-cipazione di tre galatinesi come volontari nelle camicie ros-

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EPISTOLARIO CITTADINO

Cesira Pozzolini Siciliani

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se: Gioacchino Toma, Pietro Andreani dei baroni di SantaBarbara, sacerdote, e Antonio Contaldo; e due anni dal-l’epidemia del colera che portò alla morte 857 abitanti su9550; solo tre anni erano passati dalla vittoria di Bezzeccagrazie ai “Cacciatori delle Alpi” di Garibaldi e alla mani-festazione delle donne a Venezia per la loro condizione di“cittadine senza cittadinanza”.

La seconda lettera è priva di luogo e di data, ma nel te-sto si fa cenno a Bologna, ed è probabilmente coeva a quel-la del 1869; esse sono entrambe listate a lutto. Su quellasenza data compare un monogramma “CS” eseguito fine-mente ad inchiostro che, nelle lettere successive compari-rà a stampa.

Dal 1867 al 1885 i Siciliani vissero a Bologna dove Pie-tro ricopriva l’incarico di professore di filosofia teoreticaall’Università, mentre Cesira animava settimanalmen-te un salotto culturale, come già sua madre Ge-sualda (alla fine degli anni ’50) ed EmiliaToscanelli Peruzzi (il “Salotto Rosso”) a Fi-renze.

Durante gli incontri culturali a casa Si-ciliani, Cesira offriva ai suoi ospiti preli-batezze galatinesi e tra queste, sembrafosse molto apprezzato “il Mezio”(“ché il suo vino qui porta il suo nome”,“Oh a quanti vini stranieri il suo fu para-gonato! Ma il biondo liquor della sua vignafu a tutti preferito.”) e Pietro non disde-gnava i torroncini di Felice Ascalone.

Le lettere successive sono datate 19marzo 1870, pochi mesi prima della brec-cia di Porta Pia; 21 aprile 1873 e 4 aprile e 19dicembre del 1876. Furono spedite tutte daBologna.

Il tono confidenziale con cui Cesira Pozzolinirivolge le sue parole a Luigi Mezio e l’accennoall’ospitalità ricevuta nella villa Tabelle (“Casino lungo lavia di Gallipoli”) e nel palazzo Mezio, di cui ammira “ilbel terrazzo” a Galatina, confermano un legame di affet-tuosa amicizia e di generosità di intenti da entrambe leparti, suggellato dal desiderio di Cesira di ricambiare l’in-vito estendendolo anche alla moglie del Mezio (Maria An-tonia Dolce) e alle figlie (Giovanna, Giulia e Rosa).

Sorprendente appare, in alcuni passaggi, il tono affettuo-so di Cesira vicino alla naturale affabilità di un legame pa-rentale. Tale, ad esempio, il sincero sconforto nei righi incui fa cenno alla malattia della sorella Antonietta, che con-durrà la giovane ad una morte prematura, per tubercolo-si, proprio nei giorni precedenti al suo matrimonio.

Nella lettera del 19 marzo 1870 compaiono, contestual-mente, un’aggiunta di Pietro Siciliani a Luigi Mezio e alfratello, l’arciprete Rosario Siciliani. Dalle parole del filoso-fo e pedagogista galatinese traspare la medesima affettuo-sa confidenza: vi è l’accenno a Michele Mezio, allorastudente in giurisprudenza a Napoli.

Grazie al contributo di Aldo Vallone comparso in Studie ricerche di letteratura salentina, recentemente pubblicatoda Congedo in ristampa anastatica (7), abbiamo un’idea piùcompleta della Pozzolini, quale autrice, cioè, di numerosisaggi pubblicati per lo più sulla “Nuova Antologia” e sul-la “Rassegna Nazionale” (bellissimo il suo “bozzetto stori-

co” Volognano in Valdarno, dalla amabile prosa di metà Ot-tocento).

I primi, bozzetti di viaggio di itinerari consueti, riguar-dano: Napoli, Capri, Pompei, e seguono di un paio di an-ni il soggiorno salentino. Nell’elenco pubblicato da AldoVallone compare uno studio di Cesira sui Martiri Otranti-ni interesse nato, probabilmente dai suggestionanti rac-conti dei molti amici salentini e dell’ipotizzabile contattodiretto con il luogo dell’eccidio.(8)

Il particolare riportato dal prof. Vallone che sicuramen-te fa riflettere sul carattere di Cesira è il cenno - poco gen-tile - appuntato da Carducci in una lettera:

“Professoressa è la signora Cesira Pozzolini, figlia della signo-ra Gesualda, notissima chiaccherona di Firenze, e moglie delbuon filosofo Pietro Siciliani. Allieva del Thouar, di Giuliani, di

Vannucci, figlia di una madre che aveva a conversazione ilNiccolini; lascia dire a lei, e lascia fare a lei. Ha un na-

so un po’ lungo anche ella: e ripete qualche volta amemoria degli squarci di Dante, ma non capisce

nulla in poesia. […] è un po’ troppo sbilungo-na, è un po’ secca e minaccia di finir tisica co-me una sua sorella che era veramente carina,benché tutti i pedanti fiorentini me n’aves-sero fatta una pedantina. Oh come è orri-bile questa pedanteria popolaresca,educatrice, bambinaia, asiliera, scolastica,toscaneggiante! Dio te ne liberi, il buonDio de’ Greci, povera Lina mia!...”(9)

Nel gennaio 1873 Carducci fu presen-tato a Clara Maffei, grazie all’interessa-

mento di Carolina Cristofori, moglie delgenerale Domenico Piva. Il poeta marem-

mano non risparmiò neanche la contessinaChiarina Carrara Spinelli, a noi nota grazie agliscritti di Raffaello Barbiera(10) come patriota delRisorgimento e anima del famoso salotto - dap-

prima letterario, successivamente politico-, rendendola og-getto di un pungente appunto nell’uso dell’italiano:

“Conosco l’apprentissage dell’alta scuola milanese, un che tral’aristocratico svanito e insipido e il borghese alla vainiglia. E’ ungenere che amo e gusto pochissimo, benché mi piaccia infinita-mente la signora Clarina, che mi apparve molto, molto superio-re alla sua fama, se bene dai brevi biglietti che mi ha mandatinon sembri molto sicura nemmeno ella in quella brutta faccen-da che è lo scrivere.”

Così Lina Iannuzzi al proposito: “Vien da sorridere a que-sta conclusione del poeta toscano che, senza volerlo, si richiamaal grave problema dell’unificazione della lingua e forse non sa,che gli esponenti della haute lombarda, fin da giovanissimi, im-paravano bene il francese, ma non sempre quella che sarebbe di-ventata la lingua di tutta la nazione italiana.(11)

La spontaneità di Cesira e la sua capacità di adattarsi alle di-verse persone e situazioni che le proviene dall’ambiente familia-re così ricco di relazioni e di ideali, la trova impegnata l’anno incui scrive l’ultima lettera al Mezio (pochi mesi prima dellasua morte) nella pubblicazione su “Illustrazione Italiana” diun articolo dedicato a Luigi Settembrini e al suo incontro con ilfiglio durante l’esilio. Un breve stralcio di esso è riportato dalDuca Sigismondo Castromediano nelle sue Memorie, il qualeparla di Cesira come “una mia diletta amica”.(12)

Anche Pietro Palumbo le dedica parole lusinghiere ri-

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Luigi Mezio

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portando le impressioni dell’onorevole Gaetano Brunetti:”…la signora Cesira regina del salotto in via dei Pilastri e inprocinto di diventare anch’essa letterata”.(13)

LETTEREN.17 settembre 1869Gentilissimo Don LuigiPiero m’incarica rispondere alla gratissima sua, e dirle che ieri,appena ricevuta la lettera, andò dal Direttore del Giornale delleCampagne il quale lo assicurò d’averespedita costà, un venti [giorni] addie-tro, la macchina per l’uva e per render-lo via più persuaso gli mostrò iscontrini della Spedizione fatta. Cosìstanno le cose né più né meno; né ios[o] dirle altro [a] proposito. Mav[oglio] sperare che a quest’ora la mac-china le sia arrivata, e ch’ella già si di-sponga a fare il suo ottimo vino. In casoche il ritardo dell’arrivo si protraggaancora ci avverta perché, come Piero hasaputo [che]la macchina è stata spedita,così potrà sapere altre notizie più parti-colari che aiutino lei a farne ricerca.Noi, ella lo sa, siam qua per servirla: ildesiderio di compiacerla c’è sempre, tal-volta ci manca il modo o la possibilità,e ce ne duole assai. Da quanto temponon le scriveva! Caro Don Luigi, tutte le volte che pensiamo oparliamo di lei gli è sempre con tenerezza! Anche Piero le vuolpur bene! Non dimenticheremo mai tante e tante cortesie ch’el-la ci ha usate; e fra le altre la bella giornata che ci fece passare alsuo Casino lungo la via di [Ga]llipoli. Come sta don Nicola Pa-sanisi? [lo] saluti per noi se lo vede. Alla sua Signora e alla suecare figliole stringo di cuore la mano. Oh se ella le conducesseuna volta da queste nostre parti! Ma tornando alla macchinasperiamo che ormai la non le dia […] pensiero, e arrivata felice-mente sia l’ammirazione di tutti nella sua tinaria.Se vede l’Arciprete o qualcuno di casa nostra dia le nostre otti-me nuove con mille Saluti affettuosi. Riverisco con affetto le ca-re Famiglie de’ suoi parenti, e con grato animoMi raffermo

Devotissima Aff.maCesira Siciliani

Firenze, 7 settembre 1869

N. 2Per favoreAll’OnorevoleDon Luigi MezioGalatina

Gentilis.mo Don LuigiMentre da Bologna partiva una sporta con poche ghiottoneriesuine anche per Lei che l’Arciprete a quest’ora le avrà mandatein nome nostro giungeva a noi avviso dalla strada ferrata di duecolli al nostro indirizzo. La sua lettera ci annunzia il carissimodono, e stamane abbiamo ricevuto il fiascone e la cassetta in per-fette condizioni Don Luigi, sempre buono e gentil e affettuoso ememore amico, ama confonderci con doni così squisiti; e noi, con

animo grato e riconoscente, accettiamo le sue buone grazie, eplaudiamo all’eccellenza del vino e dei torroncini. Poche cose po-tevano giungerci gradite come queste ch’ella c’invia, perché ilsuo vino è prelibato, e noi ne facciamo gran conto, e i torroni so-no i migliori dolci ch’io conosca, e ne son ghiotta assai. Anche gliamici nostri qui, saputo l’arrivo del Mezio (chè il suo vino quiporta il suo nome) si son tutti rallegrati, perché un qualche bic-chierino di tanto in tanto tocca anche a loro; e saluti ed augurinon le mancano mai. Ma non sa che cosa ci è accaduto? Nel-l’estate volemmo lasciare una dozzina di bottiglie del suo vino

dell’anno scorso, e prima di partire, letappammo ben bene a macchina, pertrovarle intatte quest’anno. Ma, il pro-verbio lo dice “Chi serba, serba al Gat-to!” il suo vino non è più quello, eaperte due bottiglie intanto l’abbiamotrovato alterato. Piero s’è stizzito, madi cuore, e si pente di non avere sgoc-ciolato l’anno scorso tutto il caratello.Vuol sapere da lei da che cosa dipendaquesta alterazione, e se v’è rimedio.Fortuna che l’arrivo del fiascone lo hacalmato; e io le prometto che quest’an-no ce lo beveremo tutto, sin […] fon-data, se ci sarà, perché al […] cipenserà Dio; e io non voglio sull’ani-ma nemmeno il rimorso d’aver lasciatoprender lo spunto a questo nettare de-lizioso. Grazie dunque, caro Don Lui-

gi, e grazie infinite. Noi vorremmo poter fare per lei qualche cosa,e se ci comandasse le saremmo obbligatissimi. La lascio in frettae saluto con affetto la sua ottima Signora e le simpatiche figlie.Tante cose di Piero e mi creda

Aff.ma Sua Cesira Siciliani

NOTE:1) P. Siciliani, Il carteggio familiare di Pietro Siciliani (1850-1914), a c. di Fran-cesco Luceri, Voll. I e II, Lecce,2013, Edizioni Grifo.2) M. Romano, Storia di una famiglia borghese. I Vallone di Galatina (secc.XVII-XX), Milano, 2003, p.12.3) V. Zacchino, Momenti e figure del Risorgimento salentino (1799-1861). Ilcammino verso l’unificazione visto dal tacco d’Italia, Galatina, 2010, p.72.4) R. Rizzelli, Pagine di storia galatinese. Memorie, Galatina,1912, p.98-104.;V. E. Zacchino, Dai moti del Novantanove all’Unità in M. Montinari, Storiadi Galatina, Galatina, 1972, pp.281-301.5) A. P. 6) L. Romano, Scritti politici minori, a c. di G. Vallone, Lecce, Centro diStudi Salentini,2005.7) A. Vallone, Studi e ricerche di letteratura salentina, Lecce,1959; rist. an.Galatina, Congedo,2013.8) Grazie a Sigismondo Castromediano si andava organizzando la com-memorazione del martirio di Otranto nel IV centenario della ricorrenza,vedi F. Martina, il fascino di medusa. Per una storia degli intellettuali salenti-ni tra cultura e politica (1848-1964), Fasano,1987, p.63. L’autore cita la Poz-zolini quale sostenitrice dell’importanza degli studi di storia regionale“impresa colossale e difficile”.9) A. Vallone, op. cit., pp.323-324.10) R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Firenze,1915; anche il più am-pio Il salotto della contessa Maffei e la società milanese (1834-1886), Mila-no,1895.11) L. Iannuzzi, Il carteggio Tenca-Maffei, Napoli, 2007, p.71-72.12) S. Castromediano, Carceri e galere politiche. Memorie del duca Sigismon-do Castromediano, Lecce, 1896, p. 175.13) P. Palumbo, L’On. G. Brunetti e i suoi tempi, Lecce, 1915, p.326-327; ap.280-281 è riportata una lettera di Cesira a Gaetano Brunetti da Biviglia-no datata 22 luglio,1866.

(1. continua)

Giosuè Carducci

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Forse sarà dipeso dai pesanti problemi finanziari chehanno lungamente attanagliato la città, forse perché al-cuni sindaci, meno sensibili a simili eventi, non hanno

ritenuto opportuno continuare nell’appuntamento culturale,sta di fatto, però, che il Premio “Città Galatina” è ritornato,dopo otto lunghi anni, ai suoi antichi fasti.

L’ultimo Premio era stato consegnato nellontano 2006 all’esimio Sen. Giorgio De Giu-seppe, dal prof. Luigi Rossetti (assessore allacultura nell’ultimo governo Garrisi).

Da allora un preoccupante silenzio; oggi, fi-nalmente, l’amministrazione Montagna ha de-ciso di rompere gli indugi e di recuperare ilterreno perso, assegnando ben quattro ricono-scimenti ad illustri personaggi galatinesi, al-cuni dei quali non viventi.

L’apposita Commissione, presieduta dal sin-daco dr. Cosimo Montagna, nella seduta del11 febbraio 2014, ha deciso di assegnare il Pre-mio “Città di Galatina” a Mons. Don FedeleLazari, relativamente all’anno 2008, al poetaLucio Romano, per l’anno 2010, al prof. Rosa-rio Coluccia, per l’anno 2012, e al dott. AldoBello, per l’anno 2014, ritenuti altamente me-ritevoli per la loro incessante azione professio-nale, educativa e sociale, tesa alla crescita umana e valorialedella comunità galatinese e salentina.

La cerimonia si è svolta nel salone di Palazzo Orsini allapresenza di Don Fedele Lazari, del prof. Rosario Coluccia edei familiari dei compianti Lucio Romano e Aldo Bello. Ildott. Cosimo Montagna, così come l’assessore alla cultura,prof.ssa Daniela Vantaggiato, si sono soffermati a delineareil percorso di vita e di carriera dei premiati, evidenziandonei momenti più significativi. Molto toccanti e commoventi lerisposte di ringraziamento da parte dei premiati e dei lorofamiliari. Alla manifestazione era presente un folto e qualifi-cato pubblico di autorità cittadine, di amici e parenti.

Passiamo ora a tracciare uno spaccato della vita professio-nale dei premiati, che, purtroppo, sarà breve per evidenti ra-gioni di spazio.

Premio Anno 2008È stato assegnato al Rev. Mons. Fedele Lazari, per diversi

anni insegnante di Religione nella Scuola Media “GiovanniPascoli”, dove si è distinto per la sua instancabile opera diformatore e curatore spirituale di tantissimi studenti. Esem-

plare figura di sacerdote, dal volto sempre radioso e rassicu-rante, ha guidato per decenni la parrocchia della chiesa Ma-dre con solerzia, amore e spirito cristiano.

La sua azione non si è limitata alla cura del solo aspettoeducativo e religioso, anzi si è dedicato con maggiore tra-

sporto umano e spiritodi solidarietà nell’am-bito del sociale, risol-vendo da par suosituazioni familiari avolte drammatiche edi difficile soluzione.

Sono numerose leopere di bene che harealizzato durante lasua splendida “avven-tura” pastorale.

Il conferimento delpremio rappresenta ilgiusto e meritato rico-noscimento ad un “fi-glio di Dio”, che nonha mai lesinato diamare e che si è fattoamare, per aver guida-

to la comunità cittadina verso la conquista di spazi dell’ani-ma e dell’essere, con il continuo e silenzioso insegnamentodei valori umani. Nel suo “fare” quotidiano ha fatto uso delsentimento più nobile che accompagna l’uomo: l’amore, dalquale scaturiscono la pace, la giustizia, la carità e il perdono.In conclusione, è stato un sacerdote che ha “sparso” nella co-munità cittadina i lieviti necessari per far crescere l’anima edinnalzarla all’altezza dell’onore, della dignità e del rispetto.

Un autentico “costruttore di uomini”. Già nel 1997 gli era stato conferito dal Circolo Cittadino

“Athena” il massimo riconoscimento del sodalizio, rappre-sentato dalla “Civetta d’argento”, simbolo della città, dellasaggezza, della vita.

Premio anno 2010Il premio è assegnato al poeta Lucio Romano, nato a Gala-

tina nel 1936 e deceduto nel 2007.Romano si distingue sin da giovane per il suo impegno po-

litico nel Partito Comunista Italiano, del quale diviene neltempo il massimo esponente cittadino. È eletto consiglierecomunale e Capogruppo per numerose legislature e diviene

PREMI E RICONOSCIMENTI

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Mons. Don Fedele Lazari

di Salvatore Cesari

Sospeso nel 2006, è stato riproposto quest’anno con quattro assegnazioni

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consigliere provinciale del PCI.L’attività letteraria comprende

trattati storici e saggistici, comead esempio “Prefascismo e fasci-smo in Terra d’Otranto” e “CarloMauro, nel primo centenario del-la nascita”, ma soprattutto operepoetiche di elevato tenore. La suaprima raccolta s’intitola “Sul ca-lar della sera” (1958-1964), “Va-gare stanco” (1965-1968), “Storietristi” (1969-1974), “Alografie”(1983-1987), “Morire di-verso”(1988-1990), “Eduardo Dalbono”(1992-1996), “Una vita in versi /Percorsi e note critiche” (2001).

Nella prefazione a quest’ulti-ma opera, il prof. Donato Vallicosì si ebbe ad esprimersi: “Nonc’è in Lucio Romano alcun compia-cimento estetizzante, alcun narcisi-smo, alcun occultamento dell’umanità in nome di una pretesaegemonia della forma e della parola […]. Romano, insomma, […]ha trovato una misura perfetta di coincidenza del suo pensiero e delsuo sentimento con una realtà che non appartiene ad una tempo,ma, caso mai, a tutti i tempi e addirittura alla storia dell’umanità;una storia nella quale la miseria ha dovuto fare i conti con la pre-varicazione e la sofferenza con la malvagità dell’incomprensione”.Pure “Il suo sì alla poesia comporta il no alla rassegnazione e allamediocrità, lungo un percorso interiore che va dalla memoria allacoscienza […]. La poesia, in tal modo, diventa l’unico modo di ri-bellione possibile, l’unica forma di libertà consentita”.

Lucio Romano ha vinto numerosi premi letterari: Premio“Satura d’Argento”, 1988; “Premio Città di Segrate” e “Pre-mio Letterario Nazionale Faliesi”, entrambi nel 1989, Premio“Rassegna della Poesia contemporanea – Città di Montesilva-no” e “Rassegna della poesia contemporanea – PrimaveraOplontis”, entrambi nel 1990; Premio “Aeclanum” nel 1992;Premio Letterario Nazionale Faliesi nel 1993.

Inoltre è stato membro della giuria del Premio Letterario“Athena” di Galatina negli anni 1996 – 1997 – 1998 – 2000 –2001 – 2003.

Il conferimento del “Premio Città di Galatina” costituisceil giusto riconoscimento della città ad un uomo che, coniu-gando la cultura con l’impegno civile e politico, ha offerto aicittadini grandi opportunità di crescita culturale, morale esociale.

Premio anno 2012Il premio relativo all’anno 2012 è stato conferito, all’unani-

mità, al Ch.mo Prof. Rosario (Pino) Coluccia con la seguen-te motivazione:

“Il Prof. Rosario Coluccia, nato a Galatina il 15 febbraio 1946, èAccademico della Crusca, ordinario di “Storia della Lingua Italia-na” e Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Beni cul-turali presso l’Università del Salento. In questo Ateneo ha anchericoperto altri incarichi istituzionali: Direttore del Dipartimento diFilologia, Linguistica e Letteratura (1998-2003), Delegato del Ret-tore per il diritto allo studio (1996-2001) e per la ricerca scienti-fica (2002-2004), Prorettore (2005-2007).

Fa parte della Direzione di ”Medioevo Letterario d’Italia”, delComitato Scientifico di “Bollettino Linguistico Campano” e del Co-mitato Scientifico del “Bollettino del Centro di Studi Filologici eLinguistici Siciliani”.

Dall’ottobre 2005 al dicembre 2008è stato Presidente Nazionale dell’As-sociazione per la Storia della LinguaItaliana; dall’ottobre 2006 all’ottobre2010 è stato Segretario della SocietàInternazionale di Linguistica e Filo-logia Italiana. È socio del Centro diStudi Filologici e linguistici Sicilia-ni.

È Revisore del Lessico Etimolo-gico Italiano e del DictionnaireÈtimologique des Langues Ro-manes.

È valutatore di progetti PRIN,FIRB e FNS (Fondi nazionali sviz-zeri della ricerca scientifica).

È autore di oltre cento pubblicazio-ni scientifiche.

È stato iscritto per diversi anni alCircolo Cittadino “Athena”. Insie-me all’estensore di questo articolo e

all’amico geom. Santino Congedo, ha provveduto alla stesura del-lo statuto sociale e del Regolamento interno dell’Associazione, en-trambi condivisi da diversi altri circoli comunali e provinciali.

Inoltre è stato membro della giuria del Premio Letterario “Athe-na” di Galatina negli anni 2001 – 2003 – 2005 - 2007.

Il Premio Città di Galatina gli viene conferito per aver sa-puto coniugare l’ampio orizzonte della ricerca scientifica edegli studi linguistici con la cura delle origini culturali dellasua terra, sostenendo quotidianamente giovani menti a Luiaffidate nell’esaltante, benché arduo, cammino della cono-scenza e per aver dato lustro alla Citta di Galatina grazie aisuoi risultati di indubbio rilievo nel panorama nazionale edeuropeo.

Premio anno 2014Il Premio relativo all’anno 2014 è stato conferito all’unani-

mità al Dott. Aldo Bello, con la seguente motivazione:“Aldo Bello è nato a Galatina il 7 settembre 1937. Dopo aver

frequentato il liceo classico “Pietro Colonna” di Galatina, siiscrive all’Università di Roma, dove si laurea in Lettere e Fi-losofia.

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Poeta Lucio Romano

Prof. Rosario (Pino) Coluccia

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16 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

Inizia la sua attività giornalistica come inviato speciale delsettimanale leccese “La Tribuna del Salento” di Ennio Bonea,testata che dirigerà in seguito. Collabora con il “Giornaled’Italia”, per poi passare a “IlGlobo”.

Nel 1965 entra per concorsoin RAI, come redattore del Col-legamento Sedi Regionali. Nel1976 viene chiamato da SergioZavoli al GR1, da questi diret-to. Vi opera come inviato spe-ciale, poi come caporedattoredei servizi speciali e responsa-bile della messa in onda dei ra-diogiornali del mattino.

Per quindici anni realizza re-portage e corrispondenze dal-l’Italia e dal mondo comeinviato di guerra e come esper-to di terrorismo e di mafie pre-senti in tutti gli scacchieriplanetari.

Nel 1987 è inviato in diciottopaesi, documentandone leguerriglie, le attività dei cartel-li del crimine organizzato, i traffici di droghe e di armi. Seguela guerra Iran-Iraq, quella del Golfo, i sommovimenti inte-gralisti nelle terre arabe, in Egitto, in Sudan, nel Centro Afri-ca, in Algeria e in Marocco.

Nel 1991 passa alla direzione di Televideo RAI. Dal 1998 èstato per alcuni anni Direttore Generale di San Marino RTV,

consociata RAI. È morto a Roma il 26 dicembre 2011.Aldo Bello si è distinto anche nella sua attività di saggista,

pubblicando Terzo Sud (1968), Poeti del Sud (1973), Amare con-tee (1985), L’idea armata (1981),Passo d’Oriente (1992), Il salice el’Imam (2001).

Ha anche scritto un breve masignificativo racconto, Il solemuore (1973), poi ripubblicatocome Le lune e riobò (1978), e ilromanzo “La Mattanza” (1973).

Da l 1974 collabora con laBanca Agricola Popolare diMatino e di Lecce, curando laRassegna “SudPuglia” sino al1994, per poi chiamarsi “Apu-lia” sino al 2011.

Ha diretto il settimanale“L’Opinione” per tre anni, orga-no del Partito Liberale Italiano,ed ha collaborato con il Centrodi ricerca e DocumentazioneLuigi Einaudi.

Nel corso della sua vita ha ot-tenuto numerosi premi e rico-

noscimenti.Ad Aldo Bello viene assegnato, in memoriam, il Premio Cit-

tà di Galatina per aver dato lustro alla sua città natale con lasua intensa attività giornalistica e saggistica nel corso dellaquale si è occupato di problemi politici, economici e culturali.

Dott. Aldo Bello

Piero Tre

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maggio/giugno 2014 Il filo di Aracne 17

Il maestro galatinese ha inteso presentare nella recenteesposizione a Lecce le opere realizzate tra il 2011 e il2014.

Semplici e intuibili appaiono i quattro cardini principa-li che devono aver guidato l’artista dapprima nell’intento,poi nella realizzazione delle opere, e che si basano essen-zialmente sui procedimenti di osservazione, ammirazio-ne, meditazione, dedizione.

Già il titolo “…al Salento” tradisce l’attenzione dell’arti-sta verso il suo territorio e svela tutta la profondità del le-game, tenuto sopito fino alla rivelazione conclusiva a sestesso e agli altri. Un titolo allusivo che l’artista ha lascia-to incompleto, certo volutamente, allo scopo di suggerirein modo discreto le sue molteplici e intime disposizionid’animo nel guardare con attenzione al proprio territoriod’origine, quasi con riconoscenza, per aver goduto del pri-vilegio di trarre dalla sua intrinseca bellezza tante emozio-

ni, sì da sfociare in una dedica sincera quanto accorata.Dal punto di vista stilistico e tecnico le opere che l’arti-

sta presenta si distinguono in maniera abbastanza eviden-te dalla produzione antecedente, in cui si coglieva senzadubbio una particolare cura per il tratto grafico, delineatocon l’intenzione di perseguire una certa caratterizzazione

del personaggio e, con essa, un’immediata leggibilità del-la sua psicologia e del suo stato d’animo.

A dire il vero, nella parte più recente di questa produ-zione “precedente” iniziavano ad affiorare già dei simbo-li iconografici e dei riferimenti materici, anche se relegaiad una funzione di inquadramento del campo pittorico,quasi a guisa dipasse-partout, rea-lizzato grazie al-l’applicazione dimerletti. Ma adinteressarci di piùè il fatto che, dauna predilezionegrafica iniziale,l’artista abbia oraspostato decisa-mente il suo cam-po di ricerca ver-so un ambito po-limaterico, dove,grazie alla tecnicadell’assemblaggio,che fu già dei da-daisti, dei nouve-aux-réalistes, non-ché di alcuni arti-sti concettuali attivi particolarmente negli anni Sessanta eSettanta, sembrano trovare una sublima-zione artistica glioggetti più disparati: frammenti di legno consunti dal tem-po e dagli agenti atmosferici (Oltre il tempo, Passato epresente, Campagna-poesia dell’anima), piccoli sassi ap-plicati direttamente sulla tela e sospesi in senso antigravi-tazionale (Luce nella notte, Mistero) e, ancora, pezzi diplastica rifrangenti, vetri (Magie di una notte d’estate, Cie-lo, mare, terra, Scenari magici), lembi di stoffa, fili di spa-go e di cotone, deteriorati anch’essi, a volte rapportati allefibre vegetali disidratate del fico d’India (Casa rurale, Ol-tre il buio, Tramonto, Fico d’India), pianta che sembra af-fascinare alquanto l’artista; fino al recupero del vero eproprio objet trouvé, come il bottone o la spilla di metalloo di stoffa, spesso a motivo zoomorfo in cui ricorrono far-falle e coleotteri (Farfalla in amore, Giardino dei sensi, In-certezze e speranze, Dalla mia finestra), inequivocabile

PITTORI GALATINESI

Casa rurale

Passato e presente

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appare il riferimento allapropria città natale, Galatina,dal momento che la simbolo-gia tradizionale collega cul-turalmente il primo agliantichi riti dei tarantolati, inatto nella cittadina salentinadurante le festività dei S.S.Pietro e Paolo, e la seconda alsuo stemma civico.

Soffermandoci su questiultimi aspetti, appare non disecondaria importanza nellaricerca di Minafra il riaffio-ramento, prorompente e in-contenibile, di un interessedi tipo antropologico, dellacui emersione, atavica e an-cestrale, non sono di certoestranee le sue radici galati-nesi. La ricorrenza del sim-bolo della tarantola in unaserie di opere è probabilmente legata ad una finalità apo-tropaica, quasi taumaturgica, come se il Nostro intendes-se aggiungere alla musica, alla danza, alla psicologia e,naturalmente, alla fede religiosa anche l’arte tra le prati-che in grado di liberare dalle conseguenze devastanti delmorso del ragno.

Non manca, insistendo sull’argomento del tarantismo,una vena ironica nell’atteggiamento di Minafra, come nel-l’opera Frammenti pubblicitari, in cui l’artista ricorre alleapplicazioni di lattine di birra ed altre bevande di marcaper sottolineare la speculazione consumistica che si conti-nua a perpetrare attorno ad un fenomeno che richiedereb-be ben altre attenzioni e studi sotto il profilo antropolo-gico-culturale. Solo in quest’opera, a dire il vero, sussisto-no larvati richiami all’esaltazione della griffe operata dalla

pop-art, mentre in innumerevoli altre opere appaiono pre-ponderanti gli aspetti antropologici, presi a prestito addi-rittura dalla paleontologia e dall’archeologia, come nel

caso dei segni grafici richia-manti i graffiti e le incisionirupestri di mandrie in mo-vimento (Pensieri, Nostal-gia), riferimento indirettoalla Grotta dei cervi di PortoBadisco, del fossile di unafarfalla incastonato in unascheggia di pietra (Naturameravigliosa) o, ancora, deisegni di un alfabeto arcaicoimpressi su scagliette di pie-tra (Fascino arcaico), assi-milabili alle anticheiscrizioni messapiche.

È chiara, in questi esempi,l’evocazione di un ritornoalle origini, sorretta da unariflessione quasi nostalgica esuggerita all’artista da un’at-tenta osservazione della sto-ria più antica del nostro

territorio.Il lento passaggio del tempo è messo in evidenza in ma-

niera interessante dal confronto di diversi gradi di consun-zione delle ramificazioni del fico d’India, metafora deidiversi passaggi di crescita dell’individuo.

Al di là di queste opere a più netto significato antropolo-gico, altre opere sono dotate di un lirismo descrittivo voltoad un’esaltazionepiù esplicita dellabellezza della na-tura e del territo-rio salentino. Inquesto caso, fer-ma restando lapresenza dei pic-coli oggetti reali,dotati di un pro-prio vissuto quo-tidiano, l’intentodell’artista è quel-lo di soffermarsisull’osservazionereale o mentale, a volte sognante ed estatica, del tramon-to, della notte salentina, della campagna, del mare.

Anche i titoli di questo genere di opere rivelano come lospostamento del campo di osservazione operato dall’arti-sta sia in effetti uno spostamento di stato d’animo, che dal-l’oggetto viene deviato verso il soggetto. In pratica, mentrela serie antecedente di opere, avente come tema la figurafemminile, il volto di bambini o i ritratti di artisti galatine-si del passato, la volontà di Minafra era quella di metterein risalto lo stato d’animo dell’uomo colto in quel partico-lare attimo, con le opere di oggi l’artista cerca di trasmet-tere quello che è invece il proprio stato d’animo, la propriadisposizione emozionale.

E per attuare pienamente questo procedimento di tran-sfer emotivo l’artista si giova dell’esaltazione del colore, delrosa, dell’azzurro, per lo più, che colpisce a volte per la suavivacità e irruenza, ma che è di indiscutibile efficacia per

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Luci nella notte

Frammenti pubblicitari

Ficodindia

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rappresentare la limpidezza e la luminosità del cielo sa-lentino, la trasparenza dei mari e dei fondali del Mediter-raneo, dalle cui profondità pietre triangolari emergono insuperficie per tramutarsi in vele leggere lungo l’orizzonte.Così le plastiche e i vetri iridescenti hanno una valenza po-lifunzionale nell’essere interpretabili soggettivamente allevolte come stelle della Via lattea nella notte di San Lorenzo,in altre occasioni come riflessi dei raggi del sole sulle ondedel mare. Non mancano i toni cangianti ocra e verdi tipicidei campi e degli ulivi, come anche le tonalità pastello del-le facciate delle cittadine costiere, ancora pitturate a tempe-

ra e calce.L i r i s m o ,

quindi, un po’nostalgico, co-me tutte le ri-flessioni cheemergono nel-la stagione ma-tura dell’esi-stenza umana,ma che sor-prende per leimpennate divivacità, venaottimistica egioia di vivere,sentimenti peri quali Minafraopta decisa-

mente, in alternativa di ripiegamento malinconico, e con iquali non può non contagiare anche il fruitore. •

Oltre il tempo

Incertezze e speranze Raffaele Gemma

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Ma chi l’ha detto che la fantasia è semplicementeun’invenzione? Chi può davvero provare che ilmondo trasognato e surreale delle favole, delle

leggende, dei miti, sia soltanto frutto dell’immaginazionedegli uomini, e perciò stesso inesistente? Siamo proprio sicuri che un vecchio cieco, quasi tremila an-ni fa, abbia speso la propria vita solo per raccontarci le sto-rie intricate e affascinanti di una guerra interminabile, deisuoi eroi buoni e cattivi, dei mille amori e intrighi fra la ter-ra e l’Olimpo, di un enorme e bellissimo cavallo di legno pie-no di guerrieri, e l’altra avventurosa epopea di un prode einvincibile eroe di nome Odisseo, disperso per anni per ma-re e per terra, tra maghe, sirene e giganti con un occhio so-lo, e che tutto questo infinito universo di eventi e sentimentinon abbia alcuna corrispondenza con la realtà e il tempo re-almente vissuto? O comunque, con un’altra dimensione asuo modo viva e palpitante?

Dov’è – se mai ce ne fosse uno – il vero confine? Dove fini-scono e dove cominciano i tempi e i luoghi delle belle princi-pesse innamorate, dei cavalieri invincibili, dei draghifiammeggianti, del sogno presunto e della presunta realtà?

Viene perfino da chiedersi se il pragmatismo e il positivi-smo moderni non stiano in certa misura sterilizzando la fan-tasia, portandoci verso una rude materializzazione difantasmi veri, e di streghe e orchi sempre più reali e real-mente mostruosi.

Noi preferiamo ancora i sogni. Stiamo, come abbiamo giàscritto, con i piedi per terra e la testa fra le nuvole. E se an-cora ci commuoviamo per una storia che forse non è verama potrebbe esserlo, allora vuol dire che riusciamo ancoraa sognare. E scusate se è poco.

58. Questa che state per leggere assomiglia più ad alcu-ne fiabe d’altri tempi che a una vera leggenda. Eppure, gliabitanti più anziani di Otranto, ancora ne parlano come diun fatto realmente accaduto, tramandato di generazione ingenerazione, e tutte le volte che si nomina ‘u Toniceddhu, ov-

vero Tonino Orecchiofino, protagonista della storia, si levanola còppola in segno di saluto, per rendere onore alle sue fan-tastiche e generose imprese. Così almeno mi racconta l’ogginovantenne mesciu Mericu, vecchio amico di famiglia, cheabita ancora coi nipoti nella sua vecchia casa colonica nonlontana dai Laghi Alimini.

Ai tempi de lu Nanni Orcu, in una misera capanna nellacampagna otrantina, viveva una povera famiglia di contadi-ni, composta da padre, madre e sette piccoli figlioli. Il piùpiccolo di tutti era anche il più svelto e intelligente, ed era

dotato di un udito for-midabile, tanto che lochiamavano ToninoOrecchiofino.

Arrivò la carestia, euna notte, mentre ibambini dormivano, ilcontadino disse allamoglie: «Moglie mia,vedi pure tu in quali di-sperate condizioni ci tro-viamo. Non posso piùlasciare che i nostri pic-coli si muoiano lenta-mente per la fame.Questa notte stessa liporterò con me nel bosco,li farò dormire lì, e li affi-derò alla fortuna. Forsetroveranno loro stessi undestino migliore».

E così fu fatto, quel-la stessa notte, allor-ché i bambini, stanchidel lungo camminaresi addormentaronosubito.

Orecchiofino, però,avendo ascoltato tuttoquello che s’erano det-ti il babbo e la mam-ma, s’era riempito, prima di partire, letasche di lupini, e di tanto in tanto, du-rante il tragitto da casa verso il bosco, neaveva lasciato per terra una lunga scia.

Sicché l’indomani, al risveglio, quando i fratellini già co-minciavano a disperarsi per essere rimasti soli nel bosco, fu-rono subito rincuorati da Orecchiofino, cheseguendo i lupini disseminati per terra, co-minciò a fare il cammino a ritroso per ritorna-re a casa.

A metà del bosco, i sette piccoli si accorserodi una grotta scavata nella roccia, che la notteprima, al buio, non avevano notato. Curiosi co-me tutti i bambini, bussarono alla porta, chesubito si aprì, e sull’uscio comparve una stregagrassa e piena di brufoli, con i capelli di stop-pa, gli occhi di fuoco e la bocca storta con undente solo. «Sono la Nanna-Orca: che volete?»,disse la vecchia con aria truce ai sette piccoli,facendoli tremare come foglie. E quelli, impau-riti: «Un po’ di carità. Abbiamo fame!». «Ih, Ih,Ih...», ridacchiò la vecchia. «Pure mio marito, luNanni-Orcu, ha sempre fame. Aspettate qui in cu-cina che vado a svegliarlo, così fate colazione insie-me!... Ih, Ih, Ih...».

Quell’ultima risatina non era affatto piaciuta a Tonino Orec-chiofino. «Da che mondo è mondo, ragionò tra sé, li Nanni Or-chi, mangiano i bambini... Vuoi vedere che questo Nanni vuole farecolazione mangiando tutti noi? Meglio nasconderci». E il nascon-diglio più comodo lo trovò in due grandi stivali rossi chestavano vicino alla porta, dentro i quali infatti si rannicchiòinsieme ai fratellini, quattro in uno e tre nell’altro. Scopren-

20 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

Quando muoiono le � Quando �niscono i �

Misteri, prod nell’antica Te

Diciannoves

di Antonio Me

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Bosco salentino

Il lupo e la

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do, poi, che ben na-scosti in fondo allapunta c’erano anchealcuni sacchetti pienidi monete d’oro!

Quando lu Nanni-Orcu, levatosi dal let-to, arrivò nella cucinacon l’acquolina in boc-ca, ma non vide nes-suno, cominciò aurlare contro la mo-glie, rimproverandolad’essersi fatta scappa-re... la sua colazione!«Presto!», strillò.«Prendimi gli stivalirossi delle sette leghe,che con quelli li rag-giungerò velocementeanche in capo al mon-do!».

A questo punto To-nino Orecchiofino, in-tuendo come stavanole cose, diede ordine aifratelli di agitarsi neglistivali come per cam-minare, e infatti gli sti-vali, che erano magici,non appena furono

smossi, imboccarono la porta, pronti peruna corsa veloce, lasciando di stucco sul-la porta lu Nanni Orcu e la Nanna Orca!.

La direzione, naturalmente, la diede Orecchiofino, facendoseguire agli stivali il tragitto segnato dai lupini, e in brevefurono tutti a casa, tra i baci, gli abbracci e le lacrime di gio-

ia dei genitori, che da quel giorno diventaro-no tanto ricchi da poter aiutare chiunque neavesse bisogno.

Chi, ancora oggi, si avventurasse nelle pine-te di quella zona, guardi sempre con attenzio-ne tra i cespugli e il fogliame: magari vi sicelano grotte inesplorate, dove potrebbe abita-re ancora qualche vecchio Nanni Orcu, con lasua moglie e i tesori nascosti.

59. Tiempu d’estate, tiempu de lupi man-nari, si diceva una volta. Quasi che il caldo ri-svegli di per sè certi insoliti istinti, un tempoforse neanche tanto insoliti.

Non è dato sapere se i lupi mannari circo-lassero con maggiore frequenza ieri piuttostoche ai tempi nostri (magari celandosi, oggi, unpo’ più furbescamente sotto insospettabili

spoglie): quel che è certo è che prima, per il gran caldo, nondisponendo di condizionatori e altre moderne comodità,molta gente, in campagna come in paese, dormiva con leporte aperte, e spesso neanche nel letto, ma all’aperto, perterra, accanto all’uscio di casa. E c’era chi non dormiva af-fatto, e andava a spasso di notte, cercando refrigerio, ma cor-rendo altresì il rischio – specialmente se c’era la luna più omeno piena – d’essere scambiati per licantropi.

Spesso erano i fornai, già desti all’alba, a dare l’allarme: ba-stava un’ombra che si aggirasse tra gli alberi o i vicoli, che ilpresunto lupo mannaro era bello che scoperto, salvo a per-derlo poi di vista, perché quello sapeva dileguarsi nel nullacome dal nulla era comparso.

Lupo mannaro o fantasma, è certo che chi soffriva d’in-sonnia era considerato malato, anzi ‘affascinato dal maloc-chio’. E per togliere tale incantesimo bastava rivolgersi allafattucchiera di turno (ce n’era più d’una in ogni contrada,con vari repertori di scongiuri) o andare in preghiera ai San-ti all’uopo deputati, che erano San Donato, nell’omonimopaese, oppure a Lequile, nella chiesa dedicata a San Vito.

60. In tutte le latitudini – e il Salento non fa eccezione –gli interventi miracolosi dal cielo sono fonti di devozionepopolare fra le più sentite.

Novoli, ad esempio. Questo piccolo centro non lontano daLecce è ormai noto in tutta Italia (e non soltanto) per la spet-tacolare Fòcara in onore di Sant’Antonio abate o de lu Focu,che viene accesa la sera del 16 gennaio, vigilia della festa delSanto.

Ma non meno conosciuta, in paese e in tutto il territoriocircostante, è la leggenda che si lega alla Madonna del Pane,festeggiata nella terza domenica di luglio.

È storicamente ac-certato che nell’estatedel 1707 una graveepidemia di peste ave-va flagellato quei luo-ghi, e tutti gli abitantierano in grave soffe-renza, col numero del-le vittime che comin-ciava a crescere pauro-samente.

C’era, in questo dram-matico scenario, unagiovanetta, orfana, po-vera e analfabeta, mamolto devota, di nomeGiovanna, che accen-deva tutte le sere una lampada a olio sotto l’immagine del-la Madonna, posta in una nicchia vicino a casa, e pregava.Una sera, una bella Signora vestita di bianco si presentò al-la fanciulla, le diede del pane, e le disse di portarlo al parro-co perché lo distribuisse ai malati.

Giovanna naturalmente ubbidì. Ma il parroco, rimanendoinizialmente un po’ scettico della storia che gli era stata ap-pena raccontata, e per non incorrere in qualche equivoco oillusione, invitò la Giuànna nòscia (come la fanciulla vieneconfidenzialmente indicata ancora oggi dal popolo) a torna-re dalla Signora per imparare l’Ave Maria. La ragazza andòe tornò di lì a poco, riportando al parroco il messaggio del-la Signora, e cioè che aveva imparato alla perfezione l’AveMaria, essendole stata insegnata da un’ottima Maestra. Al-lora il Parroco capì di trovarsi di fronte a un miracolo, e chela bianca Signora e ottima Maestra era davvero la Madon-na. Distribuì così il pane, bastevole per tutti gli infermi, e dilì a non molto tutti guarirono, e Novoli fu salva, dedicandoalla Madonna del Pane una chiesa che è tuttora sede di gran-de culto.

Buona estate. Alla prossima. •

maggio/giugno 2014 Il filo di Aracne 21

leggende �niscono i sogniQ � sogni, �nisce ogni grandezza

M igi e fantasie erra d’Otranto

sima puntata

ele ‘Melanton’

ra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

luna piena

Novoli (LE) - Madonna del Pane

(continua)

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Le vie dell’arte. Si direbbe che anche le vie dell’incontrocon l’arte siano infinite. La sera del 3 agosto 2013 mi tro-vavo a Giuggianello su invito di Massimiliano Cesari per

assistere alla VI Edizione del Premio “Monolite d’Argento”, checon frequenza biennale conferisce tale riconoscimento a perso-nalità di origini salentine che si sono distinte in ambito cultu-rale, artistico, imprenditoriale e nel volontariato. In quellatornata l’onorificenza fu attribuita all’editore Lorenzo Capone,al direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Carlo Bollino, all’im-prenditore Piernicola Leone de Castris, e allo scenografo Raf-faele Del Savio. Un premio alla memoria fu anche conferito alcompianto Nicola Cesari, pittore e critico d’arte che negli ulti-

mi anni della sua vita si era dedicato con zelo ed entusiasmoall’allestimento del Museo delle Tradizioni Popolari, che proprioa Giuggianello, uno dei più piccoli comuni d’Italia, raccogliereperti e testimonianze preziose di un modo di vivere dellapopolazione salentina ormai scomparso, seppure ancora vivonella memoria. In tale circostanza l’attribuzione del riconosci-mento a Raffaele Del Savio ebbe come motivazione la sua pre-stigiosa affermazione come scenografo di livellointernazionale, ma fu anche evidenziata la sua attività artisti-ca come pittore, scultore, illustratore di libri d’arte, ed anchequella letteraria, essendo egli autore di ben 24 commedie in

dialetto salentino.Dal contatto all’interazione. Fu così che ebbi modo di os-

servare fisicamente una persona che prima non conoscevo, an-che se frequentando spesso Corigliano, il suo paese di origine,ne avevo ammirato alcune opere, in particolare il “Monumen-to ai Caduti” e la “Fontana Monumentale”, che si trovano en-trambi nella villa comunale a poca distanza dal Castello de’Monti. Durante l’ingresso dell’autore sul palco per la premia-zione notai che la sua fisionomia di settantenne di taglia me-dia, snello e ancora prestante, si accompagnava ad unatteggiamento piuttosto impaziente e perentorio, sottolineatoda uno sguardo attento e circospetto, come di chi non ama

molto i fronzoli verbali e preferisce concentrarsi su idee e sti-moli connessi all’azione pratica. A distanza di qualche mese,essendo l’associazione culturale da me presieduta alla ricercadi un copione per attività di carattere teatrale, avviai un con-tatto tramite internet con Del Savio, che risiede a Scandiccipresso Firenze. Da lì è poi scaturita una frequente corrispon-denza, che ha prodotto una feconda interazione basata su in-teressi culturali fortemente convergenti nelle motivazioni esostanzialmente complementari sul piano operativo.

La mostra: “Il tempo e il segno”. Uno dei risultati più signi-ficativi di questa collaborazione è stata l’idea di organizzare

22 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

ARTISTI SALENTINI

Fig. 1 - “Still life” - tempera cm. 40x40 Fig. 2 - “Allo specchio” - tempera cm. 40x40

Raffaele Del SavioLa pittura tra armonia del segno e dinamismo etereo

di Giuseppe Magnolo

Imminente una mostra personale dell’artista coriglianese presso il Museo Civico“Pietro Cavoti” con il patrocinio del Comune di Galatina

Nativo di Corigliano d’Otranto, risiede a Scandicci in Toscana

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una mostra retrospettiva del-le opere pittoriche del mae-stro Del Savio, che nel pros-simo luglio 2014 toccherà inalternanza tre sedi diverse delSalento (Galatina, Museo “P.Cavoti” dal 5 al 10 luglio; So-gliano Cavour, Palazzo Co-munale dal 12 al 15 luglio; eMaglie, Galleria “Capece” dal19 al 26 luglio), presentandoal pubblico 72 dipinti eseguitidall’autore in anni recenti e incircostanze diverse. Essendoio stato in qualche modo par-tecipe sia nelle scelte dei sog-getti che nella predisposi-zione degli allestimenti, sonoin grado di fornire anticipata-mente dalle colonne del Filo diAracne alcune indicazioni suicontenuti e gli aspetti di inte-resse artistico-culturale chel’evento costituisce. Tenendoconto, tra l’altro, che questa mostra segue una analoga esposi-zione realizzata un decennio fa dall’autore nel Castello de’Monti di Corigliano, si può comprendere come essa rappre-senti una tappa importante nel rapporto intenso di Del Saviocon la sua terra d’origine, il luogo per lui non solo di vacanzeestive ma anche ricettacolo di legami affettivi che preservanointatto il loro valore, magari accrescendolo nel tempo, e cari-candolo di nuove implicazioni sia di tipo relazionale che esi-stenziale.

Il realismo figurativo. Venendo al merito, si può affermareche le coordinate fondamentali dell’espressione artistica, comeconcepita da Del Savio, sono sempre riconducibili a dati diesperienza, al vissuto individuale o collettivo. Lo spunto ini-ziale che prelude alle sue realizzazioni è inequivocabilmentefornito dall’osservazione di qualcosa di fenomenico, o di rea-listicamente plausibile seppure immaginario, e comunque ri-conducibile ad un contesto situazionale assolutamente

determinato secondo le con-suete definizioni spazio-tem-porali relative alla quotidianitàcomunemente intesa. La suapulsione creativa si rapportasolitamente con uno statoemozionale ben preciso, cheinnesca un processo osmoticodi rievocazione-contemplazio-ne-prefigurazione, che in rapi-da sequenza conduce l’autoreverso l’ispirazione e la sintesiestetica, che egli dapprimaesplora reattivamente, e quin-di esplicita utilizzando l’ampiagamma di risorse espressiveche il suo linguaggio visivo gliconsente. Ne consegue unaelaborazione compositiva di ti-po preminentemente figurati-vo, rivolta a supportare glieffetti mimetici della rappre-sentazione di persone, oggetti,elementi floreali o anche sem-

plicemente decorativi (vedi fig. 1), sostenuta da un accorto esapiente uso del colore, che accarezza le figure accendendoledi luce o sfumandole in trasparenza, sì da conferire ad ogni di-pinto un effetto che simultaneamente riesce evocativo e sfug-gente.

Selettività e immediatezza espressiva. Il primo elementoconnotativo che viene in mente ripensando all’effetto d’insie-me prodotto da queste opere è il loro carattere di immediatez-za, che si appalesa in una tecnica esecutiva che si avvale di un

segno rapido ed incisivo, consonante peraltro con l’indole di-namica, a tratti persino irruenta dell’autore, che si lascia volen-tieri andare secondo il guizzo del suo entusiasmo finementericettivo verso le sollecitazioni che colpiscono il suo sguardoindagatore avidamente selettivo, proteso verso la ricerca di ciòche con urgenza gli chiede di essere impresso sulla tela inde-lebilmente. Non è infatti casuale che nel proprio autoritratto(fig. 2) egli tenda ad enfatizzare il magnetismo dello sguardo,

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Fig. 3 - “Il vecchio assopito” - tempera cm. 40x40

Fig. 4 - “Sognando” - tempera e acrilico cm. 50x50 Fig. 5 - “Vita alla vita” - tempera e pennarello cm. 40x40

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che sembra proiettarsi verso la realtà circostante in cerca di unbersaglio ben definito. Se Del Savio credesse nella metempsi-cosi, penso che non disdegnerebbe l’idea che la sua anima, pri-ma di reincarnarsi, sia trasmigrata nel corpo di un rapace,magari un falco di cui ancora conserva intatti gli organi di pun-tamento.

Le variazioni tematiche. Si coglie nella caratterizzazione diquesti dipinti una chiara, seppur non del tutto consapevole,giocosità di fondo, propria di chi, accingendosi a tracciare unnuovo itinerario di ricerca estetica, vuol provare ogni volta aripartire ab imis, a rimettersi in gioco azzerando i fondamen-tali della propria arte, allo scopo di reinventarsi una situazio-ne, un tema ispiratore che sia in grado di riproporsi in vestenuova e cangiante. La gamma dei soggetti utilizzati va dallanatura morta alle figure tipiche del folklore salentino (fig. 3),venditori, bagnanti, pescatori che animano le nostre spiagge,con vari studi dedicati alla figura femminile dall’adolescenzaalla maternità (figg. 4-5). Infine diverse opere riportano varimomenti dell’attività artistico-teatrale, che è sempre stata co-sì importante nella vita dell’autore (fig.6). Tuttavia la variazio-ne esecutiva degli elementi tematici da lui scelti e sviluppatiperde il suo attributo di mera ripetitività, per assumere quelloben più alto e significativo di riferimento all’essenza stessa del-la vita, che ad ogni istante si ripresenta uguale e diversa, soprat-tutto mutevole agli occhi dell’artista che non si fermaarrendevolmente al già visto, ma riesce ancora a scoprire il fasci-no dell’inedito che in qualche modo ammicca dietro l’angolo.

Lirismo e dimensione minimalista. Un aspetto distintivo diquest’ultima rassegna di opere pittoriche di Del Savio è il fat-to che essa postula un suo spazio particolare all’interno del

percorso artistico complessivo dell’autore, che annovera altro-ve realizzazioni di portata davvero imponente per effetti e di-mensioni in ambito sia scenografico che pittorico. Bastipensare alla grandiosità degli allestimenti scenografici peropere di grosso impegno, come ad esempio il Balletto Don Chi-sciotte (vedi fig. 7), che stupiscono e affascinano insieme, maanche alle grandi tele pittoriche da lui eseguite (“La vita di unuomo”, “Le maschere, la vita”). Invece nei dipinti di questamostra l’autore sembra essersi riservato un angolo personalefatto di intimità e minimalismo, in cui emerge il gusto del par-ticolare e la cura del dettaglio. È come se in ambito poetico unletterato mettesse temporaneamente da parte ogni enfasi diportata epica per rifugiarsi in una modalità espressiva voluta-mente più semplice, essenzialmente lirica nell’ispirazione, epi-grammatica nella forma, scandita nel tempo in figure esoggetti rappresentati in consonante conseguenzialità, quasiun florilegio composto sommessamente spigolando dei comu-ni fiori di campo, apparentemente poco assertivi, ma carichidi spontanea vitalità e ricchezza cromatica.

Tra classicismo e idealizzazione. È evidente che l’elevatacapacità esecutiva dell’au- tore non è soltanto frutto di doti in-nate, ma passa attraverso una lunga esperienza di studio edaffinamento non solo in ambito di formazione accademica, po-tendosi egli av- valere anche del contatto frequente con perso-nalità di spicco del mondo artistico-culturale. Né menorilevante risulta, dopo il compimento degli studi presso l’Ac-cademia di Belle Arti di Firenze, la sua scelta di vivere immer-so nell’area geografica toscana, che è stata l’incubatrice deigrandi capolavori che a partire dal tardo medioevo hanno co-stituito l’orgoglio della creatività degli artisti italiani attraver-so i secoli. Ma evitando facili rimandi a precedenti illustri daBotticelli a Leonardo, anziché Tiziano o Raffaello, diremo chei tratti distintivi delle opere pittoriche di Del Savio rimangonosempre saldamente ancorati ad una matrice classica, soprat-tutto nella plastica compostezza delle figure e l’armonia dellesoluzioni tecnico-es- pressive adottate. Tuttavia questa basesedimentale, deliberatamente tradizionalista e convintamenterispettosa degli stilemi delle origini, si accompagna ad unamoderna sensibilità di sapore romanticamente idealizzante,che spesso soffonde di velata nostalgia le eteree immagini fem-minili in proiezione cinetica (fig. 8), che l’autore con sollecitu-

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Fig. 6 - “Luci della ribalta” - tempera cm. 70x70

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dine amorevole tenta di sottrarre all’usura del tempo, conser-vandone memoria grazie al magico segno dell’arte.

Verità e bellezza: l’arte come sublimazione dell’esperien-za. Tutti gli esseri umani sono testimoni del proprio tempo inquanto portatori di esperienza, ma alcuni sono anche in gradodi esprimere il bisogno di superamento della realtà vissuta. Èproprio nell’ambito artistico che si realizza quel processo di su-blimazione fantastica che corrisponde ad una ricerca costantedi superiore equilibrio, e che consente specialmente all’artistadi guardare alla vita positivamente, al fine di evidenziarne gliaspetti che più riescono ad appagare l’innato senso della bel-lezza che pervade le più alte aspirazioni umane. L’espressioneartistica rimane lo strumento privilegiato che permette di su-

perare le barriere della pedestre ovvietà, per raggiungere dislancio lo stadio di contemplazione estetica che tende a confi-gurare l’essenza della vita nelle sue forme più esaltanti. Del Sa-vio evita istintivamente di teorizzare sui presupposti e gli esitidella sua attività artistica, e rifugge da qualunque astrazioneche abbia sapore di mero cerebralismo, nella convinzione chela vera grande opera d’arte sia in grado di comunicare com-piutamente all’osservatore ogni suo messaggio. Tuttavia è in-negabile che ilsuo occhio ten-da sempre a po-sarsi alacremen-te su scene ditrasporto visio-nario che espri-mono sensazio-ni di gioiosaesuberanza e fi-duciosa convin-zione nel positi-vo dispiegarsidel potenzialeumano.

Di fronte aisuoi dipinti è fa-cile che ancorarisuoni nelle orecchie di chi li contempla la voce di John Ke-ats, che sommessamente ci ripete il suo verso: “A thing of beau-ty is a joy for ever, Una cosa bella dà gioia per sempre”. •

Fig. 7 - Scenografia per il balletto “Don Chisciotte”

Fig. 8 - “Volo cinestetico”

Giuseppe Magnolo

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Il 10 giugno 1940 il sommergibile italiano “Galvani” la-sciava la base di Massaua, in Eritrea, con l’ordine di

operare intorno all’im-boccatura del golfo diOman.

L’ordine, segreto peri marinai italiani, era,però, ben noto allospionaggio nemico, daconsentire allo StatoMaggiore inglese dideviare il traffico com-merciale da quella zo-na, inviandovi invecela corvetta “Falmouth”e il cacciatorpediniere“Kimberly”.

La sera del 23 giugnofurono tali unità ad av-vistare il “Galvani” inemersione e a bersa-

gliarlo con un preciso cannoneggiamento. L’immersionefu rapida, ma non tanto da evitare che fosse colpita la pop-pa del natante, il quale sarebbe affondato velocemente, seil secondo capo silurista PietroVenuti non si fosse immolato,serrando la porta stagna perevitare l’allagamento dello sca-fo, ma chiudendo se stesso nellocale, che intanto si allagava.

Ormai irrimediabilmente dan-neggiato, al buio, bersagliatodalle bombe di profondità, il“Galvani”, cercò di riemergereper tentare una difesa con il can-none e, insieme, di mettere insalvo i sessanta uomini che co-stituivano l’equipaggio.

Le macchine erano affidate alcapo meccanico Emanuele Per-rone, il quale incontrava ostaco-li sempre più crescenti agovernare il sommergibile, tan-to che, nonostante la sua rico-nosciuta esperienza, riuscì a far

emergere soltanto parzialmente il natante a causa dell’al-lagamento della parte poppiera dello scafo. La situazionedivenne sempre più ardua e difficile, ma, grazie alla pre-ziosa e puntigliosa opera del Perrone, il sommergibile re-stò a galla il tempo necessario per dare modo ad alcunimembri dell’equipaggio di mettersi in salvo, per poi spro-fondare nell’abisso.

Infatti, appena fu dato l’ordine di abbandonare la nave,si salvarono il comandante Renato Spano, il suo vice Goi-ran, altri ufficiali e dei componenti l’equipaggio, tra cui an-che il comandante di macchine.

Colando a picco per la poppa, il “Galvani” trascinò consé ventisei persone, fra cui il Capo Emanuele Perrone edun guardiamarina che, già in salvo, era ritornato a bordoper tener fede alla consegna di distruggere i cifrari.

I sopravvissuti furono tratti a bordo della corvetta “Fal-mouth” che incrociò per ventiquattro ore cavallerescamen-te sul luogo dell’affondamento alla ricerca di eventuali altrisuperstiti.

Una volta a bordo, né il silenzio né i ripetuti dinieghi val-sero ad evitare l’identificazione dei prigionieri, poiché gliinglesi, oltre a conoscere i piani di guerra e i punti di aggua-to affidati ai vari sommergibili italiani operanti nel MarRosso, disponevano anche di un dossier con foto di tutti gli

CORREVA L’ANNO...

Emanuele Perrone

Il sommergibile “Galvani” nel golfo di La Spezia

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ufficiali del “Galvani”. Piani che erano vecchi già di dueanni.

Ora soffermiamoci a narrare la toccante storia nei detta-gli, partendo da quella famosa mattina del 10 giugno 1940.

Il giovane Emanuele, ricevuta la lettera d’imbarco, eraraggiante di gioia per l’improvviso ordine di salpare peruna pericolosa opera-zione.

Scuoteva più volte latesta e un sorriso gli al-largava il viso tra gli oc-chioni azzurri, quandoun suo amico compaesa-no, in servizio a terra,tentava invano di disto-glierlo dal partire.

“Rimani, ti prego, dattimalato, ma non partire.Sento che accadrà qualco-sa”, aveva ripetuto piùvolte l’amico, pur sapen-do che nient’altro potevaattendersi da lui, se non un diniego, un sorriso e una pac-ca sulla spalla.

“Ne ho sentite tante di queste storie di premonizioni in quasivent’anni di mare…” – diceva il capo Perrone – “...A dare ret-ta a tutte…”.

Infatti, Emanuele aveva trascorso vent’anni sul mare e“sotto il mare” da allievo fuochista, appena era stato in-quadrato alla ferma, nel 1922, fino a capo macchinista diseconda classe, in una serie di imbarchi sulle navi “CaioDuilio”, “San Giorgio”, “Montecristo”, sul Mas “Ola”, suisommergibili “N. 10”, “Delfino” e, per ultimo, sul “Galva-ni”, in un girovagare da un porto all’altro, da un continen-te all’altro, con qualche fugace salto nella sua Gallipoli,dalla sua cara Pasqualina, dal suo piccolo Giovanni.

“Ma la guerra è guerra…” – pensava Emanuele – “… e gliuomini devono fare il proprio dovere, a qualunque costo…”.

L’uomo, dopo aver salutato l’amico, inforcò la biciclettae corse via verso il porto ad unirsi agli altri commilitoni.Lungo quell’interminabile strada gli si presentavano viavia barriere, cavalli di frisia, posti di blocco e poi… final-mente il porto e il “Galvani”, alla cui vista gli altri pensie-ri svanirono come d’incanto.

“Navigare e salvare la nave e i compagni” – questo era l’im-perativo, a qualunque costo…

E la famiglia?... E il piccolo Giovanni di cui sta per ricor-rere l’onomastico?

Ci avrà senz’altro pensato Emanuele, certamente! Alfigliolo e alla famiglia sono andati i suoi ultimi pensie-ri… ma l’onore, l’Italia, i compagni, il dovere, a qualun-que costo.

Il destino aveva deciso che il mare arabico si richiudes-se per sempre su quell’unità navale, di cui abbiamo potu-to ricostruire la storia dell’ultima missione grazie alvolume di Teucle Meneghini “Cento sommergibili non so-no tornati” (Edizioni C.E.N. Roma).

Ma se si chiude con l’affondamento la vicenda del “Gal-vani”, le numerose prove di coraggio e di eroismo dei suoiuomini ebbero un seguito luminoso.

Una medaglia d’oro al secondo capo silurista Pietro Ve-

nuti, nativo da Cadroipo (Udine), una medaglia d’argen-to al Capo meccanico Emanuele Perrone da Gallipoli (Lec-ce), medaglie di bronzo a numerosi membri dell’equi-paggio distintisi per episodi di eroica solidarietà e di valo-re, come l’anonimo guardiamarina (almeno per noi, poi-ché non siamo riusciti a rintracciare il suo nome) perito per

distruggere i cifrari.La motivazione della

Medaglia d’argento al va-lore militare “alla memo-ria” concessa ad Ema-nuele Perrone recita: “Im-barcato su sommergibile inmissione di guerra, costrettoad emergere per i gravi dan-ni subiti ad opera di navi av-versarie, all’ordine diabbandonare l’unità in pro-cinto di affondare, si attarda-va all’interno del sommer-gibile nel disperato tentativodi protrarre la galleggiabili-

tà, onde permettere la salvezza dell’equipaggio. Scompariva inmare nell’adempimento del dovere, sempre serenamente compiu-to. Nobilissimo esempio di elevate virtù militari. Mare arabico,24 giugno 1940”.

Il locale gruppo dell’Associazione nazionale Marinaid’Italia ha intitolato ad Emanuele Perrone la propria se-zione. •

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Con grande vivacità ed energia Bruna Bertolo hapresentato, giovedì 27 febbraio, il suo nuovo libro,“Prime… sebben che siamo donne”, presso il circo-

lo dei lettori di Torino. L’opera ripercorre la storia del-l’emancipazione femminile, dal Risorgimento ai giorninostri, attraverso i nomi di alcune delle donne più celebridella storia e, soprattutto, di quelle quasi sconosciute o di-menticate, alle quali l’autrice ha voluto dedicare ricercheapprofondite e ampio spazio nel suo volume.

Ha dipinto figure forti di donne combattenti che non sisono arrese di fronte a un mondo di soli uomini e sono di-ventate un simbolo senza tempo. Donne che hanno lotta-to per altre donne, come Lina Furlan, prima penalista apronunciare un’arringa, che nel corso della sua carriera di-fese soprattutto i diritti femminili; o la sportiva AlfonsinaStrada (soggetto che l’autrice ha confessato di aver amatoparticolarmente), prima donna a competere in gare ma-schili come il Giro di Lombardia e il Giro d’Italia e pionie-ra della parità dei sessi in ambito sportivo.

Bruna Bertolo ha voluto ricordare molte personalità fem-minili, tra le quali spiccano i premi Nobel Grazia Deled-da e Rita Levi Montalcini e personaggi politici comeNilde Iotti e Lina Merlin.

Anche la moda ha avuto un suo spazio con Rosa Geno-ni, prima stilista e imprenditrice italiana.

«Non è una sterile presentazione di nomi e volti di semplice ri-vendicazionismo femminile - afferma con un pizzico d’orgo-glio la scrittrice - ma un modo per dare spazio a segnaliimportanti, provenienti dal mondo femminile, per favorire il len-

to cammino di conquista delle Pari Opportunità nella società delnostro tempo».

Già nel 2011 l'autrice aveva pubblicato con successo ilvolume “Donne del risorgimento. Le eroine invisibilidell’Unità d’Italia”, vincitore del Premio “Ambiente Spe-cial 150°” e filo conduttore della mostra “Eroine di Stile.La moda italiana veste il Risorgimento”, organizzata aRoma per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia e curatadal presidente di Maison Gattinoni, Stefano Dominella.

La passione per la ricerca storica è sicuramente il trattodistintivo della Bertolo.

Laureatasi in storia della filosofia, ha pubblicato nume-rosi libri sull’800 e collabora attualmente con diversi gior-nali, occupandosi principalmente di storia, costume, arte erecensioni di libri. L'amore per il passato contraddistinguesenza dubbio anche il suo ultimo libro, dedicato a quelle‘donne che sono state vere guerriere d'Italia, madri dellalotta per i diritti femminili’, alle quali ognuna di noi devela propria libertà.

A questa “donna speciale” un augurio da parte della Re-dazione de “il filo di Aracne”. •

FRESCHI DI STAMPA

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Come tutte le torri costiere salentine, anche quella di San-ta Maria dell’Alto fu edificata da Re Carlo d’Angiò, ver-so la fine del secolo XVI, per salvaguardare le

popolazioni rivierasche dalle continue incursioni di pirati e disaraceni, che, oltre a saccheggiare e depredare i villaggi e lemasserie, sequestravano uomini e donne in età giovanile pervenderli come schiavi sui mercati del bacino del Mediterraneo.

Proprio per questo motivo sulle coste joniche ed adriatichedel Salento non si trovavano insediamenti urbani, ad eccezionedi Gallipoli ed Otranto, che, essendo ben protette dalla confor-mazione della costa, erano al riparo da eventuali attacchi a sor-presa.

La torre di Santa Maria dell’Alto, chiamata anche torre dellaDannata o del Salto della Capra, comunica visivamente con latorre di Santa Caterina a sud e con la torre Uluzzo a nord.

Il progetto di dotare tutta la costa salentina di torri di avvista-mento ebbe inizio sin dal febbraio 1568, come si deduce da unalettera ritrovata nell’Archivio di Stato di Napoli, in cui il Vice-ré don Parafan de Ribera ne fa espresso riferimento al Presiden-te della Regia Camera della Summaria, Alfonso Salazar. Siriportano alcune parti della missiva: “Negli anni et mesi passatiper servitio di S. Maestà defensione et guardia de li popoli di questoRegno, et per virtù di detti nostri ordini si sono fabbricate alcune tor-ri et altre restano a farsi, et quelle che sono fatte intendemo che biso-gnano visitarse di si stanno bene complite et ben fatte. Febbraio 1568.Don Parafan”.

In seguito, alcuni regi intendenti giunsero nella nostra pro-vincia per effettuare un’attenta ricognizione dei territori da sot-toporre a controllo e scegliere quelli su cui edificare le torri.

Nei pressi dell’attuale cittadina balneare di Santa Caterina, apochi chilometri da Nardò, fu individuato uno sperone roccio-so, che si affaccia sulla baia di Porto Selvaggio. La zona, oltread essere incantevole per natura, offre un’accurata osservazio-ne di un lungo tratto di mare che, partendo da Gallipoli, arrivaalla torre Uluzzo.

Anche la torre di Santa Maria dell’Alto, al pari delle altre tor-ri, fu dotata di alcuni falconetti a canna lunga e di schioppi, dausare all’occorrenza, come da dispaccio dello stesso Vicerè conil quale si ordinava il prelievo delle armi dal castello di Lecce:“Havendo fatto costruire nelle marine del regno alcune torri per guar-dia di quelle et per dar l’avisi necessari quando capitassero nelli maridel regno predetto alcuni vascelli d’infedeli, ci è parso affalché stianoprovviste, come et li soldati che risedono in quelle oltre di dare detti av-visi, si possono difendere, et obviare alli danni, che si potriano commet-tere per detti infedeli, provvedere et ordinare che siano provviste dialcuni pezzi d’artiglieria de metallo, et per adesso fare provedere delliprezzi predetti l’infrascritte torri de le marine de le provincie di Terrad’Otranto […] ordiniamo che al ricevere di questa senza perder mo-mento di tempo dobbiate fare il partito di metallo, et altre prezzo chepotrete, et le farete costruire con ogni prestezza affalché si possano con-segnare in dette torri…Datum Neapoli die X Septembris 1569”.

Sta di fatto, però, che le armi furono consegnate soltanto nel1614.

La costruzione della torre di Santa Maria dell’Alto fu affida-ta al maestro neritino Angelo Spalletta, che iniziò i lavori intor-no al 1570. Il progetto prevedeva la realizzazione di un pianoterra con la cisterna, il deposito e la stalla; di un primo piano,dotato anche di un camino, dove alloggiavano il caporale e i sol-dati; ed infine, all’ultimo livello, la guardiola, posta sulla ter-razza, da cui si poteva effettuare l’avvistamento e si potevasparare con i falconetti contro le imbarcazioni piratesche.

Si era entrati nel 1594 e lo Spalletta, non avendo ancora rice-

vuto l’importo pattuito, si rifiutò di riparare alcuni difetti che sierano manifestati durante la costruzione. Il 5 agosto dello stes-so anno i lavori di restauro furono assegnati al maestro neriti-no Antonio Lupo Mergola.

L’anno successivo, come si evince dai rogiti del notaio Corne-

lio Tollemeto, il sindaco del popolo Bernorio Caballone conse-gnò la torre a Giacomo Sassone, che vi restò, in qualità dicaporale, sino a novembre 1598. Gli subentrò nella carica il con-giunto Giovanni Donato Sassone, perrestarvi fino all’aprile del 1601, quan-do cedette il passo ad un altro paren-te, Lucrezio Sassone, il quale ricoprìl’incarico per ben dieci anni, sinoall’8 giugno 1611.

Nella seconda metà dello stesso se-colo vi prestarono servizio soldatispagnoli, i cui nomi figurano nel Li-ber Mortuorum della Cattedrale.

Forme di commercio illegale, dibanditismo e vari altri fenomeni cri-minosi, tipici di una malavita distampo più che altro corsaro, si veri-ficarono tra il ‘600 e il ‘700 sulle costesalentine, tanto che le autorità si vi-dero costrette ad emanare severeistruzioni e a costituire un “battaglio-ne”, ossia una milizia territoriale ca-pace di accorrere tempestivamentenei luoghi ove i turchi o i pirati eranoapprodati. Il battaglione venne af-fiancato anche da una compagnia dicavalleria, detta “Sacchetta”, che si ri-velò un mezzo assai efficace per com-battere turchi e corsari. Ma ormai datempo i costi della difesa erano di-ventati altissimi in denaro e in viteumane, mentre intanto l’economiastessa languiva, poiché la vita era in-certa e il commercio via mare era diventato quasi inesistente.Per tale motivo le difese delle torri andarono un po’ scemando,ma l’attenzione fu sempre alta in questi luoghi.

I cavallari erano costretti, sia di giorno sia di notte, a spostar-si in lungo e in largo sul litorale per cogliere eventuali piratisfuggiti all’avvistamento. Una volta individuata un’imbarcazio-ne poco affidabile, era trasmesso dall’alto della torre un mes-saggio mediante segnali di fumo o di fuoco, a seconda che ci sitrovasse di giorno o di notte. Al tempo stesso, un cavallaro, si re-cava a spron battuto nella città di appartenenza della torre peravvisare le autorità dell’imminente sbarco.

Di tutti i vari cavallari che si sono succeduti nel tempo, siamoriusciti a rintracciare solo due, e precisamente: Felice Varri, nel1730 e nel il neritino Nicola De Simone nel 1777.

La storiella della “dannata”A questa maestosa torre sono legate alcune drammatiche sto-

rielle, che, però, non sono supportate da documentazione stori-

VIAGGIO IN TERRA D’OTRANTO

La torre di Santa Maria dell’Altodi Mauro De Sica

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ca. Va detto che, forse, qualcosa di vero ci sarà stata. Ve ne rac-contiamo soltanto una, quella che sembra più verosimile.

La storiella riguarda una giovane donna, Angela, figlia di unmassaro, che era prossima al matrimonio con Guido, figlio diun altro massaro. Un amore nato spontaneamente tra i due gio-

vani e non imposto dai rispettivi genitori. I poderidei futuri sposi confinavano fra loro ed erano situati nelle vici-nanze della torre di Santa Maria dell’Alto.

Purtroppo, come spesso accadeva a quell’epoca, le giovanispose, soprattutto se belle, erano co-strette a soddisfare le voglie del feu-datario nella prima notte di matri-monio. In pratica, vigeva lo “jus pri-mae noctis”, del quale abbiamo esau-rientemente parlato qualche anno fasulle colonne di questa rivista.

Il feudatario di Nardò era il fami-gerato e perfido conte Gian GirolamoAcquaviva, storpio sin dalla nascita eguercio, che s’era invaghito della gio-vane sposa. Per tale ragione aveva in-viato due fidati sbirri a presentare aigenitori della sposa l’indecente ri-chiesta. Nella masseria i due avevanoincontrato sull’uscio del portone ilpadre della ragazza, che, nel vederli,aveva avuto un brutto presentimen-to.

“Vogliamo farvi presente che NostroSignore, il conte Gian Girolamo Acqua-viva, pretende che la di voi figlia, prossi-ma sposa, sia accompagnata, dopo ilmatrimonio al palazzo ducale per trascor-rere la notte in compagnia del conte, co-me usi e costumi pretendono”.

“Maaah!...” – ebbe a rispondere ilmassaro, con voce incerta e tremula.

“Non ci sono né se e né ma!...” – ribat-té quello con tono severo – “…Rispetta-

te i patti e vostra figlia avrà la benedizione della Madonna e,soprattutto, del Conte. Subito dopo che vostra figlia si sarà maritata,verrà una carrozza a condurla al palazzo di Nardò”.

Dopo di che i due, senza neanche salutare, si allontanarono algaloppo.

La moglie, che si trovava a poca distanza, aveva intuito ognicosa e s’affrettò a raggiungere il marito, che era rimasto penso-so a capo chino. La donna non fece in tempo ad aprire bocca,che il marito l’aveva già abbracciata, stringendola in una morsadi rabbia e di sconforto.

“Dimmi, che non è vero, Luigi!… dimmi che quelle due bestie t’-hanno chiesto ben altro!… Che nostra figlia si sposerà con i sacramen-ti e che non le sarà torto un capello! … Dimmelo, ti prego!” – gli urlòla moglie.

Luigi rimase in silenzio per pochi istanti e poi, con palpabileemozione pronunciò a stento alcune parole.

“Devi parlarle, Assunta,… devi convincere Angela, altrimenti per

lei e per noi sarà finita!”.Rimasero avvinghiati per molto tempo, senza che nessuno dei

due pronunciasse una sola parola. Durante la notte i coniugi ri-tornarono a discuterne. Decisero che, per il bene di tutti, la figliaavrebbe dovuto accettare, anche se malvolentieri, la propostadel conte.

Il giorno precedente il matrimonio, Angela si svegliò di primamattina. La giovane, per la forte emozione non aveva chiuso oc-chio per l’intera notte. Riscaldò dell’acqua in abbondanza e s’im-merse nella tinozza a farsi il bagno. Si beava e già immaginava letante coccole ed i baci ardenti che il suo Guido le avrebbe dato.

La madre, che non le aveva ancora comunicato nulla, osserva-va le splendide fattezze della figlia e le veniva da piangere, alsolo pensare che, da lì a poche ore, quel bocciolo di rosa sareb-be finito nelle grinfie dell’ingrato conte.

La chiamò a sé, l’avvolse in un lenzuolo di cotone per asciu-garla, la fece sedere e cominciò a pettinarle i lunghi capelli ne-ri. Approfittò della situazione per raccontarle l’oscuro emeschino disegno dell’Acquaviva

“Sai, Angela, il conte Gian Girolamo gradirebbe conoscerti subitodopo il matrimonio!... Forse intende regalarti qualcosa… lui è statosempre premuroso con noi altri” – disse la donna con il cuore apezzi.

“Cosa!?!... Io da lui non ci andrò mai!...” - ribatté aspramente laragazza, avendo capito la frase sibillina della madre – “…Hoprestato giuramento sul Vangelo e nelle mani di don Nicola che saròmoglie fedele sino a che morte non mi separi da Guido… Quel bastar-do non mi avrà mai!”.

E si sciolse in un pianto irrefrenabile.La madre tentò in ogni modo di calmarla. L’accarezzò e l’ab-

bracciò più volte, poi continuò a pettinarla dolcemente e ad ave-re per lei dolci e rassicuranti parole.

Angela era sconvolta interiormente, ma non intendeva più ri-spondere ai miti e persuadenti consigli della madre. Ad Assun-ta quel silenzio sembrò più che altro un assenso, anche se nongradito.

Angela trascorse la notte in preda ad un furore incontrollabi-le. Poi, prima che facesse alba, decise di farla finita. Senza farealcun rumore, prese l’abito da sposa e si allontanò dalla masse-ria per raggiungere la torre di Santa Maria dell’Alto e lanciarsinel vuoto. Dopo poco la giovane era già sull’orlo del precipizio.Piangente, indossò l’abito da sposa, si fece più volte il segno del-la croce e cominciò a pregare.

Madre del Cielo, Madonna della luceeccomi ai tuoi piedi, qui, prostrata

Vergine Maria che conosci ogni misteroabbi pietà di quest’anima dannata.

Io muoio per amore e per fede a un uomoTu salvami dall’inferno Madre Santa

Tu dammi pace lì dov’è l’EternoNon lasciarmi morire sconsolata.Giglio d’amore, madre del Signore

Porta del Cielo, potente imperatriceascolta la mia preghiera, ti scongiuro

avvolgi nel tuo mantello il mio dolore.(1)

Un ultimo sguardo all’immensità del mare e al cielo che giàiniziava ad indorarsi coi primi raggi del sole e si lasciò andarenel vuoto a braccia aperte, invocando il nome di Maria.

Raccontano i pescatori che nei giorni in cui dal mare si levauna leggera brezza, si ode, intorno a quella rupe, il canto melo-dioso della giovane, che preferì togliersi la vita, piuttosto checoncedersi all’infido e brutale conte. •

(1) Preghiera tratta da “Fiabe e leggende di Puglia” di Antonio Errico.

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La torre di Santa Maria dell’Altodi Mauro De Sica

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Il suono delle parole, che per prime furono pronunciate se-coli addietro in quel luogo, che ti avvolgono. In greco.

Candele accese nella penombra.Odore di incenso che sinuoso sale verso la volta.

Sono stato partecipe di una magia. Una magia che mi haproiettato indietro di secoli.

Indietro nella storia. A rivi-vere la storia. Non solo con lamente e i pensieri, ma con tut-to me stesso.

Nella Valle delle Memorie,le memorie hanno ripreso vi-ta, giungendo sino a noi conuna intensità straordinaria.

Una magia resa possibilegrazie al lavoro instancabiledegli amici del Gruppo Ar-cheologico di Terra d’Otranto,e alla presenza di Padre Arse-nio della Parrocchia Ortodos-sa di San Nicola di Myra diBrindisi.

L’antica cripta di San Nico-la, finalmente libera da unmuro di rovi, canne e vegeta-zione che l’avevano resa invisibile alla vista, è ritornata allavita. Nel senso più pieno del termine.

Credetemi, non è stato solo un fatto fisico. Limitato al poterentrare e girovagare tra i pilastri che sorreggono la volta. Labreve cerimonia religiosa ha consentito di entrare nel luogocon un carico di sensazioni, di emozioni che hanno reso pal-pabile e visibile la storia che si è svolta in quei luoghi.

Le operose mani di antichi monaci provenienti dalla Greciacostruirono questo luogo. Le preghiere in greco rivolte a com-memorare le loro anime, i canti della liturgia ortodossa, han-no fatto rivivere tra noi la loro presenza.

Un incredibile ponte tra passato e presente. Dove il presen-te si immerge nei ricordi del passato. E il passato riaffiora e sifa presente.

Alla cripta si accede grazie a tre ampi ingressi frontali e dauno laterale meno praticabile. Difficile dire quale fosse l’esat-to stato dei luoghi all’epoca in cui venne realizzata. Infatti

proprio lo stato e le caratteri-stiche della volta posta all’in-gresso del sito lascia pensareche la copertura potesse esse-re anche più ampia o, comun-que, che terminasse in mododiverso da come oggi appare.

La planimetria del sito èmolto articolata e, a detta delFonseca, la struttura ha subi-to diversi rimaneggiamentinel tempo. Secondo il notostudioso le modifiche più im-portanti sono state realizzatenella parte dell’ingresso e nel-l’area delle absidi, dove ri-scontrò la distruzione dialcuni pilastri, l’apertura diun altro ingresso e l’escava-

zione nelle pareti di numerose nicchie e di un granile.Le tre absidi sono orientate a sud, ma già ai tempi del Fon-

seca (anni ’70) non si riscontrò la presenza di mense o altri ar-redi sacri.

La decorazione paretale è pressoché inesistente. Solo pochetracce di intonaco ad eccezione, su uno dei pilastri di accesso,di un nimbo crocesignato e parte del riquadro che contenevala figura. Molto probabilmente un Cristo.

All’interno vi sono diverse iscrizioni in greco. Purtroppoparziali. In una di questa il Fonseca individua un nome, /\EONTOC, forse quello di un sacerdote. Il possibile resto di

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SU E GIÙ PER IL SALENTO

Nicchie

di Massimo Negro

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una iscrizione votiva.Un altro nome è chiaramente visibile su un pilastro, TE-

OANO (Stefano), dove si riscontrano tracce di affreschi.Riguardo l’utilizzo del sito e l’epoca della sua costruzione,

il Fonseca ritiene che possa avere origini premedioevali. Il chesignifica che esso, o una sua parte, dovesse già esistere quan-do in questi luoghi giunsero i monaci basiliani. E’ probabileche i monaci adattarono a luogo di culto un sito che era natoper altri scopi a noi sconosciuti.

Che la zona fosse abitata sin dai primi secoli dopo Cristo civiene confermato dal rinvenimento, proprio in quella stessazona, di alcune steli incise in aramaico e greco, la cui datazio-ne dovrebbe risalire all’inizio del cristianesimo. Vale la penaricordare l’antica tradizione del passaggio pietrino nella zonadi Otranto.

Ma sono anche altri i collegamenti con la storia che vengo-no in mente. A poca distanza si trova quel che resta dell’anti-ca abbazia di San Nicola di Casole. In una mia precedentenota affronto il tema delle origini di questo sito. Secondoquanto riporta il Codice Torinese, conosciuto come il TypiconCasulanum, il monastero di San Nicola di Casole venne fonda-to nel 1098 -1099, grazie ad una donazione di Boemondo Iprincipe di Taranto e di sua madre Costanza, ad una comuni-tà di monaci basiliani guidati da quello che diventerà il primoigumeneo, Giuseppe.

Il Boemondo fa una donazione ad una comunità di monacigià presente sul luogo. Non ci sono testimonianze dirette, mala cosa è alquanto plausibile se consideriamo quanto riporta-to nel Carme XVII di San Paolino vescovo di Nola (che mori

nel 431 d.C.) dove si legge:“Te quando passi per Otranto e Lecce / virginee schiere di fratel-

li e insieme di sorelle / attornieranno cantando il Signore / ad unasola voce”.

Che questa comunità a cui il Boemondo effettuò la dona-zione fosse quella che abitava nell’antica cripta di San Nicola?Che per continuità e ricordo del loro precedente sito abbianotitolato la nascente nuova abbazia a San Nicola?

Non ci sono risposte certe a queste domande.Di certo è che l’area dove si trova la cripta non fosse un po-

sto isolato e lontano da villaggi. La presenza di numerose ca-vità lungo il costone roccioso fa intendere che lì dovessesorgere un vero e proprio villaggio rupestre. Per non dimen-ticare le tracce, ancora più antiche della presenza di una co-munità siro palestinese.

Ritorniamo nella cripta, che si presenta di dimensioni signi-ficative. Sul lato destro parte un cunicolo che porta verso al-tri invasi ancora non praticabili. La presenza di croci nel trattopercorribile lascia intendere che fossero dei locali comunquefunzionali al sito religioso. Per cui non è difficile immaginare(in mancanza di prove documentarie) che la comunità mona-stica ivi presente non fosse limitata a poche unità.

Lasciamo questi pensieri alle abili menti degli studiosi.A me, mente semplice, è più che sufficiente immergermi

nella pace e nella bellezza di questi luoghi.Il sito è ora visitabile grazie alla disponibilità della proprie-

tà e all’opera del Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto.Un’azione sinergica che ha portato alla nascita dell’Archeo-parco di Torre Pinta. •

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Uno degli ingressi Incisioni su pietra

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IL SALENTO DEI NON SALENTINI

Io sono un istrione ed ho scelto ormai la vita che farò, procu-ratemi voi sei repliche in città ed un successo farò Io sono unistrione e l'arte, l'arte sola e' la vita per me Se mi date un

teatro e un ruolo adatto a me il genio si vedrà... si vedrà...(L’istrione - Charles Aznavour)

"Un paese che si chiama Cocùmola / è come avere le mani sporchedi farina / e un portoncino verde color limone. / Uomini con cami-cie silenziose / fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuo-re. / II tabacco è a seccare, / e la vita Cocùmola fra le pentole / dovedonne pennute assaggiano il brodo".

Inevitabilmente mi sovvengono questi versi di Vittorio Bo-dini mentre mi reco a Cocùmola, piccola frazione di Minervi-no, a trovare l’amico Renato Grilli. In questo borgo incantato,la vita scorre ancora quasi intatta come quando la descrisse ilgrande poeta leccese. E a Bodini infatti il Comune di Miner-vino ha pensato di dedicare un premio internazionale annua-le, “La Luna dei Borboni”, la cui serata finale si svolgeproprio nella centrale Piazza San Nicola di Cocùmola.

Questo piccolo centro dell’entroterra salentino, appena 1000abitanti, ha una sto-ria importante cheparte almeno daiGreci e dai Romaniper poi passare aiBizantini, ai Nor-manni e agli An-gioini. Antico gra-naio della messapi-ca Baste, cioè la vici-na Vaste, secondoalcuni studiosi, dacui forse il suo topo-nimo, per la presen-za di fogge, dallatino “cumulus”,nel senso di raccol-ta, accumulo, gra-naio. Più probabile però, secondo gli storici, che il nome delpaese derivi da un'altra parola, "cùcuma", cioè piccolo vasodi creta, supponendo che nel paese in passato vi fossero bot-teghe artigiane dedite alla produzione di terrecotte.

Cocùmola sul far della sera mi accoglie avvolgendomi conla pace del suo silenzio che rinfranca. Nella Piazza San Nico-la c’è una piccola bottega di barbiere. Ed è lì che mi attendeRenato Grilli, che mi saluta, mentre le mani esperte del suoparrucchiere di fiducia acconciano la sua chioma fluente einargentata, come la luna piena che dall’alto di un cielo idrun-tino di gennaio ci sorride sorniona. Il barbiere non suona ilviolino però, come mi sarei aspettato, e dunque appena termi-nato il suo lavoro, usciamo e ci dirigiamo a casa di Renato, apochi metri da lì. I gatti, abituali frequentatori delle strade edei vicoli dei nostri paesi, non si scompongono più di tanto al

nostro passaggio, len-to e assorto, come laloro calma sonnac-chiosa. Renato mi par-la ed io non posso fare ameno di restare catturatodal suono della sua voceche fa sentire quegli accenti,quella profondità, quei colori chesolo una voce d’attore può assumere.

Renato Grilli, fondatore del “Teatro della voce”, laureato alDAMS di Bologna, attore, regista e autore, ha avuto varieesperienze con compagnie di prestigio, fra cui il “Teatro degliOpposti”, il “Teatro Evento”, “Il Cerchio”, “Salsa Voltaire”, ecc.Lavora da molti anni sulla didattica della Shoah e degli ster-mini del Novecento. Ha realizzato i percorsi – spettacolo:“Prima della Shoah” 1996 – “La Leggenda Del Golem” 1997 –“Canzone del Popolo Rom” 1999, al Museo del Deportato Poli-tico e Razziale di Carpi (Modena) - e “Purim Io vi Racconto”2006, al Centro Sociale della Comunità Ebraica di Bologna e

all’UCEI di Roma.Particolarmente si-gnificativo e coin-volgente è stato ilprogetto “Nigunim -I tal Yà”, partito nel2007: una serie di re-cital ispirati alla cul-tura ebraica, come“Klezmer Meschuge”,“Antiqua Passio Vege-talis”, “Ex OrienteLux”, “Nigun tradi-zione orale”, “La pacemediterranea”, “Sha-lom Tango” e “Rebir-thing Memories -Racconti e poesia, mu-

siche e canzoni Klezmer e Sefardite”, con Renato Grilli alla voce,Rachele Andrioli al canto e Rocco Nigro alla fisarmonica. Unospettacolo sulle tracce delle antiche presenze ebraiche in Sa-lento e in Puglia, una accurata scelta di brani della culturamusicale Klezmer e sefardita alla ricerca dell'incontro tra lelingue e le melodie mediterranee. Penso a quanto importantisiano stati questi incontri, non solo per il pubblico ordinarioe variegato delle serate culturali salentine, ma a maggior ra-gione per gli alunni delle scuole dove questi spettacoli sonostati portati, grazie alla lungimiranza di alcuni dirigenti sco-lastici illuminati. Del pari interessante l’altro progetto, “Teatronaturale”, con recital come “Viva la luna”, “Omaggio a Salvato-re Toma”, “Ruota dei santi”, sempre a cura del trio Grilli-An-drioli-Nigro, con la produzione di Renato Grilli.

Renato ha studiato a lungo l’opera e la figura di Franz Kaf-

IL SALENTO DI RENATO GRILLITRA BELLEZZA E DESOLAZIONE

di Paolo Vincenti

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ka. Ha scritto molti anni fa un monologo, “Sosia”, ispirato dal-la curiosa somiglianza che lo stesso Renato da più giovaneaveva con una foto dello scrittore da adolescente. Ha poi mes-so in scena una riduzione dal romanzo “America” (Hamburg– New York, Ravenna, Teatro Rasi, 1982). Nel 1986, a Roma,era il sosia di Kafka nello spettacolo del “Doppio Teatro Sciacal-li ed Arabi” di Ugo Leonzio, all’Oratorio del Carovita. Nellostesso anno, venne scritturato da Federico Fellini per il film“Ginger e Fred” in cui in-terpretava proprio il sosiamuto dello scrittore.Qualche anno fa, memoredi questa passione lettera-ria, Grilli ha scritto diret-to e interpretato lo spet-tacolo “Kafka Ridens”, incui quel sosia muto delfilm parlava liberamente,ispirandosi ai Diari e alLibro di preghiere diFranz Kafka, conosciutocome “Aforismi di Zurau”,opera postuma, comequasi tutte le altre, escampata al rogo dei libridel grande autore praghese. Il “ridens” del titolo indicava unalettura inedita dell’opera di Kafka: cioè, attraverso i riferimen-ti alla cultura chassidica, al teatro yiddish, alla Kabbalà ebrai-ca, una interpretazione più divertita e ironica. “Teatro dellavoce”, mi spiega Renato, perché è tutto nella voce e tutto losforzo del mio amico sta punto nella voce e nell’interpreta-zione, a partire da una corretta lettura del testo. Nato inAbruzzo ma emigrato presto a Bologna per motivi di studioe poi di lavoro, in questa città ha pure cono-sciuto la moglie, con la quale condivide il suofrastagliato percorso di vita. Ha risieduto alungo a Roma ed ha viaggiato in molte cittàd’Italia per motivi professionali prima digiungere, ultimo ma non ultimo di una lun-ga schiera di malati d’amor salentino, in que-sto eremo di pace e tranquillità, suo approdoforse definitivo, nel Salento cocumolese do-ve spesso, nelle vuote oziose giornate inver-nali sferzate dal vento di tramontana, amaraccogliere fiori di campo sui tratturi idrun-tini che portano al Faro della Palascia o a SanNicola di Casole, fra muschi e licheni, o a Ba-disco ornata di asfodeli, timo e mortella. Mifa vedere la sua deliziosa casetta e il giardi-no retrostante dove vigila in paziente attesail cane suo compagno fedele, una dolce ma-remmana di 5 anni. I libri, il computer, i cd,il registratore non possono mancare sulla scrivania di un at-tore, sono i ferri del mestiere di questo cerusico dell’animache è l’istrione.

Renato tiene dei corsi sulle diverse possibilità di emissionedella voce, nelle tonalità, nei volumi, nelle estensioni, nei rit-mi, attraverso esercizi vocali e di respirazione e l'utilizzo ditecnologie foniche. Faro illuminante nella carriera artistica diRenato Grilli è stato ed è Carmelo Bene, con la sua ricerca teo-rica ed espressiva sulla fonè, Carmelo Bene, “Il talento e la vo-ce”, come recita il titolo di una recente pubblicazione a cura diAntonio Zoretti (per Lupo Editore), Carmelo Bene, con il suogrande talento creativo, al quale Renato deve certo ricono-

scenza. Penso al recital “Non c’è bene”, dedicata al genio sa-lentino, e al corso “Non c’è bene. Vita, morte e miracoli di C.B.”,tenutosi qualche tempo fa presso la Libreria Universal di Ma-glie. E’ tutto nella voce, è vero, ma se gli chiedo quale meto-do ha fatto proprio, Renato mi risponde di essere figlio deimetodi, scolastici, teatrali, politici, di pensiero, ma che di que-sti metodi ha conosciuto le poche virtù e soprattutto i molti li-miti. Cosicché preferisce dire di avere solo il suo, di metodo,

e di esserne spesso ancheincerto. Così come se gliparlo di Carmelo Bene,“da lui ho avuto solo maledi-zioni”, mi dice, “come, peresempio, ‘di qualità si muo-re’. Me ne sono liberato coltitolo di una recente mostra,Freedom Not genius”. Ca-pisco che per un attore co-me lui, è dura vivere dellapropria arte, capisco dallesue parole che la scelta dirisiedere stabilmente nelSalento ha le sue luci e lesue ombre, come nella vi-ta di tutti. Il Salento è per

Renato bellezza e desolazione, che qui più che altrove coinci-dono. Capisco che un attore, marionetta comica o tragica sul-la scena, una volta sceso dal palcoscenico, è un uomo cometutti gli altri, anzi lo è di più, o di meno, a seconda dei puntidi vista, perché possiede in sé una sensibilità profonda che lostringe con le ansie, con le paranoie, le gioie e i dolori del vi-vere quotidiano. Un attore, smessi i panni dell’ultimo perso-naggio interpretato, è un uomo tale e quale a me, con le

bollette da pagare a fine me-se, le noie e gli affanni di tut-ti i giorni, le scocciature, levisite di parenti, i rompisca-tole da evitare, le file alla po-sta e in banca, la spesa alsupermercato con un occhioalle offerte e ai negozi delcentro nel periodo dei saldi.E’ vero, la vita è dura, ma ri-concilia, magari, il sorriso diun giorno di sole, come pureandare raccogliendo pietresu sentieri di campagna, inquesto sud del sud, osserva-re il volo di una tortorella colsuo bianco collare, o i volteg-gi di uno stormo di pettiros-si in un mattino di corbez-

zoli, di rucola o di capperi di scoglio. E a me, umile cartogra-fo di anime e ladro di emozioni, sempre a frugare fra le vitealtrui, piace fare mia per un momento, per una sera cocu-molese di condivisione artistica ed umana, questa sua vita,ordinaria e al tempo stesso straordinaria, così comune ep-pure così unica. •

3

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1. Renato Grilli2. Cocùmola (LE) - La piazza3. Renato Grilli durante un performance4. Renato Grilli e Carmine Bianco

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L’estate nella casa colonica della “Vadea” durava sem-pre da marzo a novembre e, chissà perché, non coin-cideva mai con quella meteorologica.

Come non coincideva mai la durata della notte con quel-la del giorno, che era sempre più lungo più del doppio,sconfessando ogni teoria astronomica sul solstizio d’esta-te e su quello d’inverno.

Ma non solo!Nella “Vadea” il solstizio d’estate non durava mai solo un

gior- no, come in tuttele altre contrade.

Lì cominciava a mar-zo e rimaneva semprecostante e immutabileper tutta l’estate, cioèquella estate che il pa-dre di Chicco riuscivaa far durare quasi no-ve mesi.

Se gli si chiedeva aquali modelli matema-tici facesse riferimentoper fare certe previsio-ni di così lunga durata,rispondeva con un sor-risetto malizioso, di si-curo disarmante equasi canzonatorio.

E in questa surrealecornice meteorologica, la pausa pranzo, durante i giorni la-vorativi della vuttisciana, era talmente breve che non c’eratempo nemmeno per stare seduti.

Si mangiava in piedi, camminando intorno al tavolo eandando incontro alle pietanze come se si fosse allestitoun moderno buffet.

Certo non si impiegava molto tempo per mangiare ‘nupiattu de cucuzza e ddo’ ove dellassate.

Solo i più piccoli, a causa della loro statura, mangiavanoinginocchiati sulla sedia, se così poteva chiamarsi un tra-biccolo costruito cu ‘na tàvvula e cuatthru piedi ‘nchiuvati damesciu Cici, un anziano falegname di fiducia, che aveva bot-tega nel Centro antico del paese.

Questi, di tanto in tanto, a cicli quasi costanti, veniva incampagna cu lla cascetta de li fierri, legata sul portabagagli

della bicicletta.Si trattava di un bauletto, a forma di parallelepipedo

rettangolo lungo appena un metro con una larghezza ealtezza di circa sessanta centimetri, costruito da lui stes-so con un fondo di legno di faggio rinforzato sui lati darobuste stecche dello stesso legno, mentre con un foglioleggero di compensato aveva modellato le pareti lateralie il coperchio.

Dentro c’era di tutto, sembrava il pozzo di San Patrizio.Un martello da car-

pentiere con una crestaa tenaglia, pinze, scar-pieddhru, giravite, viti echiovi di tutte le misu-re (puru le semenzelle),un barattolo di colla,un barattolo di vernicetrasparente, serretto,chiànula e cerniere divarie misure.

Non mancava qual-che serratura usata,qualche saliscindi ‘rrug-ginitu, un barattolo decrassu, ‘na pumpettad’oju, nu pinnieddhru enu paru de stozzi de car-tavetru.

Lungo la canna dellabicicletta, fra l’attaccatura della sella e il manubrio, porta-va legato un piccolo fascio di stecche di legno, di varia mi-sura in lunghezza, spessore e altezza.

La bicicletta era una vecchia “Bianchi” con telaio e ma-nubrio rruggiati e scozzicati, ma perfettamente funzionan-te, col mozzo, catena e pedivelle ben oleate, mentre per icopertoni delle ruote tuccava cu tti raccumandi l’anima aDiu.

Anche la sella aveva i suoi problemi, appiattita e induri-ta comu ‘na pala de baccalà.

Le molle sottostanti avevano ceduto e gli angoli poste-riori dell’imbottitura presentavano squarci vistosi e irre-parabili.

Portava con sè il suo laboratorio ambulante da falegna-me, come facevano tanti altri artigiani del tempo.

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SUL FILO DELLA MEMORIA

Bicicletta con attrezzi da lavoro

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Appena Fido lo intravedeva lungo il vialone, dopo svol-tato l’angolo della via nova (la Provinciale per Lecce), glicorreva incontro abbaiando in segno di festa e di benve-nuto.

Lo lasciava passare, perché ormai lo considerava comeuno della famiglia e perché lo conosceva molto bene, ma-gro e siccatu comu ‘na sthrafica, con la sua còppula grigia aquadratini e con un mozzicone di sigaretta fra le labbra,quasi sempre spento.

Fumava poco, anche se il padre di Chicco spesso gli re-galava del tabacco trinciato, o siccatu, a secondo della sta-gione, che conservava in un piccolo sacchetto di tela neltaschino della giacca.

Andare per campagne e per case coloniche era una buo-na, saggia e remunerativa pratica, perché se non si incas-sava denaro, ci si pagava in natura, facendo, con il baratto,la provvista per l’inverno, in particolare con qualche man-giata de fave, cìciari, pisieddhri, pasuli e, a volte, puru cu nnucrottu de ‘sthrattu e de fiche siccate.

Come tutti gli artigiani metteva in pratica l’antico ada-gio: “se Maometto non va alla montagna… ecc. ecc.”.

Li cconzambrelli, li mmulaforbici, i ferrari, li cconzalimbi, ifabbricaturi e i lattatori erano i più assidui frequentatori.

Gli unici che, alla Vadea, non potevano fare lavori in tra-sferta eranu lu caddararu e lu scarparu.

Il primo perché adduceva il pretesto di non poter tra-sportare con sè furnicetta e mantice fuori dal laboratorio equindi si era costretti a portare presso la sua bottega men-

ze, bruffalore, sicchi, pompa a spalla e menzuni, quando ave-vano bisogno di qualche urgente riparazione.

Il secondo perché in campagna si camminava semprescalzi per quasi otto mesi all’anno.

Poi perché per farsi confezionare un paio di scarpe nuo-ve bisognava chiedere un mutuo in banca.

Mesciu Cici, in particolare, era il più assiduo frequenta-tore, perché sapeva che c’era sempre qualche cosa da ri-parare.

Si prestava a fare di tutto.Sostituiva un vetro rotto, o cambiava una cerniera arrug-

ginita della porta della tromba della scala, o verniciava edequilibrava i cassetti del comò, o sostituiva il piede a unasedia, o incollava la cornice del quadro de lu Core de Gesù,o chianulisciava un’anta della porta della cucina, ca ia cun-fiatu per l’umidità.

Lubrificava la serratura della porta di casa e quella del-la stalla e molto raramente provvedeva alla loro sostitu-zione a motivo della loro robustezza e anche della spesa.

Erano serraturedi ferro, molto effi-cienti, che utilizza-vano chiavi lunghee possenti.

A volte dovevasostituire anche larete metallica o ri-parare la porta del-la caggiòla de le cad-dhrine, manomessadi notte da qualchevolpe affamata.

Lasciava in giroun odore di colla edi vernice, che in-curiosiva e facevaarricciare il naso.

Anche rari ric-cioli di vampuje,scivolati dalla pial-la e sparsi per ter-ra, che il vento rincorreva e raccoglieva intorno a ‘nachianta de brucacchia, davano un tono di allegria e lascia-vano il segno del passaggio discreto e silenzioso de Me-sciu Cici.

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“Talaretti”

Cconzalimbi

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38 Il filo di Aracne maggio/giugno 2014

A volte, sospinti a vortice da qualche improvviso muli-nello, ingannavano il gatto di casa che balzava d’improv-viso dal suo finto torpore, pensando si trattasse de qualchesòrice sbandatu.

Quando doveva‘mpellicciare e riverni-ciare i mobili (un vec-chio tavolo rettango-lare e una cagionevo-le credenza) del sog-giorno, rimaneva ospi-te a pranzo, perché la-vorava ininterrotta-mente dalla mattinaalla sera.

In un paio di giorniriusciva a portare atermine il restauro, in-tervallato da qualchebattibecco col padredi Chicco.

Ma il lavoro più im-pegnativo cadeva agliinizi del mese di giu-gno, in preparazionedella raccolta del tabacco.

Doveva controllare e revisionare tutti i talaretti, stipatinella ramesa.

Alcuni erano talmente mal messi, ca se sbricava prima, seli facìa a tavuleddhre.

Ma la sostituzione con altri nuovi di zecca diventava unproblema.

Il padre di Chicco, a motivo della spesa, non sempre ac-cettava questa soluzione e allora zziccavanu ‘e zzelle.

Infatti il prezzo del legname occorrente per la costruzio-ne de li talaretti novi era quasi proibitivo e al magazzino deli Scioli, situato sulla via de la Porta Nova, non c’era alcunapossibilità di pagare a ddare e bbire.

Servivano i contanti, di cui si disponeva solo verso no-vembre, dopo il conferimento del tabacco alle Concessio-narie.

Alla fine, dopo tanto discutere e ragionare, sembravaavessero raggiunto un compromesso, salvo poi, al momen-

to de fare li cunti, stìanu puntu e de capu.E facìanu stozze.Ma solo a parole, perché, dalli e dalli, fra “nu cc’è tti dice

la capu”, “nu và a quelpaese”, “si’ nnu lathru”,“tie ‘nvece si’ nnu‘mbrujone”, ”tie, ‘nvece,si’ cusì taccagnu, ca latirchia ti cade a scarde desusu” un punto d’in-contro, anche se fatico-samente, lo trovavanoquasi sempre.

Ma ce ne voleva deltempo, prima dellatregua.

Poi cu ‘na lampa de vi-nu, settati su llu pazzulusotta ‘llu noce, e nu‘nsurtu de casu cu ddo’vùnguli onoravano iloro impegni, ma so-prattutto la loro amici-zia.

Oltretutto entrambisapevano che non potevano interrompere i loro rapporti,perché a settembre dovevano rivedersi (e litigare di nuo-vo).

Arrivava il tempo della revisione di tutte le cascie, ca-pienti cassoni rettangolari realizzati con stecche di legno dipino montate a riquadri.

Esse servivano, foderate con fogli di carta marrone chia-ro fermati sui lati con semenzelle rinforzate con pezzetti dicartoncino (non si potevano comprare le punesse), per ‘nca-sciare li chiuppi de tabbaccu siccatu, che fra novembre e di-cembre si vendeva alle Concessionarie del posto.

Il rituale che veniva fuori dagli incontri (o dagli scontri)fra Mesciu Cici e il padre di Chicco era sempre lo stesso:discussioni e riappacificazioni.

Quando non accadeva, c’era di mezzo qualche proble-ma di salute.

Ma a volte mancu la freve li fermava. •

Concessionaria Monopoli di Stato di Lecce Ufficio per la consegna del tabacco in filze in casse di legno

pippi onesimo

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