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Racconti fantasy e avventure classiche celebri 3 È tutta un avventura IL PIACERE DI LEGGERE AVVENTURE PIENE DI MAGIA M. Gruber Signora Foresta p. 36 P. Pullman Una zolla erbosa, una gatta e due ragazzi p. 42 ALLA SCOPERTA DI TESORI E MISTERI A. Dumas Un terribile segreto (1ª parte) p. 50 A. Dumas Un terribile segreto (2ª parte) p. 58 Antologia 2

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Racconti fantasy e avventure classiche celebri

3 È tuttaun’avventura

IL PIACERE DI LEggERE

AVVENTURE PIENE DI MAgIA

M. Gruber Signora Foresta p. 36

P. Pullman Una zolla erbosa, una gatta e due ragazzi p. 42

ALLA SCOPERTA DI TESORI E MISTERI

A. Dumas Un terribile segreto (1ª parte) p. 50

A. Dumas Un terribile segreto (2ª parte) p. 58

Antologia 2

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Il pIacere dI leggere

Antologia 2

Michael GruberSignora ForestaLa storia di una donna che viveva tutta sola nel cuore di una grande foresta e nessuno (neppure i più anziani) sapeva dire da quanto tempo.Un giorno, succede qualcosa di veramente inatteso…

C’era una volta, in un paese lontano lontano, una donna che viveva tutta sola, nel cuore di una grande foresta. Aveva

una casetta, un giardino e un grosso gatto grigio. Non era né bella né brutta, né vecchia né giovane, indossava abiti modesti, del colore delle pietre, e tra gli abitanti della zona nessuno (nep-pure i più anziani) sapeva dire da quanto tempo vivesse da quel-le parti.Una mattina di primavera la donna si avviò in cerca di erbe e piante. Camminava senza far rumore e rileggeva la lista che ave-va preparato, perché ultimamente tendeva a dimenticare le cose meno importanti. Superò la vecchia quercia, uccisa da un fulmi-ne e ormai cava per metà, dove la gente del posto era solita la-sciare cose per lei, e udì uno strano, flebile lamento. Si fermò, volse lo sguardo e vide che nell’incavo della quercia c’era un ce-sto di vimini. «Che mi abbiano lasciato un maialino?» si doman-dò. Ma quando si fece più vicina, il cesto diede uno scossone e si sentì l’inconfondibile pianto di un neonato. Legato al manico del cesto, trovò un biglietto scritto da una mano rozza che diceva:

Il figlio del demonioper la moglie del demonio.

– Bene, bene – si disse – vediamo che cosa ci ha lasciato questo maleducato. – Aprì il cesto e vi guardò dentro. – Oh, cielo! – disse ad alta voce, guardando il bambino più brutto che lei, e forse chiunque altro, avesse mai visto. Aveva un grugno suino e occhi vicini tra loro, con una particolare punta di giallo. La bocca, grande e cascante, era già piena di piccoli denti squadrati. Era ricoperto di una ruvida peluria scura, che somigliava alle setole del maiale, e aveva grandi orecchie appuntite, come quelle di un pipistrello. Anche il suo corpo appariva strano, come un sacco pieno di sassi, piantato su piedi fuori misura. Di tutti i suoi tratti, solo le mani si potevano definire bel-le, con lunghe dita delicate che si chiudevano all’agitarsi delle tozze braccia.

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Sembrava in buona salute e, quando la donna si chinò e gli toccò la guancia con il dorso della mano, la creatura lanciò un grido vigoroso e cercò di afferrarle il pollice con la bocca.– Hai fame, vero? – domandò. – Non lo sai che le streghe dovreb-bero mangiarli i bambini, e non sfamarli?Il brutto bambino si mise a gorgogliare, spingendosi più forte contro la mano della donna. I suoi occhi gialli guardavano af-famati gli occhi grigi di lei. La donna sentì scoccare tra loro la scintilla di una magia più antica della sua e ne rimase sbigottita.«Ma cosa vado a pensare?» si domandò. «Come posso tenere un bambino? Non sono mai stata tanto sentimentale, prima». Si vol-se al bambino e disse: – Sarai la cena della lince o del lupo gri-gio. Questo è il tuo destino. Scostò la mano e fece per andarsene, ma il piccolo, sentendo al-lontanarsi la calda presenza della donna, riprese a lamentarsi. In un baleno, quasi senza pensarci, la donna lo prese in braccio e se lo strinse al seno. Il bambino gorgogliò e la fissò negli occhi con inconsapevole intensità.– Be’ – sospirò la donna – sembra che saremo costretti a stare in-sieme, fagottino. Non ho idea di come faremo o cosa ne sarà di te. Non ho mai sentito che una donna della mia sorellanza abbia allevato un bambino, ma ultimamente il mondo è pieno di cose nuove e inquietanti, e questo potrebbe esserne un esempio. Ed è toccato proprio a me. Forse sarà di insegnamento a entrambi.Ripose con cautela il bambino nel cesto e lo portò con sé, tor-nando da dove era venuta. Le poche persone che incontrò la sa-lutarono guardinghe con un cenno del capo, cedendole il passo sul sentiero, ma nessuno accennò ad avviare una conversazio-ne, come avrebbero probabilmente fatto con chiunque altro. Gli abitanti della zona erano taglialegna, cacciatori di animali da pelliccia, carbonai e i pochi contadini che coltivavano le scarse radure. La consideravano strana, perché aveva la sconcertante abitudine di apparire senza preavviso oltre una curva del sentie-ro oppure, mentre lavoravano, avvertivano all’improvviso la sua presenza con la coda dell’occhio, come un filo di fumo che si leva da un lontano falò. Neppure in autunno, quando persino i coni-gli nel sottobosco fanno rumore, la sentivano arrivare. Sebbene in queste occasioni salutasse cortesemente, era di poche parole e proseguiva silenziosa, sparendo alla vista. La sua voce era bassa e chiara, e priva dell’accento nasale caratteristico di quella zona. Non aveva amici e non si dedicava ad alcun commercio, almeno all’apparenza.Si facevano molti pettegolezzi su di lei, come è normale che ac-cada in un villaggio. Qualcuno raccontava di averla vista com-parire in pieno giorno dalla roccia, scoprendo poi che non c’era-

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no aperture né grotte, ma solo una solida parete nera. Qualcun altro diceva di averla vista spesso passeggiare insieme al timido capriolo e una volta persino con un enorme orso bruno, chiac-chierando e fermandosi ad ascoltare, come se stesse conversan-do del tempo o del raccolto delle castagne. I ragazzi della zona si sfidavano l’un l’altro a percorrere il sentiero che portava alla sua casetta e a spiare dalle finestre di notte. Nessuno lo aveva mai fatto, ma le menzogne in proposito si sprecavano. Alcune del-le donne più anziane lasciavano cestini di frutta o ciotole colme di crema di latte e di marmellata nell’albero cavo in capo al suo sentiero, proprio là dove qualcuno le aveva lasciato quel giorno un dono ben più strano e meno gradito. I più rozzi frequentato-ri della foresta le lasciavano, nello stesso posto, borse di pelliccia ricavate con abilità dalla pelle di una faina oppure vasi in pietra pieni di liquore di sambuco che distillavano in autunno mentre aspettavano che il cumulo della legna nelle carbonaie finisse di bruciare. Erano persone semplici, ancora in grado di cogliere i risvolti più bizzarri della vita e, per quanto fossero timorate di Dio, ricorrevano ancora ai sacrifici per accattivarsi i favori delle forze che li toccavano più da vicino.Inventavano storie su quella donna, per passare le serate e spa-ventare i bambini quando era ora di dormire: raccontavano come sapesse cambiare aspetto, trasformandosi in un corvo o in una volpe rossa; come facesse inacidire il latte o rendesse inutili le trappole con un solo sguardo; e cosa facesse nella sua casetta ai bambini che non obbedivano ai grandi. Questi racconti si arric-chivano di dettagli con il passare degli anni, e fu così che finiro-no per chiamarla «strega».Cose di questo genere accadevano spesso alle donne che viveva-no sole e per lo più non recavano alcun danno, anche se poteva capitare che qualche vecchia stupida, trattata come una strega e illusa da qualche regalo, potesse convincersi di possedere davve-ro il potere di far piovere o di far innamorare, e finisse nei guai.Ma questa donna, in particolare, era veramente una strega.Non era malvagia, ma neppure si scomodava spesso a fare del bene. Era come una montagna degna di venerazione, la cui vet-ta in inverno è coperta di neve, che da un momento all’altro può provocare una valanga. Così, attorno a questa cima, tutti si muo-vevano in punta di piedi, anche se normalmente la neve non fa-ceva altro che gonfiare i torrenti in primavera senza creare dan-ni alla campagna.Questa donna aveva un nome, ma nessuno nella foresta lo co-nosceva. Meglio così, dal momento che se mai qualcuno lo aves-se pronunciato, si sarebbe procurato una gravissima bruciatu-ra alla lingua nonché a gran parte del terreno circostante. La

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gente la chiamava «Tranquilla Signora» oppure «Signora Foresta» o, più comune-mente, roteando gli occhi o scuotendo la testa in un certo modo, «Quella» o «Lei». E tutti sapevano di quale Lei si trattasse.La donna impiegava il suo tempo in modo ben diverso da quel che pensava la gen-te. Non scorazzava a cavallo di una scopa, non faceva visita al diavolo e non cucina-va bambini per cena. Per lo più si dedica-va allo studio del mondo, sia delle parti che tutti possono vedere – il mondo fatto di roccia e di fiori, di pioggia e di inset-ti – sia delle parti che non vediamo, ma che a volte riusciamo ad avvertire con un formicolio alla nuca o un brivido lungo la schiena, quando ci troviamo in un bosco frusciante e le nuvole corrono nel cielo velando la luna piena.Sapeva ascoltare. Neppure le pietre avevano segreti per lei: non solo capiva il linguaggio degli animali, come molte altre perso-ne, ma anche le voci dei fiori di campo e degli alberi del bosco. E poteva parlare nelle loro lingue, cogliendo così la saggezza se-greta racchiusa nel grande fiume della vita che risale senza in-terruzione fino alla creazione del mondo.Grazie alle proprie conoscenze operava magie e non solo del tipo che consideriamo tale oggigiorno – trasformare il piccolo in grande e il grande in piccolo, rendere morbido il duro e duro il morbido, scambiare di posto il sopra e il sotto – sebbene potesse fare di queste cose e altre ancora con la stessa fatica che costa una grattatina al naso. No, quello che faceva per la gran parte del suo tempo era talmente strano che persino il ricordo delle pa-role per descriverlo è svanito del tutto. Si potrebbe dire, se pro-prio dobbiamo dire qualcosa, che regolava lo schema delle cose per permettere alla vita di fluire nel tempo senza scosse e con-sentire al sole di diventare un seme di girasole e al seme di gira-sole di diventare topolino, al topolino di diventare donnola e alla donnola di diventare gufo reale, al gufo reale di diventare mosca cartaria e ancora e ancora in continuo mutamento, schemi sem-pre nuovi ed equilibrati che danzano seguendo una melodia im-perscrutabile.La donna aveva dedicato la vita all’ascolto di quella melodia. Era il suo lavoro e il suo unico piacere. Negli ultimi tempi quel suo-no si era affievolito, e ciò la preoccupava: sentiva il cambiamen-to in arrivo, anche se ancora lontano, come il battere di un’ascia sull’altro fianco della montagna. Innanzitutto la foresta era più

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frequentata. Un villaggio posto al limitare della foresta era di-ventato una vera città, dalla quale le strade si dipanavano come tanti fili di ragnatela, e lungo le strade le fattorie crescevano come funghi e si trasformavano in villaggi, pieni di stranieri che si facevano beffe delle antiche usanze. Tutto questo la irrita-va e la spingeva a lavorare ancora di più.La gente del posto non ne sapeva nulla, ovviamente, sebbene parte del suo lavoro avesse una qualche influenza sulle loro vite. Dicevano che era «fortuna», e in effetti la foresta era un luogo baciato dalla fortuna: le trappole permettevano ai cacciatori di vivere vendendo pellicce, ma molti animali riuscivano a evitarle. L’ascia del taglialegna colpiva con grande precisione, e l’albero cadeva sempre nel punto giusto, gettando i suoi semi nelle pie-ghe più feconde del terreno. I cavalli non scivolavano mai mentre trainavano i tronchi, che finivano dritti nel fiume raggiungendo la segheria senza intoppi. Nelle piccole fattorie le vacche produ-cevano molto latte e le galline deponevano molte uova, così che il burro, il formaggio e le uova della zona erano ben noti a tutte le città che circondavano la foresta. E questo derivava dal lavo-ro della donna, sebbene indirettamente, proprio come il fuoco di una fucina aiuta le rondini a covare le uova, nei nidi posti sotto il tetto dell’edificio.Presto arrivò alla casetta fatta di legno consunto dal tempo, una casa stretta e alta dal tetto di paglia spiovente, che poggiava su una base di pietre scure accostate a secco, senza l’aggiunta di malta. Un angolo della casa era sorretto da una quercia, men-tre la porta e gli stipiti erano coperti di figure intagliate, forme sinuose di donne, uomini e animali, che cambiavano continua-mente di posto. A parte ciò, la casa della donna somigliava a tut-te le altre abitazioni della regione.Un grosso gatto grigio spelacchiato, dagli occhi come acini di uva bianca, si godeva il sole sulla pietra calda davanti alla porta e levò lo sguardo quando la vide arrivare. I baffi vibrarono alla vista del cesto che la donna aveva con sé.– Spero che sia qualcosa di commestibile – disse il gatto.– Niente affatto – rispose la donna. – È un bambino, vedi? Posò il cesto per terra e lo aprì. Il gatto sbirciò il bambino che si era addormentato.– Divertente! – disse il gatto sogghignando. – Hai intenzione di prenderlo e farlo a pezzettini?– Che razza di idea! – esclamò la donna. – Neanche per sogno. – Si fermò e fissò il gatto negli occhi. – E tu non provarci. Dico sul serio, Falange. Se vedo un solo graffio su questo bambino... – si chinò verso il gatto, fino a sfiorargli il muso – ti trasformo in un cane.

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Il gatto rabbrividì e cominciò a pulirsi nel modo distaccato tipi-co dei gatti quando sono in imbarazzo ma non vogliono darlo a vedere.Tra una leccatina e l’altra disse:– Be’, allora, che cosa intendi fare di quella cosa?– Ho intenzione di tenerlo, naturalmente. Vivrà qui con noi.Spinse il gatto di lato, raccolse il cesto ed entrò in casa con de-cisione. Il piano terra era costituito da un’unica grande stanza, con un focolare e finestre protette da grate su tre lati. Al centro troneggiava un tavolo rotondo con alcune sedie, mentre lungo le pareti erano disposte credenze per piatti e stoviglie e una li-breria che raggiungeva il basso soffitto. Il piano del tavolo era ingombro di pezzetti di carta stropicciati contenenti erbe e semi, mazzetti di piante essiccate, fiale di vetro colorato, alcune delle quali contenevano liquidi mentre in altre si intravedevano og-getti avvizziti e brunastri, una pila malferma di libri rilegati in pelle e una penna d’oca piantata in una boccetta di inchiostro. Con un gesto deciso la donna liberò una parte del tavolo e vi posò il cesto.Si rivolse al gatto, che l’aveva seguita all’interno, e disse:– Questo bambino mi è stato gettato addosso come una maledi-zione. Accogliendolo, scongiuro il maleficio e cambio il corso del destino. Chissà dove porterà. Inoltre, ho sempre voluto allevare un bambino. Sbaglio o era una risatina, Falange?– Niente affatto. Forse era una palla di pelo. – Il gatto saltò sul tavolo e scrutò di nuovo all’interno del cesto. – Affascinante crea-tura – osservò. – Ha qualcosa del maiale e qualcosa del pipistrel-lo. Ma i bambini non dovrebbero essere tutti belli?– Cambierà crescendo – disse la donna con sicurezza. – È una fase che attraversano tutti.Il gatto, incredulo, le rivolse uno sguardo penetrante che la donna non notò. Tolse invece il bambino dal cesto e si sedette su una sedia comoda, cullandolo come pensava avrebbe fatto una mamma. Non aveva alcuna esperienza di bambini, dal momento che aveva incontrato la sua vocazione quando era ancora molto giovane e non si era mai interessata in alcun modo a faccende che considerava anche un po’ sporche. E scoprì subito quanto lo fossero davvero: nessuno si era occupato di qual bambino ulti-mamente e il piccolo puzzava! Nonostante ciò rimase dov’era, so-prattutto a beneficio del gatto che osservava bieco la scena.– Fai proprio sul serio, allora? – chiese il gatto.– Sì, certo – rispose la donna. – Non c’è alcun motivo per cui non possa essere una madre. Dopo tutto…

M. Gruber, La maschera d’oro, Mondadori

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Antologia 2

Una zolla erbosa, una gatta e due ragazzi Philip PullmanLyra, armata di un aletiometro – uno strumento simile alla bussola, che serve per conoscere la verità – è predestinata da secoli a salvare dalla distruzione il suo mondo, dove tutti hanno un proprio daimon, grazie al quale non si è mai soli. La ragazza incontra Will Parry, un compagno d’avventura in un ignoto nuovo mondo, dove li aspettano molti incredibili incontri e la soluzione di alcuni misteri.

Will era instupidito dalla stanchezza e avrebbe potuto conti-nuare a dirigersi verso nord, o mettersi invece giù a dor-

mire, sotto uno di quegli alberi; solo che mentre cercava di schia-rirsi le idee, vide un gatto.Era una gattina tigrata come Moxie. Uscì a passi felpati da uno dei giardini sul lato della strada che dava verso Oxford, dove si trovava anche Will. Lui mise giù la borsa della spesa e le tese la mano, e la gattina venne a strofinare la testa contro le sue noc-che, proprio come era solita fare Moxie. Era una cosa che faceva-no tutti i gatti, certo, ma Will si sentì invadere da un tale deside-rio di tornare a casa che le lacrime gli bruciarono gli occhi.Dopo un po’, comunque, quella gatta si allontanò. Era notte, do-potutto, e c’era un territorio da sorvegliare, e topi cui dare la caccia. Attraversò a passi felpati la strada verso i cespugli che si trovavano subito sotto la fila di carpini, e lì si bloccò.Will, che aveva continuato a osservarla, vide che la gatta si com-portava in maniera strana.

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Alzò una zampina come per toccare qualcosa nell’aria dinanzi a sé, qualcosa che a Will risultava del tutto invisibile. Poi fece un balzo all’indietro, il dorso inarcato e il pelo tutto dritto, la coda eretta e rigida. Will conosceva bene il comportamento dei gatti. Osservò ancor più attentamente la gatta ritornare ad avvicinarsi a quel punto, che non era nient’altro che una semplice zolla erbo-sa in mezzo ai carpini e ai cespugli di una siepe, e di nuovo al-lungare una zampa a toccare l’aria.Di nuovo fece un balzo all’indietro, ma più corto, questa volta, e meno allarmato. Dopo qualche altro secondo di annusate, tocchi e contrazioni dei baffi, la curiosità prevalse sulla diffidenza.La gatta fece un passo avanti, e svanì.Will sbatté le palpebre. Poi rimase immobile, accanto al tronco dell’albero più vicino, mentre un camion percorreva la rotatoria, e il raggio dei suoi fari gli passava sopra la testa. Quando si fu allontanato, Will attraversò la strada, tenendo gli occhi fissi sul punto che aveva destato la curiosità della gatta. Non era facile, perché non aveva nessun punto di riferimento, ma quando si av-vicinò, e poté osservare meglio, riuscì a vederlo.O almeno, riusciva a vederlo da certi punti di vista. Sembrava che qualcuno avesse aperto una specie di buco nell’aria, più o meno a due metri dal bordo della strada, pressappoco quadrato e largo nemmeno un metro.Will sapeva, senza il minimo dubbio, che quella zolla erbosa dall’altra parte si trovava in un altro mondo, un mondo differente.Non avrebbe potuto in alcun modo dire perché. Lo aveva saputo fin da subito, con la stessa intensità e chiarezza con cui sapeva che il fuoco brucia e la gentilezza è una cosa buona. Stava guar-dando qualcosa di profondamente alieno.E, per quella sola ragione, l’apertura lo affascinò abbastanza da spingerlo a chinarsi e a guardare più in là. Ciò che vide gli fece ondeggiare la testa e battere più forte il cuore, ma non esitò; spinse la borsa della spesa attraverso l’apertura e ci si buttò den-tro lui stesso, passando attraverso quel buco nel tessuto di que-sto mondo per entrare in un altro. Si ritrovò di fronte a un edi-ficio in mezzo agli alberi, con la facciata piena di ornamenti illu-minata a giorno dai riflettori, che avrebbe potuto essere un tea-tro d’opera. C’erano dei sentieri, fra gli oleandri carichi di lampa-de, ma non si udiva il più piccolo suono di vita: né il canto di un uccello notturno né un insetto, nient’altro che il suono dei passi dello stesso Will.Per la prima volta dal momento in cui quella mattina era uscito correndo dalla porta di casa, Will cominciò a sentirsi al sicuro.Aveva di nuovo sete, e anche fame, perché l’ultimo pasto l’ave-va fatto in un altro mondo, dopotutto cercò un posto dove ci

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fossero buone probabilità di trovare qualcosa da mangiare. Gli alberghi erano troppo imponenti. Diede un’occhiata all’interno del primo che incontrò, ma era così vasto che lo mise a disagio, e continuò per il lungomare fino a trovare un piccolo caffè che pareva proprio il posto giusto. Non avrebbe saputo dire perché; era un posto simile a decine d’altri locali, con il balcone al pri-mo piano carico di vasi da fiori e davanti i tavolini e le sedie di-sposti sul marciapiede, ma gli dava il senso di esservi bene ac-cetto.C’era un bar, con fotografie di pugili sulla parete, e un mani-festo con l’autografo di un suonatore di fisarmonica dall’ampio sorriso. C’era una cucina, e lì accanto una porta che dava su una stretta rampa di scalini, coperta da una moquette a vivaci dise-gni floreali.Salì in silenzio fino allo stretto pianerottolo, e aprì la prima por-ta che si trovò davanti. Era la stanza che dava sulla strada. L’aria era calda e sapeva di chiuso, Will aprì la porta a vetri del balcone per far entrare la brezza della notte. La stanza, da parte sua, era piccola e piena di mobili troppo grossi in confronto alle sue di-mensioni, e un po’ trascurata; però era pulita e comoda. Doveva essere gente ospitale, quella che viveva lì. C’era un piccolo scaf-fale di libri, una rivista posata su un tavolo, un paio di fotogra-fie incorniciate.Will uscì e guardò nelle altre stanze: un piccolo bagno, una ca-mera con un letto matrimoniale.Qualcosa gli fece venire la pelle d’oca prima di aprire l’ultima delle porte. Il suo cuore accelerò i battiti. Non era certo di aver udito un suono proveniente dall’interno, ma qualcosa gli diceva che la stanza non era vuota.E mentre se ne restava lì, perplesso, la porta si aprì sbattendo e ne venne fuori qualcosa che gli si scagliò addosso come una bel-va feroce.Ma lui era sull’avviso, e non si era trovato tanto vicino alla por-ta da esser messo fuori combattimento. Lottò duramente: a gi-nocchiate, testate, cazzotti, e con la forza delle sue braccia contro quel, quello, quella…Una ragazza più o meno della sua stessa età, feroce, ringhiante, con i vestiti stracciati e sporchi, le braccia e le gambe scoperte e sottili.Anche lei si rese conto di chi era lui nello stesso momento, e si allontanò d’un balzo dal suo petto nudo, per accucciarsi in un angolo del pianerottolo buio come un gatto costretto in un ango-lo. E aveva vicino anche un gatto, con grande stupore di lui: un grosso gatto selvatico, che gli arrivava al ginocchio, con il pelo irto, i denti scoperti, la coda dritta.

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Lei posò la mano sulla schiena del gatto, e si passò la lin-gua sulle labbra secche, osservando ogni suo movi-mento.Will si alzò lentamente in piedi.– E tu chi sei?– Lyra Linguargentina – disse lei.– Abiti qui?– No – disse lei con veemenza.– E allora che posto è questo? Questa città?– Non lo so.– Da dove vieni?– Dal mio mondo. È collegato a questo. Dov’è il tuo daimon?Lui spalancò gli occhi. Poi vide che al gatto acca-deva una cosa straordinaria: era balzato in braccio alla ragazza, ma nel farlo aveva mutato forma. Adesso era un ermellino, non bianco, ma con la livrea estiva di colore marrone rossiccio e la gola e il ventre color panna, e lo fissava con ferocia pari a quella della ragazza. Ma poi ebbe luogo anche un altro cambiamento della situazione, perché lui si rese conto che quei due, la ragazza come l’ermellino, erano profondamente atterriti da lui, proprio come se avessero avuto di fronte un fan-tasma.– Io non ho nessun daimon – disse.– Non capisco che cosa vuoi dire… –. E poi: – Oh! Sarebbe quello il tuo daimon?L’altra si tirò su lentamente. L’ermellino le si avvolse intorno al collo, e i suoi occhi scuri non lasciarono per un solo istante il viso di Will.– Ma tu sei vivo – disse, un po’ incredula. – Non sei… Non sei stato…– Io mi chiamo Will Parry – disse lui. – Non ho idea di che cosa vuoi dire parlando di… di demoni? Nel mio mondo demone si-gnifica… significa diavolo, qualcosa di malvagio.– Nel tuo mondo? Vuoi dire che non è questo, il tuo mondo?– No, ho solo trovato… un modo per entrarci. Come il tuo mon-do, immagino. Dev’essere collegato anche quello.Lei si rilassò un pochino, ma continuò a osservarlo intensamen-te, e lui si mantenne calmo e tranquillo, come dinanzi a un gatto sconosciuto con cui avesse cominciato a fare amicizia.– Hai visto qualcun altro in questa città? – continuò.– No.– Quanto tempo è che sei qui?– Boh. Qualche giorno. Non mi ricordo.– Be’, e perché mai sei venuta qui?

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– Cerco la Polvere – rispose lei.– La polvere? Cioè, polvere d’oro? Che tipo di polvere?Lei strinse le pupille, e non disse nulla. Lui si voltò per scende-re di sotto.– Ho fame – disse. – C’è niente da mangiare in cucina?– Boh… – disse lei, e lo seguì, tenendoglisi bene a distanza.In cucina, Will trovò gli ingredienti per preparare del pollo con cipolle e pepe, che però non erano stati cotti, e con quel caldo mandavano cattivo odore. Gettò il tutto nella pattumiera.– Tu non hai mangiato niente? – disse, aprendo il frigo.Lyra si avvicinò per vedere.– Non sapevo che ci fosse questo coso – disse. – Oh! È freddo…Il suo daimon era cambiato di nuovo, diventando una gigante-sca farfalla colorata, che svolazzò un attimo dentro il frigo e ne uscì subito per posarsi sopra la sua spalla. La farfalla sollevava e abbassava lentamente le ali. Will aveva la sensazione che non avrebbe dovuto fissarla in quel modo, anche se tutta la sua testa riecheggiava della stranezza di quella cosa.– Non avevi mai visto un frigo? – disse.Lui trovò una lattina di Coca e gliela porse, poi tirò fuori un vas-soio di uova. Lei strinse la lattina fra le mani con piacere.– Bevila, allora, dài – disse lui.Lei la osservò, accigliandosi. Non sapeva come aprirla. Lui strap-pò via la linguetta, e la bevanda ne uscì schiumando. Lei la leccò con aria sospettosa. Trovata una scatoletta di stufato di fagioli, lei divorò la sua parte in meno di un minuto, e poi prese a diveni-re irrequieta, dondolandosi avanti e indietro, e strappando le stri-sce di plastica intrecciata della sedia mentre lui finiva di man-giare la frittata. Il suo daimon mutò nuovamente e divenne un cardellino, che si mise a beccare invisibili briciole dalla tovaglia.Will mangiò lentamente. Aveva dato a lei la maggior parte dei fagioli, ma anche così ci mise molto più tempo di Lyra. Il por-to dinanzi a loro, le luci lungo i viali deserti, le stelle nel cielo buio lassù in alto, ogni cosa era sospesa in un silenzio immenso come se al mondo non esistesse proprio nient’altro.E, per tutto il tempo, lui rimase intensamente consapevole del-la presenza della ragazza. Era piccola e sottile, e però tenace, e aveva lottato come una tigre; con un pugno le aveva prodot-to un livido su una guancia, ma lei lo ignorava totalmente. La sua espressione era un misto tra quella di una bambina picco-la – quando aveva assaggiato per la prima volta la Coca – e una sorta di triste e profonda cautela. Aveva gli occhi di un azzurro pallido, e i capelli sarebbero stati di un color biondo un po’ scu-ro, una volta lavati; perché era davvero sporchissima, e dall’odo-re pareva che non si lavasse da parecchi giorni.

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– Laura? Lara? – fece Will.– Lyra.– Lyra… Linguargentina?– Sì.– Dov’è il tuo mondo? Come hai fatto ad arrivare qui?Lei si strinse nelle spalle.– A piedi – disse. – C’era un sacco di nebbia, dappertutto. Non sapevo da che parte stavo andando. Perlomeno, sapevo che stavo uscendo dal mio mondo. Ma non sono riuscita a vedere com’era questo fino a quando un giorno non si è dissipata la nebbia. E allora mi sono ritrovata qui.– Cos’è che dicevi della polvere?– La Polvere, già. Voglio riuscire a capire cos’è. Solo che questo mondo sembra proprio vuoto. Non c’è nessuno a cui chiederlo. Sono… boh, tre giorni, forse quattro, che sto qui. E ho visto che non c’è proprio nessuno.– Ma perché vuoi capire cos’è la polvere?– Un tipo speciale di Polvere – disse lei seccamente. – Mica la solita polvere, è ovvio.Il daimon cambiò forma di nuovo. Lo fece in un batter d’occhio, e da cardellino mutò in ratto, un grosso ratto robusto, nero come la pece e con gli occhietti rossi. Will lo guardò a occhi spalancati e con diffidenza, e la ragazza notò la direzione del suo sguardo.– Ma sì che ce l’hai, un daimon – disse lei con decisione. – Ce l’hai dentro di te.Lui non seppe cosa ribattere.– Ce l’hai sì – proseguì lei. – Non saresti umano, altrimenti. Sa-resti… a metà tra la vita e la morte. Noi l’abbiamo visto, un ra-gazzino cui avevano tagliato via il suo daimon. Tu non sei mica come lui. Anche se non lo sai, tu ce l’hai un daimon, altroché. Ci eravamo messi paura, all’inizio, quando ti abbiamo visto la pri-ma volta. Come se fossi stato uno spettro, una specie di incubo materializzato, una cosa del genere. Ma poi abbiamo capito che non eri per niente così.– Noi?– Io e Pantalaimon. Noi due. Il tuo daimon non è mica separa-to da te. È te stesso. Una parte di te. Ognuno dei due fa parte dell’altro. Ma non c’è proprio nessuno che sia come noi, nel tuo mondo? Sono tutti quanti come te, tutti quanti con il loro dai-mon nascosto dentro?Will li guardò, tutt’è due, la ragazza magra dagli occhi chiari e il suo ratto-daimon nero, che adesso si era sistemato in braccio a lei, e si sentì profondamente solo.– Sono stanco. Vado a letto – disse. – Tu hai intenzione di resta-re in questa città?

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– Boh. Devo scoprire qualcosa di più su ciò che sto cercando. Ci devono pur essere degli Accademici in questo mondo. Deve pur esserci qualcuno che ne sa qualcosa.– In questo mondo magari no. Ma io sono arrivato qui da un posto che si chiama Oxford. Lì di studiosi ce ne sono un sacco, se questo è quello che vuoi.– Oxford! – esclamò lei. – Ma è da lì che vengo io!– C’è una Oxford anche nel tuo mondo, quindi? Tu non vieni certo dal mio.– No – disse lei, recisamente. – Mondi diversi. Però anche nel mio mondo c’è una Oxford. Dopotutto, stiamo parlando ingle-se tutt’e due, no? È ragionevole pensare che ci siano altre cose uguali. Tu come hai fatto a passare? C’è un ponte, o cos’altro?– Solo una specie di finestra nell’aria.– Fammela vedere.Era un ordine, non una richiesta. Lui scosse il capo.– Non ora – disse. – Voglio dormire. A ogni modo, è notte fonda.– Allora, fammela vedere domani mattina!– Va bene, te la mostrerò. Ma anch’io ho le mie cose da fare. I tuoi Accademici te li dovrai trovare da sola.– Facile – disse. – Io degli Accademici so tutto.Lui radunò insieme i piatti e si alzò.– Io ho cucinato – disse – quindi tu puoi lavare i piatti.Lei parve non credere alle sue orecchie.– Lavare i piatti? – lo schernì. – Ce ne sono milioni di altri, pu-liti, qua in giro! E comunque non sono mica una serva. Non ho nessuna intenzione di lavarli.– E allora non ti farò vedere la strada per passare dall’altra parte.– Me la troverò da sola.– No, non ci riuscirai, è nascosta. Non la troverai mai. Sta’ a sen-tire: io non so per quanto tempo potremo rimanere in questo po-sto. Abbiamo bisogno di mangiare, e quindi mangeremo quel-lo che c’è, però dopo metteremo tutto quanto in ordine e terremo questo posto pulito, perché è giusto così. Lavali, quei piatti. Que-sto posto lo dobbiamo trattare come si deve. Ora me ne vado a let-to. Mi prendo l’altra stanza. Ci vediamo domattina.Entrò in camera, si lavò i denti con un dito e un po’ di dentifricio preso da quella sua vecchia borsa rovinata, si buttò sul letto ma-trimoniale, e sprofondò nel sonno in un istante.

Lyra aspettò fin quando non fu certa che lui dormisse, e poi por-tò i piatti nella cucina e li tenne sotto il getto del rubinetto, strofi-nandoli con forza con uno straccio, fino a che non le parvero pu-liti. Fece lo stesso con forchette e coltelli, ma il procedimento non funzionò con la padella in cui era stata cotta la frittata, e quindi

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provò a usare un pezzo di sapone giallo, e continuò a lavorarci ostinatamente fino a che non le parve che più pulita di così non sarebbe mai potuto arrivare a essere. Poi asciugò il tutto con un altro straccio e accatastò per benino tutte le varie cose sullo sco-lapiatti.Visto che aveva ancora sete, e poi voleva riprovare ad aprire una di quelle lattine, strappò la linguetta di un’altra Coca e se la por-tò di sopra. Si fermò ad ascoltare fuori dalla porta della stanza di Will e, non avendo sentito alcun rumore, entrò in punta di pie-di nell’altra stanza e tirò fuori l’aletiometro da sotto il cuscino.Non aveva bisogno di stargli vicino per chiedere di lui, ma in re-altà desiderava comunque guardarlo ancora, e quindi abbassò la maniglia della sua porta nel modo più silenzioso possibile per poi entrare dentro la stanza.C’era una luce sul lungomare che illuminava direttamente l’in-terno della stanza, e nel chiarore riverberato dal soffitto guardò il ragazzo addormentato. Era accigliato, e sul viso gli brillava-no gocce di sudore. Era forte e massiccio, non ancora sviluppato come un uomo adulto, naturalmente, perché non era molto più grande di lei, ma un giorno sarebbe diventato un uomo robusto. Sarebbe stato tutto molto più facile se il suo daimon fosse stato visibile! Si domandò quale avrebbe potuto essere la sua forma, e se era già fissa o no. Qualunque fosse stata, comunque, doveva esprimere una natura selvaggia quanto cortese, e infelice.Andò in punta di piedi alla finestra. Alla luce del lampione stra-dale posizionò con attenzione le lancette dell’aletiometro, e rilas-sò la mente perché desse forma a una domanda. L’ago prese a muoversi per tutto il quadrante in una serie di oscillazioni e di pause quasi troppo veloci perché l’occhio potesse seguirle.Aveva chiesto: «Chi è lui? Un amico o un nemico?».E l’aletiometro rispose: «È un assassino».Nel vedere la risposta, la ragazza si tranquillizzò immediata-mente. Lui era capace di procurare da mangiare, e poteva indi-carle come arrivare a Oxford, e queste erano capacità senza dub-bio utili, ma avrebbe ugualmente potuto essere una persona in-degna di fiducia, o un vigliacco. Un assassino, invece, era un de-gno compagno. Al suo fianco si sentiva al sicuro come si era sen-tita in compagnia di Iorek Byrnison, l’orso corazzato.Chiuse gli scuri della finestra aperta, in modo che la luce del mattino non gli battesse dritta in faccia e, in punta di piedi, se ne andò.

P. Pullman, La lama sottile, Salani

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Antologia 2

Un terribile segreto (1ª parte) Alexandre DumasAnna d’Austria, la regina madre di re Luigi XIV, custodisce da tanti anni un terribile segreto capace di farla ammalare.Molti di quelli che ne erano a conoscenza sono morti, ma una visita misteriosa permette alla regina di conoscere il prezzo di quel segreto.

Dalla regina madre

La regina madre si trovava nella sua camera al palazzo Re-ale, con le dame di compagnia, la signora di Motteville e la

señora Molina.Il re, atteso tutto il giorno, non s’era fatto vedere; la regina, al colmo dell’impazienza, aveva mandato a chiedere più volte sue notizie.Il tempo sembrava minacciare un uragano. I cortigiani e le dame si evitavano nelle anticamere e nei corridoi per non dover parlare di argomenti compromettenti.La regina madre, dopo aver letto le solite preghiere in latino, di-scorreva familiarmente in puro castigliano con le due amiche.La signora di Motteville, che comprendeva a meraviglia questa lingua, rispondeva tuttavia in francese.Quando le tre donne ebbero esaurito tutte le formule dell’ipocri-sia e dell’adulazione per arrivare a dire che la condotta del re fa-ceva morire di dolore la giovane regina, la regina madre e tut-to il parentado, Anna d’Austria pose termine alle recriminazio-ni con due parole rivolte alla Molina, che rivelavano tutto il suo pensiero e tutto il suo carattere:– Estos hijos!…

alla scoperta di tesori e misteri3. È tutta un’avventura

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1.  incupita: non serena, intristita, pensierosa.,

2.  cristallo di rocca: una varietà di quarzo purissimo.

Vale a dire «Questi ragazzi!…».Parole profonde nella bocca d’una madre; parole terribili nella bocca d’una regina che, come Anna d’Austria, celava così singo-lari segreti nell’anima incupita1.– Sì – rispose la Molina – questi ragazzi, a cui ogni madre si sa-crifica.– A cui – riprese la regina – una madre ha tutto sacrificato…E non completò la frase. Le parve, quando alzò gli occhi al ri-tratto in piedi del pallido Luigi XIII, che il suo sposo si lasciasse ancora una volta salire la luce agli occhi spenti, gonfiare dall’ira le narici di tela. Il ritratto s’animava: non parlava, minacciava. Un profondo silenzio seguì le ultime parole della regina. La Mo-lina si mise a riordinare i nastri e le trine in un ricco cestino. La signora di Motteville, sorpresa dal lampo che aveva simulta-neamente illuminato d’intelligenza lo sguardo della confidente e della padrona, abbassò gli occhi da dama discreta, e, pur cercan-do di non guardare, stette con gli occhi intenti. Sorprese soltan-to un «uhm!» significativo della fedele spagnola, maestra d’ac-cortezza. Sorprese anche un sospiro uscire come un soffio dal seno della regina.Alzò la testa:– Soffrite? – domandò.– No, Motteville; perché me lo domandi?– Vostra Maestà ha sospirato.– Sì, è vero; soffro, ma questa sera un po’ meno.– Non fidatevi, mia signora. Forse conviene che si mandi a chia-mare il medico.E, quasi a giustificare il presagio della signora di Motteville, un dolore molto acuto trafisse al cuore la regina, facendola impalli-dire, e rovesciandola sulla poltrona con tutti i sintomi d’un im-provviso svenimento.– Le mie gocce – mormorò Anna d’Austria.– Ecco, ecco! – rispose la Molina che, senza affrettarsi, andò a prendere da un armadio di tartaruga dorata una grande boccia di cristallo di rocca2, e la porse aperta alla regina.Costei aspirò avidamente a più riprese, e mormorò:– Di questo male il Signore mi farà morire. Sia fatta la sua san-ta volontà.– Suvvia, non morirete – aggiunse la Molina, rimettendo la boc-cia nell’armadio.– Sta meglio, ora, Vostra Maestà? – domandò la signora di Mot-teville.– Sì, meglio.E la regina si pose un dito sulle labbra per raccomandare la di-screzione alla sua favorita.

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– È strano! – disse, dopo un silenzio, la signora di Motteville.– Che c’è di strano? – chiese la regina.– Si ricorda Vostra Maestà del giorno in cui il suo male la col-pì la prima volta?– Mi ricordo che fu un giorno molto triste, Motteville.– Quel giorno non era stato sempre triste per Vostra Maestà.– Perché?– Perché, ventitré anni prima, Sua Maestà il re regnante, vostro glorioso figlio, era nato alla stessa ora.La regina gettò un grido, piegò la fronte sulle mani, e s’accasciò per qualche minuto.Era ricordo o riflessione? O era ancora dolore?La Molina rivolse a madama di Motteville un’occhiata quasi fu-riosa, tanto somigliava a un rimprovero, e la degna dama, in as-soluta buona fede, stava per interrogare la spagnola sulla natu-ra della sua colpa, quando Anna d’Austria, sollevandosi di colpo:– Il 5 settembre! – disse. – Sì, il mio dolore è apparso la pri-ma volta il 5 settembre. Grande gioia un giorno, grande dolo-re un altro giorno. – Grande dolore – soggiunse quasi tra sé – espiazione d’una gioia troppo grande!E, da questo momento, Anna d’Austria, che sembrava aver esau-rito tutta la memoria e tutta la ragione, fu impenetrabile, l’occhio spento, il pensiero vago, le mani penzoloni.– È ora di andare a letto – fece la Molina.– Subito, Molina.– Lasciamo la regina – aggiunse la spagnola.La signora di Motteville si alzò: lacrime grosse e lucenti, come lacrime di bimbo, rigavano le pallide gote della regina. La Moli-na se n’avvide, e lanciò ad Anna d’Austria uno sguardo di fuoco con quei suoi occhi neri, sempre vigili.– Sì, sì – riprese subito la regina – lasciateci, Motteville. Andate.Quella parola «lasciateci» suonò male all’orecchio della francese. Significava che stava per avvenire uno scambio di segreti o di ricordi. Significava che una persona era di troppo nel momento più interessante della conversazione.– Mia signora, la Molina basterà per il servizio di Vostra Mae-stà? – domandò la francese.– Sì – rispose la spagnola.E la signora di Motteville s’inchinò. D’improvviso, una vecchia cameriera, vestita alla moda della corte di Spagna del 1620, aprì le porte, sorprendendo la regina in lacrime, madama di Motte-ville in piena ritirata strategica, la Molina intenta a esercitare la sua arte diplomatica:– Ecco il rimedio! Ecco il rimedio! – gridò allegramente alla re-gina, avvicinandosi senza complimenti al gruppo.

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3.  chica: «ragazza», in spagnolo.

4.  beghinaggio: comunità di beghine, vale a dire le vedove o signorine che vivono in una comunità religiosa, seguendone le regole, ma senza prestare voti solenni.

– Quale rimedio, chica3? – domandò Anna d’Austria.– Per il male di Vostra Maestà – rispose costei.– Chi lo porta? – fece vivamente la signora di Motteville.– Una dama delle Fiandre.– Una dama delle Fiandre? Una spagnola? – inter-rogò la regina.– Non lo so.– Chi manda questa donna?– Il signor Colbert.– Il suo nome?– Non l’ha detto.– La sua condizione?– La dirà.– Il suo volto?– È mascherato.– Va’ a vedere, Molina! – ordinò la regina.– Non serve – disse d’improvviso una voce ferma e dolce insieme, che veniva da dietro le porte; voce che fece trasalire le altre dame e rabbrividire la regina.Ed ecco apparire fra le tende una donna mascherata.E, prima che la regina potesse aprir bocca:– Sono una dama del beghinaggio4 di Bruges – aggiunse la sco-nosciuta – e porto il rimedio che deve guarire Vostra Maestà.Tutte tacquero. La beghina non si mosse.– Parlate – ordinò Anna d’Austria.– Quando saremo sole – rispose la beghina.Anna d’Austria rivolse uno sguardo alle sue compagne, che su-bito si ritirarono.Allora la beghina fece tre passi avanti e s’inchinò con reverenza.La regina guardava con sospetto quella donna misteriosa, la quale a sua volta la guardava, con occhi brillanti, attraverso i fori della maschera.– La regina di Francia è, dunque, molto malata – disse Anna d’Austria – se, anche al beghinaggio di Bruges, si sa che ha biso-gno d’essere guarita.– Grazie a Dio, Vostra Maestà non è malata al punto da non poter guarire.– Insomma, come sapete che soffro?– Vostra Maestà ha degli amici in Fiandra.– Ditemi i loro nomi.– Impossibile, mia signora, e inutile, se la memoria di Vostra Maestà non è già stata risvegliata dal suo cuore.Anna d’Austria alzò la testa, cercando di scoprire, sotto l’ombra della maschera e sotto il mistero della parola, l’identità di colei che si esprimeva con tanta familiarità.

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A un tratto, stanca di quella curiosità che feriva il regale orgoglio:– Signora – disse – sappiate che non si parla ai reali con una maschera sul volto.– Vostra Maestà voglia scusarmi – rispose umilmente la beghina.– Posso scusarvi solo se vi togliete la maschera.– Ho fatto un voto, mia signora, per cui mi sono impegnata ad aiutare gli afflitti e i sofferenti, senza che questi vedano mai il mio volto. Avrei potuto dare sollievo al vostro corpo e alla vostra anima, ma, poiché Vostra Maestà me lo proibisce, mi ritiro.Queste parole furono pronunziate con una tale grazia, piena di soavità e di rispetto, che la collera e la diffidenza della regina svanirono, senza che per questo la sua curiosità diminuisse.– Avete ragione – disse. – Non sta alla gente che soffre di respin-gere i conforti che Dio manda loro. Parlate dunque, signora, e possiate, come avete detto, portar sollievo al mio corpo… Ahimè! Credo che Dio si prepari a provarlo duramente.– Parliamo invece dell’anima, se volete – rispose la beghina – dell’anima che, sono sicura, deve anch’essa soffrire.– La mia anima?– Ci sono cancri divoratori che pulsano celatamente. Quelli, re-gina, lasciano alla pelle la sua bianchezza d’avorio, non macchia-no la carne dei loro vapori azzurrastri; il medico che si piega sul petto del malato non ode scricchiolare nei muscoli, sotto il flusso del sangue, il dente insaziabile di questi mostri; il ferro, il fuo-co non hanno mai ucciso o disarmato la rabbia di questi flagelli mortali; essi abitano nel pensiero e lo corrompono, crescono nel cuore e lo fanno scoppiare; sono, mia signora, i cancri fatali alle regine. Non è di questi che soffrite?Anna d’Austria alzò, con un gesto lento, un braccio splendida-mente bianco e ben tornito, com’era al tempo della sua giovinezza.– I mali di cui parlate – disse – sono una condizione di vita per noi grandi della Terra, a cui Dio ha affidato la cura d’altre ani-me. Di questi mali, quando sono troppo pesanti, il Signore ci al-leggerisce al tribunale della penitenza. Là deponiamo il nostro fardello e i nostri segreti. Ma non dimenticate che, dall’alto del-la sua grandezza, il Signore decide le prove misurando le forze delle sue creature, tant’è che le mie non sono inferiori al fardel-lo ch’egli m’ha dato; perciò, per i segreti altrui, mi basta la di-screzione di Dio; per i segreti miei, mi contento di quella del mio confessore.– Vi vedo coraggiosa come sempre contro i vostri nemici, mia si-gnora; non vi vedo fiduciosa verso i vostri amici.– Le regine non hanno amici. E adesso, se non avete altro da dirmi, se vi sentite una profetessa ispirata da Dio, ritiratevi, per-ché ho paura dell’avvenire.

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5.  Te Deum: inno liturgico cattolico di lode e ringra­ziamento a Dio, le cui parole iniziali sono Te Deum laudamus, «Lodiamo te, Dio».

– Credevo – disse la beghina – che aveste più paura del passato.Non aveva ancora finito, che la regina si eresse:– Parlate – ordinò – parlate! Spiegatevi nettamente, chiaramente, interamente, altrimenti…– Perché minacciare, mia regina – rispose con dolcezza la beghi-na – colei che è venuta, piena di rispetto e di pietà; colei che è ve-nuta da amica?– Provatelo! E consolate invece d’irritare.– È cosa facile, e Vostra Maestà si convincerà della mia amicizia.– Sentiamo.– Quale disgrazia ha colpito Vostra Maestà negli ultimi ventitré anni?– Ma… molte disgrazie. Non ho perduto il re?– Non parlo di questo genere di disgrazie. Vi domando se… dal-la nascita del re… un’indiscrezione da parte di un’amica ha cau-sato qualche dolore a Vostra Maestà.– Non vi capisco – fece la regina, stringendo i denti per contene-re l’emozione.– Mi farò capire. Vostra Maestà ricorda che il re è nato il 5 set-tembre 1638, alle ore undici e un quarto?– Sì – gemette la regina.– A mezzogiorno e mezzo – continuò la beghina – il principe ere-ditario, già battezzato da monsignore di Meaux alla presenza vo-stra e del re, era riconosciuto erede della corona di Francia. Il re si recò alla cappella del vecchio castello di San Germano per as-sistere al Te Deum.5

– È esatto – mormorò la regina.– Il parto di Vostra Maestà era avvenuto alla presenza del defun-to sovrano, dei prìncipi e delle dame di corte. Il medico del re, Bouvard, e il chirurgo Honoré, stavano nell’anticamera. Vostra Maestà s’addormentò, e dormì dalle tre fin verso le sette, è vero?– Certo, ma mi state dicendo ciò che tutti sanno.– Vengo, mia signora, a quello che poche persone invece san-no. Poche, ho detto? Ahimè, in realtà solo due, giacché una volta erano cinque, ma da alcuni anni il segreto è ancora più al sicu-ro per la morte dei principali suoi custodi: il re nostro signore dorme con i suoi padri, la levatrice Pérronnette l’ha seguito poco dopo, Laporte è ormai dimenticato.

La regina aprì la bocca per parlare, mentre con la mano gelida si premeva il volto ardente coperto di sudore.– Erano le otto – proseguì la beghina – il re cenava allegramen-te: intorno a lui si inneggiava e si gridava di gioia; il popolo ur-lava sotto i balconi; i soldati, i moschettieri e le guardie erravano per la città, festeggiando con gli studenti eccitati.

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6.  tripudio: vivace mani­festazione di gioia.

7.  delfino: primogenito del re di Francia.

8.  consegne: ordini.

L’eco di quel formidabile tripudio6 faceva gemere dolcemente nel-le braccia della governante il delfino7, il futuro re di Francia. I suoi occhi, aprendosi, dovevano scorgere due corone in fondo alla culla. D’improvviso, Vostra Maestà gettò un grido lacerante, e la levatrice Pérronnette accorse.I medici pranzavano in una sala lontana. Nel palazzo, deserto dopo l’allegra invasione, non v’erano più né guardie, né conse-gne8. La levatrice, dopo aver esaminato le condizioni di Vostra Maestà, ch’era fuori di sé per il dolore, vi prese tra le braccia, e mandò Laporte ad avvertire il re che Sua Maestà la regina lo voleva immediatamente al suo capezzale. Laporte, voi lo sapete, mia signora, era un uomo che non perdeva mai la testa. Non s’avvicinò al re, come un servitore spaventato, che per darsi im-portanza a sua volta spaventa; del resto, il re non s’aspettava cer-to una brutta notizia. Laporte apparve, dunque, con il sorriso sulle labbra, dietro la poltrona del re e gli disse: «Sire, la regina sta benissimo, ma starebbe ancor meglio se potesse vedere Vo-stra Maestà». Quel giorno, Luigi XIII avrebbe dato la sua corona a un povero per un Dio ti guardi! Allegro, agile, pieno di vita, il re lasciò la tavola, dicendo: «Signori, vado da mia moglie». Giun-to da voi, mia signora, la Pérronnette gli porse un secondo prin-cipe, bello e forte come il primo, dicendogli: «Sire, Dio non vuo-le che il regno di Francia passi alle femmine». Il re, in un primo momento, si slanciò sul neonato, gridando: «Grazie, mio Dio!».La beghina, di fronte al visibile strazio della regina, si fermò. Anna d’Austria, abbandonata sulla poltrona, con la testa piega-ta, lo sguardo fisso, ascoltava senza più sentire, e le sue labbra s’agitavano convulse per una preghiera a Dio, o per un’impreca-zione contro la donna che le stava di fronte.– Non crediate che se anche in Francia vi è più d’un delfino e la regina ha lasciato il secondo bimbo vegetare lontano dal trono, non crediate per questo che Sua Maestà sia stata una cattiva ma-dre… Oh no!… C’è qualcuno che sa quante lacrime ha versato; c’è qualcuno che ha contato gli ardenti baci dati alla povera crea-tura, in compenso della vita di miseria e d’ombra a cui la ragion di stato condannava il gemello di Luigi XIV!– Mio Dio, mio Dio! – mormorò fiocamente la regina.– Il re – continuò la beghina – vedendosi con due figli della stes-sa età e con gli stessi diritti, tremò per la salute della Francia, per la tranquillità del suo stato. Chiamò quindi a consiglio il signor cardinale di Richelieu, che, dopo aver meditato più di un’ora nel gabinetto di Luigi XIII, pronunciò questa sentenza: «C’è un re, nato per succedere a Sua Maestà. Dio ne ha fatto na-scere un altro per succedere a questo primo re; ma, presente-mente, abbiamo soltanto bisogno del primo nato; nascondiamo il

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9.  repentino: improvviso.

secondo alla Francia, come Dio l’aveva nascosto ai suoi stessi ge-nitori. Un principe è per lo stato la pace e la sicurezza; due com-petitori, significano la guerra civile e l’anarchia».La regina si alzò bruscamente, pallida, con i pugni serrati.– Sapete troppe cose! – disse con voce sorda. – Conoscete i se-greti dello stato. Gli amici che vi hanno svelato questo segreto sono vili e falsi amici. Voi siete loro complice nel delitto compiu-to oggi. Adesso, abbassate la maschera, o vi faccio arrestare dal capitano delle mie guardie. Oh! Questo segreto non mi fa paura! Lo avete avuto, me lo renderete! S’agghiaccerà nel vostro petto. Questo segreto e la vostra vita non v’appartengono più a partire da adesso!E, aggiungendo il gesto alla minaccia, Anna d’Austria fece due passi verso la beghina.– Imparate – disse costei – a conoscere la fedeltà, l’onore, la di-screzione degli amici abbandonati.E, con un gesto repentino9, si tolse la maschera.– La duchessa di Chevreuse! – esclamò la regina.– La sola depositaria del segreto, dopo Vostra Maestà.– Ah – mormorò Anna d’Austria – venite ad abbracciarmi, du-chessa. Ahimè! Voi uccidete gli amici giocando, in tal modo, con le loro pene mortali.E la regina, chinando il capo sulla spalla della vecchia duches-sa, lasciò scorrere dagli occhi un fiume di lacrime amare.– Come siete giovane! – esclamò la duchessa di Chevreuse, con voce sorda. – Potete piangere ancora!

A. Dumas, Il romanzo della Maschera di ferro, Editrice Piccoli - Edizioni il capitello

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Antologia 2

CappelloDue amicheLa regina guardò fieramente la duchessa di Chevreuse.– Mi par di capire dalle vostre parole che voi mi giudicate for-tunata. Eppure, duchessa, ho sempre creduto che non esistesse creatura umana più infelice della regina di Francia.– Mia signora, siete davvero la Madre addolorata. Ma, a parte le grandi miserie che rievocavamo poco fa, noi vecchie amiche se-parate dalla malvagità degli uomini; a parte, dico, quelle reali sventure, voi godete pur sempre delle gioie di poca importanza, è vero, ma molto invidiate da questo mondo.– Quali? – domandò amaramente Anna d’Austria. – Come pote-te pronunciare la parola gioia, duchessa, proprio voi che dianzi1 giudicavate necessari dei rimedi per il corpo e per l’anima della vostra regina?La duchessa di Chevreuse meditò un istante.– Come sono lontani i re dagli altri uomini – mormorò.– Che volete dire?– Voglio dire che sono talmente lontani dal volgo, che dimen-ticano tutte le necessità della vita degli altri: così l’abitante del-la montagna africana, dalle sue alture verdeg-gianti, fresche dei ru-scelli di neve, non sa che l’abitante del piano muore di sete e di fame nelle terre bruciate dal sole.La regina arrossì leg-germente: aveva com-preso.– Che peccato – disse – non aver più goduto della nostra amicizia!– Oh, mia signora, si dice che il re abbia ere-

Un terribile segreto (2ª parte) Alexandre Dumas

alla scoperta duìi misteri e tesori3. È tutta un’avventura

1.  dianzi: prima, poco fa.

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ditato l’odio che mi portava suo padre. Mi farebbe scacciare se sapesse che sono qui.– Non dico che il re sia ben disposto verso di voi, duchessa – ri-spose la regina – ma io potrei… in segreto…Sulle labbra della duchessa spuntò un sorriso sdegnoso che pre-occupò la sua interlocutrice.– Del resto – s’affrettò a soggiungere la regina – avete fatto mol-to bene a venire.– Grazie, mia signora!– Non foss’altro che per darmi la gioia di smentire, con la vostra presenza, la notizia della vostra morte.– Hanno detto sul serio ch’ero morta?– Certo.– Vostra Maestà non avrebbe dovuto credere alle voci della mia morte.– Perché no? Ahimè! Siamo mortali; non vedete che io, vostra so-rella minore, come dicevamo un tempo, mi piego già verso il se-polcro?– Vostra Maestà, se ha creduto alla mia morte, avrebbe dovuto stupirsi di non aver mai ricevuto da me notizia d’una qualche malattia.– La morte talvolta è improvvisa, duchessa.– Oh! Le anime cariche di segreti, come quello che rievocavamo poco fa, hanno bisogno di aprirsi prima d’andarsene nell’eterni-tà: devono, anzitutto, mettere in ordine le proprie carte.La regina sussultò.– Vostra Maestà – aggiunse la duchessa – avrà conoscenza sicu-ra del giorno della mia morte.– In che modo?– Ella riceverà il giorno dopo, chiuso in una busta, tutto ciò ch’è rimasto della nostra corrispondenza segreta d’un tempo.– Non avete bruciato tutto? – esclamò Anna con spavento.– Oh, cara Maestà – fece la duchessa – solo i traditori bruciano una corrispondenza regale.– I traditori?– O meglio, fingono di bruciarla, la conservano e la vendono.– Mio Dio!– I fedeli, invece, nascondono gelosamente simili tesori: poi, un giorno, vengono a trovare la loro regina, e le dicono: «Mia signo-ra, sono ormai vecchia e malata; potrei morire da un momen-to all’altro, e allora potrebbe venire alla luce il segreto di Vostra Maestà; prendete queste carte pericolose e bruciatele voi stessa».– Carte pericolose! Quali?– In verità, io ne possiedo una soltanto, ma pericolosissima.– O duchessa, dite, dite!

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– Si tratta di un biglietto… che reca la data del 2 agosto 1644, in cui mi raccomandavate d’andare a Noisy-le-Sec per vedere quel caro e infelice bambino. È scritto così, di vostro pugno: «caro e infelice bambino».Seguì un silenzio profondo: la regina misurava l’abisso, la du-chessa di Chevreuse tendeva l’insidia.– Sì, infelice, infelicissimo – mormorò Anna d’Austria. – Qua-le triste esistenza la sua, povero ragazzo, per finire così crudel-mente!– È morto? – esclamò vivamente la duchessa, con una curiosità che la regina sentì dolorosa e sincera.– Morto di consunzione2, morto dimenticato, sfiorito, come i po-veri fiori offerti da un innamorato e che l’innamorata lascia ap-passire in un cassetto per nasconderli a tutti.– Morto! – ripeté la duchessa, con un tono di scoraggiamento che avrebbe rallegrato la regina, se non fosse stato temperato dall’ombra d’un dubbio. – Morto a Noisy-le-Sec?– Ma sì, nelle braccia del suo tutore, povero servitore onesto, che non gli è sopravvissuto a lungo.– Si capisce: sono assai pesanti da portare un lutto e un segreto simili!…La regina non si diede la pena di rilevare l’ironia di quella ri-flessione. La duchessa di Chevreuse continuò:– Ebbene, mia signora, m’informai, qualche anno fa, proprio a Noisy-le-Sec, della sorte di quel fanciullo tanto infelice. Mi si dis-se che non era morto. Oh! Certo, se l’avessi saputo, non avrei fatto la minima allusione al tristissimo evento per non ridestare il le-gittimo dolore di Vostra Maestà.– A Noisy si negava dunque la scomparsa del ragazzo?– No, mia signora.– E che si diceva, allora?– Si diceva… Ma certo non era vero.– Dite lo stesso.– Si diceva che una sera, verso il 1645, una dama bella e ma-estosa, che tale appariva nonostante la maschera e il mantello con cui si copriva, una dama d’alto, anzi d’altissimo lignaggio, era arrivata in una carrozza al crocicchio della strada, proprio là dove io aspettavo, come sapete, le notizie del giovane principe, quando Vostra Maestà si degnava d’incaricarmene.– Ebbene?– E che il tutore aveva condotto il ragazzo dalla grande dama.– E poi?– Che l’indomani, tutore e ragazzo avevano lasciato il paese.– Lo vedete! C’è del vero in quel che dite, poiché, effettivamente, il povero ragazzo morì d’uno di quei mali improvvisi che, a det-

2.   c onsun zione: deperimento fisico.

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ta dei medici, minacciano fino ai sette anni la vita dei fanciulli.– Oh! Certo Vostra Maestà dice il vero; nessuno lo sa meglio di voi, mia signora; nessuno lo crede più di me. Però, vedete quant’è curioso…«Che c’è ancora?» pensò la regina.– La persona che mi diede quelle notizie, la stessa ch’era andata a informarsi della salute del ragazzo; quella persona…– Avete affidato un simile incarico a qualcuno? Oh, duchessa!– Qualcuno muto come Vostra Maestà, come me; mettiamo che fossi io, in persona, signora. Questo qualcuno, andando qualche tempo dopo in Turenna…– In Turenna?– Riconobbe il tutore e il ragazzo, scusate… credette di ricono-scerli, entrambi vivi, allegri e felici, entrambi fiorenti, l’uno nella sua verde vecchiezza, l’altro nella sua giovinezza in fiore! Giudi-cate, dopo questo, ciò che valgono le voci che corrono; fidatevi di quel che succede al mondo!… Ma io annoio Vostra Maestà. Oh! Non è mia intenzione, e prendo congedo dopo averle rinnovato tutta la mia rispettosa devozione.– Aspettate, duchessa; parliamo un poco di voi.– Oh, mia signora, non abbassate il vostro sguardo fino a me.– Perché no? Non siete la mia più vecchia amica? Avete forse qualcosa contro di me, duchessa?– Io! Mio Dio, per quale motivo? Sarei venuta da Vostra Maestà, se avessi avuto qualche ragione di malcontento?– Nessuno mi ha amata e servita come voi, duchessa.– Vostra Maestà se ne ricorda?– Sempre… Duchessa, datemi una prova della vostra amicizia.– Ah, mia signora, tutto il mio essere appartiene a Vostra Maestà.– Una prova!– Quale?– Domandatemi qualcosa.– Domandare?– Oh! Lo so che siete la creatura più disinteressata, più grande, più regale.– Non mi lodate troppo – disse la duchessa, preoccupata.– Non vi loderò mai come meritate.La duchessa addolcì lo sguardo e il sorriso. Non si nasconde-va più.– Parlate, cara – disse la regina – che volete?– Lo debbo dire?– Senza esitare.– Ebbene, Vostra Maestà può darmi una gioia indicibile, una gioia incomparabile.– Sentiamo – fece la regina con una certa inquietudine. – Ma,

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prima di tutto, mia buona Chevreuse, ricordatevi che ho poca in-fluenza su mio figlio, come ne avevo poca su mio marito.– Non pretenderò troppo, cara regina.– Chiamatemi Anna, come allora: sarà una dolce eco della bella giovinezza.– Ebbene, mia venerata padrona, Anna cara…– Sai sempre lo spagnolo?– Sempre.– Domandami in spagnolo, allora.– Ecco: fatemi l’onore di venire a passare qualche giorno nei miei possedimenti di Dampierre.– È tutto? – esclamò la regina, stupefatta.– Sì.– Solo questo?– Buon Dio! Credete forse che non vi domandi il più grande be-neficio? Vuol dire che non mi conoscete più. Accettate?– Sì, di buon cuore.– Oh! Grazie.– E sarò felice – continuò la regina, con diffidenza – se la mia presenza potrà esservi utile in qualche cosa.– Utile? – rispose la duchessa, ridendo. – Oh no, no! Piacevole, dolce, deliziosa, sì, mille volte sì. Allora, è promesso?– È giurato.La duchessa si piegò sulla mano tanto bella della regina, e la co-prì di baci.«È una buona donna, in fondo» pensò Anna d’Austria «e… d’ani-mo generoso».– Vostra Maestà – riprese la duchessa – mi concede quindici giorni di tempo?– Sì, certo! Ma perché?

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– Perché, spiegò la duchessa – mi sanno in disgrazia, e nessu-no mi vuol prestare i centomila scudi che mi occorrono per re-staurare Dampierre. Ma quando sapranno che il denaro serve per ricevere Vostra Maestà, tutti i fondi di Parigi affluiranno a casa mia.– Ah – fece la regina, scuotendo con dolce eleganza la testa– cen-tomila scudi! Tanto occorre per restaurare Dampierre?– Tanto.– E nessuno vuol prestarveli?– Nessuno.– Ve li presterò io, se volete, duchessa.– Oh! Non oserò mai…– Avreste torto.– Sì?– Parola di regina!… Centomila scudi, non è poi molto.– Non è vero?– No. Oh! Io so che non avete mai fatto pagare la vostra discre-zione per quel che vale; Duchessa, avvicinate quel tavolino, affin-ché scriva un ordine di pagamento per il signor Colbert; no, per il signor Fouquet, che è assai più gentile.– Pagherà?– Se non pagherà lui, pagherò io; ma sarebbe la prima volta che si rifiuta.La regina scrisse, diede la cedola alla duchessa, e la congedò dopo averla allegramente abbracciata.

A. Dumas, Il romanzo della Maschera di ferro, Editrice Piccoli - Edizioni il capitello