antropologia della scrittura. con unappe

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Quaderni dell’Istituto di Scienze del Linguaggio 11 UNIVERSITÀ IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione

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Page 1: Antropologia Della Scrittura. Con Unappe

Quaderni dell’Istituto di Scienze del Linguaggio • 11

UNIVERSITÀ IULM

Libera Università di Lingue e Comunicazione

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Quaderni di Scienze del Linguaggio

1. D. Antelmi, G. Garzone, F. Santulli, Lingua d’oggi. Varietà e tenden-ze.

2. D. Antelmi, Fisiologia e patologia dell’apprendimento linguistico.3. F. Santulli, L’interferenza. Lezioni.4. M. Cislaghi, A. Filippin, G. Rocca, F. Santulli, A. Zagatti, O Padre

nostro che ne’ cieli stai, a cura di M. Negri.5. F. Santulli (a cura di), La linguistica tra naturalismo e storicismo.

Antologia di testi.6. G. Rocca, Lezioni di glottologia. Temi ed esercizi.7. G. Garzone, F. Santulli, La voce e la macchina. Fonetica, glottodi-

dattica, multimedialità (con CD-rom).8. M. Negri, L’enigma della cifra.9. S. Vassere, Legislazioni linguistiche contemporanee.10. L. Airaghi, Le astuzie di Eva. Cenni di crittografia e crittoanalisi.11. G. M. Facchetti, Antropologia della scrittura.12. G. Rocca, Itinerari etnico-linguistici in Sabina.13. M. Negri, EPI OINOPA PONTON. A Itaca nell’età degli eroi (con un

contributo di Ida Ruffoni su “Le navi di Omero”).14. D. Antelmi, G. Rocca, Materiali ed analisi di testi.15. C. Sessa, Itinerari di cultura alimentaria arbëreshe.16. G. Rocca, Itinerari etnico-linguistici tra Marche e Abruzzo.17. S. Vassere, Legislazioni linguistiche contemporanee. 2004.18. P. Biavaschi, G.M. Facchetti, G. Rocca, Miscellanea italica.19. M. Negri, Storia di Parole. Con un contributo di Clelia Sessa su “Il

nome della pizza”.20. M. Treu, Cosmopolitico. Il teatro greco sulla scena italiana contem-

poranea.21. G. Sarullo, Esercizi di Fonologia dell’inglese.22. M.Giovini, Un conflictus terenziano del X secolo: il Delusor. Pre -

fazione di Ferruccio Bertini23. E. Notti, Lo spazio circolare nelle culture dell’Indeuropa.

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Presentazione

Questo libro ha, senza dubbio, un titolo “pesante”. ConAntropologia della scrittura Giorgio Raimondo Cardona inaugura-va, più di venticinque anni fa, l’interesse della linguistica italianaper il versante grafico del codice comunicativo fondamentale.L’averlo ripreso è, in limine, anche un doveroso omaggio.Come le lingue, così le scritture obbediscono a leggi generalis-sime – ed è questa circostanza che potrebbe autorizzarne appuntouna trattazione “antropologica” Ma, a differenza delle lingue, lescritture comportano anche problemi di ardua specificità, che coin-volgono competenze di norma eccedenti quelle del linguista (purnon potendo d’altro canto prescinderne). Ed è questa doppia com-petenza a selezionare i pochi – almeno in Italia – studiosi capaci diaffrontare il tema generale attraverso la necessaria conoscenza di(almeno) alcuni dei suoi aspetti particolari.Facchetti ha competenze di alta specializzazione nelle scrittureegee (mi sento di testimoniarlo di persona) e (per autorevoli e una-nimi consensi) nell’etrusco. E’ fra i pochi che partecipano da prota-gonisti alle ricerche sul rongo-rongo. Su altre scritture (come quel-la di Harappa e il maya) si muove con sicurezza. Di molte altre(come il geroglifico egiziano) ha buona competenza.Quando ho individuato nella storia della scrittura l’ambito su cuifondare la mia ultima attività didattica, non ho avuto dubbi nel rico-noscere in Giulio Facchetti il collega che avrebbe potuto condivi-dere con me la fatica gratificante di condurre i nostri studenti attra-verso tempi e per luoghi remoti, sulle tracce della sua invenzione.Anche per questo fine Facchetti ha scritto questo libro che, ripren-dendo il titolo del lavoro aurorale di Cardona, lo condivide anchecon il mio – ma mi sento di dire “il nostro” – insegnamento.

Mario NegriMilano, Marzo 2007

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GIULIO M. FACCHETTI

ANTROPOLOGIA DELLASCRITTURA

Con un’appendice sulla questionedel rongorongo dell’Isola di Pasqua

Milano 2007

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© 2002 Arcipelago edizioniVia Carlo D’Adda, 21

20143 [email protected] edizione: ottobre 2002

Seconda edizione: settembre 2007ISBN 88-7695-238-1Tutti i diritti riservati

Ristampe:7 6 5 4 3 2 1 02012 2011 2010 2009 2008 2007È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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Les hommes qui ont inventé etperfectionné l’écriture ont été degrands linguistes et ce sont euxqui ont créé la linguistique.

ANTOINE MEILLET

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INDICEAVVERTENZA TERMINOLOGICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

CAPITOLO 1Tipi di scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

CAPITOLO 2 Origine e diffusione della scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

CAPITOLO 3Scrittura ideografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

CAPITOLO 4Scrittura fonetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127

CAPITOLO 5Scrittura come tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

CAPITOLO 6 Da leggere e da capire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161

Lista delle abbreviazioni bibliografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185

APPENDICEKohau rongorongo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187

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AVVERTENZA TERMINOLOGICA

Per evitare equivoci ho ritenuto utile premettere al lavorouna breve nota con la precisazione del senso con cui certi ter-mini tecnici sono stati da me uniformemente impiegati.determinativo: grafema usato per agevolare la definizionedel significato di una determinata sequenza scritta (di solito diuna parola); in origine il determinativo fu introdotto per eli-minare possibili letture ambigue, ossia come ausilio semanti-co scritto in caso di omofoni od omografi; i determinativi nonsono letti.grafema: unità minima del sistema di scrittura (cioè ogni sin-golo segno autonomo).grafo: ogni realizzazione concreta del grafema-modelloastratto.ideogramma: sinonimo (da me poco impiegato) di logo-gramma (v. Pope 1978, p. 275; Cardona 1986, p. 274). Il ter-mine è comunque ambiguo perché alcuni lo intendono comesinonimo di pittogramma (cfr. Pope 1978, p. 275). Altri distin-guono invece l’ideogramma, come grafema evocante il signi-ficato di un segno linguistico, dal logogramma, come grafemaevocante il significante di un segno linguistico (Roccati, inNegri 2000b, p. 62); riguardo a questa distinzione definitoria,in effetti concernente l’impiego dell’ideogramma-logogram-ma, io ho adottato, rispettivamente, “logogramma” (o “ideo-

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gramma”) tout court e “logogramma (o ideogramma) usatocome fonogramma”.logogramma: grafema indicante un’intera parola (per es., nelnostro sistema: $, +, 3). In questo libro il termine in questio-ne è impiegato come sinonimo preferenziale di ideogramma(per usi differenti v. alla voce “ideogramma”). Le abbrevia-zioni sono fonogrammi impiegati come logogrammi.fonogramma: grafema indicante una sequenza fonica dellalingua. Talvolta per indicare un suono minimo della lingua ènecessario impiegare più di un grafema assieme (si parla allo-ra di “digrafi” o “trigrafi”).pittogramma: componente di una pittografia. Molti usano iltermine “pittogramma” per indicare i logogrammi che ripro-ducono graficamente, in modo riconoscibile, la forma delreferente della parola significata o la forma di un oggetto cherichiama detto referente; in questo libro ho qualificato casisimili come “logogrammi iconici”.pittografia: esperienza prescritturale consistente in una com-posizione di pittogrammi, la quale fissa il contenuto di unmessaggio senza riferirsi a una precisa forma linguistica, a unenunciato parlato.

12 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

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APPENDICEKOHAU RONGORONGO

1. La misteriosa scrittura rongorongoSe l’interpretazione di un testo scritto non pone problemial soggetto che conosca scrittura e lingua, quando questeconoscenze vengono a mancare1 (e non sono più recuperabiliperché la scrittura è “dimenticata” e/o la lingua soggiacenteestinta o ignota) sorgono grosse difficoltà che si possono clas-sificare su tre livelli principali:1. Scrittura nota e lingua ignota.2. Scrittura ignota e lingua nota.3. Scrittura e lingua ignote.Il secondo caso in cui l’interpretazione di un testo scrittopone problemi interpretativi comporta dunque la presenza diun codice scrittorio ignoto perché “dimenticato”, mentre siconosce come dato certo o altissimamente probabile qual è lalingua soggiacente. In realtà questa situazione non si verificamolto frequentemente e, comunque, non “dura” a lungo, per-ché, in linea di massima, conoscendo il codice lingua soggia-cente, con un adeguato studio del materiale (specie se dispo-nibile in quantità non irrisorie) è sempre possibile giungerealla decifrazione.

1 Cfr. supra, nel capitolo 6.

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In una situazione attuale di “scrittura ignota e lingua nota”permane il sistema della scrittura rongorongo dell’Isola diPasqua, tuttora indecifrata.

Non esistono motivi, in effetti, per dubitare che la linguatrascritta sia quella indigena, una varietà antica del rapanui(appartenente al ramo polinesiano della grande famiglia lin-guistica austronesiana) ancora oggi parlato dai discendentidegli abitanti originari.Secondo le tradizioni locali le iscrizioni su tavolette o altrioggetti (dette kohau motu mo rongorongo “le linee di scrittu-ra da recitare” o semplicemente kohau rongorongo “le lineedella recitazione”) si distinguevano in vari tipi: kohau ta’u“kohau degli anni”, ossia “annali”; kohau îka “kohau dellevittime”, liste di persone cadute in guerre o battaglie; koahuraga “kohau dei fuggitivi”, liste di persone espulse dalle lorocase; kohau hiri taku ki te atua, inni religiosi.D’altronde, a prescindere dalla questione della decifrabi-lità e della più o meno grande importanza del contenuto delleepigrafi superstiti, la scrittura rongorongo rappresenta unfenomeno culturale di straordinario interesse.Il rongorongo è il primo e unico sistema scrittorio creatoautonomamente da una popolazione dell’Oceania e, per dipiù, su un’isola che, a dispetto della sua grande lontananza daogni altro arcipelago abitato o massa continentrale, sviluppòuna cultura oggi conosciuta in tutto il mondo per la costruzio-ne delle gigantesche statue moai.

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ESEMPIO DI SCRITTURA RONGORONGO

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2. L’ombelico del mondoIl 5 aprile del 1722, domenica di Pasqua, tre navi olandesisotto il comando dell’ammiraglio Jacob Roggeveen avvistaro-no un’isola fino ad allora non segnata sulle carte: un vasto trian-golo di roccia vulcanica collocato nel Pacifico meridionale, apiù di 2000 miglia dai più vicini centri abitati (Tahiti e il Cile).Il giorno successivo gli Olandesi notarono delle colonne difumo che si levavano da varie zone dell’isola, ma soltanto il 7aprile, cessato il cattivo tempo, poterono avvicinarsi, sbarcareed entrare in contatto con la popolazione indigena.Gli isolani, naturalmente, manifestarono grande stuporealla vista dei nuovi venuti e delle loro navi, ma anche gliOlandesi, dal canto loro, rimasero sbalorditi degli enormi emonolitici moai (che ritennero costruiti con argilla); l’acco-glienza dei nativi fu amichevole, con offerte di generi ali-mentari, anche se non mancò l’occasione di una scaramuccia,in cui una decina di indigeni caddero sotto i colpi di arma dafuoco degli ospiti.L’Isola di Pasqua fu forse avvistata già nel 1563 da JuanFernandez e, più probabilmente, nel 1687 da Edward Davis,ma le loro indicazioni circa la collocazione sono vaghe e,comunque, i primi Europei a sbarcare furono i marinai diRoggeveen.Il nome “Isola di Pasqua” fu dunque scelto da Roggeveen,per commemorare il giorno della scoperta; il nome indigenoattuale è però Rapa Nui e con tale espressione (anche scrittarapanui) si designa la popolazione e la lingua locale.Tuttavia neanche Rapa Nui (“grande Rapa”) è il nome ori-ginario, dato che esso fu attribuito all’Isola di Pasqua, attornoal 1860, da marinai tahitiani che la trovavano somigliante aRapa, un’isoletta della Polinesia francese oggi nota comeRapa Iti (“piccola Rapa”).2

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 189

2 Su Rapa Iti e le sue notevoli rovine archeologiche si può leggere ilX capitolo del famoso libro Aku-Aku. Il segreto dell’Isola di Pasqua,Firenze, Giunti Martello, 1976, di Thor Heyerdahl.

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A quanto ci è dato di sapere il nome originario era “te Pitoo te Henua”, cioè “l’ombelico della Terra” o “il centro delmondo”.Secondo i dati archeologici l’isola di Pasqua fu scoperta ecolonizzata da popolazioni polinesiane attorno al 400 d.C.Le leggende locali pongono a capo della prima spedizioneil re Hotu Matu’a, da cui assumeva di derivare l’antica fami-glia reale (il clan dei principali discendenti di Hotu Matu’a sichiamava Miro).La lingua rapanui, d’altronde, è evidentemente imparenta-ta con le lingue del ramo polinesiano della grande famigliaaustronesiana.Il repertorio dei fonemi del rapanui, come quello di tutte lelingue polinesiane, è assai ridotto; esso si compone in tutto dicinque vocali: /a/, /e/, /i/, /o/, /u/ e di dieci consonanti: /p/, /t/,/k/, /v/, /r/, /m/, /n/, /˜/ (scritto ng o g), /h/, /÷/ (il “colpo diglottide”, scritto con l’apice ’ oppure omesso).Il rapanui è la lingua austronesiana moderna che conserva itratti più vicini a quelli dell’antico proto-polinesiano orientale,da cui derivano, tra gli altri, il marchesano, il hawaiano, il tahi-tiano, il mangarevano, il paumotu, il maori, il rarotongano.Un confronto lessicale esemplificativo con il hawaiano e ilmaori (lingua dell’omonima popolazione indigena diAotearoa, ossia la Nuova Zelanda) può dare un’idea dellastretta parentela del rapanui3 (in ogni esempio la prima formaè in rapanui, la seconda in hawaiano, la terza in maori): au /a’u / au “io”; koe / ’oe / koe “tu”; tahi / kahi / tahi “uno”; rua/ lua / rua “due”; toru / kolu / toru “tre”; manu / manu / manu“uccello”; motu / moku / motu “isola”, “scoglio”; vai / wai /wai “acqua”; ahi / ahi / ahi “fuoco”; ra’à / la / râ “sole”;

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3 Si tenga presente che in hawaiano il numero delle consonanti, conla scomparsa di /t/ e /˜/, si è ridotto addirittura a otto: /p/, /k/, /w/, /l/, /m/,/n/, /h/, /÷/; rispetto al rapanui sono intervenuti i seguenti passaggi: /t/ >/k/, /k/ > /÷/ (con eccezioni), /r/ > /l/, /˜/ > /n/; in hawaiano, inoltre, /w/ staper rapanui /v/.

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maunga / mauna / maunga “montagna”; hetu’u / hoku / whetû“stella”; tangata / kanaka / tangata “persona”; ariki / ali’i /ariki “re”, “capo”; hare / hale / hare “casa”; ika / i’a / ika“pesce”. La parola per “mare” in hawaiano e maori è moana,termine che in rapanui mantiene il suo significato proprio eoriginario (“blu”); in rapanui il mare è chiamato vai kava“acqua salata”. L’indiscutibile affinità linguistica, così come quella razzia-le, confermata dalle analisi genetiche, sembra indurre perciòa individuare nell’area polinesiana il luogo d’origine degliantichi colonizzatori dell’Isola di Pasqua.La posizione di totale isolamento produsse una societàcomplessa e oggi solo parzialmente conosciuta; tuttavia iltratto a prima vista più impressionante (i giganteschi moai, egli ahu, le piattaforme di pietra), pur rappresentando per moltiaspetti un unicum, si inquadra in una tendenza generale delleciviltà evolute della Polinesia verso l’architettura monumen-tale (si considerino le tombe dei re tongani, gli edifici ceri-moniali delle Marchesi, i templi delle Hawaii e delle Isoledella Società).4Secondo alcuni la popolazione di Rapa Nui, al suo acme,dovrebbe aver raggiunto e superato il limite di 10.000 abitan-ti, dato demografico di gran lunga eccedente le capacità del-l’ecosistema dell’isola, col risultato che le risorse diventaronosempre più scarse e la foresta un tempo lussureggiante fu deltutto obliterata per le necessità della coltivazione e per procu-rarsi il legname necessario alle operazioni di spostamento einnalzamento dei numerosi moai.Il disastro ecologico esasperò al massimo la lotta per lasopravvivenza e un rigoglioso e avanzato ordine sociale dege-nerò (forse a partire dal XVI secolo) in una serie di sanguino-se guerre intestine, con gravi episodi di violenza e perfino di

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 191

4 Cfr. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Torino, Einaudi, 1998,p. 46.

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cannibalismo. Sembra che la drammatica consapevolezza didiscendere anche da kai-tangata (“mangiatori di persone”)fosse ben presente ai Pasquensi, perfino in tempi recenti.Stando ai racconti tradizionali la popolazione era distinta,oltre che in diversi clan, in due “razze” (hanau) diverse: la“razza tarchiata” (hanau eepe) e la “razza snella” (hanaumomoko), anche note come “lunghi orecchi” o “corti orecchi”,dato che «nei tempi antichi i lobi della appartenenti alla razzatarchiata penzolavano fino alle loro spalle» («i te nohoga tûaiera-á he reperepe te epe roaroa o te hanau eepe ka topa-ró kite kapuhivi»). I moai sarebbero stati eretti dalla razza tarchiata,visto che le enormi statue scolpite presentano la caratteristica diavere i lobi degli orecchi perforati e allungati.Peraltro, nel corso di queste battaglie, molti degli antichimoai, simbolo del potere e del lustro dei vari clan, furono spez-zati e abbattuti; diversi complessi statuari oggi ammirabili sul-l’isola sono stati restaurati e ricollocati dagli archeologi.L’età della decadenza di te Pito o te Henua era cominciataben prima dell’arrivo delle navi europee; tuttavia, a quantorisulta, gli scontri tribali si protrassero anche nel XVIII secolo.I primi Europei, del tutto ignari della crisi che aveva scon-volto l’isola, rilevarono così uno stridente contrasto tra le con-dizioni di estrema povertà e decadenza degli abitanti e l’im-ponenza dei resti delle statue monumentali.D’altro canto, il contatto con la “civiltà” occidentale pro-dusse in definitiva effetti, se possibile, ancor più disastrosisulla società pasquense.Dopo gli Olandesi, una spedizione guidata da FelipeGonzalez de Haedo prese possesso, nel 1770, dell’isola, innome del re di Spagna, ribattezzandola “isola di San Carlo”;durante la cerimonia di “appropriazione” un documento uffi-ciale fu redatto davanti ad alcuni notabili locali, cui fu perfi-no richiesto un atto di “sottoscrizione”. Sarà necessario ritor-nare su questo notevole episodio.

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Il capitano James Cook si fermò brevemente sull’isola il17 marzo 1774, durante il suo secondo viaggio nei Mari delSud. Dal suo giornale di bordo sappiamo che egli potè stima-re a “sei o settecento anime” la popolazione complessiva, chericonobbe subito come appartenente alla stessa razza poline-siana dei nativi neozelandesi e degli altri popoli isolani delPacifico collegati da affinità di lingua e costumi.5 Cookaggiunge annotazioni molto interessanti: «Della loro religio-ne, del governo, ecc. non possiamo dire niente con certezza.Le stupende statue erette in differenti punti lungo la costa nonsono certamente la rappresentazione di qualche divinità o luo-ghi di adorazione, ma con la massima probabilità aree funera-rie per certe tribù o famiglie. Io stesso vidi uno scheletroumano giacente nella fondazione di una, appena coperto conpietre».6Nel 1786 J.F.G. de la Pérouse, a capo di una spedizionefrancese, trascorse sull’isola undici ore, cercando di introdur-re nuove piante e animali (maiali, capre e pecore) per aiutarela popolazione; secondo la sua stima sull’isola vivevano allo-ra circa 1200 persone. La Pérouse riferisce con quale impres-

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 193

5 «The Inhabitants of this isle from what we have been able to see ofthem do not exceed six or seven hundred souls and a bove two thirds ofthese are Men, they either have but a few Women among them or elsemany were not suffer’d to make their appearance, the latter seems mostProbable. They are certainly of the same race of People as the NewZealanders and the other islanders, the affinity of the Language, Colourand some of their customs all tend to prove it, I think they bearing moreaffinity to the Inhabitants of Amsterdam and New Zealand, than those ofthe more northern isles which makes it probable that there lies a chain ofisles in about this Parallel or under, some of which have at different timesbeen seen».6 « Of their Religion, Government &ca we can say nothing with cer-tainty. The Stupendous stone statues errected in different places along theCoast are certainly no representation of any Diety or places of worship;but the most probable Burial Places for certain Tribes or Families. I sawmy self a human Skeleton lying in the foundation of one just covered withStones».

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sionante attenzione e meticolosità alcuni nativi abbiano volu-to ammirare e, anzi, ispezionare minuziosamente e ripetuta-mente strumenti e attrezzi di bordo.Nel secolo XIX i contatti con gli Occidentali strinserosempre più l’Isola di Pasqua in una morsa catastrofica. Essa,ormai chiaramente segnata sulla carta geografica, divennescalo di baleniere, che si fermavano per cercare di rifornirsi dicibo e acqua. Queste “fermate” causarono il diffondersi dimalattie veneree.Nel 1808 i marinai della nave americana Nancy, dopo unabattaglia sanguinosa, riuscirono a catturare 12 uomini e 10donne con l’intento di ridurli in schiavitù. A tre giorni di viag-gio da Rapa Nui i prigionieri furono fatti uscire sul ponte; essisi gettarono prontamente fuori bordo, allontanandosi a nuoto;i tentativi di riacciuffarli risultarono vani, così la Nancyabbandonò gli sventurati al loro destino.Simili atti di crudeltà produssero l’effetto che i Pasquensicominciarono ad accogliere in modo ostile gli ormai moltivascelli che arrivavano sull’isola; in risposta a ciò gli isolanierano spesso colpiti da lontano con armi da fuoco, talvolta perpuro “divertimento”.All’inizio degli anni ’60 del XIX secolo il Perù attraversòun periodo di grande carenza di forza lavoro; così alcuni per-sonaggi senza scrupoli cominciarono a rastrellare schiavi intutto il Pacifico: l’Isola di Pasqua, per la sua relativa vicinan-za, divenne un obiettivo primario. Nel dicembre del 1862,durante le festività natalizie, otto navi peruviane “invasero”l’isola e catturarono circa 1000 abitanti inclusi lo sfortunato reMaurata, suo figlio e l’intera classe sacerdotale indigena. Iprigionieri che arrivarono sul continente furono ridotti inschiavitù in condizioni di grave sfruttamento, al punto che ilnovanta per cento di essi (Maurata compreso) morì entro dueanni dalla cattura. Più tardi, in seguito alle vibrate proteste delvescovo di Tahiti, il governo peruviano fu indotto a riportarei pochi superstiti sull’isola, ma, durante il viaggio di ritorno,

194 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

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a bordo scoppiò un’epidemia di vaiolo e soltanto 15 degli ex-schiavi pasquensi riuscirono a sopravvivere; essi furono sbar-cati ancora infetti, così che l’epidemia si propagò spazzandovia quasi completamente l’antica popolazione di Rapa Nui.L’arrivo dei missionari francesi nel 1864 (Eugène Eyraudfu il primo occidentale ad abitare stabilmente nell’isola) e larapida e completa conversione al cattolicesimo spensero ulte-riormente la memoria delle antiche usanze.Jean-Baptiste Onexime Dutrou-Bornier, il capitano dellanave che aveva trasportato i missionari, riuscì in seguito aimpadronirsi della maggior parte della terra dell’Isola diPasqua e vi impiantò un vasto allevamento di ovini; per potermeglio sfruttare gli isolani riuscì, con minacce e violenze, acacciare i missionari cattolici. Avendo sposato Korato, un’in-digena vedova di un capo locale, egli riuscì a farla proclama-re regina dell’isola e ad instaurare, tramite lei, un regimeoppressivo. Doutrou-Bornier morì nell’agosto del 1876, forsein modo accidentale, in seguito a una caduta da cavallo.L’ufficiale della marina degli Stati Uniti William Thomson,che sbarcò a Rapa Nui nel dicembre del 1886, afferma che lacaduta da cavallo di Dutrou-Bornier sarebbe stata provocatadagli indigeni, stanchi del sistema di spionaggio e intrighiintrodotto da Korato, la quale ultima, con le due figlie,sopravvisse in effetti solo pochi anni alla morte del maritofrancese.7 Va detto però che nell’aprile del 1877, quandoAlphonse Pinart visitò l’isola, incontrando la regina Korato ele due piccole figlie di Dutrou-Bornier, Caroline e Hariette,egli poté registrare un attaccamento, almeno apparente, degliisolani nei confronti del suo compatriota da poco scomparso.8

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 195

7 W.J. Thomson, Te Pito Te Henua, or Easter Island. Report of theUnited States National Museum for the Year Ending June 30, 1889, in“Annual Reports of the Smithsonian Institution for 1889”, Washington,Smithsonian Institution, 1891, p. 473.8 A. Pinart, Voyage a l’Île de Pâque, Le Tour du Monde, vol. 36,1878, pp. 225-240.

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Nel 1868 gli abitanti dell’isola ammontavano a circa 900unità; nel 1875, poi, circa 500 Pasquensi risultano essersi tra-sferiti a Tahiti per lavorare sotto contratto nelle locali pianta-gioni di canna da zucchero, così che nel 1877 erano rimasti aRapa Nui solo 111 nativi (aumentati a 155 all’epoca del viag-gio di Thomson, nel 1886).Nel 1888 l’isola fu poi annessa dal Cile al suo territorionazionale; da allora, pur attraverso altri soprusi e maltrattamen-ti cessati solo nel 1965, la popolazione è cresciuta fino a oltre2000 abitanti. Dal 1967, con l’apertura dell’aeroporto, i contat-ti con il resto del mondo sono ormai normali e frequenti.Questa rapida presentazione delle ultime (spiacevoli)vicende storiche dell’isola (specialmente la tragica deporta-zione del 1862) fa capire il motivo per cui la conoscenza delfunzionamento dell’antica scrittura indigena rongorongo siaandata perduta assieme a molti altri tratti della cultura ance-strale.

3. La “scoperta” della scritturaLa prima menzione nota della scrittura rongorongo si trovain una lettera datata dicembre 1864 e consistente in una lungarelazione sulle condizioni dell’isola, inviata dal missionarioEugène Eyraud al vice-provinciale della Congregazione deiSacri Cuori di Gesù e Maria di Valparaiso (Cile).La lettera fu pubblicata nel 1866 negli Annales de laPropagation de la Foi e il brano che ci interessa si trova apagina 71 del volume 38 di detti Annales: «In tutte le capan-ne si trovano delle tavolette di legno o dei bastoni ricoperti dinumerose specie di caratteri geroglifici: sono delle figure dianimali sconosciuti sull’isola, che gli indigeni tracciano permezzo di pietre taglienti. Ciascuna figura ha il suo nome, mala poca considerazione che hanno per queste tavolette miinduce a pensare che questi caratteri, resti di una scrittura pri-

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mitiva, sono ora per loro un’usanza che conservano senza cer-carne il significato».9Padre Eyraud morì di tubercolosi a Rapa Nui nel 1868, aquanto pare senza aver più avuto occasione di parlare di ron-gorongo, nemmeno con i suoi collaboratori alla missione.Ma proprio nell’anno della morte di Eyraud gli isolani,recentemente convertiti, avevano inviato a Tepano (giàFlorentin Étienne) Jaussen, vescovo di Tahiti, un omaggioconsistente in un lungo intreccio di capelli umani avvoltoattorno a un vecchio pezzo di legno; esaminando il dono esvolgendo la treccia il vescovo rimase sbalordito nello sco-prire che il piccolo asse ligneo era interamente coperto digeroglifici.Il vescovo Jaussen scrisse immediatamente a padreHippolyte Roussel, residente sull’Isola di Pasqua, esortando-lo a raccogliere tutte le tavolette che avesse rinvenuto e a cer-care qualcuno tra i nativi che fosse ancora capace di leggerle.Delle centinaia di tavolette e iscrizioni cui aveva allusoEyraud nella sua relazione di appena quattro anni prima, risul-tavano esserne rimasti ormai solo pochissimi esemplari.Secondo alcuni la più gran parte delle iscrizioni rongoron-go fu bruciata su sollecitazione dei primi missionari che(senza consultare i superiori) le avrebbero considerate unrelitto negativo del passato paganesimo;10 secondo altri ungran numero di tavolette fu invece nascosto dagli isolani perpreservarle dalla distruzione. Oggi però nessuno può dire conesattezza come andarono le cose; del resto delle due ipotesi

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 197

9 «Dans toutes les cases on trouve des tablettes de bois ou des bâtonscouverts de plusieurs espèces de caractères hiéroglyphiques: ce sont desfigures d’animaux inconnues dans l’île, que les indigènes tracent aumoyen de pierres tranchantes. Chaque figure a son nom; mais le peu decas qu’ils font de ces tablettes m’incline à penser que ces caractères,restes d’une écriture primitive, sont pour eux maintenant un usage qu’ilsconservent sans en chercher le sens».10 Così, esplicitamente, Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 514.

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una non esclude l’altra (infatti negli anni successivi a Jaussen“saltarono fuori” diverse altre tavolette).Inoltre non c’è motivo di non prestar fede alle parole diEyraud che parla espressamente della “poca considerazione”riservata dai Pasquensi ai rongorongo: è infatti più che vero-simile che in quell’epoca travagliata molti degli stessi nativinon abbiano più prestato tanto riguardo a quegli oggetti avitiormai illeggibili, consumandoli negli usi più svariati (si ricor-di per esempio l’impiego di una tavola come supporto per lamatassa di capelli inviata a Jaussen).In seguito alle prime ricerche effettuate, Tepano Jaussen siritrovò in possesso di quattro tavolette, peraltro lunghe e otti-mamente conservate: oltre alla B (anche nota come Aruku-Kurenga, con 1135 segni), che trovò tra i capelli ricevuti inomaggio, la A (anche nota come Tahua, con 1825 segni), la C(anche nota come Mamari, con 1000 segni) e la E (anche notacome Keiti, con 822 segni). Il numero di segni indicato ècomunque approssimativo. Tutte queste preziose iscrizioni,tranne la E che andò poi distrutta, sono oggi conservate aRoma, presso la Congregazione dei Sacri Cuori.In tutto oggi possediamo 26 epigrafi, convenzionalmenteindicate con il nome con cui sono note tra gli specialisti oppu-re, secondo l’uso introdotto da Barthel, con una lettera maiu-scola dell’alfabeto dalla A alla Z. In aggiunta alle quattro diJaussen ce ne sono altre di lunghezza davvero considerevole,come la I (o Santiago Staff: 2920 segni incisi sul bastone diun capoclan), la H (o Great Santiago, con 1580 segni) e la P(o Great Saint Petersburg, con 1163 segni), mentre altre anco-ra recano solo scarse tracce di scrittura, come la J (o Reimiro1, con 2 segni) e la W (o Honolulu 4, con 8 segni).Un’accurata edizione dei testi dell’isola di Pasqua è dispo-nibile su internet, in un sito davvero eccellente (www.rongo-rongo.org) per cura e affidabilità scientifica.

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Jaussen fu altresì in grado di rintracciare tra i lavoratorinelle piantagioni di Tahiti un certo Metoro Tauara, nativo del-l’isola di Pasqua e sedicente istruito, in quanto di nobile estra-zione, nella conoscenza della scrittura rongorongo. Il vesco-vo, sottoposte le sue prime quattro tavolette a Metoro, comin-ciò trascriverne piuttosto fedelmente la recitazione, oggi notacome “canto di Metoro”.Metoro pronunciava le sue letture seguendo le linee inordine bustrofedico, cioè cambiando verso alla fine di ogniriga. Una particolarità del rongorongo è infatti quella di esse-re una scrittura bustrofedica e rovesciata, vale a dire che allafine di ogni riga per continuare la lettura si dovrebbe capo-volgere la tavoletta. Il fatto che Metoro non abbia capovoltole tavolette indica, secondo Thomas Barthel, la sua abilità nelriconoscere i segni anche capovolti.Barthel, etnologo e poi professore all’Università diTubinga, riscoprì nel 1954 il “canto di Metoro” e gli appuntimanoscritti di Jaussen e giunse a pubblicare, nel 1958, unlibro ancor oggi fondamentale per la materia, intitolatoGrundlagen zur Entzifferung der Osterinselschrift(Fondamenti per la decifrazione della scrittura dell’Isola di

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FACCIA POSTERIORE DELLA TAVOLETTA G (SMALL SANTIAGO)

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Pasqua), contenente una classificazione dei circa 600 segni (ilsuo sistema di numerazione è ancora in uso), un’edizione ditutti i testi conosciuti (Corpus Inscriptionum PaschalisInsulae), oltre a notizie storiche, commenti alle letture diMetoro, tentativi di interpretazione.Barthel ebbe altri grossi meriti, come quello del riconosci-mento dell’importante “calendario lunare” sulla tavoletta C(Mamari), uno dei pochi punti fermi per ogni tentativo didecifrazione, tuttavia egli commise l’errore di attribuire trop-pa affidabilità alle letture di Metoro e su di esse imbastì unaserie di interprezioni infondate.Già nel 1940 Alfred Métraux aveva brillantemente chiari-to che Metoro non aveva in realtà letto, coerentemente e nellaloro interezza, i documenti sottopostigli, limitandosi a darebrevi descrizioni di ciascun segno, come mostra per esempiola “lettura” metoriana dei primi ventuno segni consecutividella riga undicesima del lato posteriore (Bv11) della tavolet-ta B (Aruku-Kurenga), di cui si fornisce anche la traduzione,tratta dallo stesso Métraux:111. Kua huki. 2. Ko te ariki. 3. Tere ki te vai. 4. E tangata moe ra ki tehuaga e. 5. Kua tuu ko te toga. 6. Ma te tapa mea kua haga. 7. Kua haatiia te kava. 8. Ma te tapa mea kua haga. 9. Kua haati ia te kava. 10. E tan-gata rua kua oho, kua hua. 11. Ma to ihe. 12. E i raa. 13. E i te haga (pro-babilmente per huaga) era. 14. Ko te rei. 15. Kua oho ki te henua. 16. Kuatupu ia mua i te aro. 17. E tangata oho era. 18. Ki to kava e. 19. Ka ohote rei. 20. Tangata itiiti. 21. Ma to kava. 1. Egli è trafitto. 2. È il re. 3. Andò nell’acqua. 4. L’uomo sta dormen-do contro il frutto che matura. 5. I pali sono sistemati. 6. La patata rossasta crescendo. 7. La pianta kava è spezzata. 8. La patata rossa sta crescen-do. 9. La pianta kava è spezzata. 10. Due uomini andarono, sta fiorendo.11. Come il pesce-ago. 12. E il sole. 13. Sta fiorendo. 14. È un pettorale(rei-miro). 15. Egli torna alla terra. 16. Esso è cresciuto davanti a lui.

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11 A. Métraux, Ethnology of Easter Island, in “Bernice P. BishopMuseum Bullettin”, 160, 1940, p. 396 s.

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17. L’uomo partì. 18. Verso la tua pianta kava. 19. Qui viene il pettorale(rei-miro). 20. Uomo molto piccolo. 21. Come la tua pianta kava.

Una nota di Jaussen citata da Barthel a p. 191 dei suoiGrundlagen mostra d’altro canto che il vescovo stesso eraconscio di questa lettura “descrittiva” e “segno per segno”:«con un dito sul segno, mi sforzavo di scrivere soltanto laparola essenziale del suo canto» («un doigt sur le signe, jetâchais de ne plus écrire de son chant que le mot essentiel»).Acutamente e giustamente Métraux non mancò di fareosservare che, anche se Metoro non era un vero conoscitoredel funzionamento del sistema di scrittura rongorongo, eglituttavia mostrava una certa pratica nel riconoscimento deisegni e non solo di quelli dall’iconismo più marcato (cioèfacilmente individuabili dalla forma del disegno), ma anche diquelli dal tratto più convenzionale: si confrontino per esempioi segni 3 per vai “acqua” e 11 per ra’à “sole” della sequenzaappena esaminata della tavoletta Aruku-Kurenga.Dunque, verosimilmente, Metoro aveva ricevuto qualcheinfarinatura sul repertorio dei grafemi (cioè dei segni dellascrittura), senza però essere stato istruito sulle loro “funzioni”nell’operazione di trascrizione di un enunciato, vale a dire sui

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 201

PARTE INIZIALE DELLA RIGA BV11 DELLA TAVOLETTAARUKU-KURENGA

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meccanismi della loro associazione nel sistema scrittorio ron-gorongo.Così se il rongorongo è, come mostra ogni indizio, unsistema di scrittura di tipo ideografico,12 ci si dovrà attenderedi trovarvi fonogrammi (segni fonetici), logogrammi (segni-parola) e determinativi (segni specificatori del significato),con la possibilità di segni polifunzionali (usati per esempiocome fonogrammi o come logogrammi a seconda del conte-sto) e segni polifonici (cioè con più di una lettura foneticapossibile).Metoro sapeva (in molti casi) riconoscere esattamentel’oggetto raffigurato, ma non era più in grado di dedurne lafunzione nel preciso contesto, leggendo tutti i segni come sefossero logogrammi (segni-parola).Sarebbe come se qualcuno, edotto sul preciso valore iconi-co dei segni geroglifici egiziani traducesse la sequenza

con: “il giunco fiorito, la quaglia, la pianta (e) il pane (sonodel) re; il gufo (è sulla) tana (della) vipera”.13Ignaro delle diverse funzioni dei grafemi (fonogrammi,logogrammi, determinativi) il nostro interprete non sarebbemai in grado di pervenire all’esatta traduzione: “il re è nellasua casa” (la traslitterazione convenzionale in antico egizianoè iw nsw m pr.f), tuttavia egli ci fornirebbe informazioni inte-ressanti, per esempio, sul primo, il quarto e il penultimosegno, precisandoci la natura, non sempre autoevidente, del-l’oggetto raffigurato (rispettivamente un giunco, un pezzo dipane e una casa).

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12 Secondo la definizione adottata supra, nel capitolo 3.13 L’unica differenza dal caso di Metoro sta nel fatto che egli pronun-ciava le sue “interpretazioni” nella lingua che effettivamente soggiace alleiscrizioni rongorongo.

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Perciò le letture di Metoro, e soprattutto la lista di segnicon relativa interpretazione ricavata da Jaussen (pubblicataanche su internet14 da Jacques B. M. Guy), sembrano poteressere utilizzate, in molti casi e con le dovute cautele, peridentificare l’oggetto rappresentato dal segno o perfino il suosignificato.Sul piano scientifico la lista di Jaussen potrà dunque vale-re non tanto come punto di partenza per i tentativi di decifra-zione, ma piuttosto come dato corroborante di interpretazionialtrimenti eruite.Una serie di prove concrete in tal senso si ricava dall’ana-lisi del già citato “calendario lunare” della tavoletta Mamari(righe Ca07-09).15 La grande maggioranza dei segni dell’im-portante testo è del tutto compatibile con la lista di Jaussen eciò vale sia per grafemi usati logograficamente, come il segno040 della “luna” (letto da Jaussen, p. 1, come marama“luna”,16 anche se nel calendario esso è certamente impiegatocol valore di po “notte”), o come il segno 003 per la corda conpiume (maro: Jaussen, p. 7; segno invero assai meno iconicodi quello della luna) nella ventitreesima notte (Rongo), sia pergrafemi usati come fonogrammi, come il segno 600dell’“uccello fregata” taha (Jaussen, p. 4) molto verosimil-mente fungente da complemento fonetico per il nome dellaventiquattresima notte Ta(ne), oppure, alla fine del calendario,il segno della tartaruga honu (Jaussen, p. 4, anch’esso nonmolto ovvio), forse usato per scrivere il nome della notteintercalare Hotu.

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 203

14 www.netaxs.com/~trance/jaus1.html15 Già individuato da Barthel nei suoi Grundlagen (1958), è statorecentemente riesaminato in J.B.M. Guy, On the lunar calendar of TabletMamari, in “Journal de la Société des Océanistes”, 91 (2), 1990, in cui, tramolte interessanti annotazioni, si sottolinea giustamente come questo“calendario” sia uno dei nostri pochi punti fermi.16 Marama è il nome normale della luna in maori, mentre in rapanuisi impiegava mahina per “luna” e marama per “mese”.

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Guy ha correttamente arguito che un segno ricorrente delcalendario lunare indica la “crescita” e la “calata” della luna:si tratta del segno composto 008.078.711, in cui l’elementodel “pesce appeso” (segno 711) è rivolto verso l’alto (con rife-rimento alla fase crescente) nei brani che precedono la lunapiena, mentre è rivolto verso il basso (con riferimento allafase calante) nei brani che seguono.Io aggiungo che, riguardo ai primi due elementi della com-posizione (008.078), la lista di Jaussen indica 008 = ra’à“sole” / ahi “fuoco” / hetu’u “stella”, “corpo celeste”17(Jaussen, p. 2 s.) e 078 = higa “cadere” (Jaussen, p. 10). Sitratterebbe perciò di una composizione pittografica (moltocomune anche in altre scritture ideografiche come la sumeri-ca o la cinese)18 piuttosto semplice per indicare lo “sposta-mento di un corpo celeste”.Se il tracciato del segno 008 presenta invero una certa ras-somiglianza con la figura del sole, l’associazione del segno078 col significato di “cadere” è invece assolutamente con-venzionale, il che avvalora fortemente, e una volta di più, l’i-dea che Metoro potesse davvero avere avuto una seppur ele-mentare istruzione riguardo al repertorio dei grafemi rongo-rongo.19Il segno 711 del “pesce appeso” (a testa in su o in giù)potrebbe essere un semplice terzo elemento pittografico(anche noi oggi impieghiamo in molte occasioni il segno di

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7 Possibilità di letture plurime sono ben note anche in altri sistemi discrittura; per es. in geroglifico egiziano il logogramma del sole poteva leg-gersi ra “sole” o hrw “giorno”, a seconda del contesto; in sumerico il logo-gramma della stella poteva leggersi AN “cielo” o DINGIR “dio”, ecc.18 Cfr. supra, nel capitolo 3.19 I dati metoriani varranno, però, ripeto, soprattutto per cercare diprecisare e avvalorare ipotesi interpretative fondate anche su altri elemen-ti, come nel nostro caso. D’altronde la lista di Jaussen contiene certamen-te anche parecchie imprecisioni: per es. il segno 152 della “luna piena”(mahina omotohi), non viene riconosciuto come tale (v. Jaussen, p. 6).

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una freccia per indicare pittograficamente una direzione e unverso) della composizione; eppure non è del tutto esclusa unasua valenza fonetica, dato che il termine rapanui hiti, nome diun particolare tipo di pesce, è omofono del verbo “riapparire”(usato specificamente con la luna o le costellazioni!).Se l’idea fosse fondata il segno composto 008.078.711(almeno nel caso in cui il pesce è rivolto in alto) si articole-rebbe in una parte logografica (008.078 “spostamento dicorpo celeste”) e in una parte fonetica (711 hiti), che precise-rebbe la lettura dell’intero trigrafo.20Tra i molti aspetti enigmatici della scrittura rongorongo siè annoverato anche lo stesso supporto epigrafico, costituito datavolette od oggetti di legno, ricavati in alcuni casi da piante,a quanto pare, mai cresciute sull’isola.Oggi tuttavia si sa con certezza che un tempo gli albericoprivano abbondantemente il territorio dell’Isola di Pasqua;d’altronde si può constatare al di là di ogni dubbio che alcunidi tali supporti epigrafici lignei furono ricavati da relitti o daoggetti ottenuti in seguito al contatto con gli occidentali.Un esempio adeguato è fornito dalla tavoletta Tahua (o A),lunga 909 millimetri e larga 115 e anche soprannominata “ilremo”, perché risulta essere stata intagliata da un remo diFraxinus excelsior, legno impiegato nelle navi europee eamericane nei secoli XVIII e XIX.I punti veramente cruciali, e in buona parte ancora da sve-lare, toccano la natura, l’origine e il funzionamento del siste-ma scrittorio rongorongo.Molte delle nostre domande avrebbero potuto trovare piùfacilmente una risposta se le classi sociali superiori dell’isola(nobili e sacerdoti), cui la conoscenza del rongorongo erariservata,21 non fossero state letteramente spazzate via dal

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20 Simili composizioni di logogrammi (o determinativi ) e fonogram-mi sono assai frequenti nella scrittura cinese.21 Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 514.

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contatto con gli le altre “civiltà” (specialmente dopo la razziaperuviana del 1862).

4. La natura dei segni rongorongoDai documenti pervenutici si ricava la netta impressioneche il rongorongo sia un sistema di scrittura pienamente svi-luppato, cioè un sistema di scrittura propriamente detto e nonuna fase prescritturale di carattere pittografico.Tale “impressione” si rinsalda in consapevolezza in base auna serie di indizi importanti: il numero dei segni diversiimpiegati (così come classificati da Barthel) e un certo rico-noscibile “metodo” nel sistema delle loro composizioni; lapresenza di righe ordinate con un ben preciso verso di lettura(bustrofedico e rovesciato); testi di lunghezza davvero consi-derevole (il Santiago Staff raggiunge quasi i 3000 segni);inoltre è possibile individuare sequenze di segni, anche lun-ghe, che si ripetono in documenti diversi.Nell’estate del 1940, durante una visita scolastica al museodi San Pietroburgo (allora Leningrado), Boris Kudrjavtsev,Valerij Chernuskov e Oleg Klittin, tre giovani studenti, furo-no molto colpiti dai documenti rongorongo ivi conservati.Essi formarono allora un gruppo di interesse e, ottenute dellefotografie di tavolette conservate altrove, riuscirono a identi-ficare sequenze di segni piuttosto lunghe che si ripetevanocon poche varianti non solo sulla Great Saint Petersburg (P) esulla Small Saint Petersburg (Q), ma anche sulla Tahua (A), il“remo”, e sulla Great Santiago (H).La scoperta è oltremodo utile, non soltanto perché fornisceargomenti per valutare la natura del sistema rongorongo, maanche perché permette di individuare in alcune apparentidiversità delle semplici varianti grafiche non significative dicerti segni, specialmente in composizione.

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Inoltre, come si vedrà meglio tra poco, l’analisi dettagliatadi uno dei pochi brani combinatoriamente accessibili, cioè ilcosiddetto calendario lunare della tavoletta Mamari (C), con-sente di individuare con la massima verosimiglianza l’impie-go di logogrammi e fonogrammi, oltre che di “composizionipittografiche” tipologicamente simili a quelli presenti, peresempio, nelle scritture sumerica e cinese.Le tradizioni locali riferiscono che le iscrizioni rongoron-go su tavolette o altri oggetti lignei comprendevano liste dieventi (una sorta di annali) ed elenchi di nomi di guerrieriuccisi o di persone esiliate dai vari clan, oltre che degli innireligiosi.

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 207

CONFRONTI TRA SEZIONI SIMILI DELLE TAVOLETTE H, P, Q EA (DAGUY)

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Tra gli oggetti recuperati da Thor Heyerdahl nel suo primoviaggio sull’Isola di Pasqua è compresa una pietra con incisein rilievo tre linee di scrittura di sei o sette segni ciascuna.22 Iltracciato piuttosto incerto dei segni e l’ordine delle linee, chenon è “regolarmente” bustrofedico e rovesciato (se si escludeun solo segno antropomorfo capovolto nella linea centrale)induce fortemente a sospettare una falsificazione, ossia unafabbricazione recente del reperto.Thor Heyerdahl riuscì inoltre a farsi consegnare dalpasquense Juan Haoa un quaderno scritto con segni rongo-rongo talora “traslitterati”;23 un altro simile documento è ilmanoscritto di Esteban Atan o “capitano del villaggio (villageskipper)”:24 Heyerdahl vide la data 1936 su una delle pagine;Esteban Atan gli permise di fotografarlo, ma l’“originale” èscomparso con Atan stesso.25Ecco le precise parole di Heyerdahl: «Notai la data 1936scritta su una delle pagine e chiesi al “capitano del villaggio”dove avesse trovato quel bel libro. Rispose che suo padregliel’aveva dato un anno prima di morire. Suo padre nonsapeva scrivere i caratteri rongo-rongo né quelli moderni, maaveva detto al figlio che quel libro lo aveva scritto lui stesso.Aveva copiato, con ogni cura, un libro più antico ridotto abrandelli, e tale libro era opera del nonno. Il nonno del “capi-tano del villaggio” era stato un uomo colto che sapeva canta-re un testo rongo-rongo e intagliarlo su assi di legno. A queitempi vivevano ancora persone sull’isola che avevano impa-rato a scrivere i caratteri moderni durante il periodo peruvia-no di schiavitù; uno di essi aveva aiutato il vecchio a trascri-vere il significato di quei vecchi segni sacri, che già comin-

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22 Una sua fotografia è visibile in Heyerdahl, Aku-Aku, cit., nellaseconda pagina di tavole fuori testo, dopo p. 280.23 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., pp. 351-355.24 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., pp. 282-286.25 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., p. 286, nt. 1.

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ciavano a cadere in dimenticanza fra la gioventù dell’isola,dopo che la maggior parte degli esperti di rongo-rongo eranodeceduti durante la schiavitù peruviana».26Tali documenti sono stati pubblicati da Heyerdahl in sedescientifica; Thomas Barthel nei suoi Grundlagen annetteimportanza a questo materiale, evidenziando comunque che lamaggior parte del contenuto riproduce, con alcune varianti, letrascrizioni eseguite dal vescovo Jaussen sulla base dellefamose letture di Metoro.

5. L’origine del sistema rongorongoIl valore, inestimabile anche dal punto di vista antropolo-gico, del rongorongo sta nel fatto che esso è l’unico sistemadi scrittura creato autonomamente in Polinesia e nell’interaOceania e, come se non bastasse, nel luogo abitato più isola-to del mondo.È dubbio se si tratti di un’invenzione del tutto autonoma(questo fenomeno più unico che raro si è verificato pochissi-me volte nel corso della storia umana; certamente soltantopresso i Sumeri e le popolazioni precolombiane delCentroamerica)27 o del risultato di una copia dell’idea di scrit-tura28 in seguito ai primi contatti con gli Europei.In ogni caso la scrittura rongorongo si presenta come ilprodotto di un’elaborazione ex novo di un repertorio grafema-tico del tutto originale.Quando non si tratta di una copia, ossia adattamento, di unmodello precedente (per esempio l’alfabeto latino è statoadattato per trascrivere le lingue inglese e turca, originando

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26 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., p. 283; le pp. 284-285 sono interamenteoccupate dalla riproduzione di «Due pagine tratte dal libro rongo-rongodel “capitano”».27 Diamond, Armi, acciaio e malattie, cit., p. 169.28 Cfr. supra, capitolo 2.

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così gli alfabeti inglese e turco), si verifica la creazione dinuove scritture. Tale creazione ex novo può essere del tuttoautonoma (caso rarissimo, come visto), oppure “ispirata” dauna copia d’idea. Si possono presentare tre casi di copia d’i-dea, a seconda che venga trasmessa la generica idea di scrit-tura (ciò dovrebbe essersi verificato nella creazione dellascrittura cinese e forse anche di quella geroglifica egiziana),l’idea del fonetismo (è il caso della creazione dei sillabari cre-tese e cherokee) o l’idea del fonetismo alfabetico (così, ad es.,per l’alfabeto ogham irlandese).29Come detto, dunque, il rongorongo non può essere che unacreazione del tutto autonoma oppure una creazione ex novoper copia dell’idea di scrittura; la seconda possibilità è, dalpunto di vista statistico, più verosimile, anche se, in entrambii casi, si tratta di un evento eccezionale, anzi unico, per l’in-tera Oceania.La tradizione orale riferisce che la scrittura rongorongo fuportata sull’isola dai primi colonizzatori polinesiani guidatidal re Hotu Matu’a, che, secondo la leggenda raccolta daWilliam Thomson nel 1886, avrebbe recato con sé 67 tavolet-te iscritte. L’attendibilità di questi racconti è comunque moltobassa, considerato che lo spopolamento “post-contatto” assot-tigliò il numero dei nativi fino a 111 persone (nel 1877), ilche, assommato all’opera di cristianizzazione, determinò cer-tamente uno iato enorme con la precedente e originaria cultu-ra indigena, essendo fisicamente scomparsi i più competentidepositari delle conoscenze ancestrali (tra cui quella del fun-zionamento del codice scritto). Perciò oggi non si sa quanto diquesti miti rapanui sia antico e quanto sia stato elaborato suc-cessivamente al contatto con gli occidentali; del resto, anchese si dimostrasse l’antichità di tali racconti, la loro veridicità(anche soltanto in nucleo) non sarebbe automaticamenteacquisita.

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29 Per tutta la questione cfr. supra.

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Alcuni dei ricercatori seriamente impegnati nello studiodel rongorongo, tra cui Steven Roger Fisher, ritengono che glielementi di cui disponiamo inducano a credere che il fenome-no sia stato introdotto in un’epoca piuttosto recente, in segui-to al contatto con gli occidentali. Fisher pensa che la copiadell’idea di scrittura da parte dei Rapanui si sia verificata nel1770, anno in cui gli Spagnoli, guidati da Felipe Gonzalez deHaedo, redassero un atto formale di annessione dell’isoladurante una cerimonia svoltasi di fronte ai maggiorenti loca-li, alcuni dei quali furono invitati a “sottoscrivere” il docu-mento.Il documento recante la “firma” rapanui del 1770 si è for-tunatamente conservato e i segni vergati dagli indigeni sonostati pubblicati.30 Nell’insieme essi non sono affatto confron-tabili con i segni della scrittura rongorongo e sembrano unsemplice tracciato pseudoepigrafico, risultato dell’emulazio-ne dell’azione scrittoria degli Spagnoli. Questo documentosembrerebbe perciò confermare che nel 1770 la scrittura ron-gorongo non era ancora stata inventata.È vero d’altra parte che il segno sovrastante tutti gli altriassomiglia senza dubbi al segno rongorongo 200 (oppure al300); tuttavia il valore probatorio di questa constatazione èpraticamente nullo, dato che 200 (come il 300) rappresentasemplicemente la figura umana stante. Nel codice rongoron-go tale segno potrà essere stato impiegato come logogrammao determinativo per “uomo” o “re”, ma sul documento spa-gnolo sembra anch’esso semplicemente interpretabile comeun disegno o pittogramma.

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 211

30 In D.F.A. de Aguera y Infazon, The Voyage of Captain Don FelipeGonzalez to Easter Island in 1770-1771, “Hakluyt Society Pubblications”,Serie II, n. 13, trad. da B.G. Corney nella sezione Journal of the PrincipalOccurrences During the Voyage (1770).

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Non è mancato chi ha cercato di ravvisare nei segni della“sottoscrizione” rapanui dell’atto spagnolo una specie diforma corsiva del “normale” rongorongo.31 In linea di princi-pio questo sarebbe possibile (si potrebbe addurre l’esempiodelle forme ieratica e demotica dei geroglifici egiziani oppu-re dei vari stili dei caratteri cinesi), ma resta il fatto che di talepresunto rongorongo corsivo non si avrebbe altro esempioall’infuori di questo, il che rende quest’ipotesi un ad hocincredibile.In più, sul piano strettamente paleografico, risulta mate-rialmente impossibile (con l’esclusione, come si è visto, delprimo segno) individuare segni rongorongo (che pure sono

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“SOTTOSCRIZIONI” INDIGENE SULL’ATTO DI ANNESSIONE SPAGNOLO

31 Sorvoliamo sul tentativo a dir poco assurdo di identificare i segnidella “sottoscrizione” con una sequenza tratta da una delle tavolette ron-gorongo conservate a Honolulu: le corrispondenze grafiche sono spudora-tamente fantasiose e l’unico segno veramente identificabile (cioè il primo,con 200 o 300) non è nemmeno riconosciuto e anzi viene fatto corrispon-dere a 051, la cui forma è completamente incompatibile!

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centinaia) il cui tratto risulti anche lontanamente compatibilecon queste ipotetiche semplificazioni grafiche.C’è infine un’argomento positivo contro l’idea del “rongo-rongo corsivo”: il primo segno, simile al 200 (o al 300) dellascrittura pasquense, che, contrariamente agli altri segni einspiegabilmente, non sarebbe scritto in corsivo.Perciò anch’io, come Fisher, sono più propenso a credereche il rongorongo sia stato prodotto dal genio rapanui inseguito a copia dell’idea generica di scrittura, dell’idea, cioè,che era possibile fissare il flusso inarrestabile del parlato trac-ciando simboli rappresentanti le varie parti dell’enunciatostesso.D’altro canto si deve ritenere accertato che sull’Isola diPasqua, fin da epoche molto antiche si usò tracciare disegni difigure umane, uccelli, animali e altri oggetti per motivi orna-mentali o sacrali; di ciò si ha testimonianza in vari petroglifisparsi sull’intera isola.Il fatto che detti petroglifi, così come il segno antropomorfodel trattato spagnolo, rivelino uno “stile” molto simile a quellodella scrittura rongorongo è assolutamente normale e funge daprova rimarchevole dell’origine locale della scrittura.

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CONFRONTOTRA ANTICHIGLIFI INCISISULLE ROCCEDELL’ISOLA DIPASQUA ESEGNI RONGO-RONGO

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Va ricordato a questo punto che nel 1932 l’unghereseGuillaume de Hevesy richiamò l’attenzione sull’apparentesomiglianza riscontrabile tra vari caratteri rongorongo e segnidella scrittura della Valle dell’Indo.Le distanze geografica e cronologica (la scrittura protoin-dica fiorì tra il 2200 e il 1700 a.C.), a dir poco abissali, indu-cono comunque a ritenere queste rassomiglianze delle purecoincidenze (tanto più che la gran maggioranza dei segni delconfronto raffigurano stilizzazioni di figure umane, armi outensili, la cui similitudine di tracciato può ben spiegarsi conil caso).Al proposito il linguista Jacques Guy, uno dei più affidabi-li studiosi di rongorongo, ha giustamente scritto: «I geroglifi-ci dell’Isola di Pasqua hanno uno stile distinto, unico almondo (…) Non esiste un milione di modi differenti per dise-gnare una “figurina di uomo stante”, un “pesce”, un “basto-ne”, un “arco”, una “freccia”. Chiedete a un quattrenne didisegnarvi un “uomo con un bastone” e confrontatelo con igeroglifici dell’Isola di Pasqua. Potete star certi di trovarepoco altro con una tale somiglianza a quell’“uomo con unbastone”. Ciò fa forse di quel bambino un erede degli antichiabitanti dell’Isola di Pasqua?». Anche Fisher concorda aper-tamente su questo punto.In più, oltre a non esserci la minima traccia del presunto“passaggio” spazio-temporale (ai limiti della fantascienza)dall’India all’Isola di Pasqua, va detto chiaramente che lasoverchiante maggioranza dei segni rongorongo non trova uncorrispondente nel repertorio grafematico protoindico (com-posto da più di 400 segni) e viceversa.

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L’antichissima scrittura della Valle dell’Indo è comunqueugualmente indecifrata e, nel suo caso, è sostanzialmenteignota anche la lingua soggiacente (il linguista Asko Parpolaha divisato di riconoscervi un’antica parlata dravidica; i suoistudi, molto interessanti non hanno però potuto finora trovareuna conferma definitiva).In genere si ritiene che la scrittura protoindica si sia svi-luppata per copia d’idea dalla scrittura sumerica (contatti trale civiltà sumerica e protoindiana sono archeologicamenteaccertati), e alcuni studiosi ritengono che il sistema scrittoriodella Valle dell’Indo possa aver fornito a sua volta lo “spun-

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CONFRONTO TRA ALCUNI SEGNI PROTOINDICI E RONGORONGO

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to” (sempre per copia d’idea) per la creazione della scritturacinese.Il modello esplicativo presentato per l’origine della scrittu-ra rongorongo implica che essa si sarebbe sviluppata, a parti-re dal 1770, fiorendo per tre generazioni, fino alla catastrofedei primi anni Sessanta del XIX secolo.Il periodo di tempo per l’invenzione e lo sviluppo di unavera e propria forma di scrittura ex novo è compatibile conquesta ricostruzione, come dimostra l’importantissimo esem-pio di Sequoyah, inventore del sillabario cherokee.32Nonostante tutto, però, considerati l’oggettiva scarsità didati e gli altri noti tratti di “eccezionalità” tipici della culturapasquense (il totale isolamento, durato per secoli, deve averecontribuito, inasprendo la competizione e creando semprenuove esigenze, a stimolare costantemente l’ingegno dei nati-vi), non mi sento di escludere del tutto l’ipotesi di un’inven-zione autonoma del rongorongo, che sarebbe stato in tale casocreato in un’epoca precedente al contatto con gli Europei. Dalpunto di vista scientifico questa spiegazione è però dotata diun minor grado di plausibilità, rispetto a quella della “copiad’idea”. In questo caso si dovrebbe comunque escogitare unaspiegazione convincente per il carattere pseudoepigraficodella “sottoscrizione” (con la massima verosimiglianza ese-guita da membri acculturati dell’antica società rapanui) deldocumento di Felipe Gonzalez.Un universale tipologico, che si ricava dal confronto contutti gli altri sistemi di scrittura del mondo, insegna che tantouna creazione del tutto autonoma quanto una creazione percopia dell’idea generica di scrivere determinano una serie ditappe (fase protoscritturale con impiego di soli logogrammi;scoperta dei fonogrammi, specialmente nel tentativo di scri-vere nomi propri di persona o di luogo; sviluppo di una scrit-

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32 Diamond, Armi, acciaio e malattie, cit., p. 177.

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tura mista logografico-fonetica) che conducono alla forma-zione di una scrittura ideografica.33Pertanto, anche in base al numero dei segni costituenti ilrepertorio grafematico (calcolando tutte le composizioni, essisono più di 600), ci si attende che il rongorongo sia una scrit-tura di tipo ideografico, dotata delle caratteristiche effettiva-mente riscontrabili in tutte le altre scritture ideografiche delmondo.Tali caratteristiche, anch’esse riscontrabili universalmente,sono, in sostanza, la presenza di logogrammi, fonogrammi edeterminativi, oltre alla polifunzionalità (uno stesso segnopuò essere impiegato con funzioni diverse, cioè, per es., comelogogramma o come fonogramma) e alla polifonia (lo stessosegno può avere più di un valore fonetico).34

6. La questione della decifrabilitàÈ certo che il contatto con gli occidentali ha determinato lafine del sistema scrittorio rongorongo e, come si è visto, èprobabile che tale contatto abbia anche determinato l’originedi detto sistema.Come è possibile recuperare le dimenticate regole di fun-zionamento di un’antica forma di scrittura caduta in disuso?Poiché, come si è spiegato, il rongorongo non è un adatta-mento di un modello precedente (e dunque non è “imparenta-to” con nessun altro sistema di scrittura) ci si può basare anzi-tutto sugli universali tipologici sopra richiamati.In casi come questi è inoltre molto importante disporre diuna quantità considerevole di materiale epigrafico per una

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33 Dico semplicemente “scrittura ideografica” e non “ideograficamista” perché scritture “ideografiche pure” (composte cioè da soli logo-grammi) non esistono; v. supra, nel capitolo 3.34 Per ogni particolare su questi concetti, v. supra, nel capitolo 3.

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rigorosa indagine combinatoria e cercare di stabilire, se pos-sibile, qual è la lingua soggiacente, cioè la lingua trascritta.Quanto al corpus, le epigrafi rongorongo, talora assai lun-ghe, forniscono in effetti una documentazione abbastanzacospicua.D’altro canto, non esistono motivi ragionevoli per dubita-re che la lingua trascritta sia quella indigena, ossia una varietàantica del rapanui (appartenente alla famiglia linguistica poli-nesiana) ancora oggi parlato dai discendenti degli abitanti ori-ginari.In realtà, oltre al dato logico, ci sono prove esterne e inter-ne che confermano questa asserzione.Sul piano esterno abbiamo infatti le “letture” di Metoro(1868) e di Ure Vaeiko (1886) che, indipendentemente dallaloro scarsa o nulla affidabilità nei dettagli, indicano chiara-mente come i nativi fossero ben consci che la lingua trascrit-ta era il rapanui.Una conferma interna, davvero decisiva, si trae, poi, dalcalendario lunare della tavoletta C (Mamari).Alle righe Ca07-09 della tavoletta Mamari si legge unasequenza che Barthel nei suoi Grundlagen (1958) riconobbecome contenente un calendario lunare; l’osservazione è fon-damentalmente basata sulla riconoscibilità della ripetizioneper trenta volte del segno 040, la cui forma somiglia a quelladi uno spicchio di luna crescente (le letture di Metoro e le listedi Jaussen confermano questa identificazione). Nel 1991Jacques Guy, con un articolo pubblicato sul “Journal de laSociété des Océanistes” e presentato in succinto su internet,35ha solidamente confermato l’idea di Barthel, confrontando inomi delle notti dell’antico mese rapanui ricavabili dai datiraccolti da Thomson, da Métraux e da Englert.Varie volte il segno 040, che potremmo in questo contestotraslitterare come po “notte”, è associato ad altri segni che

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35 www.netaxs.com/~trance/mamari.html

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sembrano funzionare proprio come complementi fonetici pertrascrivere (in tutto o in parte) il nome proprio di ciascun po.Guy ha mostrato come tali complementi fonetici si possanodavvero decifrare in base alla lettura in rapanui, rivelando sor-prendenti corrispondenze con i nomi trasmessici da Thomsone gli altri. La presenza delle sequenze di sei e di cinque nottianonime (kokore: dalla terza all’ottava e dalla sedicesima allaventesima del calendario della Mamari) ricalca esattamentequella del calendario tramandato. Questi argomenti, con iseguenti, sono una prova irrefutabile del fatto che la linguasoggiacente è proprio l’antico rapanui.Lo stesso segno 152 della luna piena (omotohi: quindicesi-ma notte), reca inscritto il disegno del “cuoco sulla luna”(ossia una figurina antropomorfa con tre pietre rappresentan-ti l’umu, il forno interrato polinesiano), personaggio tipicodelle leggende della Polinesia.Tra le identificazioni di Guy spicca l’impiego fonetico delsegno 600, raffigurante un uccello fregata (taha: così lettoanche nella lista di Jaussen, p. 4), qui usato, in base al princi-pio acrofonico, per trascrivere la sillaba ta per Ta(ne), nomedella ventiquattresima notte; convincente è anche la letturahua per 740f, in cui si deve riconoscere un frutto o uno scro-to, nelle lingue polinesiane ugualmente indicabili con la paro-la hua, corrispondente al nome della decima notte della tradi-zione.Altri complementi grafici possono essere non fonetici malogografici, come per esempio logogrammi sono (per lo menoqui) i segni 040 po “notte” e 152 (o)motohi “luna piena”.Oltre alla, del resto ovvia, conferma del rapanui come lin-gua soggiacente il calendario della tavoletta Mamari ci forni-sce la dimostrazione diretta del carattere ideografico del ron-gorongo, potendovi chiaramente identificare fonogrammi elogogrammi, nonché composizioni pittografiche del tutto ana-loghe a quelle delle scritture sumerica e cinese, come homostrato analizzando il trigrafo 008.078.711, in cui Guy (che

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lo include nella sua “sequenza B”) ha combinatoriamente (egiustamente) individuato il segno per la “crescita” e la “cala-ta” della luna (si ricordi che il “pesce appeso”, il segno 711della sequenza B, è rivolto verso l’alto nei brani che precedo-no la luna piena e verso il basso in quelli che la seguono).

Osservo che il segno 041, speculare di 040 (po “notte”),potrebbe essere stato impiegato specificamente per mahina“luna” (tale valore è compatibile con la sua attestazione nellasequenza A di Guy).Altri elementi sono più discutibili (come l’interpretazionedella sequenza C di Guy: 280-385y-385, che tra l’altro ricor-re anche poco prima del calendario, in riga Ca05) e meritevo-li di ulteriori approfondimenti; tuttavia non c’è dubbio che ilcalendario della tavoletta Mamari rappresenta un punto fermoimportantissimo e cruciale per l’opera di decifrazione del ron-gorongo.

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ANALISI DELLA SEQUENZA DEL COSIDDETTO “CALENDARIO LUNARE” DELLA TAVO-LETTAMAMARI (DAGUY)

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Per chi ha qualche pratica delle tecniche di decifrazione discritture scomparse risulta chiaro a questo punto che, esatta-mente come per la scrittura maya, anche per il rongorongo ladecifrazione non può consistere nella scoperta di una “chiave”miracolistica che consenta di ricostruire “di colpo” il funzio-namento dell’intero sistema; si tratta invece di recuperarepazientemente, attraverso una serrata, difficile e lunga analisicombinatoria, il valore (fonetico e/o logografico) di ciascunsegno, a partire da sostegni affidabili come quelli forniti dalcalendario della Mamari.Gli esperti in questo campo dovranno essere dotati di com-petenze di linguistica storica e comparativa delle lingueaustronesiane, e polinesiane in particolare, e della consapevo-lezza degli universali tipologici deducibili dal confronto conle altre scritture ideografiche conosciute.Contrariamente allo scetticismo espresso dallo stesso Guy,nel corso di questo lavoro si potranno utilizzare, sia pure conle dovute cautele, le “letture” di Metoro e la lista di Jaussen,come elementi complementari di “ispirazione” e di confermanell’individuazione dell’oggetto o del concetto rappresentatodai diversi segni; particolarmente eclatante è la lettura higa“cadere” per l’aniconico 078 (lista di Jaussen, p. 10), che siattaglia benissimo all’interpretazione, deducibile combinato-riamente, del già citato trigrafo 008.078.711.Si è precisato come le “letture” di Metoro (e la lista diJaussen) siano utilizzabili come “elemento ausiliario” (contutti i limiti denunciati) per cercare di identificare segni ambi-gui e comunque poco o per niente iconici (per esempio i glifiper henua “terra” o per vai “acqua”, da verificare nei rispetti-vi contesti).Diversamente le “letture” del vecchio Ure Vaeiko (DanielUre Va’e Iko), raccolte da Thomson quasi vent’anni più tardi(nel 1886), non furono eseguite segno per segno: «risultavaevidente che egli non stava effettivamente leggendo i caratte-ri. Si notava che lo spostamento della posizione non si accor-

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dava con il numero di simboli sulle linee e in seguito, quandofu sostituita la fotografia di un’altra tavoletta, la stessa storiafu continuata, senza che lo scambio fosse scoperto. Il vecchiofu piuttosto turbato dall’accusa di frode che gli fu mossa altermine di una seduta prolungatasi per un’intera notte e dap-prima continuò ad asserire che i caratteri si capivano nellatotalità, ma che egli non poteva spiegare il significato di gero-glifici copiati indiscriminatamente da tavolette già osservate.Egli spiegò molto dopo che il valore e il significato effettividei simboli era stato dimenticato, ma che le tavolette si rico-noscevano da caratteristiche inequivocabili e la loro interpre-tazione era fuori questione; proprio come una persona potreb-be riconoscere un libro in una lingua straniera ed essere per-fettamente sicura del contenuto senza essere capace di legger-lo effettivamente».36Se a queste imbarazzanti contraddizioni si aggiunge che latrascrizione pubblicata da Thomson delle “letture” di UreVaeiko in lingua rapanui è tanto scorretta da essere quasi sem-pre incomprensibile e che pure la pretesa “traduzione” ininglese eseguita contestualmente da Alexander P. Salmon èfantasiosa e inaffidabile,37 si può ben stimare il valore scienti-fico di simili documenti.L’unica “lettura” di Ure Vaeiko degna di una certa atten-zione è la recitazione che dal suo incipit è nota come Atua-Mata-Riri (“dio dagli occhi irati”). Essa fu associata da UreVaeiko alla tavoletta R, che è altrimenti chiamata proprio

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36 Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 516.37 Nel più volte citato e meritevolissimo sito internet www.rongoron-go.org (precisamente in www.rongorongo.org/rosetta/eaha.html), riferen-dosi a una delle “traduzioni” di Salmon, si nota che essa «possiede unacosì esigua relazione con la recitazione di Ure Vaeiko, da risultare quasiinteramente pura fantasia, perfino tenendo conto delle incertezze introdot-te dai molti errori tipografici»; cfr. anche le analoghe osservazioni prodot-te nello stesso sito, agli indirizzi delle estensioni /rosetta/ate.html; /roset-ta/kaihi.html; /rosetta/apai.html; /rosetta/ate.html.

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Atua-Mata-Riri. Tale recitazione consiste in una serie di versiripetitivi in cui una divinità o un’entità si accoppia (ki ’ai kiroto ki “… copulando con …”) con un’altra, producendo (kapû te “scaturisca il …”) piante, animali o altri fenomeni natu-rali.Steven Roger Fisher, che con Guy è tra i massimi esperti dirongorongo, ha analizzato il Santiago Staff (cioè l’epigrafe I),la più lunga epigrafe rongorongo rimasta e l’unica a recaremarche di divisione testuale (precisamente linee verticali),traendone osservazioni combinatorie davvero rimarchevoli.Egli ha per esempio verificato la presenza costante dopo la“linea di separazione” (che è classificata come segno 999) diun segno composto con .076, oppure la possibile struttura pre-valentemente (ma non sempre) triadica del testo. Nel 1995Fisher, con un articolo sul “Journal of the Polinesian Society”,ha comunicato di ritenere individuabile nel Santiago Staff untesto strutturato come la recitazione Atua-Mata-Riri, cheandrebbe considerata un canto cosmogonico o di procreazio-ne. Specificamente .076 (già da Barthel identificato come ilsegno per “fallo”, sulla base delle letture metoriane) trascri-verebbe il sintagma ki ’ai ki roto ki “copulando con” o, per lomeno, ’ai “copulare” (da integrare, come pure ka pû te “sca-turisca il …”, per cui mancherebbe ogni riferimento nella tra-scrizione rongorongo). Trascrizioni omissive ed ellittiche finoa questo punto non possono certamente essere la regola peruna scrittura ideografica (pena un’elevato tasso di ambiguità);tuttavia, per esempio, nella scrittura cuneiforme assira, quan-do una parola era scritta logograficamente, si ometteva l’indi-cazione fonetica di desinenze grammaticali, se erano bendeducibili dal contesto; in geroglifico egiziano, poi, oltre avarie scritture omissive (le vocali peraltro sono di regola nonnotate), tuttavia ben integrabili dal lettore, erano in uso dellevere e proprie “sigle” per abbreviare la trascrizione di fraset-te ricorrenti, come per es. ˆf† per anx wDA snb “che viva, siaprospero e sano”.

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Quantunque l’interessante idea di Fisher circa il SantiagoStaff sia stata ampiamente propagandata (anche in sedi scien-tifiche) come la “decifrazione” o l’individuazione della “steledi Rosetta” del rongorongo, le obiezioni mosse da Guy con-tro detta ipotesi risultano invero fondate. Non c’è dubbio chel’individuazione (operata da Fisher) di altri possibili “canticosmogonici” in tavolette diverse dal Santiago Staff, prive (!)del “simbolo fallico” .076, sia un procedimento scientifica-mente inaccettabile. Oltre a varie incoerenze, Guy rileva chela pressoché certa genealogia identificata nel 1956 da NikolaiButinov e Yuri Knorozov (l’iniziatore della decifrazione dellascrittura maya) sulla tavoletta G (Small Santiago),38 applican-do l’ipotesi Fisher, si trasformerebbe in qualcosa di insensato(con entità che copulerebbero con la stessa persona per otte-nere sé stesse).39 La genealogia della Small Santiago si puòanzi reputare a tutti gli effetti un altro importante sostegno perproseguire l’analisi combinatoria dei testi rongorongo.Tramite essa si può stabilire e verificare, con grande affidabi-lità, l’impiego di .076 come suffisso o elemento formantepatronimici; di 200 come logogramma o determinativo per“re”, “capo” (ariki) o semplicemente “uomo” (tangata); inol-tre si ha testimoniato l’uso fonetico di vari segni singoli per latrascrizione di antroponimi (seguendo l’ordine genealogicodal “capostipite”: 222, 517a, 730, 280, 730, ecc.). Si potreb-bero anche trarre deduzioni importanti sul funzionamento delrongorongo, considerando a fondo la corrispondenza, impli-catata da detta genealogia, tra la variante “raddoppiata” di 381e 381-002 (che sarebbero due modi diversi di scrivere lo stes-so antroponimo).Quanto alla recitazione Atua-Mata-Riri di Ure Vaeiko,lungi dal poter essere associata a qualsiasi testo rongorongo(tanto meno alla tavoletta R), Guy ha recentemente enuclea-

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38 www.rongorongo.org/rosetta/g.html39 www.rongorongo.org/rosetta/i.html

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to40 l’indimostrabilità e, per certi aspetti, l’assurdità dell’in-terpretazione come “canto cosmogonico”. Egli ha propostoun’originale rilettura, per cui Ure Vaeiko potrebbe aver ricor-dato in questo caso una specie di filastrocca mnemotecnica,spesso ascoltata quando, in gioventù, era stato al servizio delre Ngaara (forse come cuoco). Tale “filastrocca” sarebbe ser-vita a memorizzare alcune regole della scrittura rongorongo(specificamente relative alla formazione di digrafi). L’ideasembra sensata, anche alla luce della concreta individuabilitàdi segni composti come il più volte citato 008.078.711 dellatavoletta Mamari, che presenta una composizione “pittografi-ca” o “pittografico-fonetica” del tutto simile a quella dei segnicomposti delle scritture ideografiche sumerica o cinese (che èappunto richiamata da Guy). In questa prospettiva la recita-zione Atua-Mata-Riri, sia pure con tutti i limiti con cui ci èstata trasmessa, potrebbe rivelarsi preziosa nel processo didecifrazione.

7. Il processo di decifrazione del rongorongoDa quanto esposto risulta abbastanza chiaro che, radunatitutti i frammenti di conoscenza che si sono potuti recuperare(il “calendario lunare” della Mamari, la genealogia dellaSmall Santiago, il supporto complementare della lista diJaussen e delle letture metoriane, ecc.), considerato pure illoro diverso grado di affidabilità, il processo di decifrazionedel rongorongo è in realtà già cominciato.Si possiedono dunque dati sufficienti a dimostrare il carat-tere di vera e propria scrittura ideografica del rongorongo e siè già potuto fondatamente intraprendere il processo di riallac-

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40 In “Bullettin du Cercle d’Études sur l’Île de Pâques et la Polinésie”,28, aprile-maggio 1999; cfr. www.rongorongo.org/theories/spelling.html41 Precisamente all’indirizzo www.rongorongo.org/concord/index.html

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ciamento tra alcuni grafemi-espressione e i loro contenuti(logografici e/o fonetici).Consci di quello che ci si aspetta di (ri)trovare, sulla basedegli universali tipologici definibili per tutte le scritture ideo-grafiche (uso commisto di logogrammi e fonogrammi, poli-funzionalità e polifonia dei grafemi, ecc.), e disponendo diabbondanti informazioni sulla lingua soggiacente (l’anticorapanui), si tratta ora di applicare pazientemente e rigorosa-mente le tecniche dell’analisi combinatoria per proporre oconfermare assegnazioni di valori ai diversi segni. Per questolavoro risulta sicuramente molto preziosa l’opera di ridefini-zione della classificazione bartheliana dei segni attuata dalC.E.I.P.P. (Cercle d’Études sur l’Île de Pâques et la Polinésie),nonché la Rongorongo Concordance, disponibile nell’eccel-lente e più volte citato sito The Rongorongo of Easter Island(www.rongorongo.org).41Si deve in sostanza prendere coscienza del fatto che lascrittura rongorongo è destinata ad essere “svelata” attraversouna decifrazione progressiva (che forse non sarà mai del tuttocompleta), a piccoli passi e fondata su una fitta rete di tenta-tivi e verifiche per ciascun segno o gruppo di segni, esatta-mente come si è fatto e si sta facendo con la scrittura maya.Il russo Sergei V. Rjabchikov ha prodotto molti studi sulrongorongo, ampiamente pubblicati e divulgati anche suinternet. La sua intera opera risulta però completamente infi-ciata dalla pretesa di essere riuscito a “decifrare” (ossia a“leggere”) tutti quanti i segni del repertorio rongorongo “inuna sola volta”. Egli, ignorando l’insegnamento del suo con-cittadino Yuri Knorozov, che ebbe il merito di avviare la deci-frazione della scrittura maya (oltreché di scoprire la genealo-gia della tavoletta rongorongo G), “salta” completamente l’a-nalisi combinatoria preliminare dei testi per arrivare subito aproporre “traslitterazioni” e “traduzioni” complete. Date lepremesse, Rjabchikov non ha motivo di lamentarsi per le cri-

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tiche o il silenzio che rivolge verso i suoi studi chi si occupaseriamente della questione del rongorongo.Che Rjabchikov ignori l’importanza cruciale di una previaindagine combinatoria nei tentativi di decifrazione di scrittu-re scomparse è dimostrato anche da certi suoi altri interventi.Egli crede di aver identificato come lingue affini al protosla-vo (!) il minoico della lineare A, il protosinaitico, l’etrusco edaltro (naturalmente non può mancare una sua lettura e inter-pretazione del disco di Festo, sempre secondo la “Slavonickey”). Su queste basi egli fornisce lettura e traduzione, peresempio, della tavoletta minoica HT 87.42 A prescindere dallafantastica “chiave” del protoslavo, egli lavora su riproduzionidei testi vecchie e molto imprecise, mostrando peraltro diignorare completamente tutta la recente produzione scientifi-ca in merito. La totale mancanza di consapevolezza dell’im-portanza dell’analisi combinatoria si rivela, a livello di singo-li segni, nella lettura dei sillabogrammi ma e ku, rispettiva-mente come logogrammi per “testa di animale cornuto” e“aquila”, e, a livello di gruppi di segni (o parole), nel manca-to accostamento di HT 87 e HT 117, da cui si può dedurrechiaramente che entrambi i testi recano brevi intestazioni esemplici elenchi di nomi di persona.43

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42 La sua assurda interpretazione di HT 87 si può trovare inwww.openweb.ru/rongo/disk.htm.43 Cfr. C. Consani - M. Negri, Testi minoici trascritti, Roma, CNR,1999, pp. 85 e 100 s.

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Riproduco infine, quasi nella sua interezza, il messaggioinviatomi l’11 ottobre 2002 dal curatore del sito www.ron-gorongo.org (la cui funzione essenziale nella diffusione deidati e nel progresso delle ricerche sulla scrittura rongorongosi è già ripetutamente sottolineata), al quale, nelle more distampa del presente volume, ho spedito una copia dell’appen-dice. Tale inserimento è giustificato non (solo) dalla miavanità per i lusinghieri apprezzamenti, ma in primo luogodalle notevoli controriflessioni in esso contenute, come peresempio quella relativa al segno 002 quale possibile indice direduplicazione. Analoghi procedimenti, sia pure non per rad-doppiare la radice ma per trascrivere il duale e il plurale, sonoben noti anche nel geroglifico egiziano, in cui, per esempio,nTrw “dei” era scritto (specie nelle fasi più antiche) con la tri-plicazione del logogramma Ð nTr “dio”, cioè come ÐÐÐ, tra-scrizione poi sostituita (e semplificata) tramite l’impiego delsegno di triplicazione o pluralità, cioè come Ъ.I find your grasp of the rongorongo quite remarkable, all themore so that the data are quite difficult to obtain, and you musthave spent much time researching for the appendix to your book.The only source, Barthel’s “Grundlagen”, can only be found inthe libraries of a very few universities, and the C.E.I.P.P., who pro-duced a very useful transliteration of the tablets, is an almost unk-nown organisation. That is why, in February 1999, after extensiveWeb searches, finding almost nothing but Rjabchikov on thesubject, I felt that something had to be done, and after a monthspent looking for a reliable and affordable Web host, I createdwww.rongorongo.org.Your interpretation of the group 008.078.771, page 204, is veryinteresting. I never thought that the Jaussen lists were worthanything more than a historical mention, and so I never paid closeattention to Metoro’s readings. But 078 = higa = “to fall”, that isan interesting suggestion. As for 711, yes, “hiti” is the name of afish, but Englert also gives it as “Cuando los peces se llegan a laspiedras de la costa en busca de insectos entre la algas marinas, sedice: “he-hiti te îka”, which rather fits the meaning “to(re)appear” also applied to the moon, or to celestial objects. Soyour interpretation is quite interesting.

228 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

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But much more interesting is your remark, page 224: “conside-rando a fondo la corrispondenza, implicata da detta genealogia,tra la variante ‘raddoppiata’ di 381 e 381-002 (che sarebbero duemodi diversi di scrivere lo stesso antroponimo)”. Myself I haveoften wondered “is 002 a sign of reduplication?” — just like inMalay you write “orang2” for “orang-orang”. This is important,because, if it is a reduplication sign indeed, this gives us the answerto the order in which the individual elements of a sign were read.We know that they were read from bottom to top. However, in thecase of anthropomorphic signs with four limbs showing, how werethese read? Left leg, right leg, left arm, right arm, or left leg, leftarm, right leg, right arm? If 002 is a reduplication sign, then theorder was almost certainly left leg, left arm, right leg, right arm. Itis also important because it would mean that this name, 381-002,or the “reduplicated” 381, consists of reduplicated syllables, suchas “Teketeke”.I greatly enjoyed how you illustrated Metoro’s readings throughEgyptian, page 202: “the flowering rush, the quail, the plant [and]the bread [are] the king[‘s]; the owl [is on] the den [of] the viper”.Wonderfully witty and perfectly to the point!You have done an excellent job there. Quite impressive, too.

APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 229

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