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APPUNTAMENTO A SAMARINGA di Stefano Di Marino I romanzi di ACTION

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APPUNTAMENTO A SAMARINGA

di Stefano Di MarinoI romanzi diAction

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2009-2010

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2009-2010

appuntamento a samaringa

Stefano Di Marino

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Copyright: dbooks.itVia Piero della Francesca 42 - 20154 Milanowww.dbooks.it - [email protected]

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma di convenzioni internazionaliISBN: 978-88-97125-15-0

Immagine di copertina realizzata da: Stefano Di MarinoEdizione elettronica realizzata da: Gruppo Orange s.n.c.

Via Monfalcone, 57 - Sesto S. Giovanni (MI)

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AppuntAmento A SAmAringA

Prima del Professionista...

Nella seconda metà degli anni ’80 scrivevo già da molti anni. Avevo iniziato da ragazzino, tra le medie e il ginnasio, buttando giù pagine e pagine di avventure di spionaggio, thriller, western, storie di pirati. Un lavoro decisamente amatoriale, ma che mi ha aiutato in seguito ad affinare le tecniche della narrazione sia sotto il profilo stilistico che della costruzione delle trame. Nel 1985 cominciai a pubblicare regolarmente (più o meno...) su Segretissimo e altre riviste, tra le quali la mitica Febbre Gialla. In seguito a queste esperienze sarei arrivato a pubblicare il mio primo romanzo ‘serio’, Per il sangue versato, nella collana Nero Italiano.

Ma la mia fantasia cavalcava già in differenti direzioni. Avevo cominciato a viaggiare in Asia e ne ero rimasto affascinato. Oltre a questo leggevo moltissimo, storie di spionaggio soprattutto, per cui mi ero già cimentato in una serie di romanzi più o meno complessi che, al momento, non trovavano via di pubblicazione. Il mercato era ancora estremamente refrattario alla narrativa Pulp italiana e le mie storie sembravano troppo ‘esotiche’, troppo straniere. Nondimeno, rispetto ai primi tentativi, erano già professionali sotto vari aspetti.

In quegli anni, grazie ad Antonio Bellomi, entrai in contatto con l’editoriale Corno, che non era già più la mitica Marvel Corno dei Super Eroi e di Alan Ford, ma si chiamava Garden e pubblicava ancora diverse collane a imitazione del Giallo e Segretissimo. Ricordo tra queste Top Secret, che riproponeva i romanzi di tale CH. Guenter, successi del mercato tedesco usciti in Italia una quindicina d’anni prima. Bellomi mi propose di pubblicare con lo pseudonimo Frederick Kaman alcuni dei miei romanzi di spionaggio inediti. Pochi soldi, subito, niente contratti, una cosa un po’... garibaldina... ma per me era un’opportunità eccezionale per far conoscere alcuni lavori che mi stavano particolarmente a cuore. Così, ricopiati dai dattiloscritti originali i testi sul mio Macintosh Plus, spolverato un po’ il linguaggio, mi lanciai in quell’avventura di cui ho ottimi ricordi.

È trascorso molto tempo. Per inaugurare I ROMANZI DI ACTION in digitale ho ripescato questa storia, che originariamente si intitolava ‘Braccio di ferro a Kalimantan’. Ho cambiato il titolo, correggendo un errore topografico per cui si creava un bisticcio tra il nome dell’isoletta in cui si svolge la vicenda e il nome attuale del Borneo, ho rivisto il linguaggio e portato i dialoghi dal ‘voi’ (allora imperante) al ‘lei’.

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Per il resto, la storia è rimasta quella che era perché, ancora, credo possa divertire e appassionare. Una vicenda di spionaggio decisamente esotica in luoghi che avevo visitato e con un eroe che, ancora non lo sapevo, era la prova generale del mio personaggio più fortunato, Il Professionista.

Julius Colleoni aveva qualcosa dello Sconosciuto di Magnus, di Ulisse Ursini di Scerbanenco e, ovviamente diversi elementi dei protagonisti di Segretissimo, da Nick Carter a Malko Linge. Era però italiano, sradicato, alla lontana discendente di Bartolomeo Colleoni, condottiere di ventura del Rinascimento. L’idea, allora come oggi, non mi pareva male. Julius Colleoni visse la sua epopea tra racconti lunghi e romanzi brevi, quasi tutti editi da Garden, ovviamente. I diritti sono miei da tempo e, in qualche modo, avevo pensato di trasformare le avventure più riuscite, come questa che state per leggere, in storie del Professionista. Poi, rileggendo il testo, ho capito che era impossibile. Appuntamento a Samaringa è non solo un romanzo che respira l’epoca in cui è stato scritto, ma è anche un’avventura pulp della Guerra fredda, con la divisione dei blocchi, il KGB e tutta la mitologia di questa fase della narrativa spionistica. Perché cambiarla? Perché forzarla?

Ho preferito intervenire sul testo per renderlo più scorrevole dove era necessario, ma mantenere lo spirito del romanzo come è stato concepito.

Buon divertimento

Stefano Di Marino

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AppuntAmento A SAmAringA

1

Visto dalla murata del Malacca Queen, il mare pareva un’immensa distesa di piombo liquido, increspata di tanto in tanto da bave bianche di spuma. Pioveva dal cielo scuro e raffiche di vento sferzavano il viso di Julius Colleoni.

Intabarrato in una cerata che un tempo era stata gialla, il mercenario cercava invano un angolo dove smaltire il mal di mare che da due giorni non gli lasciava tregua.

Vana speranza: sotto i colpi del mare il rollio del vecchio cargo all’aperto era ancora più frenetico.

L’uragano che spazzava quella regione da settantasei ore non accennava a diminuire d’intensità e la costa di Samaringa era ben lungi dal profilarsi all’orizzonte.

Julius afferrò un gancio metallico che sporgeva dalla struttura tozza del motopeschereccio. Faticava a mantenere l’equilibrio.

Per il momento la sua copertura reggeva, ma non aveva ancora fatto passi avanti per stabilire un contatto con Jaga Thanut, la bella avventuriera moluccana che, da Singapore, doveva portarlo nel cuore dell’organizzazione che sovvenzionava il Malayan Communist Party.

Singapore, la missione, il pericolo... sembravano lontanissimi nella mente di Julius.

Da giorni non viveva che di mare e di rollii.Il Malacca Queen era un battello che aveva più del veliero di Caronte che del

cargo. Eppure era l’unico contatto con l’isola di Samaringa. Una volta al mese congiungeva al resto del mondo quello scoglio coperto interamente da foresta lussureggiante, a nord del mare di Giava. Era più uno scenario da romanzo di pirati che il teatro di una partita tra servizi segreti.

Eppure qualcosa si celava su quello scoglio, qualcosa che partiva da Piazza Drezlynsky, Mosca: la sede del KGB.

Qualcosa di legato, anche se il nesso per ora rimaneva inspiegabile, al contrabbandiere di droga conosciuto come Hakermann.

Jaga Thanut era il suo contatto, un’avventuriera color caffellatte, con gambe da copertina e occhi freddi come quelli di un cobra.

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Si era imbarcata a Singapore con un carico di duecento galloni di anidride acetica: elemento indispensabile per l’operazione chimica che trasforma la morfina in eroina.

Julius fu sballottato contro una bitta di metallo arrugginito. Imprecò tra sé per il dolore. Non era possibile rimanere sul ponte ancora a lungo.

Si avviò verso il boccaporto badando a non scivolare sul pavimento semiallagato.

Non si vedeva anima viva in giro.Il capitano Singh, un indiano sempre ubriaco, era in cabina di pilotaggio,

riparato da una parete di vetro.Se la rideva dell’uragano facendosi compagnia con una bottiglia di whisky,

che mescolava con della pessima Singha Beer proveniente dalla Thailandia.Ubriaco ventidue ore al giorno...Il resto dell’equipaggio non era certo meglio assortito.Cinesi, indonesiani e tamil con delle facce da galera che erano tutto un

programma.Jaga Thanut se n’era stata per tutto il viaggio in cabina, riducendo la sua

presenza in coperta a rapide passeggiate quando il tempo lo permetteva. Altera come una tigre, si sentiva decisamente una spanna sopra gli altri.

Julius si domandava come avrebbe fatto ad agganciarla.Per il momento la sua unica preoccupazione era trovare un angolo dove

vomitare l’anima senza essere disturbato.Quel viaggio per mare stava assumendo caratteristiche infernali.Scese per il boccaporto inzuppato d’acqua. Meno male che la cerata doveva

essere impermeabile...Le luci di bordo fioche e livide lampeggiavano con sempre maggior

frequenza. Julius si aspettava di rimanere al buio da un momento all’altro.Aggrappato al corrimano avrebbe dato un braccio per essere ancora al

Raffles, nell’atmosfera ovattata ed elegante, leggermente antiquata, del vecchio albergo nel centro di Singapore.

Udì le grida concitate solo a metà della scala che conduceva alle cabine. Urla di una femmina, indiscutibilmente. Non ce n’era che una a bordo. Jaga Thanut, la donna con cui doveva stabilire un contatto.

Alle sue orecchie giunse l’eco di una risata sguaiata, poi un altro urlo di rabbia della moluccana.

Facendo uno sforzo su se stesso, Julius decise di lasciare lo stomaco alla

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AppuntAmento A SAmAringA

sua agonia e di andare a vedere.Percorse in due balzi il corridoio, giungendo alla porta che si apriva sulla

cucina.Un’altra risata accompagnata da versi di ubriachi.Oltre il battente, la scena era drammaticamente illuminata solo da una

lampada ad acetilene che pendeva dal soffitto.Jaga si dibatteva distesa sul tavolaccio sotto il peso di uno dei marinai, un

cinese con le spalle larghe come quelle di un gorilla. Il vestito sollevato sino alla vita lasciava intravvedere le gambe brune e perfette che si agitavano nel vano tentativo di sfuggire al suo aggressore.

Attorno a loro l’equipaggio ubriaco incitava allo stupro.La mancanza di donne e lo stress per il maltempo avevano spinto il gruppo di

marinai al gesto estremo.Per un attimo gli occhi di Jaga incontrarono quelli di Julius. Si erano incrociati

sul ponte un paio di volte senza che lei avesse mostrato il minimo interesse per il mercenario.

— Aiuto! — urlò disperata.Julius comprese che gli si presentava un’occasione unica per stabilire un

contatto con la ragazza.— Lasciatela! — urlò con quanta voce aveva.Il cinese non smise le sue manovre. Un compagno, un malese magro come

un chiodo, con in bocca sì e no tre denti, avanzò verso Julius, gli occhi vitrei da ubriaco.

Uno schiocco secco, nella semioscurità brillò la lama di un rasoio.Il malese lo protendeva in avanti minaccioso, sfidando Julius a farsi sotto.Neanche un’arma a portata di mano, chi ci aveva pensato con quel tempo?La borsetta di Jaga era sul tavolo, ma troppo lontana per riuscire ad afferrarla e

poi non sarebbe stata di grande aiuto.Il malese protese il braccio mulinando il rasoio. Rischiava di mettersi male. Il

marinaio sembrava intenzionato a non desistere prima di aver visto il sangue.Julius non si riteneva un vigliacco, ma ammise di essersi cacciato in una di

quelle situazioni che avrebbe volentieri evitato.I secondi passavano con una tensione insostenibile. Malgrado la tempesta,

sottocoperta il caldo era soffocante. Jaga urlò di nuovo. Di colpo Julius non si accorse più di avere lo stomaco sottosopra e le gambe tremanti. Bisognava trovare una soluzione, subito!

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Sorprendendo tutti, partì con un gran calcio, che raggiunse i testicoli dell’avversario, dipingendo una smorfia comica sul viso prima sprezzante del malese. L’uomo cadde a terra a corpo morto.

Il rasoio rotolò lontano con un rumore metallico.Fu allora che il cinese che stava sopra Jaga si girò. Stravolto, riallacciò

la patta dei calzoni con un gesto veloce, poi assunse una posizione di combattimento.

Sebbene fosse a mani nude, si intuiva in lui la sicurezza del combattente nato. Non si sarebbe lasciato sorprendere. Julius deglutì. Aveva visto il cinese allenarsi al Kung Fu sulla tolda, i giorni precedenti. Capace di sbriciolare tre tegole di coccio con un solo colpo...

Lo sguardo di Julius intercettò quello del marinaio: una luce fredda, omicida, sprigionata da occhietti piccoli e cattivi.

Ora era in missione, non si trattava più di una rissa tra marinai, ma di un pericolo mortale.

Il marinaio cinese era un esperto, si muoveva con la certezza di avere la morte nelle mani.

Soffiando sonoramente, l’orientale scalciò verso l’italiano.Erano passati anni da quando Julius si era guadagnato da vivere a Bangkok

facendo il pugile Thai, ma la vecchia abilità non era del tutto scomparsa. Non per nulla sul braccio aveva tatuato il trigramma del Viandante, una delle più antiche e segrete sette marziali asiatiche.

Evitò il calcio con una piccola botta sul palmo della mano, scivolando nella guardia del cinese. Sapendo dove colpire affondò il gomito nella coscia dell’avversario, che emise un grugnito, intercettato a metà della sua azione d’attacco.

Il dolore lancinante rese impreciso il marinaio, che mulinò un pugno in aria senza cogliere il bersaglio.

Disgraziatamente per Julius, il cinese non era un pivello: di risse doveva averne vissute e vinte parecchie.

Lo colpì con il palmo della mano proprio sotto il mento.Per l’italiano fu come essere raggiunto dal calcio di un mulo: rimbalzò

indietro, andando a rovinare su una credenza.Uno scossone della nave tradì il cinese facendolo barcollare per un attimo.

Julius ne approfittò per caricare a testa bassa. Sentì un uff quando il suo cranio colpì lo stomaco del marinaio.

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AppuntAmento A SAmAringA

Avvinghiati, rotolarono sul pavimento.Julius si mosse in fretta, il cinese era il doppio di lui, se lo brancava in una

presa era finito.In un attimo furono nuovamente con gli occhi negli occhi, ansanti come bestie,

pronti a scannarsi ancora.Senza preavviso il marinaio partì di nuovo all’attacco con un calcio all’indietro.

Mancato!Julius l’afferrò per le spalle. Gli diede una ginocchiata alla coscia e una alle

costole, come un tempo gli avevano insegnato.Il suo avversario soffiò un’ingiuria divincolandosi dalla presa.

Imprevedibilmente contrasse la spalla in un movimento secco e veloce. Julius percepì appena il gomito colpirgli il naso. Sentì l’odore del sangue, il suo.

Gli astanti urlavano come ossessi, eccitati dalla lotta. Il marinaio spazzò il piede di Julius, gettandolo a terra.

Coi polmoni in fiamme l’italiano evitò il tallone dell’uomo che stava per schiacciarlo.

Era solo una proroga temporanea, adesso lui era a terra e il marinaio in netta superiorità di posizione.

Lo vide contrarre la mano a lama di coltello, le dita irrigidite come i lineamenti, ormai trasformati in una maschera d’odio.

Lo sparo rimbombò come un tuono nello spazio angusto della stanza.Immediatamente un odore acre di cordite riempì l’aria fumosa. Il cinese urlò

come un maiale sgozzato.Dal moncherino che era stato il suo braccio sgorgava sangue come una

fontana.Julius non credeva ai suoi occhi.Jaga, distolta l’attenzione da sé, aveva recuperato la borsetta dalla quale aveva

tratto una Smith & Wesson calibro 38 a due pollici. Un’arma micidiale a quella distanza.

— Tutti indietro — urlò puntando la pistola direttamente sui marinai — o il prossimo colpo ve lo ficco in testa.

Così a seno nudo, con l’abito stracciato, non era molto credibile, ma nessuno la guardava, tutti gli occhi erano puntati sulla canna rovente della pistola. Di quella nessuno si sognava di dubitare.

Julius fu lesto a comprendere da che parte girava il vento. Recuperò il rasoio del malese precedentemente neutralizzato e si schierò al fianco di Jaga.

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Ora erano due contro venti, ma nessuno pareva voler continuare la battaglia.Il cinese era svenuto. Se non lo soccorrevano poteva morire dissanguato,

il proiettile della .38 gli aveva aperto uno squarcio nel braccio largo come un pugno.

— Portatelo via e sparite — ordinò Julius, meravigliandosi di trovare la voce per parlare. Le aveva prese altre volte nella sua vita, ma mai così forte.

— Che diavolo succede?Trafelato era arrivato il capitano Singh, miracolosamente sobrio anche se

puzzava di pessimo liquore locale.Nelle mani aveva un fucile a canne mozze.— I suoi uomini... — disse Jaga senza abbassare la canna della pistola. Le

condizioni del vestito dicevano il resto.Singh bestemmiò tra sé. Lanciò una serie di urlacci ai suoi marinai, che

trascinarono via il cinese pallido come uno straccio.Il malese che aveva affrontato Julius per primo tentò di trovare una

spiegazione, ma ricevette una botta con il calcio del fucile che gli chiuse la bocca.

— Deve scusarli, signorina, questo tempo maledetto li ha resi irascibili, sono certo che non succederà più.

— No di sicuro — ribatté con un mezzo sorriso Jaga. Il pavimento era ancora zuppo di sangue.

— Avrò cura io di punirli personalmente — le assicurò untuoso Singh — ma la prego, non lo racconti al signor Hakermann...

Jaga fece un passo verso il capitano, questi parve farsi piccolo piccolo.— Se uno dei suoi uomini prova a mettermi una mano addosso le sparo in

testa, mi ha capito, capitano Singh?Per rendere più evidente il concetto, Jaga batté con la canna della pistola

sul labbro del poveretto. Si capiva che moriva dalla voglia di farlo fuori. Disgraziatamente senza di lui l’approdo a Samaringa dei quaranta galloni di anidride acetica non era assicurato.

— Sono certo che il capitano Singh saprà tener calmo il suo equipaggio — intervenne Julius, che già si vedeva in un’edizione indonesiana degli ammutinati del Bounty.

Jaga parve osservarlo per la prima volta. Diresse uno sguardo duro verso il piccolo capitano, poi annuì.

— Venga nella mia cabina, perde sangue.

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AppuntAmento A SAmAringA

— Beva un goccio di questo, lo tengo per occasioni del genere, rimette le budella al loro posto.

Julius afferrò al volo la fiaschetta che la ragazza gli aveva lanciato dalla borsa di pelle aperta sul letto della cabina.

Gin. Fortissimo, quasi alcol puro.Ne trangugiò una sorsata versando il resto sul naso che ancora sanguinava.Gli tremavano ancora un poco le mani. La paura.— Tutto bene? — domandò Jaga, mentre disinvoltamente si infilava una

camicia e un paio di pantaloncini.I seni un poco pesanti ballavano liberi sotto il tessuto candido, disegnando due

grandi aureole scure attorno ai capezzoli.Julius sorrise.— Ho l’impressione che in questa sceneggiata ci siamo scambiati i ruoli. Di

solito è l’eroe impavido a rassicurare la ragazza indifesa.Jaga rovesciò all’indietro il capo in un atteggiamento naturalmente sensuale.

Rise.— Lei non è un eroe impavido e io non sono una ragazza indifesa — disse

ruotando il tamburo della pistola ancora calda. — Anche se questa volta mi ero fatta sorprendere...

Risero, allentando un po’ la tensione. Julius si toccò il naso, non era rotto.— Quasi quasi gliele davo — disse più per la bandiera che per altro. — Però,

spara diritto con quel giocattolo.— In questa parte del mondo o si spara per primi o si è morti. Una legge che

ho imparato sin da ragazzina: pirati, contrabbandieri, militari, sono tutti bestie.— Evviva. Non si può dire che lei sia un tipo che ama la gente.— Scherzi a parte, grazie... Non che la mia virtù sia un mantello candido, ma

quei marinai mi avrebbero violentata a loro piacimento, senza il suo intervento.— Prosit — fece Julius alzando la fiaschetta. Una piacevole rilassatezza si

stava impadronendo di lui.— Come si chiama?— Julius Colleoni.— Spagnolo?— Italiano.— Lontano da casa, vedo... — disse con un lampo d’interesse la ragazza.— Si vive alla giornata, ho gestito degli affarucci a Bangkok tempo fa, era

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meglio cambiar aria; qui, come ha notato, sono tutti troppo suscettibili.— Perché Samaringa?Julius alzò le spalle. Era il momento di giocare agli indifferenti. Forse Jaga

abboccava all’amo.— Il Malacca Queen era il primo battello in partenza da Singapore, avevo

una certa fretta. Sono disoccupato e un posto vale l’altro.Non aveva messo eccessiva enfasi nell’ultima frase, ma sotto pelle era teso

come una corda di violino. Se Jaga lasciava cadere il discorso sarebbe stato difficile riallacciare un contatto.

La moluccana parve squadrarlo per qualche secondo, poi disse: — Ok, penso di doverle qualcosa comunque. Se vuole un lavoro, glielo offro io. Sa sparare?

— Me la cavo.— Il mio capo, il signor Hakermann di cui il capitano ha tanta paura, è

l’uomo più potente di Samaringa. Ha bisogno di gente coraggiosa; la paga non è alta, ma sull’isola qualsiasi cosa non costa nulla. Che ne dice?

Julius avrebbe urlato di gioia. Si limitò invece a bere un’altra sorsata di fuoco liquido e a porgere a Jaga la fiaschetta.

— Beviamoci su — disse. — Affare fatto.La prima mossa era stata soddisfacente, ora veniva il difficile: capire

che legame potesse avere un ex nazista come Klaus Hakermann con un’operazione del KGB.

Di sicuro l’eroina giocava un ruolo primario, ma svelarne i risvolti più nascosti dell’operazione avrebbe rappresentato per Julius un pericolo. Mortale.

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AppuntAmento A SAmAringA

2

Singapore, dieci giorni prima

Un enorme manifesto troneggiava su Beach Road. Colori sgargianti davano vita a una scena di battaglia in cui un cavaliere con una lunga coda di cavallo affrontava, armato di spada, un drago che sputava fiamme multicolori. In primissimo piano il viso di una cortigiana cinese di un’altra epoca.

Julius Colleoni si fermò un secondo a rimirare l’entrata del cinema, che proiettava un film dell’onnipotente casa di produzione Shaw Brothers. Draghi e cortigiane, quella era l’Asia che ricordava, non l’asettico scenario di grattacieli e giardini all’inglese che l’aveva accolto al suo arrivo all’aeroporto Chang-chi di Singapore appena un’ora prima.

Ma il tempo era trascorso più velocemente di quel che lui aveva calcolato, la Singapore che aveva conosciuto ai tempi del Vietnam era scomparsa per sempre.

Non più vicoletti luridi trasudanti di un’umanità contadina bruscamente trasportata in una metropoli cresciuta troppo in fretta, non più le vie del vizio; i tempi in cui Noël Conward raccontava di una tigre così temeraria da spingersi tra i corridoi del Raffles erano passati da un pezzo.

Il porto era il secondo del mondo per importanza, con una rada in cui una flotta sterminata si metteva alla fonda prima di partire per tutte le destinazioni più importanti dell’Asia.

Lee Kwan Yew, primo ministro in carica dalla conquista dell’indipendenza, aveva fatto un buon lavoro.

Era sparito ogni residuo coloniale, ogni atmosfera decadente di quelle tanto care a Conrad, c’erano solo affari e modernità.

Con l’avvicinarsi del 1997 e con l’inevitabile caduta di Hong Kong nelle mani del governo di Pechino, Singapore sperava di poter accedere allo scettro dorato, per ora ancora saldamente nelle mani della colonia inglese sul suolo di Cina.

A Singapore tutto era moderno, pulito ed efficiente. Vigili in uniforme blu pattugliavano indefessi le strade, una carta gettata distrattamente sul terreno valeva duecento dollari di multa.

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Singapore faceva invidia a Ginevra in fatto di pulizia.Salvo che per alcuni particolari ci si poteva credere in una città europea. Le

punizioni corporali crudelissime, come le bastonate con una canna di bambù, per esempio, riservate ai ladri. L’Asia, si sa, è un paese crudele...

Julius slacciò il bottone del colletto della camicia. Il caldo umido e opprimente non era cambiato, però...

Un metro e settanta, il viso solcato da una cicatrice sullo zigomo destro, Julius Colleoni discendeva da una schiatta di guerrieri.

A volte si compiaceva di confessare di essere parente del famoso condottiero di cui portava il cognome. Fosse vero o no lui, mercenario e soldato di ventura, era uno degli ultimi avventurieri che si consideravano gentiluomini.

Figlio di un legionario italiano e di una somala, era nato ad Addis Abeba quarant’anni prima e nella vita aveva vissuto avventure incredibili senza esserne l’eroe, ma sempre da protagonista. Perché la guerra e la morte non hanno eroi, solo uomini che sopravvivono.

Arruolato nella Legione Straniera sin da giovanissimo, Julius era stato per i cinque anni della ferma obbligatoria in Indocina e in Algeria. Per un lungo periodo aveva vissuto a Bangkok, unico occidentale a combattere nel circuito pugilistico siamese, spietato e crudele. Anni lontani in cui aveva cercato una risposta ai perché della vita nella pratica dell’arte marziale della Muay Thai Boxing, durissima eppure ammantata di una sorta di religiosità e di misticismo.

Poi c’era stato il Vietnam, da lui vissuto in qualità di mercenario al soldo degli Americani. Guerra senza ragione e senza desiderio di vittoria, che l’aveva proiettato nella realtà orientale sino a congiungerlo con un antico rito proveniente dalle regioni più inaccessibili dello Yunnan: l’Abilità del Vagabondo. Un’arte marziale che era più di una tecnica: una disciplina di vita i cui adepti diventavano guerrieri nel vero senso della parola. Uomini strani che seguivano un proprio codice morale, legati da un giuramento segreto di cui essi soli conoscevano i termini. Pronti a rinchiudersi come le dita di una mano.

Ma anche quello era tempo passato.Certo, Julius era sempre in cuor suo un adepto, ma con gli anni il culto dei

Vagabondi aveva fatto perdere le tracce di sé.Prima o poi qualcuno sarebbe venuto a esigere il tributo, fino ad allora

avrebbe vissuto come un cane sciolto, fedele solo a se stesso, combattente di guerre non sue.

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AppuntAmento A SAmAringA

Aveva liberato prigionieri americani nel Laos, cacciato terroristi arabi a Oman e inseguito spie sovietiche in Europa.

Non aveva una particolare predilezione per la causa occidentale, ma nello spionaggio americano aveva qualche amico e questo era stato sufficiente a muoverlo da Milano, in Italia, dove risiedeva abitualmente, per incontrarsi con un uomo che conosceva solo con il nome in codice: Oliver.

La richiesta era giunta in una giornata piovigginosa, di quelle che Julius trascorreva nella sua abitazione di via Brera ad ascoltare musica jazz e che gli riportava alla memoria visi del passato e ricordi spiacevoli.

Si era messo in viaggio volentieri, l’importante era andare incontro a una nuova avventura.

Ora, in piena Singapore, si rendeva conto per la prima volta da quando era partito che nuovamente tornava in un mondo spietato, con regole sue, dove nessuno era mai quello che sembrava e dove la morte era sempre in agguato.

“Diavolo” disse tra sé “sono di nuovo a casa.”

Il Raffles Hotel era un angolo di storia al centro della metropoli tutta vetro e acciaio luccicante.

L’interno con giardino aveva ancora l’odore e l’atmosfera di quando l’isola era stata battezzata Sing Pura, che significa molti leoni, da una leggenda che raccontava di un principe indiano venuto in quella terra a caccia di tigri.

Era da poco passata l’ora dell’appuntamento.Guidato da una cameriera fasciata da un aodai verde smeraldo, Julius

aveva perso la sensazione del tempo. Seduto a un tavolino in un angolo del grande albergo in stile un po’ antiquato retrò sorseggiava uno Sling rosso fuoco lasciando andare la mente a ricordi del passato. Volti di donne, vecchie avventure.

Senza di loro la vita non avrebbe avuto senso.— Julius — lo chiamò una voce.Oliver. Stempiato, con un paio d’occhiali dalle lenti troppo spesse, l’uomo della

CIA non aveva nulla dell’agente segreto. Eppure era una delle migliori menti che i servizi segreti americani potessero vantare. Soprattutto era onesto, ecco perché lo relegavano sempre in angoli sperduti del mondo con incarichi senza importanza.

Un perdente nella scala gerarchica di Langley e per questo più simpatico.

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Julius gli strinse la mano con calore. Erano amici.La cameriera arrivò cinguettando a prendere le ordinazioni.Oliver lasciò che si allontanasse seguendola con lo sguardo.— Deliziose queste ragazzine, vero? Sono una consolazione in questo

paese del cavolo.Julius lo fissò in volto cogliendo il tono di rammarico della voce.— Pensavo che ci fosse da lavorare per uno come te, a Singapore.— Certo, se si è al dipartimento operazioni speciali per l’Estremo Oriente,

ma la realtà è che vogliono farmi fuori dal giro... Mi hanno relegato in una sezione informazioni quasi del tutto inattiva. Ho un buono stipendio, auto di lusso e un invito a tutti i ricevimenti. In compenso tutti sanno che sono un agente della CIA. In pratica servo da specchietto per le allodole. Gli altri mi sorvegliano pensando che sia il capo della sezione locale, così non vedono i veri agenti che sono al lavoro.

— Pure questo è un lavoro utile, anche se non gratificante.— Dovrei esserne orgoglioso — disse Oliver sarcastico, trangugiando d’un

fiato lo Sling. — Il problema è che gli agenti, quelli veri, non lavorano... Tutto un trucco, capisci?

— No, sinceramente.Oliver sorrise.— Meglio, vuol dire che sei ancora onesto. Vedi, il capo della sezione

Estremo Oriente a Langley, Brolin, è uno che ci tiene a fare una carriera regolare, senza troppi intoppi. Questo significa vita tranquilla, senza azioni rischiose o azzardate. Si è creata tra i russi e noi una tregua non scritta. Noi non diamo fastidio a loro e loro non danno fastidio a noi... Ogni tanto sia noi che loro mettiamo a segno qualche buon colpo, ma nulla di spettacolare. Una specie di gioco.

— Perché?— Perché dopo la batosta del Vietnam, il Dipartimento Asiatico non vuol più

sentirne parlare. Abbiamo sbaraccato tutto, qui. Prova a fare un giro per la città. Gli unici bianchi che troverai sono australiani, di americani neppure l’ombra, né per affari né per politica. L’Oriente è un capitolo da dimenticare... Diavolo, che scemi! Qui ci sarebbe tanto da fare, ma potrebbe essere rischioso e così... meglio mantenere tutto come prima.

— E tu sei uno di quelli che vorrebbero risultati e rompono le scatole a uomini come Brolin.

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AppuntAmento A SAmAringA

— Hai capito perfettamente. Così mi hanno relegato a un incarico con cui non posso nuocere a nessuno.

Ci fu una pausa di doloroso silenzio. In fin dei conti Oliver era uno che alla patria e alla bandiera credeva ancora. Sentirsi le mani legate era la peggiore delle sconfitte.

— Nonostante tutto ho scoperto qualcosa di grosso — esordì Oliver improvvisamente, quasi assente. — I russi stanno tentando un colpo basso e io l’ho scoperto. Ma se lo dico a Brolin insabbierà la pratica...

Julius non rispose nulla. Già aveva compreso che non avrebbe ricevuto alti compensi per quella missione. Lo faceva per un amico e per dimostrare a burocrati e vigliacchi che c’erano ancora uomini in grado di lottare, per quanto deboli. E ciò, indipendentemente dalla riuscita, era uno stimolo sufficiente.

— Dimmi tutto — disse con un sorriso complice rivolto all’amico.

Un informatore!Il vecchio Oliver, nonostante i burocrati di Langley gli avessero legato le mani

per mantenere lo status quo, era riuscito a contattare un informatore nelle file del nemico. Un uomo che avrebbe potuto fornire importanti ragguagli, a quanto aveva affermato eccitato l’agente della CIA. Notizie riguardanti la rinascita del Malayan Communist Party che negli ultimi anni, grazie alla rivolta dei colonnelli mussulmani contro il braccio di ferro intrapreso da Lee Kwan Yew, ferocemente nazionalista, non aveva avuto molta fortuna. Centinaia di membri del partito comunista, tuttora fuori legge in Indonesia e Malesia, erano stati imprigionati e uccisi, e periodicamente nuove purghe scongiuravano il pericolo di un ritorno alla rivolta. Tanto che per lungo tempo persino Mosca aveva creduto impossibile riorganizzare i rivoluzionari malesi.

Ma stando a quanto diceva Oliver, le cose stavano per cambiare.Il Colonnello Kasparoff, incaricato speciale del settore sovversione del Centro

di Mosca, si era occupato della riorganizzazione del partito. Come, era ciò che l’informatore doveva comunicare al prossimo appuntamento.

Ma per Oliver agire troppo scopertamente sarebbe stato un rischio. I suoi stessi compagni avevano puntato il riflettore sulla sua figura, qualunque mossa azzardata sarebbe stata notata dai russi e subito neutralizzata.

Passare il lavoro a quelli del dipartimento Operazioni Speciali significava far giungere l’intera storia nelle mani di Brolin.

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Julius lo conosceva; un incapace che desiderava giungere alla pensione senza grane. Avrebbe affossato l’operazione con la scusa che una rinascita del MCP era improbabile e comunque lontana nel tempo.

Toccava a Julius muoversi, rischiare.Il compenso? Oliver aveva parlato di un fondo segreto per eventualità come

queste, ma di sicuro la cifra non sarebbe stata adeguata al rischio che Julius avrebbe affrontato.

Era una questione di principio.E su queste cose Julius non era tipo da discutere.

Imponenti e regali nella loro perfezione, gli anelli intarsiati nel legno che narravano la storia cinese troneggiavano nel lussuoso roof del Mandarin Hotel, in piena Orchard Road.

A Singapore la notte calava prestissimo. Fuori l’oscurità era già totale.Julius si diresse al Casinò, all’ultimo piano dell’albergo.Eleganti impiegate cinesi esibivano gambe lunghe e abiti occidentali.

Mandarine dalla pelle quasi bianca e dal portamento altero. I primi cinesi che si erano stabiliti a Singapore, la classe dirigente, venivano da Shanghai.

Erano tutti nazionalisti legati a Chiang Kai Shek e al Green Pang, la società che lo aveva sostenuto e che dopo la vittoria di Mao si era stabilita a Taiwan e Singapore.

La sala da gioco era dominata da velluti rossi e neri, con pennellate d’oro sui complicati simboli cinesi intarsiati in paraventi laccati tra una sala e l’altra.

Julius cambiò un migliaio di dollari in fiches e cominciò a familiarizzare con il luogo dell’appuntamento con il misterioso informatore di Oliver.

La clientela era ricercata ed elegante.Ricchi cinesi e indiani impeccabilmente vestiti, accompagnati da mogli

ingioiellate e da amanti cinesi dal viso di porcellana.Per la sala giravano numerose ragazze gan bei, una sorta di hostess,

assunte per tener compagnia agli uomini soli e per invitarli al gioco.A malincuore Julius respinse una di esse, sensualissima nel vestito di

mussola nera aperto sino all’anca. Non indossava visibilmente altro.Meglio essere prudenti; al momento del contatto Julius voleva essere solo.Fece un paio di giri alla roulette perdendo vergognosamente. Sfortunato alle

carte... Alzò le spalle con un sorriso, incrociando nuovamente lo sguardo della ragazza gan bei.

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AppuntAmento A SAmAringA

Dopo un’ora in cui si era confuso con la folla dei giocatori ritenne opportuno avvicinare il tavolo del Chemin de Fer, il luogo dell’appuntamento.

Un croupier malese muoveva le carte sibilando qualcosa in un francese corretto, ma ugualmente inintelligibile a un europeo. Fissò per una frazione di secondo Julius e passò poi a distribuire le carte.

Julius studiò gli altri giocatori. Un grosso australiano giocava senza economia perdendo cifre favolose, cosa che pareva divertire moltissimo la sua accompagnatrice, una cinesina con due seni esageratamente grandi per una della sua razza.

A ogni perdita la ragazza pareva stringersi di più all’uomo, che raddoppiava le puntate.

Julius sorrise. A un esame accurato la ragazza mostrava un pronunciato pomo d’Adamo. Un travestito, sicuramente transfuga da Bugis Street, dove Lee Kwan Yew aveva imposto una rigida moralità di costumi. Chissà se l’australiano si era accorto che i seni che palpeggiava erano di silicone...

Un distinto signore cinese giocava fumando come un turco, strizzando continuamente gli occhi. Era forse lui, il contatto? Continuava a guardare in direzione di Julius, quasi volesse trasmettergli dei messaggi sottintesi.

Oppure era la bella signora indiana elegantissima che vinceva cinquecento dollari a mano?

— Carte? — domandò il croupier.Julius aveva una regina e un tre. Annuì.Così dicendo posò la mano chiusa sul tavolo protendendo il dito medio in

modo che tutti potessero vederlo.Il segnale convenuto.Ci fu un rapido frusciare di carte e nessuna reazione.L’australiano sollevò la sua carta.— Shit, ancora un due.— Le banc gagne — disse imperturbabile il croupier.Julius sollevò il bordo della sua carta prima di giocare.Sentì come una scossa elettrica attraversargli la schiena. Sul bordo del due di

fiori che aveva pescato era siglato un messaggio.— Tra un’ora alla stazione intermedia della teleferica per Sentosa.— Six, le banc gagne — commentò il croupier quasi staccandogli la carta di

mano.In un attimo era tutto finito. Il malese non aveva neppure incrociato gli occhi di

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Julius. In ogni caso il contatto era stabilito.Julius si ritirò lasciando gli altri giocatori alle loro fortune.Cambiò le fiches e si avviò all’appuntamento. Un po’ eccitato, nonostante

tutto.Tanto da non accorgersi che l’entraineuse di poco prima lo fissava

intensamente.La ragazza finse di armeggiare con il portacipria in un angolo della sala.

In realtà azionò una minuscola radiolina che la collegava con una Mercedes parcheggiata in Orchard Road.

— Esce ora — disse a bassa voce.Un secondo dopo aveva già riposto il portacipria e recuperato il sorriso

stereotipato che riservava a tutti i clienti.