appunti di diritto internazionale

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Diritto internazionale Il diritto internazionale si fonda sia su norme scritte (pattizie), sia su prassi e convenzioni (c.d. consuetudini internazionali) e queste fonti, sempre più, influiscono sull’ordinamento italiano interno, impedendo di considerare il diritto “a compartimenti stagni”. Quando si parla di diritto internazionale, poi, bisogna ben definirlo : si intende infatti diritto internazionale PUBBLICO, che si differenzia sia dal diritto internazionale privato (costituito da norme interne), sia dal diritto dell’UE (che è sui generis). Il diritto internazionale, così come le altre forme di diritto, va studiato con riguardo alle funzioni legislativa (di scelta della legge applicabile), giurisdizionale (con riguardo al riconoscimento di un giudice competente) ed esecutiva (esecuzione coercitiva della norma ); queste tre funzioni ci permettono di marcare la differenza tra il diritto internazionale e quello interno. f. legislativa : per quanto riguarda il diritto interno, essa è principalmente nelle mani del Parlamento, organo istituzionale e democratico dello Stato. Nel diritto internazionale “non legifera nessuno”, poiché le norme sono sempre concordate da due o più parti e chi le produce ne è anche il destinatario; si crea così un sistema giuridico orizzontale, senza un’autorità terza e sovraordinata che possa imporre norme (ad esempio, l’Assemblea Generale dell’ONU non legifera, può solo emanare atti di soft law). f. giurisdizionale : nel diritto internazionale non esiste quello che potremmo definire “giudice obbligatorio”. Esistono, certo, organi con competenze giurisdizionali, ma solo per crimini penali individuali o per contenzioso tra Stati; alcuni esempi sono dati dal Tribunale Internazionale dell’Aja, che si compone della Corte Penale Internazionale (core crimes, di guerra, contro l’umanità, genocidio, aggressione armata; competenza generale, basata su criteri di territorialità e nazionalità, valendo solo per degli “Stati membri”) e del Tribunale Penale Internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (ha funzione molto specifica), e dalla Corte Internazionale di Giustizia (competente per i contenziosi, su mandato degli organi dell’ONU oppure per incarico delle parti, ma in questi casi deve sempre accertare in base a che titolo stia giudicando). f. esecutiva : non esiste uno strumento di esecuzione coattiva del diritto internazionale, perché non ci sono forze di polizia o ufficiali giudiziari che rispondano ad un organo giurisdizionale (gli organi sono politici); questo ha portato a ritenere, nei secoli XIX e XX che il diritto internazionale, per questa impossibilità di coartare la pena, non fosse da considerare un diritto. Ciò che fa rispettare le norme, assicurando l’efficacia di tale diritto, sono gli stessi principi per cui il cittadino rispetta le leggi: l’interesse individuale (del Paese, dell’organizzazione…), il timore della sanzione “orizzontale” da Paese a Paese (sistema primitivo, non c’è l’organo sovraordinato ), il rispetto dei valori sanciti nell’interesse nazionale. EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE L’origine del diritto internazionale va ricondotta ai tre trattati di Westfalia che posero fine alla Guerra dei Trent’Anni (1618-1648); tale guerra fu a causa

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I maggiori istituti di diritto internazionale spiegati in modo semplice ed esemplificato

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Page 1: Appunti di diritto internazionale

Diritto internazionale

Il diritto internazionale si fonda sia su norme scritte (pattizie), sia su prassi e convenzioni (c.d. consuetudini internazionali) e queste fonti, sempre più, influiscono sull’ordinamento italiano interno, impedendo di considerare il diritto “a compartimenti stagni”.Quando si parla di diritto internazionale, poi, bisogna ben definirlo: si intende infatti diritto internazionale PUBBLICO, che si differenzia sia dal diritto internazionale privato (costituito da norme interne), sia dal diritto dell’UE (che è sui generis).Il diritto internazionale, così come le altre forme di diritto, va studiato con riguardo alle funzioni legislativa (di scelta della legge applicabile), giurisdizionale (con riguardo al riconoscimento di un giudice competente) ed esecutiva (esecuzione coercitiva della norma); queste tre funzioni ci permettono di marcare la differenza tra il diritto internazionale e quello interno.

f. legislativa: per quanto riguarda il diritto interno, essa è principalmente nelle mani del Parlamento, organo istituzionale e democratico dello Stato. Nel diritto internazionale “non legifera nessuno”, poiché le norme sono sempre concordate da due o più parti e chi le produce ne è anche il destinatario; si crea così un sistema giuridico orizzontale, senza un’autorità terza e sovraordinata che possa imporre norme (ad esempio, l’Assemblea Generale dell’ONU non legifera, può solo emanare atti di soft law).f. giurisdizionale: nel diritto internazionale non esiste quello che potremmo definire “giudice obbligatorio”. Esistono, certo, organi con competenze giurisdizionali, ma solo per crimini penali individuali o per contenzioso tra Stati; alcuni esempi sono dati dal Tribunale Internazionale dell’Aja, che si compone della Corte Penale Internazionale (core crimes, di guerra, contro l’umanità, genocidio, aggressione armata; competenza generale, basata su criteri di territorialità e nazionalità, valendo solo per degli “Stati membri”) e del Tribunale Penale Internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (ha funzione molto specifica), e dalla Corte Internazionale di Giustizia (competente per i contenziosi, su mandato degli organi dell’ONU oppure per incarico delle parti, ma in questi casi deve sempre accertare in base a che titolo stia giudicando).f. esecutiva: non esiste uno strumento di esecuzione coattiva del diritto internazionale, perché non ci sono forze di polizia o ufficiali giudiziari che rispondano ad un organo giurisdizionale (gli organi sono politici); questo ha portato a ritenere, nei secoli XIX e XX che il diritto internazionale, per questa impossibilità di coartare la pena, non fosse da considerare un diritto. Ciò che fa rispettare le norme, assicurando l’efficacia di tale diritto, sono gli stessi principi per cui il cittadino rispetta le leggi: l’interesse individuale (del Paese, dell’organizzazione…), il timore della sanzione “orizzontale” da Paese a Paese (sistema primitivo, non c’è l’organo sovraordinato), il rispetto dei valori sanciti nell’interesse nazionale.

EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO INTERNAZIONALEL’origine del diritto internazionale va ricondotta ai tre trattati di Westfalia che posero fine alla Guerra dei Trent’Anni (1618-1648); tale guerra fu a causa del tentativo del Papato e dell’Impero di riaffermare la propria rispettiva vocazione universalistica e (da parte del Papato) ricondurre al Cattolicesimo i principi tedeschi. Due trattati furono conclusi a Munster, tra re e principi Cattolici (spagna-Province Unite; Francia e Imperatore), mentre un trattato fu siglato ad Onstabruck tra l’Imperatore e i principi tedeschi Protestanti e la Svezia.Con questi trattati furono sanciti formalmente due principi ancora oggi cardine nel diritto internazionale:

Principio di sovranità : intesa come sovranità interna è il c.d. ius alios excludendi, con cui si riconosce al “sovrano” la potestà assoluta di imperio sul territorio e sui sudditi, anche di imporre la religione: cuius regio, eius religio. Come sovranità esterna significa che gli Stati possono essere vincolati soltanto da obblighi e impegni internazionali a cui hanno volontariamente acconsentito.

Principio di eguaglianza sovrana degli Stati : vera Grundnorm del diritto internazionale delle origini, richiamata anche dall’art.2 Carta delle nazioni Unite:giuridicamente tutti gli stati sono uguali, indipendentemente dal loro peso geopolitico; le relazioni giuridiche divengono paritarie, anche se ovviamente non si tratta di uguaglianza sostanziale.

L’importanza della grundnorm emerge sul piano delle funzioni/poteri: potere di law-making, funzione giurisdizionale ed esecutiva.

Il diritto internazionale classico rimane irrimediabilmente fondato sui trattati di Westfalia , per quanto riguarda fonti e soggetti, fino all’inizio del XX secolo.Le fonti possono essere di due tipi:

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Di diritto pattizio: prevalentemente è una rete fittissima di accordi bilaterali o tra pochi Stati, che più che rispondere a criteri di normativa internazionale si identificherebbero meglio con dei contratti (ovviamente i giuristi dell’epoca attingono a materiale romanistico ereditato nel corso dei secoli e adattato alle necessità). Si tratta principalmente di accordi di natura militare e di libero commercio (amicizia e libero scambio) che , in quanto tali, sono i precursori dei moderni BIT (bilateral investiment treaty).

Di diritto consuetudinario, sempre fondate sul principio di reciprocità e rispondenti al generale lasseiz faire che caratterizzava la politica economica del secolo XVII. Abbiamo quindi il principio di libertà dei mari (già con le eccezioni del mare territoriale, 3 nml, e del diritto di passaggio inoffensivo, a vantaggio dei commerci); lo standard minimo di trattamento per l’investitore/cittadino straniero, ossia la protezione (giuridica) diplomatica; abbiamo le immunità diplomatiche; abbiamo le prime norme di ius in bello riguardo la condotta dei belligeranti.

I soggetti del diritto internazionale classico sono rispondenti ad un preciso criterio: EUROCENTRISMO. Essendo spiccatamente eurocentrico, per elaborazione ed applicazione (Karl Schmidt, diritto internazionale classico è ius publicum europeo), sono riconosciuti soggetti gli Stati europei e quelli considerati loro prodotto (USA, America Latina): per essi vale la grundnorm. Realtà geograficamente e culturalmente distanti (come la Cina, la Persia…) vedono i loro rapporti con gli Stati “europei” fondati sulla diseguaglianza e per sfruttare tale diseguaglianza vengono creati strumenti ad hoc come i PROTETTORATI, il REGIME DELLE CAPITOLAZIONI, ossia immunità anche per i cittadini comuni dalla giurisdizione ospitante, l’EXTRATERRITORIALITA’ per i quartieri cittadini, la POLITICA DELLE CANNONIERE per il recupero forzoso del credito. Con questi Stati i rapporti non sono di tipo sinallagmatico, ma di tipo subordinato e imposto con la forza (es. i trattati di Nanchino e Humen a seguito della Guerra dell’Oppio).Il diritto internazionale classico ci presenta quindi due tipi di rapporti: uguali, tra Paesi europei; ineguali, con Paesi terzi.

All’inizio del XX secolo avvengono importanti cambiamenti nel diritto internazionale, in corrispondenza delle due conferenze dell’Aja del 1899 e 1907, primi esempi di diplomazia multilaterale e legislazione internazionale a cui parteciparono anche membri della Croce Rossa.

1899: sono adottate le prime convenzioni di ius in bello per la messa al bando dai proiettili dum dum, per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali con la creazione della Corte Permanente di Arbitrato (questa istituisce i tribunali arbitrali).

1907: nuove regole di ius in bello per la guerra terrestre, marittima e per la politica delle cannoniere.Dal momento che le convenzioni devono comunque essere firmate e ratificate per avere efficacia giuridica vincolante, molti di questi progetti rimasero solo sulla carta.

Norme scritte mancano anche durante la Prima Guerra Mondiale, ma la svolta si impone nel 1917. La rivoluzione bolscevica e la destituzione dello Zar portarono alla nascita di un nuovo soggetto geopolitico,

l’URSS, che disconosce sistematicamente, fino agli anni ’40, il diritto internazionale esistente, affermando di non esservi vincolata in quanto non continuazione della Russia zarista. Dagli anni ’40, poi, l’URSS adottò la teoria dell’accordo tacito, per cui si riteneva vincolata dalle sole norme a cui non si era manifestamente opposta.

I 14 punti di Wilson: viene affermato, anche in previsione della dissoluzione degli Imperi Centrali, il principio di autodeterminazione dei popoli, non degli Stati.

Alla conferenza di pace di Versailles, seguente la Prima Guerra mondiale, ci fu intensa dialettica tra due differenti visioni geopolitiche: quella degli Stati europei, che miravano ad acquisire il maggior spazio territoriale possibile; quella degli USA, che volevano ritracciare i confini secondo le composizioni etniche e nazionali delle popolazioni. La prospettiva americana in un certo senso prevalse, poiché la Dalmazia fu inclusa nella Jugoslavia (regno di Serbi, Croati e sloveni), mentre l’Alto Adige, seppur di cultura tedesca, divenne italiano.Il vero compromesso di Versailles riguarda, però, il regime di tutela internazionale delle minoranze: i confini, infatti, furono tracciati secondo gli interessi dei vincitori, mentre furono conclusi singoli accordi di tutela per le minoranze tedesche in Cecoslovacchia, svedesi in Finlandia, albanesi in Grecia…, riguardanti la possibilità di mantenere e parlare la propria lingua, avere i documenti trascritti ecc.

Un’altra grande novità di Versailles è rappresentata dalla Società delle Nazioni: nata da apposito PATTO, aveva il compito di promuovere relazioni pacifiche tra gli Stati membri agendo in via preventiva rispetto a controversie; inoltre diede le prime regole di ius ad bellum: questo non è più il diritto che disciplina la condotta dei belligeranti, ma il diritto in base al quale si può fare la guerra per risolvere le controversie internazionali (quindi la guerra non è affatto messa al bando).

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Nel Patto della Società delle Nazioni erano previsti strumenti di conciliazione obbligatoria, a cui gli Stati con problemi dovevano sottoporre le proprie questioni, per tentare di risolvere prima di fare guerra: erano questi il Consiglio della SdN, la Corte Penale Internazionale di Giustizia (vero tribunale), forme di polizia internazionale per le violazioni del Patto da parte di un membro.Il Patto è uno strumento giuridicamente molto raffinato ma inefficace sul piano pratico, a causa della lentezza e macchinosità delle procedure (voto all’unanimità), della necessaria collaborazione tra i membri per l’uso della forza, della limitata adesione degli Stati (USA restano fuori per politiche isolazioniste, Giappone esce nel ’32, Germania nel ’33), del fatto che alcuni Stati (Germania, URSS e Italia) denunciarono il Patto stesso come un impedimento.

Dopo la Seconda Guerra mondiale gli USA provarono a creare una nuova società sovranazionale che ovviasse ai problemi della SdN: nel 1945 a San Francisco si tenne la grande conferenza unilaterale che diede vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite. La CARTA delle NU, seppure giuridicamente poco elaborata come strumento, è molto efficace dal punto di vista operativo; il Sistema di Sicurezza Collettivo è incentrato su un unico organo politico, il Consiglio di Sicurezza (non sulla Corte Internazionale di Giustizia, che mantiene solo funzione consultiva): si è riusciti così a creare un sistema molto più aderente alla realtà dell’epoca (fondato su rapporti di forza). Per evitare le falle della SdN, si cercò un modo per dare maggior peso agli Stati vincitori della Seconda Guerra mondiale: il Consiglio fu inizialmente composto di soli 11 membri (oggi 15) e approvava le delibere a maggioranza qualificata; 5 seggi erano riservati per i vincitori del conflitto e a questi stessi vincitori si concedeva il potere di veto. Con l’Assemblea Generale si garantisce la rappresentanza di tutti gli Stati membri.Uno dei contenuti principali della Carta riguarda le norme di ius ad bellum: la conciliazione resta lo strumento generale e generico e, in più, si sancisce in maniera sostanziale un divieto generale di minacciare e usare la forza per risolvere le controversie internazionali (neanche qui si mette al bando la guerra, in quanto si considerano le cose realisticamente). Ad oggi vi sono due eccezioni all’uso della forza: legittima difesa, individuale o collettiva, intesa come diritto naturale ma limitato (art.51); impiego di misure coercitive, con cui si utilizza o si autorizza l’uso della forza per ristabilire la pace (art.42).Il SSC funzionò bene, fino a quando, dal 1948 in avanti, la Guerra Fredda diede il via al fenomeno dei veti incrociati tra USA e URSS: in questo periodo, infatti, le uniche misure coercitive che fu possibile adottare furono quelle prese durante la guerra di Corea del 1950 a causa del boicottaggio da parte dell’URSS del Consiglio di Sicurezza dovuto al fatto che l’ONU non aveva riconosciuto il nuovo governo Comunista della Cina (fino al ’71 il seggio sarà occupato dal Governo “legittimo” che si insedierà a Taiwan).

In questi anni un importante input allo sviluppo del diritto internazionale venne dal processo di decolonizzazione, affermazione molto forte del principio di autodeterminazione dei popoli messo in pratica con devolution graduale e concordata o conflitti di liberazione. Oltre all’affermazione del principio, questo processo allargò di molto la composizione degli organi dell’ONU, portando ad un cambio degli equilibri in Assemblea Generale. I Paesi di nuova indipendenza tentarono di portare avanti assieme all’URSS la realizzazione di un “nuovo ordine economico internazionale”, non più fondato sul liberismo ma sul principio di sovranità permanente sulle risorse nazionali e sulla possibilità di espropriare gli investimenti stranieri; ciò non implicava però l’elaborazione di nuove norme consuetudinarie del diritto internazionale.Un importante risultato di questa “evoluzione” è la codificazione del diritto internazionale, anche tramite la conclusione di trattati unilaterali: in un’epoca di divisioni si codificano le norme non scritte, il rispetto delle quali in una società divisa sarebbe altrimenti improponibile (vero è che per le consuetudini del XIX secolo gli Stati erano omogenei tra di loro). L’organo che fu incaricato di compiere tale codificazione fu la Commissione di Diritto Internazionale, organo sussidiario dell’Assemblea Generale, composta da 34 giuristi di discipline organiche: questo organismo tecnico contribuì a passare da diritto internazionale pattizio a diritto con disciplina organica multilaterale, costituita anche da convenzioni multilaterali sui più vari argomenti. Tra questi trattati, giuridicamente vincolanti, importanti furono quelli in tema di diritti dell’uomo: DUDU (1948), CEDU (1950) e Patto sui Diritti Civili e Politici, Patto sui Diritti Sociali, Economici e Culturali (1966) superarono il principio che vedeva il diritto internazionale inefficace riguardo al trattamento dei propri cittadini (poteva influire solo il diritto interno); attribuzione di diritti soggettivi all’individuo: non è più solo diritto delle nazioni, ma non solo volksrecht.

Con la fine della Guerra Fredda si aprirono le speranze per un nuovo corso storico (Francis Fukuyama, “fine della Storia”) e nel 1990, per la prima volta da 40 anni, il Consiglio di Sicurezza si attiva e agisce a seguito dell’annessione irachena del Kuwait, condannando, imponendo sanzioni ed embargo, con un ultimatum per l’intervento militare. Il SSC sembra funzionare bene, poiché nessuno pone il veto: questa “serenità” si rispecchia anche nella creazione del Diritto Internazionale dell’Economia (prevale il lasseiz faire) e la creazione del WTO, con un trattato particolarmente liberista. Un passo in avanti rispetto al “nuovo ordine economico” è l’impressionante sviluppo dei BIT; tutti questi

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cambiamenti non coincidono ovviamente con la fine della Storia e difatti scoppiano numerosi conflitti civili (conflitto in Jugoslavia con Srebrenica nel ’95, conflitto in Ruanda nel ’94 con genocidio).In conseguenza di questi gravissimi crimini, si istituiscono i due Tribunali Penali Internazionali ad hoc e si rispolvera il diritto internazionale penale, fermo ai tempi di Norimberga e Tokyo.

Da questo periodo in avanti l’armonia tra i Paesi inizia a vacillare, con gli USA sempre più infastiditi dai meccanismi del Consiglio di Sicurezza che spingono, fino a riuscirci in Kosovo (’98) con la NATO, per la loro propensione unilaterale all’intervento armato: quest’impostazione mentale è fondata sul fatto che gli USA siano rimasta l’unica superpotenza economica e militare e per questo debbano poter fa sentire la propria influenza; gli USA si riscoprono egemoni e a disagio per i principi di eguaglianza tra gli Stati e del consenso unilaterale

Nel 2001 (dirottamenti delle Twin-Towers e del Pentagono) gli USA vennero attaccati dal gruppo terroristico Al-Qaeda, non da uno Stato: questo diede il via al tentativo, da parte dell’amministrazione G.W.Bush, di ridefinire i principi del diritto internazionale:

1. Lo ius ad bellum andava riformato nel senso di rendere possibile la legittima difesa preventiva: si voleva rendere lecito per uno Stato agire preventivamente quando lo stesso veniva minacciato/attaccato da parte di uno Stato o un’organizzazione terroristica. Questa posizione, sostenuta non solo dagli USA, fu il pretesto su cui essi basarono l’intervento militare in Iraq nel 2003.

2. Doveva anche essere ridefinita la tutela dei diritti dell’uomo nell’ambito di Guantanamo. Questo, base militare americana sull’isola di Cuba a seguito di leasing territoriale (in pratica una cessione) avvenuto nel 1899, venne trasformato in un carcere di massima sicurezza detentiva per i membri di Al-Qaeda catturati ovunque; qui non vale la Costituzione americana a seguito del regime di extraterritorialità, e neppure le convenzioni in materia di diritti dell’uomo che alla Costituzione si appoggiano; qui non valgono neppure le convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra, ma gli USA decidono di far vigere “il principio di umanità” (rivisto in chiave americana…): sono rese lecite le Harsh Interrogation Tecnique( non tortura); USA affermano, come URSS rivoluzionaria, di essere vincolati solo dalle norme di trattati che si sono impegnati a rispettare; avviano una politica isolazionista per quanto riguarda il rispetto del diritto internazionale.

Questo tentativo di riforma perde slancio con la II amm.ne Bush, per cadere con l’amm.ne Obama: non è certo un ripensamento dettato da remore morali, ma la pragmatica analisi di una realtà che, per l’emergere di nuove potenze, rende impossibile pensare attuabile l’egemonia USA.Nel 2008, la prima crisi economica, mostra come il mondo sia oramai multipolare, con rapporti più equilibrati, a tutto vantaggio del SSC (es. questione siriana).

I SOGGETTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALEChi partecipa alle relazioni internazionali? Vi sono in merito quattro teorie:

1. Teoria tradizionale. Assolutamente maggioritaria fino alla prima parte del XX secolo e seguita da tutti gli autori del XIX secolo. Prevede che il diritto internazionale sia diritto esclusivamente degli Stati e che questi siano gli unici soggetti→the law of nations.Tale teoria riporta un’impostazione dualistica tra i diritti interni e il diritto internazionale, in cui quest’ultimo disciplinerebbe soltanto i rapporti orizzontali e paritari tra gli Stati e, sempre secondo questa teoria, i primi organismi internazionali non avrebbero avuto personalità giuridica autonoma, ma costituita dalla somma delle personalità giuridiche degli Stati membri.

2. Teoria dei Potentati. Elaborata nel corso degli anni ’50 dal giurista italiano Gaetano Arangio-Ruiz sulla base della prassi dei due secoli precedenti. Per questa teoria i veri soggetti non sarebbero gli Stati, ma i Potentati, genus di cui gli Stati sarebbero una species dotata, oltre che di governo, di popolazione e territorio. I Potentati sarebbero superiores non ricognoscentes 8non riconoscono autorità superiore) costituiti da aggregazioni sociali e umane che si atteggiano in maniera autonoma e indipendente.Esempi di Potentati sono dati dalle popolazioni insorte durante un conflitto civile per l’indipendenza, con cui spesso altri Stati trattano; la Santa Sede nel periodo dal 1870 al 1929, in cui non era dotata né di popolazione né di territorio ma continuava comunque a inviare Nunzi nel mondo; il SMOM, organizzazione politico-sociale, con rapporti sovrani indipendenti anche se è, in effetti, un “ordine cavalleresco”. Anche la teoria arangiana è dualistica e separa il diritto interno dal diritto internazionale.

3. Teoria Contemporanea. È quella oggi maggioritaria, aderente alla realtà del diritto “emanato-positivo”: non nega che gli Stati siano soggetti di diritto internazionale, ma afferma che non sono gli unici. Sono soggetti del diritto internazionale anche le organizzazioni internazionali, le quali ora non hanno una personalità giuridica data dalla somma di quelle dei membri, ma ne hanno una autonoma e propria→precisazione: le organizzazioni internazionali hanno riconosciuta la personalità giuridica solo

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secondo la TEORIA FUNZIONALE (parere della CIG “sulle riparazioni” nel caso della protezione diplomatica per il Conte di Bernadotte, assassinato, per cui l’ONU voleva invocare la responsabilità internazionale del Paese in causa), ossia solo se nell’esercizio delle proprie funzioni. Sono soggetti del diritto anche i singoli individui, soprattutto in virtù delle numerose convenzioni a tutela dei diritti dell’uomo: si garantiscono diritti soggettivi, civili e politici, diritti procedurali (come il ricorso individuale) o la possibilità di petizione individuale. Il soggetto emerge come soggetto del diritto a partire dalla violazione, nel diritto penale internazionale, di norme positive che origini responsabilità individuale (Norimberga, Tokyo, Jugoslavia, Ruanda).Sono soggetti di diritto internazionale gli investitori privati (individui o società): essi vengono tutelati, anche nei confronti degli Stati che li ospitano, da meccanismi come gli arbitrati, previsti col sistema ICSID nel 1965, che si tengono a Washington presso la Banca Mondiale.Infine sono ritenuti soggetti anche gli insorti, come nella teoria dei potentati: sono essi gruppi militarmente organizzati che esercitano un controllo fattivo su una parte del territorio e che devono sottostare alle Convenzioni di Ginevra sulle “guerre interne”.

4. Teoria degli Attori Internazionali. È una teoria sociologica proposta da un gruppo di Yale per cui i soggetti sarebbero molteplici, ma quelli rilevanti non sarebbero coloro che emanassero atti legislativi positivi, ma coloro che prendessero decisioni giuridicamente rilevanti (non vincolanti!): sono essi i Governi, non gli Stati; gli organi politici, non democratici, delle organizzazioni internazionali; i tribunali internazionali; le ONG (quali la Croce Rossa Internazionale), che hanno un ruolo primario nell’elaborare i contenuti dei trattati: l’art.71 della Convenzione di Strasburgo del 1986 (e risoluzione 1296 ECOSOC) attribuisce alle ONG lo “status consultivo” per cui possono esercitare, nei dibattiti, un ruolo di moral suasion.

Ad oggi, al di là delle varie teorie, il principale soggetto del diritto internazionale rimane sempre lo Stato, come qualificato dai trattati di Westfalia (ma non si ha una definizione); la prima e unica definizione di “Stato” si ha nel 1933 con l’art.1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati: tuttavia è oggi uno strumento datato, regionalistico, di limitata applicazione (appena una decina di ratifiche). Tuttavia, fino all’inizio degli anni ’90 questo articolo veniva spesso richiamato nelle procedure di riconoscimento di nuovi Stati, i quali dovevano appunto avere “Governo, popolo, (definito) territorio”; a ciò si aggiunse un quarto requisito, quello della capacità di mantenere rapporti sul piano internazionale. Di questi criteri, ai fini della validità dell’articolo 1, i primi tre sono molto vaghi e generici, mentre il quarto può essere fuorviante, perché cela il requisito dell’indipendenza, di cui è invece una conseguenza (c.d. sovranità esterna).

Secondo un’opinione separata” del giudice Anzillotti (1931) “ai fini della rilevanza dell’indipendenza, poco importa che lo Stato abbia concluso o sia sottoposto ad accordi internazionali; poco importa che sia soggetto ad influenze esterne; quello che rileva è che l’ordinamento giuridico sia un ordinamento originario” il requisito di indipendenza viene inteso in senso formale attraverso una presunzione relativa.Questo requisito formale di indipendenza di un’organizzazione internazionale può essere perso se la stessa è sottoposta a continue e pervasive ingerenze da parte di un altro soggetto→caso dell’RSI e degli Stati fantoccio come la Repubblica di Croazia (1941-1945), il Manchukuo degli anni ’30…

La convenzione di Montevideo prevedeva inoltre che il riconoscimento (atto unilaterale dello Stato che lo concede) fosse un mero atto politico di natura dichiarativa, prendendo una netta posizione nell’ambito di tale diatriba del XX secolo:

La tesi dichiarativa presuppone che nel riconoscimento sia insita la disponibilità ad intrattenere relazioni economiche, commerciali, con lo Stato riconosciuto; presuppone altresì che il riconoscimento non abbia effetti giuridici.

La tesi costitutiva, in voga nella prima parte del secolo presso autori volontaristi-positivisti, prevedeva che gli Stati non si costituissero in senso oggettivo (universale), ma venissero riconosciuti come Stati solo nell’ambito di rapporti bilaterali →è la volontà dei singoli Stati ad accordare personalità giuridica agli altri.

La tesi costitutiva rispecchiava la realtà eurocentrica, ma è divenuta impraticabile quando la comunità internazionale è passata da 40-50 Stati a 150-200; seppur fatta uscire dalla porta, però, tale dottrina rientra dalla finestra dal momento che è essenziale per i rapporti all’interno di una comunità globalizzata e interdipendente.I requisiti di Montevideo, come si è visto, fanno riferimento ad elementi fattuali per il riconoscimento di uno Stato e dunque molti autori del XX secolo hanno sostenuto una teoria “fattualista” dello Stato (oggi ancora maggioritaria in Italia); secondo questa teoria lo Stato è un dato pregiuridico, non influenzabile nel suo nascere da norme positive →lo Stato è come una persona naturale, un dato pregiuridico con conseguenze.

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In contrapposizione alla teoria fattualista si ha la teoria “sulla nozione giuridica di Stato” proposta dall’australiano James Crawford: secondo costui, lo Stato non sarebbe un mero fatto, “come una sedia”, ma sarebbe “più come un trattato internazionale”: disciplinato nella sua costituzione da norme di diritto interno →lo Stato è come una persona giuridica. Il ragionamento dietro alla tesi di Crawford è che lo Stato sia caratterizzato dall’effettività, ma a un’effettività prevista da norme generali di diritto internazionale non scritte, di natura consuetudinaria (non un dato pregiuridico, quindi) e solo “grossomodo” codificate nella Convenzione di Montevideo.Il fatto che si tratti di norme generali (≠unica norma), non toglie che possano anche intervenire nel riconoscimento degli Stati alcuni ulteriori principi:

Divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali ai fini del riconoscimento di una organizzazione internazionale come Stato. Si ha il caso della Repubblica Turca di Cipro del Nord nel 1974, la cui dichiarazione di indipendenza è immediatamente condannata dagli organi politici dell’ONU; se non ci fosse stato l’uso della forza, lo Stato non sarebbe mai sorto.

Principio di autodeterminazione dei popoli. Secondo Crawford questo principio incide, in senso negativo, nell’interdire alcune organizzazioni internazionali dal dichiararsi Stati indipendenti quando non sia rispettata l’autodeterminazione dei popoli. Si hanno i casi della Rhodesia del Sud e dei Bantustan sudafricani, entrambi fondate sul regime di apartheid tipico della decolonizzazione negli anni ’60 (quindi ad “autodeterminarsi” era soltanto la minoranza bianca della popolazione che di fatto segregava la maggioranza nera). Queste dichiarazioni di indipendenza, unilateralmente imposte, furono condannate.

Altri autori fanno risaltare differenti criteri necessari per formalizzare un riconoscimento: Divieto di secessione unilaterale (tesi minoritaria), perché violano il principio di integrità territoriale.

Numerosi sono gli Stati formatisi così negli ultimi venti anni, in barba a questo divieto, poiché dal momento in cui la separazione si consolida e diventa irreversibile, vince l’effettività. Si ha il caso emblematico del Kosovo nel 1998, sulla cui dichiarazione di indipendenza si è espressa la CIG nel 2010, dichiarandola differente rispetto a quelle della RTCN e RdS; queste due originavano da gravi violazioni di norme di diritto imperativo (c.d. ius cogens), mentre per il Kosovo si può si parlare di violazione dell’integrità territoriale della Serbia, ma questa non è norma di ius cogens. La tesi maggioritaria, in questo ambito sposata anche dalla CIG, vede il diritto internazionale neutrale rispetto alle secessioni unilaterali, fondate come sono sull’effettività: talvolta si riconoscono valide alcune secessioni in ambito coloniale, sostenendole anche col principio di autodeterminazione dei popoli.

Requisito di democraticità del Governo, avanzato da alcuni autori statunitensi: sarebbero riconosciuti come Stati solo le organizzazioni internazionali dotate di Governo democratico, con organizzazioni libere e periodiche. È questa una teoria “de lege ferenda”, che guarda al futuro e non allo stato attuale dell’arte ma che in Europa, ha costituito una “consuetudine regionale” relativa alla formazione di nuovi Stati.

LE SUCCESSIONI TRA STATISono le principali modalità di subingresso nei rapporti giuridici tra uno Stato precedente e uno successivo, attraverso una trasformazione della sovranità; per questo, esistono alcune modalità tipiche: la secessione (che come abbiamo visto è solo parziale) è assimilabile alla devoluzione concordata (caso scozzese o dell’URSS, la cui personalità giuridica continua in quella russa) e all’incorporazione (caso della Germania est nella Germania ovest) e nessuna delle tre implica automatica e piena successione nei trattati, nelle organizzazioni… Si hanno poi l’unione, con cui due Stati rinunciano alla propria personalità giuridica per formare una nuova entità (esempio dello Yemen sud e nord); lo smembramento, termine tecnico per “dissoluzione”, con cui uno Stato cessa di esistere (cessa la personalità giuridica) e compaiono altri Stati (casi di Cecoslovacchia e Jugoslavia ma non dell’URSS); da ultimo si ha l’annessione, vietata in quanto incorporazione con l’uso della forza armata.In caso di successione tra stati, gli obblighi con altri Stati od organizzazioni internazionali dovrebbero idealmente essere concordati secondo il principio dell’accordo (es. ripartizione del debito jugoslavo nel 2000), il quale ha subito vari tentativi di formalizzazione, tra cui le Convenzioni di Vienna del 1978 (successione nei trattati) e 1983 (successione nei debiti, nei beni e negli Archivi di Stato). Delle due convenzioni, solo la prima è entrata in vigore per soli 22 Paesi a causa dei contrasti nella comunità internazionale: i Paesi di nuova indipendenza pretendevano di avere tabula rasa nei confronti della madrepatria mentre da essa volevano la successione universale (viceversa per la madrepatria nei confronti delle ex colonie) →uniche eccezioni furono, per il principio della tabula rasa, il trattato sui confini, mantenuto valido nel continente africano come uti possidetis per favorire la stabilità; per il principio di successione universale furono i trattati di natura politica e militare.La successione tra Stati in caso di responsabilità “penale” internazionale non si codifica nei trattati, ma si afferma in via di prassi.

LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

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Per questo tema bisogna partire dall’art.38 dello Statuto della CIG, che elenca, non in ordine gerarchico bensì logico, le fonti formali del diritto internazionale: a) Convenzioni internazionali, siano esse generali e quindi multilaterali, o particolari, quindi bilaterali; sono queste

la forma scritta del diritto internazionale.b) Consuetudini internazionali, generalmente riconosciute come prassi e accolte come forma di diritto; forma non

scritta. Devono essere presenti i due requisiti di opinio iuris sive necessitatis e diuturnitas.c) I principi generali del diritto generalmente riconosciuti nelle nazioni civili.d) Le decisioni giurisprudenziali e gli insegnamenti dei giuristi più qualificati, delle varie nazioni, solo come

strumenti sussidiari per determinare le regole del diritto →giurisprudenza e dottrina, rappresentano fonti materiali, non formali.

e) bonus et aequus, dove le parti si siano accordate in modo da lasciare alla Corte questa possibilità; equità e bontà si usano qui in accezione metagiuridica.

Per distinguere quale norma applicare, non essendoci principio gerarchico, nel diritto internazionale valgono il principio cronologico (lex posterior) e della competenza (lex specialis).

Il diritto “generale”, in tema internazionale, risponde più o meno a quello richiamato dall’art.10 della nostra Costituzione: la principale sua fonte sono le consuetudini; ne fanno parte i principi generali del diritto, include le Convenzioni ratificate “da quasi tutti gli stati” (ma problemi per il contenuto pattizio e non consuetudinario..). Analizziamo i primi due punti.

Le consuetudiniSono caratterizzate sia da un elemento oggettivo (prassi generale, uniforme e ripetuta nel tempo), sia da un elemento soggettivo (opinio iuris sive necessitatis, il convincimento che sia da ritenere diritto); la nozione individuata è però nebulosa e risulta difficile definire “prassi” e “opinio”. Si richiama allora l’art.30 dello Statuto CIG che ai punti c e b richiama il concetto di “evidence”, che a sua volta è formato e trasformato da:

comportamenti concludenti e materiali, posti in essere dagli Stati →es. l’arresto di navi e individui privati nelle acque internazionali del Golfo di Aden, dove vigerebbe la legislazione dello Stato “di bandiera”, in nome di una tutela internazionale dalla pirateria. Oggi questa prassi è codificata nella Convenzione UNCLOS del 1982.

Documenti scritti che non siano fonti, come le note diplomatiche o il voto presso organizzazioni internazionali.

Atti legislativi interni, come quelli riguardanti lo sfruttamento esclusivo delle risorse della piattaforma continentale prospiciente le costa dello Stato →in passato hanno dato il via alla formazione di norme consuetudinarie. La piattaforma continentale sfruttabile è quella, entro 200nml, che fa anche parte della zona economica esclusiva, il cui sfruttamento va dichiarato, appunto con atto legislativo interno.

Atti di legge che permettano ad autorità giurisdizionali di esercitare una giurisdizione extraterritoriale o addirittura universale; in certi casi lo possono essere anche le sentenze delle giurisdizioni superiori interne.

Questi singoli atti di prassi sono generalmente accompagnati da manifestazioni di opinio iuris da parte dello Stato, con cui questo esplica le sue ragioni.La prassi al fine della formazione di norme consuetudinarie deve rispondere a tre caratteristiche:

1. Generalità. Nel processo di formazione la prassi deve essere rappresentativa del genus Stati, presenti nella comunità internazionale. La generalità è un dato sia quantitativo che qualitativo, da non valutarsi in meri numeri ma sulla rappresentatività della prassi rispetto agli interessi in gioco con la norma (es. diritto del mare per uno Stato non costiero) →es. del parere della CIG sulla messa al bando delle armi nucleari nel 1996, non accolta perché votata da soli paesi denuclearizzati.

2. Uniformità. In linea di principio gli Stati devono aver sempre agito secondo quanto previsto dalla norma non scritta che si vuole far valere; tuttavia la CIG nel 1986 dà una particolare lettura del concetto di uniformità rendendo possibile quella “imperfetta” nell’ambito del caso Nicaragua-Usa.Caso Nicaragua-Usa:negli anni ’80 il partito Sandinista sale legittimamente al potere in Nicaragua ed è di ispirazione socialista anche se non apertamente filosovietico. Gli Usa iniziano tentativi di destabilizzare il Governo attraverso l’organizzazione, a mezzo di agenti CIA, di una opposizione politica armata, i Contras. Il Nicaragua cita allora gli Usa sulla base di una dichiarazione unilaterale che gli Usa avevano sottoposto alla CIG negli anni ’40, per la quale la Corte non avrebbe avuto giurisdizione su trattati multilaterali nei quali non tutti i membri fossero parti in causa →Usa negano quindi che la Corte abbia giurisdizione, sollevando eccezioni preliminari: non è vero che hanno esercitato ingerenze con la forza; non è vero che la Corte può giudicare perché le norme sono scritte nella Carta ONU. La CIG risponde che le norme sono si dettate nella Carta, ma parallelamente ad

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esse esistono, pari pari, sul piano consuetudinario (e alla violazione di queste si appoggia); afferma inoltre la rilevanza di una “uniformità non perfetta” poiché rileva che gli Usa, come tutti, abbiano tentato di legittimare un intervento armato, riconoscendolo quindi implicitamente ambiguo, come se fosse un male da farsi scusare.

3. Costanza. Anche questo è un concetto elastico, per cui la CIG non pone molti limiti temporali. Senza dubbio viene esclusa la teoria della consuetudine istantanea (sorta intorno al Nuovo Ordine Economico Internazionale) per cui la consuetudine veniva “riconosciuta” da votazioni a larghissima maggioranza. La CIG non ha tuttavia escluso che la norma possa emergere in un tempo breve, nel quale però la prassi deve essere diffusa e rappresentativa. →è il caso della sovranità sui cieli, nata durante la Prima guerra mondiale e resa effettiva alla fine; o della piattaforma continentale del mare del Nord, per la quale al tempo di tre anni non era corrisposta una prassi adeguata.Caso della piattaforma continentale nel mare del nord:Negli anni ’60, a seguito della scoperta di risorse nel mare del Nord, ci fu un gran numero di domande di riconoscimento della sovranità sulla piattaforma continentale, tra cui quelle di Olanda, Germania e Danimarca: per la particolare conformazione della costa la Germania avrebbe però subito un “effetto amputazione” se fosse stato impiegato il metodo dell’equidistanza.Secondo l’articolo 6 della Convenzione di Ginevra del 1958 sulla delimitazione della piattaforma continentale, era appunto previsto il metodo delle equidistanze se non si fosse riusciti a raggiungere un accordo comune; non essendo la Germania parte della Convenzione ma essendolo la Danimarca e l’Olanda, queste nel 1967 ricorsero alla CIG per far applicare alla Germania il principio dell’equidistanza, che secondo loro era ormai diventato diritto consuetudinario attraverso la prassi.L’argomento secondo cui la Convenzione avrebbe “generato” norma dalla pratica non fu accolto dalla CIG perché dal 1964 al 1967 la prassi era stata troppo poco diffusa (di 15 Stati che l’avevano fatta valere, ben 8 casi riguardavano membri della Convenzione); la CIG altresì elaborò tre ipotesi di rapporto tra la Convenzione e la consuetudine:

Effetto generativo della consuetudine da parte della Convenzione Effetto ricognitivo della consuetudine da parte della Convenzione (la consuetudine già c’è) Effetto consolidativo della consuetudine da parte della Convenzione (simultaneità)

La CIG non esclude in via definitiva, però, che possa bastare anche un tempo limitato come tre anni per far nascere una consuetudine. Si ha il “paradosso di Buxter” (vd. in seguito).

Come già detto, le consuetudini si caratterizzano anche per la c.d. opinio iuris, che ne è l’elemento soggettivo: se manca, non si ha consuetudine ma semplice prassi, come nel caso dei protocolli di Stato per le visite di Capi di Stato o di Governo. Casi tipici, da manuale, in cui emerge il concetto di opinio iuris secondo la CIG sono i seguenti:

Sentenza sul caso Nicaragua-Usa: questo rientra tra i casi di scuola perché la motivazione della Corte è interamente basata sul diritto consuetudinario. Il Nicaragua accusava gli Usa (vedi sopra) di uso della forza e ingerenza negli affari interni, mentre gli Usa respingevano tali accuse volendo giustificare l’uso della forza e negavano la giurisdizione della Corte sulla base di una Dichiarazione degli anni ’40 a riguardo dei trattati multilaterali (a meno che, caso irrealizzabile, tutte le parti del trattato fossero anche parti in causa). La CIG nella sua motivazione fa riferimento sia all’attitude delle parti in causa, sia a quella della generalità degli Stati: sia le parti, sia molti altri Stati avevano dato seguito negli anni precedenti a risoluzioni ONU sul divieto dell’uso della forza (es. Risol.2625) e per la Corte tale seguito non era solo il riconoscimento formale degli impegni pattizi contenuti nelle dichiarazioni, ma riconoscimento della validità delle regole generali contenute nella Carta →la Corte deve allora dimostrare che la generalità degli stati non afferma il divieto dell’uso della forza in quanto riconosciuto dalla Carta ONU, ma in quanto regola già invalsa come consuetudine (uno strumento di soft law, in effetti, è vincolante solo se fondato su norme consuetudinarie). La Corte, proseguendo nel suo ragionamento, riconosce che dagli strumenti di soft e strong law ratificati dagli Usa in passato emerga la costante opinio iuris di condanna dell’uso della forza: l’opinio iuris è fatta emergere dalla storia della prassi Usa.Dalle dichiarazioni dei rappresentanti degli Stati, la Corte riconosce che il divieto dell’uso della forza sia un principio cardine dell’ordinamento internazionale: l’International Law Commission, organo tecnico che rileva l’opinione degli Stati e sottopone i propri progetti alla VI Commissione (a sua volta organo di stati), ha affermato che tale divieto è un esempio palese di quello che si intende per ius cogens, ossia il nucleo di norme imperative e inderogabili dell’ordinamento (e quindi indirettamente così è stato riconosciuto dagli Stati stessi) →gli Usa hanno contravvenuto al divieto? Beh, mica hanno bombardato il Nicaragua… la già citata Dich.2625 prevede che si possa parlare di “uso della forza” anche in forme meno gravi rispetto all’aggressione, quali

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l’organizzazione o incoraggiamento di bande armate o forze irregolari per incursioni nel territorio di un altro Stato.

L’intromissione, positiva o negativa, in atti terroristici o di rivolta civile in un altro Stato e l’accondiscendenza a tali atti se avvengono sul proprio territorio.

→è affermazione di un principio di DILIGENZA. Ma non finisce qui, perché al divieto dell’uso della forza sono apposte due eccezioni:

Il diritto all’esistenza o alla legittima difesa individuale o collettiva degli Stati, fatto rientrare in una sorta di diritto naturale: è questa una eccezione di natura consuetudinaria, solo formalmente riconosciuta con l’art.51 della Carta.

La clausola di NON PREGIUDIZIO con cui, nella Dichiarazione del 1970, non si espande o diminuisce la portata delle disposizioni della Carta in cui l’uso della forza appare legittimo.

→entrambe queste eccezioni sono definite nella sentenza come already a matter of customary International law.Quindi, prima di entrare nel merito della questione, la Corte analizza sempre prima quale sia il diritto applicabile al caso specifico.Anche nel caso Nicaragua-Usa, come in quello della piattaforma continentale nel mare del Nord, emerge il Paradosso di Buxter: con esso ci si riferisce al fatto che se il diritto internazionale è caratterizzato da una moltitudine di trattati multilaterali, diventa sempre più oneroso provare l’emersione autonoma di una norma consuetudinaria successiva. Infatti, più sono gli Stati parte al trattato, più si dovrà presumere che la condotta rispettosa dei principi del trattato stesso non sia posta in essere per opinio iuris, ma perché è rispetto di disposizioni di diritto positivo. →paradosso: più il diritto internazionale sarà codificato coi trattati, più il diritto consuetudinario scomparirà.

Sentenza Filartiga-Peña Irala: è una sentenza emanata da una Corte distrettuale americana e insegna che la consuetudine può emergere anche a seguito di riconoscimento da parte di un tribunale interno. I due cittadini in causa erano paraguayani, i fatti erano avvenuti in Paraguay nel ’76 e la sentenza americana è dell’’80. Perché?Il figlio del leader Filartiga era stato arrestato dalla polizia per presunte attività sovversive, picchiato, torturato e ucciso. Peña Irala, capo della polizia, era ritenuto penalmente responsabile dai Filartiga, ma i tribunali paraguayani non riescono ad avviare il processo, perché Peña Irala era nel frattempo scappato negli Usa: sarebbe stato possibile far valere la giurisdizione paraguayana, ad esempio con una richiesta di estradizione, ma non fu fatto; si preferì fare ricorso civile negli Usa appoggiandosi all’Alien Tort Claim Act del 1789 che, unico nel suo genere, contiene disposizioni per cui le Corti distrettuali americane abbiano giurisdizione originaria su tutti i ricorsi promossi da stranieri per “tort” (=responsabilità extracontrattuale CCit) che emerga da un atto in violazione della “law of Nations” o di un trattato di cui gli Usa siano parte.Si fa quindi riferimento al diritto consuetudinario (e non pattizio, quindi il giudice deve far emergere la law of Nations) perché nel 1980 la tortura non è ancora parte di un organico disegno multilaterale:

La tortura, intesa come violenza commessa da un agente dello Stato contro un detenuto) è universalmente condannata e viola parecchie convenzioni internazionali: questa è l’argomentazione “programmatica”, giuridicamente scarna…

Si fa riferimento alla Corte Suprema, la quale ha enumerato le fonti dell’ordinamento internazionale (a suo modo) e non alle fonti dell’ordinamento richiamate nello Statuto dell’ONU; si richiamano si ala dottrina, sia la prassi degli Stati e la giurisprudenza (a prima e la terza sono, per lo Statuto CIG, solo fonti materiali).

La Corte Suprema al suo interno non ha ancora unanime consenso su cosa sia da ritenere “diritto fondamentale tutelato dal diritto internazionale”, ma dalle sue motivazioni sicuramente vi rientra la tortura. Il divieto di tortura è anche sancito, come detto, dal diritto consuetudinario internazionale (è ius cogens) ma al contempo anche da particolari trattati: DUDU del 1948 e Dich.2625 Ass.Gen. ONU del 1970 (con cui si afferma che i principi della Carta, incorporati nella DUDU, siano principi generali dell’ordinamento (e quindi una fonte)).Nel 1975 si ebbe un’altra Dichiarazione dell’Assemblea Generale adottata all’unanimità, la 3452, che definisce la tortura e prevede il diritto ad un risarcimento o ad un rimedio, in accordo col diritto internazionale.I dati richiamati sopra (dottrina, giurisprudenza, DUDU, Dich.2625 e 3452 ecc…) costituiscono tutti, secondo la Corte Suprema, manifestazioni di opinio iuris; se accompagnate da prassi, ovviamente, costituiscono norme di diritto internazionale consuetudinario, vincolante →da ciò si passa a riconoscere proprio nella prassi una rinuncia generale, tendenzialmente universale, da parte del diritto internazionale e interno (Usa e Paraguay), esplicitamente o implicitamente prevista, alla tortura.1. Certo, questo divieto è spesso violato, ma generalmente riconosciuto valido da tutti i Governi.2. Nessuno Stato afferma il proprio diritto a torturare: generalmente, se accusati, negano anziché giustificarsi,

facendo passare la tortura per violenza privata o trattamento duro.Conclusioni:La tortura è vietata dal diritto interno.

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Quando la norma consuetudinaria si afferma ed è consolidata, magari in ius cogens (come è avvenuto), la sua modifica sarà difficile e certo non basterà la semplice prassi.L’immunità giurisdizionale non venne riconosciuta dagli Usa ai c.d. Stati canaglia: ciò non può essere però una consuetudine, perché violerebbe ciò che è già norma consuetudinaria.

I principi generali del diritto (riconosciuti dalle nazioni civili)La dizione completa, con riferimento alle nazioni civili, è oggi superata: nel 1945 era retaggio dello Statuto del tribunale della SdN, ancora impostato su uno standard “westfaliano” di civilizzazione; ad oggi, l’unica dottrina ad attribuire significato a tale distinzione è quella de Benedetto Conforti (nazioni civili= standard democratici e rispetto diritti umani).Per principi generali poi, s’intendono quegli elementi che compongono il diritto internazionale generale, che sono applicabili alla generalità degli Stati, che derivano da singole esperienze interne (d. romano, common law…); la funzione di questi principi non è affatto residuale, ma ausiliaria per i giudici nell’interpretazione e applicazione del diritto, pattizio o consuetudinario, nei rapporti bilaterali tra Stati. Agli interpreti, per usare di questi principi, non sono richieste né la prassi, né l’opinio iuris; secondo orientamenti minoritari, tuttavia questi principi sono reinclusi nel diritto consuetudinario, perché ritengono che non potrebbero essere vincolanti senza prassi od opinio iuris.Esempi di principi generali sono la buona fede, intesa come ragionevolezza nell’interpretazione dei trattati; il principio di proporzionalità, ad esempio nella legittima difesa che deve essere “commisurata” o nelle sanzioni, nella restrizione delle libertà ecc…; il principio di equità, ossia “medietas”; il principio di acquiescenza in merito alle rivendicazioni territoriali; il principio dell’estoppel, di diritto privato della common law: è questo una forma di preclusione che impedisce ad uno stato di trarre vantaggi da un proprio comportamento contraddittorio e che è stata addirittura codificata in certi casi (CdV sui trattati all’art.45).I principi di diritto consuetudinario come quello di autodeterminazione o divieto dell’uso della forza NON sono principi generali del diritto internazionale: hanno infatti bisogno di prassi e opinio iuris.

I trattati internazionaliIn questo ambito, il principale riferimento è dato dalla Convenzione di Vienna del 1969 “sul diritto dei trattati tra gli Stati”, la quale risente molto del diritto civile e dei contratti; le regole sostanziali (procedurali, potremmo dire) sono oggi diritto consuetudinario codificato e regolano il “fenomeno” trattati, non il contenuto dispositivo.Secondo l’art.2 c.1 §a della CdV “trattato”è un accordo internazionale concluso tra Stati, in forma scritta (XIX sec. forma tacita od orale), avente qualsiasi denominazione (patto, carta...), governato dal diritto internazionale, incorporato in uno strumento solo o più collegati (trattato, scambio di note diplomatiche).Una successiva CdV (1986, sul diritto internazionale dei trattati tra organizzazioni internazionali e Stati e organizzazioni internazionali) codifica nuovo diritto consuetudinario.Con i trattati, i soggetti sono vincolati solamente in caso di corretta manifestazione del consenso, che avviene secondo procedure tipiche (non tassative):

Nei trattati multilaterali si ha una prima fase di negoziato, a seguito della quale l’atto è adottato (se ne adotta la forma redatta); dopo l’adozione inizia la fase di “apertura alla firma”, che è un primo atto di manifestazione del consenso ad essere vincolati, ma non è definitivo. Il consenso viene perfezionato (e quindi ci si vincola effettivamente) dall’ulteriore atto della ratifica, o meglio, dal deposito della stessa. Tipicamente i trattati multilaterali prevedono l’entrata in vigore al raggiungimento di un numero minimo di ratifiche: un esempio è lo statuto della CPI del 1998, ratificato dal 35° Paese nel 2002 e nello stesso anno entrato in vigore.Non essendo vincolante la sola firma, non è però lasciata discrezionalità assoluta nel comportamento agli Stati firmatari: l’art.18 CdV richiede infatti un comportamento di buona fede da parte dello stesso nei confronti della disciplina del trattato, che non contrasti con le sue finalità. È possibile, in questo tipo di trattati, l’adesione successiva (accessione). La ratifica, di per sé, oggi e in Italia ha funzione di garantire la democraticità, in quanto è vero che a ratificare è il PdR, ma solo su legge di autorizzazione alla ratifica del Parlamento; con la monarchia, invece la ratifica serviva a controllare, da parte del sovrano, il comportamento dei plenipotenziari. Un ulteriore momento nella vita di un trattato è quello della registrazione obbligatoria presso organi preposti (segretariato ONU), che non si presenta come atto di manifestazione del consenso, ma di pubblicità notizia →si vuole così ovviare al fenomeno della diplomazia segreta (come accordo Molotov-Ribbentrop), degli accordi non registrati, che non sono opponibili davanti ad organi giurisdizionali ONU.

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I trattati bilaterali (o tra pochi Stati) seguono una procedura simile, ma semplificata, in quanto si può prevedere che entrino in vigore senza ratifica o con firma e ratifica o con parafatura ; non è necessario un numero minimo di ratifiche; non si ha il momento dell’adozione, che è implicitamente incluso in quelli di firma o parafatura.

I soggetti legittimati a manifestare il consenso (art.7 CdV) nelle varie fasi (negoziare, firmare, adottare, aderire, annettere, ma non ratificare) sono i plenipotenziari:

Di diritto: Capi di Stato e di Governo, ministri degli Affari Esteri, Ambasciatori (nell’esercizio delle loro competenze e nella conclusione di trattati bilaterali con lo Stato presso cui sono accreditati), i capi delle delegazioni statali presso organizzazioni internazionali (questi ultimi possono solo negoziare e adottare).

Di “attribuzione”: possono avere pieni poteri o poteri parziali, che sono conferibili dal Capo del Governo a ministri competenti o sottosegretari con un “documento di accompagnamento”.

Possono esserci i plenipotenziari de facto, che pur non presentando l’attribuzione dei pieni poteri, sono considerati competenti ad agire in virtù di prassi consolidate dello stato o comportamenti concludenti dello stesso.

L’art.8 CdV dispone la nullità degli atti conclusi dai soggetti non legittimati a meno che lo stato non abbia tenuto un comportamento concludente o di conferma (art.7).

Nei trattati è possibile inserire delle “riserve”→art.2 CdV: è dichiarazione unilaterale, comunque formulata o denominata, fatta da uno Stato, in una qualsiasi delle fasi della conclusione del trattato; è una forma di consenso condizionato volta ad ESCLUDERE o MODIFICARE gli effetti giuridici di certe norme del trattato; la riserva è sostanzialmente diversa dalla dichiarazione interpretativa, col la quale uno Stato manifesta la propria interpretazione di una o più norme del trattato. La differenza tra le due è assai sottile, a tal punto che alcuni Stati le chiamano con lo stesso nome e per ciò si è reso necessario l’inciso di Vienna.Nel diritto internazionale classico era possibile mettere riserve, ma solo col consenso unanime degli Stati parte del trattato, e ciò spesse volte portava alla mancata adozione.Col secondo dopoguerra la disciplina muta, in particolare grazie ai numerosi trattati multilaterali in tema di diritti umani:

Un parere della CIG del 1951 sulla Convenzione del 1948 di condanna al genocidio: alcuni Stati volevano firmare con riserva all’art.9 sulla clausola giurisdizionale, ma altri Stati erano contrari a ciò. La CIG afferma, nel suo parere, che coi trattati sui diritti umani si istituisce un nuovo tipo di trattato, che non comporta rapporti sinallagmatici, ma generali e indivisibili, e dunque per la natura stessa di questi trattati bisognerebbe legittimare a priori qualsiasi riserva che sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato (e tali sono quelle all’art.9).

La ratio di ciò sta nell’incentivare una partecipazione ai trattati multilaterali anche per quei Paesi generalmente restii →nota: questa non è l’affermazione di una regola generale, ma valida per la convenzione del 1948.Successivamente, l’art.19 CdV del 1969 rende la regola di compatibilità delle riserve un principio di applicazione generale, applicabile ogni qual volta non ci sia una specifica disciplina volontaria. Tuttavia a questa regola generale manca lo strumento per la valutazione effettiva della compatibilità tra riserva e scopo: questo è ovviamente voluto, per consentire agli Stati di mantenere un ampio margine di manovra individuale →anche in un trattato multilaterale si avrà un reticolo di rapporti bilaterali, a seconda delle reazioni che i vari Paesi avranno a fronte di una riserva posta da uno Stato:

1. Principio di silenzio assenso: le disposizioni della riserva si applicano, secondo quanto previsto dalla riserva stessa, tra lo Stato riservante e quello che non ha manifestato opposizione alla stessa in 12 mesi.

2. Le disposizioni della riserva si applicano, “nella misura prevista dalla riserva”, tra lo Stato riservante e lo Stato che si oppone alla riserva ma non all’intero trattato.

3. Tra lo Stato riservante e lo Stato che si oppone sia alla riserva che al trattato, non si applica alcuna disposizione: questo è l’unico modo effettivo per non far valere la riserva che lo Stato pone.

Le obiezioni alle ratifiche, così come le ratifiche stesse, vanno depositate.

Esempi: eliminare effetti giuridici della norma Trattato sui diritti dell’uomo, con divieto, per gli Stati parte di comminare la pena di morte. Lo Stato A

appone una riserva per poter far valere, per i crimini più efferati, il proprio Codice, nel quale la pena di morte è contemplata. A) lo Stato B non obbietta e dunque tra A e B il trattato si applica con la riserva. B) lo Stato C afferma l’incompatibilità della riserva e vi si oppone →essendoci opposizione, “logicamente” (interpretazione teleologica) la riserva viene separata dal trattato e non ha efficacia verso lo Stato obbiettante. Lo stato D afferma l’incompatibilità della riserva e vi si oppone →non si ha opposizione logica, ma lettura letterale della disposizione: la disposizione non si applica “nella misura in cui…” e ciò rende lo

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Stato A libero di far valere la riserva anche nei confronti degli stati obbiettanti. A Vienna si è voluto mantenere questa ambiguità di fondo. C) lo Stato E obbietta sia alla riserva, sia al trattato: questo è l’unico modo per impedire ad A di far valere la propria riserva.

Trattato in tema di relazioni economiche e commerciali per la liberalizzazione dei mercati e per gli investimenti esteri. Lo Stato A oppone una riserva che esclude una provincia dall’ambito di applicazione delle norme del trattato. A) alcuni Stati accettano la riserva e si impegnano a non dare adito a rivendicazioni da parte di proprie imprese che operano, a proprio svantaggio nella suddetta regione. B) la riserva è superata, nei confronti degli Stati obbiettanti: tra A e questi Stati il trattato si applica integralmente ma, in virtù dell’interpretazione letterale, la disposizione non si applica nella misura prevista dalla riserva, con evidente favore per il riservante. C) nessun problema, nessun rapporto giuridico.

In tema di diritti dell’uomo sono spesso previsti degli organismi di controllo (giurisdizionali, di garanzia e monitoraggio), il cui intervento tuttavia non è obbligatorio: ciò detto, lo Stato riservante sarà sempre favorito.Nei casi di esclusione degli effetti giuridici della norma (i due casi visti) sia che lo stato si opponga, sia che accolga la riserva, i rapporti bilaterali, in mancanza del controllo, sono gli stessi.

Esempio: modificare effetti giuridici della norma Trattato di lotta alla pirateria. L’art.X prevede la possibilità di hot pursuit (inseguimento in flagranza di reato)

in acque territoriali di uno Stato partendo dalle acque internazionali. Lo Stato A si riserva la facoltà di esercitare hot pursuit (art.X) anche nei confronti di navi sospettate di trasportare aderenti a gruppi terroristici (vuole estendere l’applicabilità della norma). A) se B non obbietta alla riserva, le navi A potranno entrare nelle acque di B per inseguire sia P che T. B) se B obbietta alla riserva ma non al trattato, in questo caso le cose sono più semplici: la disposizione (del trattato) non si applica nella misura della riserva →A potrà inseguire nelle acque di B solo le navi P. C) se B si oppone sia alla riserva sia al trattato, non ci sarà alcun rapporto giuridico.

Vi sono dei particolari tipi di riserve, le c.d. riserve generiche, oggi ritenute illegittime e quindi “separate” dai trattati: negli anni passati erano spesso poste dagli Stati di tradizione Islamica ad interi trattati, i quali sarebbero entrati in vigore solo in quanto non contrastanti con la Sharia.Altro tipo di riserva è la c.d. riserva ad effetto bilaterale: per la loro formulazione nei confronti di una parte, può essere fatta valere, negli stessi termini, dall’altra parte verso la prima (esempio: caso dell’ambasciata libica a Londra, con apertura di diplomatic pouch, protetti da convenzione del 1961, all’aeroporto per cercare arma).

I trattati internazionali, e in ciò emerge l’ispirazione del diritto internazionale a quello civile, possono essere invalidati in specifiche circostanze: sono queste le cause di invalidità; esse si differenziano, soltanto in maniera implicita (art.45 CdV) in cause di nullità assoluta o cause di annullabilità.Della CdV gli articoli dal 46 al 50 contengono le cause di invalidità sanabile (annullabilità) ma non possono essere invocati se lo Stato, esplicitamente o con comportamenti acquiescenti, abbia inteso dare comunque valida esecuzione al trattato (da 47 a 50 hanno oggi scarsissima applicazione); gli articoli dal 51 al 53 contengono invece le cause di invalidità insanabile (casi in cui il trattato sia concluso con violenza o in violazione dello ius cogens): è la nullità.

ART.46: riguarda la violazione di norme di diritto interno da parte dello Stato stesso relativamente alla competenza a concludere il trattato. La formulazione della disposizione è negativa: lo Stato non può invocare la violazione di suddette norme, a meno che:

La norma violata non sia fondamentale (ad esempio di rango costituzionale) La violazione non fosse manifesta alla controparte nel momento della stipula.

L’onere della prova è particolarmente gravoso, dato che l’articolo va letto in combinato disposto con l’art.27 e che la stessa giurisprudenza interpreta queste possibilità restrittivamente, specie in due note sentenze arbitrali.Contenzioso Guinea Bissau-Senegal: del 1989, riguardo alla delimitazione degli spazi marittimi tra i due Paesi ai fini dello sfruttamento delle risorse ittiche.La Guinea Bissau contestava dagli anni ‘80 la validità di un accordo concluso nel 1960 dalle allora potenze coloniali di Portogallo e Francia: in virtù del principio di successione automatica nei trattati, entrambi i due Paesi erano vincolati.La Costituzione portoghese, in vigore negli anni ’60, prevedeva che per gli accordi internazionali territoriali fosse necessaria la ratifica da parte del Parlamento, ma il trattato stesso, per la vigenza del regime salazarista, fu concluso con una procedura semplificata; il tribunale arbitrale non accolse la richiesta di annullamento promossa dalla Guinea Bissau per violazione di norme costituzionali perché:

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Il trattato forse violava una norma costituzionale, ma solo formale: quella da considerare, ai fini della violazione, è la Costituzione materiale (prassi costituzionale del momento) ed essendo in periodo di dittatura, essa non era violata.

Proprio in virtù della Costituzione materiale, la Francia si era affidata in buona fede nella conclusione del trattato: la violazione infatti non poteva essere manifesta.

Contenzioso Italia-Costa Rica: del 1998, riguardo un prestito finanziario conseguente alla stipula, negli anni ’80, di accordi quadro di cooperazione internazionale; Italia e Costa Rica avevano concluso un protocollo esecutivo (per la realizzazione di strutture portuali in Costa Rica) e una convenzione finanziaria, legata al protocollo, che prevedeva modi e termini di pagamento e restituzione.Erogato il prestito, il progetto non viene concluso; il Costa Rica non restituisce il prestito e pretende di giustificarsi così:

Il protocollo e la convenzione sono invalidi perché conclusi in violazione di norme costituzionali del Costa Rica, in quanto se un trattato impone oneri finanziari (e tale era ritenuta la “restituzione”) deve essere ratificato dal Parlamento.

Il tribunale arbitrale afferma che: La violazione non è manifesta, in quanto protocollo e convenzione sono accordi specificativi di accordi

quadro e l’Italia certo non poteva aspettarsi, agendo in buona fede, che il Costa Rica li avesse conclusi in violazione di norme costituzionali.

Il trattato non prevede oneri finanziari, poiché la restituzione avviene ad un tasso di interesse talmente basso da essere irrisorio.

ART.47: anche questo articolo ha formulazione negativa e riguarda l’eventuale limitazione dei poteri del rappresentante di uni Stato da parte dello Stato stesso. Se il rappresentante “ senza pieni poteri” conclude comunque un trattato, lo Stato in causa non può invocarne l’invalidità a meno che la restrizione dei poteri non fosse stata espressa prima della manifestazione del consenso e non fosse al contempo stata notificata all’altro Stato parte.

ART.48: l’errore può costituire causa di annullabilità se si tratta di una errata rappresentazione della realtà che ha costituito la base essenziale per la conclusione del trattato: esempio di ciò sono casi di prassi molto datati sulla delimitazione territoriale in base a carte topografiche imprecise.L’errore non può essere causato dallo stesso Stato che invoca la nullità del trattato (estoppel) e non può riguardare la forma redazionale del testo.

ART.49: l’articolo ha formulazione positiva: se uno Stato conclude un trattato, manifestando il consenso a seguito della condotta fraudolenta di un altro Stato parte, può invocare tale dolo come suscettibile di viziare il suo consenso.

ART.50: la diretta corruzione del rappresentante di uno Stato, direttamente o indirettamente esercitata da un altro Paese partecipante al negoziato, può essere invocata come causa di invalidità in quanto viziante il consenso che è stato manifestato.

ART.51: la violenza esercitata sul rappresentante dello Stato (coercizione fisica, costrizione su chi manifesta il consenso) rende nullo il trattato.Caso scolastico è quello del Presidente della Repubblica Cecoslovacca: prelevato dalle forze speciali del III Reich dal suo palazzo, fu trasportato a Berlino, al ministero degli affari esteri; fu recluso e costretto a firmare un accordo di capitolazione.

ART.52: la violenza esercitata nei confronti dello Stato complessivamente inteso rende nullo il trattato eventualmente concluso sotto tale violenza: è il caso della coercizione militare→minaccia o uso della forza in violazione dei principi di diritto internazionale contenuti nella Carta ONU.È necessario sia presente un “nesso di causalità” tra la violenza e la conclusione del trattato; non sono previste le ipotesi di coercizione politica ed economica come l’embargo, genericamente condannate con una risoluzione (atto di soft law). I principi ONU della cui violazione si tratta, sono quelli della Carta, sia consuetudinari che pattizi, ed è della violazione che si tratta: se questi principi non sono violati dall’uso della forza, quest’ultimo è da ritenersi legittimo (autorizzato dal Consiglio di Sicurezza ONU o come legittima difesa).Caso Usa-giunta militare di Haiti: nel 1994 fu concluso un accordo che prevedeva il ritorno ad Haiti del Governo legittimamente eletto, con possibilità autorizzata di bombardare Haiti se la giunta si fosse rifiutata.Caso Usa-Iraq: durante la guerra del Golfo del 1991 si previde una serie di disarmi obbligatori, pena le bombe…

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ART.53: la violazione di una norma imperativa/di ius cogens, posta a tutela dei valori fondamentali, rende nullo il trattato. È però contenuta in questo articolo una “definizione circolare” di ius cogens, senza esempi e tautologica nel parlare di principi inderogabili. I tribunali internazionali generalmente ritengono di ius cogens le norme di divieto di aggressione armata, genocidio, tortura, norme di diritto internazionale umanitario, norme di distinzione tra obiettivi militari/civili, principio di autodeterminazione dei popoli.La prassi di ricorso a tale articolo è esigua (forse è un bene, è deterrente), ma ci sono dei casi ad hoc:Accordo tra Spagna, Mauritania e Marocco: nel 1976 conclusero, segretamente e in violazione dello ius cogens, un trattato per la spartizione del Sahara Occidentale.La Spagna, potenza coloniale fino al 1975, avrebbe ottenuto concessioni per lo sfruttamento dei fosfati nel sottosuolo; 2/3 del territorio sarebbero stati annessi al Marocco e 1/3 alla Mauritania: ciò è palesemente in contrasto col principio di autodeterminazione dei popoli. Di questo accordo si è venuti a conoscenza per vicende riguardanti i tre Stati: sarebbe dovuto rimanere segreto.Caso delle consegne forzate: successivamente all’11/9 l’Unione Europea ha fatto da tramite, tra Usa e Stati terzi, nella consegna di persone sospettate di essere membri di Al Qaeda: costoro, arrestati in UE, venivano trasferiti in prigioni di stati terzi e interrogati e torturati su indicazione Usa: è la c.d. esternalizzazione della tortura. Emerse queste prassi, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha creato una commissione d’inchiesta, la quale ha riscontrato come queste prassi fossero regolate anche da accordi internazionali (dei quali non si ha evidenza empirica).

Spesso i trattati prevedono dei termini finali o delle condizioni risolutive che ne determinano l’estinzione; altri possono anche contenere disposizioni disciplinanti il diritto di recesso: ma se questo non venisse disciplinato? Sarebbe lecito qualsiasi comportamento?Per anni Stati e anche alcuni giuristi sostenevano la risposta affermativa a questa domanda, ma la CdV sposa la tesi negativa: art.56 CdV dispone che, come regola generale, non si possa recedere con leggerezza, a meno che si manifestino due eccezioni:

Diritto di recesso implicito: se le parti intendevano prevedere un diritto di recesso, non desumibile dal testo dell’atto ma dall’intendimento negoziale (andranno quindi esaminati i travail preparatoire). Intendevano=al tempo passato.

Diritto di recesso deducibile dalla natura stessa del trattato, dal suo oggetto o dal suo scopo.In questi casi, il diritto di recesso non è comunque automatico, valendo la regola generale, ma va esercitato.

Con la CdV sono codificate anche delle cause, di origine consuetudinaria, di sospensione (temporanea o parziale) o estinzione (definitiva e totale) dei trattati internazionali.

ART.60: codificazione del brocardo inadimplendi non est adimplendum, l’articolo presenta una disciplina complessa e articolata per la c.d. violazione sostanziale del trattato (§3), definita come:

Un rifiuto del trattato non autorizzato dalla CdV stessa: in combinato disposto con art.56, è violazione del trattato stesso o delle norme di ius cogens.

La violazione di una disposizione essenziale al perseguimento dello scopo o dell’oggetto del trattato.Se si hanno di queste violazioni, è possibile per la controparte richiedere la sospensione/estinzione del trattato. Se il trattato è bilaterale, la parte che subisce la violazione sostanziale può solo dichiarare la sospensione, totale o parziale del trattato, ma senza ulteriori limiti.Se il trattato in questione è multilaterale, l’art.60 prevede la necessità dell’unanimità di tutte le altre parti per poter dichiarare sospensione/estinzione in capo a: una parte particolarmente danneggiata dalla violazione; qualsiasi altra parte del trattato se la violazione ha modificato radicalmente le posizioni delle parti rispetto al trasgressore (specialmente in materia di disarmo o tutela ambientale). Vd §2.b e c .Spesso la nozione di “violazione sostanziale” è stata criticata perché, nel suo tenore letterale, la qualificazione di “sostanziale”è effettuata con esclusivo riferimento al conseguimento dello scopo e dell’oggetto del trattato, non anche considerando la gravità della suddetta violazione; per poter far valere tale diritto in rapporto a norme consuetudinarie, se fosse possibile, sarebbe richiesta tale gradualità.L’art.60 impedisce di invocare la violazione di un trattato sui diritti umani come causa di estinzione dello stesso (palese…).

ART.61: un’altra causa tipica di estinzione del trattato è l’impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione; questa deve risultare dalla sparizione/distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del trattato: si prevede la possibilità di richiedere l’estinzione o anche solo la sospensione temporanea o parziale.

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Generalmente con questo articolo ci si riferisce ad accordi sullo sfruttamento di risorse naturali e, generalmente, tale articolo non opera se la distruzione o la sparizione consegue ad un comportamento volontario dello Stato che invoca l’estinzione (estoppel).

ART.62: richiama il genus di cui fa parte, come species, l’art.61: il “mutamento fondamentale delle circostanze”; si intende, in maniera restrittiva. Oggi è generalmente vietato richiamarlo a causa dell’uso che ne fu fatto durante gli anni ’20 e ’30 dai tedeschi per sottrarsi agli obblighi di Versailles: non può essere invocato, a meno che:

L’esistenza di tali circostanze avesse costituito il motivo essenziale della manifestazione di volontà ad essere vincolati.

L’effetto del mutamento di circostanze sia quello di cambiare radicalmente la portata degli obblighi a cui lo Stato deve adempiere.

Come struttura, va ricollegato all’art.46, ma in aggiunta va coniugato col principio dell’estoppel e all’impossibilità di essere invocato per annullare trattati che limitino confini territoriali; l’ultima sentenza arbitrale che accoglie questo principio è del 1933.

Caso Gabcikovo-Nagymaroš: sentenza della CIG del 1997. Cecoslovacchia e Ungheria avevano stipulato un trattato bilaterale, nel 1977, nell’ambito di un’economia socialista, per costruire una serie di dighe sul Danubio per sfruttarne l’energia idroelettrica, irrigare i campi, controllare le inondazioni ecc…: tali dighe sarebbero dovute essere realizzate prima dall’Ungheria e poi dalla Cecoslovacchia. Nel 1989 l’Ungheria denunciò il trattato per impossibilità sopravvenuta (questioni finanziarie) e per mutamento fondamentale delle circostanze (fine dell’epoca socialista, sviluppo ingegneristico e interesse per la tutela ambientale); nel 1993 la Cecoslovacchia si scioglie e la Slovacchia succede nella controversia, deferita alla CIG.

Secondo la Corte il mutamento fondamentale delle circostanze non è invocabile come art.62 (il trattato è precedente!), ma come diritto consuetudinario: era dunque la base essenziale ad essere cambiata? No. Era cambiata la portata degli obblighi? No.

Per quanto riguarda l’impossibilità sopravvenuta, certo il Danubio non si era seccato, ma secondo l’Ungheria era la disciplina giuridica del trattato ad essere sparita (artificioso…). La Corte rifiuta anche l’argomento dell’impossibilità finanziaria facendo riferimento ai lavori preparatori alla CdV della Commissione di diritto internazionale.

La Corte afferma anche che se il trattato al 1997 è impossibile, è perché nel tempo l’Ungheria ha commesso violazioni e si è rifiutata di adeguare man mano il trattato alle mutate circostanze, come prevedevano le clausole.

ART.63: rottura delle relazioni diplomatiche (politica estera) e consolari (mansioni amministrative). Nel diritto internazionale classico questa condizione prevedeva l’estinzione diretta di praticamente ogni accordo bilaterale, mentre nel XX secolo le cose sono un po’ cambiate: la rottura delle relazioni diplomatiche o consolari non può costituire causa di nullità del trattato a meno che l’esistenza delle relazioni fosse funzionale alla realizzazione del trattato. Ad esempio la CdV non può essere estinta per rottura delle relazioni.ART.73: si menziona lo “scoppio delle ostilità” come clausola di non pregiudizio (che non equivale a disciplinare la materia). Se nel diritto classico allo scoppio delle ostilità i trattati si estinguevano o venivano sospesi, con la CdV la materia non viene regolata: nulla viene stabilito in proposito se non che la CdV vale anche in caso di scoppio delle ostilità.

ATTI DI SOFT LAW DA STUDIARE SUL MANUALE →fine del sistema di fonti.

GLI ATTI UNILATERALICostituiscono un atro gruppo di regole dell’ordinamento internazionale, non citate tra le fonti dall’art.38 ma valide come fonti di obblighi internazionali.La disciplina, messa per iscritto dalla Commissione di diritto internazionale nel 2006, è molto generale, fondata su una prassi diversificata e comprendente varie forme non classificate (es. la riserva ad un trattato, una dichiarazione interpretativa, il riconoscimento di una situazione giuridica, la dichiarazione unilaterale di accettazione di un'altra giurisdizione, una promessa…).In sé e per sé, l’atto unilaterale è fonte di obblighi per lo Stato autore, ma ciò non esclude che possa essere fonte di obblighi anche per altri Stati laddove vi sia accettazione implicita o esplicita. L’atto unilaterale deve presentare, per essere tale, due caratteristiche ben precise:

La dichiarazione deve essere pubblicamente resa. La dichiarazione deve manifestare la volontà ad essere vincolati

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Il carattere vincolante della “legal obligation” che si viene a creare è fondato sulla buona fede; su di essa si fonda anche il principio dell’affidamento su atti unilaterali altrui. Gli Stati interessati agli obblighi, per la buona fede e l’affidamento, sono legittimati a pretendere il rispetto delle obbligazioni.Gli atti unilaterali possono rivestire poi sia la forma orale che quella scritta; possono altresì essere destinati alla comunità internazionale, ai singoli Stati o più, ad altri soggetti dell’ordinamento.Il valore vincolante degli atti unilaterali è stato sancito dalla sentenza della CIG del 1974 sul caso Australia-Nuova Zelanda sugli esperimenti nucleari nel Pacifico: la Francia, dopo aver a lungo eseguito test nucleari nelle sue colonie del Pacifico viene condannata a smettere a causa di danni agli ecosistemi marini di Australia e Nuova Zelanda; la Francia non smette nell’immediato e i due Paesi ricorrono alla Corte. La Corte, tenendo conto di una dichiarazione espressa da ministro degli esteri francese in conferenza stampa riguardo all’impegno francese alla cessazione dei test, respinge le richieste di Australia e Nuova Zelanda di condanna verso la Francia, sostenendo che non vi sia più controversia, dal momento che la stessa si era già obbligata. La dichiarazione del ministro è valutato come atto unilaterale e può fondare un inadempimento francese.Grande importanza degli atti unilaterali emerge anche nel caso Italia-India sull’arresto di due fucilieri di marina. →due militari in servizio, presunti uccisori di due pescatori indiani. L’Italia ritiene che le autorità indiane non abbiano giurisdizione sul caso, avvenuto in acque internazionali e nel contesto di una missione internazionale di contrasto alla pirateria; le autorità indiane si ritengono competenti perché i morti sono indiani (legittimità passiva).Il caso è stato portato davanti alla Corte Suprema Indiana, la quale ha sentenziato nel Gennaio 2013 che le autorità del Kerala non hanno titolo per giudicare, né sulla base del diritto internazionale, né su quello interno; tuttavia la CS deferisce la questione ad un tribunale speciale creato ad hoc (contrario a Cost. It).12/2012: concessione del permesso natalizio con promessa di rientro.02/2013: concessione del permesso elettorale, con promessa effettuata attraverso l’istituto dell’”affidavit” (promessa in buona fede) dall’ambasciatore italiano in India.03/2013: l’Italia informa le autorità indiane con una nota diplomatica che, in conseguenza della sentenza della CS e dell’intransigenza indiana sulla possibilità di dirimere la questione a livello internazionale, i due marò non torneranno in India. →contrasti all’interno del Governo=i due marò sono fatti rientrare.

L’affidavit era un’ipotesi di atto giuridico unilaterale? Si, perché l’ambasciatore è plenipotenziario, l’impegno nel documento era chiaramente manifestato e il documento era pubblico.

L’Italia poteva venire meno all’affidavit? Secondo Tanzi sì, secondo Milano no: bisogna considerare la disciplina relativa alla revoca degli atti unilaterali (§10 dei principi guida della Commissione di diritto internazionale), la cui revoca unilaterale è vietata.

L’atto unilaterale è revocato arbitrariamente? Bisogna guardare se l’atto contiene: Any specific terms of the declaration relating to revocation (è disciplinata la revoca? Non nell’affidavit). The extent to which those of whom the obligations are owed have relied on such obligations (In che misura I

destinatari hanno fatto affidamento sull’atto? Molto, nell’affidavit). The extent to which there has been a fundamental change in the circumstances (CdV art.62)

Secondo Tanzi, l’elemento testuale dell’affidavit conteneva un’autolimitazione dei poteri dell’ambasciatore, da parte dell’ordinamento, in nome della difesa dei propri cittadini: l’ambasciatore opera nell’ambito dei suoi poteri Costituzionali e questi vengono limitati, ad esempio, nel caso di giudizi da parte di tribunali non precostituiti o nel caso di estradizione verso Paesi che prevedono la pena di morte; proprio queste erano le limitazioni implicite presenti secondo Tanzi.Secondo Milano ciò detto sopra potrebbe anche essere vero, ma siccome l’atto unilaterale si fonda sulla buona fede e questa è sempre bilaterale, è sempre affidamento, deve anche esser intesa come “conoscibilità”. La formulazione nell’affidavit “within his constitutional power” era nelle intenzioni una forma di dimostrazione all’India della legittimità ad agire dell’ambasciatore e certo i giudici indiani non potevano conoscere questa possibile, astrusa e partigiana interpretazione delle parole.Tanzi ravvisa anche un mutamento fondamentale delle circostanze: la nota diplomatica con cui l’India preclude ogni possibile soluzione internazionale della faccenda. Tuttavia l’intransigenza indiana sulla giurisdizione si è sempre manifestata, fin dall’inizio; è al contempo rimasta la volontà di dialogare per la soluzione.Secondo Milano l’Italia poteva giustificare la propria revoca, con alcuni requisiti procedurali, basandosi sull’istituto della CONTROMISURA: previa notifica, si può rispondere alla violazione del proprio diritto da parte di uno Stato con analoga violazione.Alla nota diplomatica italiana, poi, l’autorità indiana dichiara l’ambasciatore persona non grata, ma in più (ed è grave violazione della CdV 1971) lo condanna agli arresti domiciliari.

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RAPPORTO TRA LE FONTI DELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALELe fonti sono tutte di pari grado, eccezion fatta per i principi di ius cogens, che sono superiori: vanno quindi impiegati i criteri della lex specialis e lex posterior.L’art.30 CdV 1969 sull’applicazione di trattati successivi che regolano la stessa materia dispone alcune norme:§1: clausola di prevalenza per l’art.103 Carta ONU che, sola, fa eccezione al resto dell’articolo 30.§2: un trattato può prevedere un rapporto subordinato rispetto ad un altro; è clausola di subordinazione (es. TFUE rispetto al GATT).§3: si ha mera applicazione della lex posterior quando TUTTE le parti al primo trattato sono anche parti al secondo; ci deve esere coincidenza.§4: se non vi è coincidenza, tra chi è parte a entrambi vale la lex posterior; tra chi è parte a entrambi e chi solo a uno vale il trattato a cui entrambi sono parte.§5: il §4 si applica solo fatto salvo l’art.41 CdV e senza pregiudicare le conseguenze dell’art.60 CdV o qualsiasi altra questione di responsabilità derivante da altri trattati sulla stessa materia.

Esempio: A e B si obbligano verso C; successivamente A e B si obbligano verso D ma in conflitto con gli obblighi assunti verso C →bisogna scegliere quale dei due trattati infrangere e quale rispettare, come nel caso degli accordi bilaterali che molti Stati hanno concluso con gli Usa a seguito della loro adesione alla CPI.

Tra consuetudini e convenzioni, di norma vale la lex specialis, ma se i casi sono palesi la consuetudine stessa può derogare alla convenzione (caso della zona economica esclusiva e della codificazione di Montego Bay). Nel tempo, tra le consuetudini, si applicano entrambi i principi, ma a patto di una prassi generale e diffusa, che non si modifica dall’oggi al domani ma si succede attraverso una fase di vuoto giuridico conseguente all’adozione sempre più vasta di deroghe alla regola generale.

ATTUAZIONE, APPLICAZIONE E ACCERTAMENTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALESi tratta di un fenomeno variegato e complesso, nel quale bisogna fare distinzione tra il piano attutivo interno (del diritto dei singoli Stati, in cui destinatari ultimi delle norme sono anche gli organi interni dello Stato) e quello internazionale (tra Stati e con organizzazioni internazionali, in cui lo stato rileva nella sua interezza: in questo fenomeno sono coinvolti tutti i soggetti dell’ordinamento.La discrepanza tra i due livelli è messa in luce dalla norma di cui all’art.4 “disciplina sul comportamento internazionale degli Stati”, in cui, col pretesto di attribuire la responsabilità del fatto illecito, si afferma che lo Stato è responsabile sul piano internazionale per la violazione del diritto internazionale quando la condotta (omissiva o commissiva) sia posta in essere da un suo organo o agente, indipendentemente dalla posizione dello stesso nel sistema giuridico.→lo Stato rileva nel suo complesso.Con l’art.27 CdV 1969 si stabilisce un altro principio cardine: la primazia del diritto internazionale su quello interno; uno Stato non può quindi invocare una propria norma interna per sottrarsi ad obblighi vincolanti del diritto internazionale.Ultima premessa chiave da considerare è l’assenza nel diritto internazionale della cd. Giurisdizione obbligatoria, ossia l’assenza del giudice precostituito per legge: ciò mette in risalto l’importanza dell’”auto accertamento” e dell’”auto interpretazione” delle norme →in questa luce, il diritto internazionale diventerebbe “diritto interno stragiudiziale” con cui risolvere controversie.

ATTUAZIONE SUL PIANO INTERNOavviene mediante cd. adattamento, pratica che assume “il punto di vita del diritto internazionale”: rendendo quello interno compatibile con quello internazionale e varia da Stato a Stato; altro metodo è quello dell’attuazione, tipico degli ordinamenti fortemente dualistici: questa seconda modalità va oltre il semplice adattamento.

ATTUAZIONE DEI TRATTATI INTERNAZIONALI (ord.it): è, concettualmente, attuazione del diritto internazionale pattizio da parte di organismi legislativi: varia nella procedura a seconda che il trattato sia concluso in forma semplificata o solenne (con ratifica).

I trattati in forma semplificata sono spesso strumenti tecnici, con norme self executing, che non necessitano di essere recepiti: il legislatore ha previsto nel 1984 con un testo unico, di inserire nella G.U. una sezione per i trattati internazionali, oltreché una raccolta trimestrale e un allegato annuale che riporti anche le riserve →queste sono semplici forme di pubblicità-notizia per gli accordi in forma semplificata.

I trattati conclusi in forma solenne si attuano secondo la norma di cui agli artt.80 e 87 Cost. in combinato disposto e solitamente sono di 5 tipologie (art.80 Cost):

o Accordi di natura politica, come il trattato di Lisbona.

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o Accordi che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari internazionali (classiche controversie).o Accordi che comportino variazioni territoriali, come l’accordo di Osimo.o Accordi che comportino oneri per le finanze statali, come l’accordo di amicizia e partenariato tra

Italia e Libia.o Accordi che prevedano l’espressa modificazione di leggi.

L’attuazione dei trattati ratificati può avvenire secondo due modalità: Operare attraverso un “ordine di esecuzione”, ossia una legge di rinvio del legislatore alla normativa

internazionale: si dà così piena esecuzione al trattato, senza tradurre le disposizioni per l’ordinamento interno; si ha autorizzazione alla ratifica. L’ordine di esecuzione è sottoposto ad una condizione sospensiva, perché la ratifica è successiva. Nella prassi si hanno pochi e controversi casi di applicazione “precoce” del trattato (prima della ratifica ma dopo l’ordine). →sarebbe una modalità da riservarsi a trattati con norme self executing.

Compiere un’opera di “traduzione” della normativa internazionale nell’ordinamento a vantaggio dei propri operatori, con una disciplina organica: non si tratta di un semplice rinvio, ma il trattato viene rescritto e reso applicabile. →questo secondo procedimento, ordinario, dovrebbe essere impiegato nei casi in cui le norme del trattato non siano di natura self executing, ma di natura programmatica, di indirizzo, non immediatamente costitutive di obblighi o diritti; tale procedimento è ideale per convenzioni che introducano nuove fattispecie di reato o rinuncino a criminalizzare certe condotte. Convenzioni del 1969 e 1971 sui crimini internazionali e transnazionali dell’aviazione civile, che prevedevano solo pene “severe”, non sufficientemente specificate: si ebbe intervento successivo di integrazione del legislatore nel 1976, che previde le pene.Convenzione del 1984 sulla tortura, ad oggi non applicabile dalla magistratura italiana perché recepita con procedura semplificata/automatica, senza integrare né il CP né il CPP e lasciando quindi lacune nell’ordinamento (vedi condanne del G8 di Genova).

Nella legge di ratifica si trova, per i casi di cui all’art.80 Cost., la delega a ratificare al Presidente della Repubblica.

È bene mettere in luce la differenza tra norme self executing e non self executing, come individuata dalla sentenza della C.Cass. (p.239 del manuale). Le norme self executing sono intrinsecamente fornite della capacità di trovare automaticamente ingresso nell’ordinamento interno.L’Italia, spesso con superficialità, adatta i trattati con procedimento automatico, mentre i common lawyer, nei pochi trattati che ratificano, prevedono sempre l’adattamento ad opera del legislatore.

Rango normativo dei trattati nell’ordinamento nazionale: fatta eccezione per quelli coperti dall’art.11 Cost. (che consentono alle limitazioni di sovranità in favore di un governo sovranazionale –UE, ONU-) e per il diritto internazionale consuetudinario (art.10 Cost.), prima della legge costituzionale del 2001 non vi era alcuna previsione normativa e, a logica, i trattati avevano lo stesso rango normativo dell’atto con cui erano recepiti: i contrasti leggi-trattati fioccavano e i giudici, applicando i criteri per risolvere le controversie tra norme di pari grado (lex posterior e lex specialis) tendevano ad interpretare le leggi successive ai trattati (preminenza di questi) come non incompatibili con la disciplina del trattato.Con la l.cost. 2001 “sul federalismo”, si modifica l’art.117 Cost. affinché “il potere legislativo sia esercitato dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti da obblighi di diritto internazionale”→leggere: trattati.Il problema successivo, postosi con la legge “La Loggia”, di attuazione della riforma del 2001 nel 2003, è stato quello della necessità di includere i soli trattati ratificati e recepiti o anche quelli conclusi in forma semplificata: secondo la C.Cost. vanno inclusi tutti i trattati.L’art.117 dunque: pone vincoli alla potestà legislativa, è collocato nella parte seconda della Costituzione e regola il riparto delle competenze →è singolare aver posto una norma sulla gerarchia delle fonti in una parte modificabile della Costituzione.La situazione è stata chiarita con le “sentenze gemelle” a riguardo della compatibilità di una norma italiana del ’92 sugli espropri e sull’occupazione acquisitiva (con riferimento all’indennità espropriativa) con al carta CEDU: l’Italia indennizzava semplicemente, la CEDU prevedeva risarcimento ai prezzi di mercato. Le parti ricorsero in appello e in seguito si pronunciò anche la Corte Costituzionale, affermando che a seguito della riforma del 2001 la situazione normativa era cambiata. Il fondamento di tale cambiamento non era però il trattato CEDU, ma il nuovo articolo 117: le norme del ’92 furono quindi dichiarate invalide ed eliminate, ma non sulla base della CEDU, bensì dell’art.117. →si fonda, su questo articolo, il cd. RINVIO MOBILE della normativa nazionale ad una FONTE INTERPOSTA: da questo rinvio i trattati internazionali traggono ogni volta validità e ogni volta la Corte Costituzionale si riserva di poter valutare la compatibilità di ogni trattato con la Costituzione. I trattati non sono parificati alla Costituzione.

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CEDU non ha copertura dell’art.11 Cost. se il giudice di merito ha un caso di contrasto tra trattato e legge successiva DEVE effettuare rinvio alla Corte, perché la questione è di costituzionalità.

Un altro fondamentale aspetto del rapporto col diritto internazionale è dato dall’art.10 Cost., che contiene la cd. “clausola di adattamento automatico” alle norme di diritto internazionale consuetudinario: queste vengono applicate direttamente e, nei casi in cui siano troppo generiche, il Parlamento o il giudice (in fase di applicazione) le integrano, ampliano o restringono.

ATTUAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DA PARTE DI ORGANI ESECUTIVI: (enti locali, organi amministrativi o giudiziari) avviene nei casi in cui suddetti organismi siano destinatati ultimi degli obblighi del diritto internazionale: affari esteri, controlli di dogana, polizia penitenziaria… Il discorso si fa diverso per le cd. Imprese di Stato (partecipate statali), che operano comunque nel campo del diritto privato e non rilevano come organi dello Stato, A MENO CHE non siano autorizzate ad esercitare potestà d’imperio (regolamentare un mercato…): in questi casi anche l’impresa può essere destinataria di obblighi di diritto internazionale.Per quanto riguarda l’applicazione del diritto internazionale da parte delle articolazioni territoriali dello Stato, si hanno 2+1 casi di prassi (manuale):causa La Grand: tra Usa e Germania, davanti alla CIG. Due fratelli tedeschi commettono rapina a mano armata con omicidio negli anni ’80; arresto, processo e condanna a morte da parte di un tribunale dell’Arizona. Karl è giustiziato, Walter è salvato dalla presentazione di un ricorso della Germania per violazione Usa CdV sulle relazioni consolari; Germania chiede a CIG di intimare a Usa sospensione della condanna. Lo Statuto della CIG prevede la possibilità di richiedere un provvedimento di urgenza e questo viene emanato in circa 24 ore: in tale provvedimento si individua bene il destinatario materiale dell’atto, ossia il Governatore dell’Arizona, che deve sottostare agli obblighi internazionali assunti globalmente dagli Usa.Causa Messico-Metalclad: davanti a un tribunale arbitrale e nell’ambito del NAFTA. Metalclad aveva avuto autorizzazioni per fare discarica nel 1995 nel Comune di Guadalcázar; proteste per impedire costruzione e, nel 1996 ordinanza del Comune che dichiara chiusura del sito →si avvia ricorso tra Comune e Stato centrale, perso dal Comune. Nel 1997 si ha ricorso dello stato federato di Saint Louis Potosi, il quale dichiara l’area ”protetta” per motivi naturalistici. Metalclad attiva procedura arbitrale ai sensi del NAFTA e la sentenza le dà ragione: il diritto interno non giustifica inottemperanze al diritto internazionale.Caso El.Si.: elettronica sicula, davanti alla CIG con gli Usa per violazione di un accordo bilaterale sul libero commercio “per atti posti in essere dal Comune di Palermo”, che aveva emesso un ordinanza di requisizione dei beni dell’El.Si., sottraendoli agli Usa. CIG non accoglie le pretese ma conferma che gli atti di amministrazione possono rilevare anche sul piano del diritto internazionale e possono creare responsabilità internazionale.

Le articolazioni territoriali nel diritto internazionale: per quanto riguarda l’Italia, si vedano art.117 c.1 e 3; le regioni attuano ed eseguono gli accordi internazionali e dell’UE sempre nel rispetto della legge e del “potere sostitutivo” dello Stato: questo è previsto dall’art.120 Cost. per evitare conflitti sull’esercizio di poteri.La legge La Loggia specifica il comma 5 dell’art.117: le regioni e le province autonome danno automatica esecuzione agli accordi internazionali ratificati nelle materie di propria competenza e previa comunicazione al ministero degli affari esteri e alla presidenza del consiglio dei ministri. Le regioni e le province autonome hanno quindi propria capacità legislativa e la ratio di tale disposizione sta nel dare maggior certezza giuridica alle autorità regionali.La Corte Costituzionale è intervenuta però, con due pronunce nel 2004 e 2010, smentendo l’interpretazione restrittiva del legislatore e confermando che la disciplina del comma 5 è da estendere anche a tutti gli accordi internazionali, anche conclusi con procedura semplificata; inoltre ministero egli affari esteri e presidenza del consiglio dei ministri possono formulare delle osservazioni sull’operato delle regioni e province autonome.Il potere sostitutivo viene esercitato dallo Stato in situazioni di emergenza , secondo le leggi, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione (l.131/2003). Dall’art.117 c.9 si evince anche che regioni e province autonome hanno il potere di concludere, nell’ambito delle proprie competenze, accordi con Stati e intese con enti territoriali esteri, nel rispetto delle norme statali (ius tractati); secondo l’art.6 l.La Loggia ci sono tre ambiti di applicazione di questa norma:

Accordi internazionali con Stati di attuazione o esecuzione di precedenti accordi intergovernativi. Accordi tecnico-amministrativi con altri Stati. Intese programmatiche (non self executing) con enti territoriali stranieri su cooperazione in ambito sociale,

economico e culturale.La legge La Loggia stabilisce inoltre altri punti fermi nell’attuazione degli accordi da parte delle regioni:

Essi non devono contrastare con le linee guida di politica estera del ministero degli affari esteri.

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Si deve rispettare la procedura di consultazione/approvazione/conferimento di pieni poteri da parte del ministero, anche per quanto riguarda le intese programmatiche.

Gli accordi di cooperazione con Stati sono condizionati da accordi quadro bilaterali , precedenti, conclusi a livello intergovernativo; con “nota” del ministro controfirmata dal Presidente della Repubblica.

I cd. accordi di cooperazione transfrontaliera, specie in ambito euroregionale, sono condizionati dalla previa entrata in vigore di accordi intergovernativi che ne definiscano regime e disciplina applicabile (prevista dalla legge di ratifica della Convenzione di Madrid del 1984 in sede di Consiglio d’Europa).

ATTUAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DA PARTE DI ORGANI GIUDIZIARI NAZIONALI: in Italia si ha un notevole grado di apertura alla normativa internazionale e spesso il giudice è chiamato ad attuare autonomamente e senza mediazione del legislatore le norme del diritto, se applicabili al caso di specie.I giudici nazionali interpretano anche le norme pattizie contenute nei trattati: se viene usato il procedimento automatico o semplificato di esecuzione, i criteri interpretativi da adottare sono quelli tipici del diritto internazionale (art,31 CdV 1969).Il giudice nazionale non può effettuare rinvio alla Corte Costituzionale per avere una interpretazione e, in alcune situazioni, i giudici nazionali svolgono funzione integrativa delle leggi nazionali attraverso l’uso di norme pattizie self executing. Il giudice nazionale deve inoltre porre rimedio agli illeciti compiuti dall’esecutivo o dall’amministrazione statale in violazione dei trattati (es: ricorso alla CEDU “previo esaurimento dei ricorsi interni”).Alcuni esempi di sentenze:

Richiesta di sequestro di una nave arrestata dalla capitaneria di porto di Palermo per traffico di stupefacenti in acque internazionali: secondo i ricorrenti non c’è una norma, nel diritto internazionale consuetudinario, che permetta questo; la Corte d’Appello accoglie la tesi dei ricorrenti sulla base della (non) applicazione diretta del diritto internazionale consuetudinario.

Accordo Usa-Italia sulla cooperazione in materia penale e di estradizione: la Corte Costituzionale ha rilevato che in materia di mera interpretazione il giudice nazionale non può ricorrere alla Corte, ma deve applicare strumenti adatti.

1989, C.Cassazione penale a sezioni unite: è ammissibile il ricorso in Cassazione contro un ordine di arresto emesso dal ministero ai fini dell’estradizione; ciò perché nel 1989 il CP non prevedeva tale possibilità, ma la stessa era consentita dalla CEDU, la quale ha natura self executing e carattere precettivo.

Rispetto ad alcune norme di diritto internazionale, poi, gli organi giudiziari sono i destinatari materiali del diritto, come nel caso delle norme sul giusto processo.

ATTUAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE A LIVELLO DI RELAZIONI INTERNAZIONALIL’ambito principale di attuazione è quello del contenzioso, che può verificarsi tra Stati, tra Stati e privati, tra organizzazioni internazionali e privati, tra privati e CPI nel diritto penale.Nelle controversie tra Stati, vale comunque il principio per cui, in quanto il sistema è orizzontale, il diritto internazionale non prevede alcuna giurisdizione obbligatoria: le sentenze sul contenzioso tra Stati prevedono effetto diretto in casi specifici e possono influire anche sui diritti soggettivi dei privati; i privati non hanno, in molti casi, accesso a tale livello di giurisdizione, ma lo sollecitano con la loro azione: es. materie di copyright, commercio internazionale, estrazioni petrolifere…

ACCERTAMENTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE TRA STATI E STATIUno dei principali metodi di soluzione delle controversie tra Stati è quello del ricorso ad un tribunale arbitrale: è questo lo strumento più tipico e datato, di largo uso nel secolo XIX , parzialmente decaduto nel XX con le corti permanenti di arbitrato e nuovamente ripreso nel XXI. L’arbitrato internazionale consiste nel deferire la controversia tra due Stati ad un tribunale arbitrale, il quale non è né permanente, né precostituito, ma creato ad hoc per trovare una soluzione di comune accordo.La procedura tipica (non unica) di nomina degli arbitri segue di regola alla decisione su quale diritto applicare (diritto convenzionale o tutto quello internazionale) e prevede la nomina di un arbitro per ogni parte (una sorta di difensore) e la nomina da parte dei due arbitri scelti di un terzo arbitro; sono rari i casi di tribunali monocratici o con 5 arbitri, ma sono sempre in numero dispari.Nel 1899 alla prima conferenza de L’Aja viene istituita la Corte Permanente di Arbitrato: questo non è un tribunale, ma una sede, un foro per dirimere le controversie e, nel corso degli anni, ha prodotto proprie regole procedurali impiegabili nell’arbitrato tra Stati. Dirimere le controversie presso la CPA ha il vantaggio di avere sempre a disposizione una serie di giuristi qualificati e accreditati e, inoltre, la CPA dispone di propria amministrazione (cancelleria, segreteria).

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I vantaggi dell’arbitrato internazionale sono molteplici: controllo sulla composizione del collegio arbitrale, tempi di soluzione mediamente più rapidi, controllo a vantaggio degli Stati del diritto applicabile.Il lodo con cui si conclude l’arbitrato è un giudicato definitivo, finale e vincolante, costitutivo di obblighi internazionali. Nell’ambito delle procedure arbitrali, è speciale quella riguardante il diritto del mare (art.287 UNCLOS).

Altra modalità di soluzione delle controversie è il ricorso presso la CIG, che è tribunale permanente e precostituito, principale organo giurisdizionale dell’ONU, con funzioni consultive e giurisdizionali. La Corte è composta da 15 giudici eletti dall’Assemblea Generale dell’ONU e dal Consiglio di Sicurezza (senza diritto di veto), secondo un criterio di ripartizione geografica: 5 per il “mondo occidentale”di cui sempre uno per Francia, Stati Uniti e Regno Unito, 2 per l’Europa orientale di cui uno per la Russia, 3 per l’Africa, 2 per l’America Latina, 3 per l’Asia di cui uno alla Cina. L’art.31 dello Statuto della Corte prevede la possibilità per gli Stati parti al contenzioso di richiedere la nomina di un giudice ad hoc (non necessariamente nazionale, ma nominato al momento), per i casi in cui uno Stato “si ritrovi” un giudice nazionale nel collegio dei 15.Come da regole, la CIG non ha in alcun caso giurisdizione obbligatoria e ogni sua pronuncia deve quindi conseguire ad un “titolo di giurisdizione” in base al quale essa giudica: nel diritto internazionale, questi titoli si fondano generalmente sul principio consensualistico, per cui gli Stati accettano di essere giudicati; abbiamo 4 modalità tipiche: Accordo ad hoc tra le parti, simile a quello per l’arbitrato; manca, rispetto a quest’ultimo, la possibilità di scegliere i giudici e il diritto applicabile. Anteriormente al sorgere della controversia, si può prevedere in un trattato una clausola giurisdizionale: tipicamente essa prevede il deferimento della questione in caso di controversie su applicazione, interpretazione, presunta violazione della normativa del trattato.Successivamente alla controversia, gli Stati possono stabilire un protocollo (che accompagna i trattati) che contiene delle specifiche clausole giurisdizionali. §2 art.36 Statuto CIG: prevede una modalità già riscontrata nel caso Nicaragua-Usa.È uno strumento del 1945 che mira a stabilire gradualmente una forma di giurisdizione obbligatoria della Corte; in fieri: ad oggi circa 70 Paesi vi sottostanno. Qualsiasi Stato può, in qualsiasi momento, sottoporre una dichiarazione unilaterale alla Corte, in cui accetta la sua giurisdizione per controversie che in futuro potranno sorgere con altri Stati che già hanno depositato tale dichiarazione →strumento che opera in condizione di reciprocità e produce effetti giuridici solo “in doppio”. Questo strumento è diverso da un accordo ad hoc successivo, e anche da una clausola giurisdizionale: è infatti una dichiarazione unilaterale; prevede in linea di principio accettazione generale della giurisdizione della Corte, ma con possibilità di limitarla a casi specifici (Nicaragua-Usa).Esempio: dichiarazione unilaterale del Regno Unito, ex art.36, del 1969 (p.311 manuale). È generale, ma con limitazioni di portata; vuole limitare gli effetti dell’abuso di diritto ed evitare controversie sulle ex colonie. Questa dichiarazione ha esplicato i suoi effetti nel 1999 nel caso delle operazioni NATO nella ex Jugoslavia, da marzo a giugno: il 24/4/99 la Jugoslavia deposita la sua dichiarazione unilaterale ex art.36 alla Corte e il 28/4/99 cita in giudizio alcuni dei paesi NATO: il Regno Unito se ne tira fuori grazie alle eccezioni contenute nella sua dichiarazione unilaterale →la Corte non ha titolo di giurisdizione. Ultima forma, residuale, è l’”accordo generale di arbitrato”: tipico della prima parte del XX secolo, prevedeva generalmente obblighi de contrahendo per cui le parti si impegnavano a sottoporre ad arbitrato, CIG, CPA eventuali controversie che fossero sorte in futuro. L’obbligo così assunto è programmatico, non di risultato: una sua violazione sarebbe mera contravvenzione ad un obbligo bilaterale, in sé non sanzionabile. In sé e per sé queste clausole non possono costituire titolo di giurisdizione, ma vanno specificate con un accordo ad hoc.

FASI TIPICHE DEL PROCESSO DAVANTI ALLA CIG NEL CONTENZIOSO TRA STATIQuando il ricorso è unilaterale, tipicamente il convenuto solleverà delle “eccezioni preliminari”, volte a contestare il titolo di giurisdizione della Corte, mentre il ricorrente potrà chiedere delle misure cautelari/di urgenza ex art.41 Statuto CIG, applicabili anche d’ufficio. Per le misure cautelari sono necessari certi presupposti: Urgenza: devono cioè essere necessarie per prevenire l’aggravarsi della controversia e pregiudizi o danni irreparabili per una delle parti. Vi deve essere il fumus boni iuris, ossia la convinzione che nella specifica situazione esiste un “buon diritto” in base a cui giudicare; nello specifico, riguarda il titolo giurisdizionale che la Corte è preliminarmente chiamata a verificare. Le misure cautelari devono poi essere necessarie per tutelare diritti che rientrano nell’ambito materiale di esercizio della giurisdizione da parte della Corte.

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esempio: possibile pregiudizio e diritti su cui la Corte può giudicare si riscontrano nel caso La Grand. Il titolo giustificativo era infatti il protocollo allegato alla CdV sulle relazioni consolari: la Germania lamentava violazione dell’art.36, ossia del diritto di uno Stato ad essere informato quando un proprio cittadino è arrestato e processato, così da potergli garantire assistenza legale; ma anche il diritto individuale del cittadino di poter conferire con le proprie autorità consolari. I diritti individuali e nazionali subiscono un pregiudizio; c’è il fumus boni iuris; i diritti rientrano nella giurisdizione della Corte.Le misure cautelari sono obbligatorie una volta prese.La fase giurisdizionale si conclude con una decisione vincolante sulla giurisdizione (Corte può giudicare o no) e ovviamente, non caratterista i casi in cui la controversia arrivi alla Corte tramite un accordo ad hoc (titolo insindacabile).Nell’esercizio giurisdizionale della Corte il principio consensualistico è fondamentale: caso Timor Est. La decisione riguardava la citazione in giudizio del Portogallo contro l’Australia: con l’Indonesia l’Australia aveva concluso un accordo bilaterale di sfruttamento delle risorse della piattaforma continentale prospiciente l’isola di Timor; Timor Est era colonia portoghese, invasa dall’Indonesia: tale invasione fu riconosciuta solo dall’Australia. La Corte nega la propria giurisdizione perché altrimenti avrebbe dovuto necessariamente giudicare del comportamento di uno Stato terzo alla controversia (l’invasione da parte dell’Indonesia) che mai aveva accettato la giurisdizione della Corte.

Dopo la fase di disamina giurisdizionale, la Corte analizza con memorie e udienze il merito della questione, accogliendo o rigettando le pretese con una sentenza; tale sentenza è obbligatoria per le parti e il suo dispositivo è riferibile solo alle parti nello specifico caso concreto, senza che vincoli parti terze e senza che diventi una fonte formale di diritto. Per l’esecuzione forzata, vedi art.94 Statuto CIG.

LA FUNZIONE CONSULTIVA DELLA CORTE: è residuale rispetto alla soluzione di controversie e presuppone una richiesta da parte degli organi politici ONU o delle agenzie specializzate. È utilizzata, questa funzione, da molti Stati per aggirare i vincoli in materia di giurisdizione contenziosa ma la richiesta deve comunque passare tramite un organo politico (esempio: l’Assemblea Generale richiede nel 2008 un parere alla CIG sulla conformità al diritto internazionale della dichiarazione di indipendenza del Kosovo; questo avviene su iniziativa della Serbia. Esempio: richiesta di parere sulla legittimità della costruzione del muro in Palestina da parte dei Paesi Arabi).Una differenza giuridica di non poco conto è la non vincolatività dei pareri rispetto alle sentenze: i primi infatti rimangono “statuizioni autorevoli”; un solo tipo di parere tuttavia è vincolante, quello ex art.8 Cov.gen.tra ONU e Stati membri sullo stabilimento delle sedi ONU: in caso di contenzioso può essere richiesto alla CIG un parere vincolante.Il sistema della Corte non prevede la possibilità del “sindacato giurisdizionale degli atti degli organi”, che invece è presente nel diritto europeo: il controllo di legittimità degli atti può essere solo incidentale rispetto a un contenzioso o ad un parere. Caso famoso di attribuzione /esercizio delle competenze tra Consiglio di Sicurezza e CIG è quello dell’attentato di Lockerby: frammenti di un aereo fatto esplodere in volo dai servizi segreti libici cadono su Lockerby nel 1988; viene avviato un contenzioso Usa-Regno Unito contro Libia in cui la Libia non nega il coinvolgimento di due suoi cittadini, ma nega che siano suoi agenti e invoca la Convenzione del 1971 sul contrasto al dirottamento aereo, secondo la quale la giurisdizione sarebbe stata in capo allo Stato territoriale che custodisce i criminali (che erano nel frattempo arrivati in Libia). Usa e Regno Unito chiedono l’estradizione dei due per processo-farsa; la Libia non accetta e chiede alla CIG misure cautelari per far cessare le pressanti richieste dei due Paesi. Usa e Regno Unito preparano quindi una bozza di risoluzione (748) con l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, che costituisce in capo alla Libia l’obbligo di estradizione immediata. La Libia chiede alla CIG di dichiarare l’illegittimità della risoluzione 748 perché in contrasto con la convenzione di Montevideo, ma la Corte emette un’ordinanza contro la Libia: la risoluzione è stata adottata correttamente dal punto di vista della procedura, l’hanno adottata organi politici che godono di presunzione di legalità (onere della prova in capo alla Libia) e quindi la risoluzione prevale sull’art.103 Convenzione di Montevideo →si mostra la totale assenza del sindacato giurisdizionale nel sistema, con la “deferenza” degli organi giurisdizionali a quelli politici.

Vi sono poi nel sistema del diritto internazionale altri tribunali e strumenti esecutivi.L’art.287 Conv.UNCLOS, la quale disciplina tutto l’uso dei mari e degli oceani, prevede una complessa procedura di soluzione delle controversie sull’interpretazione e applicazione della Convenzione stessa. Ad esempio, nel caso Marò, l’Italia avrebbe potuto ricorrere unilateralmente a questa procedura, poiché l’art.287 prevede la facoltà in capo a tutti gli Stati parti di dichiarare unilateralmente la scelta di uno o più strumenti/procedimenti giurisdizionali relativi alla soluzione della controversia; sono questi il tribunale ITLOS, la CIG, il tribunale arbitrale ai sensi dell’art.7 UNCLOS; in caso di mancato accordo tra le parti circa i primi due, si ricorrerà al tribunale.

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ITLOS è stabilito all’art.6 UNCLOS ed è diventato operativo solo nel 1994; ha sede ad Amburgo e ha giurisdizione esclusiva nelle materie relative all’UNCLOS, nella concessione di misure cautelari necessarie urgentemente e quando si sia “in pendenza della costituzione” di un tribunale arbitrale.

Se le parti sono Stati, è anche possibile che la controversia sorga per violazione di una cd. convenzione regionale (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, Convenzione Interamericana dei Diritti Umani, Convenzione Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli) e, nel caso, può riguardare solamente Stati parte alla Convenzione ed è una procedura, appunto, interstatale ed usata molto di rado. Accanto a questa si ha una procedura paragiurisdizionale molto più usata e prevista dall’intesa sulla soluzione delle controversie allegata al WTO nel 1994; è una disciplina self-contained che riguarda gli Stati e integra procedure giurisdizionali con meccanismi di natura politica. La procedura paragiurisdizionale opera attraverso un dispute settlement body (che rappresenta tutti gli Stati membri WTO; è un organo politico), con dei comitati di esperti riuniti ad hoc, e con un organo di appello (appellate body); i tre diversi organi devono interagire proficuamente.La controversia può essere sottoposta anche unilateralmente al DSB, che effettua un tentativo di mediazione/conciliazione tra le parti. Se la mediazione non va a buon fine, le parti possono chiedere la costituzione dei comitati di esperti, composti da tre membri che esaminano il contenzioso dal punto di vista giuridico e fattuale: sentite le parti, i comitati emanano delle raccomandazioni, rivolte al DSB. Solamente attraverso delibera dell’organo politico le raccomandazioni diventano costitutive di obblighi tra le parti.Sull’adozione delle delibere si manifesta il principio del consensus negativo, per il quale la delibera è automaticamente adottata dal DSB a meno che non la si voglia rigettare all’unanimità (chiaramente non è mai avvenuto). → La parte soccombente e insoddisfatta potrà fare appello al competente organo (permanente e non creato ad hoc), composto da sette membri: questo effettua un controllo di legittimità con cui può confermare le conclusioni, modificarle o rigettarle. Le decisioni dell’AB vengono fatte proprie da DSB secondo il principio del consensus negativo.Vi sono infine degli strumenti di natura diplomatica per risolvere le controversie tra Stati: sono questi strumenti politici non limitati alla sola applicazione del diritto internazionale pattizio, ma adatti a creare accordi al di là dell’azione di un giudice terzo: Negoziato: molto spesso un tentativo di negoziato è richiesto prima della presentazione di un ricorso, così da lasciare una possibilità di risolvere la controversia in modo pacifico. In certi casi il tentativo di negoziato può divenire requisito di ammissibilità del ricorso stesso anche se, come tentativo, è un obbligo di condotta in buona fede, non di risultato. Inchiesta: è un accertamento dei fatti condotto in maniera rigorosa e neutrale (in buona fede) propedeutico ad una soluzione. Buoni uffici: un soggetto terzo facilita il negoziato tra le parti e il raggiungimento di un compromesso; esemplare è l’opera degli Usa negli accordi di Camp David. Mediazione: il soggetto terzo non solo facilita il compromesso, ma propone, entra nel merito della controversia sottoponendo la propria proposta alle parti. È una forma più integrale e completa, che necessita comunque dell’accordo tra le parti. Conciliazione: presenta elementi comuni all’inchiesta e alla mediazione, ma è più strutturata; opera attraverso una commissione che accerta i fatti; integra eventualmente l’accertamento e il tutto si conclude con delle raccomandazioni (le quali non sono un giudicato vincolante).

ACCERTAMENTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE TRA STATI E PRIVATIUn primo livello di applicazione è quello della tutela dei diritti dell’uomo: dal 1948 con la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite fino agli anni ’50 con le convenzioni regionali.Nel sistema della CEDU (1950 + protocolli successivi) è previsto un organo giurisdizionale per far rispettare i diritti, nonché i meccanismi del ricorso interstatale e individuale (ex art.34); quest’ultimo, molto più fortunato nel suo utilizzo. Per poter ricorrere alla CEDU è però necessario il requisito del previo esaurimento dei ricorsi interni, derivante dell’istituto classico della protezione diplomatica.Il requisito appena detto non si applica ai casi di diniego di giustizia, perché in questi è manifesto che il singolo non possa ottenere giustizia dai tribunali interni; inoltre non si applica ai casi di lunghezza eccesiva dei processi perché questi, praticamente, consistono in un diniego di giustizia.Quando un reclamo individuale è accolto dalla CEDU, il rimedio generale concesso è quello della “just satisfaction” (una mera soddisfazione che consiste in un indennizzo, non in un pieno risarcimento); più raramente la CEDU può intimare agli Stati diretti interessati l’adozione di provvedimenti ad hoc e ciò è possibile soprattutto nei casi di condanne seriali.

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Nel sistema della CEDU è previsto un solo caso di appello alla “Grande Camera” da parte della Corte stessa e si ha quando la questione interessata dal ricorso sia interpretativa o applicativa della Convenzione e molto importante nel suo genere (caso chador-studentesse francesi o crocifisso-scuola italiana).Anche nella convenzione interamericana è previsto un ricorso individuale; sono previste maggiori libertà per la Corte nello stabilire le riparazioni e molto spesso la Corte stessa entra nel merito delle scelte legislative degli Stati, intimando l’adozione di strumenti adeguati.Anche per quanto riguarda la convenzione africana è prevista la creazione di una Corte, il cui statuto (che prevede maggior libertà nell’accordare riparazioni) è entrato in vigore nel 2006.A livello universale l’unico strumento “quasi giurisdizionale” è quello del “comitato per i diritti del’uomo”, istituito in seno al patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966: tale comitato prevede il diritto di petizione individuale per i cittadini degli Stati parti che hanno sottoscritto apposito protocollo. Il comitato è uno strumento para-giurisdizionale perché il procedimento non si conclude con un giudicato, ma con dei rapporti che possono includere raccomandazioni specifiche ma mai obbligatorie; hanno effetto di rendere pubblico un comportamento deprecabile e di suscitare una “sanzione sociale”.

Un ulteriore ambito di accertamento obbligatorio del diritto tra Stati e privati è quello del diritto internazionale degli investimenti: non semplicemente i commerci, che si risolvono in via contenziosa, ma investimenti che comportino capitale, durata e rischio.Sono previsti, a tutela degli investimenti, strumenti arbitrali di tutela degli investitori privati, il più importante dei quali è la Convenzione di Washington del 1965 da cui origina l’ICSID (International center for settlement of investiment dispute): è questo uno strumento analogo alla Corte Permanente di Arbitrato, ossia un foro permanente presso cui costituire tribunali arbitrali ad hoc; l’ICSID mette poi a disposizione di uno Stato parte della CdW, la possibilità di attivare unilateralmente una procedura contro un altro Stato parte che abbia leso i diritti di un proprio investitore.Prima degli anni ’90 davanti all’ICSID furono portati pochissimi casi, a causa del ridotto volume degli investimenti esteri (guerra fredda) e del ridotto numero delle ratifiche alla CdW; dagli anni ’90 in avanti, la tendenza si inverte a causa delle maggiori adesioni alla CdW e dei moltissimi accordi di investimento conclusi dagli Stati: questi spesso recepiscono, con clausola di richiamo, la disciplina della CdW per la risoluzione delle controversie anche se non sono Stati parti alla stessa Convenzione. I casi ICSID vedono quindi l’applicazione del diritto internazionale tra gli investitori privati e gli Stati.La CdW non prevede il requisito del previo esaurimento dei ricorsi interni (cd. fork in the road clause) e il ricorso si può quindi attivare immediatamente, rinunciando a ricorrere presso tribunali interni (o viceversa).Anche nel trattato NAFTA è riscontrabile il richiamo all’ICSID, perché l’investitore privato ha infatti tre possibilità di ricorso (tribunali interni, ICSID, UNCITRAL). Ai sensi dell’art.34 CdW i lodi arbitrali dell’ICSID costituiscono titoli esecutivi che possono essere portati davanti a tribunali nazionali degli Stati parti per ottenerne attuazione.Nell’ambito dei ricorsi tra investitori privati e Stati, va considerato anche il fenomeno dei cd. Mass Claims, soprattutto a seguito di due importanti casi recenti: caso del tribunale misto Iran-Usa : creato nel 1981 con l’ accordo bilaterale di Algeri per risolvere le dispute successive alla rivoluzione Komehinista del 1979 che coinvolgessero cittadini e investitori Usa coi loro beni. A seguito delle ritorsioni dei rivoluzionari sui beni degli investitori statunitensi, gli Usa attuano ritorsioni sui beni di cittadini iraniani negli Stati Uniti; essendoci tanti soldi in gioco e numerosissimi casi, i contendenti si siedono pacificamente a un tavolo… Il tribunale misto è un tribunale arbitrale internazionale che riceve i ricorsi da parte dei cittadini e delle società statunitensi contro l’Iran e viceversa. Essendo centinaia e centinaia, sono detti per l’appunto, mass claims. Il tribunale opera sulla base di norme di diritto internazionale ed emana lodi vincolanti. caso della prima guerra del golfo Iraq-Kuwait : attraverso la risoluzione 687 il Consiglio di Sicurezza stabilisce la responsabilità generale dell’Iraq per l’invasione e i danni subiti dai cittadini e crea l’UNCC (united nations compensation commission): quest’ultimo non è un organo giurisdizionale, ma amministrativo. I kuwaitiani devono presentare individualmente all’UNCC prove a sostegno della propria posizione (di aver subito danni); la Commissione esamina e se lo ritiene corretto, paga un risarcimento, attingendo ad un fondo apposito creato con i proventi delle vendite del petrolio iracheno →non c’è processo, ma solo i privati contro uno Stato.

ACCERTAMENTO E ATTUAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE NEI RAPPORTI TRA STATI E ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALIPremessa: le organizzazioni internazionali di regola godono di immunità davanti ai tribunali nazionali, ad eccezione di quel che riguarda iura privatorum e particolari rapporti di lavoro (ma è una prassi limitata a pochi Stati).

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Con la Convenzione sui privilegi e sulle immunità delle organizzazioni internazionali, all’art.8 §29 si stabilisce l’obbligo generico e programmatico per l’ONU di stabilire delle procedure e degli strumenti appropriati per rimediare ai danni fatti ai privati nell’esercizio delle proprie funzioni. Un esempio di ciò può essere visto nelle missioni dell’ONU in Congo negli anni ’60: l’ONU ha istituito organi amministrativi per rispondere a cittadini privati eventualmente danneggiati, dichiarando però che il pagamento avveniva “ex gratia” (vuol dire che la lesone di diritti soggettivi non è giuridicamente riconosciuta). Un ulteriore esempio è costituito dall’UNHRAP (united nations human rights advisory panel), un comitato consultivo di giuristi costituito in Kosovo per prendere in considerazione i reclami dei cittadini privati nei confronti dell’amministrazione ONU vigente dal 1999 (rispetto ai tribunali “nazionali” del Kosovo, l’ONU gode dell’immunità…). Questo comitato riceve i ricorsi e consiglia l’ONU su come e quanto pagare gli indennizzi. Ricorrere contro un’organizzazione internazionale è talmente difficile che nel 2007 i cittadini del Kosovo ricorrono in via generale alla CEDU (contro l’ONU, che però non è parte): gli avvocati ricorrenti propongono di ricorrere invece contro gli Stati che all’ONU avevano fornito le risorse umane per la missione di sminamento di una parte di territorio del Kosovo. I genitori di due bimbi uccisi dalle mine ricorrono →la CEDU dichiara i ricorsi inammissibili perché gli atti vanno imputati non agli Stati di nazionalità dei militari, ma alle Nazioni Unite.La novità dei prossimi anni sarà l’adesione dell’UE alla CEDU.

REPRESSIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALISi parla ovviamente dei soli casi in cui la fattispecie criminosa sia prevista da una norma internazionale, la cui repressione non avviene però con strumenti interni agli Stati.È una repressione dei cd. Core Crimes, ossia i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il crimine di genocidio; questi crimini sono di origine consuetudinaria, ma hanno trovato disciplina specificativa in strumenti convenzionali (che però non fanno parte del diritto internazionale generale).“sembra” che rispetto ai crimini più gravi debba valere un principio di giurisdizione universale per tutti gli Stati, indipendentemente da chi debba perseguire i criminali: in fatto e in diritto non è così.La Convenzione del 1948 contro il genocidio prevede che i pochi crimini debbano essere perseguiti dallo Stato territoriale o da un tribunale internazionale “di futura costituzione”. Altri strumenti si avvicinano al principio della giurisdizione universale con l’aut dedere aut iudicare: secondo questo motto, o tale strumento porta all’estradizione dei criminali, o li giudica.Il principio di giurisdizione universale pura è previsto solo nella legislazione di pochissimi Stati (solo Spagna e Belgio in Europa): proprio per tale limitata disponibilità, negli anni ’90 la Comunità Internazionale si è dotata di tribunali penali internazionali, che però dovevano fare i conti con limitazioni politiche e giuridiche che salvaguardavano i criminali (immunità personali dei Capi di Stato, dei primi ministri e dei ministri degli affari esteri: seppur non si tratti di norme di ius cogens, venivano opposte alle azioni dei tribunali nazionali).

Nello sviluppo del diritto internazionale penale, con riguardo alle immunità personali, vi erano i due precedenti datati ma rilevantissimi dei tribunali di Norimberga e Tokyo, che operavano sulla base di norme di diritto internazionale generale/consuetudinario.Tra il 1993 e il 1994 vengono quindi creati due tribunali penali ad hoc: il Tribunale Speciale Internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia e il Tribunale Speciale Internazionale per i crimini commessi in Ruanda, istituiti con le risoluzioni 827 e 955 del Consiglio di Sicurezza. Questi tribunali speciali non perseguono le violazioni commesse dagli Stati, ma le gravi violazioni poste in essere dai singoli individui; inoltre non sono creati con accordi internazionali perché i conflitti erano ancora in corso e la Comunità Internazionale voleva avere a disposizione strumenti pronti all’uso.Le due risoluzioni sono vincolanti, come tutte quelle ai sensi del Cap.7 Carta ONU.I tribunali speciali perseguono i crimini di guerra (cioè le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario), i crimini contro l’umanità (caratterizzati da una serie di atti compiuti nel contesto di un attacco di massa e sistematico alla popolazione civile, come la deportazione, l’omicidio, la violenza sessuale e la pulizia etnica), i crimini di genocidio (sono diversi atti, simili ai crimini contro l’umanità, ma posti in essere con dolus specialis, al fine di eliminare in toto o in parte un certo gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso); i due tribunali speciali hanno una giurisdizione “prioritaria” rispetto ai giudici nazionali: a seguito di una richiesta di estradizione del procuratore dell’Aja (per conto dei tribunali speciali), lo Stato nazionale non può opporsi →a differenza di questi, la CPI non ha giurisdizione prioritaria.I due tribunali speciali hanno una giurisdizione temporalmente e giuridicamente limitata (quindi non universale) e sono creati attraverso una risoluzione obbligatoria.Negli anni ’90 si ha un negoziato che conduce alla Conferenza di Roma del 1998, in cui viene adottato (operativo dal 2003, 60ima ratifica nel 2002) lo Statuto della CPI: quest’ultima nasce come tribunale internazionale generale, senza competenza specifica e, a differenza dei due tribunali speciali, è istituita con un trattato internazionale che,

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basandosi sul principio del consenso, limita le possibilità di azione della Corte. La CPI ha una giurisdizione complementare rispetto a quelle nazionali, non prioritaria: ciò vuol dire che gli organi interni alla Corte possono operare solo rispetto a casi in cui lo Stato o gli Stati non manifestino volontà di perseguire i crimini – unwilling. Non siano capaci di perseguire tali crimini – unable.I crimini riguardo ai quali la CPI è competente sono sempre i Core Crimes, con l’aggiunta, rispetto ai tribunali speciali, del crimine di aggressione armata (art.5 Statuto CPI): tuttavia, rispetto all’aggressione armata, l’esercizio della giurisdizione non è ancora stato attivato, visto che il crimine e le condizioni di procedibilità sono state definite solo nel 2010 con l’accordo di Kampala attraverso l’emendazione dello Statuto e l’aggiunta degli articoli 8 e 15:Art.8: la definizione di aggressione armata è quella elaborata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974 (definizione di attacco armato).Art.15: differisce l’attivazione in concreto della giurisdizione della Corte successivamente all’adozione di un’ulteriore decisione da parte della conferenza degli Stati parti adottabile non prima del 1/1/17, all’unanimità o con la maggioranza dei 2/3. L’art.15 prevede anche la possibilità di output, essendo le riserve vietate dallo Statuto ma rientrando questa tra le questioni più delicate.Le questioni di procedibilità risentono dei principi di territorialità e nazionalità: la CPI può esercitare la propria giurisdizione solo su presunti crimini compiuti in territorio di Stati parti o da un cittadino di uno Stato parte allo Statuto.Sempre per quanto riguarda il crimine di aggressione, all’art.15 si prevede il meccanismo del deferimento (REFERRAL): il Consiglio di Sicurezza può infatti determinare la presunta esistenza di un atto di aggressione e deferire il caso alla CPI. Il referral va correlato alla possibilità di esercizio della giurisdizione della Corte, che è riferibile ad ogni crimine, indipendentemente dal fatto che sia commesso in uno Stato parte: esempi di questo operare si riscontrano nel 2005 col Darfur (il Sudan non è uno Stato parte, ma il Consiglio di Sicurezza deferisce la situazione alla CPI) e nel 2011 in Libia (come per il Sudan, ex art.13 Statuto); il referral è propriamente una deroga al principio della consensualità, perché amplia i poteri della CPI al di là della territorialità e della nazionalità.Lo Statuto della Corte prevede anche il meccanismo opposto al referral, ossia il deferral, ex art.16: il Consiglio di Sicurezza può con questo limitare e restringere la giurisdizione della Corte. È uno strumento quello del deferral usato in diverse occasioni e in alcune ha suscitato parecchie perplessità, come per i presunti crimini commessi da membri di contingenti nazionali di Stati non parti allo Statuto che partecipavano a operazioni internazionali di peacekeeping →chiaramente è una categoria di casi. La motivazione delle due risoluzioni adottate in uno di questi casi non era direttamente legata alla pace e alla sicurezza (gli Usa avevano minacciato il ritiro di tutti i loro militari impegnati in missione; altri due casi di esclusione della giurisdizione della CPI riguardano Liberia e Sudan per presunti crimini compiuti da membri di contingenti ecc…).

Sia gli Statuti dei due tribunali speciali che quello della CPI prevedono una deroga alle norme consuetudinarie sulle immunità diplomatiche e personali (non funzionali, che erano già state superate da Tokyo e Norimberga), e furono applicate al caso di Miloševič.Per quanto riguarda i problemi del referral, questi si sono mostrati con il caso del presidente del Sudan Al Bashir. Il procuratore dell’Aja aveva portato avanti una sua inchiesta, successiva al referral per la questione Darfur: il risultato è stato l’invito fatto dal Consiglio di Sicurezza agli Stati non parti a collaborare con gli organi della CPI nella limitazione delle libertà di movimento di Al Bashir (che poteva restare in Sudan o recarsi in Stati non parti e non vincolati); il mero invito non vincola ad alcunché.

L’esecuzione delle sentenze ha luogo presso i tribunali (hanno carceri) o presso gli Stati parti; il processo è un processo penale con due gradi di giudizio.

INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALEI criteri ermeneutici per interpretare il diritto, specialmente quello dei trattati, si trovano agli artt.31 e 32 della CdV 1969.Art.31: .1: sono richiamati i criteri di buona fede e di fedeltà linguistica al senso delle parole nel loro contesto, nonché il criterio teleologico; tra i diversi criteri non c’è un ordine di priorità, ma logico. Dalla disposizione non emerge l’elemento intenzionale: si preferisce un metodo più oggettivo per ricostruire la logica che sta dietro alle norme: in precedenza i common lawyer rilevavano sempre l’intenzione, ma ora il diritto internazionale è sempre più costituito da accordi multilaterali, in cui le intenzioni delle parti spesso sono diverse.

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.2: viene qui specificato il contesto, che può essere stabilito anche considerando il preambolo ed eventuali strumenti annessi (altrimenti irrilevanti) voluti dalle parti contestualmente alla conclusione del trattato. .3: oltre al contesto, bisogna considerare gli accordi successivi intervenuti tra le parti riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del trattato; ogni successiva prassi relativa all’applicazione del trattato che palesi l’accordo delle parti; ogni altra norma di diritto internazionale rilevante e applicabile. .4: particolare attenzione va riservata a specifici termini linguistici o parole se così è voluto dalle parti.La prassi successiva può essere rivelatrice del reale significato che si attribuisce alle disposizioni di un trattato, come nel caso UE-Marocco sugli accordi di pesca conclusi nel 2006 dall’allora CE. Tali accordi, giuridicamente e politicamente scottanti, consentivano la pesca ai pescherecci europei nelle acque territoriali marocchine; la questione, sollevata da alcune ONG, riguardava il possibile sfruttamento illecito delle risorse ittiche del Sahara Occidentale. Nel 2006 però il Parlamento Europeo ha ancora funzione solo consultiva e non può bloccare l’accordo che, come nel caso di Timor Est, violerebbe il diritto internazionale.L’accordo viene sottoposto successivamente all’esame degli uffici legali del Consiglio e del Parlamento ed entrambi emanano pareri (riservati ma divenuti poi pubblici) con cui affermano la neutralità dell’accordo sullo sfruttamento delle risorse del Sahara Occidentale →la concessione si estende alle acque sotto la giurisdizione e la sovranità del Marocco: la sovranità, internazionalmente riconosciuta, non include le acque territoriali del Sahara Occidentale, ma la giurisdizione, come controllo potestativo de facto, non le esclude; anzi, in virtù di ciò le autorità marocchine avevano concesso licenze anche per quelle acque. Gli uffici legali si limitano a dire che loro “non possono escludere” che l’accordo si interpretato in tal senso, e così effettivamente è stato. Nel 2011 l’accordo scade e va rinnovato (trattato di Lisbona nel 2009): in virtù delle sue nuove attribuzioni, il Parlamento Europeo sottopone ancora la questione al suo ufficio legale, il quale afferma che un rinnovo pari pari dell’accordo sarebbe in violazione del diritto internazionale →dalla prassi applicativa emerge l’interpretazione e il Parlamento boccia l’accordo.

Art.32: indica gli strumenti sussidiari di interpretazione, da individuarsi nei lavori preparatori al negoziato: questi vanno usati per confermare il significato a cui si è giunti (verifica confirmatoria) o per determinare il significato che è lasciato ambiguo/oscuro/manifestamente assurdo/irragionevole dall’uso degli strumenti di cui all’art.31.

Dei due articoli in questione, nessuno fa riferimento all’interpretazione evolutiva, che tuttavia è molto usata e si fonda sugli strumenti ordinari. Nel recente caso Costa Rica-Nicaragua, relativo all’utilizzo del fiume di confine San Juan, interamente i territorio del Nicaragua, per ragioni di commercio da parte del Costa Rica, ciò che si evolve è l’espressione “ragioni di commercio”: in essa la CIG ricomprende anche le crociere che dagli anni ’90 il Costa Rica ha cominciato ad organizzare, ben diverse dall’originario scambio di merci →nelle esigenze commerciali può rientrare anche il turismo.

Secondo il Tanzi e la sua tesi minoritaria, nonché poco aderente alla prassi, l’interpretazione delle norme di diritto internazionale riguarderebbe anche le norme consuetudinarie e non solo quelle pattizie: è da notare poi che le norme consuetudinarie vengono accertate con strumenti scritti e sono questi, in termini pratici, ad essere interpretati; l’interpretazione della norma consuetudinaria, quindi, resta sottotraccia.

BREVE RITORNO SULLE CAUSE DI INVALIDITA’/ESTINZIONE/SOSPENSIONE DEI TRATTATICi si basa su regole procedurali esterne al diritto internazionale consuetudinario ma riprese nella CdV 1969 agli artt.65 e 66.Art.65: se uno Stato vuole invocare l’invalidità, la sospensione o l’estinzione di un trattato, deve notificarlo agli altri Stati parti, e si può agire non prima di tre mesi dalla notifica: in questi tre mesi le parti possono sollevare obiezioni, che possono essere composte con gli strumenti giurisdizionali/diplomatici ex art.33 Carta ONU, se l’obiezione non si compone, ex art.66 si ha risoluzione della controversia.Art.66: entro 12 mesi dalla notifica dell’obiezione, le parti possono ricorrere ad una commissione di conciliazione o, per violazioni di ius cogens ex art.53, alla CIG.

LA RESPONSABILITA’ INTERNAZIONALE DEGLI STATI (non di altri soggetti)La materia è regolata da un progetto di articoli approvati nel 2001 dalla Commissione di diritto internazionale e dall’Assemblea Generale (per la gran parte si riconosce diritto consuetudinario). Vengono altresì definiti alcuni concetti:Illecito internazionale: è il principale presupposto nei cd. rapporti di responsabilità internazionale tra Stato autore e Stato leso. La definizione viene data all’art.2 del progetto e si compone di due elementi; il primo, oggettivo, è la violazione di un obbligo giuridico internazionale, vincolante per lo Stato in virtù della fonte da cui promana: valgono principi di irretroattività e di specificità al caso singolo; il secondo elemento, soggettivo, è l’attribuzione di quella

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specifica condotta allo Stato: come si fa? Secondo la Commissione di diritto internazionale, la violazione deve essere puntuale (specifica nello spazio e nel tempo), con effetti che si esplichino più o meno a lungo nel tempo (importante per i risarcimenti); le violazioni possono anche essere continuative, per cui la condotta illecita dura nel tempo, e quelle composite, caratterizzate da una pluralità di atti successivi nel tempo (caso Metalclad). Più importanti della differenziazione delle violazioni, sono i criteri di attribuzione, per cui valgono due principi generali: Allo Stato vanno attribuiti tutti gli atti posti in essere da organi o agenti dello Stato stesso (è il centro di imputazione soggettiva). Allo Stato non si attribuiscono gli atti posti in essere dai privati.

Le diverse cause e i due principi fanno nascere delle complicazioni; la prima: in capo allo Stato vi è l’obbligo di due diligence nel porre in essere tutte le azioni necessarie per evitare che i comportamenti dei privati provochino danni ad altri Stati →non è un obbligo di risultato; la seconda: ex art.5 dei principi elaborati, in capo allo Stato si attribuisce la responsabilità per atti compiuti da individui non formalmente inseriti nell’organigramma statale ma che tuttavia siano autorizzati dallo Stato ad esercitare poteri di natura pubblicistica (ronde, imprese di Stato che regolamentano mercati…); la terza: l’art.9 prevede ipotesi in cui la responsabilità sia attribuita allo Stato per fatti compiuti da individui o gruppi non organizzati ma che, in assenza di esercizio di potestà da parte delle autorità legittime, si sostituiscano alle stesse “de facto”, senza autorizzazioni; la quarta: l’articolo 10 copre l’ipotesi dei gruppi insurrezionali, per cui gli atti posti in essere da questi gruppi vengono attribuiti allo Stato solo se successivamente i gruppi sono diventati il Governo ufficiale dello Stato; ancora: l’art.11 riguarda le ipotesi in cui le autorità statali approvino espressamente o facciano propri i comportamenti tenuti da individui o gruppi privati (caso dei prigionieri Usa nell’ambasciata nel 1979 in Iran); poi l’art.8: il comportamento di uno o più privati, più o meno organizzati, che agiscono sotto istruzioni/direzione/controllo di uno Stato, vengono attribuiti allo Stato stesso.Relativamente all’art.8, va notato che non si parla di semplice autorizzazione a svolgere funzioni pubblicistiche. Istruzioni e direzione richiedono una prova gravosa, e il controllo è nozione sfuggente: è una mera influenza? È vicinanza di posizioni? È finanziamento? Nel noto caso Nicaragua-Usa, le azioni di finanziamento e addestramento dei Contras erano per il Nicaragua sinonimo di controllo; lo stesso non valeva per la CIG, che elaborò il test del controllo effettivo →come controllo specifico, serve che esistano prove certe che lo Stato esercitasse un controllo su quella specifica operazione, nel cui contesto sono state commesse le violazioni del diritto internazionale. Tale test è stato ribadito nel 2007 nella sentenza sul caso Bosnia-Serbia per il genocidio di Srebrenica del 1995: la Bosnia accusava la Serbia di essere responsabile, anche se materialmente il genocidio è stato compiuto dal gruppo serbo-bosniaco indipendentista che controllava la regione, a causa dei rapporti che intratteneva con questo gruppo. Secondo il test del controllo effettivo, la Bosnia non avrebbe prodotto prove sufficienti del controllo della Serbia sull’operazione “presa di Srebrenica”, anche se chiaro coordinamento emergeva dalle minute di una riunione. Parte di tali minute venne secretata e mai resa pubblica dalla Serbia; la Bosnia quindi si ritrova senza mezzi per sostenere la probatio diabolica.La CEDU ha elaborato un diverso test per stabilire il controllo di un Paese su un determinato fatto, il cd. test del controllo complessivo, impiegato nel caso Loizidou-Turchia. La sig.ra Loizidou viveva nella cd. RTCN e, a seguito dell’esodo della popolazione greca, il governo turco decide di espropriare tutti i beni e le proprietà dei greco-ciprioti; la sig.ra L. cita in giudizio presso la CEDU la Turchia, la quale declina ogni responsabilità, scaricandole sulla RTCN e appoggiandosi al caso Nicaragua-Usa. La CEDU rifiuta la difesa turca grazie al test del controllo effettivo (meno diabolico), per cui è sufficiente provare che “complessivamente”gli atti dei gruppi organizzati fossero coordinati e controllati dallo Stato (Turchia); prova sufficiente di tale controllo per la CEDU è la presenza di migliaia di soldati turchi nella cd.RTCN.La responsabilità degli Stati viene poi estesa, ex art.7 dei principi, ai cd. atti ultra vires, illeciti e posti in essere da organi o agenti dello Stato, in eccesso di potere o contro istruzioni ricevute (non hanno più quindi giustificazione). Gli atti ultra vires sono quindi attribuiti allo Stato quando organi o agenti li compiono nell’esercizio delle proprie funzioni.

Nella responsabilità internazionale degli Stati si devono prendere in considerazione due elementi essenziali: quello dell’attribuzione, soggettivo; quello della violazione, oggettivo; per quanto riguarda quest’ultimo, si intende il solo danno giuridico. Il danno materiale può certo essere considerato, ma non come elemento essenziale e costitutivo dell’illecito internazionale (vedi violazione dello spazio aereo), così come la colpa che, in quanto elemento psicologico, può rilevare solo con riguardo a certi obblighi di diligenza; per certi altri illeciti può anche rilevare il dolo, per altri una responsabilità oggettiva: elementi essenziali sono quindi solo attribuzione e violazione.La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha stilato un documento di principi che, agli artt. da 20 a 25 prevedono cd. circostanze escludenti l’illiceità (che esimono dalla responsabilità):

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• Art.20: il consenso. Deve essere specifico; dato da uno Stato ad un secondo Stato perché questo commetta un certo atto che altrimenti sarebbe illecito. L’atto non può eccedere i limiti del consenso.• Art.21: legittima difesa. Ex art.51 C.ONU , una condotta adottata per legittima difesa non costituisce illecito, anche se consiste nell’uso della forza (generalmente vietato dall’art.2 §4).• Art.22: adozione di contromisure. Sono atti non conformi ad obblighi internazionali, ma posti in essere in risposta a violazioni di propri diritti commesse da altro Stato e nei suoi confronti. Le contromisure sono una forma di autotutela.• Art.23: forza maggiore. Si tratta di una forza irresistibile o di un avvenimento imprevedibile che abbia reso impossibile adempiere ad un obbligo (perturbazione atmosferica per violazione spazio aereo); vale sempre il principio dell’estoppel: lo Stato non può invocarla se col suo comportamento ha contribuito a generarla. Essendo la forza/avvenimento irresistibile, non vi deve essere la possibilità di una scelta alternativa.• Art.24: estremo pericolo. Cd.detraisse, si ha quando un agente od organo dello Stato debba agire in maniera non conforme agli obblighi di diritto internazionale per salvare la propria vita/la vita di soggetti ad esso dipendenti/ad esso sottoposti/sotto la sua tutela. La possibilità di scelta c’è, ma è implicata la tutela della vita.

Entrambi gli artt.23 e 24 rientrano nel cd. Caso Rainbow Warrior. La nave di Greenpeace disturbava in maniera efficace test nucleari sottomarini condotti dalla marina militare francese nei territori d’oltremare; il governo francese risponde allora con l’operation satanique e attacca con due uomini la Rainbow Warrior ormeggiata ad Auckland. La nave è fatta affondare, ma rimane ucciso anche un attivista portoghese. All’arresto dei due francesi in NZ scoppia il contenzioso, risolto con una mediazione attraverso un regolamento obbligatorio del segretario generale dell’ONU nel 1986: si prevedono dieci anni di confino per i due agenti ma, dopo poco tempo entrambi vengono fatti rientrare “per motivi di salute” →nuovo contenzioso tramite tribunale arbitrale, con lodo emesso nel 1990: la Francia riconosce che il rimpatrio è in violazione del regolamento, ma afferma che è stato dettato da cause di forza maggiore; il tribunale arbitrale esclude la forza maggiore (c’era la possibilità di scelta) ma accoglie la detraisse solo per l’uomo, malato di tumore; non invece per la donna, incinta.

• Art.25: stato di necessità; raggruppa in via generale anche gli artt.23 e 24 ed è estremamente difficile da provare. Innanzitutto la formulazione è negativa: non può essere invocato unless the act:o Sia l’unico modo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave ed imminente.o Non pregiudichi in maniera seria un interesse essenziale dello Stato o della Comunità Internazionale nei cui confronti sussiste l’obbligo violato.Non può poi essere invocato se:o L’obbligo internazionale in questione espressamente vieti di poter invocare lo stato di necessità.o Lo Stato ha contribuito a generare la situazione di necessità (estoppel).Successivamente alla seconda guerra mondiale, lo stato di necessità è stato spesso invocato, ma mai accolto, proprio in virtù dell’estoppel (crisi argentina del 2001).

L’art.26 a differenza dei precedenti, non prevede delle specifiche cause di esclusione dell’illiceità, ma afferma l’impossibilità di invocare la stessa per giustificare il mancato rispetto di norme di ius cogens.

CONTENUTO del rapporto di responsabilità internazionale conseguente all’illecito è un rapporto giuridico tra Stato autore e Stato leso. La prima conseguenza è l’obbligo di cessazione dell’illecito in capo allo Stato autore, successivamente al quale si ha l’obbligo di riparazione (calcato sul CC, non sul CP) che consiste nell’eliminazione delle conseguenze dell’illecito. La riparazione può consistere in una restituito in integrum e, ove questa non sia possibile, in un risarcimento: questo richiede però che il danno prodotto non sia solo giuridico, ma ANCHE materiale, quantificabile; in alternativa a restituito e risarcimento si ha la soddisfazione, applicabile ad opera dei giudici in presenza di danno solo giuridico: la soddisfazione può consistere in scuse ufficiali, garanzie di non ripetizione, accertamento/convalida giudiziale dell’illecito (che però non si trova nei principi ma nella giurisprudenza e consiste in una sorta di pubblicità, vedi caso della cartiera tra Argentina e Uruguay).Il progetto di articoli della C.D.I. si è allontanato dall’assimilazione della responsabilità internazionale con quella penale, senza tuttavia impedire che la responsabilità “civile” possa escludere quella più strettamente penale anche in capo allo Stato. Il primo progetto prevedeva l’art.19, dei cd. crimini di Stato, ossia condotte che per la loro gravità integravano ipotesi di veri e propri crimini (erano violazioni di ius cogens come l’apartheid, l’aggressione armata, il genocidio…); nel progetto di articoli definitivo, del 2001, l’art.19 non compare più per il fatto che alcuni aspetti del regime di responsabilità penale non erano stati chiariti (chi accerta tra CIG e CdS? Se CdS è organo politico, ha senso parlare di responsabilità penale? Quali sono le conseguenze della criminalizzazione delle condotte?): due esperienze

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che hanno fatto propendere per l’abolizione sono quelle conseguenti alla prima guerra mondiale per la Germania (riparazioni+crisi=Hitler) e alla prima guerra del golfo per l’Iraq (sanzioni+crisi umanitaria= persistenza del regime).Non potendo contare sull’art.19, si può far riferimento agli artt.40 e 41 per i cd. regimi di responsabilità aggravata, conseguente a violazioni gravi di norme imperative: essi prevedono obblighi sia per lo Stato autore, sia per gli altri Stati della Comunità Internazionale:• Obbligo di non riconoscimento di situazioni create a seguito di un atto illecito (de lege lata).• Obbligo di non fornire aiuti o assistenza all’autore per mantenere la situazione creata (de lege lata).• Obbligo di cooperare attraverso organizzazioni internazionali affinché la situazione creata si risolva (de lege ferenda).

INVOCAZIONE DELLA RESPONSABILITA’ internazionale di uno Stato.Legittimati all’invocazione, come regola generale (art.42), sono i soggetti lesi. Facilmente identificabili in un rapporto bilaterale o multilaterale pattizio) no nell’ambito di norme/rapporti/accordi di natura consuetudinaria che tutelino l’interesse collettivo di un gruppo di Stati o della Comunità Internazionale.La responsabilità può essere invocata, nei casi di cd. obblighi integrali, anche da Stati non materialmente lesi, ma anche lesi solo giuridicamente (dal mancato) rispetto di un trattato da parte di un altro Paese ma non nei propri confronti). Come regola speciale (art.48) la responsabilità internazionale di uno Stato può essere invocata anche da Stati non lesi quando ci si trovi di fronte ad obblighi erga omnes, che tutelino interessi fondamentali e indivisibili della Comunità Internazionale; in queste circostanze, il diritto internazionale positivo prevede che chi richiede la responsabilità internazionale, debba richiedere la cessazione dell’illecito e la sentenza di accertamento: non può richiedere alcuna riparazione per sé, ma può farlo a favore dello Stato leso o altri beneficiari. Questa regola speciale è una regola del lege ferenda, che non comporta alcuna giurisdizione obbligatoria dei tribunali internazionali.

ESECUZIONE COERCITIVA DEL DIRITTO INTERNAZIONALEIl diritto internazionale è caratterizzato da un elevato grado di rispetto delle norme: chi legifera è anche destinatario delle norme.Consci della difficile esecuzione, molti trattati internazionali si sono dotati di strumenti di compliance, ossia strumenti non di esecuzione coercitiva, ma di assistenza affiche gli Stati aumentino il grado di rispetto delle norme: esempio sono le tecnologie e il know-how nella tutela dei diritti ambientali.Ad oggi, dopo la Carta ONU, l’esecuzione coattiva avviene ancora prevalentemente attraverso autotutela e nello specifico attraverso le contromisure: queste però non vanno confuse con altre categorie.• La contromisura ha come finalità principale il ripristino del rispetto delle norme e della legalità, non la cessazione dell’illecito; ha finalità sanzionatoria e consiste nella violazione di diritti soggettivi dello Stato.• La ritorsione non prevede la lesione di diritti soggettivi dello Stato autore dell’illecito e può avvenire nelle forme classiche di espulsione dell’ambasciatore; gli effetti ricadono su rapporti discrezionali, non obbligatori.• La rappresaglia è una reazione armata ad un illecito subito (come la passata politica delle cannoniere), non più presente dopo la Carta ONU.• La sanzione è poi una nozione mal definita: può ricomprendere reazioni politico-economiche ma non militari, che talvolta possono rientrare tra le contromisure, talvolta nelle ritorsioni, talvolta nelle stesse sanzioni.la dottrina differenzia tra le contromisure:• Specifiche: comportano la violazione delle stesse norme violate dallo Stato autore dell’illecito.• A-specifiche: la reazione può prevedere la violazione di qualunque altro diritto soggettivo dello Stato autore dell’illecito, previsto e tutelato dalla normativa internazionale.In taluni casi le contromisure non possono che essere a-specifiche (art.50 p.C.D.I.), per poter salvaguardare sei categorie; si fa divieto di contromisura specifica per:1. Violazione del divieto di uso/minaccia dell’uso della forza nelle relazioni tra Stati (rappresaglia).2. Violazione di convenzioni a tutela dei diritti dell’uomo.3. Violazione di obblighi di natura umanitaria applicabili a conflitti armati (no rappresaglia su propri civili).4. Violazione di norme di ius cogens.5. Violazione di obblighi internazionali in materia di protezione della rappresentanza/delle sedi diplomatiche o consolari.6. Violazione delle procedure di risoluzione delle controversie e di norme ad esse relative: questo è in linea con le finalità stesse della contromisura, complementare rispetto alla procedura di risoluzione delle controversie.Questi sono cd. limiti sostanziali all’adozione delle contromisure nel diritto internazionale generale, non valide per esempio per il diritto del WTO.Le contromisure, in quanto forme di autotutela, devono rispondere al principio di proporzionalità rispetto al pregiudizio subito (art.51). la proporzionalità non è una nozione meramente quantitativa, ma anche qualitativa,

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nonostante il danno sia materiale ed economicamente valutabile →caso Usa-Francia sui servizi aerei e l’accordo bilaterale del 1946:il contenzioso nasce negli anni ’70 prima tra le compagnie e poi tra gli Stati; Pan-Am si era messa in concorrenza sleale con Air France e British Airlines sulla tratta Londra-Parigi; Francia vieta atterraggi Usa che fanno quella tratta; Usa vieta atterraggi francesi a L.A.Il tribunale arbitrale emette il lodo nel 1978: la contromisura è proporzionata proprio perché non è meramente quantitativa, ma tiene conto anche dell’oggetto e dello scopo del trattato violato; emerge la volontà di ripristinare il rispetto della legalità e non c’è manifesta sproporzione.

Nel diritto del WTO le contromisure sono procedurali e si limitano al principio meramente quantitativo, agendo come lex specialis.L’art.52 p.C.D.I. prevede delle norme procedurali sull’adozione delle contromisure: dispone che lo Stato, prima di adottare la contromisura, debba invocare la responsabilità internazionale dello Stato, invitare l’altro Stato alla cessazione dell’illecito, notificargli la volontà di attuare contromisure, manifestare la propria disponibilità a risolvere la questione in negoziato, fatta salva la possibilità per lo Stato di adottare contromisure “di urgenza”, per salvaguardare propri diritti.L’art.52 riafferma che la contromisura dev’essere immediatamente cessata alla cessazione dell’illecito e che siano sospese se la controversia relativa alla violazione del diritto soggettivo sia pendente in giudizio.

L’art.54 p.C.D.I. contiene una disposizione molto ambigua riguardo la previsione della facoltà per i terzi non lesi ex art.48 di adottare delle lawful measures per reagire a violazioni di obblighi erga omnes. Questa disposizione fa proprio l’agreement to disagree, per il quale gli interpreti possono legittimamente interpretare in maniera differente il termine; è una formula di compromesso che non pregiudica sviluppi futuri del diritto internazionale. Un chiaro esempio ci viene dalla prassi di adozione delle contromisure per violazione dei diritti umani riguardò quasi esclusivamente gli Stati occidentali: in VI Commissione dell’Assemblea Generale il relatore aveva riscontrato due posizioni: gli Stati occidentali si sentivano legittimati ad adottare contromisure per gravi violazioni del diritto internazionale generale; i Paesi asiatici e africani erano fermamente contrari.Le lawful measures prendono atto della prassi evolutiva.

La LEGITTIMA DIFESA è l’unica forma di autotutela che legittima all’uso della forza ex art.51 C.ONU: nulla nella carta ONU impedirà il naturale diritto di legittima difesa individuale o collettiva nel caso in cui avvenga un attacco armato verso un membro dell’ONU e fino all’adozione di una risoluzione del CdS per il mantenimento della pace.Il presupposto più forte sembra essere l’avvenuto attacco armato, ma tale nozione presenta diversi problemi:1. L’entità dell’uso della forza, ossia: si è trattato di attacco armato? CIG nel contenzioso Nicaragua-Usa precisa che non tutti gli usi della forza militare da parte di uno Stato equivalgano ad attacco armato, ma solo quelli con portata ed effetti significativi. Nel ’98 la CIG in una controversia Usa-Iran sulle piattaforme petrolifere nel golfo persico, ha formulato la teoria della accumulation of events: effetto cumulativo di diversi usi minori della forza che nel tempo giustificherebbero la risposta; ripresa da Usa-UK per la situazione di confine tra Afganistan e Pakistan.2. La fonte dell’attacco armato: al momento della redazione si aveva in mente come fonte dell’attacco uno Stato, ma il 12/9/01 al palazzo di vetro, gli Usa hanno invocato questo diritto contro Al Qaeda, organizzazione terroristica internazionale; il CdS adotta, lo stesso giorno, una risoluzione di supporto alla posizione Usa e gli riconosce il diritto di reagire con la forza e per la legittima difesa. Gli Usa, nel loro intervento contro Al Qaeda, accusano anche il governo talebano di aver facilitato la proliferazione della stessa Al Qaeda e di campi di addestramento.Questa prassi, assieme ad altre tre, fa diritto.2006: Israele-Libano: Hezbollah contro esercito israeliano; esercito israeliano interviene in Libano invocando l’art.51 direttamente contro Hezbollah e riferendosi al governo libanese solo con riguardo alla sua impossibilità di controllare il territorio.2008: Turchia-Iraq del nord: Turchia invoca legittima difesa contro militanti Curdi che dall’Iraq attaccano i turchi.2008: Israele-Gaza/Hamas; Kenya-milizie somale…La prassi applicativa è interpretativa della norma (art.31 §3b CdV 1969) e le successive interpretazioni conformi hanno costituito un consenso, una linea di tendenza.3. L’oggetto o l’obiettivo dell’attacco armato: nessun problema si ha se l’attacco armato è portato contro il territorio di uno Stato/basi militari/edifici diplomatici; il problema sorge quando Usa e Israele hanno invocato la legittima difesa per rispondere ad attacchi portati nei confronti di propri cittadini all’estero (incidente di Eutebe, Angola). Similmente, anche se con accese contestazioni da parte di CdS, Stati territoriali ecc…, è accaduto in Georgia nel 2008, riguardo a cittadini osseti e abkasi con passaporto e lingua russi: costoro, residenti in regioni separatiste,

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furono attaccati dall’esercito georgiano e in loro difesa venne la Russia. Assemblea Generale NU nega il diritto della Russia ad intervenire.4. La legittima difesa collettiva: è difesa esercitata collettivamente da un gruppo di Stati? CIG in Nicaragua-Usa ha dichiarato che tale esercizio ha bisogno del presupposto fondamentale della richiesta di intervento da parte dello Stato offeso (Usa sarebbero intervenuti in aiuto dell’Honduras ma senza richiesta). Caso simile si ha per l’invito fatto da Kuwait che ha legittimato l’intervento.A differenza di questa interpretazione, l’art.5 T.NATO prevede l’obbligo di assistenza in caso di attacco armato ad un Paese membro.

La legittima difesa preventiva: esiste?Questo concetto fu sviluppato da G.W.Bush per giustificare l’intervento angloamericano in Iraq nel 2003. Nel 2002 all’accademia di Westpoint, Bush prospettava la possibilità che Usa potessero rispondere a gravi minacce alla loro sicurezza anche con azioni preventive; tutto questo anche nell’incertezza sui tempi e sui luoghi della minaccia.Ex art.51, l’attacco armato deve essere avvenuto e quindi questa possibilità non è compatibile.Nel diritto pre-1945 era riconosciuto il diritto di legittima difesa preventiva nei confronti di minacce gravi ed imminenti: caso della nave Caroline del 1842, che portava armi ai ribelli in Canada; abbordata, bruciata e affondata dalla marina inglese; Segr.Stato Usa inviò nota diplomatica a UK con cui riconosceva legittimo l’intervento perché immediato, impellente, tale da non lasciare tempo per deliberare..La legittima difesa preventiva potrebbe però essere intesa come forma di stato di necessità ed è sostenuta in questa forma (coi parametri di Caroline) da Usa, Francia e Israele, ma è respinta a livello internazionale.Nel 2005 l’Assemblea Generale ONU ha introdotto un documento che riconosce, in tema di uso della forza, la presenza di un’opinio iuris di accettazione della legittima difesa preventiva in casi di gravi e imminenti minacce →si torna al pre-1945? Forse, ma lo sviluppo della norma richiede molto tempo.L’unica tesi persuasiva (per Milano) sulla legittima difesa preventiva, che però contraddice la giurisprudenza della CIG, è quella di DINSTEN: costui sostiene che la legittima difesa preventiva sarebbe compatibile con l’art.51 se l’attacco armato fosse già in atto in termini organizzativo-logistici ma non ancora scattato (si basa sulla guerra dei sei giorni in Egitto-Israele): l’intenzione sarebbe chiara e attendere il fatto farebbe solo danni.

L’art.51 riconosce un diritto consuetudinario e lo vincola ad un presupposto; non parla tuttavia dei requisiti, impliciti per le norme consuetudinarie, di necessità (deve essere l’unica risposta possibile), immediatezza (immediatezza temporale ragionevole) e proporzionalità (commisurata rispetto all’attacco).A fine 2008 Israele ha iniziato l’operazione “piombo fuso” per rispondere al lancio di missili dalla Striscia di Gaza: l’operazione dura meno di un mese, ma i danni sono ingentissimi e manifestamente sproporzionati →Israele ha allora fornito la sua idea di “proporzionalità”: requisito qualitativo, legato alla nozione di necessità, con riferimento agli obiettivi militari, ossia neutralizzare per l’oggi e il futuro prossimo la minaccia.

L’art.51 procede affermando che la legittima difesa preventiva può durare fino alla risoluzione del CdS, con cui deve essere coordinata; l’attività del CdS è poi legata al mantenimento della pace e della sicurezza globali (funzione enunciata nell’ultimo art. parte 7 della C.ONU, che permette al CdS stesso di prendere misure vincolanti).L’art.51 e gli interventi del CdS sono le uniche eccezioni al monopolio della forza in capo all’autorità pubblica stabilito dall’art.2 §4 C.ONU, visto che il CdS è un organo politico e non giurisdizionale (funzioni all’art.24) che non risponde ai principi di coerenza giuridica. Molto spesso il CdS ha adottato misure coattive (anche se non è il suo compito diretto) in risposta a gravi violazioni del diritto internazionale, divenendo sempre più organo di esecuzione coattiva.Questa trasformazione, contro natura, del CdS, è avvenuta perché gli strumenti originariamente previsti agli artt.43 fino a 47 per la costituzione di una forza militare permanente, sono rimasti inattuati e si sono allora dovuti cercare altri mezzi, non incompatibili:• Art.39: minacce e violazione della pace o atti di aggressione: il CdS ha interpretato estensivamente il concetto di minaccia, con una prassi iniziata negli anni ’90 e usata anche per conflitti interni a Stati (Kosovo) e per attacchi terroristici; sempre meno riconducibile a crisi interstatali.• Art.41: attribuisce al CdS il potere di adottare misure vincolanti, non implicanti l’uso della forza armata, come l’interruzione di relazioni economiche e diplomatiche, delle comunicazioni ecc… per rendere effettive le proprie decisioni: il classico esempio è l’embargo.Caratteristica essenziale della disposizione è l’obbligatorietà per tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, il cui rispetto da tutti può essere preteso; così vale per una sanzione economica, adottata con risoluzione ai sensi del cap.7 e perciò vincolante.Quelle previste all’art.41 sono misure vincolanti ma non tipiche, né tassative, tant’è che dopo la guerra fredda il CdS ha cominciato ad adottare misure “atipiche” (pur sempre obbligatorie e senza impiego di forza armata) e dal 1999,

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coi Talebani, furono adottate le cd. smart sanctions: indirizzate a soggetti specifici (individui) e non a generalità di soggetti, riescono finalmente a colpire i veri responsabili di illeciti; riguardano principalmente la libertà di movimento e il poter disporre dei propri beni. Le smart sanctions hanno comportato difficile applicazione: potrebbero infatti essere ritenute in violazione dei diritti umani per i modi in cui si trattano le identità delle persone; siccome sono però procedimenti amministrativi, né con CEDU né con CGE si può fare qualcosa.Anche la stessa istituzione dei tribunali speciali internazionali è una misura atipica degli anni ’90 ex art.41: per questo è stabilita con risoluzione e non con trattato.• Art.42: se il CdS ritiene inadeguate le misure adottate ai sensi dell’art.41, potrà intraprendere azioni attraverso le forze armate, necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale: queste potranno consistere in azioni dimostrative, blocchi o altre azioni attraverso forze degli Stati membri (rientra negli strumenti alternativi).Nel 1945 l’art.42 andava letto assieme ai 5 successivi (inapplicati), sotto il presupposto della necessaria collaborazione degli Stati.È necessario che ad uno Stato o a un gruppo di Stati sia data l’autorizzazione per dare esecuzione alle misure coercitive →caso emblematico è la ris.687/1990, adottata per rendere possibile l’uso di ogni misura necessaria per ristabilire la sovranità del Kuwait.Molto più spesso l’autorizzazione che viene data è assai restrittiva, come ad esempio un blocco navale per attuare un embargo o l’istituzione di una zona di interdizione al sorvolo per impedire la partecipazione a combattimenti.

PEACEKEEPING, ossia i cd. Caschi Blu.Il peacekeeping (da qui pk) si distingue in due diversi tipi, a seconda del periodo storico e delle capacità.Pk di prima generazione: comportava l’adozione di misure non propriamente coercitive, ma conciliative, ai sensi del cap.6 C.ONU (6 e mezzo). Il contingente di pk di prima generazione era una forza di interposizione, che poteva agire solo col consenso degli Stati territoriali in cui operava e a seguito di un accordo di “cessate il fuoco”. La funzione di tale pk era di deterrente, di monitoraggio della situazione. Gli uomini potevano aprire il fuoco solo in legittima difesa.A seguito di alcune missioni fallimentari, si è istituito un pk di seconda generazione: questo costituisce uno strumento pienamente coercitivo (anche ex art.42), il cui esempio classico è la missione UNIFIL 2 tra Israele e Libano dopo il conflitto del 2006.Il pk di seconda generazione può usare tutti i mezzi necessari per l’esecuzione degli obblighi internazionali (nel caso di UNIFIL 2 erano il disarmo di Hezbollah, il controllo militare sul Libano del sud…)Il pk di seconda generazione è molto più simile al modello di “esercito” previsto dagli articoli inattuati, ma resta uno strumento che deve essere vagliato ogni volta e ogni volta deve ottenere mezzi e uomini.

• A differenza del pk, la missione ISAF in Afganistan p una missione multilaterale a comando NATO e autorizzata dall’ONU: il cap.8 prevede infatti la possibilità che il CdS possa richiedere la collaborazione di organizzazioni regionali di difesa.

Ex art.53, affinché un’organizzazione regionale possa intervenire, serve l’autorizzazione del CdS; alla missione possono partecipare anche Stati terzi.ISAF ha il compito di mantenere, con metodi “robusti” l’ordine pubblico in Afganista e il compito di addestrare le forze di polizia; in Afganistan c’è poi un’altra missione Usa, verso il Pakistan, per la quale gli Usa ancora invocano a legittimarla l’art.51 →il meccanismo del coordinamento, politico, si è rivelato troppo facile da aggirare, tant’è che Usa affermano la complementarietà di ISAF rispetto alla loro missione per non far decadere il loro diritto di autodifesa.Anche al pk di seconda generazione serve l’autorizzazione del governo dello Stato territoriale.

Se uno Stato non da esecuzione ad un obbligo o una sanzione prevista dal CdS, si rischia che lo Stato che ha subito l’attacco armato/danno possa intervenire in legittima difesa; se lo Stato non da esecuzione, viola gli obblighi di diritto internazionale e il CdS potrebbe considerare lo Stato stesso come “collaboratore” al danno.

L’art.94 della Carta ONU prevede il meccanismo di esecuzione coercitiva delle sentenze della CIG, fondato sui poteri del CdS. Fortunatamente i livelli di osservanza spontanea delle regole sono molto elevati, ma in caso in cui lo Stato membro non dia attuazione alla sentenza, qualunque altro Stato parte può fare ricorso al CdS, il quale può, se lo ritiene necessario, fare solo delle raccomandazione non vincolanti o decidere, ex cap.7, quali misure vincolanti adottare per attuare la sentenza. Per questo la prassi si limita solo a tre casi:• UK-Iran: mancata attuazione da parte dell’Iran della sentenza della Corte porta, dopo la verifica sulla giurisdizione, all’esecuzione forzata.

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• Nicaragua-Usa: successivamente alla sentenza del 1986 il Nicaragua ricorre al CdS perché gli Usa non attuano la sentenza →veto Usa in CdS all’esecuzione forzata tramite strumenti. Il Nicaragua chiedeva l’astensione degli Usa dal voto in CdS, ma questa non è stata accettata: no principio nemo iudex in re sua.• Bosnia-Ex Jugoslavia: nel 1993, contenzioso sul genocidio, chiuso nel 2007. La CIG ha concesso delle misure cautelari non attuate dalla ex Jugoslavia; il CdS accoglie e approva una risoluzione per l’esecuzione.

Ruolo degli ordinamenti interni nell’esecuzione coattiva del diritto internazionale: vedi Tanzi, pp 463→477