appunti su cose che contano 7 gen 2010
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Febbre
Un'immagine,un ricordo.
Torno a casa, era sera, era il tempo delle scuole medie. Il buio
che arriva presto, prima del solito e di quanto fossi abituato a
vedere dopo una stagione di sole, ti ricorda che è ora di
mettersi a lavoro, che tutto è ricominciato. Che potrai però
trovare, quando rientri a casa e non c'è nient'altro da fare, il
camino acceso. Magari è martedì e c'è pure l'ennesima partita
dell'Inter in Coppa Uefa. Mio padre ha appena installato
Windows 95. Che novità,e gira un video sul monitor, Good
Times di Edie Brickell. Il senso di inquietudine per il domani
si placa, che poi il domani di allora era solo un'interrogazione
di italiano al massimo. La dimensione del presente serale era
un mondo che già in quel momento spariva, perché arrivava
Windows e tutti i miei floppy con i giochi per MsDos
avrebbero fatto una brutta fine, ma io non lo sapevo. E infatti
non si stava per niente male, del resto le prime riviste con i Cd
pieni zeppi di demo per il nuovo sistema operativo riempivano
il tempo e potevo pure passare ore a frugarci dentro. C'era
pure una sorta di compilation, mi muovevo all'interno di un
astronave lanciata nello spazio, osservando il cosmo illimitato
passare lentamente al di là dei vetri virtuali. In alcune sale
del veicolo spaziale, delle pedane da cui potevo provare i
videogames del futuro. Ma il mio gioco prediletto era proprio
l'interfaccia da cui potevo fare questo.
Insomma, il ripiego nella dimensione individuale, il rifiuto
dell'impegno sociale e della costrizione responsabile, l'utilizzo
volutamente dispersivo del mio tempo; stratagemmi di
sopravvivenza e di equilibrio mentale come il mio blog.
Quando ci devo e ci dovrò essere per gli altri o per un altro non
mancherò, forse. Forse, già. Perché ho sperimentato anche la
possibilità di non rispondere bene più nemmeno a me stesso, a
fronteggiare comportamento e reazioni (del mio io e del mio
corpo) che non conoscevo, non credevo possibili o pensavo di
poter controllare agevolmente, rifuggite in base ad un etica
tutta mia, forse stoltamente elevata al Giusto in un continuo
di mancata umiltà.
Mi è stato detto che spesso ho la forza di volare basso, di non
sbattere i pugni anche quando ci sarebbe necessità. Ho troppa
umiltà allora? Comincio a non crederlo, anche perché di punto
in bianco reagisco. E mi meraviglio. Un post sul blog è una
l'esigenza di razionalizzare la mia vita, e l'anteprima di una
reazione a qualcosa. Ma quale reazione? Forse all'attesa di
qualche mese fino ad un altro post.
Era di questo che volevo parlare?
In fondo non lo so, perché vedi, in fondo il problema è sempre
lo stesso. I pensieri e le riflessioni, le ipotesi e i tarli spingono
con violenza sulle pareti del mio cranio, fanno male e da
qualche parte devono pur uscire ma sono tanti e impazziti,
quando escono trovano spesso una via di fuga inopportuna,
voglio dire, non è da lì che dovevano uscire, forse non erano
nemmeno quelli che dovevano vedere la luce per primi. Regna
il caos e il disordine, l'anarchia della mente che è talmente
profonda ed ampia da divenire ingestibile. Ci vuole qualcuno
che la gestisca da fuori, ecco.
Perché io non basto più probabilmente.
Gestitemi.
Sull'uscio del mio cervello, dicevo, c'è un imbuto pazzesco.
La mia mente esausta vomita. E' un organo del corpo, malato e
pulsante, che rigetta virus da piccole ferite.
E' stato un fine settimana pesante, che ha offerto spunti per
sublimazione di un po'di me.
Scrivo col mio regolare mal di pancia, per la cronaca. In questi
giorni ho sommato più sofferenze, di vario tipo. Chissà perché
ma non riesco mai a scindere gli eventi, ogni cosa che accade
mi da occasione di riflettere su tutto, trovo un nesso a tutte le
dimensioni della mia esistenza.
Come un sistema perfettamente organico, come un tutto le cui
parti sono interconnesse. Ogni volta è il punto della
situazione. O meglio, i due punti. Un discorso aperto, che non
si chiude mai, come la vita. Anche la vita di chi non c'è più,
improvvisamente. Che poi nessuno se ne va per sempre,
sembra retorica ma non lo è affatto, non lo credo affatto.
Il senso di impotenza di fronte agli eventi, già descritto in
passato. Sapere che di fronte a certe dinamiche nulla si può è
intrinsecamente limitante per l'uomo nel mondo. Ma è molto
importante comprendere che se nulla si può, probabilmente
nulla si deve o si dovrebbe. Tutto qua. Mi dispiace
sinceramente per quello che è accaduto, anche se non ho avuto
modo di approfondire un rapporto o entrare nelle coordinate di
un'amicizia propriamente detta. Brando è stata una meteora
feconda nella mia vita, una parentesi di un periodo che ha
impresso una svolta brusca e inaspettata al corso dei miei
eventi. Quando qualcuno se ne va in quel modo, le riflessioni
sono scontate ma non banali. Non mi meraviglio più, so che la
morte non guarda in faccia a nessuno, a chi sei e cosa fai, cosa
hai ottenuto e cosa no, quali sono i tuoi sogni realizzati e quelli
nel cassetto, quanto sei importante per le persone che ti
circondano. La morte non è una punizione e tantomeno
un'eccezione. E'una fase esattamente identica a tante altre
della vita. E'una parte della vita, che noi chiamiamo morte e la
mettiamo in antitesi. Vedere qualcuno andar via così spesso fa
paura perché ci ricorda che potremmo essere noi. E' uno
slancio egoistico, questa paura. Io forse non ho paura di
morire, penso di poterlo dire. Non ne ho di certo paura per me.
Ho avuto tanto, molto di quanto si poteva desiderare. Ho avuto
innanzitutto la cosa di cui più mi importa, ho solo 24 anni e
l'ho avuta già, sono molto fortunato: la stima delle persone che
mi conoscono, senza quasi eccezione chiunque si sia imbattuto
seriamente sulla mia persona ha percepito qualcosa di buono,
questo davvero è sufficiente. Quello insoddisfatto semmai sono
io, sempre irrequieto e scontento di me stesso, causa dei miei
mali e problemi, preda dei guasti e dei circuiti perversi del mio
pensare, che dalla mente vanno al corpo e dal corpo al resto
del mondo.
Ho paura di mancare proprio alle persone che ci tengono,
questo si, questa è la mia unica paura. Non voglio ancora una
volta fare del male a nessuno. Mi dispiacerebbe.
L'altra riflessione è che bisogna fare della propria vita
un'esperienza significativa, per quanto si riesce. Bisogna
godere di tutto e cercare di stare bene. Bisogna difendere a
denti stretti le idee e le persone care, bisogna mettere il cuore
innanzitutto, bisogna vivere al massimo delle proprie
possibilità e anche oltre, ogni giorno. Bisogna impegnarsi per
gli altri, io penso questo. Lo penso davvero! La vita ha un
senso solo se quello che faccio vale per gli altri,
fondamentalmente. E quando dico che bisogna godere, non è
un controsenso. Non è un rigetto di individualismo,
menefreghista ed egoista, che mira a soddisfare me stesso in
base ad un carpe diem, dato che prima o poi tutti passiamo a
miglior vita. E' solo un modo per dire che devo cercare di dare
il giusto valore a quello che gli altri mi danno e che fanno per
me, alle cose belle che la vita mi offre, saperle cogliere e
saperle tenere in alto.
Eppure la morte fa soffrire, se anche si tenta di razionalizzarla
e introdurla nei binari della normalità, che pur gli competono
a pieno titolo. Perché? Forse perché appartiene alla famosa
sfera dell'ingestibile, al di fuori della sfera materiale e
sensoriale: forse la morte richiede uno sforzo in più per
comprenderla. E allora perché sono dispiaciuto? Per ragioni
umane innanzitutto, perché la compassione e l'empatia sono
cose normali. Perché seppur la morte è normale, faremmo
sempre di tutto per tenere un nostro caro attaccato
saldamente alla vita, difenderemo la possibilità di poterlo
vedere, sentire e toccare a fianco a noi con tutte le forze.
Perché la morte è quella parte della vita che non percepiamo
direttamente.
Sto sentendo il peso di una sofferenza, ed è normale che debba
fronteggiarlo. Capisco quanto forte può essere un legame,
anche più forte di quello che potevo immaginare. Me lo dicono
le proporzioni di una reazione. Ho già subito, sette anni fa, la
perdita di una persona molto cara. Molto cara. Ho avuto
certamente il tempo di 'abituarmi' all'idea di una sua
scomparsa, tastando con mano, giorno per giorno e a stretto
contatto,il calvario della malattia durato 3 anni. Ma il sapere
che un male incurabile è sempre dietro l'angolo, e può far
parte di noi improvvisamente, che potrebbe colpirci e
costringerci a convivere con lui fino a trascinarci al di là della
vita, questo si, può essere paragonato a una scomparsa
improvvisa, inaspettata. Il concetto è il medesimo, nessuno è
immune da niente. Tutto è possibile, niente è un'eccezione. La
prima lezione l'ho avuta sette anni fa, ed è inutile sapere che è
così, questo lo capisco bene. E' inutile almeno finchè non ne
constatiamo la veridicità. Come quando ho avuto paura di aver
contratto un brutto virus:avevo paura seriamente, e
cominciamo ad entrare nell'ottica di dover conviverci. La mia
mente ha costruito un'impalcatura che secondo alcuni era
eccessiva, ma era soltanto una fase di preparazione e di
accettazione del destino, del mio destino in quel momento
legittimo, se quello fosse stato. Cominciamo già a dare un
nuovo senso alla mia vita, sbagliando perché è il senso che
dovremmo dargli tutti i giorni, è la verità. Dovremmo dargli il
senso più alto, non posso fare a meno di ripeterlo.
Quando lei se ne andò, una persona era con me, e strinse le
sue braccia sui miei fianchi con grande calore. Non mi lasciò
un istante. Mi teneva con se, mi guardava, mi sorreggeva. In
quella chiesa era con me, i presenti ricordano il suo abbraccio
durato un'ora ininterrotta come lo ricordo io. Ebbene si, fu in
grado di attutire il mio dolore, in maniera forte. Occupava la
mia mente e mi dava forza pensare che quella sensazione
sarebbe proseguita, non mi avrebbe abbandonato, non mi
avrebbe lasciato solo in quel momento di difficoltà, ma
soprattutto dopo, quando la tempesta sarebbe finita, lei
sarebbe stata ancora con me. Era bello. A posteriori mi è
dispiaciuto non aver perso una lacrima quel giorno. Non è
successo. Sono sicuro che il perché è lì. Sono l'antitesi di un
insensibile, una ragione ci sarà ed è quella. Se ora perdessi
una persona molto stretta forse non sarei in grado di
trattenere le lacrime, nonostante gli appoggi. Ma avverebbe
solo in determinati casi, ovvero nei casi in cui l'anima di
queste persone è strettamente connessa con la mia, e questi
casi sono davvero pochi, lo assicuro. Ci sono persone che sono
la mia vita, sono poche. Molte meno di quanto possiate
immaginare. Si contano sulle dita di una mano. Per queste
persone varrebbe la pena versare lacrime.
Comunque non è mai bello scoprirsi impotenti, e capire che
nonostante la mia vicinanza non potrò (e non ho potuto) lenire
il dolore, i pensieri e la sofferenza. Forse chi lo sa, è un po' di
stupida presunzione, avere la pretesa di assorbire con l'amore
il male interiore degli altri. L'affetto non basta, è forse un
discorso ovvio. Un po' come il dire che si è comunque soli. Ho
provato anche un po' di sensi di colpa di fronte ai rimpianti,
perché quando manca una persona cara, la sensazione è che
forse gli abbiamo dedicato meno tempo di quello che meritava.
Vorremo sentirlo ancora una volta almeno. Un impulso tardivo.
Il rimpianto è dunque questo, e io sono in parte responsabile
di questo allontanamento, di questa graduale sparizione
dall'orizzonte. Ho fatto da ponte verso il cambiamento, che ha
causato la fine 'effettiva' (anche se magari non voluta) di un
rapporto, in qualsiasi forma potesse mantenersi. E'successo
così, e me ne dolgo.
Felicità a sprazzi, la sintesi di questo finale.
Queste riflessioni si sommano al turbinio immenso di pensieri
che da tanto tempo mi travolge. Ho scelto una strada difficile e
l'ho fatto in base all'imperativo di vita che ho mostrato
sopra,ovvero quello di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo,
di non avere paura delle responsabilità e dei cambiamenti, di
non mettere mai dei freni di fronte alla volontà e al desiderio,
di castrare i sogni del cuore con i ferrei schemi della ragione.
Potevo stare a casa fino a 30 anni, come tanti. Stavo bene, non
mi mancava nulla. I soldi erano l'ultimo dei problemi. L'amore
non c'era, ma l'amicizia si e con quella avevo trovato uno
splendido equilibrio. Gli interessi erano tanti, la stima del
mondo verso di me alta. La vita era comoda, diciamolo.
L'amore ha cambiato tutto ed ha preso in mano le redini di me
conducendomi a dove sono ora. In una situazione ricca di
ostacoli, è vero. Ogni giorno devo inventarmi la vita, i soldi non
bastano mai e devo ricorrere a stratagemmi per andare avanti.
Ma la vita è così, ho solo anticipato il corso degli eventi,
volontariamente e per questo non mi dolgo. I pochi soldi mi
precludono una vita da giovane e una normale vita di coppia,
non posso fare tante cose che potrei e vorrei fare.
La mia vita ora è frenetica, veloce e impegnativa, non sono più
soltanto lo studente in attesa di una laurea che (anche per
colpa mia) sembra non voler arrivare mai, ma sono un uomo di
fronte ai mille ostacoli della vita, che affronto con difficoltà
nonostante sappia bene che c'è chi naviga in acque ben più
torbide delle mie.
La frenesia quotidiana sottrae tempo ai miei studi, ai miei
interessi, al mio tempo ed anche al nostro, di tempo. Il mio
fisico è eroico e stoico, combatte con onore questi frutti amari
della velocità, ma il mio intestino già di per se delicato ha
subito un ulteriore strattone. Soffro di continuo mal di pancia
da stress e da alimentazione probabilmente, ho dovuto
rinunciare ad un altro dei cardini della mia esistenza, un rito
fondante, un'abitudine che va ben al di la di una bevanda,la
birra. E la cosa è seria, non pensiate. E' quel famoso sistema
interconnesso. Il mio intestino che si ribella al bere ed al
mangiare è solo un simbolo, un sintomo dei tempi che corrono.
Il nervosismo indotto condiziona a 360 gradi la mia/nostra
esistenza, ostacola questa relazione, mette delle nuvole di
fronte ad un sole finora solo immaginato.
Tutto è difficile. Tutto è da superare, mai nulla è limpido
stabilmente.
Mi sono iscritto a pieno titolo nella gabbia protoborghese,
nella durezza delle logiche di sopravvivenza, nella spesa per
mangiare, nell'affitto e nelle bollette, nella benzina, nei
medicinali e nella ricerca di un lavoro che non arriva e non
può ancora arrivare senza una laurea, ma anche con una
laurea non avremo grossi cambiamenti coi tempi che corrono.
Non sono pentito di nulla, questo deve essere chiaro.
Sono affaticato, provato e sotto torchio. Questo si. Ma non sono
solo, e soprattutto era un rischio prevedibile e assunto secondo
responsabilità.
In nome di qualcosa di più grande, che da un senso alla vita.
Tutto questo casino perché la mia vita in fondo un senso
profondo lo dovrà pur avere...
Futuro
Odio le persone che continuano a non capire.
Ma possibile che in questo cazzo di mondo solo io faccio sempre
sforzi per capire, per assecondare, per non urtare nessuno…
oddio,in quest’ultimo punto non riesco tanto bene a dire il
vero. Ma il mio cuore non vorrebbe mai.
Se mi coprissi sul serio di quel mantello individualista che
qualcuno porta non sapendo di portarlo.
Mi dispiace proprio,mi dispiace tanto.
Ma si può essere fatti così? Bene o male decidetelo voi.
Ho bisogno di un altro corpo e un altro cervello.
Il mio cervello ormai è solo un lontano parente malato di
quello che conoscevo prima. Prima avevo una proiezione di
me…ero malinconico e pensatore ma pieno di legittima
autostima. E la proiezione che questa generava era grandiosa.
Mi sentivo una potenza che prima o poi si sarebbe rivelata. Si,
in cuor mio me la tiravo, ero orgoglioso. Pensavo di essere non
solo una bella persona, ma anche una persona valida.
Ora mi sono incattivito, mi sono scoperto duro, irritabile e
anche palesemente incapace e disabile in tutte le cose a cui
tenevo.
Mi farò cambiare questo corpo e questo cervello inservibile,
annerito e fumante. In fondo sono ancora una bella persona?
Sono ancora in grado di essere felice, far felice chi mi circonda
e non arrecare danni a me e agli altri.
Devo tirare il freno ragazzi, altrimenti qui ci schiantiamo di
brutto.
Elogio del NonEssere
Cerco di vedere le cose in prospettiva.
Forse è un errore…in quanto la prospettiva che posso vedere è
la mia, per forza di cose. Del tutto soggettiva. E se avessi
ragione? E se invece ci avessi visto bene?In realtà un ragazzo
di 24 anni oggi non lo sa più se ci ha visto bene o male. Perchè
siamo condannati al precariato esistenziale? Il problema devo
essere per forza io, me lo sento.
Intendiamoci. Se il problema è realmente negli altri e nelle
cose,e io ci ho visto bene e credo alla mia teoria fino in fondo,
le cose non cambiano affatto. Perchè se io fossi diverso,
osservatore meno acuto o semplicemente acceso, non mi
accorgerei di nulla e vivrei felice. Vivrei beato. Quindi gira e
rigira il problema sono io. Uno strano mal di testa, come non
ne avevo mai avuto forse in vita mia, da giorni mi perfora le
tempie ed il cervelletto. La stanchezza comincia a stratificarsi,
l’usura del cervello comincia a mostrare i suoi effetti.
Tento di mantenere un equilibrio ma anche per far questo
bisogna utilizzare energie, e da qualche parte vanno
recuperate. Sento che non posso più trovarle dentro di me.
Spero che qualcuno venga presto in mio soccorso, che accada
quello che è successo altre volte, che la macchina non sbandi e
mi conduca dritto al di fuori da questa tortuosa strada, in
modo che io possa osservare con serenità il paesaggio e
sentirmi bene, come in un pomeriggio sardo al sole delle
domenica. Dove osservo il mondo e mi dico che nonostante
tutto,quel che vedo intorno a me è bellissimo e ce l’ha fatta,e
con lui ce l’ho fatta anch’io. Che sono una parte del tutto e sto
bene, sono a posto veramente. Ho un odore addosso che mi
accende e mi ferisce contemporaneamente. Il flusso del tempo
che scorre e che è passato mi attraversa a flusso continuo, e fa
un gran rumore come quello dell’acqua che circola in quella
maledetta caldaia rotta.Vorrei dare dei pugni al muro se
servisse. C’è un brutto muro natalizio.
L’unica cosa dolce è la testa del micio che sbuca dal cassetto.
Si,sono effettivamente un bimbo, per tante cose.
Mi dolgo anche di questo. Ma è la verità. Devo accettare le
conseguenze della verità.
Che è la parte più difficile,poi.Forse il peggio deve ancora
venire. Credo che l’analisi più lucida che posso fare sia
questa…e cioè che qualcosa che realmente non va esista
davvero, e che ne sono causa in parte.
Credo che abbia fatto e stia continuando a fare tanti errori
soprattutto a causa della mia mente. Ma credo anche che non
posso fare a meno di commetterli in quanto farei un torto alla
mia essenza. E devo accettare la fatalità di fare tanto male in
nome del bene. Il problema c’è. Si può risolvere, forse.Ma ci
vorrebbe un altro, per risolverlo. Io sono parte del problema. E
come tale dovrei risolvere me.
Avete mai visto un problema che si autorisolve?
Qualcosa tra le righe del tempo
Immagino un grande oggetto dalla forma del tempo.
Questo oggetto sono io, e il brivido che mi attraversa è una
costante. E’una costante solo al pensiero, e qualcosa passa
attraverso me, viene da me stesso e viene da prima,
dall’origine. E’trasfigurata,ma è riconoscibile.
Il gatto fa stridere le sue unghie contro la sedia e mi distoglie
temporaneamente dal brivido. Il radon ha tante proprietà…e
non ha perso occasione di ricordarmene una. Quella di
penetrare i corpi, di penetrare il mio corpo e fissare i suoi
radioisotopi sulle pareti dell’anima.
Ruoto vorticosamente su me stesso,alla velocità di 30 giri al
secondo. Ricevo ed emetto radiazioni.
La griglia di internet è di nuovo pronta a fissarne qualcuna.
Nell’etere, schegge di fragilità che appartiene a me e a tutti
coloro che fanno parte della mia categoria. Farsi domande a
risposte,che non avete affatto…e forse non le avete perché le
fate alla persona sbagliata. Non bisogna eccedere con lo
stressare se stessi,allora si potrebbe porre la domanda ad
un’altra persona,magari quella che ci sembra migliore. Ma non
abbiamo affatto le risposte.
Avrei preferito scivolare dalle pareti dell’anima per i miei
difetti consapevoli e caratteriali, piuttosto che per
incontrollabili maledizioni metapsicofisiche. Mi tengo
aggrappato ai brandelli della speranza e della forza
dell’origine,sempre quella poi. Che De Benoist l’ha scritto,che
l’origine è tutto. A suo modo lo diceva anche Rosamunde
Pilcher (mi si perdoni il paragone irriverente) anche se non è il
caso di cui parliamo. E spero di svegliarmi un giorno e poter
tirare un bel sospiro senza incappare nei radioisotopi dolorosi
ormai annidati tra le mura del cuore e della mente. Qualcosa
tra le righe del tempo. Qualcosa di me frena me e l’idea di me
che intendevo proiettare. Sempre di me si parla,ma vorrei
afferrare quel poco di me che si ribella e capirlo. Vorrei anche
un manuale per interpretare il Mondo,il mondo che ho scelto.
Vorrei qualche risposta essenziale alle domande essenziali.
Non chiedo tanto,chiedo il Bignami più ridotto che ci sia.
Non voglio sapere tanto,voglio anche soffrire,non sia mai.
Ma certe cose mi piacerebbe proprio scavalcarle. Sono
diventato gradualmente pagano,ma mi sa che un salto in
cattedrale ce lo faccio lo stesso.
Solo uno (ingorgo cerebrale)
In un certo senso è una sorta di ritorno al passato…forzato se
vogliamo. Anzi, oggi scriverei naturale e necessario. A volte mi
trovo a gestire sensazioni decisamente contrastanti, e mai
avrei pensato che una situazione di questo tipo (per non
chiamarla col suo termine esatto, che non è il caso…) avesse
insite certe contraddizioni. O forse sono come sempre insite nel
mio cervello, lo stesso che non è cambiato di una virgola in
tutti questi mesi, lo stesso che mi portava ad imbrattare un
blog e che mi spinge(va) oggi (?) alle 02.00 a prendere carta e
penna e venire in questa cucina. Sarà la mia “immaginazione
iperattiva”, sarà il mio essere persona profonda, quel che
volete…
Avete presente la sensazione di muro?
Ebbene si, la rivedo far capolino qua e la ogni tanto. Il passato
ritorna, non solo il mio ma anche quello degli altri. Esiste una
sottile linea rossa che lega i tempi e prima o poi ci andiamo a
sbattere contro, non possiamo far finta che non esista e
condizionerà sempre il nostro cammino. Non si può pretendere
che non ci sia stato, vivere come se nulla fosse…allora mi ergo
a difesa del Radonmondo, di ciò che è mio e solo mio, mi
proteggo, non pensavo nemmeno di esserne capace e invece mi
sta venendo naturale. Ne sono in un certo senso contento.
Per una volta, fanculo agli uomini veri. Mettiamoci una
maschera e siamo uomini di carta, che gli uomini di carta sono
più felici. Viva Radon. Due anni fa iniziai a cercare anime
sensibili e scontri fortuiti attraverso i meandri della rete, i
famosi “momenti dello spirito” in cui due essenze si
incontrano…ascolto Brain Salad Surgery degli ELP in questo
istante e mi sembra che il mondo debba finire da un momento
all’altro. La comunicazione non esiste.
C’è la riflessione individuale, altrui…che può cadere in
trappole o strade già percorse, e farmi del male. Molto male.
Non vedere con gli occhi di Radon è naturale, ma è male che
Radon non possa mostrare la sua visuale. E’un difetto
strutturale. Ce la devo fare, per me.
Che strana notte.
E’come fare un numero di telefono e sbagliarlo in
continuazione.
Come tre mesi fa, come sei anni fa, come sempre.
Alla fine si è comunque soli, irrimediabilmente soli e non c’è
nulla da fare.
In ogni caso, devo laurearmi. Lo farò, non so ancora bene
quando ma lo farò. Vivrò solo con i miei spettri, non quelli
degli altri di cui posso fare volentieri a meno. Con i miei, ho
fatto amicizia da tempo. Popolano tutti i miei posts spaziali.
Devi farlo, Radon.
E io credevo che lo si desse per scontato, che lo devo fare.
Che la contingenza a volte è superiore e per essere più uomo
sei meno macchina. Sei più pensiero e meno azione, sei più
trascendenza e meno immanenza. Sei più Radon, e meno
“risultati conseguiti dal Radon”.
Ma sono evidentemente solo anche qui, nel credere alla
giustezza o legittimità delle mie cause.
E sono solo nei giudizi, come voi siete soli nei vostri.
Non esiste la comprensione. La definirei “costruzione mentale
temporanea reciproca”. E’una stolta convinzione.
Ho i brividi lungo la schiena!
Vorrei andare oltre il dolore del mio polso sinistro e del mio
colon ribelle in questo momento, ma fa più male ipotizzare che
chi non ha capito mai, non capirà poi o capirà quel che vuol
capire e vani saranno tutti i miei sforzi.
Siamo soli, gente, siamo soli! Si, sono proprio il tipico esempio
di pensiero senza l’azione. Male. Posso pensare che sia meglio
così, ma solo chi pensa soffre. Sono ripetitivo, sto
esaurendo anche gli argomenti del mio pensiero. Questo
fatto è di una gravità inaudita, immane. Non mi riconosco più.
Tengo i piedi su due staffe per ora. Io banale. Eh si. Sta
succedendo. Non c’è nulla da dire. Ma dai, odio questo discorso
(che poi non è un discorso). Il mondo è un continuo discorso, c’è
sempre da dire. L’uomo è parola. Forse sarebbe meglio dire che
non si sa cosa dire, non si è capaci di dire o non c’è nessuno a
cui dirlo, che sia degno o capace di “far dire”. Forse sono io uno
di quelli, e mi fa male perchè ho SEMPRE creduto il contrario.
Presuntuoso. Ma vale anche il caso opposto. Non voglio
smettere di scrivere, vorrei scrivere o dormire in eterno.Come
cambia il mondo che ci circonda, come cambia. Perchè io non
cambio mai? Eccetto l’autodifesa…
Si può imparare a cambiare? Cambio abitudini, luoghi e azioni
del vivere, idea e atteggiamento, ma non me stesso, c’è una
radice profonda…quella che traspira da ogni Radonpensiero
su queste pagine. Identità? Masochismo? Non vi è confine,
nemmeno differenza. Vorrei essere limitato, pragmatico,
stronzo.A fanculo i posts spaziali. Venti minuti di Radon,
fortissimamente Radon. Solo Radon. Vorrei vedermi tra cinque
anni, anche soltanto un flash, per curiosità. Sicuramente
Emmett “DOC” Brown non sarebbe affatto d’accordo. Sto
perdendo la testa, e questa volta è più grave che perderla per
amore. La sto perdendo per troppo uso. Si sta usurando e non
ce n’è un’altra di ricambio. Ma come si fa a spegnerla? Come?
Karn Evil 9 3rd impression mi sta aiutando…anzi no. E’come
un cancro. Che brividi, che brividi!
Storie
Oggi è finita una storia. Che teoricamente ha visto il suo
epilogo in una sera di settembre, quando come in un
banalissimo film il cielo decise di sottolinearne il definitivo
declino. Ma tale storia ha avuto delle scheggie, non ci si è mai
persi di vista, ci si è frequentati sotto vecchie spoglie,magari
solo per il sesso, o sotto nuove forme ed auspici, si è tentato di
dare nuova linfa ad un qualcosa. Doveva essere un’altra storia,
una storia diversa. Ma alla fine dei conti è stata sempre la
stessa. E non importa se la controparte non la pensa così.
Perchè la penso così io, ed ora ci sono io e basta, per una volta.
Una storia di grandi promesse e aspettative, splendidi
momenti, picchi di grandezza immersi però in un perenne
limbo di discussioni e tentativi di comprensione andati a male.
E alla fine stancano, si sommano, qualcuno somatizza e cova
nell’ombra. C’è chi si è già stancato prima di me.
Evidentemente, non sono io quello guasto, di questo mi do
atto. E a guarnire il tutto c’è sicuramente da qualche parte
una costante mancanza di tatto e sensibilità. Eppure, un velo
di tristezza è calato quando ho acceso la macchina e sono
risalito su. Non so perchè. Forse perchè dopo quasi 4 anni,
seppure sia tu a lasciare volontariamente qualcuno, il distacco
è sempre difficile e la sensazione di perdita è inevitabile.
Suonava “Heroes of Sand” degli Angra, nel mio lettore cd. E
per una storia che finisce, ce n’è un’altra che inizia.
Che è tra le mie braccia da poco più di tre mesi e la stringo
forte. La stringo forte, si, sperando di non farle del male con
questa mia stretta. Ma la tengo vicina al cuore e prego tutti i
giorni che qualcuno la protegga, perchè sento che lo merita.E
le splendide parole che mi hai regalato anche questa sera mi
danno ennesima conferma. Non ho nessuna paura, ho cercato
sempre il coraggio anche quando mi mancava. Ne valeva la
pena. Ne vale la pena sempre! Per te. Che continui ad essere
una splendida sorpresa nella mia vita e che continui a brillare
tra le mie mani. Come un sms che chiedeva un abbraccio, come
una finestra di MSN che lampeggia a tarda notte, come la tua
mano che incontra la mia sul tavolo di un locale…
Ancora oggi continui a splendere come il 28 gennaio, su quel
palco. Ero lì per il mio sogno. Quel primo bacio è l’inizio di un
sogno da cui non vuoi svegliarti, me l’hai detto tu. Dormi
ancora con me...
L'intelligenza sta
“L’intelligenza sta nel cercare con estrema cura
possibili compagni d’avventura”
La storia non si fa con i se, e nemmeno la vita. Però il beneficio
della fantasia come sempre voglio concedermelo. E dunque,
che sarebbe della nostra vita se sapessimo circondarci nel più
dei casi di ottimi compagni d’avventura? Credo che il grosso
delle sofferenze, o più semplicemente delle insoddisfazioni di
tutti i giorni siano date proprio da scelte non azzeccate
riguardo alle persone di cui ci circondiamo. Voi direte, il bello
della vita è anche qui: la perfezione non esiste e non sarebbe
nemmeno auspicabile. L’imprevisto, la novità, lo scontro e la
maturazione attraverso persone magari anche sbagliate, ma
mai immaginate prima. Vero, ma forse non è di questo che
parlo. In ogni caso, quelle sono persone positive: che portano
squilibro solo per l’attimo in cui ci cozziamo, e gradualmente
cominciano a diventare satelliti amici. Vi sono invece esistenze
di cui sarebbe buono e giusto privarci. Anime oblique, nel
migliore dei casi incompatibili, nel peggiore pericolose o fatali.
Pensateci bene. Eppure non siamo tutti capaci allo stesso
modo di discernere: tra queste persone, si potrebbe a mente
fredda abbozzare una distinzione.
I nemici espliciti, quelli che ci risultano ostili in breve
tempo, in modo inequivocabile, ed anzi in alcune occasioni
talmente diretto che troncare il rapporto può essere più
semplice. Sono pericolosi per gli effetti a breve termine, ma
hanno il vantaggio della riconoscibilità quasi immediata.
I dissimulatori, una macrocategoria che comprende i “falsi
amici” e “gli interessati”, che non sono sempre la stessa cosa.
Anche questi vengono alla lunga allo scoperto, ma non è
sempre facile capire fino a che punto agiscano per interesse o
siano persone deboli, che non fanno trasparire quello spirito di
amicizia che tanto ci attenderemmo in alcune occasioni.
Sono difficilissimi da scovare.
Gli insensibili, quelli che possono avere anche un’essenza
buona, e vivere un rapporto in buona fede, con lealtà e
sincerità: ma hanno delle carenze sottilissime dal punto di
vista umano, a volte peccano di individualismo e profondità,
tatto e capacità di calarsi nella profondità del diverso, del
nostro Io. E’ la mancanza di una qualità spirituale.
E’ triste dirlo, ma dovremmo evitare anche queste persone.
Anche costoro in realtà sono più eterei e nascosti di quanto
possa sembrare.
Gli ossessivi, che hanno in comune con gli insensibili la
mancanza di tatto e discrezione, con il distinguo che questi
possono benissimo non essere in realtà “amici”, ma agire in
malafede (in tal caso si apparentano ai dissimulatori) o per
una pura contingenza che li ha portati ad incrociarsi con noi.
Dopo aver capito la tua bontà, non vedono il discrimine tra il
momento per dare e il momento per ricevere: non capiscono
più che ciò che tu dai è gratuito, e non dovuto.
Chiedono, chiedono, chiedono sempre. Magari in fondo non
“pretendono”, ma si pongono esattamente come se lo
facessero.E cascano dalle nuvole alla prima reazione
scomposta, ma legittima. Non sempre è chiaro il metodo per
identificarli. Sulfurei e ambigui anche loro.
Gli autistici, che sono affini agli insensibili, con la differenza
che non solo sono incapaci di capire il diverso, ma nemmeno ci
provano con la dialettica. Vivono nel loro esclusivo mondo e
alla prima divergenza non è che “sbagliano” l’interpretazione
del tuo modo di vedere le cose come appunto, gli insensibili,
ma proprio non vogliono saperne. Questi sono abbastanza
visibili, per nostra fortuna.
Gli obbligati, quelli di cui percepiamo (subito o dopo un po’,
in tal caso non conta più) un’essenza negativa o incompatibile
con la nostra, ma che per forza di cose siamo costretti a
mantenere nella nostra orbita, vuoi per motivi di educazione,
convivenza oppure è tristissimo dirlo per stretta convenienza.
Siamo a questo punto dei dissimulatori noi stessi? No, non
credo…semplicemente mi piace pensare che siamo persone “in
attesa” dell’occasione per rimediare a questa cattiva scelta,
eliminando queste presenze solo nel momento in cui questa
decisione non sia più nociva che mantenerle. Insomma, ci
libereremo di questi, cercando però di limitare i danni che ci
siamo già fatti legandoli a noi.
I virtuosi fatali, quelli che ci hanno fulminato magari per
una superba qualità specifica, o per un misterioso fascino, di
cui non riusciamo ad afferrare verso e direzione, ma che come
una calamita ci attrae. Può andarci però male, e quando
realizziamo che questo verso è orientato ad un polo che non ci
piace per nulla, potrebbe essere tardi: sarà difficoltoso
liberarci di tali virtuosi del negativo. Avranno già fatto grossi
danni, o potrebbero farne esponenzialmente sempre di
maggiori. Sono riconoscibili, ma appunto in ritardo, ed è
questo il loro potenziale oscuro.
Incommunicado
Vorrei raccontare le sensazioni della mia città, soprattutto
nella notte.Sensazioni nate spesso da un niente, che generano
grandi emozioni personali. Forse qualcuno le chiamava
epifanie, punti notevoli dell’esistenza, che ci passano davanti
agli occhi e non sappiamo perchè sono così importanti, ma è
evidente che lo sono. Paradossalmente si fondono ad emozioni
del passato, anche piuttosto remoto, ad un cielo stellato estivo
quando eri bambino come ad uno prossimo dove una nave si
staglia sullo sfondo con le sue luci accese.
O in un locale fumoso e sempre pieno, o sulla strada, o nella
macchina con i vetri appannati. Tra la musica assordante,
quando ci si saluta, quando ci si osserva e ci si sorride. Quando
non si fa proprio niente, ma lo si fa con piacere.
Sulla spiaggia alle 3 di notte,persino anche in un parcheggio.
Non hanno niente in comune, questi momenti. Siamo anche in
luoghi diversi. Sempre in luoghi diversi.
Con persone diverse, ridiamo oppure tiriamo le somme di un
presente ogni minuto già passato. Ma è una dolce malinconia.
Sarebbe bello attualizzare sempre questo presente.
Eppure non è possibile, naturalmente. Vorrei.
Non è possibile darsi interamente (ed è probabilmente un
bene). Mi viene però da pensare che in realtà non ci si da per
nulla. Non ci si può mai mostrare realmente, non è possibile
spiegare cosa si vede e si sente, come lo si vede e quanto lo si
sente. Come si sente anche una gran stronzata, insignificante
per i più, per tutti. Cruciale per noi, magari nella notte della
tua città, in quei costanti attimi.E forse la comunicazione tra
gli esseri umani non esiste. Forse è soltanto un compromesso,
un eterno compromesso. Ed in realtà due persone che si
intendono sono solamente quelle che accettano di miglior
grado i compromessi.Anche quello che ho scritto…a chi
importa in fondo ? Davvero. Pensateci bene. In fondo ?
Il cuore del natale
Tacete, voi adorabili stronzi.Tutti quanti insieme.
Non c’è nulla che potete cambiare.
Avete perso il vostro tempo, lo avete perso da tanti anni.
Siamo arrivati al punto di non ritorno. E voi altri, che in
buona fede dispensate ovvietà, tacete!
La forza di gravità è cambiata da tempo.Mi date fastidio.
Non siete più una proiezione gradevole. Vi userò come oggetti
di piacere, mi riserverò una poltrona d’onore al vostro cospetto
in ogni occasione. Ho studiato il libro delle mie massime,
all’interrogazione mi presenterò volontario. E se oltre il muro
dominerà il vuoto, la gioia o la tempesta, voi non vi godrete
mai lo spettacolo. Mai. Si chiude il sipario.
Te la do io la libertà
Finanziare progetti di tecnologizzazione di aree in posizione
subordinata o secondaria rispetto all'Occidente
industrializzato: prospettiva certo non nuova e richiamata di
recente da un dossier sulle reti pubbliche nazionali. Torna
dunque in gioco la questione del Digital Divide, ovvero il
divario digitale (inerente al possesso e alla diffusione di
moderne tecnologie) evidenziabile tra le zone del globo, che
assume implicazioni degne di attenzione soprattutto nel caso
del suo connubio col settore della comunicazione. In una
situazione geopolitica come quella attuale, delineatesi in
maniera estremamente evidente i rapporti di forza, quali le
prospettive per le “diversità” del mondo di poter lanciare – e
far trasparire – messaggi differenti, se prive dei medesimi
canali di scambio? Quale l'agibilità mediatica – e
conseguentemente politicoculturale – di modus vivendi e
operandi “altri”, al di fuori dei mezzi che il dominante Primo
Mondo utilizza? Internet in primo luogo, ma anche tecnologia
satellitare, telefonia mobile e tutto ciò che la rivoluzione
digitale comprende sono la conditio sine qua non per la
“trasmissione” globale della diversità? Diversi paradossi sono
celati dietro una certa tipologia di ragionamento: sorge infatti
il dubbio di trovarsi di fronte all'ennesima rilettura della (vera
o presunta) filantropia liberale, secondo cui “una parte” del
mondo possiederebbe le insindacabili chiavi per la libertà “dei
più”, gli elementi neutri e pacifici a disposizione dell'umanità
intera per la propria incondizionata espressione. Dopo i diritti
umani, ecco i diritti digitali. In questo senso, un notebook tra
le mani degli aborigeni australiani può essere accolto come un
segno della generosità occidentale; o come una prosecuzione
del colonialismo secondo altri mezzi, in relazione ai punti di
vista. Ha certamente qualche fondamento l'osservazione
secondo cui la riduzione del gap digitale sia necessaria non in
nome di una ineluttabile ideologia del Progresso, che vede il
ritardo dei fratelli minori dell'umanità come lacuna da
colmare, quanto piuttosto come soluzione politica ad una
oggettiva configurazione di rapporti di forza: vale a dire che le
superpotenze, omologanti e totalizzanti per eccellenza,
traggono linfa vitale dalla stessa situazione di predominio
sulla comunicazione digitale, resa ormai unico mezzo di
effettiva trasmissione dell'informazione. E' però altrettanto
vero che lo scenario geopolitico e l'omologazione culturale
vanno di pari passo con l'ampliamento progressivo dei mercati,
siano essi quelli inerenti alla tecnologia, siano essi conseguenti
all'informazionemerce. E' dunque sempre lecito interrogarsi
sulle operazioni pianificate come quelle ricordate in apertura
di questo articolo, nel caso in cui vengano promosse da
istituzioni governative, cartelli commerciali ma anche da
associazioni noprofit. Certamente la globalizzazione – laddove
è in fase oramai avanzata – non necessariamente dovrà
tradursi nel dominio dei medesimi modelli e valori mercantili,
ma la sua forzata prosecuzione tramite gli oggetti della
tecnologia digitale dimostra quantomeno che la lezione di
Marshall McLuhan ha probabilmente da attendere per esser
compresa; ovvero che “il medium è il messaggio”, e non
soltanto un significante neutro al quale il popolo Maroon del
Suriname o i contadini del Vietnam potranno integralmente
imprimere il segno della propria specificità, magari
trasformandola in oggetto politico. Versione conciliante con
certi intenti filantropici, ma poco attenta ai meccanismi
deformanti che il medium opera sulla percezione di chi lo
utilizza; l'estensione di se stessi quasi in senso fisico, uno
spazio e tempo appiattiti e intercambiabili, un'idea di libertà
corrispondente a quella moderna, riposta sulla quantità (di
immagini illusorie, suoni e luoghi virtuali, di informazioni
troppe e tutte equivalenti, come su Internet – ecc. ecc.)
piuttosto che sulla qualità di un vissuto quotidiano,
quest'ultimo magari davvero fondante per la singola
specificità. E' questo il vero ruolo che dovrebbe assumere una
politica attenta agli “usi della diversità”, per riprendere una
felice espressione di Clifford Geertz; permettere alle
singolarità di dimostrarsi e comunicare secondo mezzi e modi
che in primo luogo esse stesse ritengono opportuni (sempre che
lo ritengano). Prima ancora che fornire linguaggi e oggetti “più
adatti” ad essere se stessi. Evitando gli estremi opposti, per
cui pools di antropologi scoraggiano gli indiani d'America dal
dotarsi di strumenti della tecnologia; se anche alcune
dinamiche possono avere radici esogene (ad esempio, nella
colonizzazione dell'immaginario) ma nel contempo mostrano
autonome decisioni endogene, è altrettanto grottesco ergersi a
tutori della libertà di una comunità altra.
Sposando però programmi di dotazione massiva di telefoni
cellulari per i Tuareg, più che un servizio alla diversità, si
rende un ennesimo omaggio alla società mercantile.
Calciopoli a parte
Diviene davvero difficile –in un sistema dominato dai valori
mercantili riconoscere, qualora compaia, un fenomeno non
determinato o intaccato dalla dura legge del profitto.
Quand’anche un misfatto politico o un intrigo economico viene
a galla e vede la sua risoluzione a suon di provvedimenti legali
o risvolti giudiziari, si è tristemente costretti a chiedersi a
propria volta quale sia il nuovo “interesse” a guida del
meccanismo. Un po’ come chiedersi “chi paga” a proposito di
un quotidiano o di una testata di informazione per avere le
giuste risposte sul perché dei contenuti. E sopra le radici
putrescenti di un intero sistema c’è il pubblico, spesso non
avveduto e cieco di passione, o assolutamente consenziente e
connivente se avveduto. Così è per il mondo del calcio.
Calciopoli o meno, il cittadinotifoso medio non è minimamente
intaccato o scosso dai movimenti così eclatanti del 2006. Un po’
perché in questo stritolante ingranaggio di lavoroproduzione
profitto, chiedere al comune piccoloborghese di rinunciare al
credo di una passione (e dunque alla sua unica via di fuga
dalla frenesia della quotidianità) solo perché altri signorotti ne
hanno fatto un giocattolo ultramiliardario continua a
sembrarmi eccessivo, oltre che ingiusto. In altri termini, anche
se il calcio è malato, ce lo teniamo così perché nonostante tutto
vogliamo avere ancora qualcosa in cui credere. Un po’ perché
certe bravate sono entrate così tanto in circolo
nell’immaginario comune che non solo vengono accettate, ma
persino condivise e ritenute ordinarie. I Moggi e i Galliani
fanno quel che fanno perché è normale che lo facciano. Si
sapeva più o meno tutto. Si immaginava più o meno tutto. La
messa al bando della classe arbitrale, il caso Agricola, l’Epo, lo
scandalo dei passaporti, la Gea, il conflitto d’interessi e la
Lega Calcio, i diritti televisivi, la lista è lunga. Ma soprattutto
le decennali dicerie da curva sud, che al di fuori del
provincialismo mantenevano un fondo di verità.
Improvvisamente gli scenari mutano, e i fantasmi che
aleggiavano nell’aria vengono a galla, e lo fanno in sequenza
impeccabile. Le intercettazioni telefoniche innescano un
meccanismo a catena che da origine alla rapidissima caduta
del castello di Calciopoli a colpi di eventi e provvedimenti dalla
puntualità disarmante. Il che, con i tempi che corrono è già
sufficiente per dare il via alla nuova escalation di dubbi.
Operazione corretta e necessaria. Nonché il mestiere primo del
giornalista. Un po’come fa Claudio Cerasa, che sul “Foglio” del
2 dicembre del 2006, ci ricorda che “all'Inter è stato assegnato
uno scudetto da un suo ex consigliere di amministrazione
(Guido Rossi, commissario uscente della Figc, all'Inter dal
1995 al 1999) e dal figlio di un suo ex dipendente (Paolo
Nicoletti, ex subcommissario della Figc, figlio di Francesco
Nicoletti, collaboratore di fiducia di Angelo Moratti, papà di
Massimo Moratti), nell'anno in cui nel cda dell'Inter ci sono tre
membri su otto (Carlo Buora, Pier Francesco Saviotti, Marco
Tronchetti Provera) che fanno (o facevano) capo a un'azienda
guidata da un suo ex consigliere d'amministrazione (Guido
Rossi) e che è anche la stessa (la Telecom) che sponsorizza il
campionato di serie A Tim.” Si tratta di affermazioni
difficilmente contestabili, dati alla mano. Il discorso è in tutto
e per tutto affine a quello della caduta della Prima Repubblica
dopo Tangentopoli: da allora fino ad oggi abbiamo
semplicemente assistito alla continuazione del clientelismo e
dei suoi mali sotto altre vesti. Il palazzo del calcio è sempre lì,
occupato da nuovi signori. La ruota gira per tutti. E L’Inter
vince esattamente come la Vecchia Signora, afferma Cerasa.
Lo ha detto anche Zamparini, che qui è peggio di Moggiopoli.
Anche se la Gea ora si è sciolta (“perché aveva i giocatori più
bravi del mondo”). E chi compie l’escalation adesso lo fa
appunto con la Juventus in B e il Milan penalizzato. Perché
l’Inter ha fatto quel che ha fatto, la Roma ha un direttore
sportivo ex Gea, Guidolin è un ex della Gea e Spinelli è vicino
alla Gea.
Che il calcio non sia lindo e quieto dopo la tempesta è
indubbio, sarebbe piuttosto ingenuo ritenere il contrario. E che
dai meccanismi dominati dall’economia e dalle logiche di
potere non si scappa. Ma certe affermazioni nascondono
probabilmente il proposito di attenuare la portata degli eventi,
uniformando il calderone degli attori alla stregua del “sono
tutti uguali, sono tutti ladri”. Sono piuttosto tutti
imprenditori, è questo che sfugge a Cerasa. E che l’Inter è
senza dubbio prima in classifica perché fa quel che fa – oltre
ad avere indubbiamente un organico tecnicamente impeccabile
, e la Roma viene subito dietro per lo stesso motivo. E gli altri
sono dove sono perché hanno fatto quello che hanno fatto. Lo
hanno fatto, per anni. Hanno svolto certi ruoli, deformato la
struttura del calcio e determinato pesantemente i suoi esiti.
Hanno ripetuto e reiterato i comportamenti, alimentando
sospetti e polemiche domenica dopo domenica. Hanno scritto
una storia del calcio non vera. E hanno avuto anche vita
relativamente facile. Di più, hanno alimentato addirittura a
posteriori l’onda dei movimenti auditel relativi alla faccenda,
se è vero che Moggi è tuttora intonso e ha fatto bella mostra di
se e delle sue incomprensibili ragioni nel pomeriggio
domenicale di Raidue. L’Inter, la squadra degli eterni perdenti,
perdeva sul campo. Avrebbe sempre e comunque perso sul
campo per la sciagura di avere una dirigenza suicida nelle
scelte di mercato e nella gestione di organico e allenatore.
Avrebbe continuato a perdere sul piano dell’immagine per
l’incapacità di gestire la fuga di dichiarazioni lesive e notizie
dei suoi giocatori. Avrebbe fatto l’Inter ancora per anni. Ma
avrei voluto continuare a vedere un Inter perdente al cospetto
di una bianconera “squadra di calcio” a tutti gli effetti,
piuttosto che un ibrido sportivopolitico. La Juve ha vinto come
ha vinto, e non c’è dubbio alcuno sulle modalità quantomeno
oscure di almeno 4 o 5 stagioni dei campionati dell’ultimo
decennio. In un sistema di gerarchie di potere, tutti i
pretendenti tendono ad occupare un posto di rilievo nella
piramide. Tutti sono colpevoli, tutti sono poco puliti. Qualcuno
occupava un posto più importante. Qualcuno riusciva ad
arrivare dove altri non arrivavano. Gli altri stavano sotto, e
non determinavano niente. Non contavano niente. Nel
frattempo, giocavano a calcio, magari anche male. Il palazzo è
sempre in piedi, ma è un palazzo più grande, quello
dell’economia e della politica, non soltanto del calcio.
Chi ha pagato gli esiti della vicenda, doveva pagare.
La facile realtà dell'Autaut (2004)
Se è vero, come afferma Ramonet, che al giorno d’oggi il
confine tra informazione e comunicazione è sempre più
difficilmente tracciabile, è forse altrettanto utile ammettere,
abbandonando ogni aspettativa morale, che non esiste la
possibilità di un’informazione per definizione oggettiva. Il
problema non è affatto nuovo.
Ciò che però attualmente spaventa in misura maggiore è
l’unidirezionalità asfissiante delle interpretazioni proposte,
quantomeno attenendosi ai mezzi “che fanno opinione”, con la
televisione in testa. Ed il tanto sbandierato pluralismo liberale
nel contempo si riduce ad uno falso dibattito sul quotidiano
che sa tanto di inevitabile ed ordinaria amministrazione.
E’ di pochi giorni fa la notizia del sequestro di alcuni hard disk
dai servers di Indymedia (noto portale internet di contro
informazione, come si autodefinisce) da parte della polizia
federale americana, la FBI. Al di là dei legittimi dubbi sulle
possibilità giuridiche per una tale “provvedimento” (il
sequestro è avvenuto in territorio britannico) e sugli estremi di
censura, è inevitabile notare come il mezzo internet, nella sua
crescita vertiginosa e potenzialmente libera, possa in parte
creare grattacapi ai difensori della ideologia ufficiale.
La rete antagonista, seppur al suo interno ricca di
contraddizioni ed incongruenze (nonché di schemi ancora una
volta ancorati a vecchie categorie) ha comunque intuito la
necessità di agire sulla società con strumenti tra i più difformi,
conscia che l’associazionismo e l’azione partecipativa è la reale
chiave per scalfire i pregiudizi di un intero sistema,
conseguentemente trasmessi alla mentalità comune.
Internet è un mezzo ambiguo e senza dubbio caotico ; ma è
inutile rifiutarne le opportunità.
Non è purtroppo il tempo di esclusioni, quand’anche un
semplice editoriale del TG5 è in grado di plasmare in un solo
colpo milioni di coscienze. La logica per cui Enrico Mentana in
prima serata pone pressantemente la necessità di un AutAut
tra noi (la “progredita” civiltà occidentale) ed un non meglio
precisato “loro” (il mondo islamico visto come blocco monolitico
ed uniforme) è quella che impone l’utilizzo del maggior numero
di mezzi possibili da parte di chi voglia mostrare il proprio
dissenso. Senza discriminazioni di sorta, compresa ogni
categoria di appartenenza politica o culturale. Purtroppo
attraverso lo strumento del ricatto morale, stimolando i nervi
scoperti dell’ascoltatore tramite il comprensibile sdegno per
decapitazioni ed affini atrocità, si esclude aprioristicamente
ogni dubbio sui sedimenti storici e sulle biasimevoli condotte
politiche che hanno potuto originare il fenomeno del
terrorismo.
Quand’anche tutto ciò che apprendiamo dell’Ossezia è dalle
emozionate parole di un bambino sopravvissuto alla strage,
mentre non una parola sulle pregresse migliaia di vite umane
sulla coscienza del democratico Putin.
Quando’anche si fa ben presto a collocare negli inferi della
storia un popolo “che non sa nulla di eroi ne di football”, come
Sky Tg24 ha apostrofato gli uccisori dell’ex campione
americano Pat Tillman. Per poi scoprire che si tratta
dell’ennesima vittima del fuoco amico : ma poco importa,
almeno al cospetto della aprioristica volontà di chiarire una
volta per tutte chi siano i veri Eroi.
Quand’anche la sinfonia mediatica gioisce alle prime libere
elezioni in Afghanistan, che già funzionano male in Occidente,
figuriamoci in un paese dalla cultura radicalmente difforme e
per di più in cui il candidato “vincente” era stranamente già
noto alle cronache da mesi. Si tratta infatti di Karzai,
consulente della multinazionale americana Unocal, attiva
casualmente nel settore estrattivo di gas e petrolio.
Ma queste sono solo illazioni, ed a pensar male si va in galera,
ma ci si azzecca sempre. E come se non bastasse, la spinta
verso lo scontro tra due civiltà (che forse soltanto due non
sono, in quanto estremamente variegate al loro interno ed anzi
reciprocamente influenzate da millenni) viene fomentato
imponendo una falsa scelta o polarizzazione.
Da una parte il fondamentalista (sempre islamico e mai
occidentalista, in onore alla precisione). Poco importa chiedersi
se combatta per un ideale, se risponda ad una necessità
politica o davvero religiosa. Ancora meno utile è chiedersi se la
causa di talune reazioni sia davvero una interpretazione
univoca dell’Islam quanto piuttosto un sedimento culturale
della propria specifica realtà locale, una diversa concezione
dell’uomo o un ‘esasperazione di cui il bel mondo è
responsabile. Dall’altra il democratico uomo moderno, che
rispetta i diritti umani (sua pura invenzione, da difendere
all’occorrenza con le armi ), che si occupa del Grande Fratello
nei servizi dei telegiornali in prima serata e che prima o poi ci
porterà su Marte. D’altronde è questo uno dei ruoli della
politica ; orientare le masse al consenso. Ed il meccanismo è
pienamente legittimo. Ma mai come ora tale consenso non è
per un’idea come tanti credono, quanto piuttosto per l’unica
variabile disponibile, quella offerta dal grande palcoscenico
della comunicazione.
Eroi da esposizione
Se è vero che un popolo ha un bisogno continuo di eroi, è lecito
sperare che gli stessi non vengano alla prova dei fatti –
vilipesi nel loro stesso status. Nicola Calipari probabilmente
eroe lo era davvero, altro non fosse che per il suo estremo
gesto. Ma c’è il sospetto che questo patriottismo facile ed
mediaticamente indotto – rientrato fino ad’ora in un progetto
di legittimazione cieca ed impulsiva della politica estera del
Governo italiano, o per meglio dire delle élites a stelle e strisce
che ne rappresentano l’ “illuminante” faro – possa viceversa
assumere un corollario grottesco, senza la necessaria luce
sulla vicenda. Se in precedenza gli italici squilli di tromba sono
bastati per serrare le fila contro il feroce nemico islamico,
stavolta la morte viene per mano del “fuoco amico”. Il caso
vuole che il coraggioso operato (e sacrificio) del funzionario del
Sismi venga oscurato nel caso in cui ancora una volta gli
interessi americani prevarranno sul più elementare senso di
giustizia ed orgoglio. Ci si augura insomma che la vicenda del
Cermis abbia insegnato qualcosa, ancor più in tale frangente
dove il contesto è assolutamente più grave. Se non verrà fatta
chiarezza sulle ragioni della sparatoria contro l’auto che
trasportava Giuliana Sgrena e lo sfortunato Calipari,
quest’ultimo sarà un eroe buono per l’acritica memoria del
popolo, ma un utile idiota per chi dovrebbe invece alzare la
voce contro il gendarme planetario. Un eroe “cornuto e
mazziato”, per usare una espressione in tal caso davvero
nazionalpopolare.
La “verità” di comodo, la versione rassicurante di matrice
americana non tarderà ad arrivare, sarà anzi probabilmente
già nell’aria quando il lettore si troverà di fronte a queste
righe. Se tarderà, in ogni caso non potrà essere messa in
discussione. Ad un così grave gesto le risposte sarebbero
dovute arrivare immediatamente; non è ipotizzabile
comportamento migliore per evitare ipotesi di incompetenza
totale o peggio ancora, quelle assurde di una strategia
preordinata. Viceversa la Casabianca ed il comando americano
hanno da subito “spento il cellulare”, e il buon George W.Bush
dopo alcuni giorni ha risposto con decisione: verrà rivelato
qualcosa solo al termine di un’inchiesta di indefinita durata e
di altrettanto imprecisata modalità, in quanto –com’era ovvio
gli “interessi americani sono prioritari”. Il ministro Castelli –e
la richiesta rogatoria internazionale ha avuto presto il
benservito. Scettici o più semplicemente teste pensanti
dovranno sottostare d’ora in poi all’accusa di “pregiudiziale
antiamericanismo”, tutti gli altri passeranno come realisti che
hanno compreso la delicatezza della situazione e la necessità
di “tempo” per dare risposte al tragico evento ; e le risposte –
c’è da giurarci andranno benone, di qualunque tenore siano.
C’è da sperare che l’opinione pubblica sappia trasformare
l’iniziale ondata di sdegno in riflessione critica nei confronti
dell’operato americano e delle sue scelte planetarie, e la
lettura dei quotidiani nei giorni immediatamente successivi
all’accaduto lasciavano trasparire qualche spiraglio di luce.
Ora sarebbe invero più realista ricredersi: dopo la tempesta, la
democratica quiete torna a farsi strada e presto maggioranza e
opposizione hanno chiarito che l’appoggio alle scelte di
Washington “non è in discussione”.
Il bombardamento mediatico è l’unica cosa che persiste con
violenza, al fine di stordire le coscienze piuttosto che muovere
le idee. Il Corriere Della Sera continuerà a presentare i suoi
speciali sulla pagina della cultura per illustrare testi che
spiegano quanto sia diffuso il “pregiudizio” antiamericano;
Libero –così come era stato per “le due Simone”, Baldoni ed
altri continuerà a lanciare strali contro la Sgrena e il suo
compagno, contrariamente ad ogni senso di umanità e pudore;
Mentana (cacciato perché “scomodo” a dire dei ferrei
sostenitori del dualismo destrasinistra) riappare in prima
serata –seppur per ragioni di audience contro il festival
sanremese con uno speciale su Oriana Fallaci, un’italiana di
cui “si sa poco” e di cui si sentiva proprio il bisogno; anche in
Sardegna – su “l’Unione Sarda” si sprecano editoriali che
dimostrano quanta affinità leghi Usa ed Europa.
E mentre il turbinio mediatico continuerà a riscaldare la
medesima minestra inculcando la convinzione che “faccia
discutere”, un numero non quantificabile di dettagli sulla
recente tragedia viene taciuto, dai telegiornali in primo luogo ;
come sempre si vaga nell’oscurità e chissà se davvero quei 700
metri in direzione dell’aeroporto di Baghdad sono realmente “i
più pericolosi” di tutto l’Iraq, come presto ci si è affrettati a
chiarire. Se l’auto aveva superato i precedenti controlli, se la
zona è interamente presidiata da pattuglie americane (e
magari se l’Iraq ora è una nazione libera e democratica) ,
quantomeno è lecito dubitarne e da qualche parte vi è una
falla evidente. In alternativa, rimane lo sconcerto per
l’assoluta impreparazione e l’isterismo di chi ha aperto il fuoco
crivellando l’auto con 300 colpi; permane il dubbio
sull’efficienza organizzativa del comando americano e sulla
regolarità della comunicazione di guerra. Il tutto sommato alle
critiche generali che dall’inizio del conflitto continuano
fortunatamente a sollevarsi –anche se tramite canali non
sempre primari nei confronti della politica estera U.S.A e
delle ragioni del loro intervento armato.
Vi è anche chi –folle e sconsiderato lancia ipotesi come quelle
di un agguato premeditato, atto ad eliminare un potenziale
possessore di informazioni scomode, teoria forse semplicistica
e del tutto funzionale al gioco politico italiano; se davvero si
volesse teorizzare un’azione in malafede, il botto mediatico
maggiore sarebbe derivato viceversa dall’attribuzione di
un’identità islamica agli uccisori, così da confermare
l’ennesimo atto terroristico in un estremo colpo di coda. In
ogni caso, non si preoccupino gli attanti del meccanismo
politico italiano: tutto sta rientrando nei ranghi, presto il caso
verrà dimenticato e gli umori estremi verranno abilmente
riconvertiti in termini di consenso.
Manuale per oscurantisti e vecchi bacucchi
Ed è tempo finalmente di sostituire alla domanda kantiana
“come sono possibili giudizi sintetici a priori?”
un’altra domanda: perché è necessaria la fede in tali giudizi?
è tempo, cioè, di comprendere,che tali giudizi
debbono essere creduti veri allo scopo
di conservare gli esseri della nostra specie;
per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi!
O, detto più chiaramente, duramente e definitivamente:
giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto “essere possibili”;
non ne abbiamo alcun diritto
Friedrich W. Nietzsche
A fare i ribelli non ci si guadagna, dicono. O si è esotici, o
bastiancontrario, oppure oscurantisti, reazionari, retrogradi e
– perché no? – anche vecchi bacucchi. Come in ogni epoca, la
nuova generazione critica la precedente; man mano che si
cresce si critica il mondo in cui si vive e i suoi modelli: era
meglio quando si stava peggio, i treni arrivavano in orario e
magari potevi anche lasciare la porta aperta di notte. Poi
passa il tempo, e tutto si risolve, si “rinnova”, il ciclo si compie
e come dicevano i Beatles in “Revolution”, non sai che andrà
tutto a posto? Arriva, a questo punto, il solito moralizzatore di
turno, con il dito puntato e scandito ritmicamente, a
bofonchiare contro la televisione, internet, i social network, la
democrazia e le elezioni, la libertà individuale ed il
permissivismo – ed aggiungete a piacimento tutti i gingilli e le
“belle cose” che la modernità ha prodotto e ci offre, e che anzi
noi stessi, gnomi brontoloni dell'ultim'ora, utilizziamo e in cui
ci tuffiamo senza poi tante remore. Tutto regolare quindi?
Forse no, forse qualcosa di nuovo sotto il sole c'è. Perchè in
epoca liberale (che poi, stando ai manuali di scienza politica,
nemmeno più tanto tale è) quello che ci offre la società non è la
Verità, la Redenzione, ma soltanto la libertà e la possibilità di
scelta, di partecipazione. Il critico è invece il nostalgico di
tempi e luoghi che è meglio non citare, siano essi rossi o neri, il
nemico della e delle libertà. Del resto, come si fa a criticare
così radicalmente un qualcosa? Sembrerà poco credibile, ma
anche chi scrive è piuttosto ostile al “riduzionismo”, ovvero alla
lettura univoca dei fenomeni ed alla loro vera e propria
riduzione ad una sola dimensione, sia essa quella scientifica,
economica, religiosa o quellochevipare. I cosidetti “nuovi
filosofi” di cui parlava De Benoist, o per tornare alla premessa,
i “filosofi” in toto di cui parlava Nietzsche, non sono forse i veri
detentori e proclamatori della Verità? Di una sola Verità,
benchè democratica e partecipativa?
Per parlarci con più semplicità, come si fa a criticare così
radicalmente la Televisione? I luddisti, distruggendo le
macchine in fabbrica, hanno già fallito una volta. Ed oggi nel
2010 c'è ancora un movimento che porta le televisioni su un
camion e le fracassa di randellate. Pochi a dire il vero, e meno
male dirà la massa. La televisione ha “accresciuto” il livello
culturale di una nazione intera, che questa nazione stessa l'ha
fatta attraverso la lingua e i modelli, i film e i telefilm che
hanno visto tutti e cementato una coscienza nazionale,
un'identità e un sentimento di condivisione di valori che per
quei modelli passavano. Tutti dietro ad una scatola, all'ora di
pranzo o sul divano dopocena: la famiglia italica onesta e
operosa durante la giornata, finalmente unita e complice: la
Rai che parlava nelle case negli anni '60 e '70, coi suoi caroselli
e i suoi intrattenitori così vicini a noi e a cui vogliamo così
bene, l'informazione per tutti, accessibile e palpabile con
mano, l'avvento della TV commerciale negli anni '80 che tanto
ci ha fatto divertire e ridere, che ha cresciuto i nostri bambini
e allietato i nostri pomeriggi e serate con i quiz, i varietà, e poi
lo sport e le canzoni, i pupazzi e le avventure. Come si fa a
parlar male di tutto questo? Si può e si deve. Altrimenti
dovremmo dare degli idioti a fior fior di pensatori come il
compianto Baudrillard, il liberalissimo Popper o il seminale
McLuhan e milioni di altri ricercatori che hanno studiato e
documentato gli effetti nefasti del medium passivizzante per
eccellenza. Si sente spesso affermare che non può mai essere
condannabile il mezzo in sé, ma l'uso che di esso si fa; che esso
è soltanto un contenitore ed è il contenuto a connotarlo. Certo
è che non si può condannare una scatola. Io in questa scatola
posso anche guardare i pesci del mare dei tropici, un
documentario sulla fecondazione in vitro o una commedia
dialettale pugliese. Ma questa frase così tanto ottimista
distrugge – superficialmente ed in un sol colpo – il magistrale
insegnamento secondo cui il medium stesso è il messaggio. A
prescindere da cosa esso ci dica, se ci “informi” bene o male, se
dica o meno la verità (quale verità tra le tante poi?), se sia
educativo o meno per i nostri figli, se ci sia troppa violenza o
sesso, se i modelli che propone sono giusti, se Santoro e Biagi e
Travaglio e Luttazzi e la censura e Berlusconi e i padroni
dell'informazione e l'informazione non è libera e Rai per una
Notte o per tutte le notti. E noi qua a farci dettare la realtà
sempre e comunque, la Realtà della Televisione, bella o brutta,
utile o dannosa. È comunque quella, la Realtà, che fa rima con
Verità, sì, quella verità dei Filosofi, magari democratici e
liberi. Come si faccia a non vedere la ineluttabile passività e
passivizzazione di tutti noi di fronte al mezzo monodirezionale
per eccellenza, rimane un mistero. E qualunque discorso si
possa fare attorno ad essa – la televisione – (culturale,
scientifico, politico e via discorrendo), la passività del fruitore
è inconfutabile. Nemmeno con la famosa interattività si potrà
arrivare a tanto. Il suo picco, finora, direi che è stato il
telecomando Quizzy dei primi anni '90 coi giochi a premi di
Mike Bongiorno. La TV ci detta una realtà che diventa l'unica
possibile, di cui si parlerà a lavoro, nei bar, coi vicini di casa e
sui giornali. E ci preoccuperemo – i più “avveduti”, quelli che
“sanno” e non sono mica capre come gli altri, e magari votano
PD o Di Pietro – di quante fregnacce dicono i TG, di quante
reti possieda il premier, delle epurazioni e delle censure, della
costituzione violata e di tutti i temi scottanti del Dibattito,
quello con la D maiuscola. E nel mentre il consiglio comunale
che si riunisce a pochi minuti da casa nostra decide (o più
spesso NON decide) sul cambiare quel lampione nella nostra
strada difettoso da 10 anni, su quell'appalto che premierà
questo o quel delinquente, sull'ennesimo autovelox da piazzare
chissà dove. Il consiglio regionale deciderà di distruggere un
altro pezzo di costa per un albergo che rimarrà magari chiuso
o deciderà di autorizzare la coltivazione del pomodoro OGM
brevettato in Texas nella tua terra. Il consiglio dei Ministri
deciderà il resto, sempre che non l'abbia già deciso l'Unione
Europea. Ma l'importante è sapere, e meno male che
sappiamo, se solo la televisione ci dicesse la Verità. Se non
creasse un'altra realtà. Ma quello che non capiamo è che la
Realtà comunque la creerebbe e la creerà, e sarà sempre
“altra”, sempre la sua. I più avveduti son preoccupati per i
destini di Santoro e della costituzione, o per la dittatura di
Berlusconi. Gli altri sono preoccupati per l'eliminazione del
loro beniamino su Amici di Maria de Filippi, per la crisi tra
Belen e Corona e qualche altro succulento orpello della nostra
vita. Quelli che la TV la spegneranno, magari daranno una
mano al proprio vicino di casa, pianteranno lattuga o zucchine
in un pezzo di terra; faranno la spesa non seguendo la
pubblicità ma tramite un gruppo di acquisto solidale,
acquistando prodotti a chilometro zero; leggeranno un libro o
impareranno a suonare uno strumento musicale; metteranno
in piedi qualche iniziativa culturale o ricreativa; un concerto,
una festa, una grande cena con gli amici. Faranno una
passeggiata per le vie del centro, parleranno con le persone e
magari decideranno insieme su qualcosa che prema a tutti, per
il proprio quartiere. Costituiranno dei comitati spontanei,
delle assemblee popolari, prenderanno la bicicletta o i mezzi
pubblici e sentiranno la “puzza” di prossimo. Vivranno la
realtà e la cambieranno giorno per giorno, con il loro esistere e
con le loro azioni. Gli altri, continuino pure ad occuparsi di
Santoro. Quello che non si comprende, è che non è affatto
“pericoloso” disinteressarsi dei Grandi Temi. Non è pericoloso
non andare a votare. Non è dannoso distrarsi di fronte alle
avvisaglie di una Dittatura. È pericoloso invece dargli ascolto.
Lasciarli soli, senza seguito e senza utenza: la politicizzazione
delle masse è proprio qui, nel dare un'illusione di
partecipazione attraverso il medium, esautorando così le
collettività dall'azione diretta sul proprio territorio. Non è con
il disinteresse della gente che si crea e alimenta il Potere, ma
con l'appoggio diretto e soprattutto indiretto alla Realtà che
viene proposta e sancita. C'è dentro fino al collo anche chi
sostiene Rai Per Una Notte, Mediaset per Nessuna Giornata,
chi vede in Travaglio il messia dopo Cristo e chi va al lavoro
tutti i giorni orgoglioso con la sua copia del Manifesto
sottobraccio. Siamo tutti complici ed artefici se non ritorniamo
a vivere una volta per tutte. A non volere, per volere di nuovo.
In questo senso “non volere è potere”. Perchè questo volere
oggi è un'illusione, diversa da quella che sosteneva la
comunità nel medioevo. Diversa dai roghi in piazza per
propiziare un raccolto, dal valore del rito pagano e dal
fondamento delle credenze popolari. Noi oggi quelle illusioni
positive le condanniamo e ne sorridiamo – tranne qualche
vecchio bacucco di cui sopra – e ci preoccupiamo della vita di
un unico toro in un arena (rito millenario che – per carità –
potranno gli spagnoli stessi decidere di eliminare,ed con
legittimità a quel punto) senza curarci di 30.000 mucche che
vivono in un metro quadro allevate con cibi tossici e nate già
per morire. Da altro canto, però, non ci curiamo dell'altra
Illusione, quella di “partecipare” con il voto, con il Dibattito
intorno alla Realtà della TV, con il nostro account su
Facebook, con il “diritto di opinione” e con la creazione del
nostro blog, con il tutti in rete attraverso i nostri
palmari/cellulari/smartphones da ogni dove, tutti vicini e tutti
collegati, tutti partecipi e tutti democratici,ma così soli e
lontani. Non volere è anche vivere il proprio territorio, la
propria comunità e il “vero” prossimo – non quello cattolico e
generalizzato di tutto il mondo; non volere è smetterla con i
nostri “giudizi sintetici a priori”, le nostre Verità sui diritti
umani violati in Africa, sui posti – come diceva Gaber – dove
ancora non v'è giustizia, democrazia o libertà. Non volere è
innanzitutto non voler essere invadenti, non porsi in modo
perentorio e definitivo ma nemmeno relativista: è vivere il
proprio guardando il resto in “prospettiva”, calandosi nell'Altro
e facendo della sua esistenza la condizione per la nostra
identità. Guardando al diverso per quello che è e accettandolo,
cogliendone i lati che ci possano arricchire, quando guardiamo
ad esso nella sua realtà, nella sua interezza e non nella Realtà
che ci viene proposta, qualunque essa sia.
Non di network sociali e blog v'è bisogno, in cui il nostro Ego
che traspare è comunque sociale anch'esso, ovvero costruzione
pubblica, riflesso lontano del prossimo che c'è dietro coi suoi
odori e con i suoi umori reali. Internet supera il gap della
monodirezionalità di altri media, ed è in questo importante
correttivo delle distorsioni soprattutto dell'informazione,
parola invero orribile e che richiama già una volontà
totalitaria nella sua etimologia: dare forma, disciplinare,
insegnare. Ma rimane comunque un medium, un tramite
illusiorio e creatore, come un Leviatano, di una realtà che in
pochi casi percentuali ha ricaduta sul vissuto.
Perchè il vissuto è fatto di distanze reali, di fatica e meraviglia
frammiste a paura per ogni nuova scoperta, piuttosto che di
planetarie equivalenze tra un luogo e l'altro solo perchè “viste
in Tv”, o di virtuali amicizie e comunioni di spirito con un
Diverso che ci piace perchè la Rete lo rende uguale e vicino a
noi. Il vissuto è fatto di decisioni e sacrifici, di discussioni con
l'alito del prossimo che ci disturba e ci ricorda che siamo vivi,
di grandi azioni ed imprese da compiere insieme per cambiare
quello che non va, di odori di terra e sapori dei suoi frutti. Il
vissuto è l'accorgersi di cosa succede nella strada a fianco, nel
quartiere che ti ospita, nella terra che ti “confina” ma ti rende
una persona vera. Allora forse non si è dei reazionari ad
enunciare i limiti di una modernità che ha annullato distanze
e frontiere, che ci ha riempito di stimoli e possibilità, ma ha
reso tutto così vuoto ed eguale. Citando un amico, si può
affermare che erano forse meglio i tempi in cui potevi ancora
perderti qualcosa, mentre oggi c'è Youtube e lo puoi rivedere.
O per dirla con l'altrettanto compianto Jean Cau, beati i tempi
in cui non si sapeva nulla. Al Tg delle 20, Carestia in Etiopia.
Uno scheletro vacilla ambulante verso il Nulla. Immagini
terribili, domani tutti ne parleranno. No, hanno già
dimenticato. Tra i Sofficini e il Conto Arancio, anche il mio
negro di 25 chili. Allora c'è un reale bisogno di passaggi al
bosco, di non volere e rifiutare, di “chiamarsi fuori” per
tornare dentro. Senza essere definiti oscurantisti o vecchi
bacucchi, ma forse è ancora troppo presto per pretenderlo.
Altrove
Secondo i dati riportati da Umberto Galimberti, il 53 per cento
degli italiani soffre di disagio psichico per lo più a sfondo
depressivo (34 per cento), e il 32 per cento assume
psicofarmaci il cui consumo è aumentato del 60 per cento negli
ultimi quattro anni: stime decisamente preoccupanti, e che
fanno il paio con i famosi 566 americani su 1000 che ricorrono
all’ausilio di sostanze per fronteggiare la quotidianità. E non a
caso, l’influsso della cultura americana è probabilmente ciò
che fomenta questo progressivo consumo: l’abbattimento del
senso del limite spinge l’individuo, eternamente insoddisfatto
del suo presente e proiettato verso una meta sempre al di là
venire, a ricercare un qualcosa che allevi chimicamente il suo
senso d’ansia, che lo proietti in una condizione di fittizia
onnipotenza e disinibizione. Nulla di differente dal
meccanismo di gran parte delle droghe comuni, con
l’aggravante che la scintilla di tale dinamica è proprio
nell’ideologia del progresso e della scalata al successo. Devo
essere di più, per essere qualcuno. La qualità della vita non è
dunque mai nel “qui ed ora”, ma sempre e perennemente
inafferrabile. Per frenare questo stato ansiogeno, si ricorre ad
aiuti esterni, nell’impossibilità di vedere l’obiettivo. Non
necessariamente tale ausilio è di tipo chimico: qualunque cosa
in grado di sottrarre l’individuo dalla responsabilità del
vissuto reale e di metterlo a contatto con una situazione di
esclusiva agiatezza entra in gioco. E’ il caso ad esempio della
tecnologia: in grado di svolgere numerosi compiti “al posto”
dell’uomo, offre nel contempo ad esso l’illusione di
onnipotenza, di soddisfazione e di controllo non solo della
realtà circostante, ma anche della propria psiche. Gli
psicofarmaci illudono e piuttosto inibiscono il vissuto: la
tecnologia, pervasiva e onnicomprensiva, svolge una funzione
equiparabile. Come lo definisce lo stesso Galimberti,
l’individuo sovrano si illude che con la tecnologia controllerà
ogni sfera dell’esistente, magari anche del personale, rendendo
sempre più “soggettivo” ed integrato a se il mezzo tecnologico
che utilizza. Emblematico è il caso della telefonia cellulare,
medium individuale per eccellenza, che sta evolvendosi sempre
più verso la tipologia di “postazione multimediale portatile”.
Mentre in realtà comanda sempre meno, ed “affida”
inconsapevolmente al mezzo altro la sua prerogativa. Ma è
alleviato dal peso della responsabilità e vive la sua condizione
con maggior tranquillità. Da sottolineare che è stata
sufficiente la sola “diffusione” della tecnologia a generare un
certo tipo di effetto alienante ed espropriante, a prescindere
dalla sua natura. In altri termini, se la prospettata “realtà
virtuale” o i videogames sono piuttosto espliciti nel senso di un
vissuto fittizio ricreato, il resto dei medium no. Eppure
l’effetto è il medesimo. In questo senso, la tecnologia è di per se
una “nuova droga”, un palliativo dei mali moderni, uno
psicofarmaco collettivo. Essa è così presente che diventa
“estensione fisica di se stessi” (Marshall McLuhan). Diviene
affine alla carne stessa, svolgendone al suo posto le funzioni. Il
rapporto tra tecnologia e carne è evidenziato dal regista David
Cronenberg nel suo “Existenz”: qui l’uomo può integrarsi ad
una realtà su misura, tutta tecnologica, interfacciandosi ad
essa proprio come una normalissima periferica hardware, una
porta firewire o usb. Il futuro è a sua misura. Secondo Anna
Pazzaglia, “Il film ci presenta una possibile, irreversibile crisi
dei concetti di identità fisica indotta da uno sviluppo
tecnologico così intenso da ridurre l’uomo a un terminale; e la
macchina, rinnovata in una struttura organica e vivente,
finisce per gestire esistenza e trascendenza dell’uomo stesso”.
Gli elementi ci sono tutti: il senso di onnipotenza ed il futuro
alla propria portata, l’espropriazione di se, l’illusione pronta
alluso per la mente, la propria esistenza proiettata verso un
lido altro. “Se giochiamo bene, noi saremo i vincitori della
battaglia per l'esistenza. Per un'esistenza priva di logica,
insensata, violenta, sensuale e folle, che continua quella
altrettanto insensata, ma anonima, di tutti i giorni”. Anche
Kathryn Bigelow, nel suo film di culto “Strange Days”,
descrive un ipotesi dove lo SQUID, un comunissimo walkman
cerebrale, è in grado di catalogare e riprodurre intere
sequenze di emozioni archiviate, pronte all’uso per un
esistenza soddisfacente. L’individuo è solo, la realtà è
fuggevole. Il rifugio è l’emozione indotta, o ridotta, controllata.
Elezioni sarde tra tifosi e moralizzatori
Alla fine, ha vinto Cappellacci. Anche contro le mie personali
aspettative. E giù tutti a lamentarsi, a gridare al disastro e a
dolersi per i tempi cupi che attenderanno la Sardegna nei
prossimi 5 anni. Ma soprattutto a chiedersi come mai si voti
un Cappellacci di qua e un Berlusconi di là. Ci si chiede da
dove venga la maggioranza silenziosa che vota a destra ma non
lo dice, e come sia possibile che vengano eletti personaggi
rappresentanti di un qualcosa che in Italia profondamente non
va, ed anzi ne sono diretti artefici e complici. E via con i links
di Travaglio che ci arrivano per posta, dove si ripete ciò che è
già scritto da anni in libri da milioni di copie vendute e
decantato tutt'ora sulle reti pubbliche; via con i gruppi su
Facebook di persone che si chiamano fuori in anticipo
dall'operato del neopresidente e via con la divisione del popolo
(parola quantomai vuota) in due ulteriori categorie – già, come
se di categorie non ce ne fossero abbastanza: gli stupidi e gli
ignoranti (i votanti per il centrodestra) contro gli svegli e
avveduti (i votanti del centrosinistra). E durante tutta la
campagna elettorale, mai come ora un culto del capo e del
personaggio: tutti con gli slogan, la locandina “Meglio Soru” in
automobile o come avatar sul forum o nei social networks, le
bandierine in mano a bambine di 5 anni e famiglie distinte dai
papà con la maglietta a righe che al comizio di Cappellacci gli
fanno da guardia bianca spintonando gli studenti “comunisti”
che manifestano contro il decreto Gelmini. Quasi come la
squadra del cuore, si “tifa” un politico. Qualcuno non sa
nemmeno cosa rappresenta e cosa ha combinato
probabilmente Renato Soru, ma è del PD, contrapposto ad una
marionetta di Berlusconi e per questo è meglio, bisogna
votarlo. Ancora una volta Berlusconi è il perno che paralizza
tutta la politica. È la ragione delle decisioni, è il discrimine. Se
facessi la domanda “quali sono le tue idee politiche?”, tanti mi
risponderebbero “sono antiberlusconiano”. Nemmeno fosse
Hegel. Sono “antihegeliano” sarebbe più comprensibile. Non
stiamo parlando di un filosofo della politica, ma di un
imprenditore dalla caratura filosofica di un fungo. E di contro,
ma non mi stupisco, i cultori di un “forza Ugo”, “grande Ugo” e
“sono contento per Ugo” che fino a 10 minuti prima non si
conosceva nemmeno, ma per qualcuno si doveva “tifare”, contro
una sinistra che sa solo attaccare con sberleffi e insulti e per
liberarsi una volta per tutte dei comunisti. Non c'e veramente
nulla di nuovo sotto il sole: è la solita vecchia bagarre tra
quegli orribili e superficiali contenitori vuoti che sono destra e
sinistra, il tutto reso ancora più povero dal fatto che non si
discute più nemmeno di idee ma di volti. Da una parta la
solita sinistra morale, moralista e moralizzatrice ed ora
anche e sempre più garantista , dall'altra la solita destra
borghese, ignorante e pecoreccia. Qualcuno (molti?) dovrebbe
capire che qua non si tratta semplicemente di una questione di
ignoranza, o meglio non soltanto di quella: che la massa è
ignorante e sempre lo sarà, è un dato di fatto. Ed è un altro
dato di fatto che certe cose si sappiano. Chi è delinquente, chi
ha fatto cosa e via discorrendo. Insomma, tanti lo sanno. È
come quando dici che la guerra si fa per il petrolio e pensi che
molti non lo sappiano, e la sostengano solo perché gli
americani sono i buoni e Saddam il cattivo. Sì, una parte lo
crede davvero, come si crede alla Befana o alla combinazione
cocacola e aspirina. Ma altri ti risponderanno impassibili: “Lo
so, ma il petrolio meglio a noi che a loro, no?”. Sono anche
questi i problemi, e non solo gli ignoranti. Dove voglio
arrivare? Voglio arrivare al fatto che è il clientelismo la base
della politica, di questa politica: io do una cosa a te, tu dai una
cosa a me. Ed è alla base non solo di questa politica, ma di
tutto il sistema che la sorregge. Il sistema del liberalismo
democratico e del neoliberismo economico. Non è altro che la
sua estrema conseguenza, non un cancro da esportare per
avere un capitalismo etico e buono per tutti. Dove vige il
profitto, vige anche l'azione più utile per ottenerlo. Soru in
questi 5 anni ha rotto il giocattolo a tanti, e probabilmente ha
distribuito giocattolini ad altrettanti. Evidentemente erano
più quelli che frignavano senza il giocattolo tra le mani. E
gliel'hanno fatta pagare. Erano un pocopercento in più. Le
idee, Berlusconidelinquente, Cappellacci tirapiedi e tutti
questi discorsi non contano niente. Ha votato il 67 per
cento degli aventi diritto. Quelli che non hanno votato, sono gli
indifferenti, gli apatici, i delusi o i menefreghisti. C'è di tutto,
qualcuno lo giustifico e qualcun'altro no. Ma non è il caso di
discuterne qui. Tra quelli che hanno votato, un quarto sono i
moralizzatori, un quarto gli ignoranti e l'altra metà gli
interessati. Quelli del “ti do una cosa e mi dai una cosa”.
Quelli delle promesse, degli appalti e dei piani di governo per i
prossimi 5 anni. Chi se ne frega di cosa dice Travaglio. È vero,
ma non ci costruirò l'albergo o quello che mi pare se ascolto
quello che dice. Cari moralizzatori, è questo che dovete
mettervi in testa. E che anche con un Soru rinnovato
presidente della regione, i motivi alla base di tanto scempio
“morale” non verranno eliminati: un imprenditore, avvezzo
alla stessa logica, un Berluschino della Sardegna, dispensatore
di aperture alla sua metà. Niente di più. Della destra e dei
suoi elettori a dire il vero finora ho parlato poco, ma è perché
c'è realmente da dire poco: che sia e siano da sempre refrattari
alla cultura ed all'informazione è un dato di fatto. Lo sono da
sempre. A informarsi si rischia seriamente di pensare, e non
va mica bene. Parlare male dell'ignoranza di una parte
dell'elettorato è come sparare sulla croce rossa. È una cosa
fisiologica e non ci spiega tutti i perché dell'andazzo dell'Italia
e del mondo. La cosa di cui ci dovremmo preoccupare noi sardi
(che però – lo ripeto – non esistiamo) è che un partito come Irs,
unica realtà degna di attenzione e che esce per ora dalle
logiche che tanto odiamo, abbia preso a malapena il 3 per
cento. Certo, una crescita rispetto alle scorse regionali. Ma chi
sogna in qualcosa di diverso non può e non deve accontentarsi.
Perché fare il tifoso della politica proprio non mi va giù. Non ce
la faccio anche io a tenere bandierine e scrivere slogan. Non
dovrebbe accontentarsi nessuno, se ha veramente nel cuore
quest'isola. È ora di finirla seriamente con le battaglie degli
altri. Ma quale Soru o Cappellacci. Scegliete voi stessi per una
buona volta!
E l'italiano cantava
Certo non ci si deve attendere un improvviso segnale di
complessità dalla massa, una risposta sopra la media dalle
menti ormai sature del brodo catodico. Eppure in Italia
esistono valide realtà musicali che sono ormai molto più che
dei fermenti underground. Nomi già illustri, che se trovassimo
già stabilmente ai primi posti della classifica non avremmo di
che lamentarci. Invece possono fare al massimo il botto per
qualche settimana e dunque attestarsi dal 25°mo posto in giù.
Per non andare lontano, abbiamo Vinicio Capossela, i
Quintorigo, gli stessi Subsonica. Il finale del 2006 ci ha
riservato un triste panorama. A guidare la trafila, la povera
Elisa, il cui innegabile talento è andato via via naufragando
negli anni e nelle melense strategie di commercializzazione
della sua figura. All’inizio unico prodotto italiano veramente
esportabile dopo Toto Cutugno nei paesi dell’Est, attualmente
fenomeno pop dalla voce commovente che stride con la
banalità dei suoni sui quali si staglia. Certo, il rock femminile
Morrissette style di “Pipes & Flowers” degli esordi non brillava
per originalità, ma era il primo tentativo di creare in Italia un
suono lontano dai classici stereotipi dell’italica donna dietro il
microfono. E con la crescita e i successivi album (fino a Then
Comes The Sun) le reminiscenze colte fanno capolino qua e la.
Del resto, Bjork è il prototipo esatto di ciò che non sentirete
mai in un disco italiano. E’ la volta poi di “Luce”, i testi in
italiano, che bello, finalmente anche Elisa canta in Italiano.
Basta con questo anglicismo, tendenza da invertire. Il singolo
“Tomorrow”, tratto da Lotus, mostra preoccupanti segni di
involuzione stilistica. Ed ora tenetevi “Gli ostacoli del cuore”,
in duetto con Ligabue. Ci hanno sterilizzato anche Elisa.
Subito dopo la Pausini. Lei canta. Ho sempre pensato che fosse
una cantante. Di pianobar, per l’esattezza. E così era, come
mostravano i suoi video di “Meteore” agli esordi. Ecco, come
fare di un bluff un fenomeno internazionale. C’è chi mi giura
che dal vivo è una potenza, e non ho ragioni di dubitarne.
Credo che anni e anni di esperienza sul palco le abbiano
fornito quelle capacità vocali e di presenza di cui difettava ai
primordi della sua carriera. Ma resta una cantante di
pianobar italiano, con chili di exciter alla voce e una mancanza
assoluta di duttilità stilistica. Intendiamoci, non è che si debba
avere necessariamente un bagaglio accademico soul o in
generale di black music per assurgere allo status di grande
cantante. Ma sentire i suoi gorgheggi in coda alle frasi in puro
stile italico ma dall’intento internazionale mi mette ogni volta
i brividi. Ma ai miei vicini piace, non si accorgono di nulla. Ma
che brava, la Pausini. Seguita da Renato Zero. Lo reputavo un
grandissimo artista. Istrionico e dissacrante, capace di
disturbare con stile. L’ironia dei suoi vecchissimi brani si
sposava a musiche che definire scintillanti è dir poco. L’epoca
del “Triangolo” e di “Mi Vendo” oggi è confinata nei cd dei Dj’s
per serate discorevival e addirittura trash. Ed oggi per
l’appunto pezzi di quel tipo strapperebbero ai più un sorriso di
compassione. Non sarebbero affatto compresi. Eppure avevano
musicalità e perizia strumentale da vendere. Teniamoci invece
le sue noiosissime ballate e canzoni che ci ricordano che lui è
qui, che il sentimento trionferà e che siamo grandi. Del resto
non è solo un problema suo. Tutti i vecchi cantautori italiani
eccetto Battiato sono effetti da una strana sindrome di
rincoglionimento senile. Pino Daniele aveva una band
stratosferica, da quando si è messo a viaggiare con la scusa
delle influenze etniche ha snaturato totalmente la botta del
suo sound, poi si è innamorato e non ci ha capito più niente.
Fossati è fissato col mare, Baglioni fa raccolte di brani altrui, e
vende i cd in edicola. De Gregori sforna dischi con pezzi che
dopo 3 giorni ha bisogno di riascoltare altrimenti se li
dimentica pure lui, Zucchero ci prende bellamente in giro e se
la ride; il suo singolo “Bacco Perbacco” è l’ennesima
riproposizione dello stesso schema idiotblues. Ha rubato
sprazzi di grande black music, l’ha fatta sublimare in “Spirito
Divino” (tutto sommato all’altezza dei numerosi mesi in cui è
rimasto in classifica), poi una discreta parentesi con
Bluesugar, ed in seguito il nulla più assoluto. Ha pensato bene
di ridicolizzare uno schema e ripeterlo fino alla nausea. E ogni
tanto rubare brani di qua e di là. Del resto, squadra che vince
non si cambia. E trovategli una donna, diamine, che deve avere
il testosterone a mille e scrive sempre per doppi sensi da un
paio d’anni. Poi viene Vasco, che tutto sommato credo sia
sincero in quello che fa. Da sempre la sua forma rock è stata
italiana nel risultato, ma rozza negli intenti. Di Baglioni ne
abbiamo già parlato, aggiungo inoltre che anche nel suo
periodo di grazia lo trovavo buono al massimo per gli iscritti
all’Azione Cattolica. Segue Mina, il cui anonimato mediatico
dovrebbe essere corrisposto da quello musicale. Chi ha bisogno
di Mina oggi? C’è anche Venditti, il mio preferito. Adoro
principalmente i suoi occhiali, e quelle lenti ambrate. Della
sua musica non ho mai capito il perché. Ci canta l’amore,
l’altra mattina ascoltavo il testo del suo singolo in radio. Non
l’ho mai conosciuto bene, e in fondo reputavo che magari otesse
anche essere un cantautore al di fuori della classica rima
baciata. Mi chiamo laura e sono laureata, dopo mille concorsi
faccio l'impiegata. Ma grande Venditti, che ci racconta storie
minime con uno stile minimo. L’Italia che cresce, che cambia,
questa si che è la vera realtà italiana, che bisogno c’è di andare
oltre Laura che fa l’impiegata, una volta laureata?
Musicalmente è quanto di più stantio si possa ascoltare oggi, i
suoi giri armonici e turnaround italianissimi sono pungenti
per le casalinghe al massimo, e bisognerebbe ricordargli che
gli anni ’80 sono finiti da un pezzo, nei suoni e nelle melodie.
All’undicesima c’è Gigi D’Alessio, il quale meriterebbe un
articolo a parte. E poi Nek, i Pooh, l’inconcepibile Tiziano
Ferro drammatica la sua figura al concerto di Natale, dove
mostra in mondovisione i suoi evidenti limiti vocali,
probabilmente un buon corista ma un pessimo solista alle
prese con la musica nera, però se il mio vicino dice che è bravo
un motivo ci sarà. Siamo nel 2007 ed arriva il festival di
Sanremo. Torna Milva e Albano, tra le novità Roby Facchinetti
col figlio Dj Francesco. Sono già in fibrillazione, anche se sono
deluso per l’assenza dell’Orso Bear della Grande Casa Blu e i
Teletubbies.
Alla musica ci pensa XFactor
Una volta lessi su “Rockstar” qualcuno che passava in
rassegna i cantautori italiani di vecchia data, i pezzi grossi
insomma, accusandoli di sindrome da rincoglionimento senile.
Tra questi, ora vi è ufficialmente anche Francesco Guccini, che
ha dichiarato che “XFactor” (format fantasmagorico di raidue
dalle ambizioni di talent show che non sarà sfuggito ai più)
salverà la musica in Italia. Già, perché si sentiva proprio il
bisogno di questo programma. Il sillogismo aristotelico
gucciniano suona un po’ così: i giovani musicisti italiani hanno
sempre meno possibilità e visibilità, XFactor offre entrambe le
cose, ergo XFactor salverà la musica. Il problema è sempre lo
stesso: nessuno può affermare che attraverso gli Amici di
Turno (e di Maria, di Morgan e di Simona Ventura) possa
passare un po’ di qualità, qualcuno dotato e addirittura
qualcuno dottissimo. È la legge dei numeri. Il problema è il
messaggio che l’esistenza stessa di questi formats televisivi
lancia nella testa degli aspiranti artisti che a milioni seguono
dalla parte opposta del teleschermo. Nel mondo dell’immagine,
si sa, niente immagine equivale a niente esistenza. In un
epoca in cui non si vendono più dischi (o se ne vendono sempre
meno) e i “cantanti” guadagnano sempre di più da
partecipazioni, eventi mediatici, pubblicità e sponsors
piuttosto che dai prodotti discografici, apparire è l’unica
strada per diventare non principalmente cantanti, ma “figure”
musicali pronte al consumo. Chi vuole andare a Talent1, chi
pensa che la scuola di Amici sia la scuola di musica italiana
per eccellenza, chi vuole andare a XFactor e via partecipando.
Magari saltando la gavetta, perché un Marco Carta qui a
Cagliari, nei clubs e nei locali, nelle bands e nei festival, non
l’ha mai visto nessuno, e con tutto il talento che può avere,
poteva provenire soltanto dal suo mestiere di parrucchiere. E
la gavetta è anche quella, quella per 50 euro a serata
caricandosi chili e chili di strumenti nella Panda, cercando di
acchiappare il pubblico di un locale e litigando con i gestori,
mangiando spesso poco e male e rientrando a casa distrutti
alle 6 del mattino dopo un lungo viaggio. Questo non ti fa
diventare automaticamente un vero artista, ma la strada
passa da lì. Anche da lì. Però intanto aprono scuole in tutta
Italia sulla falsariga di quella di Maria de Filippi e la sua
ghenga, più che amici, “amichetti”: le mamme fanno a gara ad
iscrivere le figlie convinte che diventeranno grandi “cantanti”.
Le tv locali imitano i formats e via discorrendo. Cosa c’entri
tutto questo con la Musica che finora ho conosciuto io, me lo
devono ancora spiegare. Potrei fare anche io il “professore” di
queste “scuole”. Con tutto il rispetto per molti dei nomi che
siedono dietro il banco di Canale 5. Jurman è un signor
cantante e un signor didatta, e non gli faccio una colpa di
presenziare a quel format, in quanto è uno dei pochi che
mantiene il suo rigore e la sua professionalità. Fa il suo lavoro,
in televisione ma fa il suo lavoro. E poi ci sono tutte le cose
tremende dei reality: professori che – istigati da copioni o
mercenari consapevoli – litigano tra loro, sputtanando
pubblicamente il concetto di autorità della figura docente,
dissertando su questioni elementari e promuovendo un
relativismo della conoscenza tecnica/artistica che nuoce
gravemente alla salute dell’artista. Giovani divisi per
“squadre” e in “sfida”, in perenne competizione, come se
cantare ognuno col proprio stile, magari con equivalente
capacità ma con diversità equivalesse ad una partita di calcio.
Passa il messaggio di una musica in competizione, pienamente
funzionale al mondo del mercato, dell’homo homini lupus e
dell’artista artista lupus, dove il vincente è solo il più
funzionale al discografico, alla telecamera o peggio ancora, al
pubblico da casa, costituito (mi vergogno pure a doverlo dire)
da una miriade di squinziette in fumo da menarca, mamme
catodiche e zie nazionalpopolari. Ma si parlava di XFactor, mi
sono infervorato, perdonatemi. Già, XFactor salverà la
musica. La musica poi è nelle mani di Simona Ventura, quindi
siamo in una botte di ferro. Come può la musica italiana (e le
relative nuove leve) passare attraverso il vaglio di soli tre
“giudici”, di cui uno è la neoreginetta del varietà della Rai,
che negli ultimi anni ha assunto un atteggiamento di
onnipotenza (dato dai continui nuovi incarichi e dalla
corrispondente impennata iperbolica di autostima) tale da
farle credere di poter dissertare in prima serata di argomenti
di cui s’intende meno che un lombrico di fisica nucleare? E’
evidente che non capisca una cippa di musica, ma ha il 33% di
facoltà decisionale su quale sarà la prossima Giusy Ferreri.
Che, per inciso, qualche discografico ha pensato da subito di
modellare secondo i canoni americanomorfi di una Amy
Winehouse al pomodoro e basilico. Giusto per chiarire quali
artisti “sinceri” possono venire fuori dalla panacea di raidue.
Morgan poi, poveretto, è un gran musicista e per certi versi un
pesce fuor d’acqua lì, ma ha perso molti punti. Del resto, avrei
dovuto immaginarlo: è un dandy dei poveri, lo è sempre stato e
anche per lui l’immagine è tutto. Della vecchia non parlo, che
poi mi si viene a srotolare il suo curriculum nel campo
discografico italiano e allora vengo tacciato di ignoranza, solo
perché giudico a prescindere dalle carte. Dovrei guardare
meno televisione, già. Ma te la sbattono in faccia, come si fa?
In ogni caso, non si preoccupino i detrattori di chi come me è
sempre pronto a criticare ogni gingillo della modernità tra cui
i reality: torno alla mia vita di musicista fallito, invidioso e
pettegolo: son tranquillo, tanto alla musica ci pensa XFactor.
Le dimensioni (del pensiero) contano
Devo avere il pensiero troppo grande, o gli altri ce l’hanno
troppo piccolo. Si, forse più la seconda. Chiedo ai più accorti di
tentare di recuperarmi, perché la mia deriva reazionaria – con
tanto di stereotipato astio per la massa, alla Gustave Le Bon
per intenderci – sta assumendo proporzioni preoccupanti. Son
quelli come me che hanno portato al “nazifascismo”, che poi
non è mai esistito ma i più lo credono e sono abbastanza
stanco dalla mia giornata di lavoro per convincerli del
contrario. Però accadono un sacco di cose buffe. Ci sono
persone che si ritengono differenti, dagli altri e tra esse, che si
osteggiano e si denigrano. Che criticano idee, concetti, o che al
contrario promuovono visioni (visioni?) e affermazioni con fare
messianico, convinti di detenere la verità. Saranno quelli che
Nietzsche chiamava i filosofi? Eppure a ben vedere son tutti
accomunati da una grande variabile: hanno il pensiero piccolo.
E benché si senta spesso il contrario, le dimensioni contano
eccome. Non importa che tu ce l’abbia gigante, che rischia di
non servirti a niente e puoi addirittura arrecare danno. Ma se
ce l’hai microscopico allora sono guai. Voglio essere fecondo
quest’oggi, e mi sento di dare un consiglio per riconoscere
quelli dal pensiero piccolo. I “riduzionisti”, li chiama sempre il
caro Alain de Benoist. E' semplice: hanno paura di qualcosa,
tentano di squalificare un concetto o più in generale leggono il
mondo secondo un solo parametro. Semplificano, riducono,
banalizzano: escludono. Tendono a non vedere le cose nella
loro complessità, nella loro interezza. Ci sono ad esempio
governi che fanno degli spots di pubblicità “progresso” (parola
tipica del vocabolario cerebrolillupuziano) in cui si parla di
integrazione, e il mussulmano fa la pizza cantando “O Sole
Mio”, un algerino prende il treno fischiettando “Funiculì
Funiculà” e magari un arabo balla la quadriglia napoletana
alla festa del paese. Ci sono governi invece che promuovono
altri personaggi che sono rumeni ma apprezzano molto
Antonello Venditti (che in me causa razzismo persino verso i
miei connazionali). Forse questi governi hanno paura che
qualcuno mantenga la sua vera identità? Vogliono proprio che
si arrivi a svendere se stessi al prezzo di un’integrazione che
gioverà solo al mercato, malaticcio pure lui? Io che ho il
pensiero più grande, e non temo l’identità di nessuno, voglio
che qualcun altro mi dica chi è lui e che mi insegni qualcosa,
senza che mi faccia la mia buffa imitazione. Ci sono poi un
sacco di personaggi che affermano che l’identità in se non
esiste, che bisogna temerla e rifuggirne il concetto. Che dato
che il mondo è un eterno divenire, e che siamo tutti figli di
scambi, rivoluzioni e controrivoluzioni, il tentativo di
codificare essenze sia errato nonché pericoloso, foriero di
totalitarismo in ogni frangente. Discorso parzialmente
comprensibile, se non fosse che il pensiero piccolo ancora una
volta in azione riduca l’identità ad un oggetto fisso,
immutabile e perenne. Mentre essa cambia. E’la mia risposta
al mondo, è il mio parlare e non essere parlato da altri.
E’l’unica cosa che mi potrà salvare dallo sparire, dall’affogare
in mezzo al nulla ed anzi dal poter apprendere dagli altri. Se
non c’è identità, non c’è dialogo alcuno. Due cose diverse
possono parlare tra loro, confrontarsi, apprendere. E mutare a
loro volta. E’un discorso estremamente logico. Ma qualche
pensiero piccolo, che ha paura di qualcosa e legge tutto
secondo la sua paura, non vuole capirlo. Dell’identità hanno
paura i postcomunisti, i sinistri radicali, i progressisti di ogni
genere e grado, i professori postsessantottini, alcuni illustri
scrittori (che a questo punto scriveranno per mano di altri,
anzi l’opera si scrive da sola) ecc ecc. Siamo strumenti dunque.
All’opposto, molti “dall’altra parte” codificano le appartenenze:
siamo tutti occidentali, americani, europei, italiani e via
discorrendo. E vai elencando ed escludendo. Ci sono quelli
integri, tutti d’un pezzo, non tantissimi per fortuna, che sono
soliti affermare che abbiamo radici cristiane. Quelli che siamo
celti,padani,longobardi. O quelli che siamo in fondo tutti
pagani, anzi, Arii e indoeuropei. Marcia indietro dunque,
scavate sotto casa, andate a cercare cosa siete, cosa vi
compone. Cari Sardi, siete punici, cartaginesi, ma no che dico,
nuragici! Via, riprendete scudo e lancia. Che aspettate?
Recuperate vestiti, usi, costumi, cibi per il puro gusto di farlo.
L’importante è essere agiti dalla propria storia, dalla propria
filologia. Codificare l’identità in una serie di norme fisse, di
comportamenti da rispettare, di atteggiamenti da adottare.
L’identità di quelli dal pensiero piccolo.
Cosa penso io di tutto ciò? Mi sovviene un piccolopensiero.
Che non solo – come sostengo – destra e sinistra siano relegate
al passato, ma che la nuova frontiera sarà tra coloro che sono
ancora qualcuno, che avranno qualcosa da dire, che sono
disposti ad un dialogo ed hanno la mente aperta, un grande
pensiero, e che un giorno porteranno finalmente a nuove
sintesi, e coloro che come ladretti di galline si occupano di
piccole cose, spacciando alle masse catodiche e non le loro
microverità, che – dannazione! – sono così tanto efficaci. Sarà
perché anche se il pensiero è piccolo, le dimensioni non sono
importanti ma ciò che conta è come lo si usa. In questo noi
cervelloni dobbiamo ancora migliorare.
Buone notizie
Ogni notizia proveniente dai canali ufficiali ormai mi fa
incazzare, è più forte di me. E’un dramma quotidiano, non ce
n’è una che mi lasci tranquillo ed indenne. Forse dovrei
passare al bosco anche io, spegnere giornali e tv e dedicarmi
solo alla vita vera, che poi fa incazzare anche quella, oppure
dedicarmi alla vita immaginata, quella perfetta, che non dà il
pane magari, ma ti rende una persona migliore. Anche
soltanto leggendo un libro, un buon libro, ad esempio. Però è in
seno alla famiglia che l’uomo diventa consumatore, come disse
quell’omosessuale di Pasolini (avanti, ho detto omosessuale, e
per di più a sproposito: fatene una notizia). Ed io una famiglia
tutta mia non ce l’ho ancora, non fosse altro perché un
fringuello mi costerebbe troppo ora come ora, però mi ci sto
avvicinando e magari ad ore pasti con la mia compagna la
televisione sono più o meno costretto ad accenderla. Eccomi
qua, anche io, consumatore di tv. Oggi il numero due (così li
chiamano, quelli, prima come numeri) di Al Qaeda ha definito
Obama negro e filoisraeliano. E giù notizione. Se dici che è
abbronzato, fanno una notizia, se dici che è negro ne fanno
un'altra. E mamma mia. Per essere “di colore” (che colore?
Nero) è abbastanza “di colore” (che è meno razzista ed
etnocentrico, perché il bianco è neutro, quindi normale, giusto,
non alterato, noi siamo i bianchi e gli altri i colorati).
Filoisraeliano, è filoisraeliano. L’unica cosa che non ho capito è
perché quelli di Al Qaeda sono i numeri uno, due, tre o sedici,
manco fosse un’università coi numeri di matricola. Odio i
giornalisti, non sono voluto diventare giornalista. Non ce la
potevo fare a dover dire anche io “il numero due di Al Qaeda”.
Vorrei che mi si dicesse dove stia Al Qaeda, se esista
veramente, da chi vengano realmente questi “messaggi”, ma
nessuno me lo dice. Un po’ come dove sia finito Bin Laden,
l’arabo pazzo. Poi c’è quella di Brunetta che finalmente ci ha
liberato dai fannulloni. Il paese ha capito. Siamo nella merda
fino al collo ma almeno Brunetta ha risolto un problema. Ora i
fannulloni nel settore pubblico non ci sono più, e tutti gli
facciamo un plauso al Brunetta, perché è il primo che ha
trovato il metodo sicuro per distinguere un fannullone da uno
stacanovista. Ma alla massa piacciono i personaggi sicuri,
autoritari in tempi di crisi, quelli che i treni arrivavano in
orario. Basta dirlo et voilà. Però al primo ufficio postale ti
incazzi lo stesso come una bestia. Oppure i fannulloni si
saranno trasferiti al privato, come ad Abbanoa, ente che
gestisce le acque di tutti noi sardi. Li sono un azienda privata
che gestisce un bene di sua natura pubblico, sono tutelati
legalmente e ti possono far girar le palle allo stesso modo degli
uffici pubblici. Che ti fanno pagare 126 euro di “sopralluogo” e
“allaccio” per un tubo che c’era già: mettono una data fittizia
sul modulo e dicono che sono venuti. Gli stacanovisti con lo
stipendio fisso, e io porto i volantini e fatico ad arrivare a fine
mese. Meno fannulloni nel pubblico, meno stato in generale e
più privato. La cura liberalbrunettiana funziona. Non
parliamo della faccenda universitaria e della scuola in
generale, che ho ancora sotto gli occhi il mio compagno col
padre assessore che magicamente recuperò 3 anni in 1 in un
istituto privato. Era preparatissimo, gli mancava solo un bel
capitolo di calci in culo per essere uguale a noi della scuola
pubblica. Ci sono le notizie, puntuali come la padrona di casa a
fine mese, di quelli che si scandalizzano per le canzoni naziste
su Youtube, per quella scritta sul muro, per quello striscione
allo stadio, quella dichiarazione e via discorrendo. Il
moralismo piace, anche se i responsabili sono alla peggio
quattro ragazzini mentecatti in cerca di identità, o alla meglio
delle persone che hanno coraggio di esprimere ciò che pensano
(per carità, magari spesso assolutamente non condivisibile e
condannabile) in un epoca in cui non va più di moda. Piace il
moralismo, piacciono i politici che dichiarano che è una
vergogna prontamente. Piace il politically correct. E anche lo
scorretto, se non è politically, come Mourihno o Zenga, che
però piacciono anche a me. Ma non piacciono alla stampa,
perché sono poco politically correct. E abbiamo chiuso il
cerchio, si spiega tutto. Poi ci sono notizie di ministri che in
nome della Smithiana lezione, dichiarano che per far fronte
alla crisi bisogna ridurre la pressione fiscale e ridare ai
“cittadini” quello che lo stato gli ha tolto in modo da poterlo
usare per i consumi natalizi. Per dare linfa all’economia
bisogna farla girare, è risaputo. Aspettarsi un’alternativa
all’economia così come la conosciamo, è chiedere troppo. Del
resto, se è in crisi, non è mica perché qualcosa non va bene in
sé. Le notizie son tutte in tono allarmato perché i consumi
caleranno nei prossimi 3 anni. Bene, dico io. Tutti nella
merda, voglio vedere, come le ultime 2 o 3 generazioni non
sono mai state. Ed infine, c’è lo spot del governo sulle droghe,
puro terrorismo mediatico. Un cortometraggio volto a
banalizzare una questione complessa, discutibile dal punto di
vista scientifico, moralista nei propositi, foriero di terrore nei
colori, nel montaggio e nel messaggio. Semplificare, ridurre,
distrarre e spaventare. Per ottenere consensi. Sicuramente
non dai giovani che continueranno a “drogarsi”, ma dai loro
genitori sì, che voteranno una classe politica che almeno
manda a casa i fannulloni. Anche io da piccolo ero moralista e
contro le droghe, fino a quando non ho cominciato a drogarmi
anche io. Ed allora ho capito che prima o poi tutti ci droghiamo
di qualcosa, ed ognuno sceglie la sua. Il borghese – che tra
poco sparirà, tramutandosi in ricchissimo borghese o
poverissimo pirla – si droga di certezze, governi decisi contro
terroristi e fannulloni, televisori al plasma e carrelli pieni di
bottiglie di acqua perché “è in offerta”. Il piccolo borghese si
droga di quel che può, notizie, telegiornali, salame, caffè,
sigarette. E via discendendo. Io mi drogo di birra. Qualcuno si
fa una canna. E si “brucia il cervello”. Io bevo litri e litri di
birra al mese con gli amici, e anche l’alcool brucia i neuroni.
Sarà meglio drogarmi di notizie? Fanno bene fanno male, sto
bene sto male, cantava Morgan con i Bluvertigo. Al di là del
bene e del male, diceva Nietszche. Chi non è con me è contro di
me, diceva invece il buon Gesù. La tipica mentalità totalitaria,
quella di chi oggi ha in mano il mondo e ci droga di notizie
certezze, morale e giudizio: l’informazione suona sempre più
come una sentenza a favore del più forte, economicamente e
politicamente. Atta a spaventare il debole e creare consenso,
privandolo della capacità di comprendere il mondo reale. Il
debole è anche il piccolo borghese che ascolta al tg tutte queste
cose: è convinto che il pericolo sia il rumeno, che il bello sia un
nuovo navigatore satellitare e il problema un vicino con la
radio alta. Nonostante la crisi, a fine mese avrà comunque più
soldi di me, il carrello pieno di qualcosa in offerta e lo sentirò
dire alla moglie al supermercato : “prendiamo questo per i
bambini”. Poi guardo meglio ed ha afferrato un pacco di
carcasse di pollo, che nemmeno i miei gatti mangiano, costo
0,80 centesimi di euro. Potere della società di massa.
Sono preoccupato
Sono preoccupato. In realtà lo sono sempre stato, nulla di
nuovo sotto il sole. Ma si sa, gli idealisti come me sono dotati
di un’irrazionale pulsione alla fiducia, anche quando tutti gli
elementi giocano a sfavore e non c’è nulla, ma davvero nulla
che possa far pensare ad un miglioramento di una situazione.
Del resto, nello scenario attuale, non soltanto italiano ma
mondiale, a trovar un fattore seriamente positivo si fa gran
fatica, e la si fa da un po’. Diciamo dalla rivoluzione francese
in poi. Ma no, esagero dai. Comunque sia, non sono
preoccupato perché ha vinto Berlusconi. Anzi, son quasi
contento, dato che con il suo ebete sorriso, incontrovertibile
metafora del gaio ottimismo del mondo mercantile, ci condurrà
più presto di altri verso il declino, e forse dalle ceneri di un
sistema che fa acqua da tutte le parti si potrà setacciare
qualcosa di valido. Però sai, magari vai a pensare che la massa
una volta tanto ti smentisca e non faccia esattamente il gioco
delle parti, di entrambe le parti, di quelle parti che sono così
uguali tra loro e che non aspettano altro che gli si consegnino
nuovamente le chiavi del potere. Il Popolo della Libertà e il
Partito Democratico, per un bipolarismo all’anglosassone
anche in Italia, ancora imperfetto ma già perfetto così per
quello che mi riguarda. Il resto son solo dettagli. Magari
qualcosa di diverso nei loro programmi ce l’avranno pure, ma è
come parlare di mal di denti all’ospedale oncologico. C’è tanto
che accomuna questa squallida classe politica, che accomunava
la vecchia e che farà stringere in un amichevole abbraccio
anche quella futura. Tutti credono al Verbo del mercato, dello
sviluppo, dei Diritti Umani, dell’ideologia del lavoro; al
sistema bancario e alla grande finanza, alla “finanza creativa”
ed alle finanziarie, alla grande distribuzione, alla
globalizzazione ed alla democrazia rappresentativa,
all’Occidente unito e tutto uguale, alla pubblicità e alla
circolazione di moneta, al bipolarismo ed agli Stati Uniti,
all’Europa di Bruxelles, alle “riforme istituzionali”, al
liberalismo in salse varie, alla fine delle ideologie, al modello
tedesco, anglosassone e al modello che volete fuorché un
modello alternativo, al posttutto fuorché al postmodernismo.
Non c’è nessuno che osi superare quelle categorie di pensiero
così maledettamente moderne. Del resto, non si può e non si
potrebbe, perché andare fuori anche da soltanto uno dei binari
sopramenzionati significherebbe lo scardinamento di un
meccanismo che assicura alla stessa classe politica il suo
mantenimento, sociologico ed economico. La politica attuale, si
sa, si basa sul clientelismo, sul lobbismo, sulla connivenza con
la grande finanza e la classe dei banchieri. E’ un sistema
chiuso che si autoalimenta, distribuisce favori, appalti,
posizioni in cambio di voti e appoggi del più svariato tipo,
spartisce il potere soltanto con l’apice ed il vertice economico
di una piramide di milioni di illusi. E la gente non sa, e vota. E
se vota un motivo ci sarà. E io che credevo stavolta in una
grande astensione, frutto delle delusioni ripetute e di un
evidenza talmente eclatante (scandali, malgoverno, recessione,
vicende giudiziarie, promesse non mantenute, grillismo e
“antipolitica”, ingiustizie e divario sociale) da non poter non
proiettare il suo riflesso alle urne. Il mio alterego dei cartoni
animati disegnava addirittura uno scenario buffo e
paradossale, dove il popolo (che da oggi ufficialmente non
esiste) – gran furbetto e malandrino – faceva un bel dispetto et
voilà! Viene fuori un bel 48 per cento alla Sinistra Critica, o a
Bertinotti, o – orrore degli orrori – a Forza Nuova. Che poi,
non ho dubbi che questo sistema fagociti tutto, perché il
problema non è in uomini nuovi o moralmente integri, immuni
da compromessi e dall’odore dei soldi, ma nel sistema stesso e
nel denaro stesso che ne è linfa. Se non scorre la linfa, il
sistema muore e il suo cervello (i governanti) non si alimenta.
Si sa che il cervello non può star senza sangue per più di 5
minuti. Però chi lo sa, magari qualcosa di curioso verrebbe
fuori. No, l’Unione Europa che bacchetta a destra e a manca
per la democrazia in pericolo non è una cosa curiosa. Però lo
diceva già Gaber, che se vincono troppo quelli di là, viene fuori
una dittatura di Là, se vincono troppo quelli di qua, vien fuori
una dittatura di Qua. La dittatura di Centro invece? Quella
agli Italiani va bene. Ma, un attimo, il centro è l’UDC, è
Casini, direbbe il “popolo”. Ma quale Casini, poveretto, lui è
solo il centro di un centro più grande. Siamo tutti in buca, cari
amici. Il centro è un idea, è un concetto statico di quella che
oggi è la vera antipolitica, l’essenza dell’esclusione del
cittadino da una qualsivoglia partecipazione con l’inganno di
un voto ogni 5 anni, che rimane un suo “diritto”, l’unico e il più
inutile. E’ il mezzo con cui gli si da a bere la faccenda della
democrazia. Il centro è l’unico grande calderone che racchiude
tutta la politica attuale, è il credere in talmente tante cose
tutti quanti, e si tratta di cose così fondamentali, che non c’è
fuga da un unico polo, da un unico pensiero che attira tutto
come un buco nero. La cosa triste è il continuare ad avere una
stolta fiducia in una massa che va a votare e se parli pure con
quelli che ritieni intelligenti ti ripetono che “il voto è un tuo
diritto”, che è “troppo importante”. Magari questi stessi
intelligentoni votano Veltroni perché se no vince Berlusconi, e
Berlusconi è un mafioso, fa le leggi per sé, controlla
l’informazione e via discorrendo. Già, perché è quello il
problema! O meglio, è anche quello ma non è solo quello. Ma
chiedere alla massa di non votare Berlusconi perché oltre ad
un soggetto ambiguo dal punto di vista giudiziario è l’emblema
italiano di un liberismo e di uno sviluppismo che sta
mandando alla rovina il pianeta terra è davvero pretendere
troppo. Nessuno sa ed ha mai saputo cosa vogliano dire
entrambe queste cose, e non posso farne una gran colpa alla
signora del piano di sopra, a mio padre che lavora tutto il
giorno o al mio vicino che vota per simpatia come si fa il tifo
per una squadra di calcio. Anzi no, a quest’ultimo sì. O forse
dovrei farne una colpa anche ai primi due? Documentatevi,
leggete, informatevi, mi verrebbe da dire. Già, ma lavorando
tutto il giorno come si fa? Una sola cosa è imperdonabile, e
assolutamente ingiustificabile però: lo smettere di pensare e
farsi pensare dalla testa degli altri. Pensare ci è ancora
concesso, almeno. Non è meglio chi vota Veltroni perché ci
crede, uno così è proprio scemo, e mi perdoni chi legge. Non
parliamo di chi vota Berlusconi perché meno male che Silvio
c’è, salvaci tu e così via. Il fatto è che la massa – è un dato di
fatto – è immersa nelle difficoltà e nei problemi. Viviamo già
di per se in una società depressiva, come dice De Benoist, in
uno schiacciante meccanismo dove gli idioti vivono per
lavorare, e i poveracci lavorano ancora per vivere, ma sono
costretti a lavorare troppo e male. Nel contempo, sempre più
non lavorano perché non ce n’è o lavorano a rate, a termine o si
piegano alla flessibilità del mercato. Perché anche quel
simpaticone di Cecchi Paone l’ha detto, che ci vuol più
flessibilità, più mercato, più sviluppo. E magari anche mia
mamma, che mi sente imprecare contro il precariato e si
preoccupa perché non ho e non c’è lavoro, e non c’è sicurezza di
un futuro, vota il Popolo della Libertà. Valle a spiegare perché
le cose non possono cambiare con un nuovo governo, ed ancor
meno con quel governo là. A lei e ad altri milioni di italiani.
Che gli italiani sono gente concreta, si accontentano di poco,
una promessa di tagliare le tasse, di alzare gli stipendi, di un
generico sostegno alla famiglia e tante altre mirabilie. O come
dice la stampa tedesca, han votato Berlusconi perché unico
credibile interprete di un populismo in uno scenario di
generale pessimismo.
Se intervisti un italiano e gli chiedi come fare per risollevarci,
ti risponde con l’ingenuità di un pirla: “alzare gli stipendi”. Ma
bravo, il genio dell’economia, il messia che aspettavamo. La
soluzione è lì, a portata di mano. Si capisce a che livelli siamo,
se uno risponde così e poi gli diamo anche il diritto di voto. Ci
occupiamo dei ladretti di galline, rimproveriamo il vicino
perché ha parcheggiato male o il coinquilino che alza lo stereo,
ci zittiamo al primo biscottino e ad un piccolo sollievo in
denaro, deridiamo e condanniamo i nostri potenziali e veri
salvatori, i presunti terroristi e i delinquenti. Accettiamo la
spazzatura in casa, guardiamo il Grande Fratello, compriamo i
canali a pagamento di Premium Gallery, mangiamo da
McDonald e nel frattempo si decide delle nostre vite. Ci
divertiamo, distratti appositamente da gioconi e gingilli
mentre là fuori tuona. Ma abbiamo il diritto di voto. Non
potremmo mai capire che se abbiamo problemi è colpa delle
banche, al massimo siamo capaci di fracassare la macchinetta
del caffè se si mangia un euro. L’unica combattività, quella
stupida, animalesca, che non richiede informazione. Ladretti
di galline, i nostri nemici. E votiamo, senza sapere nulla di
nulla, né dove sta il vero potere, né cosa bisognerebbe fare per
cambiare, ovvero tutto tranne votare. Autoproduzione di beni e
autoconsumo, accorciare la filiera produttiva e privilegiare il
locale, uscire dal mercato e aiutare l’economia informale,
quella tra i vicini. Boicottare le banche, la grande
distribuzione e le istituzioni sorde. E tante altre cose. Ma cosa
sto dicendo! Sono pazzo. Vabbè, da sardo, mi tengo la
spazzatura in casa che mi hanno portato dalla Campania. Se
mi incazzo e fracasso il cranio ai responsabili sono un
delinquente. Un po’ come se scagazzassero nel tuo giardino e
tu non fossi autorizzato a legnarli sulla nuca. Un po’ come i
palestinesi, che subiscono dalla notte dei tempi le più orribili
angherie, poi si fanno esplodere e sono terroristi. E votiamo.
Ora in parlamento sono tutti amici di Israele. Basta con gli
antisemiti, era ora! Viva la democrazia.
L’altro giorno ero in un grosso centro commerciale, forse il più
grosso del campidano. Hanno creato un “centro di
intrattenimento per famiglie”, dove il popolino, la massa, la
plebe va a passare la domenica e accorre in gran flusso dai
paesi limitrofi. Come la tv, senza l’accorrere però. Tutti in fila,
una fila spaventosa, spasmodica, dietro a quelle macchinette
con le pinze che non stringono e che dovrebbero acchiappare i
pupazzi. Una volta su venti tentativi qualcuno prende un
pupazzo. Esce soddisfatto, avanti un altro (euro). Tutti in fila,
ma tanti. Come al seggio elettorale. Tutti hanno diritto al voto,
che “è molto importante”. Tutti “consumano” il votoeuro. Tutti
“partecipano” alla politicamercato, e son contenti così.
Qualcuno è contento, è tranquillizzato dal suo giocone, dal suo
Bart Simpson di peluche. Qualcuno si allontana arrabbiato,
dice che è una truffa e che la pinza non si chiude, ma il suo
euro ce lo mette lo stesso. Tutti però sono contenti, erano al
centro di intrattenimento per famiglie. I più contenti sono i
politicibanchieri, che incassano voti e denaro. Si torna a casa,
l’Italia è sempre uguale, il mondo pure. Ora potrei dire cosa ci
rimane da fare, ma ci voglio ancora pensar bene. Ho quattro o
cinque teorie, tutte possibili, ma per qualcuna potrei finire al
gabbio. Aspetto ancora un po’. Voto IRS alle prossime regionali
e mi godo la mia Sardegna per ora.
Eivind Aarset – Light Extracts
Ho conosciuto Eivind Aarset all'European Jazz Expo tenutosi
alla fiera campionaria di Cagliari nel novembre 2004. Nella
rassegna internazionale, il nome di questo sconosciuto
chitarrista norvegese spiccava come novità, assieme agli altri
musicisti della scena scandinava. Questo non è jazz, ovvero la
frase sulla bocca di un buon numero di coloro che hanno
assistito alla performance del suo trio. Niente di nuovo sotto il
sole. Benché la definizione di jazz come genere elitario non
corrisponda alla realtà già da diverso tempo (la strada della
contaminazione ne è invece essenza e spirito vitale, da Miles
Davis al nostrano Paolo Fresu), impeti puristi permangono,
soprattutto nei casi in cui una presunta semplificazione della
proposta musicale coincida con pure esigenze di mercato.
Avvenne per la cultura londinese da club degli anni '90 ed il
fermento AcidJazz (di cui Aarset è in parte erede) come per le
patinate produzioni di fusion commerciale dell'etichetta GRP.
Qui parliamo di Nu Jazz, etichetta assolutamente leggera ed
incapace di descrivere quella che è in realtà una proposta di
musica postmoderna nel pieno senso del termine. Del jazz
sono rimasti alcuni timbri tradizionali, come quelli del
contrabbasso e della tromba, del clarinetto e della batteria con
le spazzole, associati a patterns tipici dei singoli strumenti.
Dalla modernità deriva la logica seriale del loop, del
campionamento e dello sviluppo sequenziale della musica. La
direzione lineare degli arrangiamenti, che si snodano attorno
ad un tema mai troppo marcato, è in continua evoluzione con
lo scorrere del tempo musicale: qualsiasi approdo è consentito,
in cui la guida non è una struttura circolare o
polidimensionale, bensì il puro beat scandito dal ritmo (ora
elettrico ed ora acustico) e l'esigenza intima dell'artista, in una
sorta di espressionismo timbrico. In questa operazione di
ibridismo elettronico ed acustico, Aarset coglie appieno il senso
di una possibile nuova sintesi postmoderna: ho provato ad
ascoltare questo album in mezzo al maestrale della spiagga
cagliaritana del Poetto, quasi completamente dimenticando la
sua forma “digitale”. La simbiosi tra musica, psiche ed
ambiente mi è parsa subito naturale, con un senso di sorpresa.
E mi è difficile immaginare ad una mia volontà preconcetta di
renderla tale. Credo piuttosto che la natura di questo
capolavoro norvegese si riponga dell'Uomo piuttosto che nel
mezzo digitale. Ma allo stesso tempo, le atmosfere (perché di
“note” non è sempre agevole parlare) di Light Extracts
potrebbero fungere da colonna sonora per un aeroporto, per
una metropolitana o un viaggio nel traffico, per uno scenario
subacqueo al rallentatore. Un lavoro, in altri termini, in grado
di oltrepassare il materialismo numerico digitale, che in un
incastro perfetto con la modernità riattualizza suoni acustici
altamente comunicativi (fa un certo effetto udire il
contrabbasso ed una batteria compressa in Dust Kittens, così
come mette i brividi l'ingresso della tromba in Wolf Extract o il
fraseggio del clarinetto di Between Signal & Noise, in un
contesto cervellotico di rumore digitale e drumming
incalzante) e risveglia emozioni totalmente appartenenti alla
sfera interiore. La tecnologia è dunque per una volta
strumento per un viaggio introspettivo e retrospettivo, secondo
l'effetto del paradosso descritto dal sociologo Marshall
McLuhan, che riguarda ogni medium di carattere tecnico: vi
possiamo includere anche la musica ed i mezzi per produrla; se
la tecnologia –in tal caso quella digitale di campionatori, filtri
e computers è un'estensione (quasi in senso fisico ) di noi
stessi e come tale espropriante di una nostra forma di
“partecipazione” effettiva (in altre parole, il principio di
alienazione), nell'epoca postmoderna il nostro compito è porci
nei confronti di essa in senso dialogico, consapevoli dei
rapporti di dominio e schiavitù che intercorrono tra essa e
l'Uomo: da una parte gli si “offre” nuovo materiale (il timbro
acustico), dall'altra le si lascia sfogo (in musica, fino alle
conseguenze estreme; ascoltare la psicotica ed inquietante
guerra sonora di “Self Defence”). Nel contempo, si sondano con
profonda attenzione gli effetti che essa ha sulla nostra
emotività; inaspettatamente, dall'ascolto riaffiora tutto ciò di
cui essa apparentemente ci ha espropriato. Lo ricaviamo e lo
scopriamo quasi tramite un'operazione di sottrazione, un
dialogo accorto. E scopriremo che un computer ed un
contrabbasso insieme possono trasportarci attraverso uno
scenario etereo, fatto di luci tenui come i neon della copertina,
ma anche attraverso i colori del mare di Sardegna. O dei fiordi
norvegesi, se preferite.
Metallica – Death Magnetic
E come poteva mancare un mio commento su “Death
Magnetic”, nuova fatica (fatica?) discografica dei Metallica?
Perché dei quattro cavalieri, si sa, ne parlano sempre tutti e in
questo periodo, modaioli come siamo, non potevamo certo
esimerci. Un po’come accaduto per la crisi finanziaria, per “La
Talpa” su Italia 1 (Italia 1?) e per lo spegnimento
dell’analogico. Come? Già è vero, di questi ultimi due non
abbiamo parlato, ma abbiamo tutto il tempo di rimediare.
Cominciamo dai Metallica dunque.
Dopo il consueto sciame di interviste, copertine e books
fotografici dal rinnovato giuoco del più cattivo non si può ma
sempre elegante, lucido e fighetto, ecco il disco. Ma no, così
non mi piace, sto ostentando cattiveria inconsapevole.
L’origine è tutto, diceva De Benoist. Con questo che si vuol
dire? Che ad essa compiremo un Eterno Ritorno in caso di
allontanamento? Che essa è un codice prestabilito, un
simulacro definito, un quadro ideale in apice del letto a cui
tendere? Faremo torto al fior fiore degli antropologi più accorti
della scienza novecentesca ed un gran dono agli occidentalisti
e progressisti di ogni ordine e grado – se confondessimo la
tradizione come il fardello che ci lega, come la gabbia che ci
imprigiona, come il vincolo che ci riduce all’imitazione di noi
stessi come in una fiction. La tradizione fa rima con l’identità,
ovvero la nostra personalissima risposta al mondo che ci
circonda in un dato momento; l’identità è ciò che “noi” abbiamo
da dire, è il nostro dialogo. E’ il nostro cervello. E lo affermai
già in passato: il problema non è il Divenire, che è l’unica legge
che possiamo trarre dall’osservazione reale del corso dei tempi.
E in musica, non è cambiare. Il problema è la sincerità e la
qualità di ciò che si dice. Puoi dire tutto, basta che venga
sempre da te e sia una tua rielaborazione del cosmo. Qualsiasi
cosa avrebbero fatto, fanno e faranno in futuro i Metallica,
sarà sempre estremamente difficile chiedersi se essa rispetti
appieno tale imperativo non scritto. I Metallica un’identità ce
l’avevano, qualcuno la codifica con i suoni degli anni ’80, con
quel Thrash che si autodefinì proprio con loro, ma altro non è
che solo la forma esteriore, la Tradizione codificata in dati
materiali che piace ai più. Il sottile filo rosso che dovrebbe
collegare la musica di una band, pur nelle sue più
imprevedibili evoluzioni, dovrebbe andare oltre, essere
qualcosa di più. Essere quello per cui tu possa affermare,
cazzo, son sempre loro. No, non come gli AC/DC. Anche lì
parliamo di forma pura, ma lì il confine con la sostanza è
talmente sottile che è un altro paio di maniche. I Metallica,
con questo “Death Magnetic”, giocano a fare i Thrashers, ci
sono tornati davvero? Ci credono, non ci credono più? E’ un
rigurgito spontaneo, un vagito ancestrale? O un operazione –
l’ennesima a tavolino – di una band che ha provato varie
strade e alla fine per ragioni in buona percentuale di mercato
è tornata sulle sue orme? La rete pullula di recensioni ruotanti
intorno al fatidico quesito. Del resto, i Metallica di Load e
Reload non erano sinceri, per la maggior parte della critica,
per non parlare dei fans di vecchia data. Perché pareva
evidente l’evoluzione graduale verso un suono rock
mainstream. E poco importa se questo poteva (perché poteva)
anche essere un naturale cammino, un qualcosa di sentito in
nome della sincerità. Come fare a rispondere? C’è poco da dire,
non si può sentenziare. E non lo si può nemmeno nei confronti
di questo “Death Magnetic”. A giudicare dalla formula ben
intelleggibile (schema dei brani ricalcato sui vecchi successi,
arpeggi cupi, riffs più o meno azzeccati, cambi e idee in pieno
stile technothrash, abbozzi di ballads malinconiche, The
Unforgiven III e chi più ne ha più ne metta) parrebbe che
ancora una volta (ancora una volta? Anche per Load e Reload?
E St.Anger?) il neovagito dei rinati Metallica sinceri sia
rimasto solo nella testa dei discepoli. Ma dato che non si può
sentenziare, è sempre meglio giudicare la musica. La musica
soltanto. Per i Metallica e per tutte le bands e i musicisti. Ora
e sempre. O almeno, questo è il criterio che adotto io. Se la
musica è buona o cattiva, eccezionale o mediocre, innovativa o
imitativa eccetera. Dobbiamo sempre slegare il disco dal suo
contesto storico (bestemmia sociologica, caro opificista) per
poter parlare di musica. E qui la musica dei Metallica scorre
abbastanza accattivante, ben composta e ottimamente
suonata. La produzione è azzeccata nonostante qualche parere
contrario, le chitarre sembrano chitarre e il resto non conta poi
più di tanto. E penso che possa bastare. Non c’era da
aspettarsi di più e ciò che è arrivato deve far piacere a tutti.
C’è di peggio al mondo, che un disco dei Metallica come questo.
Le banche, ad esempio. Se fossi un fan dei Metallica, io questo
disco lo comprerei (non scaricatelo perché senno s’incazzano).
Ma per fortuna non lo sono.
Frank Zappa visto da Barry Miles
Frank Zappa era davvero un uomo absolutely free, come Barry
Miles del New York Times lascia intendere dal titolo della sua
biografia? A leggere le righe di questo libro, viene fuori un Ni.
Che era un genio l’ho dapprima sospettato, quando il suo nome
evocava in me soltanto l’immagine di un uomo baffuto che
suonava la chitarra, e come lo facesse per me era tutto da
scoprire. E poi l’ho scoperto. E dire che mi stava anche un
po’antipatico, perché mi dissero che aveva parlato male dei
Beatles. Ma poi venni a sapere che non era vero, e che in
realtà ce l’avesse solo un po’con McCartney per una questione
di copertine. E poi scoprii che anche i Beatles erano stati un
fenomeno borghese, allora li retrocessi dal grado di semidei a
quello di normali esseri umani. Ma questo non è importante.
Tutto questo per dire che i tempi per il mio incontro con Frank
Zappa erano maturi. Che fosse un uomo libero, sapevo anche
quello. Uno dei freaks senza essere mai troppo freak, e del
resto chi è davvero libero è inclassificabile. A modo suo un
ribelle e non un rivoluzionario, specie se il rivoluzionario era
disegnato attraverso i tratti della tipica figura americana
intorno alle vicende del Vietnam: Zappa, infatti, aveva capito
con trent’anni di anticipo che più che gli strilli di piazza forse
bisognava arrivare ai media, e sosteneva che chi veniva
schiacciato era il primo responsabile. Egli odiava la censura di
qualsiasi tipo, così come i formalismi esteriori del mondo
contemporaneo; cantava, o parlava il suo sdegno, che più che
sdegno è disincanto del ribelle, attraverso un humour che
sembrava essere frutto del suo modo di essere reale, più che di
una scelta consapevole. Del resto, Frank Zappa rideva anche
quando faceva sesso. E la domanda “Does Humor Belong in
Music?” a questo punto suona più che retorica. Eppure c’è
anche il Frank Zappa maniaco del controllo, del mondo che lo
circonda, dei suoi musicisti, delle loro vite, del suo fisico, il suo
essere critico e immune da eccessi di qualunque tipo. Niente
droghe, già. A modo suo, puritano ed inflessibile, nell’impedire
ai compagni di band qualsiasi comportamento a lui
personalmente sgradito, come un drink fuori posto. E poi la
disciplina estrema nel comporre, quella che Lou Reed ha
dichiarato di ammirargli all’interno del rock, la precisione dei
dettagli e la cura della forma, di una musica comunque
inclassificabile, dalle sembianze rock ma dalle armonie
variabilissime, ora avanguardistiche ora contemporanee, la
complessità dei ritmi e l’esigenza della padronanza totale del
contesto sonoro: Frank Zappa “suonava” i suoi musicisti, e fu
entusiasta della possibilità di “sbarazzarsi” di loro con l’arrivo
del Synclavier. E poi c’è la sua concezione patriarcale della
famiglia di derivazione siciliana, ed il suo spiccato senso
dell’autorità. Questo libro, grandiosamente scritto e di una
fluidità inusuale per una biografia, in realtà ci mostra che un
genio indiscusso, folle e irripetibile soprattutto considerato il
suo tempo, è tale quando è contraddittorio, e che l’univocità
deve sempre far sospettare sulla genuinità di un’artista. Frank
Zappa era libero da tutto, fuorché da se stesso, nel suo essere
restio al mostrare esplicitamente i suoi sentimenti, persino
alla sua famiglia e finanche in punto di morte. Per il resto,
vorrei spiegarvi meglio in poche righe cosa è stato Zappa, ma
ancora non l’ho capito bene nemmeno io, e non vorrei togliere
altro tempo all’ascolto di “Overnite Sensation”, che ho
riesumato in questi giorni. Vorrei imparare i cambi armonici
di “Fiftyfifty”, sono piuttosto interessanti per un musicista
rock con i baffi.
La tirannia della comunicazione
Qualche anno fa, per i tipi della casa editrice Asterios di
Trieste, veniva pubblicato questo interessante saggio che in
ossequio al titolo si propone di evidenziare i mutamenti
intercorsi nelle dinamiche della comunicazione e
dell’informazione nel contesto dei processi di globalizzazione
ma non solo. Chi si prefigge l’intento di descrivere i percorsi
economici, finanziari e politici sottostanti alla rivoluzione
mediatica, irti di ostacoli e punti oscuri, è Ignacio Ramonet,
direttore di Le Monde Diplomatique nonché figura nota nel
panorama intellettuale comunemente ascritto agli ambienti
della sinistra antagonista. In effetti, l’analisi è precisa,
interessante e condotta con rigore scientifico ma risente
talvolta di un certo manicheismo “alternativo” che non di rado
è possibile riscontrare in testi dai tali propositi. Ramonet
infatti lascia evincere da alcune affermazioni l’adesione a
schemi interpretativi che esulano dall’originario contesto ben
rappresentato da quel “popolo di Seattle” che comprendeva al
suo interno umori tra i più disparati e di differente
provenienza politica o metapolitica, ma che piuttosto sono da
leggersi dal versante volutamente politicizzato che ha
imbrigliato l’intero movimento noglobal europeo. Nonostante
l’ambiguità di alcuni concetti espressi dall’autore, è innegabile
l’abbondanza di spunti utili al fine di comprendere la portata
del ruolo assunto dai mezzi di comunicazione nella storia
recente. Si parte dalla constatazione della portata della
rivoluzione digitale, che ha accorciato spazio e tempo tramite
lo sviluppo tecnologico,l’assemblaggio dei singoli mezzi e
fenomeni finanziari di respiro globale quali concentrazioni e
fusioni; i “nuovi imperi”, come li definisce Ramonet,
mirerebbero ad un controllo globale dell’intera rete
d’informazione agendo secondo gli spietati dettami della
concorrenza economica. Tra gli alfieri di questo meccanismo è
indicato dall’autore il macroblocco delle industrie americane
in coazione col governo tramite il sostegno attivo dell’Omc, che
preme a livello planetario per la sottoposizione del flusso
comunicativo alle leggi del mercato. Qui si colloca il rischio,
purtroppo reale, della tirannia prospettata dal titolo. La
diffusione totale e continuativa di messaggi nell’etere
mondiale appartiene ad una tipologia di potere finora
sconosciuto e coerente con la rivoluzione del ruolo dei media
rispetto alla politica stessa. Si tratta di una potenzialità ben
più ampia di quelle sperimentate con i regimi totalitari del
novecento. Il rischio di un condizionamento mondiale del
pensiero mediante la creazione di una “world culture” ci
traspone in uno scenario di orwelliana memoria ; primo
esempio addotto della possibilità di una “comunione emotiva”
planetaria tramite l’azione dei massmedia è l’eco avuto
dall’evento della morte di Lady Diana, ed in seconda misura
dal caso ClintonLewinsky. In parallelo con
l’industrializzazione del sistemainformazione e la
mercificazione dell’informazione stessa, si assiste ad un
proliferare delle categorie dei paparazzi, della televisione
verità ed al ritorno della cronaca popolare talvolta sotto le
spoglie del giornalismo di divulgazione, atto all’indagine
privata del personaggio pubblico. In un continuo inseguimento
reciproco dei media alla ricerca dello scoop e dell’emozione
spinta all’eccesso, spesso tramite il ricorso ad immagini forti
della più svariata tipologia, il fenomeno del mimetismo
mediatico mostra in tutta evidenza un nuovo scopo comune del
sistema, entrato a pieno titolo nella logica del profitto. Ed è a
tal proposito interessante soffermarsi su uno dei cardini
dell’analisi del saggio; nell’attuale scenario mondiale,
incontestabilmente dominato dall’economia., il famoso “quarto
potere” meriterebbe forse una sua riconsiderazione ed una
eventuale ricollocazione al secondo posto,secondo l’intelligente
intuizione dell’autore. Non si è forse passati da una tipologia
di potere verticale, in cui gerarchicamente la politica sovrasta i
media e mira al loro controllo, ad un modello di influenza
prettamente orizzontale, in cui il ruolo mediale è spesso in
grado di condizionare la politica in virtù della sua entrata a
pieno titolo nelle leggi dell’economia? Tale prospettiva è
condivisa da numerosi altri pensatori del calibro di Alain De
Benoist, Jean Baudrillard e Pierre Bordieu . Il piccolo
schermo, medium dominante di quella “videosfera”
riconosciuta come attualmente prevalente da Règis Debray, è
divenuto l’elemento centrale della stessa vita politica, a tal
punto da condizionarne i meccanismi in base alle esigenze
intrinseche della comunicazione. Ciò ovviamente non esclude
il pur frequente scenario inverso, ossia dell’impugnazione dello
strumento comunicativo da parte di gruppi di potere ; il vero
problema è però differente. A livello di macrodinamiche, è
indubbio negare questa avvenuta rivoluzione gerarchica, ma
sarebbe nel contempo errato pensare ad un’emancipazione del
mezzo mediale dal settore politico ; si tratta piuttosto di uno
slittamento dell’autorità, e la sistematica prevaricazione
dell’economia sulla politica in se spesso rende coincidente i
contenuti e le forme dei mezzi comunicativi dominanti col
pensiero egemone, oramai di matrice largamente economicista
(di cui i media non sono altro che vettori) come la tendenza
governativa e burocratica mondiale. Ma come avviene in realtà
tale fenomeno? Nell’esplicitazione dei suddetti meccanismi,
Ramonet difetta forse di precisione. Più puntuali sono alcune
considerazioni di Jean Baudrillard, che svela i rapporti di
relazione ipnotica tra spettatore e medium, descrivendo ad
esempio la televisione come un mezzo che grazie alla sua sola
presenza è in grado di esercitare il controllo sociale favorendo
il ripiegamento dell’individuo nella sfera privata e nel
contempo imponendo un immaginario stereotipato, il mezzo
televisivo può adempiere alla causa del profitto oggigiorno
assunta dall’informazione. Scopo del messaggio, aggiunge
Pierre Bordieu, è la sua massima diffusione, che può essere
ottenuta evitando di contrapporsi allo “spirito del tempo”, con
il criterio della ricerca di quei “fatti omnibus” in grado di
creare consenso ed opinione generalizzati, in accordo con
l’ideologia dominante e in totale emarginazione di messaggi
non conformisti o più semplicemente inutili ai fini della
fruibilità e vendibilità. Appare dunque più chiara a questo
punto la descrizione operata dall’autore del fenomeno
dell’imitazione e del mimetismo; le spietate leggi della
concorrenza strutturano in maniera centripeta quella
apparente pluralità garantita dal proliferare di fonti e nodi del
sistemarete mediatico. Si svela così la connivenza ancor viva
tra uomini di potere (il cui connotato politico ha dunque
eliminato i distinguo col versante dell’economia) e addetti al
settore della comunicazione, nonostante lo slittamento
gerarchico dei settori. Siamo dunque lontani dal “realismo
democratico”, il giornalismo eroico e di denuncia tanto in voga
negli anni ’80 sull’ondata del modello Watergate, creatore di
figure intoccabili e talora assurte alla condizione di maestri di
pensiero. Tali fenomeni sono, seppur inconsciamente, colti dal
senso comune ed una nuova diffidenza attraversa l’utenza
mondiale; se negli anni ’60 si additavano i media come
strumenti del potere, ora ci si rende conto che è forse il
sistema in se a rivelarsi inaffidabile. Un’analisi di Alain De
Benoist pone il dubbio che in realtà sia forse inutile cercare di
capire se i media stiano dalla parte del potere politico, in
quanto quest’ultimo è prevaricato e quasi proverbialmente è
sostituito da quello economico ; si pone l’ipotesi che i media
oggi non siano più “intermediari” bensì siano essi stessi il fine,
in quanto entrati in una logica di produttività commerciale.
Per dirla con Baudrillard, “il medium fa evento da solo”. Lo
stesso concetto è ripreso da Règis Debray quando parla della
mediasfera come “trascendentale tecnico”, divinità senza volto
e terribilmente autosufficiente della società occidentale. Lo
stesso Ramonet sembra convenire con questa ipotesi,
evidenziando la tirannia di una comunicazione quasi
personificata, che gode oramai di vita propria.
Come già detto, qualcosa però negli umori del pubblico
continua a muoversi : le ripetute menzogne e falsificazioni
occorse ad esempio durante la prima guerra del Golfo o il falso
eccidio di Timisoara in Romania, una volta smascherate,
hanno alimentato dubbi e sospetti. Il mezzo televisivo, oramai
preminente ed insidiato nella sua rapidità e produttività
soltanto dall’emergente Internet, fonda la sua eccellenza, tra i
tanti fattori, sull’illusione di verità ricreata dall’immagine e
dalla diretta. L’importante è quello che appare, magari
verisimile ma non reale, o addirittura falso ma bello e
telegenico. Ciò che è visibile esiste in senso mediale, a
discapito dell’astratto e del non riproducibile. Il corollario di
tale fenomeno è la menzogna della non importanza del non
mostrato, in quanto l’onnipresenza della telecamera dovrebbe
a rigor di logica immortalare ogni avvenimento degno di
diffusione. Ma l’equazione “zero immagine, zero realtà” è
purtroppo cosa nota e i casi delle guerre di Panama del 1989 o
di Grenada del 1982 assurgono soltanto al ruolo di casuali
esempi. Il concetto di credibilità dell’informazione è dunque
stravolto ; la veridicità non è più discriminante, al contrario
dell’esistenza mediatica, della realizzabilità tecnologica e
dell’attribuzione prioritaria dello status di “vero” da parte del
mezzo comunicativo.
Nella mente dell’utente, si evince dunque una continua
confusione tra il vedere ed il capire; con la prevalenza assoluta
dell’immagine sul commento e sull’analisi (tra l’altro motivo di
crisi della classica forma di telegiornale, in cui la sola
presenza dell’inviato speciale, in tempo reale, sui luoghi “caldi”
è garanzia di verità in misura maggiore del contenuto del
servizio), la pigrizia dell’indagine si pone in contrasto con
quella che a ragione l’autore considera una vera e propria
attività: informarsi. Ma lo stesso cade in un pretestuoso e
probabilmente consapevole abbaglio, tentando di ricondurre
questa indotta amnesia dell’utente ad un non rispetto degli
insegnamenti del razionalismo settecentesco, secondo cui
l’intelletto e la ragione dovrebbero avere assoluta prevalenza
sul senso, in questo caso quello della vista. Non è necessario
scomodare i Lumi per spiegare tale fenomeno ; in realtà,lo
spettatore non elude la ragione, ma è proprio con essa che
attribuisce alla visione un ruolo di primaria importanza
nell’analisi; i media inducono al ritenere, secondo un puro
procedimento intellettuale, l’immagine come materia prima
per un’analisi da compiersi a posteriori, e che in effetti l’utente
compie secondo procedimenti tutt’altro che irrazionali. Ciò che
sfugge a Ramonet è che in realtà la pur attiva ragione
dell’osservatore viene privata dell’essenziale elemento
analitico e contestualizzante rappresentato dall’eventuale
commento. L’operazione avviene ugualmente tramite il
cervello, non attraverso la vista. Ma si tratta di un
procedimento incompleto e "razionalmente" non concepito
come tale. Ridurre ad un puro slittamento filosofico un fine
procedimento che agisce sullo stesso terreno interpretativo
dell’utenza significa aggirare il problema. Altro aspetto da
notare è il cortocircuito avvenuto tra cultura, comunicazione
ed informazione in uno scenario in cui quest’ultima è
realmente sovrabbondante a causa del furore della
connessione che per puro scopo commerciale provvede a
“comunicare” senza in realtà informare; tutti, al giorno d’oggi
e maggiormente tramite Internet, sono in grado di
comunicare, e questa realtà ha messo in crisi il ruolo e la
funzione del giornalista, sempre più privo di specificità e
identità. Non a caso in tanti settori si parla già di “media
workers”, ossia semplici addetti al sistema mediale declassati
al rango di operai di questa inedita e possente macchina
industriale. Sul versante classico dei massmedia, questa
proliferazione del sistemarete porta ai già evidenziati (e per
un certo verso paradossali,in quanto si tratta di un
ripiegamento della televisione su se stessa) fenomeni della tv
verità o spazzatura, che va a ricercare la materia prima della
comunicazione in settori “bassi” e “alternativi”, ma anche al
depauperamento del format del telegiornale,quasi obbligato
alla trattazione di cronaca locale a discapito di quella
internazionale.
Ma la sovrabbondanza della comunicazione rende inoltre
possibili quelle forme di “censura democratica” , di
falsificazione e di invenzione di cui ci vengono presentati,
lungo le pagine del testo, numerosissimi esempi. In realtà, in
un sistema che si definisce democratico, l’informazione non
viene sistematicamente occultata o nascosta, bensì
dissimulata e resa eccessiva ; la quantità rende impossibile,
per l’utente medio, accertare una eventuale mancanza e, per
usare le parole dell’autore del testo, “la voragine
dell’interdizione”. Sia ovviamente beninteso che continua ad
avvenire anche il fenomeno classico di censura, ma la logica
predominante è oramai quella evidenziata ; tra gli esempi
eclatanti possono essere collocate le cosiddette “guerre
invisibili” come quella di Panama o le recentissime invasioni
dell’Afghanistan e dell’Iraq, per il vero mostrate secondo
criteri di pulizia ed estetica televisiva, perfettamente aderenti
ai piani di campagna mediatica sistematicamente considerati
dalle autorità militari statunitensi, memori della diffusione di
umori scomodi tra l’opinione pubblica a seguito delle immagini
provenienti dagli eventi del Vietnam. In ultimo (ma non per
ordine di importanza) ci si potrebbe soffermare su un altro
degli aspetti considerati dal libro, al quale è dedicato quasi per
intero un capitolo. Si tratta dell’analisi del rapporto tra la
vicenda del falso eccidio di Timisoara del 1989 in Romania e il
ruolo svolto dai principali media, esemplificativo di alcune
dinamiche che intercorrono sistematicamente proprio
dall’anno considerato, indicato dall’autore come vero e proprio
spartiacque tra la vecchia e la nuova strategia comunicativa.
E’innegabile riconoscere come l’esigenza del sensazionale ad
ogni costo abbia trovato nei fatti della rivoluzione rumena una
grande opportunità mediatica ; la necessità di infiammare gli
animi e di fomentare un’isteria collettiva ha avuto un ruolo di
primaria importanza nella costruzione mediale di atrocità del
più svariato tipo, culminata con la necrofilia televisiva
rappresentata dall’utilizzo di cadaveri altri per erigere la
menzogna (ennesima) del suddetto eccidio. La diffusione di
voci è stato il principale criterio di discredito di un regime
comunque tirannico quale quello di Ceausescu, facilmente
assimilato alle sembianze vampiresche e demoniache per la
sua provenienza. Ramonet ci spiega come tramite i mezzi
comunicativi sia possibile ricorrere a miti ed analogie proprio
per l’intrinseca possibilità di crearli ; il mito della cospirazione
viene in tal caso accreditato alla famigerata Securitate, polizia
segreta del tiranno rumeno, e l’analogia tra comunismo e
nazismo verrebbe utilizzata per mostrare, con una intenzione
perentoria,il crollo fragoroso e definitivo dell’ultima illusione
del ventesimo secolo. Paradossalmente, l’autore sembra voler
negare al regime hitleriano la possibilità ,puramente
eventuale, di un medesimo trattamento mediale riservatogli
dagli anni del dopoguerra fino ad oggi ; esulando da intenti
giustificativi riguardo agli orrori di cui il totalitarismo
nazionalsocialista si è indubbiamente macchiato, sorge il
dubbio che col pretesto di identificare un uso dei meccanismi
comunicativi a senso unico ed esclusivamente a partire dalla
fatidica data che ha sancito la fine del bipolarismo mondiale,
l’intellettuale spagnolo tenti di rifuggire in assoluto ogni
comparazione dal punto di vista strutturale e sociologico tra i
due grandi fenomeni del secolo appena trascorso ;
fortunatamente, un acceso dibattito storiografico, forte delle
opinioni di Nolte, Furet e dei recentissimi scritti di De Benoist
può colmare ogni dubbio a riguardo.
Ma se si rimane prettamente sul versante della comunicazione
e sull’analisi dei meccanismi della sua ricorrenza sistematica
alle categorie pregnanti per l’immaginario collettivo, ancora
una volta il ragionamento di Ramonet non può essere
contestato. Questi dunque alcuni degli aspetti che si evincono
dalla lettura di questo interessante saggio, che prospetta un
orizzonte apparentemente apocalittico ma assolutamente
verisimile ; alla luce delle dinamiche globali e dell’avvento
oramai conclamato del “tempo delle reti” , ogni cittadino è
potenziale elemento di tale immenso organismo. Urgono
dunque strumenti utili per la comprensione dei mutamenti in
corso, e se, per dirla con Ramonet, informarsi stanca, è
necessario quantomeno “informarsi sull’informazione” ed
assurgere al ruolo di ombudsman di se stessi, per quanto sia
impresa ardua e difficile. Il testo in questione si pone forse un
intento simile, ma è da analizzarsi secondo la medesima
ottica , assumendo la consapevolezza delle regole un sistema
in cui la sfera comunicativa si presenta difficilmente scissa da
quella informativa.
Planet Funk – The Illogical Consequence
Non saprei se questo secondo capitolo dei Planet Funk possa
essere definito come conseguenza illogica. Credo piuttosto il
contrario, quantomeno nei metodi di composizione: rispetto
all'esplosivo Non Zero Sumness di oramai 4 anni fa, la forma
canzone è rimasta invariata, specialmente nel suo lato house
funk, fatto di cassa “in quattro”, bassi sub da dancefloor,
sospesi arpeggi di chitarre ed eterei tappeti tastieristici sui
quali si stagliano malinconiche melodie. Lo stile è l'uomo, e
tali probabilmente sono i Planet Funk. Se è vero che le
conseguenze illogiche sono effetto di feconde casualità, non è
scontato che si debba rinunciare alle forme che permettono
all'espressività di mostrarsi in tutta la sua pienezza: in tale
aspetto è rintracciabile una precisa direzione di fondo del
combo italiano. Nonostante questo, non era comunque facile
ripetere l'exploit del capolavoro precedente, e ad essere sinceri
non ci si è riusciti. Si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad
una versione bignamesca del sound che ancora risuona nelle
pareti dell'anima dal 2001, dove l'esplosività tastieristica di
una Inside All The People lascia posto alla linearità nostalgica
di una Everyday o di una The End , dove le evoluzioni
psichedeliche e progressive di una immensa Paraffin si
tramutano nelle atmosfere compassate di una Inhuman
Perfection o di una Laces . Si tratta però di pezzi che portano
ancora in se quella profonda traccia di inafferrabile malinconia
che ha contraddistinto l'umore dei primi Planet Funk, quando
anche un semplice suono è in grado di evocare sensazioni
proveniente dagli angoli più remoti del proprio Io. Non
mancano gli elementi techno e synthpop, sublimati nella
ipnotica Tears After The Rainbow o nel marziale primo (e forse
non riuscitissimo) singolo Stop Me . Ciò che manca è invece la
presenza di Dan Black , incredibile vocalist dal carisma
alienante e dal timbro imperfetto, allucinato ma altamente
comunicativo. Lo ritroviamo in soli 3 pezzi, come
nell'undicesima traccia ( Peak ) che forse non a caso strizza
l'occhio ad un intento dancefloor simile al disco precedente.
Ad accompagnarci attraverso questo viaggio è invece la voce di
John Graham , certamente gradevolissima e calda, ma
anch'essa in linea con lo spirito dell'album, votato ad una
maggiore linearità stilistica. Parte della critica ha sottolineato
come le scelte musicali di questo capitolo dimostrino una
volontà di superamento di schemi pronti all'uso per il successo
commerciale, sulla falsariga dell'opera prima: la defezione di
Dan Black , immagine trainante del vecchio lavoro, ne sarebbe
esempio lampante. E proprio per tale motivo è stavolta
presente su brani secondari ed ovviamente non estratti come
singoli. E' più probabile invece che i Planet Funk abbiano
voluto operare un riassunto della loro formula proprio per
cavalcare l'onda lunga da loro stessi creata e che ancora
permane dopo 4 anni, a discapito di una sincera potenza
esplosiva: sia ben chiaro però che una simile scelta non
pregiudica in modo così drastico la qualità, comunque
elevatissima e tale da rendere questo album estremamente
consigliabile, in quanto è possibile continuare a definire questo
collettivo italo/inglese come una delle realtà più feconde del
panorama musicale europeo. Ed inoltre, una band che ha
avuto il singolo “ Stop Me ” come brano trainante della
campagna pubblicitaria della Coca Cola, non può certo essere
elevata ad esempio di scheggia impazzita del music business.
In definitiva, se avete amato la commistione di housefunk,
chillout, psichedelia, rock ed electropop del primo capitolo,
ritroverete in questo secondo un denominatore comune a
livello di “sentimento” originale, la radice profonda del suono
Planet Funk, in una forma maggiormente ordinata ma
inattaccabile dal punto di vista dell'arrangiamento, della
coesione stilistica e della limpida bellezza delle melodie. Ed
una dimostrazione di come in epoca postmoderna, si possa (ed
anzi, si debba) continuare parlare all'Uomo anche attraverso
gli strumenti della tecnologia. Eppur si muove. Lungi
dall’essere una dimostrazione di ottimismo, purtroppo al
giorno d’oggi assolutamente immotivata, la galileiana
citazione è una semplice testimonianza di come messaggi non
conformisti continuino a trasparire anche da versanti
insospettabili, come in un disco di musica leggera a
distribuzione nazionale. Se il vaso sia pieno e stia cominciando
a traboccare, nessuno può affermarlo con certezza. Ma
quantomeno i segnali di una certa insostenibilità esistono.
Samuele Bersani – Caramella Smog
L’unico onanismo verbale che si può evidenziare parlando di
Bersani è quello di alcuni suoi recensori : se c’è un cantautore
su cui davvero oggi non si può puntualizzare, in quanto il
livello medio si attesta sempre su posizioni degne, è proprio
l’autore di Caramella Smog. Perché se il pop d’autore in Italia
continua a dimostrarsi interessante, lo si deve anche alle 11
piccole perle contenute nell’ultima fatica discografica di questo
talento romagnolo. Il pop dunque, talvolta piacevolmente
intinto nel jazz, in questo caso si fa strumento lieve per
dipingere dubbi e anomalie della postmodernità ; se Bersani
ci aveva commosso con il suo modo avvolgente di trattare
l’amore, ora dispensa critiche dolciamare nei confronti della
società, dei media, dell’uomo che nel 2004 dimentica di essere
tale e si concede gaiamente ai miraggi del villaggio globale.
Appunti delicati, ma dal retrogusto malinconico proprio come
caramelle. In questa occasione, l’aiuto del chitarrista Roberto
Guarino ha dato vita ad arrangiamenti maggiormente
dinamici rispetto al disco precedente (L’Oroscopo Speciale),
dove pianoforte ed archi creavano una miscela al contempo
fresca e struggente. Il risultato è fatto di brani scorrevoli e
capaci di ritagliarsi uno spazio nella mente dell’ascoltatore. In
un mondo dove “i preti pubblicano libri con le confessioni dei
fedeli” ed è sufficiente “avere una carta di credito per non
commettere errori”, Samuele sussurra (senza gridare) il
bisogno di libertà vera e non illusoria – di tornare ad essere
uomini, evitando che logiche frenetiche e troppo grandi
possano costringerci a diventare “soci di minoranza” di noi
stessi. Una critica alla competitività ed al bisogno imposto di
razionalità si fa viva in Binario Tre, brano che si avvale della
collaborazione di Fabio Concato. Non è l’unica presenza
illustre che colora con classe i solchi dell’album : in “Se ti
convincerai” troviamo il pianoforte di Sergio Cammariere a
dipingere sfondi delicati sotto la voce di Bersani, che torna a
parlarci d’amore come in passato ; il rapporto di coppia,
descritto in versi mai come ora dolci e protettivi, è presente
anche in “Pensandoti”. Rocco Tanica (tastierista di Elio E Le
Storie Tese) firma un solo di pianoforte in “Concerto”,
simpatica considerazione sulla vita del musicista, ma più in
generale sui ritmi e sulle esigenze inevitabili del mondo dello
spettacolo. La matrice è sempre la medesima, l’invito è quello
di fermarsi, riscoprire una vita a dimensione umana e cercare
di sottrarsi ai meccanismi alienanti e perversi ereditati dalla
modernità. Così negli accenni country de “Il Destino Di Un
Vip” è ancora la fugacità e l’illusione del successo a finire sotto
la disincantata lente del cantautore, ed in “Conforme alla Cee”
il disaccordo è nei confronti di sterili parametri, talora
dell’estetica, della politica come mezzo esteriore o in primo ed
ultimo luogo del grande mercato del mondo, lo stesso in cui –
dice Bersani “gli occhiali non mi servono più per vedere, ma
per piacere a tutti gli altri” e “anche un calcio nel culo va bene
purchè sia Conforme alla Cee”. Si citano anche “Meraviglia”, il
singolo “Cattiva” (caustico nei confronti del voyeurismo
mediatico, indotto dalla spettacolarizzazione dell’informazione
e della cronaca –quella nera soprattutto, come il delitto di
Cogne) e “Salto la Convivenza”, ambiguo quadretto di un
divorzio. Menzione ultima per il brano che da il titolo al disco,
ovvero Caramella Smog. Spunto integrale di Bersani e posto in
chiusura, questo etereo e psichedelico affresco dal gusto retrò è
indubbiamente il miglior modo di sintetizzare il messaggio che
l’ascolto dell’intero album ha cercato di comunicare,
riuscendoci in modo non comune, con un linguaggio
assolutamente ricco e calzante prima ancora che ermetico,
autoreferenziale o addirittura onanistico. In ogni caso, amaro
come la Caramella Smog, credo.
Caution Radiation Area
L’educazione alla complessità. È questo uno dei capisaldi che
dovrebbe animare una nuova rivoluzione delle coscienze; è
indubbio negare che la massa propriamente detta risponda a
logiche distinte dalla “persona”, e che in via generale sia
inadatta a recepire messaggi troppo strutturati. È però
indubbio che la “massa”, entità omologata e omologante per
eccellenza, fonda la sua logica proprio sull’appiattimento
reciproco degli individui, che agiscono certo per il proprio
personale interesse, ma in modi acritici e affini ad una
tendenza sovraordinata. Ed in tal caso, la qualità specifica
dell’individuo viene dispersa, così come l’unicità che viene a
costituirlo più propriamente come “persona”. Portare a livello
popolare proposte complesse di interpretazione della realtà,
lontane da semplici dualismi (quello politico ne è un esempio) o
schematizzazioni, è la strada per l’educazione alla diversità.
Concepire “più” pensieri e modi di intendere l’esistente è la
strada per il ritorno all’unicità della persona nonché il cardine
per destrutturare dall’interno l’omologazione stessa.
Lo avevano capito gli Area, che tentavano di mettere in musica
una complessità “per il pubblico”, esperimento indubbiamente
coraggioso soprattutto nell’Italia degli anni ’70. Il fermento del
rock progressivo europeo ha spesso avuto propositi affini ma
con il passare del tempo ha esaurito i suoi rivoli verso un
olimpo per appassionati e cultori, eccezion fatta per pochi nomi
illustri. Il combo italiano ambiva viceversa per esplicita
dichiarazione di intenti a fondere linguaggi disparati senza
mai perdere di vista la connotazione “popolare”. International
POPular Group, questa la sigla che accompagnava infatti il
nome della band. Ed ecco che un sistema complesso come
quello del Free Jazz toccava i confini dell’Avanguardia e
dell’Elettronica, passando per la tradizione popolare e folk
mediterranea (ma anche asiatica) fino a giungere talora
all’italiana formacanzone. Ed un tale proposito non poteva
ovviamente che apparire spesso frenetico, incompiuto, in
perenne divenire. Gli Area vengono culturalmente ascritti al
fermento postsessantotto ed appaiono come continuatori dei
propositi della sinistra extraparlamentare; quanto la
circostanza di immagine piuttosto che la reale adesione alla
categoria abbia contribuito all’attribuzione di un tale marchio,
non è dato saperlo. È però indubbio che del caos
sessantottesco, gli Area si portano dietro la mancanza di un
centro, di un nuovo progetto, di una univoca visione del mondo.
Ma questo ne è paradossalmente punto di forza; il loro
obiettivo era la continua creazione, la riflessione spinta fino
alle estreme conseguenze, la destrutturazione dei materiali
sonori al fine di una ricerca che potesse lasciare semi
produttivi. Gli Area come prime radici di una “nuova sintesi”,
che rifiuta la semplicità dell’esistente in nome di un futuro
ancora non precisato, ma certo non timoroso di azzardare
ipotesi. In Caution Radiation Area il linguaggio si fa più
caotico, estremo e talora spinto al limite del parossismo
sonoro. Composizioni lunghe, intricate, a volte teatrali e
rumoristiche sono poste con irruenza alle orecchie di un
pubblico indubbiamente colto di sorpresa, ma senza alcun
pregiudizio. Il solo scopo era quello di una ricerca, magari fine
a se stessa nel momento in cui la si compie, ma estremamente
produttiva per chi verrà dopo e si dedicherà all’analisi, in
quanto “diverso”. Come è scritto nel booklet, si tratta di “una
ricerca che ammette anche l’errore”, che ne è corollario
obbligato. Ed una tale complessità musicale ha un intento
pedagogico per l’ascoltatore, non tanto in una forma compiuta
ed assimilabile, quanto in tutto ciò che di compiuto non vi è.
L’ascoltatore è spinto ad “inferire” i significati da ciò che
ascolta e decifrare –passaggio dopo passaggio il minestrone di
elementi presentato dai musicisti. Si tratta dunque di un
continuo scambio, dove l’esercizio di ricerca formale in musica
diventa esercizio di interpretazione della realtà per l’utente.
L’educazione alla complessità (e la critica alla funzione
omologante del mercato) è racchiusa ancora una volta nel
booklet: «gli "scolari" devono essere tenuti fin dapprincipio a
capire tutto ciò che incontrano nella musica nel senso della
funzione che ha in vista della totalità. Naturalmente questo
ideale di pedagogia musicale –gli astuti critici del rock ci
comprendano presuppone che le opere vengano scelte con
grande senso di responsabilità. Ahimè, la truffa consiste nel
fatto che viene offerta sempre la stessa cosa…o no ?»
Sally Price – I primitivi traditi
Pubblicato nel 1989 con il titolo “Primitive art in civilized
places”, il saggio di Sally Price, costruito secondo la tecnica del
“patchwork” o assemblaggio di fonti, rappresenta sicuramente
una delle uscite più interessanti ed appetibili anche per i non
addetti ai lavori nel campo dell’etnografia e dell’antropologia
dei tempi recenti. L’autrice, che ha insegnato antropologia e
storia dell’arte alla Johns Hopkins University e a Stanford,
tramite il ricorso a fonte delle più diverse si prefigge, come dal
titolo, di dimostrare l’asimmetria reale tra il giudizio
occidentale sull’arte (e sulle modalità di percezione della
storia) prodotta in loco e quella appartenente a realtà “altre”.
E’necessaria tuttavia una premessa : pur conducendoci
sapientemente attraverso le categorie dell’estetica
antropologica, il libro è segnato paradossalmente da un errore
di impostazione ; l’intera critica al giudizio ed alla percezione è
fondata proprio sui loci communes occidentali, e non precisa se
nell’intento di chi scrive sia ammessa la possibilità di
un’incongruenza sostanziale della sensibilità dell’uomo medio
occidentale rispetto ad produttore/creatore altro. In altri
termini, negando ad esempio (e a ragione, sfatando così un
diffuso pregiudizio) una matrice istintiva e primordiale alla
base della creazione di una data tipologia di manufatti
“primitivi”, non ci si pone il dubbio dell’esistenza di una
concezione differente di “istintività” propria dell’humus
culturale sotteso alle culture altre. Del resto,questo è solo uno
dei tanti nodi in cui è possibile imbattersi durante la lettura ;
ma in tempi in cui il valore della diversità mostra il suo volto
pallido e i recenti eventi gonfiano le vele e alimentano la
marcia di un modello grondante ipocrisia e stoltamente fiero
di se come quello occidentale, anche un testo come “I primitivi
traditi” potrebbe tornare utile alla causa della differenza.
Partendo dalla definizione della concezione di “arte primitiva”,
viene delineata la “moneta corrente ideologica” della nostra
società ; evitando di impelagarsi in sterminate dissertazioni
sul concetto di “primitivo” , viene dimostrato come l’arte altra
venga primariamente deumanizzata, delegittimata e
successivamente riabilitata o promossa dal benefattore o
conoscitore occidentale. Hooper e Burland puntano
l’attenzione sulle “cognizioni meccaniche insufficienti”, così
come Douglas Newton indica nello scarso livello tecnologico
raggiunto dalle società produttrici un indizio plausibile ed un
criterio certo per identificare la tipologia di arte primitiva.
Altri criteri seguono gli elementi della vicinanza del prodotto
ai disegni dei malati, dei bambini o delle scimmie, ad
evocazioni pagane, religiose o spiritiche. L’arte realizzata da
tali persone assurge dunque al livello di prodotto dei “fratelli
minori” della Famiglia dell’Uomo, “non abituati a reprimere le
loro pulsioni naturali secondo i parametri del comportamento
civilizzato”. Ma chi è dunque abilitato a promuovere il
manufatto etnografico a oggetto d’arte o viceversa ? Chi ha il
compito di stabilire gerarchie estetiche ? Dalla descrizione
della figura del Conoscitore, si evince un oscillazione tra un
personaggio capace, tramite modalità comunque coscienti ed
intenzionali , di selezionare e discernere secondo
un’inclinazione innata (il buon gusto), ed una tipologia di
esperto le cui griglie concettuali sono frutto esclusivo del
processo di acculturazione della società in cui vive. Secondo
Kenneth Clarke (che si ricrederà personalmente) era
addirittura da escludere la possibilità dell’occhio come “organo
educato” –citando Franz Boas e la pura fruizione estetica
costituiva il discriminante di un mondo in cui tutti sono
potenziali conoscitori al di la dei condizionamenti di mode,
posizioni sociali o specializzazioni. Nella grande Famiglia
Umana dunque un esplicito orizzonte di universalità fa si che
l’intenditore occidentale possa promuovere e giudicare l’arte
del mondo intero permettendosi di prescindere dal contesto
culturale. Paradossalmente, il creatore altro non è abilitato
all’operazione inversa ; se si considera che nella nostra società
basta un’etichetta a sancire il valore di un prodotto, si
dimostra in tutta la sua banalità un concetto che dovrebbe
essere diffuso ma purtroppo non lo è; l’unidirezionalità sottesa
ad un tale ragionamento si ripresenta dunque in ogni aspetto
considerato dall’analisi del testo. Il secondo capitolo è
fondamentale nell’architettura della tesi di Sally Price ; la
definizione del “principio di Universalità” prende le mosse
dalla considerazione sullo sviluppo della comunicazione e del
mercato globale ; l’illusione di un mondo alla portata di tutti
ha per l’osservatore occidentale il sapore dell’Unità,
dell’Eguaglianza e della Fraternità ;l’idea implicita della
famiglia umana si evince dai fenomeni pubblicitari,musicali o
sociali quali ad esempio la teoria del Buon Selvaggio, i
manifesti della Benetton, il successo della canzone We Are The
World, la retorica delle associazioni solidaristiche di carattere
planetario o la propaganda “umanitaria” (tra i topoi del caso è
da segnalare la bambina bionda che mostra affetto al bambino
nero o il soldato che soccorre ed aiuta bambini, civili o feriti di
parte avversa).Denominatore comune di una tale ispirazione
filantropica è il fatto che al botteghino dello spettacolo della
Fratellanza Globale siedano soltanto bigliettai occidentali, che
grazie alla loro benevolenza accordano ai loro fratelli minori la
possibilità di mostrarsi e mostrare conseguentemente anche i
loro prodotti una volta promossi allo status di oggetti d’arte.
Leonard Bernstein, forte dell’influenza di Noam Chomsky,
rintraccia questa universalità tramite la musica e la
linguistica, arrivando a formulare la teoria di una monogenesi.
Anche l’arte conseguentemente assurge al livello di
“linguaggio universale”, “fattore unificante” in quanto prodotto
di sensibilità comuni a tutti gli uomini, tendenti
“naturalmente” alle stesse aspirazioni di fondo quali il
“benessere” e la “salute”(Suzan Vogel). Si fondono dunque in
un unico calderone e si mettono sullo stesso piano dei concetti
che richiederebbero invece un’analisi endogena ed induttiva.
Secondo Henry Moore, Paul Wingert e Ladislas Segy l’arte
primitiva sarebbe espressione di pulsioni dirette ed elementari
; ponendo così sulla medesima scala interpretativa ogni
tipologia di produzione artistica vengono rase al suolo in un
solo colpo le diversità. Ma si tratta di un pregiudizio assai
diffuso anche nella sensibilità corrente; Judith Zilczer ha
giustamente osservato che per gli artisti e i critici occidentali
“i neri africani rappresentano l’infanzia culturale
dell’umanità”. Nella nostra società gli stimoli “essenziali” e
“primordiali” sarebbero stati sepolti da “una moltitudine di
stimoli parassitari” (Wingert) ; tale scenario,prospettato da
un’affermazione che tristemente si colloca negli anni’70, si
mostra ulteriormente legittimato dalla fallace
premessa,peraltro già evidenziata, secondo cui tutti gli uomini,
per la loro natura universale, dovrebbero condividere le stesse
aspirazioni di fondo.
Il lato oscuro dell’uomo, incarnato dalla produzione del
diverso, è dunque il tema sviluppato dal capitolo seguente.
JeanLouis Paudrat ci descrive come, secondo reminiscenze di
Voltaire, la figura del Negro sia automaticamente posta in
relazione con il Maligno, infarcita di superstizioni in stretto
contatto con le origini della storia dell’umanità. Ma tale
eredità illuminista è viva e vegeta ai tempi nostri. Le
rappresentazioni primitive parrebbero ispirate da paura ed
ignoranza, e i loro limiti sarebbero “sottoprodotti del lento
sviluppo delle facoltà intellettuali umane” (Erwin
O.Christensen, 1955). Esemplare è il caso dell’opera africana
nota in Occidente come “testa Brummel”, letta dallo scultore
Jacob come evocazione di uno spirito emblematico di forze
occulte. Ancora, secondo Myers “per il nero dell’africa
occidentale non sussiste la nostra distinzione tra realtà e
irrealtà”. In sintesi, l’arte altra sarebbe il prodotto del terrore
di uomini succubi dell’ignoranza. Immagini di male e morte
sarebbero unicamente alla base dell’intenzione artistica. Da
notare inoltre l’insistenza sull’erotismo e le pulsioni
“primitive”,nonchè l’ossessione che ogni oggetto celi la
fissazione per la sessualità ; ennesimo esempio di una
sottocultura evoluzionistica, purtroppo in gran forma ai giorni
nostri, che dipinge i popoli non occidentali come selvaggi
incivili ed al contempo “liberi” dai condizionamenti di una
società (la nostra) che li seguirebbe cronologicamente. Come
tale prospettiva sia abusata persino a livello pubblicitario ci
viene mostrato dal noto dualismo tra la presunta “genuinità
del selvaggio” e “l’artificialità del civilizzato”.La sistematica
decontestualizzazione di pratiche e usanze e l’ignoranza delle
concezioni e visioni altre smaschera un etnocentrismo radicale
che si manifesta persino nelle più semplici operazioni di
giudizio, e quanto il concetto di relativismo culturale sia
astruso dalla logica del pensiero popolare è testimoniato
dall’atteggiamento di una custode del Metropolitan Museum of
Modern Art, che descrivendo i costumi sociali della tribù
Asmat della Nuova Guinea esplicita una improponibile sequela
di stereotipi a partire dalla confusione del luogo abitato dalla
suddetta tribù con l’Africa. La pur precisa esposizione dei
dettagli etnografici coincide pedissequamente con il loro
fraintendimento. Si passa poi a disquisire riguardo al
pregiudizio dell’anonimato dell’artista e dell’atemporalità del
suo operato ; L’ enciclopedica distinzione occidentale di
individualità e periodi stilistici si scontra con una visione
asimmetrica del creatore altro e conduce inevitabilmente e
erroneamente ad etichettare un qualsiasi scultore africano
come impersonale strumento di una tradizione tirannica e
ripetutamente uguale a se stessa, dove la personalità
individuale è del tutto assente. Tra i primi a focalizzare tale
problematica troviamo Franz Boas, che ha invitato a porre
maggior accento sulla creatività dei singoli e sui cambiamenti
storici. Il rovescio della medaglia si manifesta nel fenomeno
dell’inquadramento dei reperti etnografici ; l’approfondimento
contestualizzante, comprensivo di religione, società e tecnica
diviene un cardine della museografia e all’opera primitiva
viene negata la possibilità della fruizione estetica pura
accordata invece all’oggetto occidentale. Si apprezza perciò il
valore dell’opera in maniera inversamente proporzionale alla
quantità dei dati relativi informativi. Si profila così la
distinzione di Mairaux tra l’arte per destinazione, avente per
oggetto l’arte in se, e l’arte per metamorfosi, che esplicita il
suo uso e la sua funzione specifica in un determinato contesto.
L’unidirezionalità di una tale operazione logica si mostra in
tutta la sua evidenza.
Ancora interessanti riflessioni si evincono dalla definizione dei
cosiddetti “giochi di potere”; è l’occhio selettivo dell’occidentale
a promuovere gli oggetti etnografici ad opere d’arte,
decidendone le modalità di salvaguardia. Il sistema possiede le
risorse finanziarie e comunicative per accordare il valore
dell’opera, e conseguentemente ne incentiva la produzione
artistica in base alla richiesta, snaturalizzandone le ragioni
secondo il ben noto meccanismo della mercificazione
dell’arte.Nel migliore dei casi, la pregnanza artistica rimane in
parte intatta al prezzo di un’ibridazione. Le regole per
impossessarsi di tali opere sono ovviamente stabilite dagli
occidentali, che spesso ricorrono a veri e propri furti violando
l’integrità sociale e la dimensione spirituale di intere comunità
; caso esemplare è la menzionata spedizione etnografica a
Dakar del 1931, in cui la vergognosa sottrazione dei “Kono”,
importanti maschere rituali della popolazione locale, ci è
documentata dalle pagine di un diario. Uno statuto degli anni
’50 regolerà in seguito l’attività museografica, ma eluderà il
problema in quanto porrà i suoi cardini sul presunto diritto
occidentale di “preservare” un patrimonio che in altri modi
andrebbe “perduto” e sull’indennizzo economico dei
proprietari, una volta introdotti della logica di mercati interni
assolutamente estranei a determinate culture.
In ultimo, è importante segnalare le considerazioni intorno
alla tipologia di amatore d’arte. Se gli oggetti etnografici sono
inquadrati all’interno di un museo occidentale, cosa ne attesta
il valore ?
Non è la firma del creatore (come accadrebbe in altri casi) ma
il “pedigree”, ossia la discendenza genealogica autenticata,
avvalorata o macchiata dai precedenti possessori (in tal caso,
l’oggetto è svalutato dal senso comune) , da pubblicazioni,
critiche e certificazioni del valore. Chiude il libro un intero
capitolo ( “un caso concreto” ) dedicato alla popolazione
Maroon del Suriname, in cui vengono affrontati tanti dei temi
in cui ci si è potuto imbattere nel corso della lettura. Emergono
dunque, dal testo della Price, tantissimi spunti estremamente
utili per il dibattito attuale consigliatissimo in relazione alla
fluidità delle argomentazioni e ancor di più per l’ingiustificata
indifferenza con cui è stato accolto al di fuori degli ambienti
accademici o specialistici.
Tra Sessantotto e psichedelia, spazio e mente :
la fuga centripeta dei Pink Floyd.
Per dirla con Hemingway, non si può fuggir da se stessi
vagando di luogo in luogo. L’ossessiva ricerca dell’altro non
riflette forse una mancanza personale, una necessità di
indagine ? Con la giusta dose di astrazione, questo è il caso
dell’epopea floydiana, che grazie allo strumento della
psichedelia ha attraversato le contraddizioni proprie di una
quest apparentemente proiettata verso l’esterno, ma invero
rivolta all’uomo ed alla sua condizione. I Pink Floyd, band
onnipresente nell’immaginario del musicista medio prima
ancora delle proprie stesse note, hanno contribuito a creare
attorno a se un fitto alone “cosmico” e spaziale, in cui la
motilità lisergica della mente del primo chitarrista Syd
Barrett ha influito non poco. Alone considerato a torto
essenziale in tutta la loro carriera, fino ancora al vendutissimo
album The Dark Side Of The Moon del 1973. Eppure, in questo
stralunato e dissonante viaggio verso orizzonti lontani (ben
rappresentato dai brani del primo album “The Piper At The
Gates Of Dawn” del 1967), sono già presenti i germi della
futura svolta dei musicisti londinesi ; in parallelo con il forzato
allontanamento di Barrett, ormai lanciato a folle velocità nel
suo acido universo, la loro proverbiale “aurea medietà” di
musiche, ora magniloquenti e rilassate, e di testi, ora
proiettati verso l’interno, prende il sopravvento.
In questo i Pink Floyd riflettono le contraddizioni degli anni e
dell’atmosfera dalla quale anche loro in parte presero le mosse;
nella translucente, psichedelica e borghese Swingin’London
della seconda metà degli anni ’60, la musica di questi cinque
inglesi riesce ben presto a divincolarsi e sopravvivere alla
deflagrazione ; e già con il termine della Summer Of Love del
1967 un rispettabile contratto con la EMI (e la cacciata di
Barrett) pone sui binari della normalità quello che pareva
essere una versione europea della psichedelia tout
court,colonna sonora del Flower Power d’oltreoceano. Con i
dovuti distinguo; nel contempo riassuntiva e differente, tale
musica aveva in effetti poco a che spartire con l’acid rock
americano. D’ora in poi si potrà invece parlare di psichedelia
soltanto nel senso etimologico del termine. Dal punto di vista
della forma, il gruppo si è indubbiamente contraddistinto fin
dagli inizi per una spiccata propensione alla dimensione live ;
dai celebri light shows fino ai mastodontici e plurimiliardari
tour mondiali (culminati con gli esorbitanti numeri per lo
spettacolo di “The Division Bell” del 1994), è rintracciabile la
linea comune di una carriera del tutto conforme ai dettami
consumistici ; scheggia impazzita nata dagli anni della
contestazione, i Pink Floyd hanno adeguato i loro schemi al
turbinio del music business, con il non trascurabile pregio di
non aver mai perso una propria identità. Dagli hippies agli
yuppies, come polemicamente qualcuno ha sentenziato ;
musicalmente, formalmente, psicologicamente. Eppure
erronea e fallace è la lettura del fenomeno floydiano secondo
una così ferrea interpretazione ; eccezion fatta per Barrett, i
restanti componenti del gruppo non sono mai assurti allo
status di “rockstar” ne tantomeno di personaggi ; uomini
schivi e riservati, quasi eclissati persino sul palco dal suono
etereo della loro musica. Ed a livello di contenuti, innegabile è
stata la capacità, per un concept rock, di sondare i mali della
società contemporanea occidentale ; talvolta in maniera pur
banale, altre sotto una tenue ma geniale luce, i temi
considerati sono stati vagliati attraverso gli strumenti
dell’ironia, del gioco linguistico, del teatro e soprattutto del
metateatro ; nella mastodontica opera di “The Wall” del 1979,
la condizione disagiata del musicistashowman si esplicita,
autorappresentandosi e descrivendo egregiamente le tappe
dell’incomunicabilità dapprima tra uomo e pubblico, da
estendersi tra uomo e uomo. L’autismo che si origina è dunque
derivato da traumi, meccaniche e pesanti sovrastrutture
capaci di inquinare l’autenticità dei contatti e dei legami: ben
viva è la descrizione dell’attuale società del “bisogno forzato”,
sia esso degli “applausi”, della droga, del denaro, del potere.
Un caso significativo :
Testi e musiche di “The Dark Side Of The Moon”
Il già citato “The Dark Side Of The Moon”, disco da 30 milioni
di copie, è l’emblema di come il successo planetario di un
prodotto non sia di per se inversamente proporzionale al valore
qualitativo. Quello che si presenta è invece un calderone senza
pari, che sotto l’egida della pazzia fotografa vizi ed affanni
dell’uomo “occidentale” alle prese con i ritmi della vita e
l’assenza di un equilibrio, con il tempo, con il denaro e con i
suoi labili appigli.
Ovviamente ricorrente è la metafora immediata con i
riferimenti al sole ed alla luna, a scandire un immaginario
parallelo con la luce e l’oscurità nella mente dell’uomo (nonché
con il respiro cosmico, concepito in varie accezioni dalle
filosofie orientali), la cui controparte, inevitabilmente
presente, è proprio quel “lato oscuro” che altro non è che la
fisiologica incertezza che inconsciamente si rimuove,
chiudendosi spesso in un’ebete ottimismo ; un discorso,
quest’ultimo, che risulta facilmente applicabile all’attitudine
mentale dominante ancora ai giorni nostri.
Il brano “Breathe” ( “respira”) è una precisa fotografia della
rincorsa quotidiana verso il nulla ; il verbo “to run” ( =
correre ) è presente nel brano nonché più volte ripetuto nel
disco, con accezioni differenti. Il monito è quello di respirare,
fermarsi, riscoprire il legame (“parti, ma non lasciarmi” ,
“scegli il terreno adatto”) nonostante le irremovibili spinte alle
quali la società sottopone (“per quanto in alto voli / tutto ciò
che tocchi e che vedi”). Ma il messaggio è decisamente
pessimista, in pieno accordo con l’indole di Waters : “corri
coniglio, corri, scavati un buco, dimentica il sole / per quanto
tu via ed in alto voli “. L’inutilità e la pericolosità della
frenesia moderna è incarnata dagli ultimi versi, in quanto “se
cavalchi la corrente, tenendoti saldo sull’onda più grossa, vai
velocemente verso il sepolcro”. Il brano seguente non a caso si
chiama ancora “On The Run”, intermezzo strumentale
psicotico, sorretto da un ripetuto arpeggio del sintetizzatore. Il
concetto del correre è ripreso anche nel brano “Time”, che
all’inesorabile scorrere del tempo contrappone un uomo
perennemente incapace di coglierlo in relazione al suo valore,
sempre a disagio e mai appagato da esso. La “rincorsa” in
questo caso è tardiva e mai risolutiva : “corri corri per
raggiungere il sole, ma sta tramontando, correndo in tondo per
rispuntare ancora dietro di te”. Lo stesso sole, che simboleggia
la vita agognata, è rappresentato in movimento, in un circolo
vizioso, in quella romantica tensione verso il nulla che oggi –
viene da pensare è inficiata dai venti squilibranti della
competizione, non più fisiologica bensì indotta dal pervasivo
utilitarismo. I rapporti reali sono stravolti, la percezione della
propria osmosi umana e temporale è alterata. Ed infatti “non
sembri mai pago del tempo, fra progetti che finiscono nel
nulla”, questa è l’amara constatazione di Waters, che dimostra
testualmente di essere la prima vittima di tale meccanismo
non avendo a disposizione ulteriori minuti nello stesso brano
per continuare il discorso. L’atmosfera perentoria è
temporaneamente stemperata dagli episodi di “Breathe –
reprise” e dal bellissimo e commovente strumentale “The
Great Gig in the Sky”.
Il caratteristico incedere in 7/4 ci conduce successivamente
attraverso la famosa “Money”, invettiva contro il denaro,
definito “radice di ogni male contemporaneo” ; interessante è
la successiva presenza dell’avversativa introdotta da
“But…”;“ma se domandi un aumento, non sorprenderti se non
ti concederanno nulla”, questo è il suono della frase, quasi a
significare che il male del denaro è insito inevitabilmente nel
suo autonomo potere di richiamo e di mobilitazione stessa
dell’uomo, e non ovviamente nel suo configurarsi come oggetto,
al pari di altri. In ogni caso, in generale il brano descrive la
contraddizione quotidiana generata nell’uomo dallo “sterco del
demonio”. Infine, utile è citare i due brani conclusivi, ovvero
“Brain Damage” ed “Eclipse”. Il primo ci descrive la pazzia
come condizione fisiologica di chiunque si accorga ( o forse
ammetta ) di aver perso determinate certezze (“se la diga si
squarcia prima del previsto / se la testa ti scoppia in oscure
profezie” ) ; il “lato oscuro della luna” è il luogo in cui
inevitabilmente ci si ritrova con chi abbia “un pazzo nella
propria testa”, e non già con chi sia pazzo egli stesso. Questa
sottile intuizione di Waters ben si esprime nella frase ”c’è
qualcuno nella mia mente, ma non sono io”. E’ dunque il
destino stesso ad imporre di convivere con il proprio
fantomatico “dark side”. A riprova di questo, “Eclipse” ancora
una volta ribadisce che “ogni cosa sotto il sole è in sintonia, ma
il sole è eclissato dalla luna…”. Lungi da un discorso di
spazialità concreta o fantascientifica, la cinesi dei Pink Floyd è
evidentemente interna. Volendo estremizzare il discorso,
l’intera opera discografica del gruppo elude il concetto
occidentale di “dissociazione”, rintracciabile da Platone in poi.
Spazio interiore e cosmico sono due facce della stessa
medaglia. Come il sole e la luna, o la luna medesima nei suoi
due lati. Spunti interessanti a proposito derivano dall’analisi
storica del Buddismo coreano di Chont’ae (10551101).
Non raro è d’altra parte rilevare l’interesse per il buddismo in
risposta alla voglia di fuga da un tipo di società alienante e
tecnocratico ; già Jack Kerouac, in The Dharma Bums (I
vagabondi del Dharma, 1958), evidenziava seppur in modo
personale la sua adesione alla filosofia Zen. Il discrimine tra
ricerca spirituale e decadenza alcolica in questo caso si è però
fatto molto labile ; la compentrazione tra il fenomeno beat, la
psichedelia (e conseguentemente il clima lisergico) è
ampiamente comprovata, ma c’è da dire che al contrario di
tanti “eroi” di quegli anni, i Pink Floyd non ebbero il coraggio
di premere il pedale dell’accelleratore fino in fondo ed
immolarsi tali, imboccando per tempo il bivio della defluenza.
O forse fu semplicemente un’intuizione,una scelta,guidata da
una non totale appartenenza che consentì una “fuga
centripeta” piuttosto che l’emorragia verso i paradisi
artificiali. Quella “energia allo stato puro” così vivamente
espressa dal protagonista di “On The Road” (Jack Kerouac,
1957), non era forse priva di meta ? Non si doveva, per detta
dello stesso Kerouac, “arrivare in qualche punto, trovare
qualcosa” ? Si tratta del medesimo “saldo centro interiore”
mancante, che indicava Julius Evola nella sua critica alla
figura del beatster. Inizialmente attratto dalla carica
anarchica ed antisociale di una tale figura proto
rivoluzionaria, egli ebbe modo di appurarne per tempo
l’inconsistenza, nonché il rischio dello smarrimento nelle
illusioni neoborghesi. Kerouac, già a partire dalla
pubblicazione di Big Sur (1967) è in grado di accorgersi della
contraddizione, con il sopraggiunto successo paradossalmente
alimentato dall’underground protestatario. Forse i Pink Floyd
erano diversi, puntavano fin dagli inizi su altri lidi, con
strumenti affini ; la direzione è invertita ; la ricerca collassa
su se stessa, attorno ad un punto ancora fuggevole ma in
perenne via di definizione. E la nuova percezione del viaggio
non ha più a che fare in maniera pedissequa con il trip
psichedelico, già dal secondo disco “A Saucerful Of Secrets” del
1968. Se lo stile disturbato delle composizioni Barrettiane
trovava un parallelo e similare riscontro nelle forme esplosive
e sperimentali della prima prosa della Beat Generation, con i
suoi “stacchi” e i suoi “frammenti”, la linearità ora plumbea,
ora solare del tempo a “quattro quarti lento” dei nuovi Floyd, ci
guida attraverso dei testi che a tutto mirano, fuorchè ad
allontanarsi da un indefinibile fulcro. Insomma, una fuga
centripeta.
VERSI
Etereo pensare nel rosa dell'aria
che avvolge la vita nel manto del corso
ed intimo ardore sovrasta il rimorso
che invade l'ebbrezza della memoria
Sulfureo vagare nel cielo di gloria
stringendo le stelle del tempo trascorso
antico calore offre un gravido sorso
vivendo nel sole di un'immensa storia
Le ombre decise del male
si smaltano d'aureo piacere
brillando nel nuovo presente
Va via in un bisogno vitale
l'oblio di parole sincere
riempiendo di gioia la mente
(2)
Se posi il tuo sguardo più ingenuo nel vero
il vago che grida
dal cuore
s'innalza
ma il senno ed il tedio del senso
rimbalza
tra spazi di mente dipinti di nero
(MEMENTO)
le notti d'estate
così eterne
così erotiche, così
totali
memori di un passato
che si estende oltre se stessi
che appartiene ad esperienze
pensieri, talora è il passato degli
oggetti, di ciò che sarebbe potuto essere e non
è stato
e di ciò che
è stato
quelle stelle, sempre immense e rilassate
ne sono consapevoli
forse più degli uomini
la luna
talvolta accesa, altre volte
vivacemente caldamente
fredda, sembra invitare i pensieri
a correre
verso lidi dimenticati, pregnanti, insondabili
dalla finestra il suo disco appare
permeato da un alone che
come un'immaginaria bussola
orienta la mente al ricordo
così forse si svela l'essenza di questo grandioso e inarrestabile
flusso che chiamiamo vita
ripartire ogni volta dal cuore
setacciare i frammenti d'esistenza, discernere
sospirare
così
totali
le notti d'estate
sospirare
respirare odori di prati e alberi
di strade intinte di luce fioca
ancora alberi, cani che abbaiano
e quando si è via
odori diversi, talora
opposti
eppure uguali
sotto il cielo d'estate
così totale
il mare, l'amore
la brezza, gli amici, ebbre
di quello che fu
le ore notturne
si perdono
in attesa di nuove epifanie
quello che saranno, le notti
è dunque in parte già scritto
il mare il terrazzo giacciono prima
ed ora sotto l'unico cielo
così eterno
un motore in lontananza, rumori, musica
la gente parla, si muove, sorride
quanti cuori rapisce la notte d'estate, risate
vedo
mi perdo
grazie
Morale sotto i tacchi
Ho come l’impressione che si stia tuffando nel mondo pseudo
borghese e questo stia succedendo prima del previsto. Che poi, non è
mica obbligatorio andare a finire così. Del resto nemmeno lui lo
voleva. D’altra parte, lo testimonia quella bandiera rossonera di
fronte, che per quanto i colori non mi garbino affatto – per
motivazioni a me stesso ignote – giace anacronistica ancora lì.
Non so nemmeno dove sia ora, è già più tardi del solito. Tornerà
grondante di birra come ai vecchi tempi? Se lo può concedere forse.
Passo la maggior parte del mio tempo ad osservare questo
panorama privato, queste mura che sono teatro del rifugio
esistenziale. Perché diciamocelo chiaramente, poveretto, cosa
dovrebbe fare? Vuoi forse dargli torto? Quando l’unico rimedio alla
squallidità dell’eccellente pelatone diviene un piatto di spinaci
scongelati e una birra del discount, allora capisco che non è il caso
di puntarmi tanto con discorsi di principio sulla sua dimensione di
neotrentenne. Mai una donna, qui.
Eppure se qualche giorno mi facesse il favore, almeno potrei
osservare lo spettacolo dalla mia prospettiva privilegiata.
Non sono certo un guardone, e se lo sono è perché si tratta della mia
unica possibilità. In fondo io e lui ci assomigliamo un po’. Con la
differenza che io non mi pongo problemi di sorta. Sono un
personaggio verghiano, sono nato dito piccolo e faccio da dito piccolo
senza lamentarmi. Mi ritengo piuttosto fortunato, in questi tempi di
precariato esistenziale. Comunque vada io sarò qui e potrò
osservare la questione.
Eh, lo so.
Sto bene, non ho avuto molto tempo ultimamente.
Mi piacerebbe, dai, organizziamo prima o poi.
…
Lo so che c’è del nondetto. Vorrei proprio accendere quel pc per
vedere dove si riversa il contenuto mancante di questa vita. Sono
sicuro che la vera vita non è da quelle parti. Alla fine giace
compressa in queste quattro mura, nelle pareti sferiche del suo
cervello e nei bit informatici di qualche documento o pagina di un
blog.
Ma come cazzo sto parlando?
Non mi si addice proprio un’analisi così profonda delle personalità
umane. Sto facendo da dito grande. Mi sto contraddicendo, diamine.
Non ci vediamo tanto spesso, se devo essere onesto. Mai la
domenica. Ancora una volta non so dove vada, che si dedichi a
qualche rigenerante passatempo? O sia preda di una mediocre
abitudine italica? Anche in quel caso, però non mi sento in grado di
elargire giudizi negativi, di sputare sentenze.
Generalmente i giorni in cui un odore di alcool e doppio malto
invadeva l’etere sopra di me erano il mercoledì e il sabato.
Pluc.
Pluc.
Bip.
Solo dieci anni fa abitavamo da un’altra parte. Lui non era solo, ma
ancora con la famiglia. Quando è venuto qui ho deciso di seguirlo,
era così carico di buoni propositi. Il tipico entusiasmo gaio di chi
intraprende una nuova esperienza, convinto di avere di fronte a se
le infinite vie di indipendenza ed autogestione. I soldi arriveranno,
nel frattempo ci arrangiamo con un pacco di spinaci surgelati. Le
giornate sono quasi tutte uguali ormai.
Dicevo, dieci anni fa accendeva ancora il suo 486 Dx4 100 (già in
parabola più che decadente) e metteva su il buon vecchio
ZakMcKracken. La stanza di Zak era simile a questa. Manca il
pesce nella boccia, e le assi sconnesse sotto il tappeto. Ma quella
finestra che dava su San Francisco, facendo immaginare tutto ciò
che si sarebbe potuto fare e non si poteva fare, quella finestra è una
stretta parente di questa. Per fortuna mancano quegli orribili
grattacieli, ma l’incidenza della luce solare origina lo stesso
continui sospiri.
Dietro di me, finalmente la serratura rumoreggia.
Che sia la volta buona?