appunti su cose che contano 7 gen 2010

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Febbre Un'immagine,un ricordo. Torno a casa, era sera, era il tempo delle scuole medie. Il buio che arriva presto, prima del solito e di quanto fossi abituato a vedere dopo una stagione di sole, ti ricorda che è ora di mettersi a lavoro, che tutto è ricominciato. Che potrai però trovare, quando rientri a casa e non c'è nient'altro da fare, il camino acceso. Magari è martedì e c'è pure l'ennesima partita dell'Inter in Coppa Uefa. Mio padre ha appena installato Windows 95. Che novità,e gira un video sul monitor, Good Times di Edie Brickell. Il senso di inquietudine per il domani si placa, che poi il domani di allora era solo un'interrogazione di italiano al massimo. La dimensione del presente serale era un mondo che già in quel momento spariva, perché arrivava Windows e tutti i miei floppy con i giochi per Ms-Dos avrebbero fatto una brutta fine, ma io non lo sapevo. E infatti non si stava per niente male, del resto le prime riviste con i Cd pieni zeppi di demo per il nuovo sistema operativo riempivano il tempo e potevo pure passare ore a frugarci dentro. C'era pure una sorta di compilation, mi muovevo all'interno di un astronave lanciata nello spazio, osservando il cosmo illimitato passare lentamente al di là dei vetri virtuali. In alcune sale del veicolo spaziale, delle pedane da cui potevo provare i videogames del futuro. Ma il mio gioco prediletto era proprio l'interfaccia da cui potevo fare questo. Insomma, il ripiego nella dimensione individuale, il rifiuto dell'impegno sociale e della costrizione responsabile, l'utilizzo 

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Raccolta

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Febbre

Un'immagine,un ricordo.

Torno a casa, era sera, era il tempo delle scuole medie. Il buio 

che arriva presto, prima del solito e di quanto fossi abituato a 

vedere   dopo   una   stagione   di   sole,   ti   ricorda   che   è   ora   di 

mettersi  a   lavoro,   che  tutto  è   ricominciato.  Che  potrai  però 

trovare, quando rientri a casa e non c'è nient'altro da fare, il 

camino acceso. Magari è martedì e c'è pure l'ennesima partita 

dell'Inter   in   Coppa   Uefa.   Mio   padre   ha   appena   installato 

Windows  95.  Che  novità,e   gira  un  video   sul  monitor,  Good 

Times di Edie Brickell. Il senso di inquietudine per il domani 

si placa, che poi il domani di allora era solo un'interrogazione 

di italiano al massimo. La dimensione del presente serale era 

un mondo che già in quel momento spariva, perché  arrivava 

Windows   e   tutti   i   miei   floppy   con   i   giochi   per   Ms­Dos 

avrebbero fatto una brutta fine, ma io non lo sapevo. E infatti 

non si stava per niente male, del resto le prime riviste con i Cd 

pieni zeppi di demo per il nuovo sistema operativo riempivano 

il   tempo e potevo pure passare ore a   frugarci  dentro.  C'era 

pure una sorta di compilation, mi muovevo all'interno di un 

astronave lanciata nello spazio, osservando il cosmo illimitato 

passare lentamente al di là dei vetri virtuali. In alcune sale 

del   veicolo   spaziale,   delle   pedane   da   cui   potevo   provare   i 

videogames del futuro. Ma il mio gioco prediletto era proprio 

l'interfaccia da cui potevo fare questo.

Insomma,   il   ripiego   nella   dimensione   individuale,   il   rifiuto 

dell'impegno sociale e della costrizione responsabile, l'utilizzo 

volutamente   dispersivo   del   mio   tempo;   stratagemmi   di 

sopravvivenza   e   di   equilibrio   mentale   come   il   mio   blog. 

Quando ci devo e ci dovrò essere per gli altri o per un altro non 

mancherò, forse. Forse, già. Perché ho sperimentato anche la 

possibilità di non rispondere bene più nemmeno a me stesso, a 

fronteggiare comportamento e reazioni (del mio io e del mio 

corpo) che non conoscevo, non credevo possibili  o pensavo di 

poter controllare agevolmente,   rifuggite  in base ad un etica 

tutta mia, forse stoltamente elevata al Giusto in un continuo 

di mancata umiltà.

Mi è stato detto che spesso ho la forza di volare basso, di non 

sbattere i pugni anche quando ci sarebbe necessità. Ho troppa 

umiltà allora? Comincio a non crederlo, anche perché di punto 

in bianco reagisco. E mi meraviglio.  Un post sul blog è  una 

l'esigenza di razionalizzare la mia vita, e l'anteprima di una 

reazione  a  qualcosa.  Ma quale   reazione?  Forse  all'attesa  di 

qualche mese fino ad un altro post.

Era di questo che volevo parlare?

In fondo non lo so, perché vedi, in fondo il problema è sempre 

lo stesso. I pensieri e le riflessioni, le ipotesi e i tarli spingono 

con   violenza   sulle   pareti   del   mio   cranio,   fanno   male   e   da 

qualche parte  devono pur  uscire  ma sono  tanti  e   impazziti, 

quando escono  trovano  spesso una via di   fuga  inopportuna, 

voglio dire, non è  da lì  che dovevano uscire, forse non erano 

nemmeno quelli che dovevano vedere la luce per primi. Regna 

il  caos e  il  disordine,  l'anarchia della mente che è  talmente 

profonda ed ampia da divenire ingestibile. Ci vuole qualcuno 

che la gestisca da fuori, ecco. 

Perché io non basto più probabilmente. 

Gestitemi.

Sull'uscio   del   mio   cervello,   dicevo,   c'è   un   imbuto   pazzesco.

La mia mente esausta vomita. E' un organo del corpo, malato e 

pulsante, che rigetta virus da piccole ferite.

E' stato un fine settimana pesante, che ha offerto spunti per 

sublimazione di un po'di me.

Scrivo col mio regolare mal di pancia, per la cronaca. In questi 

giorni ho sommato più sofferenze, di vario tipo. Chissà perché 

ma non riesco mai a scindere gli eventi, ogni cosa che accade 

mi da occasione di riflettere su tutto, trovo un nesso a tutte le 

dimensioni della mia esistenza.

Come un sistema perfettamente organico, come un tutto le cui 

parti   sono   interconnesse.   Ogni   volta   è   il   punto   della 

situazione. O meglio, i due punti. Un discorso aperto, che non 

si chiude mai, come la vita. Anche la vita di chi non c'è più, 

improvvisamente.   Che   poi   nessuno   se   ne   va   per   sempre, 

sembra retorica ma non lo è affatto, non lo credo affatto.

Il   senso  di   impotenza di   fronte  agli   eventi,   già  descritto   in 

passato. Sapere che di fronte a certe dinamiche nulla si può è 

intrinsecamente limitante per l'uomo nel mondo. Ma è molto 

importante comprendere che se  nulla  si  può,  probabilmente 

nulla   si   deve   o   si   dovrebbe.   Tutto   qua.   Mi   dispiace 

sinceramente per quello che è accaduto, anche se non ho avuto 

modo di approfondire un rapporto o entrare nelle coordinate di 

un'amicizia propriamente detta.  Brando  è stata  una meteora 

feconda nella  mia vita,  una parentesi  di  un periodo che ha 

impresso  una  svolta  brusca   e   inaspettata  al   corso  dei  miei 

eventi. Quando qualcuno se ne va in quel modo, le riflessioni 

sono scontate ma non banali. Non mi meraviglio più, so che la 

morte non guarda in faccia a nessuno, a chi sei e cosa fai, cosa 

hai ottenuto e cosa no, quali sono i tuoi sogni realizzati e quelli 

nel   cassetto,   quanto   sei   importante   per   le   persone   che   ti 

circondano.   La   morte   non   è   una   punizione   e   tantomeno 

un'eccezione.  E'una   fase   esattamente   identica  a   tante  altre 

della vita. E'una parte della vita, che noi chiamiamo morte e la 

mettiamo in antitesi. Vedere qualcuno andar via così spesso fa 

paura   perché   ci   ricorda   che   potremmo   essere   noi.   E'   uno 

slancio   egoistico,   questa   paura.   Io   forse   non   ho   paura   di 

morire, penso di poterlo dire. Non ne ho di certo paura per me. 

Ho avuto tanto, molto di quanto si poteva desiderare. Ho avuto 

innanzitutto la cosa di cui più mi importa, ho solo 24 anni e 

l'ho avuta già, sono molto fortunato: la stima delle persone che 

mi conoscono, senza quasi eccezione chiunque si sia imbattuto 

seriamente sulla mia persona ha percepito qualcosa di buono, 

questo davvero è sufficiente. Quello insoddisfatto semmai sono 

io, sempre irrequieto e scontento di me stesso, causa dei miei 

mali e problemi, preda dei guasti e dei circuiti perversi del mio 

pensare, che dalla mente vanno al corpo e dal corpo al resto 

del mondo.

Ho   paura   di   mancare   proprio   alle   persone   che   ci   tengono, 

questo si, questa è la mia unica paura. Non voglio ancora una 

volta   fare   del   male   a   nessuno.   Mi   dispiacerebbe.

L'altra   riflessione   è   che   bisogna   fare   della   propria   vita 

un'esperienza   significativa,   per   quanto   si   riesce.   Bisogna 

godere di tutto e cercare di stare bene. Bisogna difendere a 

denti stretti le idee e le persone care, bisogna mettere il cuore 

innanzitutto,   bisogna   vivere   al   massimo   delle   proprie 

possibilità e anche oltre, ogni giorno. Bisogna impegnarsi per 

gli  altri,   io  penso  questo.  Lo  penso  davvero!  La vita  ha un 

senso   solo   se   quello   che   faccio   vale   per   gli   altri, 

fondamentalmente. E quando dico che bisogna godere, non è 

un   controsenso.   Non   è   un   rigetto   di   individualismo, 

menefreghista ed egoista, che mira a soddisfare me stesso in 

base ad un carpe diem, dato che prima o poi tutti passiamo a 

miglior vita. E' solo un modo per dire che devo cercare di dare 

il giusto valore a quello che gli altri mi danno e che fanno per 

me,   alle   cose   belle   che   la   vita   mi   offre,   saperle   cogliere   e 

saperle tenere in alto.

Eppure la morte fa soffrire, se anche si tenta di razionalizzarla 

e introdurla nei binari della normalità, che pur gli competono 

a pieno  titolo.  Perché?  Forse perché  appartiene alla   famosa 

sfera   dell'ingestibile,   al   di   fuori   della   sfera   materiale   e 

sensoriale:   forse   la   morte   richiede   uno   sforzo   in   più   per 

comprenderla.  E allora perché   sono dispiaciuto?  Per  ragioni 

umane innanzitutto, perché   la compassione e l'empatia sono 

cose   normali.   Perché   seppur   la   morte   è   normale,   faremmo 

sempre   di   tutto   per   tenere   un   nostro   caro   attaccato 

saldamente   alla   vita,   difenderemo   la   possibilità   di   poterlo 

vedere,   sentire   e   toccare   a   fianco   a   noi   con   tutte   le   forze. 

Perché la morte è quella parte della vita che non percepiamo 

direttamente.

Sto sentendo il peso di una sofferenza, ed è normale che debba 

fronteggiarlo.   Capisco   quanto   forte   può   essere   un   legame, 

anche più forte di quello che potevo immaginare. Me lo dicono 

le proporzioni di una reazione. Ho già subito, sette anni fa, la 

perdita   di   una   persona   molto   cara.   Molto   cara.   Ho   avuto 

certamente   il   tempo   di   'abituarmi'   all'idea   di   una   sua 

scomparsa, tastando con mano, giorno per giorno e a stretto 

contatto,il calvario della malattia durato 3 anni. Ma il sapere 

che  un  male   incurabile   è   sempre   dietro   l'angolo,   e  può   far 

parte   di   noi   improvvisamente,   che   potrebbe   colpirci   e 

costringerci a convivere con lui fino a trascinarci al di là della 

vita,   questo   si,   può   essere   paragonato   a   una   scomparsa 

improvvisa, inaspettata. Il concetto è il medesimo, nessuno è 

immune da niente. Tutto è possibile, niente è un'eccezione. La 

prima lezione l'ho avuta sette anni fa, ed è inutile sapere che è 

così, questo lo capisco bene. E' inutile almeno finchè  non ne 

constatiamo la veridicità. Come quando ho avuto paura di aver 

contratto   un   brutto   virus:avevo   paura   seriamente,   e 

cominciamo ad entrare nell'ottica di dover conviverci. La mia 

mente   ha   costruito   un'impalcatura   che   secondo   alcuni   era 

eccessiva,   ma   era   soltanto   una   fase   di   preparazione   e   di 

accettazione   del   destino,   del   mio   destino   in   quel   momento 

legittimo,   se   quello   fosse   stato.   Cominciamo   già   a   dare   un 

nuovo senso alla  mia vita,  sbagliando perché  è   il  senso che 

dovremmo dargli tutti i giorni, è la verità. Dovremmo dargli il 

senso   più   alto,   non   posso   fare   a   meno   di   ripeterlo.

Quando lei se ne andò, una persona era con me, e strinse le 

sue braccia sui miei fianchi con grande calore. Non mi lasciò 

un istante. Mi teneva con se, mi guardava, mi sorreggeva. In 

quella chiesa era con me, i presenti ricordano il suo abbraccio 

durato un'ora ininterrotta come lo ricordo io. Ebbene si, fu in 

grado di attutire il mio dolore, in maniera forte. Occupava la 

mia   mente   e   mi   dava   forza   pensare   che   quella   sensazione 

sarebbe   proseguita,   non   mi   avrebbe   abbandonato,   non   mi 

avrebbe   lasciato   solo   in   quel   momento   di   difficoltà,   ma 

soprattutto   dopo,   quando   la   tempesta   sarebbe   finita,   lei 

sarebbe   stata   ancora   con   me.   Era   bello.   A   posteriori   mi   è 

dispiaciuto  non  aver  perso  una   lacrima  quel   giorno.  Non   è 

successo. Sono sicuro che il perché  è  lì. Sono l'antitesi di un 

insensibile, una ragione ci sarà  ed è  quella. Se ora perdessi 

una   persona   molto   stretta   forse   non   sarei   in   grado   di 

trattenere  le   lacrime,  nonostante gli  appoggi.  Ma avverebbe 

solo   in   determinati   casi,   ovvero   nei   casi   in   cui   l'anima   di 

queste persone è  strettamente connessa con la mia, e questi 

casi sono davvero pochi, lo assicuro. Ci sono persone che sono 

la   mia   vita,   sono   poche.   Molte   meno   di   quanto   possiate 

immaginare.  Si  contano sulle  dita di  una mano.  Per queste 

persone   varrebbe   la   pena   versare   lacrime.

Comunque non è  mai bello scoprirsi   impotenti,  e capire che 

nonostante la mia vicinanza non potrò (e non ho potuto) lenire 

il dolore, i pensieri e la sofferenza. Forse chi lo sa, è un po' di 

stupida presunzione, avere la pretesa di assorbire con l'amore 

il  male   interiore  degli  altri.  L'affetto  non  basta,  è   forse  un 

discorso ovvio. Un po' come il dire che si è comunque soli. Ho 

provato anche un po' di sensi di colpa di fronte ai rimpianti, 

perché  quando manca una persona cara, la sensazione è  che 

forse gli abbiamo dedicato meno tempo di quello che meritava. 

Vorremo sentirlo ancora una volta almeno. Un impulso tardivo. 

Il rimpianto è dunque questo, e io sono in parte responsabile 

di   questo   allontanamento,   di   questa   graduale   sparizione 

dall'orizzonte. Ho fatto da ponte verso il cambiamento, che ha 

causato la fine 'effettiva' (anche se magari non voluta) di un 

rapporto,   in  qualsiasi   forma potesse  mantenersi.  E'successo 

così, e me ne dolgo. 

Felicità a sprazzi, la sintesi di questo finale.

Queste riflessioni si sommano al turbinio immenso di pensieri 

che da tanto tempo mi travolge. Ho scelto una strada difficile e 

l'ho   fatto   in   base   all'imperativo   di   vita   che   ho   mostrato 

sopra,ovvero quello di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, 

di non avere paura delle responsabilità e dei cambiamenti, di 

non mettere mai dei freni di fronte alla volontà e al desiderio, 

di castrare i sogni del cuore con i ferrei schemi della ragione. 

Potevo stare a casa fino a 30 anni, come tanti. Stavo bene, non 

mi mancava nulla. I soldi erano l'ultimo dei problemi. L'amore 

non   c'era,   ma   l'amicizia   si   e   con   quella   avevo   trovato   uno 

splendido   equilibrio.   Gli   interessi   erano   tanti,   la   stima   del 

mondo   verso   di   me   alta.   La   vita   era   comoda,   diciamolo. 

L'amore ha cambiato tutto ed ha preso in mano le redini di me 

conducendomi   a   dove   sono   ora.   In   una   situazione   ricca   di 

ostacoli, è vero. Ogni giorno devo inventarmi la vita, i soldi non 

bastano mai e devo ricorrere a stratagemmi per andare avanti. 

Ma   la   vita   è   così,   ho   solo   anticipato   il   corso   degli   eventi, 

volontariamente e per questo non mi dolgo. I pochi soldi mi 

precludono una vita da giovane e una normale vita di coppia, 

non   posso   fare   tante   cose   che   potrei   e   vorrei   fare.

La mia vita ora è frenetica, veloce e impegnativa, non sono più 

soltanto  lo  studente  in attesa di  una laurea che (anche per 

colpa mia) sembra non voler arrivare mai, ma sono un uomo di 

fronte ai mille ostacoli  della vita,  che affronto con difficoltà 

nonostante sappia bene che c'è  chi naviga in acque ben più 

torbide delle mie.

La  frenesia  quotidiana sottrae   tempo ai  miei   studi,  ai  miei 

interessi,  al mio tempo ed anche al nostro, di tempo. Il mio 

fisico è eroico e stoico, combatte con onore questi frutti amari 

della  velocità,  ma  il  mio   intestino già  di  per  se  delicato  ha 

subito un ulteriore strattone. Soffro di continuo mal di pancia 

da   stress   e   da   alimentazione   probabilmente,   ho   dovuto 

rinunciare ad un altro dei cardini della mia esistenza, un rito 

fondante, un'abitudine che va ben al di la di una bevanda,la 

birra. E la cosa è seria, non pensiate. E' quel famoso sistema 

interconnesso.   Il   mio   intestino   che   si   ribella   al   bere   ed   al 

mangiare è solo un simbolo, un sintomo dei tempi che corrono.

Il  nervosismo   indotto   condiziona  a  360   gradi   la  mia/nostra 

esistenza,   ostacola   questa   relazione,   mette   delle   nuvole   di 

fronte ad un sole finora solo immaginato.

Tutto   è   difficile.  Tutto   è   da   superare,  mai  nulla   è   limpido 

stabilmente.

Mi   sono   iscritto   a   pieno   titolo  nella   gabbia  proto­borghese, 

nella durezza delle logiche di sopravvivenza, nella spesa per 

mangiare,   nell'affitto   e   nelle   bollette,   nella   benzina,   nei 

medicinali e nella ricerca di un lavoro che non arriva e non 

può   ancora   arrivare   senza   una   laurea,   ma   anche   con   una 

laurea non avremo grossi cambiamenti coi tempi che corrono.

Non   sono   pentito   di   nulla,   questo   deve   essere   chiaro.

Sono affaticato, provato e sotto torchio. Questo si. Ma non sono 

solo, e soprattutto era un rischio prevedibile e assunto secondo 

responsabilità.

In nome di qualcosa di più grande, che da un senso alla vita.

Tutto   questo   casino   perché   la   mia   vita   in   fondo   un   senso 

profondo lo dovrà pur avere...

Futuro

Odio le persone che continuano a non capire.

Ma possibile che in questo cazzo di mondo solo io faccio sempre 

sforzi per capire, per assecondare, per non urtare nessuno…

oddio,in  quest’ultimo  punto  non   riesco   tanto  bene  a  dire   il 

vero. Ma il mio cuore non vorrebbe mai.

Se mi  coprissi   sul  serio  di  quel  mantello   individualista  che 

qualcuno porta non sapendo di portarlo.

Mi dispiace proprio,mi dispiace tanto.

Ma si può essere fatti così? Bene o male decidetelo voi.

Ho bisogno di un altro corpo e un altro cervello.

Il   mio   cervello   ormai   è   solo   un   lontano   parente   malato   di 

quello   che   conoscevo  prima.  Prima  avevo  una  proiezione  di 

me…ero   malinconico   e   pensatore   ma   pieno   di   legittima 

autostima. E la proiezione che questa generava era grandiosa. 

Mi sentivo una potenza che prima o poi si sarebbe rivelata. Si, 

in cuor mio me la tiravo, ero orgoglioso. Pensavo di essere non 

solo   una   bella   persona,   ma   anche   una   persona   valida.

Ora mi   sono   incattivito,  mi   sono  scoperto  duro,   irritabile   e 

anche palesemente incapace e disabile in tutte le cose a cui 

tenevo.

Mi  farò  cambiare questo corpo e questo cervello   inservibile, 

annerito e fumante. In fondo sono ancora una bella persona?

Sono ancora in grado di essere felice, far felice chi mi circonda 

e non arrecare danni a me e agli altri.

Devo tirare il freno ragazzi, altrimenti qui ci schiantiamo di 

brutto.

Elogio del Non­Essere

Cerco di vedere le cose in prospettiva.

Forse è un errore…in quanto la prospettiva che posso vedere è 

la  mia,  per   forza  di   cose.  Del   tutto   soggettiva.  E   se  avessi 

ragione? E se invece ci avessi visto bene?In realtà un ragazzo 

di 24 anni oggi non lo sa più se ci ha visto bene o male. Perchè 

siamo condannati al precariato esistenziale? Il problema devo 

essere per forza io, me lo sento.

Intendiamoci.  Se il  problema è  realmente negli  altri  e nelle 

cose,e io ci ho visto bene e credo alla mia teoria fino in fondo, 

le   cose   non   cambiano   affatto.   Perchè   se   io   fossi   diverso, 

osservatore   meno   acuto   o   semplicemente   acceso,   non   mi 

accorgerei di nulla e vivrei felice. Vivrei beato. Quindi gira e 

rigira il problema sono io. Uno strano mal di testa, come non 

ne avevo mai avuto forse in vita mia, da giorni mi perfora le 

tempie ed il cervelletto. La stanchezza comincia a stratificarsi, 

l’usura del cervello comincia a mostrare i suoi effetti.

Tento  di  mantenere  un  equilibrio  ma anche  per   far  questo 

bisogna   utilizzare   energie,   e   da   qualche   parte   vanno 

recuperate.  Sento  che  non  posso  più   trovarle  dentro  di  me.

Spero che qualcuno venga presto in mio soccorso, che accada 

quello che è successo altre volte, che la macchina non sbandi e 

mi   conduca dritto  al  di   fuori  da  questa   tortuosa  strada,   in 

modo   che   io   possa   osservare   con   serenità   il   paesaggio   e 

sentirmi   bene,   come   in   un   pomeriggio   sardo   al   sole   delle 

domenica.  Dove  osservo   il  mondo e  mi  dico   che  nonostante 

tutto,quel che vedo intorno a me è bellissimo e ce l’ha fatta,e 

con lui ce l’ho fatta anch’io. Che sono una parte del tutto e sto 

bene,  sono a posto veramente.  Ho un odore addosso che mi 

accende e mi ferisce contemporaneamente. Il flusso del tempo 

che scorre e che è passato mi attraversa a flusso continuo, e fa 

un gran rumore come quello dell’acqua che circola in quella 

maledetta   caldaia   rotta.Vorrei   dare   dei   pugni   al   muro   se 

servisse. C’è un brutto muro natalizio.

L’unica cosa dolce è la testa del micio che sbuca dal cassetto.

Si,sono   effettivamente   un   bimbo,   per   tante   cose.

Mi dolgo anche di questo.  Ma è   la verità.  Devo accettare  le 

conseguenze della verità.

Che   è   la   parte   più   difficile,poi.Forse   il   peggio   deve   ancora 

venire.   Credo   che   l’analisi   più   lucida   che   posso   fare   sia 

questa…e   cioè   che   qualcosa   che   realmente   non   va   esista 

davvero, e che ne sono causa in parte.

Credo che abbia fatto e stia continuando a fare tanti errori 

soprattutto a causa della mia mente. Ma credo anche che non 

posso fare a meno di commetterli in quanto farei un torto alla 

mia essenza. E devo accettare la fatalità di fare tanto male in 

nome del bene.  Il problema c’è. Si può  risolvere, forse.Ma ci 

vorrebbe un altro, per risolverlo. Io sono parte del problema. E 

come tale dovrei risolvere me.

Avete mai visto un problema che si auto­risolve?

Qualcosa tra le righe del tempo

Immagino   un   grande   oggetto   dalla   forma   del   tempo.

Questo oggetto sono io, e il  brivido che mi attraversa è  una 

costante.  E’una   costante   solo   al   pensiero,   e   qualcosa  passa 

attraverso   me,   viene   da   me   stesso   e   viene   da   prima, 

dall’origine. E’trasfigurata,ma è riconoscibile.

Il gatto fa stridere le sue unghie contro la sedia e mi distoglie 

temporaneamente dal brivido. Il radon ha tante proprietà…e 

non   ha   perso   occasione   di   ricordarmene   una.   Quella   di 

penetrare  i   corpi,  di  penetrare  il  mio  corpo  e   fissare   i   suoi 

radioisotopi sulle pareti dell’anima.

Ruoto vorticosamente su me stesso,alla velocità  di 30 giri al 

secondo. Ricevo ed emetto radiazioni.

La griglia di internet è di nuovo pronta a fissarne qualcuna.

Nell’etere, schegge di fragilità  che appartiene a me e a tutti 

coloro che fanno parte della mia categoria. Farsi domande a 

risposte,che non avete affatto…e forse non le avete perché  le 

fate   alla   persona   sbagliata.   Non   bisogna   eccedere   con   lo 

stressare   se   stessi,allora   si   potrebbe   porre   la   domanda   ad 

un’altra persona,magari quella che ci sembra migliore. Ma non 

abbiamo affatto le risposte.

Avrei   preferito   scivolare   dalle   pareti   dell’anima   per   i   miei 

difetti   consapevoli   e   caratteriali,   piuttosto   che   per 

incontrollabili   maledizioni   meta­psico­fisiche.   Mi   tengo 

aggrappato   ai   brandelli   della   speranza   e   della   forza 

dell’origine,sempre quella poi. Che De Benoist l’ha scritto,che 

l’origine   è   tutto.   A   suo   modo   lo   diceva   anche   Rosamunde 

Pilcher (mi si perdoni il paragone irriverente) anche se non è il 

caso di cui parliamo. E spero di svegliarmi un giorno e poter 

tirare un bel sospiro senza incappare nei radioisotopi dolorosi 

ormai annidati tra le mura del cuore e della mente. Qualcosa 

tra le righe del tempo. Qualcosa di me frena me e l’idea di me 

che   intendevo   proiettare.   Sempre   di   me   si   parla,ma   vorrei 

afferrare quel poco di me che si ribella e capirlo. Vorrei anche 

un manuale per interpretare il Mondo,il mondo che ho scelto.

Vorrei   qualche   risposta   essenziale   alle   domande   essenziali.

Non   chiedo   tanto,chiedo   il   Bignami   più   ridotto   che   ci   sia.

Non   voglio   sapere   tanto,voglio   anche   soffrire,non   sia   mai.

Ma   certe   cose   mi   piacerebbe   proprio   scavalcarle.   Sono 

diventato   gradualmente   pagano,ma   mi   sa   che   un   salto   in 

cattedrale ce lo faccio lo stesso.

Solo uno (ingorgo cerebrale)

In un certo senso è una sorta di ritorno al passato…forzato se 

vogliamo. Anzi, oggi scriverei naturale e necessario. A volte mi 

trovo   a   gestire   sensazioni   decisamente   contrastanti,   e   mai 

avrei   pensato   che   una   situazione   di   questo   tipo   (per   non 

chiamarla col suo termine esatto, che non è il caso…) avesse 

insite certe contraddizioni. O forse sono come sempre insite nel 

mio cervello,   lo stesso che non è  cambiato di una virgola in 

tutti questi mesi, lo stesso che mi portava ad imbrattare un 

blog e che mi spinge(va) oggi (?) alle 02.00 a prendere carta e 

penna e venire in questa cucina. Sarà la mia “immaginazione 

iperattiva”,   sarà   il   mio   essere persona   profonda,   quel   che 

volete…

Avete presente la sensazione di muro?

Ebbene si, la rivedo far capolino qua e la ogni tanto. Il passato 

ritorna, non solo il mio ma anche quello degli altri. Esiste una 

sottile linea rossa che lega i tempi e prima o poi ci andiamo a 

sbattere   contro,   non   possiamo   far   finta   che   non   esista   e 

condizionerà sempre il nostro cammino. Non si può pretendere 

che non ci sia stato, vivere come se nulla fosse…allora mi ergo 

a  difesa  del  Radon­mondo,  di   ciò   che  è  mio  e   solo  mio,  mi 

proteggo, non pensavo nemmeno di esserne capace e invece mi 

sta   venendo  naturale.   Ne   sono   in   un   certo   senso   contento.

Per   una   volta,   fanculo   agli   uomini   veri.   Mettiamoci   una 

maschera e siamo uomini di carta, che gli uomini di carta sono 

più   felici.  Viva Radon.  Due anni   fa   iniziai  a   cercare  anime 

sensibili  e   scontri   fortuiti  attraverso  i  meandri  della  rete,   i 

famosi   “momenti   dello   spirito”   in   cui   due   essenze   si 

incontrano…ascolto Brain Salad Surgery degli ELP in questo 

istante e mi sembra che il mondo debba finire da un momento 

all’altro. La comunicazione non esiste.

C’è   la   riflessione   individuale,   altrui…che   può   cadere   in 

trappole o strade già percorse, e farmi del male. Molto male. 

Non vedere con gli occhi di Radon è naturale, ma è male che 

Radon   non   possa   mostrare   la   sua   visuale.   E’un   difetto 

strutturale. Ce la devo fare, per me.

Che strana notte.

E’come   fare   un   numero   di   telefono   e   sbagliarlo   in 

continuazione.

Come   tre   mesi   fa,   come   sei   anni   fa,   come   sempre.

Alla fine si è comunque soli, irrimediabilmente soli e non c’è 

nulla da fare.

In   ogni   caso,   devo   laurearmi.   Lo   farò,   non   so   ancora  bene 

quando ma lo  farò.  Vivrò   solo con  i  miei  spettri,  non quelli 

degli altri di cui posso fare volentieri a meno. Con i miei, ho 

fatto amicizia da tempo. Popolano tutti i miei posts spaziali.

Devi farlo, Radon.

E  io   credevo  che   lo   si  desse  per  scontato,   che   lo  devo  fare.

Che la contingenza a volte è superiore e per essere più uomo 

sei meno macchina. Sei più  pensiero e meno azione, sei più 

trascendenza   e   meno   immanenza.   Sei   più   Radon,   e   meno 

“risultati conseguiti dal Radon”.

Ma   sono   evidentemente   solo   anche   qui,   nel   credere   alla 

giustezza o legittimità delle mie cause.

E   sono   solo   nei   giudizi,   come   voi   siete   soli   nei   vostri.

Non esiste la comprensione. La definirei “costruzione mentale 

temporanea reciproca”. E’una stolta convinzione.

Ho i brividi lungo la schiena!

Vorrei andare oltre il dolore del mio polso sinistro e del mio 

colon ribelle in questo momento, ma fa più male ipotizzare che 

chi non ha capito mai, non capirà poi o capirà quel che vuol 

capire   e   vani   saranno   tutti   i   miei   sforzi.

Siamo soli, gente, siamo soli! Si, sono proprio il tipico esempio 

di pensiero senza l’azione. Male. Posso pensare che sia meglio 

così,   ma   solo   chi   pensa   soffre.  Sono   ripetitivo,   sto 

esaurendo anche gli argomenti del mio pensiero. Questo 

fatto è di una gravità inaudita, immane. Non mi riconosco più. 

Tengo   i   piedi   su   due   staffe   per   ora.   Io   banale.   Eh   si.   Sta 

succedendo. Non c’è nulla da dire. Ma dai, odio questo discorso 

(che poi non è un discorso). Il mondo è un continuo discorso, c’è 

sempre da dire. L’uomo è parola. Forse sarebbe meglio dire che 

non si sa cosa dire, non si è capaci di dire o non c’è nessuno a 

cui dirlo, che sia degno o capace di “far dire”. Forse sono io uno 

di quelli, e mi fa male perchè ho SEMPRE creduto il contrario. 

Presuntuoso.   Ma   vale   anche   il   caso   opposto.   Non   voglio 

smettere di scrivere, vorrei scrivere o dormire in eterno.Come 

cambia il mondo che ci circonda, come cambia. Perchè io non 

cambio mai? Eccetto l’autodifesa… 

Si può imparare a cambiare? Cambio abitudini, luoghi e azioni 

del vivere,  idea e atteggiamento, ma non me stesso, c’è  una 

radice profonda…quella che traspira da ogni Radon­pensiero 

su   queste  pagine.   Identità?  Masochismo?  Non  vi   è   confine, 

nemmeno   differenza.   Vorrei   essere   limitato,   pragmatico, 

stronzo.A   fanculo   i   posts  spaziali.   Venti   minuti   di   Radon, 

fortissimamente Radon. Solo Radon. Vorrei vedermi tra cinque 

anni,   anche   soltanto   un   flash,   per   curiosità.   Sicuramente 

Emmett   “DOC”   Brown   non   sarebbe   affatto   d’accordo.   Sto 

perdendo la testa, e questa volta è più grave che perderla per 

amore. La sto perdendo per troppo uso. Si sta usurando e non 

ce n’è un’altra di ricambio. Ma come si fa a spegnerla? Come?

Karn Evil 9 3rd impression mi sta aiutando…anzi no. E’come 

un cancro. Che brividi, che brividi!

Storie

Oggi   è   finita   una   storia.  Che   teoricamente  ha   visto   il   suo 

epilogo   in   una   sera   di   settembre,   quando   come   in   un 

banalissimo  film  il   cielo  decise  di   sottolinearne   il  definitivo 

declino. Ma tale storia ha avuto delle scheggie, non ci si è mai 

persi di vista, ci si è frequentati sotto vecchie spoglie,magari 

solo per il sesso, o sotto nuove forme ed auspici, si è tentato di 

dare nuova linfa ad un qualcosa. Doveva essere un’altra storia, 

una storia diversa. Ma alla fine dei conti è  stata sempre la 

stessa.  E  non   importa   se   la   controparte  non   la  pensa   così. 

Perchè la penso così io, ed ora ci sono io e basta, per una volta.

Una   storia   di   grandi   promesse   e   aspettative,   splendidi 

momenti,   picchi   di   grandezza   immersi   però   in   un   perenne 

limbo di discussioni e tentativi di comprensione andati a male. 

E alla fine stancano, si sommano, qualcuno somatizza e cova 

nell’ombra.   C’è   chi   si   è   già   stancato   prima   di   me.

Evidentemente,  non  sono   io  quello  guasto,  di  questo  mi  do 

atto. E a guarnire il  tutto c’è  sicuramente da qualche parte 

una costante mancanza di tatto e sensibilità. Eppure, un velo 

di   tristezza   è   calato   quando  ho  acceso   la   macchina   e   sono 

risalito su.  Non so  perchè.  Forse perchè  dopo quasi  4  anni, 

seppure sia tu a lasciare volontariamente qualcuno, il distacco 

è   sempre   difficile   e   la   sensazione   di   perdita   è   inevitabile. 

Suonava “Heroes of Sand” degli Angra, nel mio lettore cd. E 

per   una   storia   che   finisce,   ce   n’è   un’altra   che   inizia.

Che è tra le mie braccia da poco più di tre mesi e la stringo 

forte. La stringo forte, si, sperando di non farle del male con 

questa mia stretta. Ma la tengo vicina al cuore e prego tutti i 

giorni che qualcuno la protegga, perchè sento che lo merita.E 

le splendide parole che mi hai regalato anche questa sera mi 

danno ennesima conferma. Non ho nessuna paura, ho cercato 

sempre  il   coraggio anche quando mi mancava.  Ne valeva la 

pena. Ne vale la pena sempre! Per te. Che continui ad essere 

una splendida sorpresa nella mia vita e che continui a brillare 

tra le mie mani. Come un sms che chiedeva un abbraccio, come 

una finestra di MSN che lampeggia a tarda notte, come la tua 

mano   che   incontra   la   mia   sul   tavolo   di   un   locale…

Ancora oggi continui a splendere come il 28 gennaio, su quel 

palco. Ero lì per il mio sogno. Quel primo bacio è l’inizio di un 

sogno   da   cui   non   vuoi   svegliarti,   me   l’hai   detto   tu.   Dormi 

ancora con me...

L'intelligenza sta

“L’intelligenza sta nel cercare con estrema cura

possibili compagni d’avventura”

La storia non si fa con i se, e nemmeno la vita. Però il beneficio 

della   fantasia  come sempre  voglio   concedermelo.  E  dunque, 

che sarebbe della nostra vita se sapessimo circondarci ­nel più 

dei casi­ di ottimi compagni d’avventura? Credo che il grosso 

delle sofferenze, o più semplicemente delle insoddisfazioni di 

tutti   i   giorni   siano   date   proprio   da   scelte   non   azzeccate 

riguardo alle persone di cui ci circondiamo. Voi direte, il bello 

della vita è anche qui: la perfezione non esiste e non sarebbe 

nemmeno auspicabile. L’imprevisto, la novità, lo scontro e la 

maturazione attraverso persone magari  anche sbagliate,  ma 

mai  immaginate prima. Vero,  ma forse non è  di  questo che 

parlo. In ogni caso, quelle sono persone positive: che portano 

squilibro solo per l’attimo in cui ci cozziamo, e gradualmente 

cominciano a diventare satelliti amici. Vi sono invece esistenze 

di   cui   sarebbe   buono   e   giusto   privarci.   Anime   oblique,   nel 

migliore dei casi incompatibili, nel peggiore pericolose o fatali. 

Pensateci   bene.   Eppure   non   siamo   tutti   capaci   allo   stesso 

modo di discernere: tra queste persone, si potrebbe a mente 

fredda abbozzare una distinzione.

I   nemici   espliciti,   quelli   che   ci   risultano   ostili   in   breve 

tempo,   in   modo   inequivocabile,   ed   anzi   in   alcune   occasioni 

talmente   diretto   che   troncare   il   rapporto   può   essere   più 

semplice.  Sono pericolosi per gli  effetti  a breve termine,  ma 

hanno   il   vantaggio   della   riconoscibilità   quasi   immediata.

I dissimulatori, una macro­categoria che comprende i “falsi 

amici” e “gli interessati”, che non sono sempre la stessa cosa. 

Anche   questi   vengono   alla   lunga   allo   scoperto,   ma   non   è 

sempre facile capire fino a che punto agiscano per interesse o 

siano persone deboli, che non fanno trasparire quello spirito di 

amicizia   che   tanto   ci   attenderemmo   in   alcune   occasioni.

Sono difficilissimi da scovare.

Gli   insensibili,   quelli   che  possono  avere  anche  un’essenza 

buona,   e   vivere   un   rapporto   in   buona   fede,   con   lealtà   e 

sincerità:  ma  hanno  delle   carenze   sottilissime  dal  punto  di 

vista umano, a volte peccano di individualismo e profondità, 

tatto   e   capacità   di   calarsi   nella   profondità   del   diverso,   del 

nostro   Io.   E’   la   mancanza   di   una   qualità   spirituale.

E’   triste  dirlo,  ma dovremmo evitare  anche queste  persone.

Anche costoro in realtà  sono più  eterei e nascosti  di quanto 

possa sembrare. 

Gli   ossessivi,   che   hanno   in   comune   con   gli   insensibili   la 

mancanza di   tatto e  discrezione,  con il  distinguo che questi 

possono benissimo non essere in realtà  “amici”, ma agire in 

malafede (in tal caso si  apparentano ai dissimulatori)  o per 

una pura contingenza che li ha portati ad incrociarsi con noi. 

Dopo aver capito la tua bontà, non vedono il discrimine tra il 

momento per dare e il  momento per ricevere: non capiscono 

più   che   ciò   che   tu   dai   è   gratuito,   e   non   dovuto.

Chiedono,   chiedono,   chiedono   sempre.   Magari   in   fondo   non 

“pretendono”,   ma   si   pongono   esattamente   come   se   lo 

facessero.E   cascano   dalle   nuvole   alla   prima   reazione 

scomposta, ma legittima. Non sempre è  chiaro il metodo per 

identificarli. Sulfurei e ambigui anche loro.

Gli autistici, che sono affini agli insensibili, con la differenza 

che non solo sono incapaci di capire il diverso, ma nemmeno ci 

provano con la dialettica.  Vivono nel  loro esclusivo mondo e 

alla prima divergenza non è che “sbagliano” l’interpretazione 

del tuo modo di vedere le cose ­come appunto, gli insensibili­, 

ma   proprio   non   vogliono   saperne.   Questi   sono   abbastanza 

visibili, per nostra fortuna. 

Gli obbligati, quelli di cui percepiamo (subito o dopo un po’, 

in tal caso non conta più) un’essenza negativa o incompatibile 

con   la   nostra,   ma   che   per   forza   di   cose   siamo   costretti   a 

mantenere nella nostra orbita, vuoi per motivi di educazione, 

convivenza oppure ­è tristissimo dirlo­ per stretta convenienza. 

Siamo a questo  punto dei  dissimulatori  noi  stessi?  No,  non 

credo…semplicemente mi piace pensare che siamo persone “in 

attesa”  dell’occasione  per   rimediare  a  questa   cattiva   scelta, 

eliminando queste presenze solo nel  momento  in cui  questa 

decisione   non   sia   più   nociva   che   mantenerle.   Insomma,   ci 

libereremo di questi, cercando però di limitare i danni che ci 

siamo già fatti legandoli a noi. 

I virtuosi fatali,  quelli  che ci  hanno fulminato magari per 

una superba qualità specifica, o per un misterioso fascino, di 

cui non riusciamo ad afferrare verso e direzione, ma che come 

una   calamita   ci   attrae.   Può   andarci   però   male,   e   quando 

realizziamo che questo verso è orientato ad un polo che non ci 

piace   per   nulla,   potrebbe   essere   tardi:   sarà   difficoltoso 

liberarci di tali virtuosi del negativo. Avranno già fatto grossi 

danni,   o   potrebbero   farne   esponenzialmente   sempre   di 

maggiori.   Sono   riconoscibili,   ma   appunto   in   ritardo,   ed   è 

questo il loro potenziale oscuro.

Incommunicado

Vorrei   raccontare   le   sensazioni   della   mia   città,   soprattutto 

nella notte.Sensazioni nate spesso da un niente, che generano 

grandi   emozioni   personali.   Forse   qualcuno   le   chiamava 

epifanie, punti notevoli dell’esistenza, che ci passano davanti 

agli occhi e non sappiamo perchè sono così importanti, ma è 

evidente che lo sono. Paradossalmente si fondono ad emozioni 

del passato, anche piuttosto remoto, ad un cielo stellato estivo 

quando eri bambino come ad uno prossimo dove una nave si 

staglia sullo sfondo con le sue luci accese.

O in un locale fumoso e sempre pieno, o sulla strada, o nella 

macchina   con   i   vetri   appannati.  Tra   la   musica  assordante, 

quando ci si saluta, quando ci si osserva e ci si sorride. Quando 

non   si   fa   proprio   niente,   ma   lo   si   fa   con   piacere.

Sulla spiaggia alle 3 di notte,persino anche in un parcheggio.

Non hanno niente in comune, questi momenti. Siamo anche in 

luoghi diversi. Sempre in luoghi diversi.

Con persone diverse, ridiamo oppure tiriamo le somme di un 

presente ogni minuto già passato. Ma è una dolce malinconia.

Sarebbe   bello   attualizzare   sempre   questo   presente.

Eppure non è possibile, naturalmente. Vorrei.

Non   è   possibile   darsi   interamente   (ed   è   probabilmente   un 

bene). Mi viene però da pensare che in realtà non ci si da per 

nulla. Non ci si può mai mostrare realmente, non è possibile 

spiegare cosa si vede e si sente, come lo si vede e quanto lo si 

sente. Come si sente anche una gran stronzata, insignificante 

per i più, per tutti. Cruciale per noi, magari nella notte della 

tua città, in quei costanti attimi.E forse la comunicazione tra 

gli esseri umani non esiste. Forse è soltanto un compromesso, 

un   eterno   compromesso.   Ed   in   realtà   due   persone   che   si 

intendono   sono   solamente   quelle   che   accettano   di   miglior 

grado   i   compromessi.Anche   quello   che   ho   scritto…a   chi 

importa in fondo ? Davvero. Pensateci bene. In fondo ?

Il cuore del natale

Tacete,   voi   adorabili   stronzi.Tutti   quanti   insieme.

Non c’è nulla che potete cambiare.

Avete   perso   il   vostro   tempo,   lo   avete   perso   da   tanti   anni.

Siamo  arrivati   al   punto  di  non   ritorno.   E  voi   altri,   che   in 

buona fede dispensate ovvietà, tacete!

La   forza   di   gravità   è   cambiata   da   tempo.Mi   date   fastidio.

Non siete più una proiezione gradevole. Vi userò come oggetti 

di piacere, mi riserverò una poltrona d’onore al vostro cospetto 

in   ogni   occasione.   Ho   studiato   il   libro   delle   mie   massime, 

all’interrogazione mi presenterò volontario. E se oltre il muro 

dominerà il vuoto, la gioia o la tempesta, voi non vi godrete 

mai lo spettacolo. Mai. Si chiude il sipario.

Te la do io la libertà

Finanziare progetti  di  tecnologizzazione di aree in posizione 

subordinata   o   secondaria   rispetto   all'Occidente 

industrializzato: prospettiva certo non nuova e richiamata di 

recente   da  un   dossier   sulle   reti   pubbliche   nazionali.   Torna 

dunque   in   gioco   la   questione   del   Digital   Divide,   ovvero   il 

divario   digitale   (inerente   al   possesso   e   alla   diffusione   di 

moderne  tecnologie)  evidenziabile   tra   le  zone  del  globo,  che 

assume implicazioni degne di attenzione soprattutto nel caso 

del   suo   connubio   col   settore   della   comunicazione.   In   una 

situazione   geopolitica   come   quella   attuale,   delineatesi   in 

maniera estremamente evidente  i  rapporti  di   forza,  quali   le 

prospettive per le “diversità” del mondo di poter lanciare – e 

far   trasparire   –   messaggi  differenti,   se  prive   dei   medesimi 

canali   di   scambio?   Quale   l'agibilità   mediatica   –   e 

conseguentemente   politico­culturale   –   di   modus   vivendi   e 

operandi “altri”, al di fuori dei mezzi che il dominante Primo 

Mondo utilizza? Internet in primo luogo, ma anche tecnologia 

satellitare,   telefonia   mobile   e   tutto   ciò   che   la   rivoluzione 

digitale   comprende   sono   la   conditio   sine   qua   non   per   la 

“trasmissione” globale della diversità? Diversi paradossi sono 

celati dietro una certa tipologia di ragionamento: sorge infatti 

il dubbio di trovarsi di fronte all'ennesima rilettura della (vera 

o presunta)  filantropia  liberale,  secondo cui   “una parte”  del 

mondo possiederebbe le insindacabili chiavi per la libertà “dei 

più”, gli elementi neutri e pacifici a disposizione dell'umanità 

intera per la propria incondizionata espressione. Dopo i diritti 

umani, ecco i diritti digitali. In questo senso, un notebook tra 

le mani degli aborigeni australiani può essere accolto come un 

segno della generosità  occidentale;  o  come una prosecuzione 

del colonialismo secondo altri mezzi, in relazione ai punti di 

vista.   Ha   certamente   qualche   fondamento   l'osservazione 

secondo cui la riduzione del gap digitale sia necessaria non in 

nome di una ineluttabile ideologia del Progresso, che vede il 

ritardo   dei   fratelli   minori   dell'umanità   come   lacuna   da 

colmare,   quanto   piuttosto   come   soluzione   politica   ad   una 

oggettiva configurazione di rapporti di forza: vale a dire che le 

superpotenze,   omologanti   e   totalizzanti   per   eccellenza, 

traggono   linfa   vitale   dalla   stessa   situazione   di   predominio 

sulla   comunicazione   digitale,   resa   ormai   unico   mezzo   di 

effettiva   trasmissione   dell'informazione.   E'   però   altrettanto 

vero   che   lo   scenario   geopolitico   e   l'omologazione   culturale 

vanno di pari passo con l'ampliamento progressivo dei mercati, 

siano essi quelli inerenti alla tecnologia, siano essi conseguenti 

all'informazione­merce.  E'  dunque sempre  lecito   interrogarsi 

sulle operazioni pianificate come quelle ricordate in apertura 

di   questo   articolo,   nel   caso   in   cui   vengano   promosse   da 

istituzioni   governative,   cartelli   commerciali   ma   anche   da 

associazioni no­profit. Certamente la globalizzazione – laddove 

è   in   fase   oramai   avanzata   –   non   necessariamente   dovrà 

tradursi nel dominio dei medesimi modelli e valori mercantili, 

ma   la   sua   forzata   prosecuzione   tramite   gli   oggetti   della 

tecnologia   digitale   dimostra   quantomeno   che   la   lezione   di 

Marshall McLuhan ha probabilmente da attendere per esser 

compresa;   ovvero   che   “il   medium   è   il   messaggio”,   e   non 

soltanto un significante neutro al quale il popolo Maroon del 

Suriname o i contadini del Vietnam potranno integralmente 

imprimere   il   segno   della   propria   specificità,   magari 

trasformandola   in   oggetto   politico.   Versione   conciliante   con 

certi   intenti   filantropici,   ma   poco   attenta   ai   meccanismi 

deformanti   che   il   medium   opera   sulla   percezione   di   chi   lo 

utilizza;   l'estensione   di   se   stessi   quasi   in   senso   fisico,   uno 

spazio e tempo appiattiti e intercambiabili, un'idea di libertà 

corrispondente  a  quella  moderna,   riposta  sulla  quantità   (di 

immagini illusorie,  suoni e  luoghi virtuali,  di   informazioni ­ 

troppe   e   tutte   equivalenti,   come   su   Internet   –   ecc.   ecc.) 

piuttosto   che   sulla   qualità   di   un   vissuto   quotidiano, 

quest'ultimo   magari   davvero   fondante   per   la   singola 

specificità. E' questo il vero ruolo che dovrebbe assumere una 

politica attenta agli “usi della diversità”, per riprendere una 

felice   espressione   di   Clifford   Geertz;   permettere   alle 

singolarità di dimostrarsi e comunicare secondo mezzi e modi 

che in primo luogo esse stesse ritengono opportuni (sempre che 

lo ritengano). Prima ancora che fornire linguaggi e oggetti “più 

adatti” ad essere se stessi. Evitando gli estremi opposti, per 

cui pools di antropologi scoraggiano gli indiani d'America dal 

dotarsi   di   strumenti   della   tecnologia;   se   anche   alcune 

dinamiche   possono   avere   radici   esogene   (ad   esempio,   nella 

colonizzazione  dell'immaginario)  ma nel   contempo mostrano 

autonome decisioni endogene, è altrettanto grottesco ergersi a 

tutori   della   libertà   di   una   comunità   altra. 

Sposando   però   programmi   di   dotazione   massiva   di   telefoni 

cellulari  per   i  Tuareg,  più   che un servizio  alla  diversità,   si 

rende un ennesimo omaggio alla società mercantile.

Calciopoli a parte

Diviene davvero difficile –in un sistema dominato dai valori 

mercantili­   riconoscere,   qualora   compaia,   un   fenomeno   non 

determinato   o   intaccato   dalla   dura   legge   del   profitto. 

Quand’anche un misfatto politico o un intrigo economico viene 

a galla e vede la sua risoluzione a suon di provvedimenti legali 

o   risvolti   giudiziari,   si   è   tristemente   costretti  a   chiedersi  a 

propria   volta   quale   sia   il   nuovo   “interesse”   a   guida   del 

meccanismo. Un po’ come chiedersi “chi paga” a proposito di 

un quotidiano o di una testata di  informazione per avere le 

giuste   risposte   sul   perché   dei   contenuti.   E   sopra   le   radici 

putrescenti  di  un  intero  sistema c’è   il  pubblico,   spesso  non 

avveduto e cieco di passione, o assolutamente consenziente e 

connivente   se   avveduto.   Così   è   per   il   mondo   del   calcio. 

Calciopoli o meno, il cittadino­tifoso medio non è minimamente 

intaccato o scosso dai movimenti così eclatanti del 2006. Un po’ 

perché in questo stritolante ingranaggio di lavoro­produzione­

profitto, chiedere al comune piccolo­borghese di rinunciare al 

credo di  una passione (e  dunque alla sua unica via di   fuga 

dalla frenesia della quotidianità) solo perché altri signorotti ne 

hanno   fatto   un   giocattolo   ultramiliardario   continua   a 

sembrarmi eccessivo, oltre che ingiusto. In altri termini, anche 

se il calcio è malato, ce lo teniamo così perché nonostante tutto 

vogliamo avere ancora qualcosa in cui credere. Un po’ perché 

certe   bravate   sono   entrate   così   tanto   in   circolo 

nell’immaginario comune che non solo vengono accettate, ma 

persino  condivise  e   ritenute  ordinarie.   I  Moggi   e   i  Galliani 

fanno  quel   che   fanno   perché   è   normale   che   lo   facciano.  Si 

sapeva più o meno tutto. Si immaginava più o meno tutto. La 

messa al bando della classe arbitrale, il caso Agricola, l’Epo, lo 

scandalo  dei  passaporti,   la  Gea,   il   conflitto  d’interessi   e   la 

Lega Calcio, i diritti televisivi, la lista è lunga. Ma soprattutto 

le   decennali   dicerie   da   curva   sud,   che   al   di   fuori   del 

provincialismo   mantenevano   un   fondo   di   verità.

Improvvisamente   gli   scenari   mutano,   e   i   fantasmi   che 

aleggiavano nell’aria vengono a galla, e lo fanno in sequenza 

impeccabile.   Le   intercettazioni   telefoniche   innescano   un 

meccanismo a catena che da origine alla rapidissima caduta 

del castello di Calciopoli a colpi di eventi e provvedimenti dalla 

puntualità  disarmante. Il che, con i tempi che corrono è  già 

sufficiente   per   dare   il   via   alla   nuova   escalation   di   dubbi. 

Operazione corretta e necessaria. Nonché il mestiere primo del 

giornalista. Un po’come fa Claudio Cerasa, che sul “Foglio” del 

2 dicembre del 2006, ci ricorda che “all'Inter è stato assegnato 

uno   scudetto   da   un   suo   ex   consigliere   di   amministrazione 

(Guido   Rossi,   commissario   uscente   della   Figc,   all'Inter   dal 

1995   al   1999)   e   dal   figlio   di   un   suo   ex   dipendente   (Paolo 

Nicoletti,   ex   subcommissario   della   Figc,   figlio   di   Francesco 

Nicoletti,  collaboratore di fiducia di Angelo Moratti, papà  di 

Massimo Moratti), nell'anno in cui nel cda dell'Inter ci sono tre 

membri su otto (Carlo Buora, Pier Francesco Saviotti, Marco 

Tronchetti Provera) che fanno (o facevano) capo a un'azienda 

guidata  da  un   suo   ex   consigliere   d'amministrazione   (Guido 

Rossi) e che è anche la stessa (la Telecom) che sponsorizza il 

campionato   di   serie   A   Tim.”  Si   tratta   di   affermazioni 

difficilmente contestabili, dati alla mano. Il discorso è in tutto 

e per tutto affine a quello della caduta della Prima Repubblica 

dopo   Tangentopoli:   da   allora   fino   ad   oggi   abbiamo 

semplicemente assistito alla continuazione del clientelismo e 

dei suoi mali sotto altre vesti. Il palazzo del calcio è sempre lì, 

occupato da nuovi signori. La ruota gira per tutti. E L’Inter 

vince esattamente come la Vecchia Signora, afferma Cerasa. 

Lo ha detto anche Zamparini, che qui è peggio di Moggiopoli. 

Anche se la  Gea ora si è sciolta (“perché aveva i giocatori più 

bravi   del   mondo”).   E   chi   compie   l’escalation   adesso   lo   fa 

appunto con la Juventus in B e il Milan penalizzato. Perché 

l’Inter  ha   fatto  quel   che  ha  fatto,   la  Roma ha un direttore 

sportivo ex Gea, Guidolin è un ex della Gea e Spinelli è vicino 

alla Gea.

Che   il   calcio   non   sia   lindo   e   quieto   dopo   la   tempesta   è 

indubbio, sarebbe piuttosto ingenuo ritenere il contrario. E che 

dai   meccanismi   dominati   dall’economia   e   dalle   logiche   di 

potere   non   si   scappa.   Ma   certe   affermazioni   nascondono 

probabilmente il proposito di attenuare la portata degli eventi, 

uniformando  il   calderone  degli  attori  alla  stregua del   “sono 

tutti   uguali,   sono   tutti   ladri”.   Sono   piuttosto   tutti 

imprenditori,  è  questo  che sfugge  a Cerasa.  E che  l’Inter   è 

senza dubbio prima in classifica perché fa quel che fa – oltre 

ad avere indubbiamente un organico tecnicamente impeccabile 

­ , e la Roma viene subito dietro per lo stesso motivo. E gli altri 

sono dove sono perché hanno fatto quello che hanno fatto. Lo 

hanno fatto, per anni. Hanno svolto certi ruoli, deformato la 

struttura del calcio e determinato pesantemente i suoi esiti. 

Hanno   ripetuto   e   reiterato   i   comportamenti,   alimentando 

sospetti e polemiche domenica dopo domenica. Hanno scritto 

una   storia   del   calcio   non   vera.   E   hanno   avuto   anche   vita 

relativamente facile.  Di più,  hanno alimentato addirittura a 

posteriori l’onda dei movimenti auditel relativi alla faccenda, 

se è vero che Moggi è tuttora intonso e ha fatto bella mostra di 

se   e   delle   sue   incomprensibili   ragioni   nel   pomeriggio 

domenicale di Raidue. L’Inter, la squadra degli eterni perdenti, 

perdeva   sul   campo.   Avrebbe   sempre   e   comunque   perso   sul 

campo  per   la   sciagura  di  avere  una  dirigenza suicida  nelle 

scelte  di  mercato   e  nella   gestione  di   organico   e  allenatore. 

Avrebbe   continuato   a   perdere   sul   piano   dell’immagine   per 

l’incapacità di gestire la fuga di dichiarazioni lesive e notizie 

dei suoi giocatori. Avrebbe fatto l’Inter ancora per anni.  Ma 

avrei voluto continuare a vedere un Inter perdente al cospetto 

di   una   bianconera   “squadra   di   calcio”   a   tutti   gli   effetti, 

piuttosto che un ibrido sportivo­politico. La Juve ha vinto come 

ha vinto, e non c’è dubbio alcuno sulle modalità quantomeno 

oscure   di   almeno   4   o   5   stagioni   dei   campionati   dell’ultimo 

decennio.   In   un   sistema   di   gerarchie   di   potere,   tutti   i 

pretendenti   tendono   ad   occupare   un   posto   di   rilievo   nella 

piramide. Tutti sono colpevoli, tutti sono poco puliti. Qualcuno 

occupava   un   posto   più   importante.   Qualcuno   riusciva   ad 

arrivare dove altri non arrivavano. Gli altri stavano sotto, e 

non   determinavano   niente.   Non   contavano   niente.   Nel 

frattempo, giocavano a calcio, magari anche male. Il palazzo è 

sempre   in   piedi,   ma   è   un   palazzo   più   grande,   quello 

dell’economia   e   della   politica,   non   soltanto   del   calcio.

Chi ha pagato gli esiti della vicenda, doveva pagare.

La facile realtà dell'Aut­aut (2004)

Se   è   vero,   come   afferma   Ramonet,   che   al   giorno   d’oggi   il 

confine   tra   informazione   e   comunicazione   è   sempre   più 

difficilmente tracciabile,  è   forse altrettanto utile ammettere, 

abbandonando   ogni   aspettativa   morale,   che   non   esiste   la 

possibilità   di   un’informazione   per   definizione   oggettiva.   Il 

problema non è affatto nuovo.

Ciò   che   però   attualmente   spaventa   in   misura   maggiore   è 

l’unidirezionalità   asfissiante   delle   interpretazioni   proposte, 

quantomeno attenendosi ai mezzi “che fanno opinione”, con la 

televisione in testa. Ed il tanto sbandierato pluralismo liberale 

nel contempo si  riduce ad uno falso dibattito sul quotidiano 

che   sa   tanto   di   inevitabile   ed   ordinaria   amministrazione.

E’ di pochi giorni fa la notizia del sequestro di alcuni hard disk 

dai   servers   di   Indymedia   (noto   portale   internet   di   contro­

informazione,   come   si   autodefinisce)   da   parte   della   polizia 

federale americana, la FBI. Al di là dei legittimi dubbi sulle 

possibilità   giuridiche   per   una   tale   “provvedimento”   (il 

sequestro è avvenuto in territorio britannico) e sugli estremi di 

censura, è inevitabile notare come il mezzo internet, nella sua 

crescita  vertiginosa   e  potenzialmente   libera,  possa   in  parte 

creare   grattacapi   ai   difensori   della   ideologia   ufficiale.

La   rete   antagonista,   seppur   al   suo   interno   ricca   di 

contraddizioni ed incongruenze (nonché di schemi ancora una 

volta   ancorati   a   vecchie   categorie)   ha   comunque   intuito   la 

necessità di agire sulla società con strumenti tra i più difformi, 

conscia che l’associazionismo e l’azione partecipativa è la reale 

chiave   per   scalfire   i   pregiudizi   di   un   intero   sistema, 

conseguentemente   trasmessi   alla   mentalità   comune.

Internet è  un mezzo ambiguo e senza dubbio caotico ;  ma è 

inutile rifiutarne le opportunità.

Non   è   purtroppo   il   tempo   di   esclusioni,   quand’anche   un 

semplice editoriale del TG5 è in grado di plasmare in un solo 

colpo milioni di coscienze. La logica per cui Enrico Mentana in 

prima serata pone pressantemente la necessità di un Aut­Aut 

tra noi (la “progredita” civiltà occidentale) ed un non meglio 

precisato “loro” (il mondo islamico visto come blocco monolitico 

ed uniforme) è quella che impone l’utilizzo del maggior numero 

di  mezzi  possibili  da parte di  chi  voglia  mostrare  il  proprio 

dissenso.   Senza   discriminazioni   di   sorta,   compresa   ogni 

categoria   di   appartenenza   politica   o   culturale.   Purtroppo 

attraverso lo strumento del ricatto morale, stimolando i nervi 

scoperti  dell’ascoltatore   tramite   il   comprensibile   sdegno  per 

decapitazioni  ed  affini  atrocità,   si  esclude aprioristicamente 

ogni dubbio sui sedimenti storici e sulle biasimevoli condotte 

politiche   che   hanno   potuto   originare   il   fenomeno   del 

terrorismo.

Quand’anche  tutto  ciò   che apprendiamo dell’Ossezia  è  dalle 

emozionate parole  di  un bambino  sopravvissuto  alla  strage, 

mentre non una parola sulle pregresse migliaia di vite umane 

sulla coscienza del democratico Putin.

Quando’anche  si   fa  ben presto  a  collocare  negli   inferi  della 

storia un popolo “che non sa nulla di eroi ne di football”, come 

Sky   Tg24   ha   apostrofato   gli   uccisori   dell’ex   campione 

americano   Pat   Tillman.   Per   poi   scoprire   che   si   tratta 

dell’ennesima   vittima   del   fuoco   amico   :   ma   poco   importa, 

almeno al cospetto della aprioristica volontà  di  chiarire una 

volta   per   tutte   chi   siano   i   veri   Eroi.

Quand’anche   la   sinfonia  mediatica  gioisce  alle  prime   libere 

elezioni in Afghanistan, che già funzionano male in Occidente, 

figuriamoci in un paese dalla cultura radicalmente difforme e 

per di più in cui il candidato “vincente” era stranamente già 

noto   alle   cronache   da   mesi.   Si   tratta   infatti   di   Karzai, 

consulente   della   multinazionale   americana   Unocal,   attiva 

casualmente nel settore estrattivo di gas e petrolio.

Ma queste sono solo illazioni, ed a pensar male si va in galera, 

ma ci  si  azzecca sempre. E come se non bastasse,  la spinta 

verso   lo   scontro   tra  due  civiltà   (che   forse   soltanto  due  non 

sono, in quanto estremamente variegate al loro interno ed anzi 

reciprocamente   influenzate   da   millenni)   viene   fomentato 

imponendo   una   falsa   scelta   o   polarizzazione.

Da   una   parte   il   fondamentalista   (sempre   islamico   e   mai 

occidentalista, in onore alla precisione). Poco importa chiedersi 

se   combatta   per   un   ideale,   se   risponda   ad   una   necessità 

politica o davvero religiosa. Ancora meno utile è chiedersi se la 

causa   di   talune   reazioni   sia   davvero   una   interpretazione 

univoca   dell’Islam   quanto   piuttosto   un   sedimento   culturale 

della  propria   specifica   realtà   locale,  una  diversa   concezione 

dell’uomo   o   un   ‘esasperazione   di   cui   il   bel   mondo   è 

responsabile.   Dall’altra   il   democratico   uomo   moderno,   che 

rispetta   i   diritti   umani   (sua   pura   invenzione,   da   difendere 

all’occorrenza con le armi ), che si occupa del Grande Fratello 

nei servizi dei telegiornali in prima serata e che prima o poi ci 

porterà   su   Marte.   D’altronde   è   questo   uno   dei   ruoli   della 

politica ; orientare le masse al consenso. Ed il meccanismo è 

pienamente legittimo. Ma mai come ora tale consenso non è 

per un’idea come tanti credono,  quanto piuttosto per l’unica 

variabile   disponibile,   quella   offerta   dal   grande   palcoscenico 

della comunicazione.

Eroi da esposizione

Se è vero che un popolo ha un bisogno continuo di eroi, è lecito 

sperare   che   gli   stessi  non  vengano   ­   alla  prova   dei   fatti   – 

vilipesi nel loro stesso status. Nicola Calipari probabilmente 

eroe   lo   era  davvero,  altro  non   fosse   che  per   il   suo  estremo 

gesto.   Ma   c’è   il   sospetto   che   questo   patriottismo   facile   ed 

mediaticamente indotto – rientrato fino ad’ora in un progetto 

di  legittimazione cieca ed impulsiva della politica estera del 

Governo italiano, o per meglio dire delle élites a stelle e strisce 

che ne rappresentano l’  “illuminante” faro – possa viceversa 

assumere   un   corollario   grottesco,   senza   la   necessaria   luce 

sulla vicenda. Se in precedenza gli italici squilli di tromba sono 

bastati   per   serrare   le   fila   contro   il   feroce   nemico   islamico, 

stavolta  la  morte viene per  mano del   “fuoco amico”.   Il   caso 

vuole che il coraggioso operato (e sacrificio) del funzionario del 

Sismi   venga   oscurato   nel   caso   in   cui   ancora   una   volta   gli 

interessi americani prevarranno sul più  elementare senso di 

giustizia ed orgoglio. Ci si augura insomma che la vicenda del 

Cermis abbia insegnato qualcosa, ancor più in tale frangente 

dove il contesto è assolutamente più grave. Se non verrà fatta 

chiarezza   sulle   ragioni   della   sparatoria   contro   l’auto   che 

trasportava   Giuliana   Sgrena   e   lo   sfortunato   Calipari, 

quest’ultimo   sarà   un   eroe  buono  per   l’acritica  memoria  del 

popolo,  ma un utile idiota per chi dovrebbe invece alzare la 

voce   contro   il   gendarme   planetario.   Un   eroe   “cornuto   e 

mazziato”,   per   usare   una   espressione   in   tal   caso   davvero 

nazional­popolare.

La   “verità”   di   comodo,   la   versione   rassicurante   di   matrice 

americana non tarderà ad arrivare, sarà anzi probabilmente 

già  nell’aria  quando   il   lettore   si   troverà   di   fronte  a  queste 

righe.   Se   tarderà,   in   ogni   caso   non   potrà   essere   messa   in 

discussione.   Ad   un   così   grave   gesto   le   risposte   sarebbero 

dovute   arrivare   immediatamente;   non   è   ipotizzabile 

comportamento migliore  per  evitare   ipotesi  di   incompetenza 

totale   o   peggio   ancora,   quelle   assurde   di   una   strategia 

preordinata. Viceversa la Casabianca ed il comando americano 

hanno da subito “spento il cellulare”, e il buon George W.Bush 

dopo   alcuni   giorni   ha   risposto   con  decisione:   verrà   rivelato 

qualcosa solo al termine di un’inchiesta di indefinita durata e 

di altrettanto imprecisata modalità, in quanto –com’era ovvio­ 

gli “interessi americani sono prioritari”. Il ministro Castelli –e 

la   richiesta   rogatoria   internazionale­   ha   avuto   presto   il 

benservito.   Scettici   o   più   semplicemente   teste   pensanti 

dovranno   sottostare  d’ora   in  poi   all’accusa  di   “pregiudiziale 

antiamericanismo”, tutti gli altri passeranno come realisti che 

hanno compreso la delicatezza della situazione e la necessità 

di “tempo” per dare risposte al tragico evento ; e le risposte –

c’è da giurarci­ andranno benone, di qualunque tenore siano.

C’è   da   sperare   che   l’opinione   pubblica   sappia   trasformare 

l’iniziale ondata di sdegno in riflessione critica nei confronti 

dell’operato   americano   e   delle   sue   scelte   planetarie,   e   la 

lettura  dei  quotidiani  nei  giorni   immediatamente   successivi 

all’accaduto   lasciavano   trasparire  qualche   spiraglio  di   luce. 

Ora sarebbe invero più realista ricredersi: dopo la tempesta, la 

democratica quiete torna a farsi strada e presto maggioranza e 

opposizione   hanno   chiarito   che   l’appoggio   alle   scelte   di 

Washington “non è in discussione”.

Il  bombardamento mediatico  è   l’unica  cosa che persiste  con 

violenza, al fine di stordire le coscienze piuttosto che muovere 

le idee. Il Corriere Della Sera continuerà a presentare i suoi 

speciali   sulla   pagina   della   cultura   per   illustrare   testi   che 

spiegano   quanto   sia   diffuso   il   “pregiudizio”   antiamericano; 

Libero –così  come era stato per “le due Simone”, Baldoni ed 

altri­   continuerà  a   lanciare   strali   contro   la  Sgrena e   il   suo 

compagno, contrariamente ad ogni senso di umanità e pudore; 

Mentana   (cacciato   perché   “scomodo”   a   dire   dei   ferrei 

sostenitori   del   dualismo   destra­sinistra)   riappare   in   prima 

serata   –seppur   per   ragioni   di   audience   contro   il   festival 

sanremese­ con uno speciale su Oriana Fallaci, un’italiana di 

cui “si sa poco” e di cui si sentiva proprio il bisogno; anche in 

Sardegna –  su  “l’Unione  Sarda”   ­   si   sprecano  editoriali   che 

dimostrano   quanta   affinità   leghi   Usa   ed   Europa.

E   mentre   il   turbinio   mediatico   continuerà   a   riscaldare   la 

medesima   minestra   inculcando   la   convinzione   che   “faccia 

discutere”,   un   numero   non   quantificabile   di   dettagli   sulla 

recente tragedia viene taciuto, dai telegiornali in primo luogo ; 

come sempre si vaga nell’oscurità e chissà se davvero quei 700 

metri in direzione dell’aeroporto di Baghdad sono realmente “i 

più pericolosi” di tutto l’Iraq, come presto ci si è affrettati a 

chiarire. Se l’auto aveva superato i precedenti controlli, se la 

zona   è   interamente   presidiata   da   pattuglie   americane   (e 

magari   se   l’Iraq   ora   è   una   nazione   libera   e  democratica)   , 

quantomeno è   lecito dubitarne e da qualche parte vi  è  una 

falla   evidente.   In   alternativa,   rimane   lo   sconcerto   per 

l’assoluta impreparazione e l’isterismo di chi ha aperto il fuoco 

crivellando   l’auto   con   300   colpi;   permane   il   dubbio 

sull’efficienza   organizzativa   del   comando   americano   e   sulla 

regolarità della comunicazione di guerra. Il tutto sommato alle 

critiche   generali   che   dall’inizio   del   conflitto   continuano 

fortunatamente   a   sollevarsi   –anche   se   tramite   canali   non 

sempre   primari­   nei   confronti   della   politica   estera   U.S.A   e 

delle   ragioni   del   loro   intervento   armato.

Vi è anche chi –folle e sconsiderato­ lancia ipotesi come quelle 

di  un agguato premeditato,  atto ad eliminare un potenziale 

possessore di informazioni scomode, teoria forse semplicistica 

e del tutto funzionale al gioco politico italiano; se davvero si 

volesse   teorizzare   un’azione   in   malafede,   il   botto   mediatico 

maggiore   sarebbe   derivato   viceversa   dall’attribuzione   di 

un’identità   islamica   agli   uccisori,   così   da   confermare 

l’ennesimo atto   terroristico   in  un  estremo colpo  di   coda.   In 

ogni   caso,   non   si   preoccupino   gli   attanti   del   meccanismo 

politico italiano: tutto sta rientrando nei ranghi, presto il caso 

verrà   dimenticato   e   gli   umori   estremi   verranno   abilmente 

riconvertiti in termini di consenso.

Manuale per oscurantisti e vecchi bacucchi

Ed è tempo finalmente di sostituire alla domanda kantiana

“come sono possibili giudizi sintetici a priori?”

un’altra domanda: perché è necessaria la fede in tali giudizi?

 è tempo, cioè, di comprendere,che tali giudizi

debbono essere creduti veri allo scopo

di conservare gli esseri della nostra specie;

per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi!

O, detto più chiaramente, duramente e definitivamente:

giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto “essere possibili”;

non ne abbiamo alcun diritto

Friedrich W. Nietzsche

A fare  i  ribelli  non ci  si  guadagna,  dicono.  O si  è  esotici,  o 

bastian­contrario, oppure oscurantisti, reazionari, retrogradi e 

– perché no? – anche vecchi bacucchi. Come in ogni epoca, la 

nuova   generazione   critica   la   precedente;   man   mano   che   si 

cresce si critica il  mondo in cui si vive e i suoi modelli:  era 

meglio quando si stava peggio, i treni arrivavano in orario e 

magari   potevi   anche   lasciare   la   porta   aperta   di   notte.   Poi 

passa il tempo, e tutto si risolve, si “rinnova”, il ciclo si compie 

e come dicevano i Beatles in “Revolution”, non sai che andrà 

tutto a posto? Arriva, a questo punto, il solito moralizzatore di 

turno,   con   il   dito   puntato   e   scandito   ritmicamente,   a 

bofonchiare contro la televisione, internet, i social network, la 

democrazia   e   le   elezioni,   la   libertà   individuale   ed   il 

permissivismo – ed aggiungete a piacimento tutti i gingilli e le 

“belle cose” che la modernità ha prodotto e ci offre, e che anzi 

noi stessi, gnomi brontoloni dell'ultim'ora, utilizziamo e in cui 

ci   tuffiamo   senza   poi   tante   remore.   Tutto   regolare   quindi? 

Forse no, forse qualcosa di nuovo sotto  il  sole c'è.  Perchè   in 

epoca liberale (che poi, stando ai manuali di scienza politica, 

nemmeno più tanto tale è) quello che ci offre la società non è la 

Verità, la Redenzione, ma soltanto la libertà e la possibilità di 

scelta,   di   partecipazione.   Il   critico   è   invece   il   nostalgico   di 

tempi e luoghi che è meglio non citare, siano essi rossi o neri, il 

nemico della e delle libertà. Del resto, come si fa a criticare 

così radicalmente un   qualcosa?   Sembrerà   poco   credibile,   ma 

anche chi scrive è piuttosto ostile al “riduzionismo”, ovvero alla 

lettura   univoca   dei   fenomeni   ed   alla   loro   vera   e   propria 

riduzione ad una sola dimensione, sia essa quella scientifica, 

economica,   religiosa   o   quello­che­vi­pare.   I   cosidetti   “nuovi 

filosofi” di cui parlava De Benoist, o per tornare alla premessa, 

i “filosofi” in toto di cui parlava Nietzsche, non sono forse i veri 

detentori   e   proclamatori   della   Verità?   Di   una   sola   Verità, 

benchè democratica e partecipativa?

Per   parlarci   con   più   semplicità,   come   si   fa   a   criticare   così 

radicalmente   la   Televisione?   I   luddisti,   distruggendo   le 

macchine in fabbrica, hanno già fallito una volta. Ed oggi nel 

2010 c'è  ancora un movimento che porta le televisioni su un 

camion e le fracassa di randellate. Pochi a dire il vero, e meno 

male dirà   la massa. La televisione ha “accresciuto” il  livello 

culturale di una nazione intera, che questa nazione stessa l'ha 

fatta attraverso  la lingua e i  modelli,   i   film e  i telefilm che 

hanno   visto   tutti   e   cementato   una   coscienza   nazionale, 

un'identità e un sentimento di condivisione di valori che per 

quei modelli passavano. Tutti dietro ad una scatola, all'ora di 

pranzo   o   sul   divano   dopocena:   la   famiglia   italica   onesta   e 

operosa durante la giornata, finalmente unita e complice: la 

Rai che parlava nelle case negli anni '60 e '70, coi suoi caroselli 

e i  suoi intrattenitori così  vicini a noi e a cui vogliamo così 

bene,   l'informazione   per   tutti,   accessibile   e   palpabile   con 

mano, l'avvento della TV commerciale negli anni '80 che tanto 

ci ha fatto divertire e ridere, che ha cresciuto i nostri bambini 

e allietato i nostri pomeriggi e serate con i quiz, i varietà, e poi 

lo sport e le canzoni, i pupazzi e le avventure. Come si fa a 

parlar   male   di   tutto   questo?   Si   può   e   si   deve.   Altrimenti 

dovremmo dare  degli   idioti   a   fior   fior  di  pensatori   come   il 

compianto Baudrillard,   il   liberalissimo Popper  o   il  seminale 

McLuhan e milioni  di  altri  ricercatori che hanno studiato e 

documentato gli effetti nefasti del medium passivizzante per 

eccellenza. Si sente spesso affermare che non può mai essere 

condannabile il mezzo in sé, ma l'uso che di esso si fa; che esso 

è soltanto un contenitore ed è il contenuto a connotarlo. Certo 

è che non si può condannare una scatola. Io in questa scatola 

posso   anche   guardare   i   pesci   del   mare   dei   tropici,   un 

documentario   sulla   fecondazione   in   vitro   o   una   commedia 

dialettale   pugliese.   Ma   questa   frase   così   tanto   ottimista 

distrugge – superficialmente ed in un sol colpo – il magistrale 

insegnamento secondo cui il medium stesso è il messaggio. A 

prescindere da cosa esso ci dica, se ci “informi” bene o male, se 

dica o meno la verità  (quale verità  tra le tante poi?),  se sia 

educativo o meno per i nostri figli, se ci sia troppa violenza o 

sesso, se i modelli che propone sono giusti, se Santoro e Biagi e 

Travaglio   e  Luttazzi   e   la   censura   e  Berlusconi   e   i   padroni 

dell'informazione e l'informazione non è libera e Rai per una 

Notte o per tutte le notti. E noi qua a farci dettare la realtà 

sempre e comunque, la Realtà della Televisione, bella o brutta, 

utile o dannosa. È comunque quella, la Realtà, che fa rima con 

Verità,   sì,   quella   verità   dei   Filosofi,   magari   democratici   e 

liberi. Come si faccia a non vedere la ineluttabile passività e 

passivizzazione di tutti noi di fronte al mezzo monodirezionale 

per  eccellenza,   rimane un mistero.  E qualunque discorso  si 

possa   fare   attorno   ad   essa   –   la   televisione   –   (culturale, 

scientifico, politico e via discorrendo), la passività del fruitore 

è inconfutabile. Nemmeno con la famosa interattività si potrà 

arrivare   a   tanto.   Il   suo   picco,   finora,   direi   che   è   stato   il 

telecomando Quizzy dei primi anni  '90 coi giochi a premi di 

Mike Bongiorno. La TV ci detta una realtà che diventa l'unica 

possibile, di cui si parlerà a lavoro, nei bar, coi vicini di casa e 

sui giornali. E ci preoccuperemo – i più “avveduti”, quelli che 

“sanno” e non sono mica capre come gli altri, e magari votano 

PD o Di Pietro – di quante fregnacce dicono i TG, di quante 

reti possieda il premier, delle epurazioni e delle censure, della 

costituzione  violata e  di   tutti   i   temi  scottanti  del  Dibattito, 

quello con la D maiuscola. E nel mentre il consiglio comunale 

che si   riunisce  a  pochi  minuti  da casa nostra decide  (o  più 

spesso NON decide) sul cambiare quel lampione nella nostra 

strada   difettoso   da   10   anni,   su   quell'appalto   che   premierà 

questo o quel delinquente, sull'ennesimo autovelox da piazzare 

chissà  dove. Il consiglio regionale deciderà di distruggere un 

altro pezzo di costa per un albergo che rimarrà magari chiuso 

o deciderà  di  autorizzare la coltivazione del pomodoro OGM 

brevettato  in Texas nella tua terra.  Il  consiglio dei Ministri 

deciderà   il  resto, sempre che non l'abbia già  deciso  l'Unione 

Europea.   Ma   l'importante   è   sapere,   e   meno   male   che 

sappiamo, se  solo  la televisione ci  dicesse  la  Verità.  Se non 

creasse un'altra realtà.  Ma quello che non capiamo è  che la 

Realtà   comunque   la   creerebbe   e   la   creerà,   e   sarà   sempre 

“altra”,  sempre la  sua.   I  più  avveduti  son preoccupati  per   i 

destini  di Santoro e della costituzione,  o  per  la dittatura di 

Berlusconi.  Gli  altri   sono  preoccupati  per   l'eliminazione  del 

loro beniamino su Amici di Maria de Filippi, per la crisi tra 

Belen e Corona e qualche altro succulento orpello della nostra 

vita.  Quelli  che  la TV la spegneranno, magari daranno una 

mano al proprio vicino di casa, pianteranno lattuga o zucchine 

in   un   pezzo   di   terra;   faranno   la   spesa   non   seguendo   la 

pubblicità   ma   tramite   un   gruppo   di   acquisto   solidale, 

acquistando prodotti a chilometro zero; leggeranno un libro o 

impareranno a suonare uno strumento musicale; metteranno 

in piedi qualche iniziativa culturale o ricreativa; un concerto, 

una   festa,   una   grande   cena   con   gli   amici.   Faranno   una 

passeggiata per le vie del centro, parleranno con le persone e 

magari decideranno insieme su qualcosa che prema a tutti, per 

il   proprio   quartiere.   Costituiranno   dei   comitati   spontanei, 

delle assemblee popolari, prenderanno la bicicletta o i mezzi 

pubblici   e   sentiranno   la   “puzza”   di   prossimo.   Vivranno   la 

realtà e la cambieranno giorno per giorno, con il loro esistere e 

con le loro azioni.  Gli  altri,  continuino pure ad occuparsi di 

Santoro.  Quello   che  non   si   comprende,   è   che  non   è   affatto 

“pericoloso” disinteressarsi dei Grandi Temi. Non è pericoloso 

non andare a votare. Non è  dannoso distrarsi di   fronte alle 

avvisaglie di una Dittatura. È pericoloso invece dargli ascolto. 

Lasciarli soli, senza seguito e senza utenza: la politicizzazione 

delle   masse   è   proprio   qui,   nel   dare   un'illusione   di 

partecipazione   attraverso   il   medium,   esautorando   così   le 

collettività dall'azione diretta sul proprio territorio. Non è con 

il disinteresse della gente che si crea e alimenta il Potere, ma 

con l'appoggio diretto e soprattutto indiretto alla Realtà  che 

viene  proposta  e  sancita.  C'è  dentro   fino  al   collo  anche   chi 

sostiene Rai Per Una Notte, Mediaset per Nessuna Giornata, 

chi vede in Travaglio il messia dopo Cristo e chi va al lavoro 

tutti   i   giorni   orgoglioso   con   la   sua   copia   del   Manifesto 

sottobraccio. Siamo tutti complici ed artefici se non ritorniamo 

a vivere una volta per tutte. A non volere, per volere di nuovo. 

In  questo  senso   “non volere  è  potere”.  Perchè  questo  volere 

oggi   è   un'illusione,   diversa   da   quella   che   sosteneva   la 

comunità   nel   medioevo.   Diversa   dai   roghi   in   piazza   per 

propiziare   un   raccolto,   dal   valore   del   rito   pagano   e   dal 

fondamento delle credenze popolari. Noi oggi quelle illusioni 

positive   le   condanniamo e  ne   sorridiamo –   tranne  qualche 

vecchio bacucco di cui sopra – e ci preoccupiamo della vita di 

un unico toro in un arena (rito millenario che – per carità – 

potranno   gli   spagnoli   stessi   decidere   di   eliminare,ed   con 

legittimità a quel punto) senza curarci di 30.000 mucche che 

vivono in un metro quadro allevate con cibi tossici e nate già 

per   morire.   Da   altro   canto,   però,   non   ci   curiamo   dell'altra 

Illusione, quella di “partecipare” con il voto, con il Dibattito 

intorno   alla   Realtà   della   TV,   con   il   nostro   account   su 

Facebook,  con  il   “diritto  di  opinione”  e   con  la  creazione del 

nostro   blog,   con   il   tutti   in   rete   attraverso   i   nostri 

palmari/cellulari/smartphones da ogni dove, tutti vicini e tutti 

collegati,   tutti   partecipi   e   tutti   democratici,ma   così   soli   e 

lontani.   Non   volere   è   anche   vivere   il   proprio   territorio,   la 

propria comunità e il “vero” prossimo – non quello cattolico e 

generalizzato di tutto il mondo; non volere è  smetterla con i 

nostri   “giudizi  sintetici  a priori”,   le  nostre Verità  sui  diritti 

umani violati in Africa, sui posti – come diceva Gaber – dove 

ancora non v'è  giustizia,  democrazia o  libertà.  Non volere è 

innanzitutto  non  voler   essere   invadenti,  non  porsi   in  modo 

perentorio   e  definitivo  ma  nemmeno   relativista:   è   vivere   il 

proprio guardando il resto in “prospettiva”, calandosi nell'Altro 

e   facendo   della   sua   esistenza   la   condizione   per   la   nostra 

identità. Guardando al diverso per quello che è e accettandolo, 

cogliendone i lati che ci possano arricchire, quando guardiamo 

ad esso nella sua realtà, nella sua interezza e non nella Realtà 

che   ci   viene   proposta,   qualunque   essa   sia.

Non di network sociali e blog v'è bisogno, in cui il nostro Ego 

che traspare è comunque sociale anch'esso, ovvero costruzione 

pubblica, riflesso lontano del prossimo che c'è dietro coi suoi 

odori  e   con  i   suoi  umori   reali.   Internet  supera   il  gap  della 

monodirezionalità  di  altri  media,  ed è   in  questo  importante 

correttivo   delle   distorsioni   soprattutto   dell'informazione, 

parola   invero   orribile   e   che   richiama   già   una   volontà 

totalitaria   nella   sua   etimologia:   dare   forma,   disciplinare, 

insegnare.   Ma   rimane   comunque   un   medium,   un   tramite 

illusiorio e creatore, come un Leviatano, di una realtà che in 

pochi   casi   percentuali   ha   ricaduta   sul   vissuto. 

Perchè il vissuto è fatto di distanze reali, di fatica e meraviglia 

frammiste a paura per ogni nuova scoperta, piuttosto che di 

planetarie equivalenze tra un luogo e l'altro solo perchè “viste 

in Tv”,  o  di  virtuali  amicizie e  comunioni  di  spirito con un 

Diverso che ci piace perchè la Rete lo rende uguale e vicino a 

noi. Il vissuto è fatto di decisioni e sacrifici, di discussioni con 

l'alito del prossimo che ci disturba e ci ricorda che siamo vivi, 

di grandi azioni ed imprese da compiere insieme per cambiare 

quello che non va, di odori di terra e sapori dei suoi frutti. Il 

vissuto è l'accorgersi di cosa succede nella strada a fianco, nel 

quartiere che ti ospita, nella terra che ti “confina” ma ti rende 

una   persona   vera.   Allora   forse   non   si   è   dei   reazionari   ad 

enunciare i limiti di una modernità che ha annullato distanze 

e frontiere, che ci ha riempito di stimoli e possibilità, ma ha 

reso   tutto   così   vuoto   ed   eguale.   Citando   un   amico,   si   può 

affermare che erano forse meglio i tempi in cui potevi ancora 

perderti qualcosa, mentre oggi c'è Youtube e lo puoi rivedere. 

O per dirla con l'altrettanto compianto Jean Cau, beati i tempi 

in cui non si sapeva nulla. Al Tg delle 20, Carestia in Etiopia. 

Uno   scheletro   vacilla   ambulante   verso   il   Nulla.   Immagini 

terribili,   domani   tutti   ne   parleranno.   No,   hanno   già 

dimenticato.  Tra i  Sofficini e il  Conto Arancio,  anche il  mio 

negro di  25 chili.  Allora c'è  un reale bisogno di  passaggi  al 

bosco,   di   non   volere   e   rifiutare,   di   “chiamarsi   fuori”   per 

tornare   dentro.   Senza   essere   definiti   oscurantisti   o   vecchi 

bacucchi, ma forse è ancora troppo presto per pretenderlo.

Altrove

Secondo i dati riportati da Umberto Galimberti, il 53 per cento 

degli   italiani   soffre   di   disagio   psichico   per   lo   più   a   sfondo 

depressivo   (34   per   cento),   e   il   32   per   cento   assume 

psicofarmaci il cui consumo è aumentato del 60 per cento negli 

ultimi  quattro  anni:   stime  decisamente  preoccupanti,   e   che 

fanno il paio con i famosi 566 americani su 1000 che ricorrono 

all’ausilio di sostanze per fronteggiare la quotidianità. E non a 

caso,   l’influsso  della  cultura  americana  è  probabilmente  ciò 

che  fomenta questo  progressivo consumo:   l’abbattimento del 

senso del limite spinge l’individuo, eternamente insoddisfatto 

del suo presente e proiettato verso una meta sempre al di là 

venire, a ricercare un qualcosa che allevi chimicamente il suo 

senso   d’ansia,   che   lo   proietti   in   una   condizione   di   fittizia 

onnipotenza   e   disinibizione.   Nulla   di   differente   dal 

meccanismo   di   gran   parte   delle   droghe   comuni,   con 

l’aggravante   che   la   scintilla   di   tale   dinamica   è   proprio 

nell’ideologia del progresso e della scalata al successo.  Devo 

essere di più, per essere qualcuno. La qualità della vita non è 

dunque   mai   nel   “qui   ed   ora”,   ma   sempre   e   perennemente 

inafferrabile. Per frenare questo stato ansiogeno, si ricorre ad 

aiuti   esterni,   nell’impossibilità   di   vedere   l’obiettivo.   Non 

necessariamente tale ausilio è di tipo chimico: qualunque cosa 

in   grado   di   sottrarre   l’individuo   dalla   responsabilità   del 

vissuto reale e di  metterlo a contatto con una situazione di 

esclusiva agiatezza entra in gioco. E’ il caso ad esempio della 

tecnologia:   in  grado di   svolgere numerosi   compiti   “al  posto” 

dell’uomo,   offre   nel   contempo   ad   esso   l’illusione   di 

onnipotenza,   di   soddisfazione   e   di   controllo   non   solo   della 

realtà   circostante,   ma   anche   della   propria   psiche.   Gli 

psicofarmaci   illudono   e   piuttosto   inibiscono   il   vissuto:   la 

tecnologia, pervasiva e onnicomprensiva, svolge una funzione 

equiparabile.   Come   lo   definisce   lo   stesso   Galimberti, 

l’individuo sovrano si illude che con la tecnologia controllerà 

ogni sfera dell’esistente, magari anche del personale, rendendo 

sempre più “soggettivo” ed integrato a se il mezzo tecnologico 

che utilizza.  Emblematico  è   il   caso  della  telefonia cellulare, 

medium individuale per eccellenza, che sta evolvendosi sempre 

più verso la tipologia di “postazione multimediale portatile”. 

Mentre   in   realtà   comanda   sempre   meno,   ed   “affida” 

inconsapevolmente  al  mezzo  altro   la  sua  prerogativa.  Ma  è 

alleviato dal peso della responsabilità e vive la sua condizione 

con   maggior   tranquillità.   Da   sottolineare   che   è   stata 

sufficiente la sola “diffusione” della tecnologia a generare un 

certo tipo di effetto alienante ed espropriante, a prescindere 

dalla  sua natura.   In altri   termini,  se   la  prospettata “realtà 

virtuale” o i videogames sono piuttosto espliciti nel senso di un 

vissuto   fittizio   ricreato,   il   resto   dei   medium   no.   Eppure 

l’effetto è il medesimo. In questo senso, la tecnologia è di per se 

una   “nuova   droga”,   un   palliativo   dei   mali   moderni,   uno 

psicofarmaco   collettivo.   Essa   è   così   presente   che   diventa 

“estensione fisica di se stessi”   (Marshall  McLuhan).  Diviene 

affine alla carne stessa, svolgendone al suo posto le funzioni. Il 

rapporto tra tecnologia e carne è evidenziato dal regista David 

Cronenberg nel suo “Existenz”: qui l’uomo può   integrarsi ad 

una  realtà   su  misura,   tutta   tecnologica,   interfacciandosi  ad 

essa proprio come una normalissima periferica hardware, una 

porta firewire o usb. Il futuro è a sua misura. Secondo Anna 

Pazzaglia, “Il film ci presenta una possibile, irreversibile crisi 

dei   concetti   di   identità   fisica   indotta   da   uno   sviluppo 

tecnologico così intenso da ridurre l’uomo a un terminale; e la 

macchina,   rinnovata   in   una   struttura   organica   e   vivente, 

finisce per gestire esistenza e trascendenza dell’uomo stesso”. 

Gli elementi ci sono tutti: il senso di onnipotenza ed il futuro 

alla propria portata, l’espropriazione di se,  l’illusione pronta 

alluso per la mente, la propria esistenza proiettata verso un 

lido   altro.   “Se  giochiamo   bene,  noi   saremo   i   vincitori   della 

battaglia   per   l'esistenza.   Per   un'esistenza   priva   di   logica, 

insensata,   violenta,   sensuale   e   folle,   che   continua   quella 

altrettanto  insensata,  ma anonima, di  tutti   i  giorni”.  Anche 

Kathryn   Bigelow,   nel   suo   film   di   culto   “Strange   Days”, 

descrive un ipotesi dove lo SQUID, un comunissimo walkman 

cerebrale,   è   in   grado   di   catalogare   e   riprodurre   intere 

sequenze   di   emozioni   archiviate,   pronte   all’uso   per   un 

esistenza   soddisfacente.   L’individuo   è   solo,   la   realtà   è 

fuggevole. Il rifugio è l’emozione indotta, o ridotta, controllata.

Elezioni sarde tra tifosi e moralizzatori

Alla fine, ha vinto Cappellacci. Anche contro le mie personali 

aspettative. E giù tutti a lamentarsi, a gridare al disastro e a 

dolersi   per   i   tempi   cupi   che   attenderanno   la   Sardegna   nei 

prossimi 5 anni. Ma soprattutto a chiedersi come mai si voti 

un Cappellacci di qua e un Berlusconi di là. Ci si chiede da 

dove venga la maggioranza silenziosa che vota a destra ma non 

lo   dice,   e   come   sia   possibile   che   vengano   eletti   personaggi 

rappresentanti di un qualcosa che in Italia profondamente non 

va, ed anzi ne sono diretti artefici e complici. E via con i links 

di Travaglio che ci arrivano per posta, dove si ripete ciò che è 

già   scritto   da   anni   in   libri   da   milioni   di   copie   vendute   e 

decantato   tutt'ora   sulle   reti   pubbliche;   via   con   i   gruppi   su 

Facebook   di   persone   che   si   chiamano   fuori   in   anticipo 

dall'operato del neo­presidente e via con la divisione del popolo 

(parola quantomai vuota) in due ulteriori categorie – già, come 

se di categorie non ce ne fossero abbastanza: gli stupidi e gli 

ignoranti   (i   votanti   per   il   centrodestra)   contro   gli   svegli   e 

avveduti   (i   votanti   del   centrosinistra).   E   durante   tutta   la 

campagna  elettorale,  mai  come ora  un culto  del   capo  e  del 

personaggio: tutti con gli slogan, la locandina “Meglio Soru” in 

automobile o come avatar sul forum o nei social networks, le 

bandierine in mano a bambine di 5 anni e famiglie distinte dai 

papà con la maglietta a righe che al comizio di Cappellacci gli 

fanno da guardia bianca spintonando gli studenti “comunisti” 

che   manifestano   contro   il   decreto   Gelmini.   Quasi   come   la 

squadra   del   cuore,   si   “tifa”   un   politico.   Qualcuno   non   sa 

nemmeno   cosa   rappresenta   e   cosa   ha   combinato 

probabilmente Renato Soru, ma è del PD, contrapposto ad una 

marionetta   di   Berlusconi   e   per   questo   è   meglio,   bisogna 

votarlo. Ancora una volta Berlusconi è il perno che paralizza 

tutta la politica. È la ragione delle decisioni, è il discrimine. Se 

facessi la domanda “quali sono le tue idee politiche?”, tanti mi 

risponderebbero   “sono   antiberlusconiano”.   Nemmeno   fosse 

Hegel. Sono “anti­hegeliano” sarebbe più  comprensibile. Non 

stiamo   parlando   di   un   filosofo   della   politica,   ma   di   un 

imprenditore dalla caratura filosofica di un fungo. E di contro, 

ma non mi stupisco, i cultori di un “forza Ugo”, “grande Ugo” e 

“sono contento per  Ugo” che fino a 10 minuti  prima non si 

conosceva nemmeno, ma per qualcuno si doveva “tifare”, contro 

una sinistra che sa solo attaccare con sberleffi e insulti e per 

liberarsi una volta per tutte dei comunisti. Non c'e veramente 

nulla  di  nuovo   sotto   il   sole:   è   la  solita  vecchia  bagarre   tra 

quegli orribili e superficiali contenitori vuoti che sono destra e 

sinistra,  il  tutto reso ancora più  povero dal fatto che non si 

discute  più  nemmeno di   idee  ma di  volti.  Da  una parta   la 

solita   sinistra   morale,   moralista   e   moralizzatrice   ­   ed   ora 

anche   e   sempre  più   garantista   ­,   dall'altra   la   solita   destra 

borghese, ignorante e pecoreccia. Qualcuno (molti?) dovrebbe 

capire che qua non si tratta semplicemente di una questione di 

ignoranza,   o  meglio  non  soltanto  di  quella:   che   la  massa   è 

ignorante e sempre lo sarà, è un dato di fatto. Ed è un altro 

dato di fatto che certe cose si sappiano. Chi è delinquente, chi 

ha fatto cosa e via discorrendo.  Insomma, tanti  lo sanno.  È 

come quando dici che la guerra si fa per il petrolio e pensi che 

molti   non   lo   sappiano,   e   la   sostengano   solo   perché   gli 

americani sono i buoni e Saddam il cattivo. Sì, una parte lo 

crede davvero, come si crede alla Befana o alla combinazione 

cocacola e aspirina. Ma altri ti risponderanno impassibili: “Lo 

so,  ma il  petrolio meglio a noi  che a  loro,  no?”.  Sono anche 

questi   i   problemi,   e   non   solo   gli   ignoranti.   Dove   voglio 

arrivare? Voglio arrivare al fatto che è il clientelismo la base 

della politica, di questa politica: io do una cosa a te, tu dai una 

cosa a me. Ed è  alla base non solo di questa politica, ma di 

tutto   il   sistema   che   la   sorregge.   Il   sistema   del   liberalismo 

democratico e del neoliberismo economico. Non è altro che la 

sua   estrema   conseguenza,   non   un   cancro   da   esportare   per 

avere   un   capitalismo   etico   e   buono   per   tutti.   Dove   vige   il 

profitto,  vige  anche  l'azione  più  utile  per  ottenerlo.  Soru  in 

questi 5 anni ha rotto il giocattolo a tanti, e probabilmente ha 

distribuito   giocattolini   ad   altrettanti.   Evidentemente   erano 

più  quelli   che  frignavano senza  il  giocattolo   tra   le  mani.  E 

gliel'hanno fatta pagare. Erano un poco­per­cento in più.  Le 

idee,   Berlusconi­delinquente,   Cappellacci   tirapiedi   e   tutti 

questi   discorsi   non   contano   niente.   Ha   votato   il   67   per 

cento degli aventi diritto. Quelli che non hanno votato, sono gli 

indifferenti, gli apatici, i delusi o i menefreghisti. C'è di tutto, 

qualcuno lo giustifico e qualcun'altro no. Ma non è il caso di 

discuterne qui. Tra quelli che hanno votato, un quarto sono i 

moralizzatori,   un   quarto   gli   ignoranti   e   l'altra   metà   gli 

interessati.   Quelli   del   “ti   do  una   cosa   e   mi   dai   una   cosa”. 

Quelli delle promesse, degli appalti e dei piani di governo per i 

prossimi 5 anni. Chi se ne frega di cosa dice Travaglio. È vero, 

ma non ci costruirò l'albergo o quello che mi pare se ascolto 

quello   che   dice.   Cari   moralizzatori,   è   questo   che   dovete 

mettervi   in   testa.   E   che   anche   con   un   Soru   rinnovato 

presidente della regione,  i  motivi alla base di tanto scempio 

“morale”   non   verranno   eliminati:   un   imprenditore,   avvezzo 

alla stessa logica, un Berluschino della Sardegna, dispensatore 

di aperture alla sua metà.  Niente di più.  Della destra e dei 

suoi elettori a dire il vero finora ho parlato poco, ma è perché 

c'è realmente da dire poco: che sia e siano da sempre refrattari 

alla cultura ed all'informazione è un dato di fatto. Lo sono da 

sempre. A informarsi si rischia seriamente di pensare, e non 

va   mica   bene.   Parlare   male   dell'ignoranza   di   una   parte 

dell'elettorato  è   come sparare sulla  croce  rossa.  È  una cosa 

fisiologica e non ci spiega tutti i perché dell'andazzo dell'Italia 

e del mondo. La cosa di cui ci dovremmo preoccupare noi sardi 

(che però – lo ripeto – non esistiamo) è che un partito come Irs, 

unica   realtà   degna   di   attenzione   e   che   esce   per   ora   dalle 

logiche   che   tanto  odiamo,  abbia  preso  a  malapena   il  3  per 

cento. Certo, una crescita rispetto alle scorse regionali. Ma chi 

sogna in qualcosa di diverso non può e non deve accontentarsi. 

Perché fare il tifoso della politica proprio non mi va giù. Non ce 

la faccio anche io a tenere bandierine e scrivere slogan. Non 

dovrebbe accontentarsi  nessuno,  se ha   veramente nel  cuore 

quest'isola. È ora di finirla seriamente con le battaglie degli 

altri. Ma quale Soru o Cappellacci. Scegliete voi stessi per una 

buona volta!

E l'italiano cantava

Certo   non   ci   si   deve   attendere   un   improvviso   segnale   di 

complessità  dalla  massa,  una  risposta  sopra   la  media  dalle 

menti   ormai   sature   del   brodo   catodico.   Eppure   in   Italia 

esistono valide realtà musicali che sono ormai molto più che 

dei fermenti underground. Nomi già illustri, che se trovassimo 

già stabilmente ai primi posti della classifica non avremmo di 

che  lamentarci.  Invece possono fare al  massimo il  botto per 

qualche settimana e dunque attestarsi dal 25°mo posto in giù. 

Per   non   andare   lontano,   abbiamo   Vinicio   Capossela,   i 

Quintorigo,   gli   stessi   Subsonica.   Il   finale   del   2006   ci   ha 

riservato un triste panorama. A guidare la trafila, la povera 

Elisa, il cui innegabile talento è  andato via via naufragando 

negli  anni   e  nelle  melense  strategie  di   commercializzazione 

della sua figura. All’inizio unico prodotto italiano veramente 

esportabile dopo Toto Cutugno nei paesi dell’Est, attualmente 

fenomeno   pop   dalla   voce   commovente   che   stride   con   la 

banalità dei suoni sui quali si staglia. Certo, il rock femminile 

Morrissette style di “Pipes & Flowers” degli esordi non brillava 

per originalità, ma era il primo tentativo di creare in Italia un 

suono lontano dai classici stereotipi dell’italica donna dietro il 

microfono. E con la crescita e i successivi album (fino a Then 

Comes The Sun) le reminiscenze colte fanno capolino qua e la. 

Del resto, Bjork è il prototipo esatto di ciò che non sentirete 

mai in un disco italiano. E’  la volta poi di “Luce”,   i  testi  in 

italiano, che bello, finalmente anche Elisa canta in Italiano. 

Basta con questo anglicismo, tendenza da invertire. Il singolo 

“Tomorrow”,   tratto   da   Lotus,   mostra   preoccupanti   segni   di 

involuzione stilistica. Ed ora tenetevi “Gli ostacoli del cuore”, 

in   duetto   con   Ligabue.   Ci   hanno   sterilizzato   anche   Elisa. 

Subito dopo la Pausini. Lei canta. Ho sempre pensato che fosse 

una cantante. Di pianobar, per  l’esattezza. E così  era, come 

mostravano i suoi video di “Meteore” agli esordi. Ecco, come 

fare di un bluff un fenomeno internazionale. C’è chi mi giura 

che  dal  vivo  è  una potenza,  e  non ho  ragioni  di  dubitarne. 

Credo   che   anni   e   anni   di   esperienza   sul   palco   le   abbiano 

fornito quelle capacità vocali e di presenza di cui difettava ai 

primordi   della   sua   carriera.   Ma   resta   una   cantante   di 

pianobar italiano, con chili di exciter alla voce e una mancanza 

assoluta di duttilità stilistica. Intendiamoci, non è che si debba 

avere   necessariamente   un   bagaglio   accademico   soul   o   in 

generale di black music per assurgere allo status di grande 

cantante. Ma sentire i suoi gorgheggi in coda alle frasi in puro 

stile italico ma dall’intento internazionale mi mette ogni volta  

i brividi. Ma ai miei vicini piace, non si accorgono di nulla. Ma 

che brava, la Pausini. Seguita da Renato Zero. Lo reputavo un 

grandissimo   artista.   Istrionico   e   dissacrante,   capace   di 

disturbare   con   stile.   L’ironia   dei   suoi   vecchissimi   brani   si 

sposava a musiche che definire scintillanti è dir poco. L’epoca 

del “Triangolo” e di “Mi Vendo” oggi è confinata nei cd dei Dj’s 

per   serate   disco­revival   e   addirittura   trash.   Ed   oggi   per 

l’appunto pezzi di quel tipo strapperebbero ai più un sorriso di 

compassione. Non sarebbero affatto compresi. Eppure avevano 

musicalità e perizia strumentale da vendere. Teniamoci invece 

le sue noiosissime ballate e canzoni che ci ricordano che lui è 

qui, che il sentimento trionferà e che siamo grandi. Del resto 

non è solo un problema suo. Tutti i vecchi cantautori italiani 

eccetto   Battiato   sono   effetti   da   una   strana   sindrome   di 

rincoglionimento   senile.   Pino   Daniele   aveva   una   band 

stratosferica, da quando si è  messo a viaggiare con la scusa 

delle influenze etniche ha snaturato totalmente la botta del 

suo sound, poi si è innamorato e non ci ha capito più niente. 

Fossati è fissato col mare, Baglioni fa raccolte di brani altrui, e 

vende i cd in edicola. De Gregori sforna dischi con pezzi che 

dopo   3   giorni   ha   bisogno   di   riascoltare   altrimenti   se   li 

dimentica pure lui, Zucchero ci prende bellamente in giro e se 

la   ride;   il   suo   singolo   “Bacco   Perbacco”   è   l’ennesima 

riproposizione   dello   stesso   schema   idiot­blues.   Ha   rubato 

sprazzi di grande black music, l’ha fatta sublimare in “Spirito 

Divino” (tutto sommato all’altezza dei numerosi mesi in cui è 

rimasto   in   classifica),   poi   una   discreta   parentesi   con 

Bluesugar, ed in seguito il nulla più assoluto. Ha pensato bene 

di ridicolizzare uno schema e ripeterlo fino alla nausea. E ogni 

tanto rubare brani di qua e di là. Del resto, squadra che vince 

non si cambia. E trovategli una donna, diamine, che deve avere 

il testosterone a mille e scrive sempre per doppi sensi da un 

paio   d’anni.   Poi   viene   Vasco,   che   tutto   sommato   credo   sia 

sincero in quello che fa. Da sempre la sua forma rock è stata 

italiana nel risultato, ma rozza negli intenti. Di Baglioni ne 

abbiamo   già   parlato,   aggiungo   inoltre   che   anche   nel   suo 

periodo di grazia lo trovavo buono al massimo per gli iscritti 

all’Azione Cattolica. Segue Mina, il  cui anonimato mediatico 

dovrebbe essere corrisposto da quello musicale. Chi ha bisogno 

di   Mina   oggi?   C’è   anche   Venditti,   il   mio   preferito.   Adoro 

principalmente  i  suoi  occhiali,  e  quelle   lenti  ambrate.  Della 

sua  musica  non  ho   mai   capito   il   perché.   Ci   canta   l’amore, 

l’altra mattina ascoltavo il testo del suo singolo in radio. Non 

l’ho mai conosciuto bene, e in fondo reputavo che magari otesse 

anche   essere   un   cantautore   al   di   fuori   della   classica   rima 

baciata. Mi chiamo laura e sono laureata, dopo mille concorsi 

faccio l'impiegata. Ma grande Venditti, che ci racconta storie 

minime con uno stile minimo. L’Italia che cresce, che cambia, 

questa si che è la vera realtà italiana, che bisogno c’è di andare 

oltre   Laura   che   fa   l’impiegata,   una   volta   laureata?

Musicalmente è quanto di più stantio si possa ascoltare oggi, i 

suoi  giri  armonici  e   turnaround  italianissimi  sono  pungenti 

per le casalinghe al massimo, e bisognerebbe ricordargli che 

gli anni ’80 sono finiti da un pezzo, nei suoni e nelle melodie. 

All’undicesima   c’è   Gigi   D’Alessio,   il   quale   meriterebbe   un 

articolo   a   parte.   E   poi   Nek,   i   Pooh,   l’inconcepibile   Tiziano 

Ferro ­ drammatica la sua figura al concerto di Natale, dove 

mostra   in   mondovisione   i   suoi   evidenti   limiti   vocali, 

probabilmente   un   buon   corista   ma   un   pessimo   solista   alle 

prese con la musica nera, però se il mio vicino dice che è bravo 

un   motivo   ci   sarà.   Siamo   nel   2007   ed   arriva   il   festival   di 

Sanremo. Torna Milva e Albano, tra le novità Roby Facchinetti 

col figlio Dj Francesco. Sono già in fibrillazione, anche se sono 

deluso per l’assenza dell’Orso Bear della Grande Casa Blu e i 

Teletubbies.

Alla musica ci pensa X­Factor

Una   volta   lessi   su   “Rockstar”   qualcuno   che   passava   in 

rassegna i  cantautori  italiani  di  vecchia data,   i  pezzi grossi 

insomma, accusandoli di sindrome da rincoglionimento senile.  

Tra questi, ora vi è ufficialmente anche Francesco Guccini, che 

ha dichiarato che “X­Factor” (format fantasmagorico di raidue 

dalle ambizioni di talent show che non sarà  sfuggito ai più) 

salverà   la musica in Italia.  Già,  perché  si  sentiva proprio il 

bisogno   di   questo   programma.   Il   sillogismo   aristotelico­

gucciniano suona un po’ così: i giovani musicisti italiani hanno 

sempre meno possibilità e visibilità, X­Factor offre entrambe le 

cose, ergo X­Factor salverà la musica. Il problema è sempre lo 

stesso:   nessuno   può   affermare   che   attraverso   gli   Amici   di 

Turno   (e  di  Maria,  di  Morgan e  di  Simona  Ventura)  possa 

passare   un   po’   di   qualità,   qualcuno   dotato   e   addirittura 

qualcuno dottissimo. È   la legge dei numeri. Il problema è   il 

messaggio  che   l’esistenza stessa  di  questi   formats   televisivi 

lancia nella testa degli aspiranti artisti che a milioni seguono 

dalla parte opposta del teleschermo. Nel mondo dell’immagine, 

si   sa,   niente   immagine   equivale   a   niente   esistenza.   In   un 

epoca in cui non si vendono più dischi (o se ne vendono sempre 

meno)   e   i   “cantanti”   guadagnano   sempre   di   più   da 

partecipazioni,   eventi   mediatici,   pubblicità   e   sponsors 

piuttosto   che   dai   prodotti   discografici,   apparire   è   l’unica 

strada per diventare non principalmente cantanti, ma “figure” 

musicali pronte al consumo. Chi vuole andare a Talent1, chi 

pensa che la scuola di Amici sia la scuola di musica italiana 

per eccellenza, chi vuole andare a X­Factor e via partecipando. 

Magari   saltando   la   gavetta,   perché   un   Marco   Carta   qui   a 

Cagliari, nei clubs e nei locali, nelle bands e nei festival, non 

l’ha mai visto nessuno, e con tutto il  talento che può  avere, 

poteva provenire soltanto dal suo mestiere di parrucchiere. E 

la   gavetta   è   anche   quella,   quella   per   50   euro   a   serata 

caricandosi chili e chili di strumenti nella Panda, cercando di 

acchiappare il pubblico di un locale e litigando con i gestori, 

mangiando spesso poco e male e rientrando a casa distrutti 

alle  6  del  mattino dopo un  lungo  viaggio.  Questo  non  ti   fa 

diventare   automaticamente   un   vero   artista,   ma   la   strada 

passa da lì. Anche da lì. Però intanto aprono scuole in tutta 

Italia  sulla   falsariga di  quella  di  Maria de Filippi  e   la sua 

ghenga, più che amici, “amichetti”: le mamme fanno a gara ad 

iscrivere le figlie convinte che diventeranno grandi “cantanti”. 

Le tv locali imitano i formats e via discorrendo. Cosa c’entri 

tutto questo con la Musica che finora ho conosciuto io, me lo 

devono ancora spiegare. Potrei fare anche io il “professore” di 

queste “scuole”. Con tutto il  rispetto per molti dei nomi che 

siedono   dietro   il   banco   di   Canale   5.   Jurman   è   un   signor 

cantante  e  un  signor  didatta,  e  non gli   faccio  una  colpa  di 

presenziare   a   quel   format,   in   quanto   è   uno   dei   pochi   che 

mantiene il suo rigore e la sua professionalità. Fa il suo lavoro, 

in televisione ma fa il suo lavoro. E poi ci sono tutte le cose 

tremende   dei   reality:   professori   che   –   istigati   da   copioni   o 

mercenari   consapevoli   –   litigano   tra   loro,   sputtanando 

pubblicamente   il   concetto   di   autorità   della   figura   docente, 

dissertando   su   questioni   elementari   e   promuovendo   un 

relativismo   della   conoscenza   tecnica/artistica   che   nuoce 

gravemente   alla   salute   dell’artista.   Giovani   divisi   per 

“squadre”   e   in   “sfida”,   in   perenne   competizione,   come   se 

cantare   ognuno   col   proprio   stile,   magari   con   equivalente 

capacità ma con diversità equivalesse ad una partita di calcio. 

Passa il messaggio di una musica in competizione, pienamente 

funzionale  al  mondo del  mercato,  dell’homo homini   lupus  e 

dell’artista   artista   lupus,   dove   il   vincente   è   solo   il   più 

funzionale al discografico, alla telecamera o peggio ancora, al 

pubblico da casa, costituito (mi vergogno pure a doverlo dire) 

da una miriade di squinziette in fumo da menarca, mamme 

catodiche e zie nazional­popolari. Ma si parlava di X­Factor, mi 

sono   infervorato,   perdonatemi.   Già,   X­Factor   salverà   la 

musica. La musica poi è nelle mani di Simona Ventura, quindi 

siamo in una botte di ferro. Come può la musica italiana (e le 

relative   nuove   leve)   passare   attraverso   il   vaglio   di   soli   tre 

“giudici”, di cui uno è   la neo­reginetta del varietà della Rai, 

che   negli   ultimi   anni   ha   assunto   un   atteggiamento   di 

onnipotenza   (dato   dai   continui   nuovi   incarichi   e   dalla 

corrispondente   impennata   iperbolica   di   autostima)   tale   da 

farle credere di poter dissertare in prima serata di argomenti 

di cui s’intende meno che un lombrico di fisica nucleare? E’ 

evidente che non capisca una cippa di musica, ma ha il 33% di 

facoltà  decisionale su quale sarà   la prossima Giusy Ferreri. 

Che, per inciso, qualche discografico ha pensato da subito di 

modellare   secondo   i   canoni   americanomorfi   di   una   Amy 

Winehouse al pomodoro e basilico.  Giusto per chiarire quali 

artisti “sinceri” possono venire fuori dalla panacea di raidue. 

Morgan poi, poveretto, è un gran musicista e per certi versi un 

pesce fuor d’acqua lì, ma ha perso molti punti. Del resto, avrei 

dovuto immaginarlo: è un dandy dei poveri, lo è sempre stato e 

anche per lui l’immagine è tutto. Della vecchia non parlo, che 

poi   mi   si   viene   a   srotolare   il   suo   curriculum   nel   campo 

discografico italiano e allora vengo tacciato di ignoranza, solo 

perché   giudico   a   prescindere   dalle   carte.   Dovrei   guardare 

meno televisione, già. Ma te la sbattono in faccia, come si fa? 

In ogni caso, non si preoccupino i detrattori di chi come me è 

sempre pronto a criticare ogni gingillo della modernità tra cui 

i  reality:  torno alla mia vita di musicista fallito,   invidioso e 

pettegolo: son tranquillo, tanto alla musica ci pensa X­Factor.

Le dimensioni (del pensiero) contano

Devo avere   il  pensiero   troppo  grande,  o  gli  altri   ce   l’hanno 

troppo piccolo. Si, forse più la seconda. Chiedo ai più accorti di 

tentare di recuperarmi, perché la mia deriva reazionaria – con 

tanto di stereotipato astio per la massa, alla Gustave Le Bon 

per intenderci – sta assumendo proporzioni preoccupanti. Son 

quelli come me che hanno portato al “nazifascismo”, che poi 

non   è   mai   esistito   ma   i   più   lo   credono   e   sono   abbastanza 

stanco   dalla   mia   giornata   di   lavoro   per   convincerli   del 

contrario.   Però   accadono   un   sacco   di   cose   buffe.   Ci   sono 

persone che si ritengono differenti, dagli altri e tra esse, che si 

osteggiano e si denigrano. Che criticano idee, concetti, o che al 

contrario promuovono visioni (visioni?) e affermazioni con fare 

messianico, convinti di detenere la verità. Saranno quelli che 

Nietzsche chiamava i  filosofi? Eppure a ben vedere son tutti 

accomunati da una grande variabile: hanno il pensiero piccolo. 

E benché  si  senta spesso il  contrario,  le dimensioni contano 

eccome. Non importa che tu ce l’abbia gigante, che rischia di 

non servirti a niente e puoi addirittura arrecare danno. Ma se 

ce   l’hai  microscopico  allora  sono  guai.  Voglio  essere   fecondo 

quest’oggi,   e   mi   sento   di   dare   un   consiglio   per   riconoscere 

quelli dal pensiero piccolo. I “riduzionisti”, li chiama sempre il 

caro Alain de Benoist. E' semplice: hanno paura di qualcosa, 

tentano di squalificare un concetto o più in generale leggono il 

mondo   secondo   un   solo   parametro.   Semplificano,   riducono, 

banalizzano:  escludono.  Tendono  a  non  vedere   le   cose  nella 

loro   complessità,   nella   loro   interezza.   Ci   sono   ad   esempio 

governi che fanno degli spots di pubblicità “progresso” (parola 

tipica del vocabolario cerebro­lillupuziano)  in cui  si  parla di 

integrazione,  e   il  mussulmano fa  la pizza cantando “O Sole 

Mio”,   un   algerino   prende   il   treno   fischiettando   “Funiculì 

Funiculà”  e magari un arabo balla la quadriglia napoletana 

alla festa del paese.  Ci sono governi  invece che promuovono 

altri   personaggi   che   sono   rumeni   ma   apprezzano   molto 

Antonello Venditti (che in me causa razzismo persino verso i 

miei   connazionali).   Forse   questi   governi   hanno   paura   che 

qualcuno mantenga la sua vera identità? Vogliono proprio che 

si arrivi a svendere se stessi al prezzo di un’integrazione che 

gioverà   solo   al   mercato,   malaticcio   pure   lui?   Io   che   ho   il 

pensiero più grande, e non temo l’identità di nessuno, voglio 

che qualcun altro mi dica chi è lui e che mi insegni qualcosa, 

senza che mi faccia la mia buffa imitazione. Ci sono poi un 

sacco   di   personaggi   che   affermano   che   l’identità   in   se   non 

esiste, che bisogna temerla e rifuggirne il concetto. Che dato 

che il mondo è  un eterno divenire, e che siamo tutti figli di 

scambi,   rivoluzioni   e   controrivoluzioni,   il   tentativo   di 

codificare   essenze   sia   errato   nonché   pericoloso,   foriero   di 

totalitarismo   in   ogni   frangente.   Discorso   parzialmente 

comprensibile, se non fosse che il pensiero piccolo ancora una 

volta   in   azione   riduca   l’identità   ad   un   oggetto   fisso, 

immutabile e perenne. Mentre essa cambia. E’la mia risposta 

al   mondo,   è   il   mio   parlare   e   non   essere   parlato   da   altri. 

E’l’unica cosa che mi potrà salvare dallo sparire, dall’affogare 

in mezzo al nulla ed anzi dal poter apprendere dagli altri. Se 

non   c’è   identità,   non   c’è   dialogo   alcuno.   Due   cose   diverse 

possono parlare tra loro, confrontarsi, apprendere. E mutare a 

loro   volta.   E’un   discorso   estremamente   logico.   Ma   qualche 

pensiero   piccolo,   che   ha   paura   di   qualcosa   e   legge   tutto 

secondo la sua paura, non vuole capirlo. Dell’identità  hanno 

paura i post­comunisti, i sinistri radicali, i progressisti di ogni 

genere e grado, i professori post­sessantottini, alcuni illustri 

scrittori   (che a questo  punto scriveranno per mano di  altri, 

anzi l’opera si scrive da sola) ecc ecc. Siamo strumenti dunque. 

All’opposto, molti “dall’altra parte” codificano le appartenenze: 

siamo   tutti   occidentali,   americani,   europei,   italiani   e   via 

discorrendo.   E   vai   elencando   ed   escludendo.   Ci   sono   quelli 

integri, tutti d’un pezzo, non tantissimi per fortuna, che sono 

soliti affermare che abbiamo radici cristiane. Quelli che siamo 

celti,padani,longobardi.   O   quelli   che   siamo   in   fondo   tutti 

pagani,   anzi,   Arii   e   indoeuropei.   Marcia   indietro   dunque, 

scavate   sotto   casa,   andate   a   cercare   cosa   siete,   cosa   vi 

compone. Cari Sardi, siete punici, cartaginesi, ma no che dico, 

nuragici!   Via,   riprendete   scudo   e   lancia.   Che   aspettate? 

Recuperate vestiti, usi, costumi, cibi per il puro gusto di farlo. 

L’importante è essere agiti dalla propria storia, dalla propria 

filologia. Codificare l’identità   in una serie di norme fisse, di 

comportamenti   da   rispettare,   di   atteggiamenti   da   adottare. 

L’identità   di   quelli   dal   pensiero   piccolo.

Cosa penso  io  di  tutto ciò?  Mi sovviene un piccolo­pensiero. 

Che non solo – come sostengo – destra e sinistra siano relegate 

al passato, ma che la nuova frontiera sarà tra coloro che sono 

ancora   qualcuno,   che   avranno   qualcosa   da   dire,   che   sono 

disposti ad un dialogo ed hanno la mente aperta, un grande 

pensiero,   e   che   un   giorno   porteranno   finalmente   a   nuove 

sintesi,   e   coloro  che  come  ladretti  di  galline   si  occupano  di 

piccole   cose,   spacciando   alle  masse   catodiche   e  non   le   loro 

micro­verità, che – dannazione! – sono così tanto efficaci. Sarà 

perché anche se il pensiero è piccolo, le dimensioni non sono 

importanti ma ciò  che conta è  come lo si usa. In questo noi 

cervelloni dobbiamo ancora migliorare.

Buone notizie

Ogni   notizia   proveniente   dai   canali   ufficiali   ormai   mi   fa 

incazzare, è più forte di me. E’un dramma quotidiano, non ce 

n’è   una   che   mi   lasci   tranquillo   ed   indenne.   Forse   dovrei 

passare al bosco anche io, spegnere giornali e tv e dedicarmi 

solo alla vita vera, che poi fa incazzare anche quella, oppure 

dedicarmi alla vita immaginata, quella perfetta, che non dà il 

pane   magari,   ma   ti   rende   una   persona   migliore.   Anche 

soltanto leggendo un libro, un buon libro, ad esempio. Però è in 

seno alla famiglia che l’uomo diventa consumatore, come disse 

quell’omosessuale di Pasolini (avanti, ho detto omosessuale, e 

per di più a sproposito: fatene una notizia). Ed io una famiglia 

tutta   mia   non   ce   l’ho   ancora,   non   fosse   altro   perché   un 

fringuello mi costerebbe troppo ora come ora, però  mi ci sto 

avvicinando e  magari  ad ore  pasti   con  la  mia  compagna  la 

televisione sono più  o meno costretto ad accenderla.  Eccomi 

qua, anche io, consumatore di tv. Oggi il numero due (così li 

chiamano, quelli, prima come numeri) di Al Qaeda ha definito 

Obama negro e filoisraeliano. E giù  notizione.  Se dici  che è 

abbronzato,  fanno una notizia,  se dici  che è  negro ne fanno 

un'altra.  E  mamma mia.  Per  essere   “di   colore”   (che  colore? 

Nero)   è   abbastanza   “di   colore”   (che   è   meno   razzista   ed 

etnocentrico, perché il bianco è neutro, quindi normale, giusto, 

non   alterato,   noi   siamo   i   bianchi   e   gli   altri   i   colorati). 

Filoisraeliano, è filoisraeliano. L’unica cosa che non ho capito è 

perché quelli di Al Qaeda sono i numeri uno, due, tre o sedici, 

manco   fosse   un’università   coi   numeri   di   matricola.   Odio   i 

giornalisti,  non sono voluto diventare giornalista.  Non ce  la 

potevo fare a dover dire anche io “il numero due di Al Qaeda”. 

Vorrei   che   mi   si   dicesse   dove   stia   Al   Qaeda,   se   esista 

veramente, da chi vengano realmente questi  “messaggi”,  ma 

nessuno me lo dice.  Un po’  come dove sia finito Bin Laden, 

l’arabo pazzo. Poi c’è quella di Brunetta che finalmente ci ha 

liberato dai fannulloni. Il paese ha capito. Siamo nella merda 

fino al collo ma almeno Brunetta ha risolto un problema. Ora i 

fannulloni   nel   settore   pubblico   non   ci   sono   più,   e   tutti   gli 

facciamo   un   plauso   al   Brunetta,   perché   è   il   primo   che   ha 

trovato il metodo sicuro per distinguere un fannullone da uno 

stacanovista.   Ma   alla   massa   piacciono   i   personaggi   sicuri, 

autoritari   in tempi  di  crisi,  quelli   che  i   treni  arrivavano  in 

orario.  Basta  dirlo   et  voilà.  Però   al  primo ufficio  postale   ti 

incazzi   lo   stesso   come   una   bestia.   Oppure   i   fannulloni   si 

saranno   trasferiti   al   privato,   come   ad   Abbanoa,   ente   che 

gestisce le acque di tutti noi sardi. Li sono un azienda privata 

che   gestisce   un   bene   di   sua   natura   pubblico,   sono   tutelati 

legalmente e ti possono far girar le palle allo stesso modo degli 

uffici pubblici. Che ti fanno pagare 126 euro di “sopralluogo” e 

“allaccio” per un tubo che c’era già: mettono una data fittizia 

sul modulo e dicono che sono venuti.  Gli  stacanovisti con lo 

stipendio fisso, e io porto i volantini e fatico ad arrivare a fine 

mese. Meno fannulloni nel pubblico, meno stato in generale e 

più   privato.   La   cura   liberal­brunettiana   funziona.   Non 

parliamo   della   faccenda   universitaria   e   della   scuola   in 

generale,   che ho  ancora  sotto  gli  occhi   il  mio  compagno col 

padre assessore che magicamente recuperò 3 anni in 1 in un 

istituto privato. Era preparatissimo, gli mancava solo un bel 

capitolo di calci in culo per essere uguale a noi della scuola 

pubblica. Ci sono le notizie, puntuali come la padrona di casa a 

fine mese, di quelli che si scandalizzano per le canzoni naziste 

su Youtube, per quella scritta sul muro, per quello striscione 

allo   stadio,   quella   dichiarazione   e   via   discorrendo.   Il 

moralismo   piace,   anche   se   i   responsabili   sono   alla   peggio 

quattro ragazzini mentecatti in cerca di identità, o alla meglio 

delle persone che hanno coraggio di esprimere ciò che pensano 

(per carità,  magari spesso assolutamente non condivisibile e 

condannabile) in un epoca in cui non va più di moda. Piace il 

moralismo,   piacciono   i   politici   che   dichiarano   che   è   una 

vergogna prontamente. Piace il politically correct. E anche lo 

scorretto,   se  non  è   politically,   come Mourihno  o  Zenga,   che 

però   piacciono  anche  a  me.  Ma  non  piacciono   alla   stampa, 

perché   sono   poco   politically   correct.   E   abbiamo   chiuso   il 

cerchio, si spiega tutto. Poi ci sono notizie di ministri che in 

nome della Smithiana lezione,  dichiarano che per  far fronte 

alla   crisi   bisogna   ridurre   la   pressione   fiscale   e   ridare   ai 

“cittadini” quello che lo stato gli ha tolto in modo da poterlo 

usare   per   i   consumi   natalizi.   Per   dare   linfa   all’economia 

bisogna   farla   girare,   è   risaputo.   Aspettarsi   un’alternativa 

all’economia così  come la conosciamo, è  chiedere troppo. Del 

resto, se è in crisi, non è mica perché qualcosa non va bene in 

sé.  Le notizie son tutte  in tono allarmato perché   i  consumi 

caleranno   nei   prossimi   3   anni.   Bene,   dico   io.   Tutti   nella 

merda,  voglio  vedere,  come  le ultime 2 o 3 generazioni  non 

sono mai state. Ed infine, c’è lo spot del governo sulle droghe, 

puro   terrorismo   mediatico.   Un   cortometraggio   volto   a 

banalizzare una questione complessa, discutibile dal punto di 

vista scientifico, moralista nei propositi, foriero di terrore nei 

colori, nel montaggio e nel messaggio.  Semplificare, ridurre, 

distrarre   e   spaventare.   Per   ottenere   consensi.   Sicuramente 

non dai giovani che continueranno a “drogarsi”,  ma dai loro 

genitori   sì,   che   voteranno   una   classe   politica   che   almeno 

manda a casa i fannulloni. Anche io da piccolo ero moralista e 

contro le droghe, fino a quando non ho cominciato a drogarmi 

anche io. Ed allora ho capito che prima o poi tutti ci droghiamo 

di qualcosa,  ed ognuno sceglie la sua. Il  borghese – che tra 

poco   sparirà,   tramutandosi   in   ricchissimo   borghese   o 

poverissimo pirla – si droga di certezze, governi decisi contro 

terroristi e fannulloni, televisori al plasma e carrelli pieni di 

bottiglie di acqua perché “è in offerta”. Il piccolo borghese si 

droga   di   quel   che   può,   notizie,   telegiornali,   salame,   caffè, 

sigarette. E via discendendo. Io mi drogo di birra. Qualcuno si 

fa una canna. E si “brucia il cervello”. Io bevo litri e litri di 

birra al mese con gli amici, e anche l’alcool brucia i neuroni. 

Sarà meglio drogarmi di notizie? Fanno bene fanno male, sto 

bene sto male, cantava Morgan con i Bluvertigo. Al di là del 

bene e del male, diceva Nietszche. Chi non è con me è contro di 

me, diceva invece il buon Gesù. La tipica mentalità totalitaria, 

quella di chi oggi ha in mano il mondo e ci droga di notizie­

certezze, morale e giudizio:  l’informazione suona sempre più 

come una sentenza a favore del più forte, economicamente e 

politicamente. Atta a spaventare il debole e creare consenso, 

privandolo  della  capacità  di   comprendere   il  mondo  reale.   Il 

debole è anche il piccolo borghese che ascolta al tg tutte queste 

cose: è convinto che il pericolo sia il rumeno, che il bello sia un 

nuovo  navigatore   satellitare   e   il  problema un vicino   con   la 

radio alta. Nonostante la crisi, a fine mese avrà comunque più 

soldi di me, il carrello pieno di qualcosa in offerta e lo sentirò 

dire  alla  moglie  al   supermercato   :   “prendiamo questo  per   i 

bambini”.   Poi   guardo   meglio   ed   ha   afferrato   un   pacco   di 

carcasse di pollo, che nemmeno i miei gatti mangiano, costo 

0,80 centesimi di euro. Potere della società di massa.

Sono preoccupato

Sono   preoccupato.   In   realtà   lo   sono   sempre   stato,   nulla   di 

nuovo sotto il sole. Ma si sa, gli idealisti come me sono dotati 

di un’irrazionale pulsione alla fiducia, anche quando tutti gli 

elementi giocano a sfavore e non c’è nulla, ma davvero nulla 

che possa far pensare ad un miglioramento di una situazione. 

Del   resto,   nello   scenario   attuale,   non   soltanto   italiano   ma 

mondiale,  a trovar un fattore seriamente positivo si  fa gran 

fatica, e la si fa da un po’. Diciamo dalla rivoluzione francese 

in   poi.   Ma   no,   esagero   dai.   Comunque   sia,   non   sono 

preoccupato   perché   ha   vinto   Berlusconi.   Anzi,   son   quasi 

contento,  dato che con  il  suo ebete sorriso,   incontrovertibile 

metafora del gaio ottimismo del mondo mercantile, ci condurrà 

più presto di altri verso il declino, e forse dalle ceneri di un 

sistema   che   fa   acqua   da   tutte   le   parti   si   potrà   setacciare 

qualcosa di valido. Però sai, magari vai a pensare che la massa 

una volta tanto ti smentisca e non faccia esattamente il gioco 

delle parti, di entrambe le parti, di quelle parti che sono così 

uguali tra loro e che non aspettano altro che gli si consegnino 

nuovamente le chiavi del potere. Il  Popolo della Libertà  e  il 

Partito   Democratico,   per   un   bipolarismo   all’anglosassone 

anche   in   Italia,   ancora   imperfetto   ma  già   perfetto   così   per 

quello   che   mi   riguarda.   Il   resto   son   solo   dettagli.   Magari 

qualcosa di diverso nei loro programmi ce l’avranno pure, ma è 

come parlare di mal di denti all’ospedale oncologico. C’è tanto 

che accomuna questa squallida classe politica, che accomunava 

la   vecchia   e   che   farà   stringere   in  un  amichevole   abbraccio 

anche quella futura. Tutti credono al Verbo del mercato, dello 

sviluppo,   dei   Diritti   Umani,   dell’ideologia   del   lavoro;   al 

sistema bancario e alla grande finanza, alla “finanza creativa” 

ed   alle   finanziarie,   alla   grande   distribuzione,   alla 

globalizzazione   ed   alla   democrazia   rappresentativa, 

all’Occidente   unito   e   tutto   uguale,   alla   pubblicità   e   alla 

circolazione   di   moneta,   al   bipolarismo   ed   agli   Stati   Uniti, 

all’Europa   di   Bruxelles,   alle   “riforme   istituzionali”,   al 

liberalismo in salse varie, alla fine delle ideologie, al modello 

tedesco,   anglosassone   e   al   modello   che   volete   fuorché   un 

modello alternativo, al post­tutto fuorché al post­modernismo. 

Non c’è nessuno che osi superare quelle categorie di pensiero 

così maledettamente moderne. Del resto, non si può e non si 

potrebbe, perché andare fuori anche da soltanto uno dei binari 

sopramenzionati   significherebbe   lo   scardinamento   di   un 

meccanismo   che   assicura   alla   stessa   classe   politica   il   suo 

mantenimento, sociologico ed economico. La politica attuale, si 

sa, si basa sul clientelismo, sul lobbismo, sulla connivenza con 

la   grande   finanza  e   la   classe   dei   banchieri.  E’  un   sistema 

chiuso   che   si   autoalimenta,   distribuisce   favori,   appalti, 

posizioni   in   cambio  di  voti   e   appoggi  del  più   svariato   tipo, 

spartisce il potere soltanto con l’apice ed il vertice economico 

di una piramide di milioni di illusi. E la gente non sa, e vota. E 

se vota un motivo ci  sarà.  E  io  che credevo stavolta  in una 

grande   astensione,   frutto   delle   delusioni   ripetute   e   di   un 

evidenza talmente eclatante (scandali, malgoverno, recessione, 

vicende   giudiziarie,   promesse   non   mantenute,   grillismo   e 

“antipolitica”,  ingiustizie e divario sociale) da non poter non 

proiettare il suo riflesso alle urne. Il mio alter­ego dei cartoni 

animati   disegnava   addirittura   uno   scenario   buffo   e 

paradossale,   dove   il   popolo   (che   da   oggi   ufficialmente   non 

esiste) – gran furbetto e malandrino – faceva un bel dispetto et 

voilà! Viene fuori un bel 48 per cento alla Sinistra Critica, o a 

Bertinotti, o – orrore degli orrori – a Forza Nuova. Che poi, 

non   ho   dubbi   che   questo   sistema   fagociti   tutto,   perché   il 

problema non è in uomini nuovi o moralmente integri, immuni 

da compromessi e dall’odore dei soldi, ma nel sistema stesso e 

nel  denaro   stesso   che  ne   è   linfa.  Se  non   scorre   la   linfa,   il 

sistema muore e il suo cervello (i governanti) non si alimenta. 

Si sa che il cervello non può  star senza sangue per più di 5 

minuti.  Però   chi   lo  sa,  magari  qualcosa di  curioso  verrebbe 

fuori. No, l’Unione Europa che bacchetta a destra e a manca 

per la democrazia in pericolo non è una cosa curiosa. Però lo 

diceva già Gaber, che se vincono troppo quelli di là, viene fuori 

una dittatura di Là, se vincono troppo quelli di qua, vien fuori 

una dittatura di Qua. La dittatura di Centro invece? Quella 

agli   Italiani   va   bene.   Ma,   un   attimo,   il   centro   è   l’UDC,   è 

Casini, direbbe il “popolo”. Ma quale Casini, poveretto,  lui è 

solo il centro di un centro più grande. Siamo tutti in buca, cari 

amici. Il centro è un idea, è un concetto statico di quella che 

oggi   è   la   vera   anti­politica,   l’essenza   dell’esclusione   del 

cittadino da una qualsivoglia partecipazione con l’inganno di 

un voto ogni 5 anni, che rimane un suo “diritto”, l’unico e il più 

inutile. E’ il mezzo con cui gli si da a bere la faccenda della 

democrazia. Il centro è l’unico grande calderone che racchiude 

tutta  la politica attuale,  è   il  credere in talmente tante cose 

tutti quanti, e si tratta di cose così fondamentali, che non c’è 

fuga da un unico polo, da un unico pensiero che attira tutto 

come un buco nero. La cosa triste è il continuare ad avere una 

stolta fiducia in una massa che va a votare e se parli pure con 

quelli che ritieni intelligenti ti ripetono che “il voto è un tuo 

diritto”,   che   è   “troppo   importante”.   Magari   questi   stessi 

intelligentoni votano Veltroni perché se no vince Berlusconi, e 

Berlusconi   è   un   mafioso,   fa   le   leggi   per   sé,   controlla 

l’informazione   e   via   discorrendo.   Già,   perché   è   quello   il 

problema! O meglio, è anche quello ma non è solo quello. Ma 

chiedere alla massa di non votare Berlusconi perché oltre ad 

un soggetto ambiguo dal punto di vista giudiziario è l’emblema 

italiano   di   un   liberismo   e   di   uno   sviluppismo   che   sta 

mandando alla rovina il  pianeta terra è  davvero pretendere 

troppo.   Nessuno   sa   ed   ha   mai   saputo   cosa   vogliano   dire 

entrambe queste cose, e non posso farne una gran colpa alla 

signora  del  piano  di   sopra,  a  mio  padre   che   lavora   tutto   il 

giorno o al mio vicino che vota per simpatia come si fa il tifo 

per una squadra di calcio. Anzi no, a quest’ultimo sì. O forse 

dovrei   farne una colpa anche ai  primi  due?  Documentatevi, 

leggete, informatevi, mi verrebbe da dire. Già, ma lavorando 

tutto il  giorno come si fa? Una sola cosa è   imperdonabile,  e 

assolutamente ingiustificabile però:   lo smettere di pensare e 

farsi   pensare   dalla   testa   degli   altri.   Pensare   ci   è   ancora 

concesso,  almeno.  Non   è  meglio   chi   vota  Veltroni  perché   ci 

crede, uno così è proprio scemo, e mi perdoni chi legge. Non 

parliamo di chi vota Berlusconi perché meno male che Silvio 

c’è, salvaci tu e così via. Il fatto è che la massa – è un dato di 

fatto – è immersa nelle difficoltà e nei problemi. Viviamo già 

di per se in una società depressiva, come dice De Benoist, in 

uno   schiacciante   meccanismo   dove   gli   idioti   vivono   per 

lavorare,  e   i  poveracci   lavorano  ancora  per  vivere,  ma sono 

costretti a lavorare troppo e male. Nel contempo, sempre più 

non lavorano perché non ce n’è o lavorano a rate, a termine o si 

piegano   alla   flessibilità   del   mercato.   Perché   anche   quel 

simpaticone   di   Cecchi   Paone   l’ha   detto,   che   ci   vuol   più 

flessibilità,  più  mercato,  più   sviluppo.  E  magari  anche  mia 

mamma,   che   mi   sente   imprecare   contro   il   precariato   e   si 

preoccupa perché non ho e non c’è lavoro, e non c’è sicurezza di 

un futuro, vota il Popolo della Libertà. Valle a spiegare perché 

le cose non possono cambiare con un nuovo governo, ed ancor 

meno con quel governo là. A lei e ad altri milioni di italiani. 

Che gli italiani sono gente concreta, si accontentano di poco, 

una promessa di tagliare le tasse, di alzare gli stipendi, di un 

generico sostegno alla famiglia e tante altre mirabilie. O come 

dice   la   stampa tedesca,  han votato  Berlusconi  perché  unico 

credibile   interprete   di   un   populismo   in   uno   scenario   di 

generale pessimismo.

Se intervisti un italiano e gli chiedi come fare per risollevarci, 

ti risponde con l’ingenuità di un pirla: “alzare gli stipendi”. Ma 

bravo,   il  genio dell’economia,   il  messia che aspettavamo. La 

soluzione è lì, a portata di mano. Si capisce a che livelli siamo, 

se uno risponde così e poi gli diamo anche il diritto di voto. Ci 

occupiamo   dei   ladretti   di   galline,   rimproveriamo   il   vicino 

perché ha parcheggiato male o il coinquilino che alza lo stereo, 

ci   zittiamo   al   primo   biscottino   e   ad   un   piccolo   sollievo   in 

denaro,  deridiamo  e   condanniamo   i  nostri   potenziali   e  veri 

salvatori,   i  presunti  terroristi  e  i  delinquenti.  Accettiamo la 

spazzatura in casa, guardiamo il Grande Fratello, compriamo i 

canali   a   pagamento   di   Premium   Gallery,   mangiamo   da 

McDonald   e   nel   frattempo   si   decide   delle   nostre   vite.   Ci 

divertiamo,   distratti   appositamente   da   gioconi   e   gingilli 

mentre   là   fuori   tuona.   Ma   abbiamo   il   diritto   di   voto.   Non 

potremmo mai capire che se abbiamo problemi è  colpa delle 

banche, al massimo siamo capaci di fracassare la macchinetta 

del  caffè  se  si  mangia un euro.  L’unica combattività,  quella 

stupida, animalesca, che non richiede informazione. Ladretti 

di  galline,  i  nostri  nemici.  E votiamo, senza sapere nulla di 

nulla, né dove sta il vero potere, né cosa bisognerebbe fare per 

cambiare, ovvero tutto tranne votare. Autoproduzione di beni e 

autoconsumo, accorciare la filiera produttiva e privilegiare il 

locale,   uscire   dal   mercato   e   aiutare   l’economia   informale, 

quella   tra   i   vicini.   Boicottare   le   banche,   la   grande 

distribuzione e le istituzioni sorde. E tante altre cose. Ma cosa 

sto   dicendo!   Sono   pazzo.   Vabbè,   da   sardo,   mi   tengo   la 

spazzatura in casa che mi hanno portato dalla Campania. Se 

mi   incazzo   e   fracasso   il   cranio   ai   responsabili   sono   un 

delinquente. Un po’ come se scagazzassero nel tuo giardino e 

tu non fossi autorizzato a legnarli sulla nuca. Un po’ come i 

palestinesi, che subiscono dalla notte dei tempi le più orribili 

angherie, poi si fanno esplodere e sono terroristi. E votiamo. 

Ora in parlamento sono tutti amici di Israele.  Basta con gli 

antisemiti, era ora! Viva la democrazia.

L’altro giorno ero in un grosso centro commerciale, forse il più 

grosso   del   campidano.   Hanno   creato   un   “centro   di 

intrattenimento per  famiglie”,  dove  il  popolino,   la massa,   la 

plebe va a passare la domenica e accorre in gran flusso dai 

paesi limitrofi. Come la tv, senza l’accorrere però. Tutti in fila, 

una fila spaventosa, spasmodica, dietro a quelle macchinette 

con le pinze che non stringono e che dovrebbero acchiappare i 

pupazzi.   Una   volta   su   venti   tentativi   qualcuno   prende   un 

pupazzo. Esce soddisfatto, avanti un altro (euro). Tutti in fila, 

ma tanti. Come al seggio elettorale. Tutti hanno diritto al voto, 

che “è molto importante”. Tutti “consumano” il voto­euro. Tutti 

“partecipano”   alla   politica­mercato,   e   son   contenti   così. 

Qualcuno è contento, è tranquillizzato dal suo giocone, dal suo 

Bart  Simpson di  peluche.  Qualcuno si  allontana arrabbiato, 

dice che è una truffa e che la pinza non si chiude, ma il suo 

euro ce lo mette lo stesso. Tutti però sono contenti, erano al 

centro di  intrattenimento per famiglie.  I  più  contenti sono i 

politici­banchieri, che incassano voti e denaro. Si torna a casa, 

l’Italia è sempre uguale, il mondo pure. Ora potrei dire cosa ci 

rimane da fare, ma ci voglio ancora pensar bene. Ho quattro o 

cinque teorie, tutte possibili, ma per qualcuna potrei finire al 

gabbio. Aspetto ancora un po’. Voto IRS alle prossime regionali 

e mi godo la mia Sardegna per ora.

Eivind Aarset – Light Extracts

Ho conosciuto Eivind Aarset all'European Jazz Expo tenutosi 

alla  fiera campionaria di Cagliari nel novembre 2004.  Nella 

rassegna   internazionale,   il   nome   di   questo   sconosciuto 

chitarrista norvegese spiccava come novità, assieme agli altri 

musicisti della scena scandinava. Questo non è jazz, ovvero la 

frase   sulla   bocca   di   un   buon   numero   di   coloro   che   hanno 

assistito alla performance del suo trio. Niente di nuovo sotto il 

sole.  Benché   la definizione di   jazz come genere elitario non 

corrisponda alla realtà già da diverso tempo (la strada della 

contaminazione ne è invece essenza e spirito vitale, da Miles 

Davis  al  nostrano  Paolo  Fresu),   impeti  puristi  permangono, 

soprattutto nei casi in cui una presunta semplificazione della 

proposta   musicale   coincida   con   pure   esigenze   di   mercato. 

Avvenne per la cultura londinese da club degli anni '90 ed il 

fermento Acid­Jazz (di cui Aarset è in parte erede) come per le 

patinate produzioni di fusion commerciale dell'etichetta GRP. 

Qui parliamo di Nu Jazz, etichetta assolutamente leggera ed 

incapace di descrivere quella che è in realtà una proposta di 

musica  post­moderna  nel  pieno   senso  del   termine.  Del   jazz 

sono   rimasti   alcuni   timbri   tradizionali,   come   quelli   del 

contrabbasso e della tromba, del clarinetto e della batteria con 

le spazzole,  associati  a patterns tipici  dei singoli  strumenti. 

Dalla   modernità   deriva   la   logica   seriale   del   loop,   del 

campionamento e dello sviluppo sequenziale della musica. La 

direzione lineare degli arrangiamenti, che si snodano attorno 

ad un tema mai troppo marcato, è in continua evoluzione con 

lo scorrere del tempo musicale: qualsiasi approdo è consentito, 

in   cui   la   guida   non   è   una   struttura   circolare   o 

polidimensionale,  bensì   il  puro beat  scandito dal  ritmo (ora 

elettrico ed ora acustico) e l'esigenza intima dell'artista, in una 

sorta   di   espressionismo   timbrico.   In   questa   operazione   di 

ibridismo elettronico ed acustico, Aarset coglie appieno il senso 

di  una  possibile  nuova sintesi  post­moderna:  ho  provato  ad 

ascoltare questo album in mezzo al  maestrale della spiagga 

cagliaritana del Poetto, quasi completamente dimenticando la 

sua   forma   “digitale”.   La   simbiosi   tra   musica,   psiche   ed 

ambiente mi è parsa subito naturale, con un senso di sorpresa. 

E mi è difficile immaginare ad una mia volontà preconcetta di 

renderla   tale.   Credo   piuttosto   che   la   natura   di   questo 

capolavoro norvegese si  riponga dell'Uomo piuttosto  che nel 

mezzo digitale. Ma allo stesso tempo, le atmosfere (perché di 

“note”   non   è   sempre   agevole   parlare)   di   Light   Extracts 

potrebbero fungere da colonna sonora per un aeroporto,  per 

una metropolitana o un viaggio nel traffico, per uno scenario 

subacqueo al rallentatore. Un lavoro, in altri termini, in grado 

di  oltrepassare  il  materialismo numerico digitale,  che in un 

incastro perfetto con la modernità riattualizza suoni acustici 

altamente   comunicativi   (fa   un   certo   effetto   udire   il 

contrabbasso ed una batteria compressa in Dust Kittens, così 

come mette i brividi l'ingresso della tromba in Wolf Extract o il 

fraseggio   del   clarinetto   di   Between   Signal   &   Noise,   in   un 

contesto   cervellotico   di   rumore   digitale   e   drumming 

incalzante) e risveglia emozioni totalmente appartenenti alla 

sfera   interiore.   La   tecnologia   è   dunque   per   una   volta 

strumento per un viaggio introspettivo e retrospettivo, secondo 

l'effetto   del   paradosso   descritto   dal   sociologo   Marshall 

McLuhan, che riguarda ogni medium di carattere tecnico: vi 

possiamo includere anche la musica ed i mezzi per produrla; se 

la tecnologia –in tal caso quella digitale di campionatori, filtri 

e   computers­  è  un'estensione   (quasi   in   senso   fisico   )  di  noi 

stessi   e   come   tale   espropriante   di   una   nostra   forma   di 

“partecipazione”   effettiva   (in   altre   parole,   il   principio   di 

alienazione), nell'epoca post­moderna il nostro compito è porci 

nei   confronti   di   essa   in   senso   dialogico,   consapevoli   dei 

rapporti   di  dominio  e   schiavitù   che   intercorrono   tra  essa  e 

l'Uomo: da una parte gli si “offre” nuovo materiale (il timbro 

acustico),   dall'altra   le   si   lascia   sfogo   (in   musica,   fino   alle 

conseguenze   estreme;   ascoltare   la   psicotica   ed   inquietante 

guerra sonora di “Self Defence”). Nel contempo, si sondano con 

profonda   attenzione   gli   effetti   che   essa   ha   sulla   nostra 

emotività; inaspettatamente, dall'ascolto riaffiora tutto ciò di 

cui essa apparentemente ci ha espropriato. Lo ricaviamo e lo 

scopriamo   quasi   tramite   un'operazione   di   sottrazione,   un 

dialogo   accorto.   E   scopriremo   che   un   computer   ed   un 

contrabbasso   insieme   possono   trasportarci   attraverso   uno 

scenario etereo, fatto di luci tenui come i neon della copertina, 

ma anche attraverso i colori del mare di Sardegna. O dei fiordi 

norvegesi, se preferite.

Metallica – Death Magnetic

E   come   poteva   mancare   un  mio   commento  su   “Death 

Magnetic”,   nuova   fatica   (fatica?)   discografica   dei   Metallica? 

Perché dei quattro cavalieri, si sa, ne parlano sempre tutti e in 

questo   periodo,   modaioli   come   siamo,   non   potevamo   certo 

esimerci. Un po’come accaduto per la crisi finanziaria, per “La 

Talpa”   su   Italia   1   (Italia   1?)   e   per   lo   spegnimento 

dell’analogico.   Come?   Già   è   vero,   di   questi   ultimi   due   non 

abbiamo   parlato,   ma   abbiamo   tutto   il   tempo   di   rimediare. 

Cominciamo dai Metallica dunque.

Dopo   il   consueto   sciame   di   interviste,   copertine   e   books 

fotografici dal rinnovato giuoco del più cattivo non si può ma 

sempre elegante,  lucido e fighetto, ecco il  disco.  Ma no, così 

non   mi   piace,   sto   ostentando   cattiveria   inconsapevole. 

L’origine è   tutto,  diceva De Benoist.  Con questo che si  vuol 

dire?  Che ad essa compiremo un Eterno  Ritorno  in caso di 

allontanamento?   Che   essa   è   un   codice   prestabilito,   un 

simulacro definito,  un quadro ideale in apice del letto a cui 

tendere? Faremo torto al fior fiore degli antropologi più accorti 

della scienza novecentesca ­ ed un gran dono agli occidentalisti 

e  progressisti  di  ogni  ordine  e  grado –  se  confondessimo  la 

tradizione come il fardello che ci lega, come la gabbia che ci 

imprigiona, come il vincolo che ci riduce all’imitazione di noi 

stessi come in una fiction. La tradizione fa rima con l’identità, 

ovvero   la   nostra   personalissima   risposta   al   mondo   che   ci 

circonda in un dato momento; l’identità è ciò che “noi” abbiamo 

da dire, è il nostro dialogo. E’ il nostro cervello. E lo affermai 

già in passato: il problema non è il Divenire, che è l’unica legge 

che possiamo trarre dall’osservazione reale del corso dei tempi. 

E in musica, non è cambiare. Il problema è la sincerità e la 

qualità   di   ciò   che   si   dice.  Puoi  dire   tutto,  basta   che  venga 

sempre da te e sia una tua rielaborazione del cosmo. Qualsiasi 

cosa avrebbero   fatto,   fanno  e   faranno  in   futuro   i  Metallica, 

sarà sempre estremamente difficile chiedersi se essa rispetti 

appieno tale imperativo non scritto. I Metallica un’identità ce 

l’avevano, qualcuno la codifica con i suoni degli anni ’80, con 

quel Thrash che si autodefinì proprio con loro, ma altro non è 

che   solo   la   forma esteriore,   la  Tradizione   codificata   in  dati 

materiali  che piace ai  più.   Il  sottile   filo   rosso  che dovrebbe 

collegare   la   musica   di   una   band,   pur   nelle   sue   più 

imprevedibili   evoluzioni,   dovrebbe   andare   oltre,   essere 

qualcosa   di   più.   Essere   quello   per   cui   tu   possa   affermare, 

cazzo,   son   sempre   loro.   No,   non   come   gli   AC/DC.   Anche   lì 

parliamo di   forma pura,  ma  lì   il   confine   con   la   sostanza   è 

talmente sottile che è  un altro paio di maniche. I Metallica, 

con questo “Death Magnetic”,  giocano a fare  i  Thrashers,  ci 

sono tornati davvero? Ci credono, non ci  credono più? E’  un 

rigurgito spontaneo, un vagito ancestrale? O un operazione – 

l’ennesima   a   tavolino   –   di   una   band   che   ha   provato   varie 

strade e alla fine per ragioni in buona percentuale di mercato 

è tornata sulle sue orme? La rete pullula di recensioni ruotanti 

intorno  al   fatidico  quesito.  Del   resto,   i  Metallica  di  Load  e 

Reload non erano sinceri, per la maggior parte della critica, 

per   non   parlare   dei   fans   di   vecchia   data.   Perché   pareva 

evidente   l’evoluzione   graduale   verso   un   suono   rock 

mainstream. E poco importa se questo poteva (perché poteva) 

anche essere un naturale cammino, un qualcosa di sentito in 

nome della sincerità. Come fare a rispondere? C’è poco da dire, 

non si può sentenziare. E non lo si può nemmeno nei confronti 

di  questo   “Death  Magnetic”.  A  giudicare  dalla   formula  ben 

intelleggibile (schema dei brani ricalcato sui vecchi successi, 

arpeggi cupi, riffs più o meno azzeccati, cambi e idee in pieno 

stile   techno­thrash,   abbozzi   di   ballads   malinconiche,   The 

Unforgiven  III  e   chi  più  ne  ha  più  ne  metta)  parrebbe  che 

ancora una volta (ancora una volta? Anche per Load e Reload? 

E   St.Anger?)   il   neo­vagito   dei   rinati   Metallica   sinceri   sia 

rimasto solo nella testa dei discepoli. Ma dato che non si può 

sentenziare, è sempre meglio giudicare la musica. La musica 

soltanto. Per i Metallica e per tutte le bands e i musicisti. Ora 

e sempre. O almeno, questo è  il  criterio che adotto io. Se la 

musica è buona o cattiva, eccezionale o mediocre, innovativa o 

imitativa eccetera. Dobbiamo sempre slegare il disco dal suo 

contesto   storico   (bestemmia   sociologica,   caro   opificista)   per 

poter parlare di musica. E qui la musica dei Metallica scorre 

abbastanza   accattivante,   ben   composta   e   ottimamente 

suonata. La produzione è azzeccata nonostante qualche parere 

contrario, le chitarre sembrano chitarre e il resto non conta poi 

più   di   tanto.   E   penso   che   possa   bastare.   Non   c’era   da 

aspettarsi di più e ciò che è arrivato deve far piacere a tutti. 

C’è di peggio al mondo, che un disco dei Metallica come questo. 

Le banche, ad esempio. Se fossi un fan dei Metallica, io questo 

disco lo comprerei (non scaricatelo perché senno s’incazzano). 

Ma per fortuna non lo sono.

Frank Zappa visto da Barry Miles

Frank Zappa era davvero un uomo absolutely free, come Barry 

Miles del New York Times lascia intendere dal titolo della sua 

biografia? A leggere le righe di questo libro, viene fuori un Ni. 

Che era un genio l’ho dapprima sospettato, quando il suo nome 

evocava   in  me   soltanto   l’immagine  di  un  uomo baffuto   che 

suonava  la  chitarra,  e   come  lo   facesse per  me era  tutto  da 

scoprire.  E poi   l’ho  scoperto.  E dire che mi  stava anche un 

po’antipatico,  perché  mi  dissero   che  aveva parlato  male  dei 

Beatles.  Ma poi  venni  a  sapere  che  non era  vero,   e   che   in 

realtà ce l’avesse solo un po’con McCartney per una questione 

di copertine. E poi scoprii che anche i Beatles erano stati un 

fenomeno borghese, allora li retrocessi dal grado di semi­dei a 

quello di normali esseri umani. Ma questo non è importante. 

Tutto questo per dire che i tempi per il mio incontro con Frank 

Zappa erano maturi. Che fosse un uomo libero, sapevo anche 

quello.  Uno dei   freaks senza essere mai troppo  freak,  e  del 

resto  chi  è  davvero  libero  è   inclassificabile.  A modo suo  un 

ribelle e non un rivoluzionario, specie se il rivoluzionario era 

disegnato   attraverso   i   tratti   della   tipica   figura   americana 

intorno alle vicende del Vietnam: Zappa, infatti, aveva capito 

con trent’anni di anticipo che più che gli strilli di piazza forse 

bisognava   arrivare   ai   media,   e   sosteneva   che   chi   veniva 

schiacciato era il primo responsabile. Egli odiava la censura di 

qualsiasi   tipo,   così   come   i   formalismi   esteriori   del   mondo 

contemporaneo; cantava, o parlava il suo sdegno, che più che 

sdegno   è   disincanto   del   ribelle,   attraverso   un   humour   che 

sembrava essere frutto del suo modo di essere reale, più che di 

una scelta consapevole. Del resto, Frank Zappa rideva anche 

quando faceva sesso. E la domanda “Does Humor Belong in 

Music?”   a  questo  punto   suona   più   che   retorica.  Eppure   c’è 

anche il Frank Zappa maniaco del controllo, del mondo che lo 

circonda, dei suoi musicisti, delle loro vite, del suo fisico, il suo 

essere critico e immune da eccessi di qualunque tipo. Niente 

droghe, già. A modo suo, puritano ed inflessibile, nell’impedire 

ai   compagni   di   band   qualsiasi   comportamento   a   lui 

personalmente sgradito, come un drink fuori posto. E poi la 

disciplina   estrema   nel   comporre,   quella   che   Lou   Reed   ha 

dichiarato di ammirargli all’interno del rock, la precisione dei 

dettagli   e   la   cura   della   forma,   di   una   musica   comunque 

inclassificabile,   dalle   sembianze   rock   ma   dalle   armonie 

variabilissime,   ora   avanguardistiche   ora   contemporanee,   la 

complessità dei ritmi e l’esigenza della padronanza totale del 

contesto sonoro: Frank Zappa “suonava” i suoi musicisti, e fu 

entusiasta della possibilità di “sbarazzarsi” di loro con l’arrivo 

del  Synclavier.  E poi  c’è   la  sua concezione  patriarcale  della 

famiglia   di   derivazione   siciliana,   ed   il   suo   spiccato   senso 

dell’autorità.  Questo   libro,  grandiosamente   scritto   e  di  una 

fluidità inusuale per una biografia, in realtà ci mostra che un 

genio indiscusso, folle e irripetibile soprattutto considerato il 

suo tempo, è  tale quando è  contraddittorio,  e che l’univocità 

deve sempre far sospettare sulla genuinità di un’artista. Frank 

Zappa era libero da tutto, fuorché da se stesso, nel suo essere 

restio  al  mostrare   esplicitamente   i   suoi   sentimenti,  persino 

alla sua famiglia e finanche in punto di morte. Per il  resto, 

vorrei spiegarvi meglio in poche righe cosa è stato Zappa, ma 

ancora non l’ho capito bene nemmeno io, e non vorrei togliere 

altro   tempo   all’ascolto   di   “Overnite   Sensation”,   che   ho 

riesumato in questi giorni. Vorrei imparare i cambi armonici 

di   “Fifty­fifty”,   sono  piuttosto   interessanti  per  un musicista 

rock con i baffi.

La tirannia della comunicazione

Qualche   anno   fa,   per   i   tipi   della   casa   editrice   Asterios   di 

Trieste,  veniva pubblicato questo   interessante saggio che  in 

ossequio   al   titolo   si   propone   di   evidenziare   i   mutamenti 

intercorsi   nelle   dinamiche   della   comunicazione   e 

dell’informazione nel contesto dei processi di globalizzazione 

ma non solo. Chi si prefigge l’intento di descrivere i percorsi 

economici,   finanziari   e   politici   sottostanti   alla   rivoluzione 

mediatica, irti di ostacoli e punti oscuri, è  Ignacio Ramonet, 

direttore  di  Le Monde Diplomatique nonché   figura nota nel 

panorama   intellettuale   comunemente   ascritto   agli   ambienti 

della   sinistra   antagonista.   In   effetti,   l’analisi   è   precisa, 

interessante   e   condotta   con   rigore   scientifico   ma   risente 

talvolta di un certo manicheismo “alternativo” che non di rado 

è   possibile   riscontrare   in   testi   dai   tali   propositi.   Ramonet 

infatti   lascia   evincere   da   alcune   affermazioni   l’adesione   a 

schemi interpretativi che esulano dall’originario contesto ben 

rappresentato da quel “popolo di Seattle” che comprendeva al 

suo   interno   umori   tra   i   più   disparati   e   di   differente 

provenienza politica o metapolitica, ma che piuttosto sono da 

leggersi   dal   versante   volutamente   politicizzato   che   ha 

imbrigliato l’intero movimento no­global europeo. Nonostante 

l’ambiguità di alcuni concetti espressi dall’autore, è innegabile 

l’abbondanza di spunti utili al fine di comprendere la portata 

del   ruolo   assunto   dai   mezzi   di   comunicazione   nella   storia 

recente.   Si   parte   dalla   constatazione   della   portata   della 

rivoluzione digitale, che ha accorciato spazio e tempo tramite 

lo   sviluppo   tecnologico,l’assemblaggio   dei   singoli   mezzi   e 

fenomeni finanziari di respiro globale quali  concentrazioni e 

fusioni;   i   “nuovi   imperi”,   come   li   definisce   Ramonet, 

mirerebbero   ad   un   controllo   globale   dell’intera   rete 

d’informazione   agendo   secondo   gli   spietati   dettami   della 

concorrenza economica. Tra gli alfieri di questo meccanismo è 

indicato dall’autore il macro­blocco delle industrie americane 

in coazione col governo tramite il sostegno attivo dell’Omc, che 

preme   a   livello   planetario   per   la   sottoposizione   del   flusso 

comunicativo alle leggi del mercato. Qui si colloca il rischio, 

purtroppo   reale,   della   tirannia   prospettata   dal   titolo.   La 

diffusione   totale   e   continuativa   di   messaggi   nell’etere 

mondiale   appartiene   ad   una   tipologia   di   potere   finora 

sconosciuto e coerente con la rivoluzione del ruolo dei media 

rispetto alla politica stessa. Si tratta di una potenzialità ben 

più  ampia di  quelle  sperimentate con i  regimi totalitari  del 

novecento.   Il   rischio   di   un   condizionamento   mondiale   del 

pensiero   mediante   la   creazione   di   una   “world   culture”   ci 

traspone   in   uno   scenario   di   orwelliana   memoria   ;   primo 

esempio addotto della possibilità di una “comunione emotiva” 

planetaria   tramite   l’azione   dei   mass­media   è   l’eco   avuto 

dall’evento della morte di Lady Diana, ed in seconda misura 

dal   caso   Clinton­Lewinsky.   In   parallelo   con 

l’industrializzazione   del   sistema­informazione   e   la 

mercificazione   dell’informazione   stessa,   si   assiste   ad   un 

proliferare   delle   categorie   dei   paparazzi,   della   televisione­

verità   ed  al   ritorno  della   cronaca  popolare   talvolta  sotto   le 

spoglie   del   giornalismo   di   divulgazione,   atto   all’indagine 

privata del personaggio pubblico. In un continuo inseguimento 

reciproco  dei  media  alla   ricerca  dello   scoop   e  dell’emozione 

spinta all’eccesso, spesso tramite il ricorso ad immagini forti 

della   più   svariata   tipologia,   il   fenomeno   del   mimetismo 

mediatico mostra in tutta evidenza un nuovo scopo comune del 

sistema, entrato a pieno titolo nella logica del profitto. Ed è a 

tal   proposito   interessante   soffermarsi   su   uno   dei   cardini 

dell’analisi   del   saggio;   nell’attuale   scenario   mondiale, 

incontestabilmente dominato dall’economia., il famoso “quarto 

potere”   meriterebbe   forse   una   sua   riconsiderazione   ed   una 

eventuale ricollocazione al secondo posto,secondo l’intelligente 

intuizione dell’autore. Non si è forse passati da una tipologia 

di potere verticale, in cui gerarchicamente la politica sovrasta i 

media  e  mira  al   loro   controllo,  ad  un  modello  di   influenza 

prettamente orizzontale,   in cui   il   ruolo  mediale   è   spesso  in 

grado di condizionare la politica in virtù della sua entrata a 

pieno   titolo   nelle   leggi   dell’economia?   Tale   prospettiva   è 

condivisa da numerosi altri pensatori del calibro di Alain De 

Benoist,   Jean   Baudrillard   e   Pierre   Bordieu   .   Il   piccolo 

schermo,   medium   dominante   di   quella   “videosfera” 

riconosciuta come attualmente prevalente da Règis Debray, è 

divenuto   l’elemento centrale  della  stessa  vita politica,  a   tal 

punto  da   condizionarne   i  meccanismi   in  base  alle   esigenze 

intrinseche della comunicazione. Ciò ovviamente non esclude 

il pur frequente scenario inverso, ossia dell’impugnazione dello 

strumento comunicativo da parte di gruppi di potere ; il vero 

problema è   però   differente.  A   livello  di  macro­dinamiche,   è 

indubbio negare questa avvenuta rivoluzione gerarchica,  ma 

sarebbe nel contempo errato pensare ad un’emancipazione del 

mezzo mediale dal settore politico ; si tratta piuttosto di uno 

slittamento   dell’autorità,   e   la   sistematica   prevaricazione 

dell’economia sulla  politica   in  se  spesso  rende  coincidente   i 

contenuti   e   le   forme   dei   mezzi   comunicativi   dominanti   col 

pensiero egemone, oramai di matrice largamente economicista 

(di cui i media non sono altro che vettori) come la tendenza 

governativa e burocratica mondiale. Ma come avviene in realtà 

tale   fenomeno?   Nell’esplicitazione   dei   suddetti   meccanismi, 

Ramonet difetta forse di precisione. Più puntuali sono alcune 

considerazioni   di   Jean   Baudrillard,   che   svela   i   rapporti   di 

relazione   ipnotica   tra   spettatore   e   medium,  descrivendo   ad 

esempio la televisione come un mezzo che grazie alla sua sola 

presenza è in grado di esercitare il controllo sociale  favorendo 

il   ripiegamento   dell’individuo   nella   sfera   privata   e   nel 

contempo  imponendo  un   immaginario   stereotipato,   il  mezzo 

televisivo   può   adempiere   alla   causa   del   profitto   oggigiorno 

assunta   dall’informazione.   Scopo   del   messaggio,   aggiunge 

Pierre Bordieu, è   la sua massima diffusione, che può  essere 

ottenuta evitando di contrapporsi allo “spirito del tempo”, con 

il   criterio   della   ricerca  di   quei   “fatti   omnibus”   in   grado   di 

creare   consenso   ed   opinione   generalizzati,   in   accordo   con 

l’ideologia dominante e  in totale emarginazione di  messaggi 

non   conformisti   o   più   semplicemente   inutili   ai   fini   della 

fruibilità   e   vendibilità.  Appare  dunque  più   chiara  a  questo 

punto   la   descrizione   operata   dall’autore   del   fenomeno 

dell’imitazione   e   del   mimetismo;   le   spietate   leggi   della 

concorrenza   strutturano   in   maniera   centripeta   quella 

apparente pluralità garantita dal proliferare di fonti e nodi del 

sistema­rete mediatico. Si svela così la connivenza ancor viva 

tra   uomini   di   potere   (il   cui   connotato   politico   ha   dunque 

eliminato i distinguo col versante dell’economia) e addetti al 

settore   della   comunicazione,   nonostante   lo   slittamento 

gerarchico   dei   settori.   Siamo   dunque   lontani   dal   “realismo 

democratico”, il giornalismo eroico e di denuncia tanto in voga 

negli anni ’80 sull’ondata del modello Watergate, creatore di 

figure intoccabili e talora assurte alla condizione di maestri di 

pensiero. Tali fenomeni sono, seppur inconsciamente, colti dal 

senso   comune   ed   una   nuova   diffidenza   attraversa   l’utenza 

mondiale;   se   negli   anni   ’60   si   additavano   i   media   come 

strumenti   del   potere,   ora   ci   si   rende   conto   che   è   forse   il 

sistema in se a rivelarsi inaffidabile. Un’analisi  di Alain De 

Benoist pone il dubbio che in realtà sia forse inutile cercare di 

capire   se   i   media   stiano   dalla   parte   del   potere   politico,   in 

quanto quest’ultimo è  prevaricato e quasi proverbialmente è 

sostituito da quello economico ; si pone l’ipotesi che i media 

oggi non siano più “intermediari” bensì siano essi stessi il fine, 

in quanto entrati  in una logica di produttività  commerciale. 

Per dirla con Baudrillard, “il  medium fa evento da solo”. Lo 

stesso concetto è ripreso da Règis Debray quando parla della 

mediasfera come “trascendentale tecnico”, divinità senza volto 

e   terribilmente   autosufficiente   della   società   occidentale.   Lo 

stesso   Ramonet   sembra   convenire   con   questa   ipotesi, 

evidenziando   la   tirannia   di   una   comunicazione   quasi 

personificata,   che   gode   oramai   di   vita   propria.

Come   già   detto,   qualcosa   però   negli   umori   del   pubblico 

continua  a  muoversi   :   le   ripetute  menzogne   e   falsificazioni 

occorse ad esempio durante la prima guerra del Golfo o il falso 

eccidio   di   Timisoara   in   Romania,   una   volta   smascherate, 

hanno alimentato dubbi e sospetti. Il mezzo televisivo, oramai 

preminente   ed   insidiato   nella   sua   rapidità   e   produttività 

soltanto dall’emergente Internet, fonda la sua eccellenza, tra i 

tanti  fattori,  sull’illusione di verità  ricreata dall’immagine e 

dalla   diretta.   L’importante   è   quello   che   appare,   magari 

verisimile   ma   non   reale,   o   addirittura   falso   ma   bello   e 

telegenico.   Ciò   che   è   visibile   esiste   in   senso   mediale,   a 

discapito dell’astratto e del non riproducibile. Il corollario di 

tale  fenomeno è   la menzogna della non  importanza del  non 

mostrato, in quanto l’onnipresenza della telecamera dovrebbe 

a   rigor   di   logica   immortalare   ogni   avvenimento   degno   di 

diffusione.   Ma   l’equazione   “zero   immagine,   zero   realtà”   è 

purtroppo cosa nota e i casi delle guerre di Panama del 1989 o 

di  Grenada del  1982 assurgono  soltanto  al   ruolo  di   casuali 

esempi.   Il   concetto  di  credibilità  dell’informazione è  dunque 

stravolto ; la veridicità non è  più discriminante, al contrario 

dell’esistenza   mediatica,   della   realizzabilità   tecnologica   e 

dell’attribuzione prioritaria dello status di “vero” da parte del 

mezzo comunicativo.

Nella   mente   dell’utente,   si   evince   dunque   una   continua 

confusione tra il vedere ed il capire; con la prevalenza assoluta 

dell’immagine sul commento e sull’analisi (tra l’altro motivo di 

crisi   della   classica   forma   di   telegiornale,   in   cui   la   sola 

presenza dell’inviato speciale, in tempo reale, sui luoghi “caldi” 

è   garanzia   di   verità   in   misura  maggiore   del   contenuto  del 

servizio),   la   pigrizia   dell’indagine   si   pone   in   contrasto   con 

quella   che   a   ragione   l’autore   considera  una   vera   e  propria 

attività:   informarsi.   Ma   lo   stesso   cade   in  un  pretestuoso   e 

probabilmente   consapevole   abbaglio,   tentando   di   ricondurre 

questa  indotta amnesia dell’utente  ad un non rispetto degli 

insegnamenti   del   razionalismo   settecentesco,   secondo   cui 

l’intelletto e la ragione dovrebbero avere assoluta prevalenza 

sul senso, in questo caso quello della vista. Non è necessario 

scomodare   i  Lumi  per  spiegare   tale   fenomeno  ;   in   realtà,lo 

spettatore  non elude   la  ragione,  ma è  proprio  con essa  che 

attribuisce   alla   visione   un   ruolo   di   primaria   importanza 

nell’analisi;   i   media   inducono   al   ritenere,   secondo   un   puro 

procedimento   intellettuale,   l’immagine   come   materia   prima 

per un’analisi da compiersi a posteriori, e che in effetti l’utente 

compie secondo procedimenti tutt’altro che irrazionali. Ciò che 

sfugge   a   Ramonet   è   che   in   realtà   la   pur   attiva   ragione 

dell’osservatore   viene   privata   dell’essenziale   elemento 

analitico   e   contestualizzante   rappresentato   dall’eventuale 

commento.   L’operazione   avviene   ugualmente   tramite   il 

cervello,   non   attraverso   la   vista.   Ma   si   tratta   di   un 

procedimento   incompleto   e   "razionalmente"   non   concepito 

come tale.  Ridurre ad un puro slittamento filosofico un fine 

procedimento   che   agisce   sullo   stesso   terreno   interpretativo 

dell’utenza   significa   aggirare   il   problema.   Altro   aspetto   da 

notare è il corto­circuito avvenuto tra cultura, comunicazione 

ed   informazione   in   uno   scenario   in   cui   quest’ultima   è 

realmente   sovrabbondante   a   causa   del   furore   della 

connessione   che   per   puro   scopo   commerciale   provvede   a 

“comunicare” senza in realtà informare; tutti, al giorno d’oggi 

e   maggiormente   tramite   Internet,   sono   in   grado   di 

comunicare,   e  questa   realtà  ha  messo   in   crisi   il   ruolo  e   la 

funzione   del   giornalista,   sempre   più   privo   di   specificità   e 

identità.  Non a caso  in tanti  settori  si  parla già  di  “media­

workers”, ossia semplici addetti al sistema mediale declassati 

al   rango   di   operai   di   questa   inedita   e   possente   macchina 

industriale.   Sul   versante   classico   dei   mass­media,   questa 

proliferazione del sistema­rete porta ai già evidenziati (e per 

un   certo   verso   paradossali,in   quanto   si   tratta   di   un 

ripiegamento della televisione su se stessa) fenomeni della tv 

verità o spazzatura, che va a ricercare la materia prima della 

comunicazione in settori “bassi” e “alternativi”,  ma anche al 

depauperamento   del   format   del   telegiornale,quasi   obbligato 

alla   trattazione   di   cronaca   locale   a   discapito   di   quella 

internazionale.

Ma   la   sovrabbondanza   della   comunicazione   rende   inoltre 

possibili   quelle   forme   di   “censura   democratica”   ,   di 

falsificazione   e   di   invenzione   di   cui   ci   vengono   presentati, 

lungo le pagine del testo, numerosissimi esempi. In realtà, in 

un  sistema che   si  definisce  democratico,   l’informazione  non 

viene   sistematicamente   occultata   o   nascosta,   bensì 

dissimulata e resa eccessiva ;  la quantità  rende impossibile, 

per l’utente medio, accertare una eventuale mancanza e, per 

usare   le   parole   dell’autore   del   testo,   “la   voragine 

dell’interdizione”.  Sia ovviamente beninteso che continua ad 

avvenire anche il fenomeno classico di censura, ma la logica 

predominante   è   oramai   quella   evidenziata   ;   tra   gli   esempi 

eclatanti   possono   essere   collocate   le   cosiddette   “guerre 

invisibili” come quella di Panama o le recentissime invasioni 

dell’Afghanistan   e   dell’Iraq,   per   il   vero   mostrate   secondo 

criteri di pulizia ed estetica televisiva, perfettamente aderenti 

ai piani di campagna mediatica sistematicamente considerati 

dalle autorità militari statunitensi, memori della diffusione di 

umori scomodi tra l’opinione pubblica a seguito delle immagini 

provenienti dagli eventi del Vietnam. In ultimo (ma non per 

ordine  di   importanza)  ci  si  potrebbe  soffermare su un altro 

degli aspetti considerati dal libro, al quale è dedicato quasi per 

intero  un   capitolo.  Si   tratta  dell’analisi  del   rapporto   tra   la 

vicenda del falso eccidio di Timisoara del 1989 in Romania e il 

ruolo   svolto   dai   principali   media,   esemplificativo   di   alcune 

dinamiche   che   intercorrono   sistematicamente   proprio 

dall’anno considerato, indicato dall’autore come vero e proprio 

spartiacque tra la vecchia e la nuova strategia comunicativa. 

E’innegabile riconoscere come l’esigenza del  sensazionale  ad 

ogni costo abbia trovato nei fatti della rivoluzione rumena una 

grande opportunità mediatica ; la necessità di infiammare gli 

animi e di fomentare un’isteria collettiva ha avuto un ruolo di 

primaria importanza nella costruzione mediale di atrocità del 

più   svariato   tipo,   culminata   con   la   necrofilia   televisiva 

rappresentata   dall’utilizzo   di   cadaveri   altri   per   erigere   la 

menzogna   (ennesima)  del   suddetto   eccidio.  La  diffusione  di 

voci  è   stato   il  principale  criterio  di  discredito  di  un regime 

comunque   tirannico   quale   quello   di   Ceausescu,   facilmente 

assimilato  alle  sembianze vampiresche e  demoniache per   la 

sua   provenienza.   Ramonet   ci   spiega   come   tramite   i   mezzi 

comunicativi sia possibile ricorrere a miti ed analogie proprio 

per l’intrinseca possibilità di crearli ; il mito della cospirazione 

viene in tal caso accreditato alla famigerata Securitate, polizia 

segreta   del   tiranno   rumeno,   e   l’analogia   tra   comunismo   e 

nazismo verrebbe utilizzata per mostrare, con una intenzione 

perentoria,il crollo fragoroso e definitivo dell’ultima illusione 

del ventesimo secolo. Paradossalmente, l’autore sembra voler 

negare   al   regime   hitleriano   la   possibilità   ,puramente 

eventuale,  di  un medesimo trattamento mediale  riservatogli 

dagli anni del dopoguerra fino ad oggi ; esulando da intenti 

giustificativi   riguardo   agli   orrori   di   cui   il   totalitarismo 

nazionalsocialista   si   è   indubbiamente   macchiato,   sorge   il 

dubbio che col pretesto di identificare un uso dei meccanismi 

comunicativi a senso unico ed esclusivamente a partire dalla 

fatidica data che ha sancito la fine del bipolarismo mondiale, 

l’intellettuale   spagnolo   tenti   di   rifuggire   in   assoluto   ogni 

comparazione dal punto di vista strutturale e sociologico tra i 

due   grandi   fenomeni   del   secolo   appena   trascorso   ; 

fortunatamente,  un acceso dibattito storiografico,   forte delle 

opinioni di Nolte, Furet e dei recentissimi scritti di De Benoist 

può   colmare   ogni   dubbio   a   riguardo.

Ma se si rimane prettamente sul versante della comunicazione 

e sull’analisi dei meccanismi della sua ricorrenza sistematica 

alle   categorie  pregnanti  per   l’immaginario  collettivo,  ancora 

una   volta   il   ragionamento   di   Ramonet   non   può   essere 

contestato. Questi dunque alcuni degli aspetti che si evincono 

dalla lettura di questo interessante saggio, che prospetta un 

orizzonte   apparentemente   apocalittico   ma   assolutamente 

verisimile   ;   alla   luce  delle   dinamiche  globali   e  dell’avvento 

oramai   conclamato  del   “tempo  delle   reti”   ,   ogni   cittadino   è 

potenziale   elemento   di   tale   immenso   organismo.   Urgono 

dunque strumenti utili per la comprensione dei mutamenti in 

corso,   e   se,   per   dirla   con   Ramonet,   informarsi   stanca,   è 

necessario   quantomeno   “informarsi   sull’informazione”   ed 

assurgere al ruolo di ombudsman di se stessi, per quanto sia 

impresa ardua e difficile. Il testo in questione si pone forse un 

intento   simile,   ma   è   da   analizzarsi   secondo   la   medesima 

ottica , assumendo la consapevolezza delle regole un sistema 

in cui la sfera comunicativa si presenta difficilmente scissa da 

quella informativa.

Planet Funk – The Illogical Consequence

Non saprei se questo secondo capitolo dei Planet Funk possa 

essere definito come conseguenza illogica.  Credo piuttosto  il 

contrario,   quantomeno   nei   metodi   di   composizione:   rispetto 

all'esplosivo Non Zero Sumness di oramai 4 anni fa, la forma­

canzone è rimasta invariata, specialmente nel suo lato house­

funk,   fatto   di   cassa   “in   quattro”,   bassi   sub   da   dancefloor, 

sospesi  arpeggi  di  chitarre ed eterei   tappeti   tastieristici  sui 

quali  si  stagliano malinconiche melodie.  Lo stile è   l'uomo, e 

tali   probabilmente   sono   i   Planet   Funk.   Se   è   vero   che   le 

conseguenze illogiche sono effetto di feconde casualità, non è 

scontato  che si  debba rinunciare alle   forme che permettono 

all'espressività  di mostrarsi in tutta la sua pienezza: in tale 

aspetto   è   rintracciabile   una   precisa   direzione   di   fondo   del 

combo italiano.  Nonostante questo,  non era comunque facile 

ripetere l'exploit del capolavoro precedente, e ad essere sinceri 

non ci si è riusciti. Si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad 

una versione bignamesca del sound che ancora risuona nelle 

pareti  dell'anima dal  2001,  dove  l'esplosività   tastieristica  di 

una Inside All The People lascia posto alla linearità nostalgica 

di   una   Everyday   o   di   una   The   End   ,   dove   le   evoluzioni 

psichedeliche   e   progressive   di   una   immensa   Paraffin   si 

tramutano   nelle   atmosfere   compassate   di   una   Inhuman 

Perfection o di una Laces . Si tratta però di pezzi che portano 

ancora in se quella profonda traccia di inafferrabile malinconia 

che ha contraddistinto l'umore dei primi Planet Funk, quando 

anche   un   semplice   suono   è   in   grado   di   evocare   sensazioni 

proveniente   dagli   angoli   più   remoti   del   proprio   Io.   Non 

mancano   gli   elementi   techno   e   synth­pop,   sublimati   nella 

ipnotica Tears After The Rainbow o nel marziale primo (e forse 

non riuscitissimo) singolo Stop Me . Ciò che manca è invece la 

presenza   di   Dan   Black   ,   incredibile   vocalist   dal   carisma 

alienante   e  dal   timbro   imperfetto,   allucinato  ma altamente 

comunicativo.   Lo   ritroviamo   in   soli   3   pezzi,   come 

nell'undicesima traccia ( Peak ) che forse non a caso strizza 

l'occhio ad un intento dance­floor simile al disco precedente. 

Ad accompagnarci attraverso questo viaggio è invece la voce di 

John   Graham   ,   certamente   gradevolissima   e   calda,   ma 

anch'essa   in   linea   con   lo   spirito   dell'album,   votato   ad   una 

maggiore linearità stilistica. Parte della critica ha sottolineato 

come   le   scelte   musicali   di   questo   capitolo   dimostrino   una 

volontà di superamento di schemi pronti all'uso per il successo 

commerciale, sulla falsariga dell'opera prima: la defezione di 

Dan Black , immagine trainante del vecchio lavoro, ne sarebbe 

esempio   lampante.   E   proprio   per   tale   motivo   è   stavolta 

presente su brani secondari ed ovviamente non estratti come 

singoli.   E'   più   probabile   invece   che   i   Planet   Funk   abbiano 

voluto   operare   un   riassunto   della   loro   formula   proprio   per 

cavalcare   l'onda   lunga   da   loro   stessi   creata   e   che   ancora 

permane   dopo   4   anni,   a   discapito   di   una   sincera   potenza 

esplosiva:   sia   ben   chiaro   però   che   una   simile   scelta   non 

pregiudica   in   modo   così   drastico   la   qualità,   comunque 

elevatissima  e   tale  da   rendere  questo  album estremamente 

consigliabile, in quanto è possibile continuare a definire questo 

collettivo  italo/inglese come una delle realtà  più   feconde del 

panorama   musicale   europeo.   Ed   inoltre,   una   band   che   ha 

avuto   il   singolo   “   Stop   Me   ”   come   brano   trainante   della 

campagna pubblicitaria della Coca Cola, non può certo essere 

elevata ad esempio di scheggia impazzita del music business. 

In definitiva,  se  avete amato  la commistione di  house­funk, 

chillout,  psichedelia,   rock  ed  electro­pop  del  primo capitolo, 

ritroverete   in   questo   secondo   un   denominatore   comune   a 

livello di “sentimento” originale, la radice profonda del suono 

Planet   Funk,   in   una   forma   maggiormente   ordinata   ma 

inattaccabile   dal   punto   di   vista   dell'arrangiamento,   della 

coesione stilistica e della   limpida bellezza delle  melodie.  Ed 

una dimostrazione di come in epoca post­moderna, si possa (ed 

anzi, si debba) continuare parlare all'Uomo anche attraverso 

gli   strumenti   della   tecnologia.  Eppur   si   muove.   Lungi 

dall’essere   una   dimostrazione   di   ottimismo,   purtroppo   al 

giorno   d’oggi   assolutamente   immotivata,   la   galileiana 

citazione è una semplice testimonianza di come messaggi non 

conformisti   continuino   a   trasparire   anche   da   versanti 

insospettabili,   come   in   un   disco   di   musica   leggera   a 

distribuzione nazionale. Se il vaso sia pieno e stia cominciando 

a   traboccare,   nessuno   può   affermarlo   con   certezza.   Ma 

quantomeno i segnali di una certa insostenibilità esistono.

Samuele Bersani – Caramella Smog

L’unico onanismo verbale che si può  evidenziare parlando di 

Bersani è quello di alcuni suoi recensori : se c’è un cantautore 

su   cui  davvero   oggi  non   si   può   puntualizzare,   in  quanto   il 

livello medio si attesta sempre su posizioni degne, è  proprio 

l’autore di Caramella Smog. Perché se il pop d’autore in Italia 

continua a dimostrarsi interessante, lo si deve anche alle 11 

piccole perle contenute nell’ultima fatica discografica di questo 

talento   romagnolo.   Il   pop   dunque,   talvolta   piacevolmente 

intinto   nel   jazz,   in   questo   caso   si   fa   strumento   lieve   per 

dipingere dubbi e anomalie della post­modernità ; se Bersani 

ci   aveva   commosso   con   il   suo   modo   avvolgente   di   trattare 

l’amore, ora dispensa critiche dolci­amare nei confronti della 

società, dei media, dell’uomo che nel 2004 dimentica di essere 

tale e si  concede gaiamente ai miraggi del villaggio globale. 

Appunti delicati, ma dal retrogusto malinconico proprio come 

caramelle. In questa occasione, l’aiuto del chitarrista Roberto 

Guarino   ha   dato   vita   ad   arrangiamenti   maggiormente 

dinamici   rispetto   al   disco   precedente   (L’Oroscopo   Speciale), 

dove pianoforte  ed  archi   creavano una miscela  al   contempo 

fresca e struggente.  Il  risultato è   fatto di brani scorrevoli  e 

capaci di ritagliarsi uno spazio nella mente dell’ascoltatore. In 

un mondo dove “i preti pubblicano libri con le confessioni dei 

fedeli”   ed  è   sufficiente   “avere  una  carta  di   credito  per  non 

commettere   errori”,   Samuele   sussurra   (senza   gridare)   il 

bisogno di libertà ­vera e non illusoria – di tornare ad essere 

uomini,   evitando   che   logiche   frenetiche   e   troppo   grandi 

possano   costringerci   a  diventare   “soci   di  minoranza”  di  noi 

stessi. Una critica alla competitività ed al bisogno imposto di 

razionalità si fa viva in Binario Tre, brano che si avvale della 

collaborazione   di   Fabio   Concato.   Non   è   l’unica   presenza 

illustre   che   colora   con   classe   i   solchi  dell’album  :   in   “Se   ti 

convincerai”   troviamo  il  pianoforte  di  Sergio  Cammariere  a 

dipingere sfondi delicati sotto la voce di Bersani, che torna a 

parlarci   d’amore   come   in   passato   ;   il   rapporto   di   coppia, 

descritto in versi mai come ora dolci e protettivi, è  presente 

anche in “Pensandoti”. Rocco Tanica (tastierista di Elio E Le 

Storie   Tese)   firma   un   solo   di   pianoforte   in   “Concerto”, 

simpatica considerazione sulla vita del musicista, ma più   in 

generale sui ritmi e sulle esigenze inevitabili del mondo dello 

spettacolo. La matrice è sempre la medesima, l’invito è quello 

di fermarsi, riscoprire una vita a dimensione umana e cercare 

di sottrarsi ai meccanismi alienanti e perversi ereditati dalla 

modernità.  Così  negli  accenni country de “Il  Destino Di Un 

Vip” è ancora la fugacità e l’illusione del successo a finire sotto 

la disincantata lente del cantautore, ed in “Conforme alla Cee” 

il   disaccordo   è   nei   confronti   di   sterili   parametri,   talora 

dell’estetica, della politica come mezzo esteriore o in primo ed 

ultimo luogo del grande mercato del mondo, lo stesso in cui –

dice Bersani­ “gli occhiali non mi servono più per vedere, ma 

per piacere a tutti gli altri” e “anche un calcio nel culo va bene 

purchè sia Conforme alla Cee”. Si citano anche “Meraviglia”, il 

singolo   “Cattiva”   (caustico   nei   confronti   del   voyeurismo 

mediatico, indotto dalla spettacolarizzazione dell’informazione 

e  della   cronaca  –quella  nera   soprattutto,   come   il   delitto  di 

Cogne)   e   “Salto   la   Convivenza”,   ambiguo   quadretto   di   un 

divorzio. Menzione ultima per il brano che da il titolo al disco, 

ovvero Caramella Smog. Spunto integrale di Bersani e posto in 

chiusura, questo etereo e psichedelico affresco dal gusto retrò è 

indubbiamente il miglior modo di sintetizzare il messaggio che 

l’ascolto   dell’intero   album   ha   cercato   di   comunicare, 

riuscendoci   in   modo   non   comune,   con   un   linguaggio 

assolutamente   ricco   e   calzante   prima   ancora   che   ermetico, 

autoreferenziale o addirittura onanistico. In ogni caso, amaro 

come la Caramella Smog, credo.

Caution Radiation Area

L’educazione alla complessità. È questo uno dei capisaldi che 

dovrebbe   animare   una   nuova   rivoluzione   delle   coscienze;   è 

indubbio negare che la massa propriamente detta risponda a 

logiche   distinte   dalla   “persona”,   e   che   in   via   generale   sia 

inadatta   a   recepire   messaggi   troppo   strutturati.   È   però 

indubbio che la “massa”,  entità  omologata e omologante per 

eccellenza,   fonda   la   sua   logica   proprio   sull’appiattimento 

reciproco   degli   individui,   che   agiscono   certo   per   il   proprio 

personale   interesse,   ma   in   modi   acritici   e   affini   ad   una 

tendenza  sovraordinata.  Ed   in   tal   caso,   la  qualità   specifica 

dell’individuo viene dispersa, così  come l’unicità  che viene a 

costituirlo più propriamente come “persona”. Portare a livello 

popolare  proposte   complesse  di   interpretazione  della   realtà, 

lontane da semplici dualismi (quello politico ne è un esempio) o 

schematizzazioni,  è   la strada per  l’educazione alla diversità. 

Concepire “più”  pensieri e modi di  intendere l’esistente è   la 

strada per il ritorno all’unicità della persona nonché il cardine 

per   destrutturare   dall’interno   l’omologazione   stessa.

Lo avevano capito gli Area, che tentavano di mettere in musica 

una complessità “per il pubblico”, esperimento indubbiamente 

coraggioso soprattutto nell’Italia degli anni ’70. Il fermento del 

rock progressivo europeo ha spesso avuto propositi affini ma 

con  il  passare  del   tempo ha  esaurito   i   suoi   rivoli  verso  un 

olimpo per appassionati e cultori, eccezion fatta per pochi nomi 

illustri.   Il   combo   italiano   ambiva   viceversa   ­   per   esplicita 

dichiarazione di  intenti­  a fondere  linguaggi disparati  senza 

mai perdere di vista la connotazione “popolare”. International 

POPular Group,  questa  la sigla che accompagnava  infatti   il 

nome   della   band.   Ed   ecco   che   un   sistema   complesso   come 

quello   del   Free   Jazz   toccava   i   confini   dell’Avanguardia   e 

dell’Elettronica,   passando   per   la   tradizione   popolare   e   folk 

mediterranea   (ma   anche   asiatica)   fino   a   giungere   talora 

all’italiana   forma­canzone.  Ed  un  tale  proposito  non  poteva 

ovviamente   che   apparire   spesso   frenetico,   incompiuto,   in 

perenne divenire. Gli Area vengono culturalmente ascritti al 

fermento post­sessantotto ed appaiono come continuatori dei 

propositi   della   sinistra   extra­parlamentare;   quanto   la 

circostanza di immagine piuttosto che la reale adesione alla 

categoria abbia contribuito all’attribuzione di un tale marchio, 

non   è   dato   saperlo.   È   però   indubbio   che   del   caos 

sessantottesco, gli Area si portano dietro la mancanza di un 

centro, di un nuovo progetto, di una univoca visione del mondo. 

Ma   questo   ne   è   paradossalmente   punto   di   forza;   il   loro 

obiettivo era la continua creazione, la riflessione spinta fino 

alle   estreme   conseguenze,   la  destrutturazione  dei  materiali 

sonori   al   fine   di   una   ricerca   che   potesse   lasciare   semi 

produttivi. Gli Area come prime radici di una “nuova sintesi”, 

che rifiuta  la semplicità  dell’esistente  in nome di  un futuro 

ancora   non   precisato,   ma   certo   non   timoroso   di   azzardare 

ipotesi.   In   Caution   Radiation   Area   il   linguaggio   si   fa   più 

caotico,   estremo   e   talora   spinto   al   limite   del   parossismo 

sonoro.   Composizioni   lunghe,   intricate,   a   volte   teatrali   e 

rumoristiche   sono   poste   con   irruenza   alle   orecchie   di   un 

pubblico   indubbiamente   colto   di   sorpresa,   ma   senza   alcun 

pregiudizio. Il solo scopo era quello di una ricerca, magari fine 

a se stessa nel momento in cui la si compie, ma estremamente 

produttiva   per   chi   verrà   dopo   e   si   dedicherà   all’analisi,   in 

quanto “diverso”. Come è scritto nel booklet, si tratta di “una 

ricerca   che   ammette   anche   l’errore”,   che   ne   è   corollario 

obbligato.   Ed   una   tale   complessità   musicale   ha   un   intento 

pedagogico per l’ascoltatore, non tanto in una forma compiuta 

ed assimilabile, quanto in tutto ciò che di compiuto non vi è. 

L’ascoltatore   è   spinto   ad   “inferire”   i   significati   da   ciò   che 

ascolta e decifrare –passaggio dopo passaggio­ il minestrone di 

elementi   presentato   dai   musicisti.   Si   tratta   dunque   di   un 

continuo scambio, dove l’esercizio di ricerca formale in musica 

diventa esercizio di interpretazione della realtà  per l’utente.

L’educazione   alla   complessità   (e   la   critica   alla   funzione 

omologante   del   mercato)   è   racchiusa   ancora   una   volta   nel 

booklet: «gli "scolari" devono essere tenuti fin dapprincipio a 

capire tutto ciò  che  incontrano nella musica nel  senso della 

funzione che ha in vista della totalità.  Naturalmente questo 

ideale   di   pedagogia   musicale   –gli   astuti   critici   del   rock   ci 

comprendano­   presuppone   che   le   opere   vengano   scelte   con 

grande senso di responsabilità. Ahimè, la truffa consiste nel 

fatto che viene offerta sempre la stessa cosa…o no ?»

Sally Price – I primitivi traditi

Pubblicato  nel   1989   con   il   titolo   “Primitive   art   in   civilized 

places”, il saggio di Sally Price, costruito secondo la tecnica del 

“patchwork” o assemblaggio di fonti, rappresenta sicuramente 

una delle uscite più interessanti ed appetibili anche per i non 

addetti ai lavori nel campo dell’etnografia e dell’antropologia 

dei tempi recenti. L’autrice, che ha insegnato antropologia e 

storia  dell’arte alla Johns Hopkins University e a Stanford, 

tramite il ricorso a fonte delle più diverse si prefigge, come dal 

titolo,   di   dimostrare   l’asimmetria   reale   tra   il   giudizio 

occidentale   sull’arte   (e   sulle   modalità   di   percezione   della 

storia) prodotta in loco e quella appartenente a realtà “altre”. 

E’necessaria   tuttavia   una   premessa   :   pur   conducendoci 

sapientemente   attraverso   le   categorie   dell’estetica 

antropologica, il libro è segnato paradossalmente da un errore 

di impostazione ; l’intera critica al giudizio ed alla percezione è 

fondata proprio sui loci communes occidentali, e non precisa se 

nell’intento   di   chi   scrive   sia   ammessa   la   possibilità   di 

un’incongruenza sostanziale della sensibilità dell’uomo medio 

occidentale   rispetto   ad   produttore/creatore   altro.   In   altri 

termini,  negando ad esempio  (e  a  ragione,  sfatando così  un 

diffuso pregiudizio)  una matrice   istintiva e  primordiale  alla 

base   della   creazione   di   una   data   tipologia   di   manufatti 

“primitivi”,   non   ci   si   pone   il   dubbio   dell’esistenza   di   una 

concezione   differente   di   “istintività”   propria   dell’humus 

culturale sotteso alle culture altre. Del resto,questo è solo uno 

dei tanti nodi in cui è possibile imbattersi durante la lettura ; 

ma in tempi in cui il valore della diversità mostra il suo volto 

pallido   e   i   recenti   eventi   gonfiano   le   vele   e   alimentano   la 

marcia di un modello grondante ipocrisia e stoltamente fiero 

di se come quello occidentale, anche un testo come “I primitivi 

traditi” potrebbe tornare utile alla causa della differenza.

Partendo dalla definizione della concezione di “arte primitiva”, 

viene delineata   la  “moneta corrente  ideologica”  della  nostra 

società   ;  evitando di  impelagarsi   in sterminate dissertazioni 

sul concetto di “primitivo” , viene dimostrato come l’arte altra 

venga   primariamente   deumanizzata,   delegittimata   e 

successivamente   riabilitata   o   promossa   dal   benefattore   o 

conoscitore   occidentale.   Hooper   e   Burland   puntano 

l’attenzione   sulle   “cognizioni   meccaniche   insufficienti”,   così 

come Douglas  Newton  indica  nello  scarso   livello   tecnologico 

raggiunto dalle società produttrici un indizio plausibile ed un 

criterio   certo  per   identificare   la   tipologia  di  arte  primitiva. 

Altri criteri seguono gli elementi della vicinanza del prodotto 

ai   disegni   dei   malati,   dei   bambini   o   delle   scimmie,   ad 

evocazioni pagane, religiose o spiritiche. L’arte realizzata da 

tali persone assurge dunque al livello di prodotto dei “fratelli 

minori” della Famiglia dell’Uomo, “non abituati a reprimere le 

loro pulsioni naturali secondo i parametri del comportamento 

civilizzato”.   Ma   chi   è   dunque   abilitato   a   promuovere   il 

manufatto etnografico a oggetto d’arte o viceversa ? Chi ha il 

compito   di   stabilire   gerarchie   estetiche   ?   Dalla   descrizione 

della figura del Conoscitore, si evince un oscillazione tra un 

personaggio capace, tramite modalità  comunque coscienti ed 

intenzionali   ,   di   selezionare   e   discernere   secondo 

un’inclinazione   innata   (il   buon   gusto),   ed   una   tipologia   di 

esperto   le   cui   griglie   concettuali   sono   frutto   esclusivo   del 

processo di  acculturazione della società   in cui vive.  Secondo 

Kenneth   Clarke   (che   si   ricrederà   personalmente)   era 

addirittura da escludere la possibilità dell’occhio come “organo 

educato”   –citando   Franz   Boas­   e   la   pura   fruizione   estetica 

costituiva   il   discriminante   di   un   mondo   in   cui   tutti   sono 

potenziali   conoscitori  al   di   la  dei   condizionamenti  di  mode, 

posizioni   sociali   o   specializzazioni.   Nella   grande   Famiglia 

Umana dunque un esplicito orizzonte di universalità fa si che 

l’intenditore  occidentale  possa promuovere e  giudicare  l’arte 

del  mondo  intero  permettendosi  di  prescindere  dal   contesto 

culturale.  Paradossalmente,   il   creatore  altro  non  è   abilitato 

all’operazione inversa ; se si considera che nella nostra società 

basta   un’etichetta   a   sancire   il   valore   di   un   prodotto,   si 

dimostra   in  tutta  la  sua banalità  un concetto  che dovrebbe 

essere diffuso ma purtroppo non lo è; l’unidirezionalità sottesa 

ad un tale ragionamento si ripresenta dunque in ogni aspetto 

considerato   dall’analisi   del   testo.   Il   secondo   capitolo   è 

fondamentale   nell’architettura   della   tesi   di   Sally  Price   ;   la 

definizione   del   “principio   di   Universalità”   prende   le   mosse 

dalla considerazione sullo sviluppo della comunicazione e del 

mercato globale ; l’illusione di un mondo alla portata di tutti 

ha   per   l’osservatore   occidentale   il   sapore   dell’Unità, 

dell’Eguaglianza   e   della   Fraternità   ;l’idea   implicita   della 

famiglia umana si evince dai fenomeni pubblicitari,musicali o 

sociali   quali   ad   esempio   la   teoria   del   Buon   Selvaggio,   i 

manifesti della Benetton, il successo della canzone We Are The 

World, la retorica delle associazioni solidaristiche di carattere 

planetario o la propaganda “umanitaria” (tra i topoi del caso è 

da segnalare la bambina bionda che mostra affetto al bambino 

nero o il soldato che soccorre ed aiuta bambini, civili o feriti di 

parte avversa).Denominatore comune di una tale ispirazione 

filantropica è  il fatto che al botteghino dello spettacolo della 

Fratellanza Globale siedano soltanto bigliettai occidentali, che 

grazie alla loro benevolenza accordano ai loro fratelli minori la 

possibilità di mostrarsi e mostrare conseguentemente anche i 

loro prodotti una volta promossi allo status di oggetti d’arte. 

Leonard   Bernstein,   forte   dell’influenza   di   Noam   Chomsky, 

rintraccia   questa   universalità   tramite   la   musica   e   la 

linguistica, arrivando a formulare la teoria di una monogenesi. 

Anche   l’arte   conseguentemente   assurge   al   livello   di 

“linguaggio universale”, “fattore unificante” in quanto prodotto 

di   sensibilità   comuni   a   tutti   gli   uomini,   tendenti 

“naturalmente”   alle   stesse   aspirazioni   di   fondo   quali   il 

“benessere” e la “salute”(Suzan Vogel). Si fondono dunque in 

un unico calderone e si mettono sullo stesso piano dei concetti 

che richiederebbero invece un’analisi  endogena ed induttiva. 

Secondo  Henry  Moore,  Paul  Wingert   e  Ladislas  Segy   l’arte 

primitiva sarebbe espressione di pulsioni dirette ed elementari 

;   ponendo   così   sulla   medesima   scala   interpretativa   ogni 

tipologia di produzione artistica vengono rase al suolo in un 

solo   colpo   le  diversità.  Ma si   tratta  di  un pregiudizio  assai 

diffuso   anche   nella   sensibilità   corrente;   Judith   Zilczer   ha 

giustamente osservato che per gli artisti e i critici occidentali 

“i   neri   africani   rappresentano   l’infanzia   culturale 

dell’umanità”.  Nella   nostra   società   gli   stimoli   “essenziali”   e 

“primordiali”   sarebbero   stati   sepolti  da   “una  moltitudine  di 

stimoli  parassitari”  (Wingert)  ;    tale scenario,prospettato da 

un’affermazione   che   tristemente   si   colloca   negli   anni’70,   si 

mostra   ulteriormente   legittimato   dalla   fallace 

premessa,peraltro già evidenziata, secondo cui tutti gli uomini, 

per la loro natura universale, dovrebbero condividere le stesse 

aspirazioni di fondo.

Il   lato   oscuro   dell’uomo,   incarnato   dalla   produzione   del 

diverso,   è   dunque   il   tema sviluppato  dal   capitolo   seguente. 

Jean­Louis Paudrat ci descrive come, secondo reminiscenze di 

Voltaire,   la   figura  del  Negro   sia   automaticamente  posta   in 

relazione con il  Maligno,  infarcita di superstizioni  in stretto 

contatto   con   le   origini   della   storia   dell’umanità.   Ma   tale 

eredità   illuminista   è   viva   e   vegeta   ai   tempi   nostri.   Le 

rappresentazioni  primitive   parrebbero   ispirate   da   paura   ed 

ignoranza,   e   i   loro   limiti   sarebbero   “sottoprodotti   del   lento 

sviluppo   delle   facoltà   intellettuali   umane”   (Erwin 

O.Christensen, 1955). Esemplare è il caso dell’opera africana 

nota in Occidente come “testa Brummel”, letta dallo scultore 

Jacob   come   evocazione   di   uno   spirito   emblematico   di   forze 

occulte.   Ancora,   secondo   Myers   “per   il   nero   dell’africa 

occidentale   non   sussiste   la   nostra   distinzione   tra   realtà   e 

irrealtà”. In sintesi, l’arte altra sarebbe il prodotto del terrore 

di uomini succubi dell’ignoranza. Immagini di male e morte 

sarebbero unicamente alla  base dell’intenzione  artistica.  Da 

notare   inoltre   l’insistenza   sull’erotismo   e   le   pulsioni 

“primitive”,nonchè   l’ossessione   che   ogni   oggetto   celi   la 

fissazione   per   la   sessualità   ;   ennesimo   esempio   di   una 

sottocultura evoluzionistica, purtroppo in gran forma ai giorni 

nostri,   che   dipinge   i   popoli   non   occidentali   come   selvaggi 

incivili   ed   al   contempo   “liberi”   dai   condizionamenti   di   una 

società   (la nostra) che li  seguirebbe cronologicamente. Come 

tale prospettiva sia abusata persino a livello pubblicitario ci 

viene mostrato dal noto dualismo tra la presunta “genuinità 

del   selvaggio”  e   “l’artificialità   del   civilizzato”.La  sistematica 

decontestualizzazione di pratiche e usanze e l’ignoranza delle 

concezioni e visioni altre smaschera un etnocentrismo radicale 

che   si   manifesta   persino   nelle   più   semplici   operazioni   di 

giudizio,   e   quanto   il   concetto   di   relativismo   culturale   sia 

astruso   dalla   logica   del   pensiero   popolare   è   testimoniato 

dall’atteggiamento di una custode del Metropolitan Museum of 

Modern   Art,   che   descrivendo   i   costumi   sociali   della   tribù 

Asmat della Nuova Guinea esplicita una improponibile sequela 

di stereotipi a partire dalla confusione del luogo abitato dalla 

suddetta   tribù   con   l’Africa.   La   pur   precisa   esposizione   dei 

dettagli   etnografici   coincide   pedissequamente   con   il   loro 

fraintendimento.   Si   passa   poi   a   disquisire   riguardo   al 

pregiudizio dell’anonimato dell’artista e dell’atemporalità del 

suo   operato   ;   L’   enciclopedica   distinzione   occidentale   di 

individualità   e   periodi   stilistici   si   scontra   con   una   visione 

asimmetrica   del   creatore   altro   e   conduce   inevitabilmente   e 

erroneamente   ad   etichettare   un   qualsiasi   scultore   africano 

come   impersonale   strumento   di   una   tradizione   tirannica   e 

ripetutamente   uguale   a   se   stessa,   dove   la   personalità 

individuale è del tutto assente. Tra i primi a focalizzare tale 

problematica   troviamo Franz  Boas,   che  ha   invitato  a  porre 

maggior accento sulla creatività dei singoli e sui cambiamenti 

storici.   Il rovescio della medaglia si manifesta nel fenomeno 

dell’inquadramento dei reperti etnografici ; l’approfondimento 

contestualizzante, comprensivo di religione, società  e tecnica 

diviene   un   cardine   della   museografia   e   all’opera   primitiva 

viene   negata   la   possibilità   della   fruizione   estetica   pura 

accordata invece all’oggetto occidentale. Si apprezza perciò  il 

valore dell’opera in maniera inversamente proporzionale alla 

quantità   dei   dati   relativi   informativi.   Si   profila   così   la 

distinzione di Mairaux tra l’arte per destinazione, avente per 

oggetto l’arte in se, e l’arte per metamorfosi, che esplicita il 

suo uso e la sua funzione specifica in un determinato contesto. 

L’unidirezionalità  di  una tale operazione logica si  mostra in 

tutta la sua evidenza.

Ancora interessanti riflessioni si evincono dalla definizione dei 

cosiddetti “giochi di potere”; è l’occhio selettivo dell’occidentale 

a   promuovere   gli   oggetti   etnografici   ad   opere   d’arte, 

decidendone le modalità di salvaguardia. Il sistema possiede le 

risorse   finanziarie   e   comunicative   per   accordare   il   valore 

dell’opera,   e   conseguentemente   ne   incentiva   la   produzione 

artistica  in base alla richiesta,  snaturalizzandone  le  ragioni 

secondo   il   ben   noto   meccanismo   della   mercificazione 

dell’arte.Nel migliore dei casi, la pregnanza artistica rimane in 

parte   intatta   al   prezzo   di   un’ibridazione.   Le   regole   per 

impossessarsi   di   tali   opere   sono   ovviamente   stabilite   dagli 

occidentali, che spesso ricorrono a veri e propri furti violando 

l’integrità sociale e la dimensione spirituale di intere comunità 

;   caso   esemplare   è   la   menzionata   spedizione   etnografica   a 

Dakar del 1931, in cui la vergognosa sottrazione dei “Kono”, 

importanti   maschere   rituali   della   popolazione   locale,   ci   è 

documentata dalle pagine di un diario. Uno statuto degli anni 

’50 regolerà   in seguito l’attività  museografica, ma eluderà   il 

problema in quanto porrà   i  suoi cardini sul presunto diritto 

occidentale  di   “preservare”  un patrimonio  che  in  altri  modi 

andrebbe   “perduto”   e   sull’indennizzo   economico   dei 

proprietari, una volta introdotti della logica di mercati interni 

assolutamente estranei a determinate culture.

In  ultimo,  è   importante   segnalare   le   considerazioni   intorno 

alla tipologia di amatore d’arte. Se gli oggetti etnografici sono 

inquadrati all’interno di un museo occidentale, cosa ne attesta 

il valore ?

Non è la firma del creatore (come accadrebbe in altri casi) ma 

il   “pedigree”,   ossia   la   discendenza   genealogica   autenticata, 

avvalorata o macchiata dai precedenti possessori (in tal caso, 

l’oggetto   è   svalutato   dal   senso   comune)   ,   da   pubblicazioni, 

critiche e certificazioni del valore. Chiude   il libro un intero 

capitolo   (   “un   caso   concreto”   )   dedicato   alla   popolazione 

Maroon del Suriname, in cui vengono affrontati tanti dei temi 

in cui ci si è potuto imbattere nel corso della lettura. Emergono 

dunque, dal testo della Price, tantissimi spunti estremamente 

utili per il dibattito attuale consigliatissimo in relazione alla 

fluidità delle argomentazioni e ancor di più per l’ingiustificata 

indifferenza con cui è stato accolto al di fuori degli ambienti 

accademici o specialistici.

Tra Sessantotto e psichedelia, spazio e mente :

 la fuga centripeta dei Pink Floyd.

Per   dirla   con   Hemingway,   non   si   può   fuggir   da   se   stessi 

vagando di   luogo  in   luogo.  L’ossessiva ricerca  dell’altro  non 

riflette   forse   una   mancanza   personale,   una   necessità   di 

indagine ? Con la giusta dose di astrazione, questo è  il caso 

dell’epopea   floydiana,   che   grazie   allo   strumento   della 

psichedelia  ha attraversato   le  contraddizioni  proprie  di  una 

quest   apparentemente   proiettata   verso   l’esterno,   ma   invero 

rivolta  all’uomo ed  alla   sua   condizione.   I  Pink  Floyd,   band 

onnipresente   nell’immaginario   del   musicista   medio   prima 

ancora delle  proprie stesse note,  hanno contribuito a creare 

attorno   a   se   un   fitto   alone   “cosmico”   e   spaziale,   in   cui   la 

motilità   lisergica   della   mente   del   primo   chitarrista   Syd 

Barrett   ha   influito   non   poco.   Alone   considerato   a   torto 

essenziale in tutta la loro carriera, fino ancora al vendutissimo 

album The Dark Side Of The Moon del 1973. Eppure, in questo 

stralunato  e  dissonante  viaggio  verso  orizzonti   lontani   (ben 

rappresentato dai brani del primo album “The Piper At The 

Gates  Of  Dawn”  del  1967),   sono  già   presenti   i   germi  della 

futura svolta dei musicisti londinesi ; in parallelo con il forzato 

allontanamento di Barrett, ormai lanciato a folle velocità nel 

suo   acido   universo,   la   loro   proverbiale   “aurea   medietà”   di 

musiche,   ora   magniloquenti   e   rilassate,   e   di   testi,   ora 

proiettati verso l’interno, prende il sopravvento.

In questo i Pink Floyd riflettono le contraddizioni degli anni e 

dell’atmosfera dalla quale anche loro in parte presero le mosse; 

nella   translucente,   psichedelica   e   borghese   Swingin’London 

della seconda metà degli anni ’60, la musica di questi cinque 

inglesi   riesce   ben   presto   a   divincolarsi   e   sopravvivere   alla 

deflagrazione ; e già con il termine della Summer Of Love del 

1967  un  rispettabile   contratto  con   la  EMI   (e   la   cacciata  di 

Barrett)   pone   sui   binari   della   normalità   quello   che   pareva 

essere   una   versione   europea   della   psichedelia   tout­

court,colonna   sonora   del   Flower   Power   d’oltreoceano.   Con   i 

dovuti  distinguo;  nel  contempo riassuntiva e differente,  tale 

musica   aveva   in   effetti   poco   a   che   spartire   con   l’acid   rock 

americano. D’ora in poi si potrà invece parlare di psichedelia 

soltanto nel senso etimologico del termine. Dal punto di vista 

della forma, il gruppo si è indubbiamente contraddistinto fin 

dagli inizi per una spiccata propensione alla dimensione live ; 

dai celebri light shows fino ai mastodontici e plurimiliardari 

tour  mondiali   (culminati   con  gli  esorbitanti    numeri  per   lo 

spettacolo di “The Division Bell” del 1994), è rintracciabile la 

linea comune di  una carriera del  tutto conforme ai  dettami 

consumistici   ;   scheggia   impazzita   nata   dagli   anni   della 

contestazione, i  Pink Floyd hanno adeguato i  loro schemi al 

turbinio del music business, con il non trascurabile pregio di 

non aver mai perso una propria  identità.  Dagli  hippies agli 

yuppies,   come   polemicamente   qualcuno   ha   sentenziato   ; 

musicalmente,   formalmente,   psicologicamente.   Eppure 

erronea e fallace è la lettura del fenomeno floydiano secondo 

una così ferrea interpretazione ; eccezion fatta per Barrett, i 

restanti   componenti   del   gruppo   non   sono   mai   assurti   allo 

status   di   “rock­star”   ne   tantomeno   di   personaggi   ;   uomini 

schivi e riservati, quasi eclissati persino sul palco dal suono 

etereo della loro musica. Ed a livello di contenuti, innegabile è 

stata la capacità, per un concept rock, di sondare i mali della 

società   contemporanea occidentale   ;   talvolta  in maniera pur 

banale,   altre   sotto   una   tenue   ma   geniale   luce,   i   temi 

considerati   sono   stati   vagliati   attraverso   gli   strumenti 

dell’ironia,  del  gioco   linguistico,  del   teatro  e  soprattutto  del 

metateatro ; nella mastodontica opera di “The Wall” del 1979, 

la   condizione   disagiata   del   musicista­showman   si   esplicita, 

autorappresentandosi   e   descrivendo   egregiamente   le   tappe 

dell’incomunicabilità   dapprima   tra   uomo   e   pubblico,   da 

estendersi tra uomo e uomo. L’autismo che si origina è dunque 

derivato   da   traumi,   meccaniche   e   pesanti   sovrastrutture 

capaci di inquinare l’autenticità dei contatti e dei legami: ben 

viva è la descrizione dell’attuale società del “bisogno forzato”, 

sia esso degli “applausi”, della droga, del denaro, del potere.

Un caso significativo :

Testi e musiche di “The Dark Side Of The Moon”

Il già citato “The Dark Side Of The Moon”, disco da 30 milioni 

di   copie,   è   l’emblema   di   come   il   successo   planetario   di   un 

prodotto non sia di per se inversamente proporzionale al valore 

qualitativo. Quello che si presenta è invece un calderone senza 

pari,   che  sotto   l’egida  della  pazzia   fotografa  vizi   ed  affanni 

dell’uomo   “occidentale”   alle   prese   con   i   ritmi   della   vita   e 

l’assenza di un equilibrio, con il tempo, con il denaro e con i 

suoi labili appigli.

Ovviamente   ricorrente   è   la   metafora   immediata   con   i 

riferimenti  al   sole ed alla  luna,  a  scandire  un  immaginario 

parallelo con la luce e l’oscurità nella mente dell’uomo (nonché 

con   il   respiro   cosmico,   concepito   in   varie   accezioni   dalle 

filosofie   orientali),   la   cui   controparte,   inevitabilmente 

presente, è  proprio quel “lato oscuro” che altro non è  che la 

fisiologica   incertezza   che   inconsciamente   si   rimuove, 

chiudendosi   spesso   in   un’ebete   ottimismo   ;   un   discorso, 

quest’ultimo,  che risulta  facilmente applicabile  all’attitudine 

mentale dominante ancora ai giorni nostri.

Il brano “Breathe” ( “respira”) è  una precisa fotografia della 

rincorsa   quotidiana   verso   il   nulla   ;   il   verbo   “to   run”   (   = 

correre )  è  presente nel brano nonché  più  volte ripetuto nel 

disco, con accezioni differenti. Il monito è quello di respirare, 

fermarsi,   riscoprire   il   legame   (“parti,   ma   non   lasciarmi”   , 

“scegli il terreno adatto”) nonostante le irremovibili spinte alle 

quali la società sottopone (“per quanto in alto voli / tutto ciò 

che   tocchi   e   che   vedi”).   Ma   il   messaggio   è   decisamente 

pessimista,   in   pieno   accordo   con   l’indole   di   Waters   :   “corri 

coniglio, corri, scavati un buco, dimentica il sole / per quanto 

tu   via   ed   in   alto   voli   “.   L’inutilità   e   la   pericolosità   della 

frenesia moderna è incarnata dagli ultimi versi, in quanto “se 

cavalchi la corrente, tenendoti saldo sull’onda più grossa, vai 

velocemente verso il sepolcro”. Il brano seguente non a caso si 

chiama   ancora   “On   The   Run”,   intermezzo   strumentale 

psicotico, sorretto da un ripetuto arpeggio del sintetizzatore. Il 

concetto   del   correre   è   ripreso   anche   nel   brano   “Time”,   che 

all’inesorabile   scorrere   del   tempo   contrappone   un   uomo 

perennemente incapace di coglierlo in relazione al suo valore, 

sempre  a  disagio  e  mai  appagato  da  esso.  La  “rincorsa”   in 

questo   caso   è   tardiva   e   mai   risolutiva   :   “corri   corri   per 

raggiungere il sole, ma sta tramontando, correndo in tondo per 

rispuntare ancora dietro di te”. Lo stesso sole, che simboleggia 

la vita agognata, è rappresentato in movimento, in un circolo 

vizioso, in quella romantica tensione verso il nulla che oggi –

viene   da   pensare­   è   inficiata   dai   venti   squilibranti   della 

competizione,  non più   fisiologica bensì   indotta dal pervasivo 

utilitarismo. I rapporti reali sono stravolti, la percezione della 

propria osmosi umana e temporale è alterata. Ed infatti “non 

sembri   mai   pago   del   tempo,   fra   progetti   che   finiscono   nel 

nulla”, questa è l’amara constatazione di Waters, che dimostra 

testualmente di  essere  la prima vittima di  tale meccanismo 

non avendo a disposizione ulteriori minuti nello stesso brano 

per   continuare   il   discorso.   L’atmosfera   perentoria   è 

temporaneamente   stemperata   dagli   episodi   di   “Breathe   – 

reprise”   e   dal   bellissimo   e   commovente   strumentale   “The 

Great Gig in the Sky”.

Il   caratteristico   incedere   in  7/4   ci   conduce   successivamente 

attraverso   la   famosa   “Money”,   invettiva   contro   il   denaro, 

definito “radice di ogni male contemporaneo” ; interessante è 

la   successiva   presenza   dell’avversativa   introdotta   da 

“But…”;“ma se domandi un aumento, non sorprenderti se non 

ti concederanno nulla”, questo è il suono della frase, quasi a 

significare che il male del denaro è insito inevitabilmente nel 

suo   autonomo   potere   di   richiamo   e   di   mobilitazione   stessa 

dell’uomo, e non ovviamente nel suo configurarsi come oggetto, 

al pari di altri. In ogni caso, in generale il brano descrive la 

contraddizione quotidiana generata nell’uomo dallo “sterco del 

demonio”. Infine, utile è citare i due brani conclusivi, ovvero 

“Brain Damage”  ed “Eclipse”.   Il  primo ci  descrive  la  pazzia 

come  condizione   fisiologica  di   chiunque  si  accorga   (   o   forse 

ammetta ) di aver perso determinate certezze (“se la diga si 

squarcia prima del previsto / se la testa ti scoppia in oscure 

profezie”   )   ;   il   “lato   oscuro   della   luna”   è   il   luogo   in   cui 

inevitabilmente   ci   si   ritrova   con   chi   abbia   “un   pazzo   nella 

propria testa”, e non già con chi sia pazzo egli stesso. Questa 

sottile   intuizione   di   Waters   ben   si   esprime   nella   frase   ”c’è 

qualcuno   nella   mia   mente,   ma   non   sono   io”.   E’   dunque   il 

destino   stesso   ad   imporre   di   convivere   con   il   proprio 

fantomatico “dark side”. A riprova di questo, “Eclipse” ancora 

una volta ribadisce che “ogni cosa sotto il sole è in sintonia, ma 

il   sole   è   eclissato   dalla   luna…”.   Lungi   da   un   discorso   di 

spazialità concreta o fantascientifica, la cinesi dei Pink Floyd è 

evidentemente   interna.   Volendo   estremizzare   il   discorso, 

l’intera   opera   discografica   del   gruppo   elude   il   concetto 

occidentale di “dissociazione”, rintracciabile da Platone in poi. 

Spazio   interiore   e   cosmico   sono   due   facce   della   stessa 

medaglia. Come il sole e la luna, o la luna medesima nei suoi 

due lati. Spunti interessanti a proposito derivano dall’analisi 

storica del Buddismo coreano di Chont’ae (1055­1101).

Non raro è d’altra parte rilevare l’interesse per il buddismo in 

risposta alla voglia di fuga da un tipo di società alienante e 

tecnocratico   ;   già   Jack   Kerouac,   in   The   Dharma   Bums   (I 

vagabondi   del   Dharma,   1958),   evidenziava   seppur   in   modo 

personale la sua adesione alla filosofia Zen. Il discrimine tra 

ricerca spirituale e decadenza alcolica in questo caso si è però 

fatto molto labile ; la compentrazione tra il fenomeno beat, la 

psichedelia   (e   conseguentemente   il   clima   lisergico)   è 

ampiamente  comprovata,  ma c’è  da dire  che al   contrario  di 

tanti “eroi” di quegli anni, i Pink Floyd non ebbero il coraggio 

di   premere   il   pedale   dell’accelleratore   fino   in   fondo   ed 

immolarsi tali, imboccando per tempo il bivio della defluenza. 

O forse fu semplicemente un’intuizione,una scelta,guidata da 

una   non   totale   appartenenza   che   consentì   una   “fuga 

centripeta”   piuttosto   che   l’emorragia   verso   i   paradisi 

artificiali.   Quella   “energia   allo   stato   puro”   così   vivamente 

espressa  dal  protagonista di   “On The Road”   (Jack Kerouac, 

1957),   non era forse priva di meta ? Non si doveva, per detta 

dello   stesso   Kerouac,   “arrivare   in   qualche   punto,   trovare 

qualcosa”   ?  Si   tratta  del   medesimo   “saldo   centro   interiore” 

mancante,   che   indicava   Julius   Evola   nella   sua   critica   alla 

figura   del   beatster.   Inizialmente   attratto   dalla   carica 

anarchica   ed   antisociale   di   una   tale   figura   proto­

rivoluzionaria,   egli   ebbe   modo   di   appurarne   per   tempo 

l’inconsistenza,   nonché   il   rischio   dello   smarrimento   nelle 

illusioni   neo­borghesi.   Kerouac,   già   a   partire   dalla 

pubblicazione di Big Sur (1967) è in grado di accorgersi della 

contraddizione, con il sopraggiunto successo paradossalmente 

alimentato dall’underground protestatario. Forse i Pink Floyd 

erano   diversi,   puntavano   fin   dagli   inizi   su   altri   lidi,   con 

strumenti affini ; la direzione è invertita ; la ricerca collassa 

su   se   stessa,   attorno   ad   un   punto   ancora   fuggevole   ma   in 

perenne via di definizione. E la nuova percezione del viaggio 

non   ha   più   a   che   fare   in   maniera   pedissequa   con   il   trip 

psichedelico, già dal secondo disco “A Saucerful Of Secrets” del 

1968.   Se   lo   stile   disturbato   delle   composizioni   Barrettiane 

trovava un parallelo e similare riscontro nelle forme esplosive 

e sperimentali della prima prosa della Beat Generation, con i 

suoi “stacchi” e i suoi “frammenti”, la linearità ora plumbea, 

ora solare del tempo a “quattro quarti lento” dei nuovi Floyd, ci 

guida   attraverso   dei   testi   che   a   tutto   mirano,   fuorchè   ad 

allontanarsi   da   un   indefinibile   fulcro.   Insomma,   una   fuga 

centripeta.

VERSI

Etereo pensare nel rosa dell'aria

che avvolge la vita nel manto del corso

ed intimo ardore sovrasta il rimorso

che invade l'ebbrezza della memoria

Sulfureo vagare nel cielo di gloria

stringendo le stelle del tempo trascorso

antico calore offre un gravido sorso

vivendo nel sole di un'immensa storia

 

Le ombre decise del male

si smaltano d'aureo piacere

brillando nel nuovo presente

 

Va via in un bisogno vitale

l'oblio di parole sincere

riempiendo di gioia la mente

(2)

Se posi il tuo sguardo più ingenuo nel vero

il vago che grida

dal cuore

s'innalza

ma il senno ed il tedio del senso

rimbalza

tra spazi di mente dipinti di nero

(MEMENTO)

le notti d'estate

così eterne

così erotiche, così

totali

memori di un passato

che si estende oltre se stessi

che appartiene ad esperienze

pensieri, talora è il passato degli

oggetti, di ciò che sarebbe potuto essere e non

è stato

e di ciò che

è stato

quelle stelle, sempre immense e rilassate

ne sono consapevoli

forse più degli uomini

la luna

talvolta accesa, altre volte

vivacemente caldamente

fredda, sembra invitare i pensieri

a correre

verso lidi dimenticati, pregnanti, insondabili

dalla finestra il suo disco appare

permeato da un alone che

come un'immaginaria bussola

orienta la mente al ricordo

così forse si svela l'essenza di questo grandioso e inarrestabile 

flusso che chiamiamo vita

ripartire ogni volta dal cuore

setacciare i frammenti d'esistenza, discernere

sospirare

così

totali

le notti d'estate

sospirare

respirare odori di prati e alberi

di strade intinte di luce fioca

ancora alberi, cani che abbaiano

e quando si è via

odori diversi, talora

opposti

eppure uguali

sotto il cielo d'estate

così totale

il mare, l'amore

la brezza, gli amici, ebbre

di quello che fu

le ore notturne

si perdono

in attesa di nuove epifanie

quello che saranno, le notti

è dunque in parte già scritto

il mare il terrazzo giacciono prima

ed ora sotto l'unico cielo

così eterno

un motore in lontananza, rumori, musica

la gente parla, si muove, sorride

quanti cuori rapisce la notte d'estate, risate

vedo

mi perdo

grazie

Morale sotto i tacchi

Ho   come   l’impressione   che   si   stia   tuffando   nel   mondo   pseudo­

borghese e questo stia succedendo prima del previsto. Che poi, non è 

mica obbligatorio andare a  finire così.  Del  resto nemmeno  lui   lo 

voleva.  D’altra  parte,   lo   testimonia  quella  bandiera   rossonera  di 

fronte,   che   per   quanto   i   colori   non   mi   garbino   affatto   –   per 

motivazioni a me stesso ignote – giace anacronistica ancora lì. 

Non so nemmeno dove sia ora, è già  più tardi del solito. Tornerà 

grondante di birra come ai vecchi tempi? Se lo può concedere forse. 

Passo   la   maggior   parte   del   mio   tempo   ad   osservare   questo 

panorama   privato,   queste   mura   che   sono   teatro   del   rifugio 

esistenziale.   Perché   diciamocelo   chiaramente,   poveretto,   cosa 

dovrebbe fare? Vuoi forse dargli torto?  Quando l’unico rimedio alla 

squallidità   dell’eccellente   pelatone   diviene   un   piatto   di   spinaci 

scongelati e una birra del discount, allora capisco che non è il caso 

di puntarmi tanto con discorsi di principio sulla sua dimensione di 

neo­trentenne. Mai una donna, qui.

Eppure   se   qualche   giorno   mi   facesse   il   favore,   almeno   potrei 

osservare lo spettacolo dalla mia prospettiva privilegiata. 

Non sono certo un guardone, e se lo sono è perché si tratta della mia 

unica possibilità. In fondo io e lui ci assomigliamo un po’.   Con la 

differenza   che   io   non   mi   pongo   problemi   di   sorta.   Sono   un 

personaggio verghiano, sono nato dito piccolo e faccio da dito piccolo 

senza lamentarmi. Mi ritengo piuttosto fortunato, in questi tempi di 

precariato   esistenziale.   Comunque   vada   io   sarò   qui   e   potrò 

osservare la questione.

Eh, lo so.

Sto bene, non ho avuto molto tempo ultimamente.

Mi piacerebbe, dai, organizziamo prima o poi.

 …

Lo so che c’è  del  non­detto.  Vorrei proprio accendere quel pc per 

vedere dove si riversa il contenuto mancante di questa vita. Sono 

sicuro   che   la   vera   vita   non   è   da   quelle   parti.   Alla   fine   giace 

compressa   in  queste  quattro  mura,  nelle  pareti   sferiche  del   suo 

cervello e nei bit informatici di qualche documento o pagina di un 

blog.

Ma come cazzo sto parlando?

Non mi si addice proprio un’analisi così profonda delle personalità 

umane. Sto facendo da dito grande. Mi sto contraddicendo, diamine.

Non   ci   vediamo   tanto   spesso,   se   devo   essere   onesto.   Mai   la 

domenica.  Ancora  una  volta  non   so  dove  vada,   che   si   dedichi   a 

qualche   rigenerante   passatempo?   O   sia   preda   di   una   mediocre 

abitudine italica? Anche in quel caso, però non mi sento in grado di 

elargire giudizi negativi, di sputare sentenze.

Generalmente   i   giorni   in   cui  un   odore  di   alcool   e  doppio  malto 

invadeva l’etere sopra di me erano il mercoledì e il sabato. 

Pluc.

Pluc.

Bip.

Solo dieci anni fa abitavamo da un’altra parte. Lui non era solo, ma 

ancora con la famiglia. Quando è venuto qui ho deciso di seguirlo, 

era così  carico di buoni propositi. Il  tipico entusiasmo gaio di chi 

intraprende una nuova esperienza, convinto di avere di fronte a se 

le infinite vie di indipendenza ed autogestione. I soldi arriveranno, 

nel frattempo ci arrangiamo con un pacco di spinaci surgelati. Le 

giornate sono quasi tutte uguali ormai.

Dicevo, dieci anni fa accendeva ancora il suo 486 Dx4 100 (già  in 

parabola   più   che   decadente)   e   metteva   su   il   buon   vecchio 

ZakMcKracken.  La  stanza  di  Zak era   simile  a  questa.  Manca   il 

pesce nella boccia, e le assi sconnesse sotto il  tappeto. Ma quella 

finestra che dava su San Francisco, facendo immaginare tutto ciò 

che si sarebbe potuto fare e non si poteva fare, quella finestra è una 

stretta   parente   di   questa.   Per   fortuna   mancano   quegli   orribili 

grattacieli,   ma   l’incidenza   della   luce   solare   origina   lo   stesso 

continui sospiri.

Dietro di me, finalmente la serratura rumoreggia.

Che sia la volta buona?