arbeit macht frei
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ARBEIT MACHT FREI
Storie di una Taranto non detta.
L’industria. I cittadini.
I tumori. I bambini.
Di
Memorie di una Vagina
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“E certo che mi dispiace per i miei cugini, per i giovani, per chi aveva scelto un compromesso pur di non lasciare la propria
terra e la propria famiglia, facendo un lavoro tecnicamente di merda, per non andare, per esserci, per lo stesso amore che
provo io per quella città immonda, ormai così lontana.
Mi dispiace per tutte queste persone. Ma mi dispiace molto di più per chi non c‟è più.
E ciò che preferisco pensare, in realtà, è che ci sarà crisi ma che attraverso la crisi si cresce.
E, se vale per gli individui, può valere anche per la collettività.”
Cosa mangiano i signori? Facciamo un antipastino misto per tutti? Melanzane a funghetto, polipo alla Luciana,
uccelletti, arancini, crocché, ricotta fritta, mozzarelline, pomodorini sottolio, peperoni ripieni, funghi,
panzerottini, cozze al gratin?
Lavoro al Ristoro Basile Liuzzi di Taranto, in Via Pitagora, da trent‟anni. Qui facciamo solo due settimane di
ferie all‟anno: la settimana di Natale e quella di Ferragosto. Per il resto, si lavora sempre. Siamo accanto
all‟unico teatro di Taranto, il Teatro Orfeo, e io qui ho visto passare un sacco di attrici, certe pure bellissime.
Comunque nella sala dentro c‟è un quadro con tutte le foto che Gino si è fatto con i personaggi famosi. Ma
capiamoci, qua non è uno di quei ristoranti tutti eleganti, dove si spende assai e si mangia male. Qua è tutto il
contrario.
Infatti siamo famosi, a Taranto. Specialmente per la nostra ricotta fritta. Secondo me, poi uno può pure dire
che sono di parte, è la migliore ricotta fritta non solo di Taranto, ma di tutto il mondo. È che la facciamo
come la faceva la signora, che ora è morta, buon‟anima. La signora era la moglie del proprietario e a noi ci
ha presi che eravamo poco più che piccini, che io ho iniziato giovanissimo a lavorare qui, che sono l‟ultimo di
4 fratelli, abitavamo in fondo a Via Crispi, noi, e quando mio padre è morto abbiamo dovuto darci tutti da fare.
Mò c‟ho due fratelli miei che stanno all‟Ilva, uno è entrato in Marina e io, che andavo all‟istituto col figlio della
proprietaria, lavoro qui che è una vita. Qua è come una famiglia. Sia noi che lavoriamo, sia i clienti, che sono
affezionati e vengono da anni e anni, che poi si crea rapporto, no? Un‟amicizia quasi. Si parla. Che vengono
qui e mi trovano sempre, sono come una certezza, no? Sono il cameriere di fiducia. Ahah. Certi mi hanno
pure fatto un pensierino, quando hanno saputo che era nata Ilaria, mia figlia.
La signora a noi ci ha insegnato tutto. Quando c‟era lei avevamo mezzo menù solo di cozze. Le faceva in tutti i
modi. Non si capiva, quante ricette sapeva. Le faceva bollite, le faceva a zuppa, le faceva con il pepe. Le
faceva con la pasta e i pomodorini, in bianco, no? Oppure le faceva con la salsa, i tubetti si fanno con la salsa
e le cozze. E poi le faceva al vino, oppure i cavatelli con i fagioli e le cozze. E poi le faceva gratinate nelle
terrine ma, soprattutto, faceva un riso patate e cozze che se ne andava la luce per quanto era buono. Poi
abbiamo iniziato a fare pizzeria e sono diminuiti questi piatti, che erano assai lavorati. Adesso facciamo
soprattutto le cozze gratinate, che poi è un problema, ora, con la storia della diossina, le persone non le
mangiano oppure ci chiedono che cozze sono. La gente sta spaventata, giustamente adesso che lo sanno che
ci hanno avvelenato tutto, pure le cozze, stanno più attenti. Che poi, io mi rendo conto che l‟industria è
normale che inquina, perché non ce ne stanno ciminiere che ci escono i petali di fiori, no? Però pure così non
va bene, che noi dobbiamo prendere le cozze dalla Spagna e i nostri allevatori devono buttare tutto e morire
di fame, perché questi ci hanno rovinato qualsiasi cosa e hanno buttato lo schifo nel nostro mare. Non è
buono così. Mò, l‟ho detto, io c‟ho 2 fratelli miei che stanno dentro all‟Ilva, quindi non è che me ne frego o non
mi rendo conto del problema che si crea se chiude, però io tanti anni fa non ho nemmeno voluto tentare di
entrare là dentro. Non mi è mai piaciuto. Non era per queste industrie che doveva essere Taranto e io non
ero un tarantino fatto per l‟industria. A me piace parlare con la gente, offrire qualcosa di buono con il mio
lavoro. A me piacciono le persone, mi piace starci a contatto, ascoltare le confidenze. Come quel film, no,
quello con, come si chiama, quello, Di Niro che guida il taxi. Noi camerieri, a volte, quelli che c‟abbiamo la
vocazione, siamo come Di Niro: ci passano davanti un sacco di cose e, se vogliamo, noi possiamo leggere
tantissime storie sulle facce di chi si siede ai tavoli. E che cosa te ne devi fare di Biùtiful!
Lì, in fondo, per esempio, lo vedete quel signore con la barba che mangia da solo? Quello è un vecchio
professore di italiano, lo conosco che sono 15 anni. E al tavolo affianco c‟è quel gruppo di amici, no? Li vedete,
sì? Quelli sono i fratelli Lupo con il loro gruppo. A destra, invece, ci sta la Dottoressa Conte, che è una
pediatra assai brava e assai famosa qua a Taranto, pure io c‟ho portato la mia piccina, che poi a me mi
conosce, però è proprio in generale una brava cristiana. Al tavolo vicino, invece, quello con il passeggino, ci
sta Peppe detto Cristo, con la moglie e il bambino. Dietro di loro, ci sta Franco Forza John, che vive sui
Tamburi, però ogni tanto viene qua a mangiare, con un amico. E, invece, qui alla mia sinistra, ci sono i Fusina
al completo: padre, figlia e figlio. E la cosa incredibile è che tutte queste persone c‟hanno qualcosa in comune
o, in qualche maniera, si conoscono.
***
I FUSINA
I Fusina prendono sempre antipasto misto e frittura di pesce. Anna, la madre di Andrea e Doriana, la moglie
di Riccardo, si faceva sempre fare una frittura di pesce, ma solo con gli anellini, i calamari piccolissimi e
tenerissimi, che le si scioglievano in bocca come burro. E poi prendeva sempre lo spumone, o “pezzo duro”,
che era questo dessert di gelato e pan di spagna e canditi e uvetta e cioccolato, fatto in casa e congelato.
Andrea continua a prendere lo spumone ogni volta che va a cenare lì. Doriana, che è notoriamente
logorroica, si ammutolisce. Riccardo, che è un uomo distinto, ex dirigente in pensione, con i capelli grigi, i
baffi e gli occhiali, sempre vestito di tutto punto con una copia de La Repubblica sotto il braccio, tiene la
conversazione e, per esorcizzare, parla di Anna. Racconta ai figli quando, prima che loro nascessero, lui e la
madre andavano a cenare lì, che c‟era Mimmo, il cameriere, che già ci lavorava ed era nu uagnungidd.
Riccardo racconta che una sera, tornando a casa, passarono davanti al cinema e si fermarono a vedere un
film con Nino Manfredi e Mariangela Melato che si chiamava “Lo chiameremo Andrea”. E decisero così,
Riccardo e Anna, che il loro primogenito, fosse stato maschio, si sarebbe chiamato Andrea. Andrea sorride,
mentre il padre racconta storie già sentite, e i suoi occhi piccolissimi da consumatore abituale di
stupefacenti si strizzano. Poi si mangia un‟unghia e fa un sospiro, senza rispondere nulla e, come sempre
avviene quando si parla di sua madre, tutto svanisce, persino la sua edizione limitata del vinile del „70ecazzi
dei King Crimson sovrapagato su eBay, persino il minimoog che non sa suonare, persino la vacanza a Ibiza
per cui sta per partire come ogni anno da 8 anni, tutto svanisce, ogni singola inutilità con la quale rimpinza la
sua quotidianità scompare, nel ricordo di sua madre.
Doriana li ascolta in silenzio e interviene, a un certo punto, per chiedere al padre se gli piace come si è
sistemata i capelli. Doriana, che ha 27 anni, ha gli occhi verdi e un look curatissimo da Janis Joplin civilizzata.
Prima di uscire ha bisogno di circa 3 ore di preparativi, ascolta musica rock e tende ad innamorarsi
esclusivamente dei musicisti. Ha un sacco di paure, un bisogno costante di rassicurazione e nessuno che la
rassicuri. Ha una complessità che suo padre e suo fratello non possono comprendere e in ogni sua risata, in
ogni suo sguardo, in ogni smorfia del suo volto, c‟è tutta la tenerezza di chi dentro è spezzata a metà. Di chi
ha lo spirito zoppo. Di chi sa che in tutto il bello che la vita le riserverà, sua madre non potrà esserci.
Anna è morta 7 anni fa di tumore ai polmoni. Se n‟è andata in 1 anno e mezzo, in un giorno caldissimo di fine
giugno, a 49 anni. Al funerale la chiesa era affollatissima. Doriana piangeva senza posa. Andrea era
compostissimo, con un paio di occhiali da sole con le lenti nerissime di John Richmond. A fine giornata,
Andrea andò con i suoi 2 più cari amici ai Barconi, una piazzola scoscesa sul Mar Piccolo, sotto il Parco
Cimino, che allora era un posto ideale vicino la città, per andare a fumare o per andare a fare l‟amore. Con
tutti i colori della notte industriale che si riflettevano sull‟acqua e i pali delle cozze che spezzavano i fasci di
luce, e il silenzio, e il paradosso, e il fumo, e la musica dell‟autoradio, e le solite chiacchiere sulle solite
stronzate per fingere che, in fondo, nulla fosse cambiato.
Solo dopo due settimane Andrea riuscì a piangere per la morte della madre, dopo averla sognata.
Ad oggi, non è in grado di ascoltare Buonanotte Fiorellino, che Anna gli cantava da bambino per farlo
addormentare, senza piangere.
I FRATELLI LUPO
Federico ha 16 anni ed è il più giovane dei fratelli Lupo. Vito, il maggiore dei 3, che ha una verve degna di un
bradipo sotto sedativi, si sta laureando in Lingue e Letterature Straniere a Lecce, mentre Luigi fa l‟Ozzy
Osbourne dei poveri, a Bologna. Accanto a loro c‟è Sergio, che è il miglior bassista di Taranto e, ai tempi della
scuola, Luigi e Sergio erano nella stessa band, gli Skolopendrae, uno dei casi musicali più dimenticati della
città.
Al tavolo ci sono anche Stefania, Chiara, Giorgia e il suo uomo, Michele. Stefania è una soprano, laureata in
lettere che lavora in un call center ma, essendo una brava venditrice, è diventata coordinatrice e se la
profuma manco fosse il CEO di Procter&Gamble. Chiara, che è un‟artista – si capisce perché ha fatto il liceo
artistico e perché ha la faccia da artista -, ha consumato la sua gioventù in costante bilico tra una manifesta
complessità psicologica e una presunta genialità creativa. Giorgia è una studentessa fuoricorso a Bari,
grande divoratrice di libri, emotivamente e intellettualmente di sinistra, ha i capelli ricci e una risata
contagiosa. Michele, il suo ragazzo, lavora all‟Ilva, suona ed è impegnato nei comitati organizzativi di buona
parte delle serate indie del panorama tarantino.
Sono tutti amici di vecchia data, si sono conosciuti quando da ragazzini se la facevano in Piazza della Vittoria.
Perché ai loro tempi, per essere giovani a Taranto bisognava fare una scelta, ideologica e di territorio, tra le
uniche 3 opzioni possibili: a) essere cozzari e posizionarsi in Piazza Maria Immacolata, b) essere fighetti e
posizionarsi da Harnold‟s in Via XX Settembre, c) essere alternativi e posizionarsi in Piazza della Vittoria.
Solo che allora gli alternativi amavano definirsi punk, sostanzialmente perché indossavano le Gazzelle Adidas
al posto delle Hogan, fumavano le Pall Mall Blu o le Futura al posto delle Marlboro Light e perché facevano le
collette per comprare una tre quarti di Raffo a 60 centesimi. Decidere dove collocarsi ai tempi
dell‟adolescenza condizionava l‟intera crescita, poiché le suddivisioni sociali si perpetravano negli anni e, di
solito, quelli del gruppo A te li ritrovavi cresciuti a ballare al Cocomeros Club a San Vito, quelli del gruppo B
te li ritrovavi con il tavolo e lo champagnino alla serata danzante del Canneto o dell‟Oblò e quelli del gruppo C
te li ritrovavi al Gabba Gabba d‟inverno e al Surf Café d‟estate, ad ascoltare le performance di tutte le rock
band locali, sorseggiando Tennent‟s, segno di una consapevole evoluzione del gusto a sfavore della Birra
Raffo. Qualunque tipo di persona tu sia, a Taranto, negli anni dell‟adolescenza, devi scegliere dove
posizionarti. Il diritto all‟evoluzione e/o all‟involuzione resta sacrosanto, ma una banale scelta di territorio è
imprescindibile per la creazione di una socialità.
Federico, che è la mascotte del gruppo, è seduto a capotavola. Di Federico hanno sempre detto tutti che è il
migliore dei 3 fratelli Lupo. Quello più sveglio. Quello più sgamato. Di Federico hanno sempre detto tutti che
avrebbe fatto grandi cose perché era uno capace di adattarsi a ogni situazione, di badare a sé da quando era
piccolo, da quando sua madre s‟era ammalata ed era morta e da quando suo padre passava la giornata a
lavorare all‟arsenale.
I fratelli Lupo sono cresciuti in un piccolo appartamento in città, in centro, ma nella zona decaduta, che è ben
oltre la zona decadente. Federico è cresciuto in quella parte della città dove l‟umanità si taglia a fette e si
pesa un tanto al chilo, lontano dalle vetrine scintillanti di Via Di Palma dove la Taranto Bene va a comprare il
Refrigiwear o il Woolrich, in una città in cui l‟inverno medio è di 14°.
Federico vive ai margini del centro, in vicinanza periferica, e ogni mattina, all‟angolo tra la strada di casa sua
e Via Cesare Battisti, si pianta Ciro, che viene da Sava nella metropoli, con il suo tre-ruote, a vendere la
frutta. Ciro, che è alto e grosso, scuro in viso con una specie di monociglio che ha ricevuto dando in permuta
due sopracciglia normali, è un irresistibile ricettacolo per una gran quantità di vecchie signore con le
braccia grasse e le caviglie gonfie. Federico, ogni mattina, quando passa, saluta. Ormai lo conoscono tutti.
Sia Ciro che le sue vecchie signore.
I tre fratelli hanno sempre dormito tutti nella stessa stanza ed è per questo motivo che Federico a 9 anni
ascoltava i Ramones. Federico stravede per Sergio, che gli da lezioni di basso. A scuola è piuttosto bravo e
Vito, il fratello maggiore, ci tiene si iscriva all‟università ma Federico ha altri progetti: d‟estate aiuta il suo
amico James Tont, che fa il barista, e guadagna qualcosa da mettere da parte. Sta stipando i soldi per
pagarsi il biglietto per l‟Australia, dove vuole andare subito dopo il diploma. Vuole imparare a vivere, dice, in
un posto migliore, dice. E vuole tornare qui sapendo fare un mestiere e sapendo essere una persona fica. In
verità è anche innamorato di Alison, un‟australiana conosciuta l‟estate scorsa, in una notte umida alla Baia
del Pescatore.
Federico è il migliore dei 3 fratelli Lupo. È la mascotte del gruppo ed è seduto a capotavola con una t-shirt
nera con su scritto, in bianco, “Anger is an energy”, che Federico ci tiene a omaggiare sempre qualcuno sulle
sue t-shirt e questo era il giorno di Johnny Lydon. Ha un bracciale di pelle nera al polso, gli occhi castani con
le ciglia lunghe e in testa non ha più capelli per via della chemio.
Federico ha 16 anni. Suona il basso. Ascolta i Sex Pistols. Risparmia per comprarsi un biglietto per
Melbourne. È il migliore dei fratelli Lupo e ha un tumore alle ossa.
LA DOTTORESSA CONTE
Patrizia ha ordinato una margherita e ne mangerà solo mezza perché non ha fame. Il suo compagno,
Piernicola, invece ha ordinato un piatto di orecchiette mantecate, lo mangerà tutto e mangerà anche la
mezza pizza di Patrizia, con buona pace del suo nutrizionista che tenta, invano, di spiegargli che la sera non
deve assumere carboidrati.
Patrizia è tesa, tutti le hanno sempre detto che deve distinguere il lavoro dalla vita privata, che mischiare le
due cose non ha alcun senso, che portare a casa il malessere professionale danneggia i rapporti. E Patrizia
non ci crede nemmeno tanto nei rapporti. Con Piernicola è iniziata inaspettatamente, in un momento in cui lei
aveva ormai deciso di affrontarla da sola, la vita.
Patrizia è una piccola donna, secca e forte, con dei lunghi capelli lisci e biondi. È una che le cose le fa per
bene, ha la tempra di una combattente, la solidità d‟animo di un eroe epico, la spigolosità di una donna
autonoma e indipendente. Patrizia è tarantina. Anzi, di più. Patrizia è spartana. Starle accanto non è semplice
e lei questo lo sa. Ma, a 40 anni tondi tondi, sa anche che questo è il suo modo di essere e che snaturarsi non
è possibile. Patrizia è un medico, per tutti è la Dottoressa Conte. Patrizia è una pediatra. Nella sua vita ha
amato profondamente Stefano che – fosse stato vero che per ciascuno di noi c‟è una metà perfetta –
sarebbe stato la sua metà perfetta. Ma quello, come molti altri amori, è finito. È finito nel momento in cui
avevano deciso di avere un figlio e Patrizia ha scoperto di non poterne avere.
Patrizia è una pediatra e non può avere figli. Soffre di una grave endometriosi che invalida la sua femminilità.
Patrizia ha scoperto che esistono tante donne come lei, a Taranto. Le ha incontrate, ci ha parlato e insieme
hanno fondato un comitato cittadino che si chiama Mamme per Taranto. Alcune le ha conosciute in ospedale,
alcune le ha incontrate calcando le strade del quartiere Tamburi, dove si sente l‟odore del degrado mischiato
con la puzza dello zolfo, come se fossero diventati tutt‟uno, come se non fosse più possibile distinguere dove
finiscono le persone e inizia l‟industria, dove l‟umanità è condannata ad abbruttirsi e incattivirsi, con un
gigantesco cancro siderurgico cresciuto a ridosso delle case, delle scuole, delle piazze.
E Patrizia non ha apparentemente niente a che spartire con Angela, che ha 23 anni ed è sposata da 5 anni
con Fulvio, e già sa che non potrà avere figli. Patrizia, che ha un appartamento al sesto piano in Corso
Umberto, di fronte al liceo scientifico che ha frequentato da ragazzina; Patrizia, che ha una relazione con un
avvocato che indossa un Jackerson color ghiaccio, una camicia Ralph Lauren e delle scarpe Santoni, mentre
si ingozza di orecchiette mantecate, non ha nulla a che spartire con Angela che, invece, ha i capelli raccolti
con una pinza e un incisivo mancante, che ai piedi indossa delle infradito Inblu e sulle unghie ha i residui di
una vanità smaltata. Patrizia non ha nulla a che spartire con Angela e con le altre donne che ha incontrato al
quartiere Tamburi, eccetto il fatto che molte di loro non riescono ad avere figli perché l‟esposizione alla
diossina ha aumentato incredibilmente l‟incidenza e la gravità delle endometriosi. Sono tutte vittime dello
stesso carnefice, in una grande fossa comune, nella quale si mischiano infertilità e cancro, asma e leucemia,
uomini e donne, vecchi e bambini, ricchi e poveri, senza discriminazione. Mentre lì, sull‟orlo di questa
voragine, di questo buco nero che inghiotte civiltà e legalità, si intravedono le sagome lugubri di chi su
queste vergogne ci si arricchisce, di chi questi crimini li foraggia, dei conniventi, dei correi, dei venduti. Di
persone la cui coscienza è stata amputata come un‟escrescenza nel momento in cui, per la prima volta,
hanno venduto la salute della popolazione al favore del Grande Padrone.
Sindaci, politici, oratori, meretrici ed ecclesiasti avrebbero dovuto passare una settimana nel reparto di
pediatria dell‟Ospedale Nord di Taranto, pensa Patrizia. Tutto il giorno. Ventiquattro ore al giorno. Obbligati
alla veglia. Ad assistere. A partecipare al dolore che hanno contribuito a creare e perpetrare. E poi,
sarebbero stati liberi di togliersi la vita, di suicidarsi per la vergogna, per la ferocia, per l‟abominio di cui si
sono resi colpevoli.
Patrizia non ha fame. Mangia meno di metà pizza. Ogni volta che pensa queste cose, lo stomaco le si chiude. E
oggi è incazzata, come sempre e più di sempre. Perché, ormai da anni, ha imparato a convertire la
disperazione in rabbia e la rabbia in forza. Perché lei sa quanta ce ne vuole, di forza, a guardare negli occhi i
bambini malati di leucemia del suo reparto, pensando che non diventeranno mai adulti, che moriranno prima,
che soffrono come nessun bambino dovrebbe soffrire mai. Lei sa cosa significa incontrare ogni giorno
bambini che hanno patologie tipiche degli 80enni ex fumatori.
Patrizia conserva da anni i disegni che fanno i suoi giovanissimi pazienti e medita, prima o poi, di esporli, al
Nord, in una di quelle belle cittadine pulite, dove il fetore di tutto questo letame politico e industriale non
arriva, non si sente. E pensa pure, Patrizia, prima o poi lo farà, di tapezzare nottetempo tutta Taranto, con
quei disegni, scrivendoci in calce il nome di quel bambino e quanti anni aveva quando è morto. Patrizia vuole
tappezzare tutta la città. Tutti i portoni. Tutti i lampioni. Tutte le case abitate da chi continua a turarsi il naso,
a far finta di niente, a pensare che sia normale, o giusto, o accettabile, o comprensibile, o trascurabile, un
certo numero di morti per il PIL nazionale.
Patrizia ama i bambini. Non può averne. E li ama. E lei, da questa città, non se ne andrà mai. Perché c‟è una
battaglia da combattere. C‟è la giustizia da pretendere. Perché domani salirà sul palco a una manifestazione
in occasione della visita dei Ministri Clini e Passera. Parlerà.
E, per qualche minuto, chiunque ascolterà il grido umano che si leverà dal palco, proverà sulla pelle gli stessi
brividi con cui lei convive da anni.
FORZA JOHN e FASULINO
Franco detto Forza John è un personaggio piuttosto noto a Taranto. Non è dichiarato a cosa debba la sua
fama, genericamente viene definito “traffichino”, che è un appellativo dal valore discutibile, a metà tra la
persona sveglia e il disonesto. È uno di quelli che conosce tutti, che sa i fatti di tutti, a cui chiedere favori, a
cui fare favori. Profondo cultore dell‟arte dell‟arrangiarsi, è ragionevole supporre che abbia vissuto con il
sussidio di disoccupazione e qualche lavoretto in nero, anche al limite del malaffare. Adesso di anni ne ha 60,
è sposato con Teresa e, da sempre, vivono sui Tamburi. Sono nonni di Luca e Carmela e ogni tanto li tengono
a casa, perché la figlia, Gabriella, va a fare le pulizie da certe famiglie in centro, dove prende 8 euro all‟ora,
in nero. Però sono brava gente, racconta Forza John a Fasulino, quindi Gabriella si trova bene e per loro, lui e
Teresa, non è un problema tenere i bambini a casa.
L‟unica cosa, spiega Forza John – che deve il suo soprannome al fatto che da giovane assomigliava a un
fumetto dell‟epoca – è che quelli, Luca e Carmela, quando stanno con la madre, sono abituati a uscire a
giocare fuori, che loro stanno alle case popolari in Via Dante. Mentre i nonni, sui Tamburi, non possono farli
uscire a giocare, l‟hanno detto i dottori e l‟ha detto pure il Sindaco.
Fasulino non sa di cosa stia parlando Forza John, allora lui gli spiega che un paio di mesi prima a tutte le
famiglie residenti sui Tamburi era stata inviata una lettera che raccomandava di non far uscire i bambini da
casa, a giocare all‟aria aperta e che, nel caso fossero usciti, avrebbero dovuto sostare sulle aree
pavimentate e assolutamente non giocare sul prato delle aiuole. Inoltre, una volta rientrati a casa, i bambini
avrebbero dovuto fare la doccia e lo shampoo e i loro vestiti avrebbero dovuto essere lavati
immediatamente. E quindi, spiega Forza John, mentre arriva un bel piatto di spaghetti allo scoglio e lui inizia
a mangiare e continua a parlare, e mastica, e parla, e mastica, e ingoia, e parla, Franco Froza John spiega
che il problema è che quando Luca e Carmela stanno dai nonni sui Tamburi, non possono proprio uscire in
mezzo alla strada, che poi chi è che li deve sistemare. E non è che Gabriella ogni volta può portare i vestiti di
ricambio per tutti e due. E che le cose stanno così e d‟altro canto bisogna sapersi adattare, perché nella vita
chi si adatta sopravvive. Tutti gli altri no.
Fasulino, ascolta. È un amico di vecchia data di Forza John e deve il suo soprannome alla sua fisicità, alta e
longilinea, che ricorda, per l‟appunto, la forma di un fagiolino. Fasulino è più giovane di Forza John, era il suo
galoppino quando erano ragazzi, quello che gli sbrigava un po‟ di commissioni. È uno che la galera l‟ha
rischiata qualche volta, per fare certi favori a certi amici. Poca roba. Fasulino è stato un delinquentello.
Niente di più. Spaccio spiccio, dice lui. Per tirare a campare. Perché Concetta, sua moglie, c‟ha un asma che
non può fare niente. Non per dire, ma c‟aveva un tumore alla pleura, Concetta, e le hanno portato via mezzo
polmone, quindi adesso, appena si muove, fatica a respirare. E a lui il sussidio non basta. Però non si è mai
inzivato a fare mestieri brutti, ci tiene a precisarlo. Si è sempre tenuto, per così dire, su un certo tipo di
microcriminalità eticamente sostenibile. Abita alla Salinella, Fasulino. Che la Salinella tutti dicono che è un
postaccio, però lui ci si trova bene. Secondo lui non è mica così brutto. I bambini giocano al pallone e
nessuno li disturba, e poi è vicino allo stadio e la domenica, dopo pranzo, ci mette poco proprio lui ad
arrivare ai cancelli. Vive là da 20 anni. E gli sta bene. Fa il suo lavoro e nessuno interferisce. Si definisce un
gentiluomo. Non è mica uno che opera in mezzo alla strada. No, no. Innanzitutto per arrivare a lui ci vogliono
delle referenze. In secondo luogo, lui è solo un tramite tra i grossisti e i consumatori. Però è uno
indipendente. Lui non pesta i piedi a nessuno e nessuno li pesta a lui. E ciò che fa, gli viene concesso perché
tutti nell‟ambiente conoscono la sua situazione e perché Fasulino è un bravo figlio che si è sempre prestato,
da ragazzo, quando c‟era da prestarsi.
Fasulino è uno che accoglie i clienti in casa sua, quando vanno a comprare l‟erba, o il fumo, o la cocogna. Vive
in una palazzina di 2 piani con l‟intonaco della facciata che viene giù a pezzi e gli avvolgibili verdi scoloriti da
un cinquantennio di sole battente. Fasulino vive al primo piano e, da aprile a ottobre inoltrato, ha sempre la
finestra del soggiorno aperta. Quando si arriva è sufficiente fischiare dalla strada che lui ti sente e ti chiede
di identificarti, senza affacciarsi, stando ancora seduto in poltrona, davanti alla tv. Poi ti invita a salire, che il
portone è aperto. Più precisamente, il portone è rotto, non si chiude più, da anni.
Fasulino, quando riceve i suoi ospiti, li accoglie in cucina, li fa accomodare, prende il bilancino e accende il
caffé, mentre in pantofole, canottiera e bermuda si trascina nello sgabuzzino a prendere il necessario. Al
collo c‟ha una collana d‟oro con appeso un ciondolo di Padre Pio, a cui è devoto, e un corno. Messi insieme. Il
sacro e il profano. La fede e la superstizione. Mentre il caffé viene fuori da una moka che sembra un
residuato bellico, Fasulino prepara la merce per il suo cliente. Poi prende due tazzine di dubbia igiene dalla
credenza, chiede quanto zucchero, versa, mescola con lo stesso cucchiaino per entrambe le tazzine e porge
il caffé all‟ospite, che non ha alcuna possibilità di rifiutare. Il caffé è bollente, Fasulino afferra la tazzina
alzando il mignolo, che ha l‟unghia più lunga, ci soffia un po‟ dentro e poi inizia a berlo a piccolissime dosi, ma
con una specie di risucchio che dovrebbe servire a non bruciarsi.
Bisogna trattarla bene, la gente, dice Fasulino.
Dopo che Forza John ha parlato di questa ordinanza per il quartiere Tamburi, Fasulino racconta, a proposito
di bambini, che il problema non è mica solo per chi vive in quel quartiere. Che pure suo nipote, che sta in
centro, in Via Cavallotti, sta passando un brutto quarto d‟ora. Perché al figlio, che è nato 5 mesi fa, hanno
scoperto un tumore cerebrale e qui nessuno è capace di curarlo e forse devono andarsene al nord, da
qualche parte dov‟è che ci sono le strutture che queste situazioni possono gestirle. Però è un problema. E i
soldi non abbastano mai.
Hanno ordinato i calamari ripieni.
Brutta storia, dice Forza John, con la bocca piena. Brutta storia, ribadisce Fasulino. Poi chiedono a Mimmo di
portare un‟altra Raffo, che a Taranto, al Ristoro Basile Liuzzi in Via Pitagora, non importa che si mangi carne
o pesce, si beve comunque Raffo.
Tra una disgrazia e l‟altra, i due iniziano a parlare dei vecchi amici, dei ricordi di quando erano ragazzi.
Ridono. E più ridono più la loro parlata si stringe in un dialetto serratissimo e musicale, genere noise
prevalentemente.
Forza John ancora non lo sa, ma ha un tumore al colon.
E l‟anno dopo, a quella rimpatriata, lui non ci sarà.
CRISTO
Cristo a Cristo non ci assomiglia più. Però, quando era più giovane, che aveva i capelli lunghi, con la barba,
con il suo incarnato chiaro e i suoi occhi cervoni, pareva proprio Gesù Cristo. Per questo motivo lo chiamano
ancora tutti così. Anche ora che i capelli ce li ha corti. Anche ora che si fa la barba ogni mattina.
Cristo vive in una bella villetta a Lama, sul mare, in uno di quei quartieri in cui una gran quantità di famiglie
tarantine si è trasferita negli anni novanta per allontanarsi dalla città e inseguire il sogno preconfezionato di
un modello anglosassone di vita, con le villette a schiera e i prati all‟inglese.
Cristo è cresciuto a Lama e da ragazzino, con i suoi amici del quartiere, al sabato, andava a mangiare la
puccia da Poldo, che c‟era pure la messaggeria.
Poldo è il fiore all‟occhiello di Lama. È un pub famoso in tutta la città per l‟abnormità delle sue pucce. Le
pucce sono dei panini rotondi, grossi, fatti con la pasta della pizza e rimpinzati di qualunque genere di
amenità. La puccia preferita di Cristo è sempre stata quella con uccelletti, patatine e maionese, dove con
uccelletti si intendono pezzi di scamorza avvolti nel prosciutto crudo e cotti nel forno. In città sono circolate
sempre una marea di leggende metropolitane sugli standard igienici di Poldo e anche sulle sue materie
prime, tra le quali si annoverava persino la carne di cane randagio. Maldicenze messe in giro dalla
concorrenza che hanno solo temporaneamente influito sugli affari, senza cancellare mai il fascino mistico e
leggendario della Puccia Poldo, la puccia più grande di tutte, la puccia che pochissimi esseri viventi, mezzi
uomini, mezzi idrovori, sono riusciti a finire nella storia dell‟umanità.
Quando è cresciuto, Cristo ha iniziato sempre meno a frequentare Poldo. I suoi amici più grandi hanno preso
la patente e, di conseguenza, sono entrati in quella peculiare fase della vita da neopatentati per cui al
weekend si percorrono minimo 50 km per andare nei paesi più improbabili a fare niente. Solo dopo, Cristo ha
iniziato a frequentare Piazza della Vittoria e lì ha conosciuto Giulia, che aveva i capelli rosso rame e si faceva
chiamare da tutti Juls.
Juls, ha un sorriso largo e bianco e un leggero strabismo. Lavora online, traduce materiali testuali e tecnici
per i suoi clienti. Vive a casa di Cristo, a cui ha dato un figlio da un anno e mezzo.
Cristo, invece, lavora all‟Ilva. È entrato da operaio e adesso lavora negli uffici, perché è uno che sa
smanettare con i computer ed è uno che non ha mai dato problemi. Ogni tanto qualche giorno di malattia, ma
per il resto, tutto liscio.
Mimmo si avvicina al loro tavolo per prendere gli ordini e chiede a Cristo se sta in ferie, che lo vede assai
abbronzato. Cristo risponde di no, che non è in ferie, che il sole lo sta prendendo sulla Statale a manifestare
con i suoi colleghi, perché il lavoro prima di tutto, dicono, i suoi colleghi. Perché il lavoro prima di tutto, ha
detto lui, da un mese a questa parte. Perché un uomo senza il suo lavoro cos‟è? Perché la sua famiglia,
perché Cristo, Juls e Robertino sono una famiglia anche se non c‟è stato un matrimonio, come la campa?
Perché proprio ora che aveva trovato una sua stabilità e gli pareva che la sua vita adulta fosse ben avviata,
proprio ora, cosa può fare?
Cristo ha occupato la Strada Statale 106 per Reggio Calabria, con gli altri operai. Cristo ha bloccato
l‟accesso a Taranto. Cristo ha difeso il suo padrone, ha mangiato il suo pranzo al sacco, ha bevuto la sua
acqua, ha raccontato alle telecamere che se Taranto è inquinata non è solo per colpa dell‟Ilva. Cristo ha
spiegato che c‟è anche l‟Eni, c‟è anche la Cementir, c‟è un territorio che vive solo grazie all‟industria, che non
si possono lasciare per strada 12.000 famiglie, più tutto l‟indotto. Che il territorio tarantino, in un momento
storico e sociale così difficile, non può affrontare una simile crisi. Che le fasce sociali più deboli vanno
tutelate. Che chiudere l‟Ilva significherebbe andare incontro a un disastroso incremento di criminalità. Cristo
ha spiegato che se gli operai perdono il lavoro, la depressione si abbatterà su tutte le altre attività locali.
Cristo ha raccontanto che si può bonificare, anche se Cristo non lo sa come bonificare, anche se nessuno lo
sa come bonificare, anche se nessuno ci crede che si possa bonificare, anche se nessuno pensa davvero che
innalzare una barriera di 20 metri intorno allo stabilimento permetterà alle polveri sottili di non diffondersi
più nell‟aria, anche se nessuno pensa che drenare il Mar Piccolo possa rimuovere l‟inquinamento di 50 anni
di attività industriale spregiudicata.
Cristo ha occupato la Strada Statale 106 per difendere il suo diritto al lavoro.
Cristo ha saputo da 2 ore che il suo collega e amico Tonio, detto Mustafà, con cui è cresciuto, che conosce
dai tempi delle scuole medie, della messaggeria da Poldo, dei pomeriggi sulla scogliera a fumare le prime
sigarette di nascosto, delle prime tresche con le prime ragazze, il suo amico e collega, che ha iniziato
insieme a lui a lavorare all‟Ilva, ha il cervello pieno di metastasi.
Cristo ha appena saputo che i medici hanno dato a Tonio, detto Mustafà, 35 anni, massimo altri 3 mesi di vita.
Cristo non riesce a parlare. Guarda Robertino, seduto sul seggiolone. Guarda Juls. Ascolta Mimmo, il
cameriere, complimentarsi con Juls di come sta crescendo bello il piccolo, benedica. E si sente sempre più
lontano da sé. Sempre più rarefatto. Come se stesse uscendo dal suo corpo e stesse guardando la scena
dall‟alto. Pensando che la linea che divide il suo destino da quello di Tonio è sottilissima. Quasi inesistente.
Pensando che la morte di Tonio sarà anche un po‟ la sua morte. Pensando che potrebbe non veder crescere
suo figlio. Pensando che presto potrebbe non sentire più la risata di Juls, che è una risata capace di
schiarire anche le nubi più dense, il fumo dell‟altoforno, il tanfo tossico della siderurgia sconsiderata.
Cristo non riesce a non pensare che anche lui potrebbe essere malato e non saperlo. Cristo non riesce a non
pensare che tutti loro, che occupano la Strada Statale 106, sono con buona probabilità malati. E ancora non
lo sanno. Ancora non ci pensano. Ancora non capiscono l‟assurdità della miseria che rivendicano,
l‟irresponsabilità che hanno avuto a non manifestare prima, con più forza, per quel diritto inalienabile che
dovevano pretendere, di lavorare in un ambiente quanto più salubre possibile. E ora sono lì, vittime
sacrificali, anche loro, delle pappette tra industria e politica, mangime per i sindacalisti, a prestare il loro
malaugurato fianco alla famiglia Riva, al boia collettivo.
Cristo ascolta la risata di Juls, guarda Robertino e pensa che domani no, non scenderà a occupare la Strada
Statale 106.
IL PROFESSOR MONTANARO
4mila tonnellate di polveri, 11mila tonnellate di diossido di azoto, 11mila e 300 tonnellate di anidride solforosa, 1
tonnellata e 300 chili di benzene, 338,5 chili di IPA, 52,5 grammi di benzo(a)pirene, 14,9 grammi di composti
organici di benzo-p-diossine e policlorodibenzofurani. Questi i dati ambientali disponibili, che risalgono al
2010.
Cataldo li guarda attraverso le lenti progressive dei suoi occhiali e non riesce a capacitarsi di come la
cittadinanza, tutta, non sia pronta a scendere in piazza, domani, per la manifestazione in occasione della
visita dei ministri Clini e Passera. Cataldo non riesce a comprendere come la popolazione non riesca a unirsi
per chiedere che i responsabili paghino, risarciscano e siano, nella più rosea delle ipotesi, puniti per le loro
colpe. Condannati per strage. Per omicidio colposo plurimo e reiterato.
Cataldo Montanaro ha 65 anni e sta leggendo un articolo dal suo iPad, mentre aspetta che arrivino le sue
lasagne. È membro storico di un‟associazione ambientalista che da anni investe tempo ed energie per lottare
contro la turpe azione dell‟Ilva, ex Italsider, su Taranto.
Cataldo ha insegnato Lettere per 35 onoratissimi anni di carriera, 20 dei quali al Liceo Classico Archita di
Taranto e i suoi alunni l‟hanno sempre stimato, e sempre temuto. È panciuto, ha la barba bianca e, quando
legge, guarda attraverso le lenti progressive dei suoi occhiali. E no, non è stato semplici abituarcisi, alle lenti
progressive. È vedovo di Rosaria, che lui ha affettuosamente chiamato “Rosi” per tutti i 30 anni del loro
matrimonio. La chiamava proprio Rosi, non Rosy. Che per lui c‟era una differenza sostanziale. E la “y” non gli
ha mai fatto simpatia. Rosi era di Lecce, si era trasferita a Taranto per amore di Cataldo, che alla sua città è
sempre stato legatissimo e che pur avendo avuto, da giovane, la possibilità di andare a studiare e a vivere
fuori - in un tempo in cui in pochi avevano questa possibilità - aveva scelto di rimanere.
È padre di due figli: Umberto e Monica. Umberto ha studiato al politecnico di Milano e oggi, ancora a Milano,
lavora in una società di consulenza, senza smettere di coltivare la sua grande passione per la fotografia e la
regia. Monica, invece, ha studiato a Bologna e oggi vive a Roma, dove convive con Jacopo e lavora come
giornalista. E, anche se Cataldo non glielo dirà mai, perché è di quella parrocchia per cui i figli si baciano
mentre dormono e non quando sono svegli, Monica è il suo orgoglio più grande. E Monica assomiglia in
maniera straordinaria a Rosi. Anche di Umberto è molto orgoglioso, naturalmente. Ed entrambi gli mancano
terribilmente. Specialmente da quando Rosi non c‟è più. Ma quel giorno lontano, in cui i suoi figli gli dissero di
voler andare via da Taranto, lui non oppose alcuna resistenza e, anzi, li incoraggiò. Del resto, si sa, i figli
devono fare la loro vita e ciò che conta, per un genitore, per quel genere di genitore che è Cataldo, è che
stiano bene, ovunque siano.
Cataldo, Rosi, Umberto e Monica hanno vissuto quasi tutta la loro vita in una bellissima villa a Gandoli, vicino
al mare. Stavano lì anche l‟inverno. E la distanza dalla città non è mai pesata a nessuno di loro. I bambini
avevano spazio per giocare, i vicini erano discreti ed educati, il mare era bellissimo, specialmente d‟inverno,
perché la magia si mischiava con l‟odore dello iodio, e intorno c‟era il silenzio, e gli scogli vuoti la domenica
mattina, con il vento che soffiava carico di aromi che solleticavano la fantasia, e tutto questo era pura poesia
per tutti i sensi insieme.
Quando i ragazzi sono cresciuti, il giardino era diventato il ritrovo di tutti i loro amici: facevano grigliate,
cene, feste. E d‟estate restavano a chiacchierare fino all‟alba sul dondolo. E Cataldo ha sempre sospettato
che fumassero un po‟ di canne, in quelle lunghe nottate. Ma erano ragazzi e, tutto sommato, andava bene
così.
Furono anni felici. Non c‟è che dire.
Finché Rosi non si ammalò e non se ne andò. I ragazzi vivevano già fuori e lui le è stato accanto per i due anni
di lotta, di resistenza, di ostinata sopravvivenza al suo tumore al fegato. Aveva 52 anni. E, per Cataldo, era
bellissima.
Dopo la sua morte, Cataldo non riuscì a continuare a vivere in quella villa a Gandoli che era improvvisamente
diventata troppo grande, troppo vuota, troppo silente. Decise di trasferirsi in città. Di più. Decise di
trasferirsi in un appartamento a Taranto Vecchia, al terzo piano di uno dei pochi palazzi restaurati della zona.
La casa, in cui tutt‟oggi vive, è costituita da 3 ampi vani con pavimenti antichi ripuliti a lustro. È una casa al
terzo piano, biesposta, vista mare. Vista Ilva. E non è un caso, perché Cataldo, ogni mattina, quando si
sveglia, vuole guardare in faccia l‟abnorme parassita che ha prosciugato la linfa di una città e di una
popolazione. Non è un caso, perché lui, la notte, quando non dorme, quando legge attraverso le sue lenti
progressive, deve poter vedere attraverso la finestra la grande industria. Deve monitorarla. Deve filmarla
con il suo iPhone, quando con il buio, al riparo dai controlli, via i filtri, le emissioni si moltiplicano. E il cielo
pare sanguini, rosso come diventa, di veleno.
Vivere a Taranto Vecchia non è semplice, soprattutto all‟inizio. La popolazione autoctona deve accettare le
new entry. Non è frequente che qualcuno si trasferisca a vivere a Taranto Vecchia. Anzi, non succede quasi
mai. Ecco perché quelli del posto non sono abituati alle nuove presenze. Ecco perché hanno bisogno di
inquadrarle, prima di accettarle. Ci sono delle regole, che devono essere comprese e rispettate. E poi ci sono
i vicoli strettissimi, le luci giallognole a sera, le chianche lucide che pavimentano le vie principali, c‟è il Duomo
e c‟è San Domenico, che è romanica e bellissima. Poi ci sono le voci, che dalle case si versano per le strade,
scavalcando le finestre socchiuse, e regalano stralci di verità, e denudano le intimità domestiche,
spogliandole della forma, dei modi, delle maniere. Riducendo l‟umanità all‟osso. Alla sua sintesi più brutale. E
poi c‟è il puzzo di piscio che da certi angoli si leva e si confonde con l‟odore del pesce della Discesa Vasto. Ci
sono i panni stesi ad asciugare, i bambini con l‟orecchino al lobo, le signore con i seni appesi e le scarpe
consumate. Ci sono i ragazzini che in motorino ci vanno in 2 senza casco e impennano. Ci sono i vecchi che
giocano a carte seduti sulle casse di plastica di Birra Raffo. E poi, ci sono i pescatori.
Cataldo da quando vive a Taranto Vecchia, ha conosciuto Ercole, che è lo storico rifornitore di Cicce U Gnure.
Cicce U Gnure sta alla pescheria, come la Coca Cola sta alle bibite gassate. Non esiste un solo tarantino che,
pensando all‟universo cognitivo legato alla pesca, alle pescherie, al pesce in generale, non pensi
automaticamente a Cicce U Gnure.
Cataldo ha fatto amicizia con Ercole che, a dispetto del nome, è piuttosto mingherlino. Ercole,
specificatamente, è un mitilicoltore, un cozzarulo. Due mattine fa Cataldo l‟ha visto in Piazza Castello, nei
pressi di un bar vicino alle Colonne Doriche e ci ha scambiato due chiacchiere. Pare che la situazione, per
loro, sia pessima. Il lavoro di un‟intera stagione è vanificato. Tonnellate di cozze inquinate da distruggere. E,
senza cozze, per loro non c‟è pane. Non c‟è lavoro. Non ci sono soldi e nemmeno ammortizzatori sociali.
Ercole, che di solito è un tipo sorridente, di quelli assai ignoranti e assai solari, parla solo il dialetto. E
Cataldo risponde in dialetto. Anche se è un professore di Lettere. Perché quello che conta è riuscire a
parlare. E per parlare con la gente, bisogna usare la sua stessa lingua.
Arrivano le lasagne e Cataldo non smette di chiedersi come sia possibile che tutti i media raccontino la
stessa storia parziale. Come tutti si concentrino su un solo aspetto di una vicenda talmente complessa.
Come la storia di un operaio della provincia di Lecce abbia più risonanza della storia di Ercole che a Taranto
c‟è nato, c‟è vissuto e ci creperà. Di sckattacuore, se continuerà a non sapere come sfamare la sua famiglia.
E Cataldo non ci crede alla favoletta dell‟industria eco-compatibile. Non qui. Non in Italia. Non a Taranto.
Credere a questa storia, per lui, è ipocrisia. È una scorciatoia. È l‟ennesima presa in giro a cui prestarsi per
non riconoscere che per il bene di una forma di economia, nella sua città, sono state ignobilmente sacrificate
tutte le altre attività. Calpestando una cultura del territorio che pre-esisteva e che è messa, giorno dopo
giorno, sempre più a rischio, in modo sempre più irreparabile.
E Cataldo non ci crede alla favoletta della bonifica. Perché nessuno sa come bonificare. Non qui. Non in Italia.
Non a Taranto. Cataldo lo sa che non apparirà mai, miracolosamente, SiderMan, il supereroe che, armato
dello scalpo di Vendola, bonificherà la testa e lo spirito dei politici, delle amministrazioni, degli uomini di
potere, dei singoli operai che contribuiscono a truffare la legge e se stessi, di quei cittadini che non
impareranno mai cos‟è il bene comune. Cataldo lo sa che non apparirà miracolosamente SiderMan, il
supereroe che con pochi spiccioli saprà bonificare tonnellate di terreno, metrocubi di aria, mari interi.
Cataldo è un ambientalista. Con tutta l‟amarezza che prova chi comprende la gravità della situazione, ritiene
che l‟Ilva debba chiudere. Senza “se”. Senza “ma”. Perché, forse, produrre responsabilmente sarebbe
possibile, altrove. Ma qui, gli ultimi 50 anni di storia sconfessano qualunque risibile illusione.
E l‟indomani, alle 08.30 del mattino, Cataldo ci sarà, in Piazza Maria Immacolata. Per unire la sua voce a
quella di quegli operai, quei pescatori, quegli agricoltori, quei cittadini che si definiscono “Liberi e Pensanti” e
che, in pieno possesso delle proprie facoltà, chiedono riscatto per una città dimenticata dagli uomini, dalle
autorità, da Dio e, forse, persino dal demonio.
***
Bevono un limoncello, i signori? Offre la casa!
Lavoro al Ristoro Basile Liuzzi di Taranto, in Via Pitagora, da trent‟anni. Quando gli ultimi clienti, quelli che noi
chiamiamo “affezionados”, finiscono di cenare, di solito, ci offriamo un amaro o un limoncello. Io mi permetto
sempre di consigliarlo, il limoncello. Perché lo facciamo noi, con i limoni dell‟albero che sta a casa di Gino.
Proprio biologico.
Però abbiamo anche il Lucano, che è un altro classico.
Vi stavo dicendo che la cosa incredibile è che tutte queste persone, in qualche maniera, si conoscono. Andrea
e Doriana Fusina conoscono i Fratelli Lupo, perché Doriana è stata fidanzata con uno che suonava con loro. Il
signor Riccardo conosce la Dottoressa Conte, perché andavano a scuola insieme e tutti e due c‟hanno avuto
per professore il Signor Cataldo. Cristo è un collega dello zito della ragazza riccia che sta al tavolo dei
Fratelli Lupo. Mentre Franco Forza John, beh, chi non lo conosce. Qua a Taranto lo conosciamo tutti. È proprio
un personaggio, lui. Ma è famoso come Francucch Mill Lir, che ogni volta chiedeva a tutti i passanti se
c‟avevano 1000 lire da dargli o March Poll che ogni volta che lo incontravo ci compravo una schedina già
compilata, che lui le vendeva e così campava. Non sono manco sicuro perché lo chiamavano tutti March Poll.
Mi sa che il padre stava imbarcato sulla Marco Polo. Ma dovrei chiedere a mio fratello più grande, che se lo
ricorda meglio.
Comunque, a me dai discorsi che ho sentito fare stasera, mi pare che domani ci sarà un bel po‟ di gente alla
manifestazione. Io me lo auguro, onestamente. Perché qua tutti sono abituati a pensare per sé e certe volte
la gente non capiscono che ci sono certe cose che ci devono importare a tutti. Io domani andrò, alle 08.30, in
Piazza Maria Immacolata.
Ci andrò perché Ilaria, mia figlia, tiene 4 anni.
E io, per lei, non chiedo tanto.
Voglio solo che deve essere libera.
Libera di scegliere dove vivere. Libera di scegliere cosa fare.
Libera di giocare con i suoi amici all‟aria aperta.
Libera di respirare.
E di farlo senza avere paura.