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Armando Napoletano e Marco Ursano Il calcio sembra aver capito la tua vita (una volta era Neil Young) Prefazione di Massimiliano Guidetti Introduzione di Stefano Senese Postfazione di Fabio Lugarini Foto di Stefano Stradini

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Page 1: Armando Napoletano e Marco Ursano Il calcio sembra aver ... la tua vita (una volta era Neil Young) ... categoria. È giusto dire che la mia realtà è la ... Nasce e spicca il volo

Armando Napoletano e Marco Ursano

Il calcio sembra aver capito la tua vita

(una volta era Neil Young)

Prefazione di Massimiliano Guidetti

Introduzione di Stefano Senese

Postfazione di Fabio Lugarini

Foto di Stefano Stradini

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Prefazione di Massimiliano Guidetti Se non mi fossi messo a segnare dei gol tra i dilettanti, forse oggi sarei un avvocato ma, in fin dei conti, è andata decisamente meglio così. Giocare al calcio è sempre stato il mio sogno, fin da bambino. Papà mi portava con lui ovunque, agli allenamenti come alle partite. Viaggiavo sempre col pallone tra i piedi e la passione non poteva che contagiarmi. Il calcio, per un bambino, ha qualcosa di magico: all’inizio è stata la raccolta delle figurine ad avvicinarmi, un gioco nel gioco stesso. Che oggi non c’è più o, quanto meno, si è molto attenuato, perché l’evoluzione tecnologica ha cambiato il rapporto tra l’appassionato e il pallone: le figurine esistono ancora, ma internet ci permette di avvicinare questo sport in altri modi. Ti dà, in pochi click, opportunità diverse. Ma anche la personalizzazione dei numeri ha tolto qualcosa di mitico: l’equazione ruolo-numero di maglia non vale più. Il 7 non è più l’ala destra, il 5 non corrisponde più al ruvido e falloso stopper: anche se a dir la verità Falcao era stato una specie di precursore. Pizzul, Martellini, Ciotti e Ameri sono le voci della mia infanzia: ricordo che da adolescente avevo la moto da cross e la domenica con i miei amici andavamo sugli sterrati in paesini della provincia di Biella. Ma ad un certo punto i rombi delle nostre moto si fermavano di colpo per ascoltare i risultati: frequenza 89.0, “Tutto il Calcio minuto per minuto”, rigorosamente…E una volta tornati a casa, alle 18.10 esatte, l’appuntamento immancabile con 90° minuto. All’epoca l’unica trasmissione dove si potevano vedere i gol, perché la Domenica Sportiva iniziava troppo tardi e i genitori ti mandavano a letto. Da calciatore è stato un lungo percorso in ascesa: mi è mancato un settore giovanile importante, ma non ho rimpianti, perché partire a 17 anni dalla Promozione e arrivare fino alla seconda serie nazionale rimane una bella conquista. Quando giocavo tra i dilettanti prendevo ad esempio i colleghi che giocavano in C2, così ho fatto più tardi, ogniqualvolta miglioravo di categoria. È giusto dire che la mia realtà è la serie C: la conosco bene, per molti si tratta di calcio minore, per me è il football più ricco di valori, di sacrifici e ancor oggi la domenica sera guardo i risultati di tutti i gironi, cercando le prestazioni dei miei ex compagni di squadra. Società in difficoltà finanziarie, calciatori con famiglia che vanno avanti nonostante manchino stipendi, certezze per il futuro: questo è il mondo della serie C, pochi lustrini e tanti talenti, alcuni dei quali rimangono solo potenziali. Ad ogni modo in quelle situazioni si cementano amicizie che poi durano una vita, anche dopo aver smesso di giocare. Fare il calciatore è una grande lezione di vita: valigie sempre pronte, gente nuova, luoghi da scoprire. E le difficoltà di ambientamento che ti fanno crescere in fretta. Io ho avuto la fortuna di fermarmi diversi anni nelle città dove giocavo, a Brescia come a La Spezia: solo così riesci ad entrare dentro un territorio, capirne la mentalità, apprezzarne le peculiarità. Mi piace tornare nei posti dove ho giocato, c’è tutto un vissuto da ripassare, persone che non vedono l’ora di riabbracciarti. È il bello di questo sport. Uno sport che però è cambiato radicalmente: il mercato aperto ha sconvolto il modo di fare calcio, ci sono interessi enormi e un gran numero di persone che ruotano intorno. Ma non è sempre colpa del calciatore: ti chiedono di andare e a volte ti adegui e passi magari per un traditore. Per questo, certe scelte non le avresti volute fare e non rendi come potresti: anche lo sconforto è parte integrante dell’esistenza di chi fa questo mestiere. Dicono che sono un freddo? Se c’è una cosa che mio padre mi ha insegnato è quella di mantenere equilibrio nelle varie fasi della vita. Anche nel calcio quindi, dove si passa dalle stelle alle stalle in un breve volgere e dove le carriere possono decollare od arrestarsi in un attimo. Ma non sono un freddo con la gente perché un bel gol, un dribbling, nulla vogliono dire senza pubblico tutto intorno. Le giocate non possono, non devono essere fini a se stesse. Papà e mamma sono orgogliosi di quello che sto facendo, ma non sono soliti venire a vedermi dal vivo: quando ero giovane non volevo io, non so bene nemmeno il motivo. Forse avevo paura che se i tifosi mi fischiavano loro potessero rimanerci troppo male. Adesso sono loro a soffrire di più, mio papà in tribuna non sta mai fermo, sente troppo la partita e infatti viene pochissimo. L’insegnamento più bello che ho ottenuto da questo sport lo fotografo in due partite: una l’ho vista in televisione poco tempo fa, non ricordo quali squadre giocassero, ma si trattava di Premier League o dalla seconda divisione inglese. Ebbene la squadra di casa è uscita sconfitta per 4-0 e al fischio finale è stata applaudita da tutto lo stadio. In Italia siamo lontani anni luce

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da tutto questo, anche se a La Spezia il rapporto tifo-squadra ha un che di unico: l’amore e la passione che ho, che abbiamo ricevuto dai tifosi spezzini è totale e l’ultima iniziativa di salvataggio della società è rarità encomiabile. L’altra gara l’ho giocata e, sembrerà banale, non la dimenticherò mai: giugno 2007, stadio “Olimpico” di Torino. Al 92’ siamo virtualmente retrocessi, ma un gol di Pado, all’ultimo tuffo, ci permette di battere la Juventus. “Crederci sempre, arrendersi mai”, anche quando tutta Italia ti dà per spacciato. Ho imparato questo, nonostante che di gare ne abbia giocate tante prima di quell’impresa. Il difficile è quando devi stare fuori: come a Verona nei playout, ti prudono le mani, vorresti dare il tuo contributo e invece sei lì in panchina a soffrire senza poter fare niente. Credo che per un calciatore sia durissima, anche se poi nella fattispecie abbiamo potuto fare festa. Sono interista, ma non dalla nascita. Da piccolo come tutti i bambini ero volubile e cambiavo spesso squadra. Erano le figurine ad appassionarmi, a rendere familiari volti, colori e stadi. Il calcio visto dagli occhi di un bambino ha tutt’altre sfumature: ecco perché dopo aver chiuso la carriera da calciatore vorrei infilarmi la tuta e insegnare a loro, ai bambini, la parte genuina di questo sport. E dirgli che più dello schema, più di imparare una diagonale, è importante saper stare insieme agli altri.

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Anima e Calcio, in un solo Album introduzione di Stefano Senese Il calcio è una metafora della vita. E’ uomini e storia, pianti ed esultanza, ed è per questo che sopravvive a tutto. E’ passione, sofferenza, istintualità, è individualismo, senso del collettivo, prima pagina e sciarpe da richiudere nel cassetto. Il calcio siamo noi, noi che siamo tutti allenatori e manager, che consideriamo matti coloro che si struggono dietro una maglia bianca, ma poi siamo pronti a superare la ragione per tornare ragazzi e sentirci parte di un sogno collettivo. Eh, sissignori, non può essere un caso se miliardi di persone guardano una finale di coppa del mondo, se le televisioni considerano prioritario il prodotto calcio, se non esistono differenze politiche, religiose, sociali sotto le bandiere della propria squadra. Ci deve essere qualcosa sotto. Qualcosa di intrinseco, che coglie l’essere e muove l’inconscio. Chi ha avuto la fortuna di frequentare uno spogliatoio, sa che indossare la casacca è un momento profondamente simbolico, da consumare in silenzio, è l’inizio di un processo di concentrazione che diventa di gruppo nella fase di riscaldamento e si trasforma in un unicum collettivo di squadra e spettatori, quando l’arbitro fischia l’inizio. Poi è il delirio, poi è la tensione, è il dopo partita in cui ti senti per assurdo stanco anche se non hai giocato in campo. Certo, non tutti siamo uguali e dunque vi sono molti modi di partecipare al rito collettivo. C’è chi si dipinge il viso con i colori della squadra, incurante del giudizio degli altri, chi guarda con aria fintamente distaccata seduto in tribuna perché “comunque il calcio è solo un gioco”, chi salta e canta, perché la vita si deve godere nell’attimo fuggente. Ed anche nel rettangolo di gioco si esprimono mille modi di essere, ogni giocatore riflette nel ruolo il proprio carattere. Lev Jashin dichiarò una volta che un buon portiere è un esperto di geometria. Perché sa “chiudere gli spazi”, sa guardare con distacco la tela di ragno costruita da tutti gli altri giocatori. E’ al tempo stesso un razionale ed un tipo singolare, protagonista tragico della tragedia greca del Dio pallone. Perché vi è una verità spaventevole: i gol li fa la squadra, ma il vinto è il portiere. E che dire dell’etica del difensore, teso alla distruzione del gioco avversario, al dire “no” al desiderio del gol. Il difensore è uomo attaccato alla realtà, al fatto, è un pragmatico, se assediato organizza la risposta, se libero orienta l’attacco. L’opposto dell’attaccante goleador, che vive per l’attimo, per quella sorta di principio del piacere che lo pervade ogniqualvolta vede gonfiarsi la rete, eroe achilleo finalizzatore della battaglia calcistica. E’ un poeta, quanto il centrocampista è un narratore. Ed io amo la letteratura, il romanzo che coniuga razionalità e fantasia, il senso intimistico dentro una realtà sociale. Il centrocampista organizza, detta il passaggio ed innesta il lancio filtrante, coordina ma si affonda dentro il collettivo. Giocatori si nasce, n. 10 si diventa. Il calcio è una metafora della vita, e neppure quando diventa grande business perde il profumo dell’erba bagnata e la capacità di emozionare le menti. Un bel libro sul calcio può costituire, per chi lo ama nell’essenza come lo amano tutti quelli come me, un bel momento introspettivo. Questo libro nasce da un infinito innamoramento, quello per il football, come idea astratta e come quotidianità. Nasce e spicca il volo sui campi di gioco e negli articoli di giornale, nei ritiri della squadra, tra un viaggio e l’altro verso uno stadio e una trattoria, in ore passate a parlare di formazioni e partite, attori e comparse di un gioco che è vita e teatro. In questo racconto si sorride e ci si commuove, c’è nostalgia e c’è illusione, felicità e qualche malinconia, c’è pietà e disincanto. Soprattutto si racconta una storia non di calcio ma sul calcio, una storia che parla di noi stessi, ed aggiunge una pagina intensamente vissuta dell’album, personalissimo, della nostra anima.

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“E’ andata così: a scuola ero affascinato da una cosa sola: il calcio. Ero portiere della squadra della mia scuola e poi negli juniores della Legia. Passavo le giornate sul campo da gioco. Era la mia grande passione. Un giorno, non ricordo più il perché, scrissi una poesia e la spedii ad una redazione, che la pubblicò. Fu questo a decidere la mia attuale professione. Scrivevo poesie un modo spontaneo, senza sogni né aspettative, ma tutte bruttissime. A quel tempo ero influenzato da Majakovskij, ma riuscivo solo ad imitare le sue scalette. Erano quasi tute poesie di circostanza, e furono proprio loro ad introdurmi al giornalismo fin dai tempi della scuola. Quando nacque la redazione di “Sztandar Mlodich” mi proposero un lavoro. Risposi che prima dovevo prendere la maturità liceale, e loro aspettarono. Il giorno dopo aver finito l’ultimo esame, cominciai a lavorare in redazione. E’ per merito di una poesia, bruttina, ma in compenso mia, che sono diventato giornalista. E dire che sognavo di diventare il portiere della nazionale polacca.” Ryszard Kapuscinski

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La Spezia, 28 marzo 2008, venerdì Mio Caro Marco, questa mattina sono rimasto alquanto rabbuiato e triste nel constatare, mio malgrado, che nella posta in cassetta la mia lettera del 16 marzo scorso, contenente la ventiduesima mossa (cavallo muove la quarta casella del Re), è stata respinta e reindirizzata al mittente per un piccolo errore: mi sono dimenticato il tuo nome e cognome sulla busta. Capita. Ciò dimostra quanto io, oramai, sia rimasto disorientato da quello che è il mio pensiero, il Calcio, che vive sia nella nostra città che nel nostro Belpaese, fondato sulla pastasciutta ed il calcio di rigore, e rigidamente rivisitato dalla moviola. Mi capita spesso di guardare i bambini che giocano sui campetti di provincia, e mi manca da matti l'oratorio che mi esaltava da bambino. Una volta il calcio lo giocavano tutti, quelli che avevano l'età da latte o superato l'età del Signore. Un veterano, ti dicevano? Veterano un cavolo, e te ne andavi per i campetti della Uisp o nei tornei estivi. Il palio dei Rioni, o quello dei Bar, che valevano quanto una coppa campioni. Gente che era un veltro in campo, altri che erano un portento da giovanissimi e che vedevi sfiorire solo quando diventavano scarsocriniti. Il calcio era un valore certo, per strada, in casa, mentre leggevi un giornale, quando ti appassionavi per i secondi tempi di Tutto Il Calcio Minuto per Minuto, e Ciotti si scusava su Ameri. Oggi, mi sembrano un po' tutti tracagnotti che cominciano a stempiarsi, e nessuno un prodigio. Vedo giocatori, anche in B, di una modestia celeste. Poi guardo la parete del mio studio e m’incanto ancora nel mirare quella maglia, numero 10, autografata sul numero 1, di Roby Baggio. Per me, che vedo il calcio senza pregiudizio, Il Divin Codino rimane sempre all'altezza del suo prestigio, anche quando lo impiegavano da facchino del centrocampo o seguiva l'Arrigo. Resta l'uomo dal dribbling fiabesco, sempre padrone del suo destino e capace di dare una svolta. Su quell’out, che fosse destro o sinistro, dribblava a seguire, per poi rimettere al centro e, spalle alla porta, cercare la profondità, per la pedata lesta di qualcuno, se lui non ce la faceva. Quello era il calcio, ed in tanta odierna carestia, mi risulta difficile trovare un altro fenomeno. Però, più vedo Cristiano Ronaldo più mi sembra Best, il Georgy Best che dico io, quello di quel pomeriggio a Nothampton, quando ne fece 6 in una partita sola di FA Cup, e c'era il sole alto. Ecco, Cristiano Ronaldo mi riconcilia con la farfalla di Manchester, e rivedo il Calcio, quello che ho visto negli occhi di un tifoso di Caen, che alle 7 e 30 della mattina era al bar a sorseggiare con la sciarpa della sua squadra annodata al collo. Quello che ho visto giocare dai bambini su un prato di Belem o d’Irlanda. Insomma, il calcio vero, quello del sentimento e dell'allegria. Torniamo a noi. Vedo che la mancanza della mia lettera non ti ha toccato, neanche un cenno: questa è la vita ed il gioco degli scacchi. Così ti sei concesso un'altra mossa, ma temo che, ed uso una Santa ironia, l'annuncio di scacco matto che mi hai dato nella lettera appena ricevuta sia un falso allarme, mentre ora è il tuo Re a rischiare di essere cotto. Ti accludo la mia quarantesima mossa, il mio cavallo mangia la tua Regina.

Sinceramente Armando

La Spezia, 7 aprile 2008, lunedì Mio Caro Armando noto che, oltre che rabbuiato, sei piuttosto aggressivo. La tua mossa parla chiaro, è quasi un goal a porta vuota, con il portiere a terra, bestemmiante e rantolante, superato da un dribbling fulmineo, i difensori immobili ed inebetiti ad osservare la scena. Quasi la fotocopia del goal del nostro piccolo grande nigeriano, lo scorso sabato di soddisfazione. Dico quasi, perché il tuo tiro

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scheggia il palo esterno, ed il pallone rotola mestamente tra le braccia di un giovane raccattapalle sotto la curva avversaria. Infatti, la mia risposta alla tua è: il mio Alfiere mangia la tua Regina. Rimessa dal fondo. Per quanto riguarda lo spiacevole inconveniente della busta, possiamo tranquillamente ovviare con l’ausilio della tecnologia: mandiamoci delle email, non trovi? Molto meno romantico, di sicuro, ma molto più in “tendenza” con i tempi moderni. Devo dirti che la tua missiva, oltre che il piacere di avere tue nuove, provoca in me anche una certa invidia, te lo confesso sinceramente. O meglio, un’invidia profonda, perché t’immagino lì, sprofondato nella tua poltrona, con lo sguardo beato e fisso sul più bello dei tuoi cimeli: la maglia di Roberto Baggio! E, per giunta, autografata…. Roberto Baggio è da sempre il mio idolo calcistico. Indipendentemente da tutte le maglie che ha indossato, anche se l’ultima, quella del Brescia, è forse quella che racconta meglio anche l’uomo: il grandissimo campione che, contro tutto e tutti, torna a giocare in Provincia, lontano dai riflettori nazionali ed internazionali più prestigiosi, ma restituendo a tutti noi malati di Calcio il valore più profondo del Gioco più bello del mondo. Quello di un gioco popolare, spasmodico nella fatica ed esaltante nella lealtà, intriso del sudore e della polvere dei campetti di periferia. Roberto Baggio è stato forse l’ultimo campione/uomo prima del cosiddetto “calcio moderno”, e non so con quanta consapevolezza del ruolo. Certamente, con quella d’essere unico ed irriducibile, a partire dalle sue battaglie contro gli allenatori fanfaroni che non volevano farlo giocare. Un po’ come se il Papa Giulio II non avesse conferito l’incarico di affrescare la Cappella Sistina a Michelangelo, perché l’artista era troppo incline alla sregolatezza del Genio! Ti ricordi il suo goal alla Cecoslovacchia durante Italia 90? Poesia pura! Recentemente, ho beccato su You Tube il video con la telecronaca in inglese: ad ogni movimento del Nostro, il telecronista anglosassone esplode uno YES! terrificante, come se non ci credesse nemmeno a tanta arte…ma questi sono solo bei ricordi. Oggi, esistono giocatori come Baggio? Tu dici, forse Cristiano Ronaldo….non lo so, ci sono tanti campioni sui campi del mondo, ma uno come Lui non mi sembra proprio di rivederlo. Per fortuna, rimangono ancora i campetti di periferia, forse meno di prima, ma ci saranno sempre. Sino a quando un gruppo di ragazzini avrà un pallone tra i piedi, anche fatto di stracci. Ne ho visti, durante qualche mio viaggio in Africa, e te li racconterò presto. Anche il nostro amato Picco, seppur “nobilitato” dalle recenti ribalte nazionali, rimane e rimarrà nei secoli un campo di provincia. Perché noi siamo fatti così, siamo provinciali. Però, in questo caso ed in questi giorni, una provincia che insegna alle metropoli, quantomeno per le materie amore, lealtà, passione legate al Calcio, quello con la C maiuscola. Attendo la tua prossima mossa

Sinceramente Marco

La Spezia, 10 Aprile 2008, giovedì Marco, ho appena finito di leggere la tua ultima lettera, quella che riguarda la strana trentaduesima mossa, nella quale il tuo Alfiere rimuove la mia Regina da una casella nella quale non si trovava più, e da almeno 10 giorni. Ci ho messo un po’, ma pazientemente comincio a ricostruire il tutto, tratto in perenne inganno dalla tua confusione ed incomprensione. Credo che alcune delle tue mosse siano piuttosto impossibili, come l'esistenza di due cristalli di neve identici. Torre ed Alfiere non li hai più da giorni e non serve guardare nel frigo o nel cassetto delle mutande. Alcuni tuoi pezzi passeggiano sulla tua ideale scacchiera come Sordi e Signora in ferie sul litorale romano. Se parliamo di Calcio, solo in quel caso, ti seguo di più.

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Specie quando mi racconti di quello che era e non è più, dei lustrini che hanno ferito la fantasia dei bambini, dell'eterna fabbrica di spiantati che lo regge a tutti i livelli, ancora oggi. Il mio credo? La palla è rotonda, quindi è il gioco perfetto, perché essa è perfettamente sferica. La tattica? E qui ti sorprendo, altro che Sacchi e le alchimie più nostrane. Segnati questo: 2-5-3. Il portiere che può far gol ed è capace di rinvii poderosissimi, difensori che difendono ed offendono tra una selva di gambe, un centrocampo che lotta fin quando la prima palla scende dal tunnel degli spogliatoi. Meglio rivelare che non sono gambe, quelle di cui parlo, ma basi. E dove l'unica bestemmia ammessa dai puristi è il gancio. Sì, parlo del sano biliardino. Quello che negli anni settanta e sessanta ci faceva vivere all'oratorio, ed era il dopo calcio. La seconda età non mi ha intorpidito i ricordi e, soprattutto, il biliardino è una di quelle cose che i bambini imparano prima dell'Italiano, di Giulio Cesare ed i Cartaginesi, o del teorema di Pitagora. Legioni di giocatori e di spettatori, con il soldo metallico in mano. Il Calcio viveva di questo sentimento, potevi immaginare dalla radio il gol di Bettega e poi riprovarci. E se non lì con le figurine, con porte create dalla plastica o dal cartone, e reti rimediate dalla sacca dei Limoni. Ricordo un giorno, ben fresco nella mente, durante un matrimonio. Papà ed uno zio (juventini) sull'altare da testimoni, io in retrovia con la radiolina, quasi ci si dimenticava degli sposi. La Juventus giocava a Milano e segnava. Più il prete proseguiva la sua omelia, più la lettera ai Samaritani avanzava, più i bianconeri segnavano. Ma. Ma io ero già milanista. Era il 31 ottobre del 1971. Bettega, Bettega, Causio, mamma mia, poi Bigon ed ancora Anastasi. A fine Messa mi portarono a giocare a biliardino e passò tutto, come se Cudicini avesse alfine capito da me come stoppare quel colpo di tacco irriverente di Bobby gol, che lo aveva trasformato da eroe della mia infanzia a saltimbanco per una domenica. Io sono nato con questo Calcio, con l'Ohhhh della gente che ringrazia togliendosi il cappello per un colpo di tacco, con il romanticismo del terzino sinistro, rigidamente mancino e con il 3 dietro la schiena. E con il numero 10 piccolo, ah il numero 10, dal baricentro basso, regista, lento, compassato, gambe fini da non confondersi con quelle del numero 4, fatte invece ad ics, da ape operaia del calcio. Gli estri dribblomani? Quelli erano del numero 7, e non sempre al servizio della collettività. Pane e calcio, come pane e tulipani. Se cresci così, ed entri al Picco, hai sempre il sentore che ti aspetta un'emozione. Anni fa, scrissi che questo Stadio è uno dei pochi che non è mai silenzioso, ci passi vicino in macchina e ti sembra di sentire urlare, trepidare. Mi piace pensare che siamo rimasti per tanti anni in C perché il Dio del Calcio voleva che noi fossimo quelli di un tempo. Avendoci, per altro, dato la possibilità di esibire solo i due principali colori per le vesti: il bianco ed il nero. Boniperti, tempo fa disse una cosa che ho sempre un po' fatto mia: "Quando entri in uno stadio e guardi i calciatori, la partita la capisci dopo 5 minuti o non ti basta tutta la vita". Cosa mi sono perso del calcio nella mia vita? Una sola cosa, ma era per amore. Tu non ci crederai, ma non ho mai visto Italia-Brasile. Si, quel lunedì alla tarda ora, quel 5 luglio del 1982, Paolino Rossi che fa piangere Falcao e Zico. Non ero attaccato al video come il resto dell'Italia. Ero mano nella mano con lei, quella che oggi è mia moglie, e giravamo per Lerici parlando d'amore, con il Calcio che diffondeva ogni stilla di Spagna dalla televisione, attraverso le finestre aperte di una giornata assolata ed afosa. Non potevo dirle di no, quel pomeriggio, me lo aveva chiesto con gli occhi, ed era il cuore a parlarle. Oggi ci ridiamo su, siamo marito e moglie, e tutto quello che avvenne dalle 20: 00 in poi di quel giorno resta molto comico. La lasciai a casa; calcolando i boati, per me era finita 4-2. Mi riversai in piazza Verdi, aggiungendomi agli amici e simulando un quasi accettabile "l'ho vista a casa di mio zio". E sul gol annullato ad Antognoni cadde tutto il teatrino. Me lo rinfacciano ancora oggi: "tu, uomo di calcio, giornalista, che non hai visto Italia-Brasile 3-2, tu, come fai a parlare?". Caspita, mi lascio prendere dal sentimento, ed invece devo prendere il tuo alfiere con il pedone. Detto ciò e con la tua Regina scoperta, prendo anche lei. Ora credo si possa andare avanti.

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PS: accludo uno schema che ti mostra esattamente la posizione degli scacchi. Noterai quella del tuo Re, alquanto scomoda, scopertissimo e soletto, quasi al centro della scacchiera. Non lo invidio, anzi, non t’invidio, e ti porgo i migliori auguri. Per l'e-mail si può fare, ci mancherebbe. La mia è semplice: [email protected]

Armando

La Spezia, 13 Aprile 2008, ore 11:45, domenica Caro Armando tu mi spiazzi. Per i tuoi racconti e per il tuo modo di muoverti sulla scacchiera, nemmeno fosse quella della vita. Su questo punto mi riservo il finale della mia missiva, finalmente elettronica. Mi spiazzano i tuoi ricordi di un Calcio che non c’è più, o meglio, che c’è ancora, sospeso da qualche parte, ma bisogna coglierlo nelle narrazioni appassionate della gente di Calcio come te. Narrazioni intrise di nostalgia e di passione. Mi sembra di vederti, mentre riavvolgi il filo delle tue memorie. Mi sembra di vederti da bambino, con quella radiolina incollata alle orecchie, avvolto dagli incensi del tuo rito pagano. Tu non hai visto Italia Brasile 3 a 2, perso negli occhi dolcissimi della tua compagna. Io, quel giorno, avevo sorpassato da poco le 15 primavere, ed i miei occhi invece erano incollati ad uno schermo televisivo appannato per il tasso d’umidità da sudore che saturava quella stanza di periferia, stipata da gente di tutte le età. Parenti ed amici, con i lineamenti del viso deformati, e dolori di ossa e di muscoli. Come se in campo ci fossimo noi. Quando Pablito scattò, incuneandosi tra la papera dei due difensori carioca, io ero lui. Sono io che ho tirato dal limite dell’area, sono io che ho guardato incredulo la parabola del pallone che superava le terga di un attonito Valdir Peres, il portiere con un nome da scrittore sudamericano perseguitato politico o da attore di telenovelas. In quei giorni, sono stato un sacco di gente, anche Tardelli, che con il suo urlo ha spaccato le orecchie ed il cuore di tutti gli italiani, dalle Alpi alle Piramidi. Anch’io ho urlato talmente forte, da ritrovare la mia voce adolescente solo la mattina dopo. Ricordo bene quella notte, la notte della Finale, se non altro perché è stata la notte della mia prima sbronza. Ero a Portovenere. Feci presto a perdere il conto dei tuffi dal molo, e anche quello delle birre stappate. In passeggiata si aggiravano come fantasmi sparuti gruppi di turisti tedeschi, incazzati neri per il fatto di trovarsi in mezzo ad una moltitudine di scalmanati in preda al morso della Taranta, incazzati neri per aver perso, ancora una volta, con della gente considerata poco più che una tribù di cavernicoli con il dono della parola. Mi ricordo una famigliola. Aveva tutta l’aria d’essere la tipica famiglia di colletti bianchi con stipendi Mercedes, due figlie pressappoco della mia età, molto carine, o così mi sembrò; tanto da provocarmi le classiche fitte masturbatorie post puberali, nonostante che l’alcool e le immagini di Pertini che manda a quel paese il Cancelliere tedesco continuassero a martellarmi le tempie con teutonica sistematicità. Le ricordo bene, le tedeschine, con gli occhi turchini carichi di pianto e di stupore. Li vidi da vicino, perché da perfetto gentiluomo di provincia italiota, invece che presentarmi a loro con un mazzo di rose, le salutai alzando al cielo il dito medio e proferendo insulti sconnessi e gutturali. Errori di gioventù. In quegli anni, giocavo a calcio non appena potevo. Interminabili partite da cortile, con risultati tipo 34 a 27. Pioggia, sole e vento, non importava. Una buona ala destra, scattante, e piedi decenti. Riuscivo a saltare l’uomo ed a crossare, bello teso sulla testa del centravanti. Facevo anche qualche goal. Il difetto più grande: il fisico gracile. Non mi aiutava certo nei contrasti. Qualche anno più tardi, un torneo serale da bar mise fine ad ogni mia velleità. Ero un poco più robusto, ma il terzino di quarant’anni con lo sguardo ebete e gli occhi fissi, cattivi, che mi piantò una tacchettata nel polpaccio destro, non si dimostrò certo impressionato dal mio fisico più consistente. Per niente, e mi franò addosso con tutta quanta la pancia. Solo quella, registrava un peso di trenta chili. Fine della storia. Negli anni seguenti, solo qualche patetica partita di calcetto. Peraltro, io il calcetto non lo sopporto. Mi sembra la versione abortita del

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Calcio, tutto corsa e niente tecnica. O forse ci vuole ancora più tecnica? Non lo so, e francamente non ci perdo tempo. Meglio buttarsi sul calcio balilla, o biliardino che dir si voglia, hai ragione tu. Potremmo giocare a quello, invece che agli scacchi. Potrei competere meglio. Mi piacerebbe moltissimo vedere la tua faccia dopo un goal staffilata con il mio terzino. In quello sono uno specialista: con una leggerissima, ma potente, torsione del polso, ti lascio andare certe lecche! Quasi un movimento da danzatore, non te n’accorgi nemmeno e la boccetta rimbalza con uno SDANG terrificante nell’interno della tua porta. Per quanto riguarda gli scacchi, sai bene che nella loro arte mi sei maestro, come in storia del calcio. Però, non demordo, e mi prendo ancora tempo per studiare la mia prossima mossa: tanto non abbiamo fissato limiti, no? E, come tu m’insegni, la partita finisce quando l’arbitro fischia. Ne sappiamo qualcosa noi aquilotti, purtroppo…

Sinceramente Marco

La Spezia, 14 Aprile 2008, ore 9:33, lunedì Marco, ho ricevuto la tua ultima email ed ora tutto mi è più chiaro. Capisco il tuo smarrimento, specie se quello che esprimi con gli scacchi e con i tuoi racconti di vita è ciò che vedo. Da settimane giochiamo partite diverse. La mia, precisa, secondo lo schema inviato; poi, un'altra tra le nuvole. Hai ancora cavalli? Mi sono perso qualcosa? La posta elettronica non è arrivata e mancano altre mosse? Posso concederti un alfiere, di più no, ed insisto che la mia Regina si prende la tua Torre. Io vedo svettare le mie torri, ma le tue non ci sono più, difendi il Re con qualche pedone. Sono tutti piccoletti e rotondotti, come lo era un mio amico portiere. Era agile, perché no, e nell'uscita alare, ma sostanzialmente povero nei fondamentali e soprattutto di personalità. Credo che nel calcio un solo ruolo abbisogna di qualcosa d’artistico: quello del portiere. Invece, lui parava con goffaggine. Io ricordo molto Yascin, ma anche Gordon Banks, il mio idolo. Un gatto, capace di tutto, che già negli anni sessanta potevi notare in qualche strepitosa presa planata, spettacolare. Riguardati i Mondiali di Mexico '70, quando la tivvù trasmetteva quelli che al tempo chiamavano repet replay, e goditi cosa ha fatto Banks. Non ho mai visto un portiere così bravo, così grande. A me stare in porta non piaceva fin da bambino; ricordo all'oratorio che si sceglieva il più lungo, quello peggio messo con i piedi, quello lento, o con gli occhiali, anche se quest'ultimo, per ovvi motivi, faceva mille resistenze. Portieri si nasce, fin dalla culla, ti butti giù da quella e plani, non cadi. Cadono quelli che da grande giocheranno centravanti, altri picchiano di corna. Il loro destino è già segnato. Banks era un autentico appassionato del ruolo, fin da piccolissimo, quando giocava in una squadra di calcio di minatori. Lasciò la scuola per impiegarsi prima come portatore di carbone, poi come muratore; se la sudava la vita, ed ancora non sapeva che sarebbe diventato campione del Mondo: lo notarono a Chesterfield, ma il servizio militare lo portò in Germania, dove giocò nella squadra del suo reggimento, vincendo la Coppa del Reno, amatori militari. Il manager del Chesterfield, Ted Davison, offrì a Gordon Banks il suo primo contratto da professionista non appena questi tornò alla vita civile. Ma ti dirò di più: contro la Germania, proprio a Mexico '70, fece forse la più bella parata della sua vita. Un infortunio lo aveva poi tolto di mezzo, e la Germania avrebbe rimontato 3-2 nel supplementare, vincendo quella semifinale. Bonetti lo aveva sostituito, nella tragedia. Un inglese, allevato anche in Germania, l'esatta storia contraria a quella di Bert Trautmann. Un soldato nazista fatto prigioniero in Inghilterra come paracadutista. Dalla Wehrmacht alla finale di FA Cup, più tardi e per vie tortuose. Catturato dagli Alleati, fu portato in un campo di prigionia ad Ashton, Lancashire, ed era sempre il migliore nelle partite organizzate tra i

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prigionieri. Dopo la caduta di Hitler, gli fu concessa la possibilità di tornare in patria, ma aveva già iniziato a giocare con il St.Helens Town. Nel 1949 lo volle il Manchester City, ma la gente, che la guerra l'aveva ancora nelle ossa, scese in piazza. A quella squadra lui, nel 1956, contro il Birmingham, arrivò a regalare la coppa più prestigiosa, giocando molta parte della gara con un osso del collo completamente rotto. Adesso li vedi, gli eroi di oggi, buttarsi a terra simulando, gridare lividi, paonazzi, sbraitare con aria preistorica, gente che sparlacchia. Tanti malesempi attorno. Ed il calcio cresce nell'erba sporca, ed anche i giovani si sentono padroni, tutto si spegne e tutto tramonta. E muore Raciti, dopo Spagnolo, dopo Paparelli, dopo tanti altri. Oggi, è un conato di calcio ogni domenica. Per questo, come tu dici, riavvolgo i fili della memoria, alimento i cassetti della mente. Il Calcio, in fondo, spiega il mondo, non fa altro. Franlkin Foer sostiene che il calcio non è come Bach o il Buddismo. Ma spesso è più sentito, è più vissuto, più usato della musica o della religione. Un vero depositario di tradizioni. Io, da bambino, imparavo la geografia con le squadre di calcio. Il giochetto mi è rimasto dentro e lo trovo ancora molto bello. Alfine, e ritorniamo a noi, ti suggerisco di rivedere ancora lo schema che ti ho inviato, in modo che la partita possa proseguire con una certa precisione.

Fiduciosamente Armando

La Spezia, 15 Aprile 2008, ore 21:16, martedì Caro Armando o dovrei chiamarti Maestro? Non ti prendo per i fondelli, me ne guardo bene, ed anticipo la tua replica tratta dal Patroni: “in questa città il confine tra macchiette e persone serie è molto labile….”. Recitava più o meno così, no? Leggendo quello che scrivi, non posso fare a meno di considerati Maestro di Storia del Calcio. La tua conoscenza in materia è pari alla mia in musica Jazz, una mia grande passione, anche se mi sembra di ricordare che tu non la sopporti più di tanto. Mi spiace, anche perché le attinenze con il Calcio ci sono eccome, e sono molte. Al di là di quello bianco, rassicurante e fighetto, il Jazz è una musica nata dal basso, dalla fatica e dalla sofferenza, dalla voglia di riscatto e liberazione del popolo, specialmente quello afroamericano. Una musica che s’inventa attraverso il bilanciamento continuo tra organizzazione ed improvvisazione, tra solido gioco di squadra della Band e fuga solistica del Genio. Una musica che ha realizzato temi e motivi memorabili, e che si è trasformata nel corso della sua storia, introiettando ed a volte anticipando (nel caso dei Maestri) le grandi trasformazioni culturali, sociali e politiche del Mondo come lo abbiamo conosciuto durante il Secolo Breve. Tu racconti di partite in tempo di guerra, la tragica Seconda Guerra mondiale ( a proposito, tra qualche giorno rivedremo in tivù per la milionesima volta “Fuga per la Vittoria”, film di traballante livello artistico, ma che ho sempre amato, al di là del fatto che Rambo è il portiere più improbabile mai visto sugli schermi…). Bene, la colonna sonora di quelle partite che regalavano qualche momento di felicità in mezzo a tutto quell’orrore, non poteva che essere il Jazz, nella sua forma Swing da Big Band importata in Europa dalle truppe angloamericane. Molti reggimenti Alleati avevano orchestre proprie itineranti, formate in diversi casi da grandissimi musicisti richiamati al fronte. Gente veramente cazzuta, che alla sera lasciava accanto alla branda il fucile per impugnare una tromba o un sax. Nel nostro Paese, la musica Jazz fu introdotta dagli angloamericani dopo lo sbarco in Sicilia. Fu amore a prima vista, sia a livello di popolo danzante, che d’elite culturali. E la musica Jazz, rivisitata e reinterpretata secondo mediterranea sensibilità, ha giocato la parte del leone nelle colonne sonore di molti dei nostri film del dopoguerra, l’irripetibile stagione del Neorealismo e della Commedia all’italiana.

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Ma forse sto divagando, mi scuserai. E’ che buona parte della mia giornata è scandita dalla musica di Coltrane, Miles, Bill Evans, giusto per citarne alcuni, anche quando mi trovo fuori delle mura domestiche. Semplicemente, risuona nella mia mente, e credo proprio che influenzi ogni mia attività, compresa quella dello scrivere, altra passione che ci affratella. Solo un piccolo aneddoto personale, per chiudere: dopo la nostra storica vittoria contro il Genoa con doppietta di Max, ho salutato velocemente gli amici festanti e sono corso a casa. Ho inserito nel lettore la versione De Luxe della Suite “A love supreme” di Coltrane, un capolavoro assoluto, e l’ho ascoltata tutta, entrambi i CD, ad un volume talmente alto, che ancora mi meraviglio come i miei vicini di casa abbiano soprasseduto dal denunciarmi per disturbo della quiete pubblica. Un amore supremo, appunto. Concordo con te, gli eroi di oggi sono piccoli uomini, al confronto di ciò che è stato. E non solo nel Calcio. Anche per questo amiamo il Calcio praticato nel nostro Tempio, il Picco. Perché a prescindere dalle alterne vicende sportive, è sempre stato un Calcio di eroi del quotidiano, giocato dal popolo per il popolo. Un Calcio visto negli occhi, da vicino, colto nei movimenti dei muscoli e delle ossa, letto attraverso le sfumature delle rughe d’espressione dei giocatori. Un Calcio così, riesce a restituirti la sua essenza più profonda e la sua sincerità, non può mentire. Tutti noi, pigiati sui gradini dei Distinti o tra un coro e l’altro della Ferrovia, abbiamo sempre saputo dopo trenta secondi chi onorava la maglia dello Spezia e chi no, al di là del bene e del male della Tecnica del tocco di palla, che spesso non è stata così fondamentale per la creazione di miti cittadini. Sicuramente meno che il Cuore. In tempi recenti, basta pensare a gente come Padoin. O a Soda, l’uomo del miracolo della Volontà, comunque vada. Hai ragione, ancora una volta: il mio Re è rimasto solo in mezzo alla scacchiera. E’ un Re Nudo. Quasi come quello cantato da Jannacci e Dario Fo. Gli posiziono davanti il mio ultimo Cavallo, quello rimasto, a difenderlo. E, contemporaneamente, il mio stallone nero attacca la tua Regina. Furia, cavallo del West. Tempi supplementari.

Sinceramente Marco

La Spezia, 16 Aprile 2008, ore 15:41, mercoledì Marco, difficile tirare alla lunga una vicenda già confusa di per sé, ma la mia fibra mi permette questo ed altro. Io non ho distacchi con il mondo reale come la tua scacchiera, in questo sordido groviglio di mosse. Il mio alfiere sta muovendo proprio in direzione di uno dei tuoi, per eliminarlo e metterti ancora in seria difficoltà. Secondo il tuo schema, allegatomi nell'ultima stimata, i tuoi pezzi erano collocati in un modo che mi avrebbe reso impossibile qualunque mossa. Ma, così non è: avanzo di torre e mi riprendo la mossa che continui a non contare. Sei un gentiluomo e quindi compensatore. Per il resto, il tuo Jazz mi solleva, Hancock è stato il mio mito giovanile, quando suonava soprattutto fusion, ma, come vedi, io parlo meglio di Calcio, sperando che quello che è uno dei fenomeni di massa più importante della storia, nel secolo scorso secondo solo all'invenzione dell'automobile e del cinema, esca da quello strano confinamento che gli regalano coloro che lo ignorano, gli intellettuali. Pur essendo un evidente oppio dei popoli. Sì, sarebbe bello che il Calcio uscisse definitivamente dallo scantinato della Storia, assurgesse a materia di studio seria e scolastica. Pregiudiziali di chi non conosce la sua bellezza. Eppure, io ho la consapevolezza che si possa piangere più forte per una partita di calcio che per un funerale, si possa sorridere e gioire con più enfasi per un gol che per una promozione sul lavoro. E' forse un po' colpa della memoria, come dice Matteo Marani, affidata oramai solo al collezionismo da bancarella. Ma il calcio ha una sua vita profonda, inequivocabile. Mia moglie a volte si arrabbia, quando mi chiede, magari a tavola con amici, i momenti più belli della mia

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vita: "il nostro matrimonio, la nascita di Alice, quel grido stupendo ed alto di un vagito primo, nel silenzio che ti accompagna attorno a te ed una porta che si schiude. Un’infermiera che ti avvicina e ti dice " è lei il papà dell'urlatrice '" e tu che la vedi crescere. Poi i momenti delicati". Sì, faccio io, ma anche Milan-Steaua al camp Nou ed io impazzito a due passi dal campo che forzo la barriera e faccio invasione sul prato e mi ci sdraio. Oppure il giorno che conobbi Crujff, chiedendogli un autografo che ancora conservo nel portafoglio e che mi tengo gelosamente. O quella rete di Padoin, quello con una gamba sola, ma tantissimi cuori che la reggono. Io abbracciato a Luca e Federico sui gradoni di uno stadio, in tribuna stampa, tra la gente attonita che ti guarda. O il 93' di Verona-Spezia il 21 giugno, le lacrime di Padova e quella forza che ti mancava per poter parlare al telefono con tua moglie. Mi ricordo anche bambino, addormentarmi con la bandiera in mano prima di Estudiantes -Milan o rimanere da solo davanti alla televisione la notte di Italia-Germania 4-3 e svegliare papà per ogni rete ai supplementari. Dico sempre a mia moglie: "anche tutto questo meritava di essere vissuto". Lei non capisce. Oggettivamente è difficile. E' la nostra storia però, la vera storia contemporanea. Da tramandare ai bambini. Van Basten vale come spiegare un pittore, Diego Armando Maradona come un grande storico. Veder palleggiare il Pibe, studiarlo nella sua geometria, guardarlo in quella folle corsa che scarta 7 giocatori e mette la palla dentro la porta del Belgio. Uno con il bacino bassissimo e le gambe mezze arcuate, uno che all'oratorio forse neanche sceglievi per la tua squadra, a guardarlo da fermo. Per me sono Calcio soprattutto Soriano e Galeano, cioè chi ha saputo coglierne l'essenza, ha saputo spiegare alla gente quell'io che diventa noi ogni novanta minuti, ogni benedetta domenica. Per me il sabato della B non esiste, è domenica comunque sia, in anticipo sulla A. Io ho sempre amato il calcio di Crujff, stellare, immenso. Un giorno vorrei rincontrarlo e dirgli sinceramente grazie. Me lo sono sempre immaginato bambino anche lui, nel suo sobborgo di Amsterdam, in un paese altrettanto minuscolo che ancora oggi si chiama Betendorf. Lo stesso posto e lo stesso asfalto sul quale lo notò un signore, Jany Van der Veen, morto poi di Alzheimer, superata l'ottantina. Quel saggio scopritore di talenti lo convinse a seguirlo nelle giovanili dell'Ajax, portandolo via dalle strade di Amsterdam e dal negozio di drogheria dei genitori. Tornando a quell'autografo, dirti perché lo conservo nel mio portafogli mi sembra piuttosto banale. E' semplicemente tutto ciò che mi tiene legato alla mia infanzia e giovinezza. E' come pensare che ho ancora 14-15 anni, che guardo le sue gare, che rimiro come mette a sedere Oriali nella finale di Coppa Campioni, e lo salta due, tre volte, sempre con forza e classe unite. Oggi trovo altri esempi, ma un rapido tuffo nei miei primi amori e baci è sempre doveroso. Comunque, tornando a noi, poiché il gioco non ha avuto respiro, non so esattamente dove possa realmente essere il tuo cavallo. Quindi, al fine, la mia ennesima mossa è: torre cattura il tuo cavallo. Quello, sì, proprio quello.

Sinceramente Armando

La Spezia, 17 Aprile 2008, ore 7:31, giovedì Caro Armando nella tua missiva rintraccio alcuni frammenti di pensiero che non mi trovano in completa sintonia. Dici che il calcio subisce uno strano confinamento, ed i maggiori responsabili sono quelli che tu definisci “intellettuali”. A giudicare dalla potenza di fuoco che il calcio sprigiona attraverso gli organi d’informazione, non si direbbe. Nei palinsesti televisivi, in internet, alla radio e sui giornali, il calcio è argomento che spesso oscura quelli più importanti per la vita delle persone. Tu questo lo sai bene, quindi devo arguire che il tuo concetto sia più articolato e profondo: il calcio inteso come il baraccone del business e della stupidità esasperate, trova uno

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spazio spropositato; quello vero, autentico, composto da cuore, lealtà e nervi tesi, è colpevolmente tralasciato. Se ho ben interpretato quello che intendevi, allora sono d’accordo. Purtroppo, trasmissioni televisive come “sfide” o “la storia siamo noi” sono merce rara. A proposito, quando mi presterai il DVD dello Scudetto di Guerra? Per quanto riguarda gli intellettuali, Soriano e Galeano sicuramente lo sono. “Memoria del Fuoco” di Galeano (di cui possiedo il cofanetto rilegato con i tre volumi, tu ce l’hai?) è uno dei libri più rappresentativi della letteratura sudamericana del Novecento, capolavoro che merita uno spazio d’onore negli scaffali delle biblioteche più prestigiose, accanto a “Cent’anni di solitudine” di Marquez ed alle poesie di Borges. Nel nostro Paese, il mai abbastanza compianto Pier Paolo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali del dopoguerra, amava, praticava il calcio e ne scriveva; Carmelo Bene, genio assoluto del teatro e raffinato pensatore, affermava più o meno che le giocate di Maradona e Van Basten erano opere d’arte donate al popolo. Ed il grande Gianni Brera? Un po’ limitativo considerarlo solo il padre del giornalismo sportivo moderno. Egli era anche un abile narratore ed attento osservatore e critico della realtà sociale. I suoi testi fioriscono di tale capacità d’invenzione metaforica e finezze linguistiche, che possono essere assunti a pieno titolo nel novero dei generi letterari. Il problema è, semmai, che oggi non esiste un nuovo Gianni Brera. E gli intellettuali di cui parli tu, probabilmente sono solo scribacchini di regime con la puzza sotto il naso. In questo periodo di decadenza diffusa e generalizzata, non mi sembra di scorgere molte menti eccelse nel panorama culturale del nostro Paese. Sostenere che il Calcio è uno dei fenomeni di massa più importanti del nostro tempo è una verità lampante, ma l’affermazione non porta con sé un giudizio di merito. Spesso, di fronte alle degenerazioni quotidiane del Calcio moderno, provo sgomento e disgusto. Quando vedo in televisione le facce di molti dei presidenti che infestano questo sport, mi chiedo dove sia segnato il confine della decenza umana; così come quelle di molti dei cosiddetti giornalisti sportivi. Se poi ci aggiungiamo i dirigenti federali nazionali ed internazionali ed i fatti di sangue legati alle frange estremiste di Ultras…. Io ricordo benissimo la tragedia dell’Heysel. Anche perché in quel frangente ho smesso d’essere juventino. In effetti, non mi sono mai stracciato le vesti per i colori bianconeri targati Agnelli: il mio vero Credo è sempre stato lo Spezia. Non ho mai sopportato e mai sopporterò l’immagine di quella coppa insanguinata alzata al cielo. Nessuna vittoria giustifica i morti. Che dire, sarà il clima meteorologico o post-elettorale, ma il mio umore odierno non è proprio dei migliori. La finisco qui, e ti rispondo sul campo: il mio Alfiere elude il tuo attacco, e si trasferisce al posto del mio Cavallo, ancora a proteggere il Re. Difendiamo la porta ad oltranza, in attesa della ripartenza con rinvio lungo, a cercare lo scatto delle punte. Uno schema che mi ricorda quello di una squadra che amiamo follemente.

Sinceramente

Marco La Spezia, 17 Aprile 2008, ore 22:37, giovedì Marco, la continua tensione dovuta a questa partita mi mette in crisi. Mi sembra di rivivere davvero il periodo da Calcio ed Arena. Cose che io immagino per averle viste. Da ragazzino, vidi un’invasione di campo al Comunale di Torino, con i tifosi del Catanzaro che scavalcarono sul 3-0 per contestare chissà che. Un uomo provò a fermare un tale che scendeva i gradoni a quattro a quattro, gli disse " ma che fai" e si prese un cazzotto. La mia disillusione forse morì quel giorno: in quel magnifico gioco che amavo, c'era qualcosa di tribale, e tale era la gente che lo seguiva.

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Ed ancora non avevo letto Desmod Morris e la sua Tribù del calcio. Non reggo quando si fanno paragoni con il calcio inglese, dal quale deriva tutta la storia. 6 novembre 1965. Durante una partita a Londra tra il Brentford ed il Millwall, una bomba a mano è lanciata in campo dal settore occupato dai tifosi del Millwall. Il giorno dopo, il Sun esce con un titolo quasi profetico:"The war is on". Siamo in guerra: "A poche ore dal momento più buio del calcio britannico- si legge- il lancio di quella bomba dimostra come i nostri tifosi possano rivaleggiare in tutto e per tutto con quelli sudamericani". Dopo quell'incontro furono risse continue all'esterno dello stadio, con gli inglesi preoccupati anche di come si sarebbero svolti i futuri campionati del Mondo. Eppure gli stessi media avevamo così amplificato, in senso negativo, fatti cruenti capitati solo un anno prima in Perù-Argentina:"La spinta della violenza deve essere controllata e così sarà". Così dissero. Passano più di 25 anni da quel momento a quando la lady Margharet Thatcher e più tardi, affinandola, Tony Blair, consegnano alla storia quella che i media, in maniera un pò artata, chiamano la football disaster act, la legge che vige in Inghilterra per il calcio. Io i cazzotti per il calcio li contemplo anche, pur tra giocatori, ma il vandalismo ed il terrorismo no. Ricordo fa quello che Ungheria e Brasile combinarono ai mondiali del 1954. Terreno di Berna, Hidegkuti e Kocsis portano subito in vantaggio i magiari, poi rigore di Dialma Santos, tutto in 18 minuti. I brasiliani, che sarebbero maestri di giocata, cominciano a non prenderla bene contro gli artisti del pallone di Puskas e iniziano la loro partita di calci. L'arbitro sorprende Nilton Santos e Bozsik a scambiarsi colpi liberi a mano aperta e li espelle entrambi. Boksis è anche deputato del parlamento ungherese! Ma i giallo oro più picchiano e più le prendono, 4-2. Koczis palleggia con destrezza in mezzo ad avversari che mirano alle sue gambe, mettendo in atto le fughe più utili della sua carriera. Non finisce al novantesimo; all'entrata del passaggio per gli spogliatoi, un fotografo sudamericano abbatte con un perfetto colpo di lotta libera un poliziotto svizzero. E' il vero segnale della guerra. Castilho, portiere brasiliano, placca il gendarme che vuole reagire, mentre il colpevole scappa. Rissa indimenticabile e totale. Più avanti, quasi sulla porta degli spogliatoi, la scena madre di tutta la battaglia: Puskas che attende i compagni per vedere come escono dalla bolgia, incrocia per primo l'avversario Pinheiro; i due discutono giusto un istante senza capire un tubo di quello che profetizzano, con le mani si comprendono meglio e si azzannano, il magiaro sferra una bottigliata in testa al brasileiro. Zuffa Magna, scrisse un compassato Vittorio Pozzo, sul Calcio Illustrato. Pugni, calci, morsi sgambetti, fotografi e relative macchine a gambe all'aria, vetri, teste rotte. Qualcosa di formidabile nel suo genere. Ecco, queste lotte fanno il Calcio, ma non hanno nulla a che fare con le bombe, i tafferugli, la politicizzazione, gli stemmi enfatici, gli estremismi, tifosi di Roma e Lazio uniti contro la polizia la sera della morte del tifoso nei pressi di Arezzo; i dirigenti che parlano e trattano con le frange più dure e pericolose, e spesso ne rimangono soffocati. Armano la mano destra quando già c'è qualcosa di pericoloso nella sinistra. Chi segue la squadra accampa il diritto di impossessarsene, la sua patente a punti è universale e lo fa sentire padrone. E' una questione di cultura, di potere che il calcio instaura, di sovra impressione d’immagini e di soggetti, che senza il calcio nulla sarebbero. Perché nulla sono. La vera mossa, e qui lascio stare la scacchiera, sarebbe quella di limitare tutto questo, dando una sana spolverata al gioco più bello del mondo. A proposito: sto per predirti uno scacco, allenati.

Cordialità Armando

La Spezia, 18 Aprile 2008, ore 12:52, venerdì Caro Armando

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non capisco da quale articolata alchimia tattica derivi la tua sicurezza di scacco, ma attendo fiducioso, pronto a risponderti colpo su colpo. La tensione di questa partita mette in crisi anche me, anche se forse stiamo un poco sopravvalutando il nostro scambiarci mosse strampalate, condite dal filo della memoria. A volte sembra che il nostro gioco sia solo un pretesto per sfuggire alla realtà, quasi una sorta di terapia psicoanalitica a due. Ed anche se fosse, va bene così. Ci sono giorni in cui le pareti di quest’ufficio mi stanno davvero strette, così come quelle di casa, casa dolce sicuramente, impreziosita dalla luce degli occhi di mia moglie Francesca, ma questo è un periodo in cui il desiderio di abbattere barriere diventa quasi intollerabile. E’ ormai un anno che non mi metto in viaggio. Viaggiare è assumere un punto di vista diverso, lasciarsi contaminare da altri sguardi, mettere in crisi le proprie certezze. Non sto certo parlando di villaggi vacanze e non m’interessa quasi più l’Europa. Ho bisogno di paesaggi in cui la violenta bellezza della natura ti toglie il fiato, di lingue incomprensibili che sembrano musica, di odori inebrianti e disgustosi al tempo stesso, di corpi che si muovono con regole armoniche ed eleganze altre dalle nostre. Anche per questo mi piace così tanto l’Africa. La prima volta che sono andato in Marocco, è stato come ricevere uno schiaffone in pieno volto. Un luogo così vicino, due ore d’aereo, e così lontano, in cui i contrasti sono nitidi come i colori del cielo e del deserto. Ho vagato per giorni perso in un’altra dimensione, o almeno così credevo. Ed indovina qual è stata l’esperienza che mi ha fatto ripensare di più a casa? Immagina una spiaggia bianca, che si perde attraverso la linea dell’orizzonte, verso un Sud del mondo ancora più indefinito, verso l’Africa più nera. Un mare scuro, sempre agitato, glaciale anche sotto il sole africano. Immagina decine di campi di calcio, disegnati sulla sabbia, con mucchi di alghe e stracci come paletti delle porte e solo a volte vere e proprie porte di calcetto, tutte con le reti sfondate. Centinaia di giocatori, di ogni età, che scattano, crossano, contrastano, rientrano, ripartono, staccano di testa e di piede. Urla, abbracci, insulti, risate, spintoni, teorie di arbitri improvvisati che fischiano senza soluzione di continuità, confondendo il gioco dei campi vicini. Magliette di squadre europee, magliette della nazionale del Marocco, magliette sbiadite, bucate, torsi nudi. Piedi scalzi, quasi tutti. Pubblico festoso, incazzoso, urlante lungo i perimetri dei campetti e seduto sulla massicciata che divide la città dalla spiaggia. Bambini con il moccio al naso e gli occhi scuri, profondi e teneri, vecchi con il loro caftano tradizionale, donne velate, con i piedi arabescati dalle linee ocra di hennè. E nell’aria profumi di pesce appena pescato, olio di argan e spezie, trasportati dal vento pungente degli Alisei occidentali. E’ la spiaggia di Essaouira, in un qualsiasi giorno della settimana. La città della tolleranza, famosa in tutta l’Africa settentrionale. La città in cui convivono tre cimiteri: islamico, cristiano ed ebraico. La città in cui, leggenda vuole, Jimi Hendrix ha composto “Castle made of Sand”, guardando il tramonto sul mare, con la mente satura di hashish e tè alla menta. Dove Paul Bowles alternava il suo tempo di scrittura con vagabondaggi nei vicoli, alla ricerca di giovani fanciulli locali, disposti a vendere il proprio corpo e la propria anima per un pasto un po’ più sostanzioso del solito. La città in cui Orson Welles ha girato le scene più significative del suo “Otello”, sul set indimenticabile dei bastioni portoghesi. Ogni volta che torno ad Essaouira vado alla spiaggia e mi siedo sotto il sole, ad osservare le partite di calcio. Rimango lì per ore, con il fastidio palese di Francesca, che per un po’ acconsente, anche divertita, ma ad un certo punto mi abbandona e svanisce nel dedalo di vicoli della Medina. E’ incredibile la serietà con cui sono vissute quelle partite amatoriali, sia dai giocatori in campo che dal pubblico. Il tasso di agonismo è pari ad un play out per la salvezza. In Marocco, il Calcio è lo sport più amato. Quando giocano i Leoni dell’Atlante, tutto il Paese si ferma. Quando l’anno scorso sono riusciti a vincere contro la Francia al Parco dei Principi, in una partita formalmente amichevole, ma che di spirito di amicizia e fratellanza non possedeva nemmeno la più piccola sfumatura, tutto il popolo del Marocco ha festeggiato per una settimana in preda al delirio collettivo.

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Viaggiare in Africa è come vivere perennemente al confine del mondo. Un confine che, ad ogni istante, ti sembra vicino e lontano, perché ogni volta che ne superi uno, ne hai subito un altro davanti agli occhi, come se volesse dirti di continuare il cammino ad oltranza. Come nel deserto del Sahara, in cui il qui ed ora si trasformano in un eterno divenire, regolato solamente dai cicli del sole e delle stelle. Un luogo del genere ti annulla talmente tanto che, forse, solo in quel luogo ed in quel momento, la tua essenza umana assume la sua gradazione più pura. Quella di essere una parte del tutto, in relazione continua con ogni cosa. In un senso di Pace totale. Forse questi sono solo deliri pagani da occidentale romantico, troppo letterari per essere reali. Convivere quotidianamente con il Mal d’Africa e con il suo struggimento a volte consola, perché sai che, prima o poi, tornerai ancora lì. E prima di smarrire definitivamente il senno in mezzo alle dune, ti potrai togliere le scarpe e chiedere ai ragazzi della spiaggia di Essaouira di entrare in campo, anche solo per dieci minuti. Non ci sarà bisogno di domandarlo in arabo, dialetto berbero o francese; basterà solo l’alfabeto di gesti che abbiamo imparato da bambini negli oratori. E’ esattamente identico a quello praticato ogni giorno laggiù, davanti ad un mare atlantico senza confini. Attendo la tua prossima mossa.

Sinceramente Marco

La Spezia, 18 Aprile 2008, ore 23:45, venerdì Gentilissimo, la tua ultima è estremamente curiosa, volenterosa, affabile, piena di sentimenti. Ma il motivo dominante è quello che Jean Paul Sartre amava definire "nullità". Contestare il mio scacco significa vivere in una dimensione celeste, mai appagati da un'esistenza difficile. Ho passato ore, amico mio, a ricercare il filo perso di quella che resta una partita di scacchi che abbiamo trasformato in una sorta d’ora d’analisi su un lettino. Scordati alfieri e quant'altro, la tua regina è morta. Non andata: morta. Non so come tu faccia ancora a reggere. Rifiuti di abbandonare una partita che è troppo per te. E' un avido complotto? Non reggerei. Un po' com’è capitato ad un amico, mesi fa. Gli è cambiato il mondo, poverino. Il Pep, come lo chiamavo io, zigomi oggi perennemente arrossati, giocava a calcio con me. Avevamo 10-11 anni, cresciuti a pane ed oratorio. Assomigliava un po' a Bob Vieri, padre di Bobo, quello che aveva sempre i calzettoni tirati giù e la chioma folta piena di fantasia. Autorevolezza strategica in campo, senza correre pilotava la palla, recuperava scioltezza, possedeva il più classico dei repertori. Insomma, ti faceva vincere le partite. Smise che aveva più o meno 37 anni, ma perché il lavoro lo snervava più dell'arbitro della domenica. E la moglie non capiva. Lui era solo coraggioso e leale, appariva da sempre poco in linea con i conformismi di maniera. Quando gli nacque il figlio, Riccardo, aveva già in mente tutto, compreso il completino della nazionale. Il figlioletto crebbe, ma con il pallone, beh, non era la stessa cosa del padre. Uno stambecco che sbandava a tutto campo. E Pep, che sperava crescesse in campo, ci si rattristava. Lo vide allungarsi ed avanzare nell'età senza colpire un pallone come il Dio del Calcio comanda, ed era sempre lì ogni allenamento a scuotere la testa. Lo diedero in prestito ad una squadra cittadina e lui giocava centravanti, senza segnare mai, neanche se giocava in discesa. Pep era sempre in tribuna e lo vedevi smaniare manco ce l'avesse con il mondo.

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Poi, un pomeriggio, accompagnò il figlio all'ennesima sfida, sulla statale cittadina. Una gara come un'altra e come un'altra ancora, tanto dalla disgrazia non riemergi; Riccardino si avvicinò al padre e gli fece: "pà, 35 euro a gol". Pep, rise e rispose: " Anche quindici figliolo, anche quindici”. Dopo 5 minuti Riccardino infilò il portiere avversario uccellandolo, con estrema istrioneria; poi al 7' della ripresa fece il raddoppio con una mezza girata sotto la traversa. Pep, disorientato, vide allora il figlio battere una punizione dal limite dell'area, rasoterra, precisa nell'angolo al 88'. 3-0, 45 euro alla cassa, era uscito il biglietto vincente della lotteria. Mai visto. Pep cominciò a pensare che tutto fosse finto e chiese al signore che seguiva la partita vicino a lui, per altro scarsamente disponibile al dialogo, che giorno e che ora fosse. Allora costatò che tutto era vero. Una fiaba ed un inizio dorato? Dorato come il meriggio che lo illudeva dopo tante malinconie e nequizie? Andò avanti così fino a maggio, poi nell'ultima partita si doveva giocare in casa della seconda in classifica. La sera prima giocava l'Inter e Riccardo era un innamorato di Ibrahimovic. Tanto innamorato che al 23' del primo tempo, il giorno a seguire, dopo aver realizzato l'1-0 ed aver virtualmente incassato l'ennesimo 15 euro del suo mensile ( facevano 21 da quel fatidico primo giorno), si trovò tra le piote una palla all'altezza della bandierina dell'angolo. Allora si ricordò di quanto aveva visto la sera prima, e fece un paio di finte con il corpo, scavando la palla da sotto come fa Zlatan, e cercando di saltare l'avversario. Che, irretito, cominciò a borbottare e bofonchiare, ma riuscì ad immolare una sonora verga alla caviglia di Riccardo. Il quale, finì ciondolando a terra. Rottura della tibia, ci vollero 10 mesi per recuperare. Pep, quando mi racconta questa storia davanti ad una birra, e lo fa quasi ogni mese, mi guarda quasi inebetito: "Aveva appena capito chi era, o meglio, il Calcio aveva capito la sua vita, perché non può essere il contrario". Ed io che gli rispondo con quelle parole di Certe Notti di Ligabue, parafrasando un po': " Certe notti la radio che passa, Neil Young sembra avere capito chi sei! Young ed Harvest, non il calcio, dai!". Pep annuisce e la smette lì. E' un po' l'immagine della mia malinconia, di un Calcio che ogni sabato sera, al Picco, ha la sua pausa e trasforma la domenica in un mercoledì dopo le ceneri. Di uno Stadio che si ammutolisce e che comincia a glossare tutta una settimana fino ad attendere di ritornare a far festa. Perché ho l'idea che, specie qui alla Spezia, gli adepti tifosi vadano da anni al Picco a cercare un miracolo qualsiasi. Una promozione, una salvezza, un gol, un autogol foresto. Per anni non hanno visto nessun miracolo e fenomeno, ma sono sempre ritornati allo stesso posto, da buoni credenti. Cosa mi aspetto oggi da queste storie? Semplicemente, che vivano ancora. Che sappiano trasmettere una forza. Ho sempre amato quella frase di Carapellese detta ad un collega anni fa, che ebbe la fortuna di sentirla da un grande calciatore, per scolpirla nella memoria di tutti: "Allo stadio andate sempre con i vostri figli, mai soli, per tramandare una passione". Più che parole, sono un sentimento, dette da uno che in campo lottava su ogni traiettoria con umiltà grandiosa, che spianava bei palloni per la cooperativa, che fosse Milan, Torino e Nazionale. Uno che poi, nella vita, non vide tutto limpido, ed ebbe e patì grandi amarezze. Carapellese lo conobbi agli inizi degli anni novanta al Picco, si faceva accompagnare a vedere lo Spezia da Genova, dove aveva un piccolo negozio di coppe e medaglie. Lo avvicinai e gli allungai una mano, mi rispose con un sorriso: "non la conosco, ma se è qui abbiamo qualcosa in comune io e lei". Risposi: "Lo Spezia?". “No -disse lui appoggiandosi ad un bastone- amiamo il calcio, soprattutto". Aveva ragione. Tornando a noi, la mia mossa è ribadita: Regina nella quinta di cavallo e ti ripredico scacco in una sola, inesauribile ed implacabile mossa.

Cordialità Armando

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La Spezia, 21 Aprile 2008, ore 9:45, lunedì Caro Armando non è elegante infierire su un uomo già abbondantemente provato. Tu non potevi saperlo, ma solo adesso riesco ad emergere con fatica dalle nebbie di una febbre di fine stagione, questo scampolo d’inverno che rende l’inizio di primavera umido e stonato, come se il nostro Golfo si affacciasse su scogliere impervie e spazzate dai venti atlantici, tra Bretagna e Normandia, laggiù a Finisterre, invece che sul dolce e comprensivo mar Ligure Tirreno. Una febbre che ho combattuto con tutti canoni delle moderne formule antipiretiche e qualche tiepido successo sino a sabato pomeriggio. La ricaduta era già scritta, prima negli occhi di mia moglie e nel suo scuotere la testa nel dirmi: “almeno levati la sciarpa dello Spezia e mettiti quella di lana, cretino!”; poi nell’urlo liberatorio e nell’attacco di convulsioni da gioia al goal di Max; ed ancora, nell’appannamento di vista e bruciore di guance, mentre ero seduto sul gradino più basso dei distinti, a fine partita, aspettando i risultati degli altri campi dalla voce parossistica di Dellavalle, con le tempie fra le mani, il fiato corto ed un ronzio pronunciato e continuo nel cervello, come se avessi infilato la testa dentro un alveare d’api incazzate di campagna. Così, ho passato tutta la domenica di nuovo a letto, con Francesca recante aspirine e rimproveri muti, la colonnina di mercurio che non voleva saperne di abbassarsi, dolori in tutto il corpo e la mente quasi irrimediabilmente sprofondata nelle sabbie mobili del delirio. Capirai bene che, quando stamattina, dopo una notte di incubi da aerosol, ho acceso il mio PC ed ho visto la tua nuova, per un attimo mi sono sentito il portiere del Cesena, quello con il nome da cavaliere latino alla corte di Riccardo Cuor di Leone, che guarda il pallone gonfiare la rete e sente svanire i sogni di salvezza. Scacco in una sola mossa, e con la tua Regina! Per fortuna lo scoramento è durato solo qualche secondo. Ho riannodato con certosina pazienza i fili delle mie sinapsi abbrustolite e ho capito che tutto non è perduto, anzi. Mi rimane ancora un valido Alfiere, che fino ad ora è rimasto piuttosto appartato sulla scacchiera, fuori dell’azione. Non lo avevi visto, preso com’eri dalla tua fase d’attacco sul filo del fuorigioco? Forse era uscito qualche secondo dal campo per farsi massaggiare i polpacci dal medico sociale, dopo un accenno di crampi? Comunque sia, ora sta correndo in linea retta verso la tua Regina con tutta la foga di un Ringhio Gattuso o di un Gorzegno, e se la pappa in un sol boccone! Altro che scacco, ti toccano i play out e con la prima fuori casa. Do you remember Verona? Pioggia e vento si stanno accanendo ancora contro le mie persiane, e temo che questa primavera nordica andrà avanti per tutta la giornata, con il mio umore nero come corollario. Che diamine, siamo ad Aprile inoltrato e gli armadi traboccano ancora di cappotti e maglioni di lana! Mi consolo con le foto di Spezia-Cesena su CDS, anche perché la voglia di lavorare deve essere proprio rimasta ben soffocata tra le lenzuola ed il piumino, e non si decide ad alzarsi. Altra mezz’ora di lotta furibonda con il senso del dovere ed il fancazzismo capitola, complice la sferzata di aria fredda che mi accompagna lungo tutto il tragitto casa-ufficio. L’odio per il lunedì mattina è in parte attenuato dal ritrovare le facce amiche dei colleghi: per chi, come me, ha la fortuna di condividere l’ufficio con due fanciulle simpatiche e carine, l’impatto con l’inizio settimana è sicuramente meno traumatico. E poi ci sono i discorsi sullo Spezia, che ti prendono una notevole manciata di minuti e per tutto il tempo ti sembra di essere un funzionario del Catasto, non di sbarcare il lunario come libero professionista. E le telefonate con gli amici pendolari che ti chiamano incolonnati sulla Cisa e che vogliono sapere le ultime novità societarie. Hai letto il Secolo? CDS? Che dicono? I ragazzi? Ci vediamo sabato al Picco. Così i minuti passano ancora ed arrivano le nove e mezza, e bisogna cominciare a lavorare davvero, senza più alibi, in nome della pagnotta quotidiana. Oggi, questa sequenza d’azioni di disturbo mi sembra un poco più lunga, e faccio davvero fatica ad ingranare.

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Sarà per i postumi della febbre o perché ho ancora nelle orecchie e nel cuore l’urlo del Picco? Vabbè, vado a prendere un caffè al Bar. Non ho ancora letto il Secolo… Attendo la tua prossima mossa

Sinceramente Marco

La Spezia, 21 Aprile 2008, ore 14:14, lunedì Caro Marco, a due passi dalla vittoria, mi sento sicuro. Inossidabile. Non c'è Re o Regina o Pedone che tenga. Cavallo nella quinta o sesta di Regina, Alfiere a Scacco, posso fare quello che mi aggrada. Mi sento una sorta di Garrincha che spazia sul campo tenendo fermo lo sguardo sulla palla. E' un peccato che un garroto come Garrincha non ci sia più, è quasi un insulto alla storia del Calcio, che nessuno gli assomigli, perfino. Ho un'immagine davanti, quella sua finta incredibile, forse favorita dal fatto di avere una gamba più corta dell'altra. Lui che va verso il centro, poi un gesto improvviso che gira su se stesso ed inverte la traiettoria e quel sette sulla schiena che s’intravede meglio, con una velocità che è un colpo di vento. Capitava spesso che lasciasse i compagni soli a soffrire, ma quando li voleva accompagnare, era fenomenale. E quella finta che proseguiva con il difensore spaesato, che non reggeva la svolta, e lui che se n’andava sulla destra ed il secondo uomo, con 5 sulla schiena, che gli si parava davanti in corsa. Manè altro non faceva che lanciare la palla leggermente avanti a lui, la riacciuffava prima che lo stopper potesse mettere la gamba e partiva verso la linea di fondo. L'Estrella solitaria ti guardava sempre triste, mai irridente, aveva colpi di genio capaci di immalinconirsi, ma che soprattutto rattristavano gli avversari. Perchè sugli spalti era delizia pura. Il "passarinho" lo chiamavano, ed a seconda di dove lo pronunciassero, in sud America perdeva o guadagnava una N. Al sud era Garricha, al Nord Garrincha. Era il Fred Astaire del football. Ballava e danzava anche sotto la pioggia. Ai tempi della mia giovinezza, la televisione e la stampa erano una cosa diversa, più snella e semplificata, ma che faceva più sognare; non esisteva chi potesse divulgare il verbo calcistico con mezzi di comunicazione come quelli che ci sono oggi. Ho dovuto attendere anni per vedere Garrincha in un dvd, poterlo studiare bene, arrivando a definirlo come uno dei talenti più puri che io abbia mai potuto ammirare. Internet è diventata la mia Bibbia. Da ragazzo potevi solo immaginare, negli anni 60', ciò che oltre Oceano avvenisse. Io giocavo centravanti, dopo aver iniziato come terzino sinistro, anche se non ero mancino, ed essermi spostato all'ala destra. Mio padre era stato portiere, dice sempre che smise il giorno in cui riuscì a prendere un gol distratto da mia madre, che dietro alla sua porta aveva inscenato una sonora litigata. Mamma e papà si sono sempre interessati in maniera discreta a quello che facevo un campo, badavano al sodo: nella domanda cosa farai da grande non concedevano l'opzione calciatore, come oggi io non concedo quella di " velina" a mia figlia. Giocavo bene? Diciamo che non correvo nella posizione opposta a quella della palla, segnavo tanti gol quanti forse ne sbagliavo, avevo compagni in gamba. Andavo in bambola solamente quando finivamo ai rigori perché, qualunque torneo o finale fosse, arrivava sempre il turno di un omino piccolo e tosto, scattante e tecnico, che però dagli undici metri non ci aveva mai capito nulla. Era un nero tenebra che si parava davanti a lui, anche a porta sguarnita. Che fosse pioggia, vento, sole, umidità massima o secchezza delle fauci, lui il rigore lo sparava alle stelle, non c'era verso.

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Vinsi anche una classifica cannonieri di seconda categoria, quando avevo appena 17 anni, divertendomi a leggere sul giornale che per il Don Bosco in gol era andato il "solito" Napoletano. Come smisi? Da eroe assoluto, qualcosa che non t’immagini neanche. Conobbi un mister che proprio non mi vedeva, eppure ero il titolare e segnavo. Lui decise che dovevo fare posto ad un altro attaccante che reclamava a gran voce il posto. Il mister era il classico uomo che si grattava l'orecchio sinistro con la mano destra e che si complica la strada anche per tornare a casa. Mi parlò ed accettai: " Gioca lui solo il primo tempo". Seee, bona! 3-0 per noi, tre reti del collega, che non uscì più dal campo. A fine stagione me n’andai e tornai alla società che ancora era proprietaria del mio tesseramento, richiesero un altro anno di calcio in prestito, ma io volevo già piantarla. Così mi mandarono, a me milanista, in una squadra con la maglia nerazzurra affiliata con l'Inter. E già la cosa non era il massimo. Iniziai di malavoglia, poi alla quarta giornata, dovetti giocare contro il Don Bosco. Ci ero cresciuto, avevo giocato con loro 15 anni, li guardavo e mi emozionavo. Dissi al mister incredulo: "Se vinciamo e segno io, mi porto a casa la maglia e la finisco qui". Lui rise. Meno, molto meno però, quando al 92', dopo una partita tutta giocata nella nostra area, il terzino di sinistra riuscì a spostare la palla verso l'esatta linea mediana nella più classica azione di contropiede. La palla rotolò con la gittata più lunga fino al nostro centrocampista, detto Pallino, che fece soli dieci metri e poi calibrò un cross di 40. Io avevo seguito l'azione e quando la palla arrivò ero praticamente solo davanti al portiere, una pertica di ragazzo, e mi bastò toccare di fino per spiazzarlo. Dico sempre che è stato il mio primo matrimonio, io e la palla, il più grande desiderio. Finì 0-1. Incredibile, un furto perfetto. Entrai negli spogliatoi, tra pacche sulle spalle e risate, fino a che presi la maglia e la misi in borsa. "Saluti a tutti, finisce qui" dissi, tra le risate generali. Non mi videro più, per tutta la settimana vennero a cercarmi. Ma smisi lì, in quell'attimo, con quel matrimonio. La malattia però era già nata e, visto che anche quella che sarebbe diventata mia moglie di perdere domeniche dietro a me non n’aveva nessuna voglia, e conscio di non poter migliorare la mia tecnica, scelsi la via di raccontarlo, il Calcio. E con la penna non servono i fuochi d'estro. Mi è rimasto il senso altruistico, quello sì. Gioco e scrivo un po' anche per gli altri. Altruismo che però non mi permette di farti vincere questa sfida a scacchi. Scacco, scacco. Scacco!

Salutini Armando

La Spezia, 22 Aprile 2008, ore 01:43, martedì Caro Armando forse sarà l’ora piccola, ma i simboli sulla tastiera del mio computer sembrano lontanissimi, ed il suo schermo rimanda solamente immagini sfocate su sfondo bianco, liscio e luminoso. E’ tutta la giornata che rifletto sopra la tua ultima mossa ed i tuoi racconti. Ho cercato di procrastinare le mie decisioni sino a queste ore notturne, sperando che il silenzio della città mi regalasse maggiore concentrazione e magari un’illuminazione finale e risolutiva, ma non è stato così. E’ inutile nascondersi dietro un dito e fare finta di non vedere. Lo schema che giace beffardo sulla mia scrivania, che mi sono premurato di stampare a colori, ormai non offre più alcun dubbio. Ho perso. Questa è la triste verità. Per cui, prendo finalmente atto del tuo scacco e della mia sconfitta. E colgo l’occasione per porgerti le mie migliori congratulazioni.

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Non ci crederai, ma non sono dispiaciuto più di tanto. E’ stata una bella sfida e credo di essermi battuto onorando la maglia, secondo le tradizioni e la storie che ci accomunano. Quelle che abbiamo imparato in tanti anni d’onorata carriera al Picco, tu anche più di me, considerando la tua età più avanzata (almeno concedimi di darti del vecchione, così rosico di meno!). Ti confesso che quello che non ho vissuto di persona, l’ho appreso da te e dai tuoi scritti, e molto dalla memoria orale collettiva, quella che ancora è tramandata dai nostri vecchi dello Stadio. Quelli che ancora oggi li vedi arrivare in congruo anticipo, a prescindere dai rigori del clima, e che si soffermano giù nel corridoio qualche minuto, per due chiacchiere con amici e vicini di posto, magari dopo un caffè borghetti sorseggiato quasi con religiosità, in memoria dei tempi in cui un liquorino dopo pasto era un lusso e non la norma, perché erano i giorni duri della guerra e della fame. Li vedi, quando si siedono composti, dopo avere ripulito con un fazzolettino di carta il loro sedile calpestato da suole arroganti e griffate di qualche giovane maleducato. Puoi notare il loro modo di vestire antico e misurato, con quelle cravatte fuori moda da lustri, ma con il nodo impeccabile, adagiato perfettamente in mezzo a becchi troppo lunghi di un colletto candido di lavanda e stirato con amore di moglie d’altri tempi. Ed avvolta intorno al collo una sciarpa dello Spezia di quelle che non trovi più, forse cucite a mano in tinelli di periferia, senza preoccuparsi minimamente del copyright del merchandising ufficiale. Durante la partita non urlano e bestemmiano come tutti gli altri scalmanati sub-umani, me compreso. Solo qualche commento sospeso, buttato lì, senza la pretesa di fare scuola, ma spesso con una lucidità d’analisi del gesto e una conoscenza dell’andamento futuro del gioco che ti lascia basito. Non è che non la vivano, la partita. Soffrono eccome, ed altrettanto gioiscono. Semplicemente, il loro apparente distacco è figlio di una buona educazione, che noi giovani bestie non conosciamo più. La puoi leggere nei loro occhi tutta la tensione, attraverso il loro sguardo che, nel momento di un goal aquilotto, si perde oltre il campo, supera le tribune ed abbraccia tutto quel pezzo di cielo spezzino orlato dalle colline. E quando sei davvero fortunato, ti puoi beccare anche un loro abbraccio, quasi come se fossi il nipote rivisto dopo tanto tempo. Ma questo succede solo dopo un bel po’, anche dopo anni, perché loro ti osservano sempre con discrezione e non ti danno subito confidenza. Hanno bisogno di capire che tipo sei. Non che lavoro fai, se sei ricco o povero, se ti piace più la carne o il pesce o per quale partito voti. Semplicemente, se sei uno di loro. Se possiedi la loro stessa passione ed umiltà, se da qualche parte, depositata nel profondo della memoria, ti è rimasta una traccia di rettitudine e di civile senso civico. Sono proprio belli i vecchietti del Picco. O, come direbbe Willy, il mio amico e compagno di scorribande calcistiche, sono proprio i numeri uno! Forse, queste ore notturne sono particolarmente adatte per le riflessioni intrise di nostalgia e per i bilanci della vita. Alle due di notte, il centro di questa città sembra oppresso da un coprifuoco particolarmente rigoroso, si avvertono solo gli echi lontani di qualche solitaria automobile, grida intermittenti di gabbiani smarriti tra le antenne ed i cornicioni, e nessuna traccia di suoni umani. Non capisco se esserne contento, il sonno certamente se ne giova, però io provo anche un poco d’inquietudine. Del resto, questa città rimane sempre e comunque un dormitorio a cielo aperto, e non solo perché in centro storico i locali chiudono troppo presto, anche d’estate. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, lo abbiamo affrontato tante volte ed adesso è veramente tardi, sono stanco. Ti saluto, Caro Armando, ma prima di premere il tasto Invio per spedirti l’ultima missiva elettronica di questa strana partita che mi ha visto sconfitto, mi permetto di ricordarti che, in qualche bar di periferia o in qualche circolino di quartiere, c’è un bel bigliardino che ci sta aspettando. E ti assicuro che lì non canterai vittoria tanto facilmente. Proprio per niente. Attendo un Tuo gentile riscontro.

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Con rinnovata stima Marco

La Spezia, 22 Aprile 2008, ore 12:43, martedì Caro Marco, ci si avvia al gran finale, sei preda, eccessivamente provato dal confronto impari. Ho tecnica, ammettilo, mentre tu perdi pezzi e torri e Regine, come su un campo di battaglia. Hai perso? E grazie, non ti restavano che i pedoni, ma sappi che con quelli ci hanno fatto la storia, sì, anche quella del calcio. I piccoli immensi uomini come Keegan o come Jinky Johnstone, la piccola ala del Celtic, o come Stanley Matthews, che dribblava in un penny gli avversari. O come Massimiliano Guidetti, capace di gol impossibili, di giocate su un’unica mattonella, che trovano nello spazio della porta l’unico pertugio possibile per entrare. Di tiri mancini e di gol di destro, di segnature di rapina e di colpi di genio. I piccoli, grandi uomini che infiammavano le piazze, che raccoglievano e raccolgono l’applauso della gente pronta a prendersi anche un intero acquazzone nelle ossa, non disposta a lasciare il proprio posto in tribuna dopo aver pianto di gioia. Come se la loro casa fosse lì: non ti è mai capitato di fare fatica a lasciare lo stadio? A me sì, 10 giugno 2007 Olimpico di Torino, dopo la rete di Padoin. Ero come perso nel tempo, scrivevo e parlavo del Dio del Calcio e della sua esistenza. Di andare a casa non ci pensavo proprio, quei minuti erano la mia ragione. Gli occhi di giocatori come Guidetti sembrano due spiragli soffusi nella malinconia. E spesso danno la scossa all’intero pomeriggio. Chissà perché, gli eroi del mio calcio sono tutti piccoli, tutti fenomeni di bravura e dribbling, tutti giocatori, ala o attaccante che siano, un ruolo strano nel calcio, forse solitario. Il 7 o l’11 sulla schiena non conta, conta quello che di stentoreo riescono a creare, l’emozione che offrono. La rete di Guidetti al Cesena, quell’urlo di 30 secondi ininterrotti della gente come impazzita, che vedeva solo il miraggio di una salvezza, neanche concretizzata. Il Dio del calcio li ha mandati per rallegrarci, per spegnere le nostre lacrime, per ridarci il vero sorriso, per far sì che il lungo viaggio dentro un pallone prosegua. Senza di loro sarebbe il nulla, senza la festa solo un ridicolo (spesso) assembramento di piote ed omeri, che è largamente sufficiente ad ostruire ogni intenzione di spettacolo. Guidetti, nella nostra città, è stato come un lampo; senza di lui, nulla questa gente aveva vinto; con lui quasi tutto. Abbiamo bisogno di eroi, dobbiamo credere in qualcosa, darci la voglia di vivere di più di quello che la vita già non ci offra. Ed il calcio diventa proprio ciò che diceva Arrigo Sacchi, la cosa più importante tra quelle meno importanti. Ogni addio di questi giocatori ad un campo di calcio è stato grande, perché gli addii dei grandi sono sempre indimenticabili. Non riesco ad immaginare il giorno che vedrò Guidetti con un’altra maglia: sarà il più feroce ed ingannevole dei mali. Ma so che potrebbe avvenire. Proprio per questo, sbaglia chi considera il calcio un gioco effimero, anche perché il suo fascino sta proprio nell’ambiguità suscitata dal relativo e spesso non perfetto dominio che i piedi, anche se pur calzati adeguatamente, come ricordava Caminiti, hanno sulla cosiddetta sfera di cuoio. La storia si dipana sempre e non torna mai uguale, non si ripete alla stessa maniera. Gli unici che possono capirla sono i tifosi, immortali per secoli e secoli, capaci di ogni rosario e messa, increduli dopo una sconfitta come estasiati dopo una vittoria. Hanno il pregio di moltiplicarsi. Quelli dello Spezia si sono comprati anche la loro squadra, così com’è successo in Inghilterra a Wimbledon, dove non si sono piegati al volere di portare lontano dalle strade natie il club giallo, e lo hanno fatto traslocare a 200 km. Ma, a Spezia come al Wimbledon, la gente non è comune, non è solo tifo e colore di una maglia: è storia, tradizione, cultura; questi ultimi l’hanno ricreato il loro club e non si sono piegati al business che toglie l’anima e la mortifica.

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Questa lunga partita mi attanaglia, ormai, bisognava chiudere; torre nell’ottava di cavallo e non se ne parla più, scacco matto. Ah sì, ti stavo ribattendo un’altra volta, hai ammesso la sconfitta. Adesso te lo posso dire, quel dialogo e carteggio tra Vardebedian e Gossage di Woody Allen era la mia ispirazione, una scusa per far sì che le parole sul calcio scivolassero, solo un modo di confrontarmi con te; ma, come loro, sono benevolo. Penso essenzialmente che tu sia un buon uomo, ed accetto di altrettanto buon grado l’invito virtuale di darti la rivincita a bigliardino, ma partiamo prima dallo Scarabeo. Gossage fregò Vardebedian pescando sette lettere: o a e j n r ez. Ho lo stesso loro lessico? Di più. Lui propose Zanjero, 116 a zero, a partita neanche iniziata. Io vado oltre, la mia cultura me lo permette. Pesco in serie: Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch No, non è uno scherzo. E’ una località in Galles, nell’isola di Anglesey, la traduzione del nome è: Chiesa di Santa Maria nella valletta del nocciolo bianco, vicino alle rapide e alla Chiesa di San Tysilio nei pressi della caverna rossa. Faccio due conti: 311.234 a zero. Credo di aver già vinto anche questa. A te. Con ossequi.

Armando

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Gli autori. Armando Napoletano è nato a Chivasso, nella provincia di Torino, il 30 settembre del 1961. Era un sabato e tutti, compreso suo padre, juventino doc, erano preoccupatissimi del derby che si sarebbe giocato al Comunale il giorno dopo. Che fosse una giornata strana lo dice il fatto che sempre l’1 ottobre la serie A mandasse in onda anche Lazio-Roma ed Inter-Milan, una cosa mai vista. Vissuto a pane e calcio, oggi è collaboratore del Secolo XIX, corrispondente di Tuttosport da 20 anni e direttore della testata on line CDS. Sposato con Alessandra, è un appassionato di calcio ed atletica leggera, segue sua figlia Alice nelle innumerevoli partite di basket di tutta una stagione, è un amante della letteratura sportiva e di Galeano e Soriano. Come dei Genesis e George Harrison. E soprattutto del suo mito, Woody Allen. A Torino, dopo il gol di Padoin, lo hanno visto stramazzare sui gradoni, a Padova, il Primo maggio 2006, piangere. Dice sempre che fare il giornalista è un lungo viaggio tra il piacere ed il dovere. E’ consigliere regionale dell’Ordine dei Giornalisti ed uno dei soci fondatori della Fondazione Spezia. Marco Ursano è nato alla Spezia, il 3 maggio 1967. Per motivi di studio e lavoro ha trascorso quasi metà della sua vita in esilio, in terra ostile toscana ed in padania. Rientrato in Patria nel settembre 2005, nell’arco di un anno si è sposato con Francesca, ha pubblicato il suo primo romanzo “l’amore romantico non muore mai (un giallo sentimentale)” per Coniglio Editore in Roma, ed ha fatto la prima invasione di campo della sua vita, il Primo Maggio 2006 nello stadio di Padova. Numerosi testimoni oculari sostengono di averlo visto inginocchiato a mangiare l’erba del campo, piangendo. Nel 2007 è stato finalista del Premio nazionale “Orme Gialle”, presieduto da Carlo Lucarelli, con il racconto “Andata e Ritorno”. Dall’estate 2007 collabora stabilmente con CDS con la sua rubrica “il Cielo sopra La Spezia”, nella quale ha creato la serie “Facce da Picco”. E’ in attesa di pubblicazione del suo nuovo romanzo, interamente ambientato a Spezia e che si apre con il primo goal di Guidetti al Genoa, ma sino ad oggi ha ricevuto dagli editori solo dei gran rimbalzi. Per sopravvivere, si divide tra le precarie professioni di consulente di marketing e nuove tecnologie e l’organizzazione d’eventi culturali e di spettacolo.

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Frizzi, lazzi e molte grazie. Tutto è nato una sera a tavola, con Marco ed Alessandro, reduci da uno spettacolo teatrale che raccontava di uno scritto di Soriano, “il rigore più lungo del mondo”. Devo quindi ringraziare Riccardo Monopoli per aver messo in scena molto bene qualcosa di unico, che ci ha ispirato. Credo di dover soprattutto ringraziare Alessandra, che non mi regge più, che mi sente parlare di calcio 24 ore su 24 da tanti anni. Ma ha ancora due occhi che incantano. Poi Alice, mia figlia, quella che secondo mia moglie non doveva seguire il football ("non gli attaccare la malattia") e gira per casa con la maglia di Rooney anche se gioca a basket. Un sincero grazie ad Ariatel per il coraggio dimostrato nel propormi una direzione come quella di CDS che ha aperto un varco nell'editoria e nel giornalismo della nostra città, un fatto secolare. Le dediche: Ad Alice, la mia stupenda figlia, ad Alessandro Grasso Peroni, lui sa perché. Poi a Nicola Padoin, perché quel gol a Torino mi rimarrà anche da morto nella testa. Agli amici più veri.

Armando Napoletano Il ringraziamento più grande ad Armando Napoletano, Maestro di Calcio, di Storie e uomo competitivo nelle sfide. A lui va il merito dell’invenzione di questa schizofrenica partita a distanza, a lui la mia sempiterna riconoscenza per avermi regalato il divertimento ed il privilegio di essergli antagonista su questa scacchiera metaforica. E voglio proprio vedere se mi batte anche a biliardino! Ringraziamenti sentiti a tutta la Redazione di CDS e all’Editore Ariatel. Le dediche: la prima ad Alessandro Grasso Peroni, lui sa perché. La seconda, a Massimiliano Guidetti: uno di noi, ed uno dei miei eroi del Calcio. La terza ed ultima, a mia moglie Francesca. Perché è stato tutto merito suo se ho scoperto la spiaggia di Essaouira, perché se non le dedico tutto quello che scrivo si arrabbia di brutto, perché è il più grande Amore della mia vita.

Marco Ursano

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Sogni e riti di un fenomeno sociale e un “carrozzone” che passa veloce postfazione di Fabio Lugarini Trent’anni fa un artista geniale come Pierpaolo Pasolini scriveva che “il calcio «è» un linguaggio con i suoi poeti e prosatori” confermando la sua versatilità e il suo essere intellettuale senza per forza snobbare il naturale perseguimento delle passioni. E’ da qui che vorrei partire, da quel binomio che unisce gli attori protagonisti con chi ne racconta le gesta: si forma così l’immaginazione di chi non c’è e non può toccare con mano l’esperienza in modo diretto. Penso al calcio di una volta dove l’apporto televisivo era circoscritto, ed erano strumenti interpretativi come radio e giornali a raccontare la cronaca delle partite. Chissà perché gli stadi erano pieni di gente. Ho sempre pensato che abbia poco senso guardare una partita di calcio attraverso la televisione: è la morte del superfluo (essenziale in uno spettacolo appunto superfluo come il calcio), di quello che sta tutt’intorno ed è così importante per apprezzare il fenomeno sociale più che quello prettamente sportivo. La mia prima volta al “Picco” risale al 1991 e, visto dove sono finito, per me non fu una domenica normale: ho una reminiscenza nitida della vecchia curva Piscina, degli stili e dei colori anni ’90, di mio fratello Paolo e della sua fulgida passione, ma ricordo pochissimo di ciò che accadde in campo a parte un rigore sbagliato da Mariano che inchiodò il risultato sullo 0-0. Soltanto vivendolo dal vivo il calcio raggiunge la sua essenza sublime. Semplicemente perché nei “momenti veri” tocca tutti in egual misura: si piange e si ride insieme, si soffre e si gode all’unisono come un coro, ora fragoroso ora melanconico, ma sempre cantato da una voce sola. Non ho mai vinto molto con le ”mie squadre”: le illusioni tipiche dell’infante si sono sgretolate in tre momenti che non voglio dimenticare quasi fossero monito per esaltazioni future. Lucca 1989, la cessione l’estate successiva di Roberto Baggio dalla Fiorentina all’”odiata” Juventus e Trieste 2002. Ce n’è abbastanza per sconfortare e molti infatti si sono fermati lì, semplicemente cambiando passione: da tifoso, tre amarezze indigeribili, ancora oggi. Le “mie” vittorie? Solo piccole parentesi di gloria in mezzo a lunghe stagioni anonime per non dir fallimentari. Eppure, nonostante le poche esultanze non ho avuto momenti di stacco forte, anche negli anni più difficili dove anzi mi sono ancor di più appassionato. E alla fine ho avuto ragione perché nonostante ce la stiano mettendo tutta per farmi/ci allontanare, ho vissuto gli ultimi anni con un trasporto incredibile e se mi avessero predetto ciò che la sorte ci avrebbe riservato mi sarei fatto una fragorosa e incredula risata. Devo dire che, avendo avuto proprio in questa stagione il privilegio (?) di poter vedere il tutto da dentro, noto come il calcio somigli ad un grande carrozzone nel quale essere presenti sembrerebbe già un successo. A patto che il prodotto tiri, sennò meglio defilarsi. Ma è nel giorno della partita che si azzera tutto e ti accorgi di quante persone, in un modo o nell’altro, stanno dietro l’evento e lavorano sodo perché lo spettacolo possa andare avanti. Un microcosmo che pian piano si forma, già diverse ore prima della gara: attimi che paiono anni e l’obiettivo ben impresso sul presente, perché c’è la partita e conta solo quella. Le espressioni dei volti sembrano così distanti dalla quotidianità…c’è tutto un vissuto interiore, gravoso da raccontare ma tutto da vivere. La cosa forte è che spesso ho avuto l’impressione che tra il campo e gli spalti non esista differenza, ognuno con le proprie responsabilità, con le proprie intime abitudini. L’attesa del fischio d’inizio e in particolare quel gusto particolare che trovo nel percepire il graduale riempimento dello stadio, pur non vedendolo, sono le sensazioni più vive di un attore non protagonista. Che c’è, diamine se c’è, anche se per i più non si vede. Dietro quei magnifici ‘novantaminuti’, c’è tutto un mondo fatto di fatica e rigore, di concentrazione e ritualità. La settimana che precede la partita è tutto un giuoco di equilibrio: fisico e mentale, strategico e cerebrale. A volte ho sofferto la solitudine mentale perché il calcio vive a velocità supersoniche, disumane. Ci si dimentica di tutto in fretta, resta una maglia, una città, le loro storie. Ecco perché la chiave di tutto rimane l’umanità, nei volti di chi c’era, c’è e rimarrà. A volte per capire chi siamo basta fare un passo indietro, con la memoria e con lo spirito. Il calcio non è esente.

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Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro... (PierPaolo Pasolini)

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Sommario Prefazione di Massimiliano Guidetti. pag. 2

Anima e Calcio, in un solo Album. Presentazione di Stefano Senese. pag. 4 Il calcio sembra aver capito la tua vita. pag. 6 Gli autori. pag. 25 Frizzi, lazzi e molte grazie. pag. 26 Sogni e riti di un fenomeno sociale e un “carrozzone” che passa veloce. Postfazione di Fabio Lugarini. pag. 27

Copyright Edizioni Ariatel S.r.l., 2008.