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Arrigoniana 4

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Arrigoniana • 4

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Simone Facchinetti

MORONI A LONDRA

BERGAMOMMXIV

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La mostra di Giovanni Battista Moroni alla Royal Academyof Arts di Londra ha aperto al pubblico il 25 ottobre 2014.Ho scritto queste brevi impressioni, a caldo, tra il 20 e il 21ottobre. Mentre ho appuntato queste note, pensavo agliamici che non avrebbero potuto vedere la mostra. Era an-che un modo per raccontarla a briglie sciolte, seguendol’onda emotiva del momento. Nei giorni precedenti l’inau-gurazione, come si può immaginare, c’era molta frenesia.Le sale erano frequentate dai couriers che accompagnava-no le opere. I restauratori ne verificavano lo stato di con-servazione. L’allestimento procedeva rapidamente. Biso-gnava sistemare le luci e i cartellini di sala. In sostanza eracome stare in un’officina in continua fibrillazione. La regiadelle operazioni era gestita da Arturo Galansino, aiutatodallo staff della Royal Academy: Eric Pearson, Idoya Bei-tia, Katia Pivsin, Peter Sawbridge, Andrea Tarsia. È neces-sario ricordare che la mostra è stata programmata sotto ladirezione di Kathleen Soriano e inaugurata durante quelladi Tim Marlowe.Sono in debito di riconoscenza con Emilio Moreschi e Ar-mando Santus che hanno sostenuto questa pubblicazio-ne, in ricordo di un comune amico.

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Moroni a Londra

Passeggiando nel cortile della Royal Academy tutta l’at-tenzione è catturata dall’opera di Anselm Kiefer che an-ticipa la vasta retrospettiva che si svolge all’interno del-la celebre istituzione in Burlington House (fig. 2). Quan-do osservo queste prime installazioni dell’artista tede-sco non posso fare a meno di chiedermi se tra quattrosecoli e mezzo – che è il tempo che ci separa dalla scom-parsa di Giovanni Battista Moroni – Kiefer si guadagne-rà un’esposizione alla Sackler Wing, che è il luogo, un po’appartato, in cui è andata in scena l’attuale mostra mo-nografica dedicata al pittore bergamasco (fig. 3). La ri-sposta, apparentemente ovvia, non è per nulla scontata. La prima sala della rassegna gira intorno alla pala di San-t’Andrea di Alessandro Bonvicino detto il Moretto (fig.4), dipinta per l’omonima chiesa della città di Bergamotra il 1536 e il 1537. È un’immagine che è rimasta a lun-go nella memoria di Moroni, una sorta di ricordo infan-tile destinato a riaffiorare nel corso del tempo. Chissà seanche lui si è chinato a raccogliere la pera dipinta cadu-ta dall’alzata di frutta? Un dettaglio straordinario cheserve subito a dare il tono del rapporto da stabilire conquesto quadro: diretto, franco, immediato. Non ci sonovie intermedie, tutto è sapientemente organizzato per

rendere più verosimili le “cose naturali”. La composi-zione, le pose e gli sguardi rendono dinamico il nostrorapporto con l’immagine. Questo è un primo appuntoper il taccuino del giovane Moroni. Mentre Santa Eusebia cattura lo sguardo dell’osservato-re, alle sue spalle si svolge il colloquio tra Sant’Andrea eil Bambino. Il vecchio apostolo sembra sfinito dalla stan-chezza. A fatica sostiene una pesante croce di legno, par-zialmente appoggiata alla colonna che fa da quinta al tro-no marmoreo, improvvisato per l’allestimento della sce-na. Lo zio e il nipote, Domneone e Domno, si tengonoaffettuosamente a braccetto. È una soluzione che si è re-sa necessaria dalla posa un po’ stravagante scelta dal gio-vane, voltato di scatto verso l’osservatore. Per conferire corpo e peso agli oggetti serve avere un con-trollo sulla luce e sul suo opposto, l’ombra. Moretto è unmaestro indiscusso nell’esercizio dell’ombra e in questoquadro si esibisce in una performance senza precedenti.Secondo appunto per Moroni.La pala di Sant’Andrea costituisce un modello fonda-mentale nella formazione di Moroni. Tuttavia sarebbe er-rato non avvertire che si tratta di un esempio non imme-diatamente disponibile per le scelte espressive del giova-ne pittore bergamasco. Passeranno molti anni prima cheMoroni raggiunga lo stesso dosato equilibrio naturalisti-

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co. Prima bisognava prenderne le distanze, ovvero man-giare il maestro in salsa piccante.Il confronto tra il quadro del Museo Lechi e il ritratto diLisbona nasce dalla convinzione che le due opere siano instretto rapporto (fig. 5). Il pensiero che il primo quadrosia un’opera giovanile di Moroni mi ha sfiorato sin dalprimo momento che l’ho vista. Ora l’idea sembra raffor-zarsi dalle forti somiglianze tipologiche, tecniche e stili-stiche tra i due dipinti. Sulla parete opposta il ritratto di Monaco sta lì a dimo-strare la straordinaria eredità che Moretto poteva garan-tire al suo giovane allievo, anche nell’ambito della spe-cialità in cui, in futuro, non avrebbe più avuto concor-renti. Anche qui la profondità e l’intensità delle ombrefanno la differenza. La posa del modello e lo sguardo con-centrato verso un orizzonte imperscrutabile all’osserva-tore costituiscono una base fondamentale per la serie diritratti esemplari dipinti da Moroni nel corso degli anniCinquanta. Con questa chiave di lettura si procede allaseconda sala della mostra (figg. 6 -11).Mentre scrivo questi appunti, seduto in mezzo ai rumoridi sottofondo di un’esposizione ancora in allestimento,intuisco che avremmo potuto aggiungere una quarta ope-ra alla parete di fondo, ovvero la stampa di Albrecht Dü-rer servita da modello alla Madonna con il Bambino del

quadro di Washington. La sua presenza forse avrebbe unpo’ sporcato la parete ma anche reso più esplicito il mo-do in cui pensava e lavorava Moroni. Comunque il tripli-ce confronto proposto qui (fig. 9) è abbastanza efficace eserve a rendere chiari due punti fondamentali. Il primo ri-guarda la lunga durata di un soggetto che affonda le ra-dici nella devotio moderna. Certo non si voleva sostene-re che la preghiera individuale e l’orazione mentale sianoesperienze prima sconosciute all’orizzonte cristiano. Latesi riguarda le forme della sua rappresentazione e, piùnello specifico, nei modi stabiliti e trasmessi da Morettoa Moroni. Ho sempre amato tornare sui miei passi. Fare e rifare unadeterminata cosa. Leggere e rileggere una pagina scelta.Ascoltare e riascoltare lo stesso brano musicale. In so-stanza prendere confidenza con le cose e le persone. An-che questa parete allestita ribadisce il concetto che il vi-sitatore ha già percepito nella sala precedente senza po-terlo vedere chiaramente, tramite un confronto esplicito.Ora invece risulta evidente il grado di diversità che sepa-ra l’allievo dal maestro, di cui Moroni ha conosciuto l’in-tensa parabola finale. Mentre Moretto procede verso unmondo fatto di ombre e di colori smorzati, Moroni evitale prime e accende e amplifica i secondi: è il suo modopersonale di partecipare alla maniera e al manierismo im-

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perante. D’altra parte bisogna anche ammettere l’esi-stenza di una forma di intellettualismo del colore. Se ci siavvicina ai quadri si vede che l’impasto cromatico di Mo-retto è fuso e mescolato, quello di Moroni è ottenuto persovrapposizioni squillanti di filamenti di colore. Non èun caso se il dipinto di Moretto a Kinnaird Castle fino anon molto tempo fa era, erroneamente, considerato diGuercino. Il suo livello di naturalismo anticipa certe for-me di caravaggismo, sembra un quadro di Carlo Sarace-ni, dipinto un secolo prima. Anche questa è una provaconcreta delle intuizioni longhiane sui precedenti del Ca-ravaggio. Girando gli occhi verso l’altra parete il confronto Lotto-Moroni mi sembra molto istruttivo (fig.10). Qui è neces-sario sapere che entrambe le opere hanno una commit-tenza comune (la confraternita dei disciplini) e che il ri-ferimento al modello più antico (cioè a quello di Lotto)deve essere stato suggerito, se non addirittura imposto, aMoroni. Sono due quadri che vanno collocati all’altezzacronologica giusta e nel corretto punto della storia cul-turale europea. Non basta cioè dire: meglio Lotto di Mo-roni, o viceversa. Bisogna sforzarsi di capire le motiva-zioni che stanno dietro l’elaborazione di un’immagine,senza liquidare la questione con un giudizio sommario. Il principio illustrato è sostanzialmente il medesimo, la

Trinità si rappresenta qui e ora, in uno spazio terrestre,misurabile e conoscibile. Addirittura nel caso di Moro-ni l’edificio che sta per accogliere un pellegrino nelle ve-sti di disciplino bianco è stato, ragionevolmente, identi-ficato nella chiesa della Trinità di Albino, la stessa checonservava il quadro in origine. Ragionando a freddo suidue dipinti ci si può anche convincere che essi servonoa spiegare il giro d’anni in cui sono stati realizzati. Quel-lo di Lotto è iniziato intorno al 1519 e sembra ispirato al-l’immagine visionaria della Trinità illustrata nell’Apoca-lisse (1, 7): “Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo ve-drà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribùdella terra si batteranno il petto”. Non si fatica a imma-ginare il clima che si poteva respirare intorno al dipinto,con i primi segnali della Riforma luterana alle porte e idisciplini chiusi nell’oratorio superiore della chiesa del-la Trinità, intenti nella pratica regolamentata dell’auto-flagellazione.Il dipinto di Moroni è concluso negli anni del Conciliodi Trento, intorno al 1553, e restituisce un’immagine del-la Trinità intenta a redimere il mondo. La Chiesa mili-tante della controriforma poteva facilmente riconoscersiin un manifesto del genere. Qualcuno dei committentideve aver prestato al pittore il volume di Tolomeo ag-giornato da Jacopo Gastaldo nell’edizione veneziana del

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1548. Il disegno della Terra è fedelmente copiato da quel-la carta geografica, comprese tutte le città distribuite traEuropa, Africa, Asia e America, che rappresentano i nuo-vi confini della futura riconquista cattolica. Prima di uscire dalla sala si fanno avanti due straordinaritestimoni del tempo (fig. 11), oggi pressoché sconosciuti,ma all’epoca noti nella ristretta cerchia della comunità diAlbino. È una delle prime volte che il pittore si trova a tra-durre in ritratto due modelli che devono essere immorta-lati per le loro gesta. Questo è ciò che si aspettano i com-mittenti, questo è ciò che emerge dalle iscrizioni in ele-ganti capitali romane. All’origine del ritratto al naturale –cioè quello realizzato senza intenti di abbellimento o diesaltazione del modello – c’è il suo immediato destino, ov-vero la sua fruizione in ambienti che non avrebbero ac-cettato una forma diversa da questa. Che bisogno c’era didipingere il gozzo di Lucrezia Agliardi se non quello dirappresentare l’aspetto della fondatrice del monastero diSant’Anna, così com’era conosciuto alla vista delle sueconsorelle? Anche un piccolo miglioramento dell’aspettofisico sarebbe risultato insopportabile agli occhi della co-munità delle suore carmelitane di Albino. Sia Fra Miche-le da Brescia che Lucrezia Agliardi si offrono allo sguar-do dell’osservatore ma non offrono il loro. Sono chiusi inun mondo per noi completamente imperscrutabile.

Entrando nella terza sala la prima sensazione che si re-gistra è quella di essere osservati (figg. 12-14). I novepersonaggi radunati in questa circostanza cercano co-stantemente lo sguardo dell’osservatore. Ognuno rac-conta una storia diversa, tutti si sforzano di comunica-re e di rendersi disponibili. Qui si passa dalla moda co-lorata dell’upper class di provincia all’abito nero privi-legiato dagli intellettuali, come quello indossato dalPoeta sconosciuto di Brescia o dal Giovan Pietro Maf-fei di Vienna. Il nobile Pietro Secco Suardo si fa ritrar-re in una posa un po’ artefatta, comprensibile solo do-po aver letto il motto latino che allude al nome della suastirpe. L’aristocrazia del tempo amava questo genere diritratti parlanti, destinati a rimanere muti fino a chel’iscrizione non trova un appiglio nelle vicende biogra-fiche dei modelli. Perché il diciottenne Giovan Gerola-mo Grumelli nell’anno del suo matrimonio con MariaSecco d’Aragona decide di associare il motto spagnolo“meglio l’ultimo del primo” alla scena biblica di Elia edEliseo? Perché Prospero Alessandri si presenta al suoosservatore con il motto “tra timore e speranza”? Per-ché il futuro Governatore dello Stato di Milano Gabrielde la Cueva ha scelto di dichiarare: “sono qui senza ti-more e della morte non ho paura”?Si ha come l’impressione che nel corso degli anni Cin-

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quanta il pittore abbia messo a punto una serie di posecodificate, raggiungendo una forma di equilibrio che me-scola abilità straordinarie e capacità di penetrazione psi-cologica. Un’infinita somma di dettagli costituisce il tes-suto ricamato dell’abito del Cavaliere in rosa. Ma anchei neri nascondono una varietà di sfumature insospetta-bili. Chissà se ha ragione David Hockney quando affer-ma che questo modo di restituire la realtà con assolutaprecisione sia già legato all’uso della camera ottica? Co-munque è evidente che il successo del pittore sia scatu-rito da queste abilità riconosciute, ricercate dall’aristo-crazia del tempo. Ho sempre immaginato Moroni come un uomo equili-brato. Ogni tanto ripenso alla scena dell’inondazione disangue dell’Overlock Hotel nel film di Kubrick, Shining.Non so perché associo quest’immagine terrificante al-l’avanzata dell’età della Controriforma, alle guerre di re-ligione e alle feroci faide familiari che hanno sconvolto lasocietà del Cinquecento. Il Ritratto di Fra Michele daBrescia nasce come omaggio a una figura esemplare, ca-pace di pacificare una sanguinosa faida tra gli Spini e iPulzini in cui aveva perso la vita Scipione Spini, mentreSimonetto Pulzini se l’era cavata solo con un ferimento.Anche il fratello di Lucia Brembati, Achille, era mortoammazzato nel 1563 a causa di un’archibugiata ricevuta

in Santa Maria Maggiore a Bergamo, esplosa da un emis-sario di Gian Domenico Albani, figlio di Gian Gerola-mo, Collaterale della Repubblica. L’omicidio aveva de-stato una profonda e generale impressione. Resistere, pur con la tavolozza in mano, mantenendo unaposizione eretta ed equilibrata, così come ha fatto Moro-ni, mi è sempre sembrata una virtù straordinaria che –per qualche strana via – la mia mente ha associato a Mi-chel de Montaigne. Forse al filosofo francese, contempo-raneo di Moroni, non sarebbero dispiaciuti i ritratti al na-turale che si incontrano nella sala successiva: sono diret-ti, sinceri, semplici, documentari. Montaigne li avrebbeapprezzati per più di un motivo. Il primo è che nessunodi loro si presenta diverso da come è stato. Non c’è nes-suna forma di piaggeria da parte del pittore che, moltoonestamente, ha tradotto il modello che ha di fronte sen-za filtri colorati. L’ingresso nella quarta sala è per me quello più emozio-nante (fig. 15). Non so precisarne il motivo, tuttavia ri-cordo esattamente il momento in cui ha preso forma, do-po l’incontro, assieme all’amico Arturo, con il designerEric Pearson. Inizialmente doveva esserci una cesura net-ta tra i quadri di soggetto sacro e i ritratti al naturale.Personalmente pensavo che le due sezioni avrebbero do-vuto fondersi intorno all’Ultima Cena di Romano di

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Lombardia. Alla fine è andata così e rimango dell’ideache in quest’area della mostra si nasconda una nota diintensa poesia. L’Ultima Cena è collocata al centro di una schiera di ri-tratti a mezzo busto, disposti sulle pareti laterali secondouna scansione cronologica che va dalla fine degli anniCinquanta alla metà degli anni Settanta. Diventa così im-mediatamente percepibile il ruolo assunto dal personag-gio ritratto alle spalle della scena sacra, ma anche la fun-zione di modelli esercitata da molti ritratti per la stessarealizzazione dell’Ultima Cena. Un po’ come capiterà,molto più tardi, a Caravaggio e Van Dyck, con opposteintensità di adesione al prototipo di partenza. Quello che appare immediatamente evidente in questasala è che Moroni ha una predilezione per alcuni for-mati. Sono scelti in funzione della loro capacità di re-stituire, in grandezza naturale, l’aspetto dei modelli. Os-servando le due pareti contrapposte si coglie, a colpod’occhio, che i formati mutano sensibilmente nel corsodel tempo, molto probabilmente anche in rapporto allaspecifica funzione svolta dal dipinto. Fidanzamenti, ma-trimoni, episodi importanti della vita di persone che pernoi sono sfortunatamente prive di storia, ad esclusionedel piccolo frammento costituito dal momento stesso incui sono state ritratte sulla tela dipinta. In ogni modo

l’immediatezza grazie alla quale si offrono al nostrosguardo è in larga parte dovuta alla stessa rapidità concui il pittore le ha tradotte in pittura.Che Moroni dipingesse direttamente il modello, senzapassare dalla mediazione del disegno, è oramai un datoacquisito. L’infinita somma di imperfezioni che costitui-sce la materia dei suoi quadri li rende straordinariamen-te moderni.Qualcuno ha detto che Moroni preannuncia Velásquez.Qualcuno ha scritto che i suoi quadri erano conosciuti daVelásquez. La prima affermazione è sicuramente vera, al-meno nella misura in cui entrambi operano in assenza didisegno, direttamente sulla tela. La seconda credo sia fal-sa, comunque indimostrabile. Certo l’affermazione otto-centesca di Velásquez, il suo recupero da parte di Manet,la stagione d’oro della pittura francese del tempo, sonotutti elementi che, in qualche misura, hanno concorso alrecupero critico di Moroni nell’Ottocento. Senza dimen-ticare il ruolo preminente esercitato da Giovanni Morel-li, più nelle qualità di art dealer che di storico dell’arte.Funzione ereditata da Bernard Berenson: così come siereditano le case, si possono ereditare i diritti di prela-zione sugli artisti morti secoli fa. L’unica nota che stona in questa sala è quella della vocedella Bambina di casa Redetti (fig.17), un quadro troppo

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rovinato per tenere il passo con gli altri. È stato inseritonella lista all’ultimo, con l'errata convinzione che avreb-be attirato le simpatie generali.Il giro della sala finisce con il Devoto in contemplazionedel Crocifisso e Santi (fig. 18) in cui appare per la primavolta un paesaggio, naturalisticamente inteso. Le tonali-tà squillanti degli anni Cinquanta hanno lasciato il postoa soluzioni quasi monocrome, giocate su limitate varia-zioni di colore. Superata la parete prosegue la sezione successiva, che inrealtà è collegata con la precedente e in stretta continui-tà (figg. 18-19). Il Crocifisso di Albino continua a mera-vigliare gli occhi, tramite quel paesaggio vibrante chesembra scosso da raffiche di vento, in attesa che si ab-batta il temporale. Il tono dominante – anche qui, ten-dente al monocromo – è insospettatamente percosso dalcolpo di luce del perizoma giallo-arancio che introduceuna nota di colore squillante e chiassosa. Le pale che glistanno intorno sono dominate dalla presenza di una quin-ta architettonica. Da questi due episodi intuiamo per qua-le motivo Moroni è costantemente apprezzato nelle im-prese ufficiali. Oltre al fatto che non aveva rivali sullapiazza, in grado di competere con lui sul piano dell’ag-giornamento ai nuovi canoni della Chiesa controriforma-ta, è evidente che anche le pale d’altare sono percorse da

quella perizia tecnica che lo faceva apprezzare nell’ambi-to dei ritratti. Non c’è nessuna invenzione nella pala diAlmenno San Bartolomeo (derivata dalla pala Rovelli diMoretto), solo qualche isolata trovata sofisticata, comenel foglio accartocciato che reca l’iscrizione o nel can-giante del velo della Santa Caterina o nei nimbi che sem-brano anelli di fumo. Mentre osservavo gli straordinari effetti materici che per-corrono la dalmatica di velluto del San Lorenzo mi sonoimprovvisamente alzato dalla sedia, che ormai da duegiorni mi trascino per le sale, e sono tornato all’inizio del-la mostra, davanti alla pala di Sant’Andrea di Moretto. Èun confronto utile a capire che le qualità del pittore (co-sì esaltate da Vasari: “si dilettò molto costui di contrafa-re drappi d’oro, d’argento, velluti, damaschi, altri drap-pi di tutte le sorti, i quali usò di porre con molta diligen-za addosso alle figure. Le teste di mano di costui sono vi-vissime…”) sono le stesse cercate e perseguite da Moro-ni. L’architettura diroccata e aperta verso un paesaggiodella pala di Sant’Andrea ha lasciato il posto, in Moroni,a quinte architettoniche chiuse e circoscritte. Sono im-magini che restituiscono il nuovo volto di una Chiesa or-ganizzata e militante, sicura dei propri mezzi.Il passaggio all’ultima sala è favorito dall’incontro con ilSarto, collocato a canocchiale sulla parete di fondo

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(fig. 21). Sulle ali laterali dell’ingresso ci sono il Navage-ro di Brera e il Magistrato della Tosio Martinengo(fig. 20). Sono ciò che è avanzato del precedente assettodella sezione dedicata al Ritratto al naturale. Ma sono fi-niti qui anche perché volevamo spingere il pedale sul-l’intuizione che Moroni ha inventato, in un certo senso, ilritratto borghese moderno. Il fatto di operare nella lontana provincia di una Repub-blica, non all’interno di una corte o di una città imperia-le, lo ha messo nelle condizioni di essere più libero dalleetichette, svincolato dagli schemi imposti dall’alto. Que-sta posizione l’ha messo in linea, in anticipo di circa tresecoli, con l’invenzione del ritratto borghese dell’Otto-cento. Non c’era bisogno che Ingres o Nadar si ispiras-sero agli schemi impaginativi di Moroni. Semplicementeci sono arrivati tramite l’evoluzione della società del lorotempo. Questo principio è abbastanza chiaro osservan-do la parete in cui sono allineati i ritratti di Medea Rossi,di Giovan Gerolamo Albani e di Pietro Spino (fig. 23).Lo schema del ritratto di stato è completamente eluso. Ilrisultato finale è fortemente segnato dall’assenza di con-notazioni di ambiente, di insegne del potere, di abiti al-l’ultima moda. Rimane il confronto col modello, restitui-to direttamente al nostro sguardo, tramite una pittura di-retta. Non so fino a che punto si possa parlare, qui, di

analisi psicologica. Tuttavia il pittore deve aver sostato alungo davanti ai modelli in posa, con il desiderio di co-glierne la concentrazione interiore, oltre che le linee este-riori. È questa sottile capacità di penetrare l’interioritàumana a incuriosirci, a stimolare continuamente il nostrointeresse.Ho osservato molti visitatori della prima ora fermarsi im-pressionati davanti ai ritratti di questa sala. Ho sentito al-cuni dire che sembravano ritratti dell’Ottocento. È unaquestione molto intrigante ma al tempo stesso moltocomplessa da spiegare. Certo se il secondo conflitto mon-diale fosse stato vinto dal Terzo Reich forse Moroni sa-rebbe stato un autore proibito. Anche grazie a Moroninon è andata così? È bello immaginarlo, salutando perl’ultima volta il vecchio Pietro Spino (fig. 24), descrittocon queste parole dal vecchio Jacob Burckhardt: “guar-da sereno e ben disposto fuori dal dipinto [...] ha l’espres-sione di un’esperienza di vita immensa”.

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1. Royal Academy of Arts,verso Piccadilly.

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2. Royal Academy of Arts, cortile interno.

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3. Royal Academy of Arts:The Sackler Wing.

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4. Sala I: Moroni's Teacher: Moretto.

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5. Sala I: Moroni's Teacher: Moretto.

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6. Sala II: Early Works.

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7. Sala II: Early Works.

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8. Sala II: Early Works.

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9. Sala II: Early Works.

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10. Sala II: Early Works.

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11. Sala II: Early Works.

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12. Sala III: Aristocratic Portraits.

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13. Sala III: Aristocratic Portraits.

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14. Sala IV: Aristocratic Portraits.

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15. Sala IV: Portraits from Nature.

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16. Sala IV: Portraits from Nature.

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17. Sala IV: Portraits from Nature.

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18. Sale IV-V: Portraits from Nature - Altarpieces.

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19. Sala V: Altarpieces.

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20. Sala VI: The Beginnings of Modern Portraiture.

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21. Sala VI: The Beginnings of Modern Portraiture.

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22. Sala VI: The Beginnings of Modern Portraiture.

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23. Sala VI: The Beginnings of Modern Portraiture.

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24. Giovanni Battista Moroni, Ritratto di vecchio (Pietro Spino?),Bergamo, Accademia Carrara.

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FotografieLidia Patelli

Grafica

Ilario Zonca

Stampa

Press R3Almenno S.B. (BG)

Finito di stamparenel dicembre 2014