assaggio woolf

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[ 39 ] 1. «COME POTREI MAI SCRIVERE DIVINAMENTE?» Le intenzioni letterarie di Virginia Woolf e il significato della scrittura L’arte alla quale consacriamo le nostre vite Ho comprato una casetta a Cassis, all’interno di un vi- gneto. Lì forse potrò vedere l’Africa e sentire gli usignoli e raggiungere la tensione profetica che ora manca. Poi- ché – Dio, oh Dio, quante cose ancora ci mancano – sia- mo così maldestri e inesperti – e non abbiamo imparato a prendere in mano la vita – a privare quella particolare arancia della sua buccia. Come ho detto, non sono dell’umore di scrivere [...] Immagina se potessimo davve- ro comunicare, sarebbe così entusiasmante! Ora ho già scritto una pagina intera e ancora non ho detto nulla. Al massimo possiamo sperare di suggerire qualcosa. Imma- gina di essere dell’umore giusto quando questa lettera ti giungerà, e di leggerla, esattamente alla giusta luce, di fronte al braciere in camera tua, allorché, per qualche © minimum fax – tutti i diritti riservati

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Page 1: Assaggio Woolf

[ 39 ]

1. «come potrei mai scrivere divinamente?»

Le intenzioni letterarie di Virginia Woolf e il significato della scrittura

L’arte alla quale consacriamo le nostre vite

Ho comprato una casetta a Cassis, all’interno di un vi-gneto. Lì forse potrò vedere l’Africa e sentire gli usignoli e raggiungere la tensione profetica che ora manca. Poi-ché – Dio, oh Dio, quante cose ancora ci mancano – sia-mo così maldestri e inesperti – e non abbiamo imparato a prendere in mano la vita – a privare quella particolare arancia della sua buccia. Come ho detto, non sono dell’umore di scrivere [...] Immagina se potessimo davve-ro comunicare, sarebbe così entusiasmante! Ora ho già scritto una pagina intera e ancora non ho detto nulla. Al massimo possiamo sperare di suggerire qualcosa. Imma-gina di essere dell’umore giusto quando questa lettera ti giungerà, e di leggerla, esattamente alla giusta luce, di fronte al braciere in camera tua, allorché, per qualche

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strana circostanza accidentale, si possa svegliare in te una comprensione di ciò che sono io, seduta qui davanti al fuoco di legna a Monk’s House, o di ciò che sento o che penso. Mi sembra tutto enormemente aleatorio e ingan-nevole – tante vuote asseverazioni e tranelli della parola – eppure è questa l’arte cui consacriamo le nostre vite.

A Gerald Brenan, 4 ottobre 1929

Quest’onda nella mente

Per quanto riguarda il mot juste hai decisamente torto. Lo stile è una questione molto semplice: è una questione di ritmo. Una volta che lo acquisisci, non puoi sbagliare a usare le parole. D’altro canto, è anche vero che sono ri-masta qui seduta da metà mattinata, la testa zeppa di idee, ho avuto delle idee e così via, ma non riesco a distri-carle perché mi manca il ritmo giusto. Ora, definire il rit-mo è una questione molto profonda, molto più profonda delle parole. Una scena, un’emozione, crea quest’onda nella mente, molto prima di trovare le parole adatte per esprimerla: e nella scrittura (questa è la mia attuale con-vinzione) bisogna riprendere quest’onda e rimetterla all’opera (che a quanto pare non ha nulla a che fare con le parole) e poi, quando essa irrompe ruzzolando nella mente, troverà anche le parole adatte per esprimerla: sen-za dubbio, però, il prossimo anno avrò un’altra opinione.

A Vita Sackville-West, 16 marzo 1926

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Al di là dell’abisso

Credo che il punto principale nell’iniziare un romanzo sia di sentire non tanto che si è in grado di scriverlo ma che esso esista al di là di un abisso che le parole non possono attraversare; e occorre tirarlo a sé, e solo provando un an-goscia che toglie il respiro. Ora, quando mi siedo a scrive-re un articolo, ho una rete di parole che certamente si po-serà sull’idea in un’ora o giù di lì. Ma un romanzo, per co-sì dire, per essere un buon romanzo, deve sembrare, pri-ma che si inizi a scriverlo, impossibile da scrivere, ma so-lo visibile; cosicché per nove mesi si vive nella disperazio-ne, e solo quando ci si dimentica ciò che si voleva dire, il libro potrà sembrare accettabile. Ti assicuro che tutti i miei romanzi erano di prim’ordine prima che li scrivessi.

A Vita Sackville-West, 8 settembre 1928

Un libro si scrive senza una teoria

Vorrei cautelarmi dalla possibilità che si prenda qualsia-si cosa io abbia detto in veste di critico a dimostrazione dei miei punti di vista o delle mie intenzioni [nella scrittu-ra]. Sono piuttosto d’accordo con Hardy quando sostie-ne che un romanzo non è una serie di argomentazioni, ma d’impressioni. Un libro si scrive senza teorie; successiva-mente si possono anche formulare delle teorie, ma ho del-le riserve se queste hanno un rilievo eccessivo sull’opera.

A Harmon H. Goldstone, 16 agosto 1932

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Lo stato di automatismo inconscio

Penso che il giovane poeta [in Lettera a un giovane poe-ta] sia penosamente teso tra il realismo e la bellezza, per farla breve. Senza dubbio egli va elogiato per il suo ten-tativo di ingoiare la Signora Gape [una donna delle pu-lizie simbolica, fonte d’ispirazione per la poesia del gio-vane]; ma dovrebbe anche assimilarla. La mia impres-sione è che non creda abbastanza in lei; che non scavi abbastanza in profondità; che si desti a metà dell’opera e che la sua immaginazione si affievolisca; egli non rag-giunge lo stato di automatismo inconscio – e ciò causa quell’effetto studiato, spasmodico e convulso proprio del suo linguaggio realistico. Ma forse sto proiettando su di lui i lati negativi delle lotte che faccio io sul versan-te opposto – egli infatti scrive poesia in prosa. Tom Eliot credo ci riesca; ma in fin dei conti lui è molto più violen-to, e credo che essendo così violento si limiti molto, tan-to da attaccare solo una minuscola regione della sua im-maginazione; mentre voi, spiriti più giovani e gioiosi, in parte grazie a lui, avete maggiori possibilità e siete nelle condizioni di concepire una tecnica meno eccessiva e af-frettata. Ma sono solo congetture, ovviamente.

A John Lehmann, 31 luglio 1932

L’emozione nelle giuste relazioni

Mio caro Roger, ho appena terminato il tuo pamphlet [L’artista e la psicanalisi], e dunque devo scriverti imme-

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diatamente e dirti quanto mi riempia di ammirazione e quanto agiti in me, così come solo tu sai fare, un vorti-care di girini e pipistrelli – idee, intendo, che sono rima-ste aggrappate al soffitto per poi trovare spazio nella mia mente [...] sono attonita, dato il mio debole acume, di fronte ad alcune delle tue questioni: la forma in lette-ratura. Ho scritto del libro di Percy Lubbock Il mestiere della narrativa,1 e ho cercato di argomentare su ciò che intendo per forma nella narrativa. Per me è l’emozione posta nelle giuste relazioni, e non ha niente a che fare con la forma che si intende in pittura.

A Roger Fry, 22 settembre 1924

La falsità del passato

Mio caro Jacques, certamente i pittori hanno uno splendido dono espressivo [...] Credo infatti che tu ab-bia sollevato alcuni dei problemi che hanno anche gli scrittori, i quali stanno cercando di afferrare, consoli-dare e realizzare (qualunque sia la parola giusta per «fare letteratura») quegli schizzi di cui parli;2 poiché

1. La Woolf ha trattato le stesse questioni in «La narrativa moder-na» (saggio che fa parte della raccolta Il lettore comune).

2. Jacques aveva scritto alla Woolf in merito ai problemi legati alla scrittura e alla pittura, suggerendo che una parola come «neo-pagano» facesse scaturire molteplici associazioni, come quando si getta un sassolino in uno stagno: «Ci sono schizzi d’acqua in aria in tutte le direzioni, e al di sotto dello strato dell’acqua, onde che si susseguono negli angoli più remoti e oscuri».

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credo che la falsità del passato (intendo Bennet, Gal-sworthy e così via) risieda precisamente nel modo in cui essi seguono pedissequamente un binario diritto nella costruzione della frase, per pura comodità, senza riflet-tere sul fatto che la gente non ha mai, nemmeno per un istante, pensato, provato emozioni o sognato in quel modo, ma, come illustri tu, in maniera divagante e frammentaria.

A Jacques Raverat, 3 ottobre 1924

Occorre inventare una forma completamente nuova

Mi fa molto piacere che tu abbia amato il racconto. In un certo senso è più facile realizzare una cosa breve, in un unico slancio, rispetto a un romanzo. I romanzi so-no terribilmente sgraziati e opprimenti, è chiaro; ep-pure, se si riuscisse solo a mantenere la presa, sarebbe superlativo. Direi che dovremmo inventare una forma completamente nuova. In ogni caso è molto diverten-te fare dei tentativi con queste composizioni brevi, ed è una fortuna immensa essere in grado di fare ciò che si vuole – senza editori o revisori ma solo con le perso-ne che leggono e che, più o meno, amano questo gene-re di cose.

A David Garnett, 26 luglio 1917

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Non sono «romanzi»

Oh no! Non sono una scrittrice di romanzi. Ho sempre voluto chiamare i miei libri in modo diverso.3

A Hugh Walpole, 20 ottobre 1939

Tutto d’un fiato

Ti piacciono le frasi lunghe che si possono leggere tutte d’un fiato? A me sì. Fa parte della mia propensione anti-naturalistica.

A Clive Bell, 14 aprile 1922

Una speciale bellezza incolore

Non mi ero resa conto di quanto mi piacessero le tue poesie. Ti toccano – come ora, mentre le leggo tutte in-sieme – più di quanto ricordassi. È come se tutti gli aspetti superficiali siano consumati, e quel che resta è davvero appagante. È una qualità che ammiro moltissi-mo e che non trovo spesso nei contemporanei. E spesso c’è una speciale bellezza incolore (forse intendo non esa-gerata, o impersonale) che trovo anche persistente e do-minante – non singolare ma in grado di rapirti. E così nelle Lettere [contenute nel libro di Trevelyan], in modo

3. Virginia Woolf ha sempre pensato che i suoi non fossero dei veri e propri romanzi, per via del loro sperimentalismo.

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particolare, mi piace rintracciare il carattere dello scrit-tore, la singolare ironia e l’idiosincrasia della sua mente, una qualità che trovo più spesso nella prosa.

A R.C. Trevelyan, 21 luglio 1939

Non separare la tecnica dall’argomento

Ti prego, non farmi la predica con quella tua dottrina secondo cui conterebbe solo il modo in cui le cose sono scritte, e non le cose stesse: come puoi accusarmi di cre-derlo? Non penso che in un’opera d’immaginazione si possa materialmente separare l’espressione dal pensie-ro. Più una cosa è espressa nel migliore dei modi e più l’idea che abbiamo di essa è completa. Per me Steven-son è uno scrittore debole, perché è il suo pensiero ad essere debole, e dunque, per quanto si agiti, il suo stile è detestabile. E non capisco come tu possa apprezzare la tecnica separata dall’argomento – ma forse ti sto tra-visando.

A Janet Case, 1o settembre 1925

Persone reali e personaggi letterari

La tua lettera [a proposito di Mrs Dalloway] mi dà grande piacere e m’incoraggia. Spesso e volentieri ven-go screditata e a volte resto talmente frastornata da ciò che dice la gente che mi rimane difficile continuare [a scrivere]. Ora, dopo la tua lettera, potrò ricominciare

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con rinnovato vigore. C’è una cosa che m’interessa molto: il fatto che ti senta l’uomo più noioso del libro,4 e mi chiedo da quale straordinario complesso ciò possa originare. Non esiste il benché minimo fondamento nei fatti. In primo luogo, l’idea che ho di te non corrispon-de minimamente alla mia idea di Hugh Whitbread o di Richard Dalloway; in secondo luogo, i miei amici sono al sicuro da me, perché non riesco a scrivere di persone che vedo abitualmente, così come non so descrivere i luoghi fino a quando non li ho praticamente dimentica-ti. Non sto scherzando; è semplicemente il modo in cui funziona la mia mente. C’erano dei modelli originali per alcuni personaggi in Mrs Dalloway, ma molto lon-tani – gente che ho visto l’ultima volta dieci anni fa e che, anche allora, non conoscevo bene. Sono queste le persone di cui mi piace scrivere. Ma quel che immagini che io penso di te è una rivelazione che mi interessa moltissimo e forse un giorno di questi contravverrò al-le mie regole e cercherò di scrivere di te [...] A proposi-to, nelle mie intenzioni i lettori avrebbero dovuto ama-re Richard Dalloway. E odiare Hugh Whitbread. Tu odi entrambi, mi pare di capire.

A Philip Morrell, 27 luglio 1925

4. Philip Morrell aveva pensato di essere stato d’ispirazione per i personaggi che secondo lui erano i più noiosi del romanzo, una combinazione di Hugh Whitbread e Richard Dalloway.

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Personaggi e persone in carne e ossa

Penso che i nostri lettori tendano a identificarsi coi no-stri personaggi più di quanto non lo facciamo noi. Na-turalmente ci sono tocchi di Lady Ritchie in Mrs Hilbe-ry, ma nella scrittura ci si allontana sempre più dalla realtà, e Mrs Hilbery per me è diventata proprio diversa da qualsiasi persona in carne e ossa.

A C.P. Sanger, 2 dicembre 1919

Essere esposti in quanto scrittori

Non mi piace essere esposta in quanto scrittrice e sentir-mi dire che i miei personaggi [Mr e Mrs Ramsay in Ver-so il faro]5 siano mia madre e mio padre, poiché, essen-do un romanzo, non lo sono.

A Shena, Lady Simon, 25 gennaio 1941

Non è necessario scavare nella mia vita privata

Ho ricevuto le copie della nuova edizione di Verso il fa-ro senza problemi. Avrei preferito (detto tra noi) che nell’introduzione il curatore non avesse ritenuto neces-sario scavare nella mia vita privata. Vorrei che si potes-

5. Terence Holliday raccontò degli aspetti autobiografici del ro-manzo, e in particolare dei genitori e della casa della Woolf in Il tempo passa (la seconda sezione di Verso il faro).

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se lasciare fuori dalla scrittura e dalle pubblicazioni. Ma suppongo di non potermi lamentare e che la gente deb-ba fare queste congetture, anche se, in questo caso, la congettura è sbagliata.

A Donald Brace, 9 ottobre 1937

Un libro crea tutto all’interno di sé

Con Mr Ramsay non intendevo realizzare un ritratto preciso di mio padre. Un libro crea tutto all’interno di sé, e il ritratto si è trasformato, mentre scrivevo, per far-si calzante nel libro stesso.

A J.E. Blanche, 20 agosto 1927

Le cose che non diciamo

Mi piacerebbe moltissimo discutere con te dei miei per-sonaggi [in Notte e giorno] – se non fosse che sto inizian-do a credere che non siano affatto i miei. Mi si dicono talmente tante cose diverse su di loro. Ma cerca di pen-sare a Katharine come a Vanessa e non come a me; im-magina che nasconda una passione per la pittura e che sia costretta da George a fare il suo ingresso in società – questa era lei all’inizio, ma poi, mano a mano che il libro prosegue, succede di tutto. È il conflitto che la rende per metà così fredda – e poi c’è tutta la questione, che mi in-teressava, di quelle cose che non diciamo; che effetto produce? E fino a che punto i nostri sentimenti si colora-

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no attraverso le loro immersioni sotterranee? Insomma, qual è la realtà di qualsiasi sentimento? E tutto ciò viene ulteriormente complicato dalla forma, che deve mante-nersi compatta, e forse in Notte e giorno è troppo com-patta, mentre ne La crociera era troppo slegata.

A Janet Case, 19 novembre 1919

Personaggi credibili

Che immenso piacere ricevere i tuoi complimenti! [...] Ho apprezzato ogni parola. Non mi figuro un compli-mento più importante del tuo per me. Ci sono miriadi di cose che vorrei chiederti; sui personaggi maschili, ad esempio. Sono convincenti? E poi, il cambiamento di at-teggiamento di Rodney è preparato abbastanza per es-sere credibile? Mi è venuto in mente, in maniera sponta-nea, che fosse innamorato di Cassandra ma poi mi è sembrato un po’ eccessivo.

A Lytton Strachey, 28 ottobre 1919

Troncare con la rappresentazione

Respiro meglio ora che ho la tua lettera, anche se penso che le tue lodi siano eccessive – non posso credere che ti piaccia davvero un’opera tanto priva di virtù, e di molte virtù – ma mi dà un piacere immenso pensare che sia co-sì. Naturalmente hai puntato il tuo dito infallibile sul punto cruciale: il sentimentalismo. Da dove mi viene.

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Non da mio padre. Devono essere state le prozie, credo. Ma un po’ viene anche, credo, dai miei sforzi di tronca-re con la rappresentazione. E questo ti fa prendere il vo-lo. La prossima volta mi atterrò più strettamente ai fatti.

A Lytton Strachey, 9 ottobre 1922

Quel che facciamo nell’oscurità

Mi fa davvero piacere che Gli anni ti sia piaciuto più de-gli altri libri. E che parte di ciò che intendevo trasmette-re ti sia arrivato. Sapevo che non sarei riuscita a espri-mere il significato per intero, un po’ perché ho elimina-to una parte importante; e poi perché era troppo smisu-rato per poterlo circoscrivere. Non credo di essere d’ac-cordo con te sul fatto che tutti i personaggi avvertano un senso d’irrealtà, la non autenticità della propria espe-rienza. Quella di Eleanor, seppur parzialmente limitata dal sesso e dalla morsa dell’educazione vittoriana, era intesa come serena, solida e radicata; le altre erano man-chevoli in un modo o nell’altro – anche se intendevo che Maggie e Sarah fossero libere da quella particolare pri-gione. Non ho potuto tirare in ballo il fronte, come sai, sia perché i combattimenti non rientrano nelle mie espe-rienze di donna, sia perché ritengo l’azione [in un libro] come genericamente irreale. È ciò che facciamo nell’oscurità a essere più reale, mentre ciò che facciamo con gli occhi degli altri addosso mi sembra teatrale, pic-colo, infantile.

A Stephen Spender, 30 aprile 1937

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