atti del convegno rifugi_in_divenire 2013.pdf
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E s p e r i e n z e a l p i n e a c o n f r o n t o
RIFUGI INDIVENIRE
ARCHITETTURA,FUNZIONI E AMBIENTE
E s p e r i e n z e a l p i n e a c o n f r o n t o
A t t i d e l C o n v e g n o
2 2 - 2 3 m a r z o 2 0 1 3
T r e n t o , S a l a d e l l a C o o p e r a z i o n e
RIFUGI INDIVENIRE
ARCHITETTURA,FUNZIONI E AMBIENTE
Progetto grafico:
– www.paissan.eu
Stampa:
Grafiche Stile – www.grafichestile.com
Coordinamento scientifico e cura degli atti:
Associazione Cantieri d‘Alta Quota – www.cantieridaltaquota.eu
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Porto a tutti voi il saluto di Accademia della Monta-
gna del Trentino un istituto nato per valorizzare gli
aspetti storici, ambientali, economici, antropologi-
ci della montagna. Nostro compito è anche quello di
favorire l’identità territoriale dei giovani attraverso
una rialfabetizzazione ambientale, l’appropriazione
di conoscenze specifiche riguardo alla montagna,una
montagna da amare e da vivere. Il Trentino è caratte-
rizzato dalla presenza nelle terre alte dei rifugi alpini
testimonianza di quell’alpinismo nato già 150 anni fa
che ha individuato la montagna alta delle rocce eterne
come luogo di grandi emozioni sportive, ambientali e
di ricerca.
Oggi parliamo di rifugi. Il rifugio alpino, prima d’es-
sere “tetto-riparo-ristoro” è un concetto culturale, è
il tentativo di rendere abitabile un luogo che non lo
è per destinazione. Con i primi rifugi dell’ultimo de-
cennio dell’Ottocento nasce la prima forma di turismo
in Trentino e nelle Alpi in generale. Dobbiamo esse-
re grati a quegli uomini che tra mille difficoltà, e con i
mezzi del tempo edificarono tali strutture. Il rifugio è
stato per decenni il punto di partenza dei frequenta-
tori della montagna. Oggi si è trasformato nel punto
d’arrivo per la gran maggioranza degli escursionisti.
Questo diverso approccio ha modificato nel giro di
pochi anni il ruolo e il senso del rifugio.
Il rifugio Torquato Taramelli nella Valle dei Monzoni (Pozza di Fassa, Trento, 2046 m), in un‘immagine d‘epoca (inaugurato nel 1904)
INTERVENTODI SALUTO
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La sfida che oggi noi abbiamo di fronte è come conci-
liare innovazione con tradizione. Tornando indietro di
cento anni pensiamo ai celebri “cubi” ancora peraltro
esistenti (i rifugi Taramelli e Segantini), costruzioni
che sono un vero monumento alla razionalità. Oggi i
rifugi sono in continuo aggiornamento strutturale e
tecnologico, con attenzione a pratiche virtuose come
sostenibilità, riduzione dell’impatto ambientale, ener-
gie rinnovabili, filiera corta.
Una figura importante caratterizza queste strutture: il
gestore. Il gestore è l’anima del rifugio, custode delle
tradizioni e dell’ospitalità montanara, che si distingue
per quel rapporto diretto che riesce a creare con l’ al-
pinista/escursionista. Ogni rifugio ha la sua storia,
ogni rifugio racconta la propria identità; ne consegue
che ogni rifugio è diverso da un altro, anche se facente
parte dello periodo e dello stesso gruppo montuoso.
Nell’eventuale rifacimento/ristrutturazione è neces-
sario tenere conto di questo, conoscere e capire prima
di intervenire quali sono le caratteristiche specifiche
date dalla storia e dai protagonisti della stessa.
Il rifugio deve emozionare, solo così è possibile attrar-
re e trasmettere cultura e identità della montagna nei
nuovi frequentatori. Più difficile il rispetto del limite;
quel confine che sappia comunicare un messaggio di
semplicità e funzionalità.
Il tempo scorre, la società cambia la montagna conti-
nua ad attrarre ed in questo contesto solo il confronto
può definire linee comuni di riflessioni ed interventi
sulle quali impostare le caratteristiche del rifugio del
terzo millennio.
Accademia della Montagna con il convegno Rifugi in
divenire si è posta l’obiettivo del confronto invitando i
protagonisti della catena alpina che fa da corona all’I-
talia per definire modalità di intervento che sappiano
coniugare conservazione e innovazione.
Egidio Bonapacepresidente di Accademia della Montagna del Trentino
Il rifugio Torquato Taramelli nella Valle dei Monzoni in un’immagine attuale
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Ringrazio Accademia della Montagna per questo suo
specifico interesse a una tematica che è di assoluta im-
portanza e che continua i ragionamenti iniziati due anni
fa con il convegno “I rifugi tra tradizione ed innovazione:
quale rapporto con la montagna”. Ora la ricerca si fa più
approfondita, allargata e attuale. Ringrazio Cantieri d’Alta
Quota per l’intelligenza e la passione con la quale lavora
per fornire contributi importanti. Noi come SAT abbiamo
aderito all’iniziativa, perché riconosciamo la valenza di
una riflessione e la necessità di una visione.
Per chi non sapesse cos’è SAT e a quale titolo è qui rap-
presentata, ricordo che è la più grande sezione del CAI,
nel quale è confluita alla fine del primo conflitto mondia-
le. È proprietaria di 35 rifugi a cui si devono aggiungere
le 4 capanne sociali, i 14 bivacchi e altre 20 strutture di
appoggio affidate direttamente alle sezioni, oltre a ge-
stire direttamente una rete sentieristica che si snoda per
5.000 km.
SAT ha aderito all’iniziativa e lo ha fatto nella convinzione
che occorra governare il cambiamento. Le Alpi sono da
sempre un laboratorio di sperimentazione di pratiche di
adattamento. Sulle montagne gli uomini non sono stati
succubi della forza della natura ma ne hanno plasma-
to le forme dando origine a paesaggi di grande fascino.
Hanno tratto dalle risorse disponibili soluzioni di rara in-
gegnosità. Hanno fatto del concetto del limite la misura
del proprio rapporto con la natura. I rifugi hanno rappre-
sentato l’espressione di questa misura. Rappresentano
ancora adesso in molti casi l’esempio di un presidio cul-
turale e ambientale, a fronte di fenomeni di aggressione
della montagna che non tengono conto dei contesti, della
finitezza e dell‘irripetibilità ma forzano, cambiano, stra-
volgono. Governare i cambiamenti che sono quelli socia-
li delle nuove frequentazioni, quelli climatici, quelli legati
legati alle urgenze ambientali; governare tenendo insie-
me qualità e cultura del limite, tradizione e innovazione.
Esiste un punto di equilibrio? Risposta non facile. In con-
siderazione anche del fatto che ogni rifugio ha una sua
dimensione, collocazione, identità. Ma credo vadano cer-
cate linee guida comuni. Un pensiero comune, di caratte-
I rifugi Quintino Sella e Tuckett nelle Dolomiti di Brenta (Ragoli, Trento, 2271 m), durante l’inaugurazione nel 1906 e oggi
INTERVENTODI SALUTO
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re generale, e poi la capacità di tradurre localmente, nel
concreto. Una sfida stimolante ma tutt’altro che semplice.
La si deve affrontare con tutti gli attori, ognuno consape-
vole del proprio ruolo e della propria responsabilità: pro-
prietari, gestori, politici, progettisti. La riqualificazione,
la ristrutturazione, il rifacimento devono essere coerenti
con le scelte che si vanno a fare in termini di pianificazio-
ne e uso del territorio, delle risorse ambientali, della pro-
mozione, della memoria storica, del significato culturale.
Una libertà del progettista quindi “condizionata”, che non
significa limitata bensì capace di sintesi. Una scelta di
fondo riguarda l’attenzione a preservare orizzonti liberi,
aperti, da percorrere ritrovando una dimensione propria,
personale.
Le Alpi, forse più di altri territori, sono uno spazio finito.
Occorre quindi massima cura a non addomesticare trop-
po la montagna con infrastrutture che ne consentono
un accesso fin troppo facile e ne tolgono fascino e qua-
lità emozionale. Se necessario, libera anche da rifugi (ad
esempio, il Lagorai). Scelte che tengano conto delle carat-
teristiche ambientali e paesaggistiche del contesto in cui
sono inserite. Che tengano conto dei limiti delle risorse e
dei fattori fisici condizionanti. Scelte che siano funziona-
li nel rendere i rifugi sempre più autonomi dal punto di
vista energetico, sempre meno impattanti nell’uso delle
risorse (in particolare quella idrica) e sempre più attenti
alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti; sempre più
modelli innovativi del rapporto fra l‘uomo e un ambiente
difficile come quello dell’alta montagna. Qui sta la sfida
dell’innovazione. Ma le scelte risiedono anche nel mes-
saggio culturale che vanno a trasmettere, e qui cito Anni-
bale Salsa: “La grande sfida culturale per un modo nuovo
di ripensare i rifugi, soprattutto quelli di media monta-
gna, resta quella di farne presìdi del territorio, vetrine dei
luoghi in cui sono insediati, spazi sociali dell’accoglienza
per far dialogare la storia del luogo con la sua geografia,
l’ambiente naturale con il paesaggio costruito, il genius
loci con l’altrove”. Scelte che tengano conto dei nuovi stili
di frequentazione, della pratica sempre più diffusa dello
scialpinismo e dell’escursionismo invernale, dell’allunga-
mento della stagionalità (e penso qui anche all‘iniziativa
denominata “Rifugi del gusto”), degli sforzi per pensare
modi nuovi per trasmettere il fascino della montagna al
di là dei calendari istituzionali ormai superati. Come co-
struire o ricostruire per accogliere senza però compro-
mettere una sobrietà di fondo, senza trasformare in altro;
che rimanga, come ricorda Reinhold Stecher, “una lezio-
ne utile sulla propria limitatezza”.
Ma accanto alla progettazione occorre coerenza anche
negli altri attori. Proprietari e gestori. Lo stile di conduzio-
ne contempla l’accoglienza, la comunicazione, l’educa-
zione del frequentatore sull’importanza del rifugio come
presidio e punto di esperienza e formazione. Le scelte
gestionali ne sono la logica conseguenza e si riflettono
anche sull’offerta culinaria e la valorizzazione dei carat-
teri di tipicità e genuinità provenienti dal territorio in cui
si trova il rifugio. Le buone pratiche lo sono quando sono
innovative, ovvero hanno sviluppato soluzioni nuove e
creative al problema che affrontano; hanno un impatto
concreto e dimostrabile nel migliorare la qualità del rifu-
gio, dei suoi ospiti, di chi ci lavora e dell’ambiente in cui è
inserito; sono il risultato di collaborazioni fra società pro-
prietaria, gestore e comunità locale; sono sostenibili dal
punto di vista sociale, culturale, economico e ambientale;
sono potenzialmente riproducibili in altri rifugi. E coerenti
devono essere le risposte di chi ha la responsabilità poli-
tica e ha in carico la decisione di favorire la realizzazione,
con le competenze degli organi tecnici pubblici ma anche
attraverso l’intervento finanziario. Aspetto, questo, non
secondario. Le strutture che possiamo vantare in Trenti-
no sono il frutto dell‘attenzione dedicata finora a questo
settore da parte dell’amministrazione.
In tempi di crisi economica ognuno comprende le attuali
difficoltà; ma al contempo la partita rifugi non può essere
demandata ai soli proprietari; molte strutture alpinistiche
svolgono compiti reali di servizio pubblico e non sono in
grado di produrre gli utili necessari alla manutenzione
spesso straordinaria di cui abbisognano; sono compiti
importantissimi e che, particolare non trascurabile, de-
finiscono redditi soprattutto per il contesto in cui sono
inserite. Concludo questo breve intervento augurando un
ottimo convegno a tutti.
Claudio Bassettipresidente Società Alpinisti Tridentini
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Prima sessioneQUALI UTENTIPER QUALI RIFUGI?
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Con Accademia della Montagna si sta ragionando
in merito ad un progetto che per valenza territoriale
non può che interessare una progettualità Europea in
termini di finanziamento. Si tratta di un progetto am-
bizioso che vuole creare, su criteri comuni, una rete
alpina caratterizzata dalla presenza delle strutture
alpinistiche. La Provincia di Trento è il territorio tra i
più ricchi di rifugi sulle Alpi e con la stessa attraverso
Accademia della Montagna si ragiona sulla realizza-
zione del progetto.
Si tratta di realizzare l’Osservatorio Rifugi, con l’o-
biettivo d’incentivare la ricerca, divulgazione e con-
divisione delle informazioni storiche, progettuali,
geografiche, sociali ed economiche sulla realtà dei
punti d’appoggio in alta montagna. In particolare, il
progetto nasce con l’intento di avviare un processo di
conoscenza e valorizzazione del patrimonio storico e
architettonico delle costruzioni in quota.
Gli innumerevoli rifugi e bivacchi diffusi sul territorio
delle Alpi costituiscono un’importante risorsa di ca-
rattere storico-culturale di cui non si ha ancora piena
consapevolezza. Purtroppo non esiste una forma di
conoscenza strutturata in grado di stabilire il nume-
ro esatto delle strutture esistenti, la loro collocazione
geografica, il loro stato, così come non esistono – se
non in forma puntuale e frammentaria – tentativi di
sistematizzazione della documentazione storico-ar-
chivistica e delle testimonianze orali e scritte. La re-
alizzazione di un osservatorio transfrontaliero in con-
tinuo aggiornamento è il primo passo per avviare un
processo di conoscenza di tale patrimonio al fine di
promuovere un’azione coordinata di valorizzazione
delle strutture esistenti in grado d’incentivare paral-
lelamente uno sviluppo turistico diversificato e inte-
grato con le peculiarità del territorio.
Tale “osservatorio” si configurerebbe come una piat-
taforma transfrontaliera d’interscambio sul tema dei
rifugi e dei bivacchi rivolta a tutti i soggetti che opera-
no in montagna, così come per coloro che la frequen-
tano o se ne interessano da un punto di vista pretta-
mente culturale.
Obiettivo è dunque quello di costituire un supporto
informativo agli enti e ai soggetti che hanno il com-
pito di gestire e manutenere le strutture, sia quello di
promuovere la fruizione diretta sul territorio di tale
patrimonio, al fine di sostenere uno sviluppo turisti-
co diversificato nelle località interessate, integrando
l’offerta ricettiva tradizionale con quella di carattere
culturale.
In primo luogo s’intende avviare un’operazione di
sistematizzazione di tutte le informazioni di natura
storica, edilizia, progettuale, socio-economica riguar-
PER UN OSSERVATORIODEI RIFUGI E BIVACCHI ALPINI
Rifugio Vittorio Sella al Lauson (Cogne, Aosta, 2588 m)
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timo stadio prevede un sopralluogo in sito e l’osser-
vazione diretta – interna ed esterna – del manufatto,
utile anche per provvedere a una mirata documenta-
zione fotografica.
Roberto DiniCantieri d‘Alta Quota
La scheda di rilevazione inerente il rifugio Pocchiola-Meneghello nel Vallone di Valsoera (Locana, Torino, 2440 m)
danti il tema della realizzazione e della gestione dei
rifugi e dei bivacchi nelle Alpi. In particolare, in rela-
zione alle finalità attese, il progetto prevede il censi-
mento delle strutture esistenti attraverso la scheda-
tura, la mappatura e la messa a punto di un database
che raccolga tutte le informazioni (immagini, dati, do-
cumenti d’archivio, elaborati tecnici, fonti orali, testi-
monianze, ecc.) e le renda accessibili attraverso una
piattaforma web a disposizione non solo degli inte-
ressati ma anche delle istituzioni, degli enti e degli at-
tori che operano sul territorio. A tali attività potranno
in futuro venire affiancate altre progettualità, come
l’elaborazione di buone pratiche per l’interpretazione,
la tutela, il riuso e la gestione del patrimonio esistente;
o, ancora, la predisposizione di percorsi didattico-te-
matici per la divulgazione e la fruizione del patrimo-
nio edilizio: itinerari a uso di escursionisti e alpinisti, al
fine d’integrare l’offerta culturale con quella turistica.
Il lavoro di rilevazione analitica e censimento critico
dei manufatti è concepito per fasi da compenetrare e
integrare progressivamente. Una prima, di raccolta di
tutte le informazioni desumibili attraverso il web e il
materiale bibliografico e archivistico (guide turistiche
d’escursionismo-alpinismo sull’area, pubblicazioni
di settore e monografie tematiche sul soggetto spe-
cifico dei rifugi). Una seconda, di contatto con la ge-
stione e/o proprietà (sezioni CAI locali, enti pubblici o
privati) per ottenere informazioni circostanziate, i dati
ancora mancanti e verifica ulteriore di quelli raccolti,
nonché eventuale materiale storico e d’archivio. L’ul-
Rifugio Chabod al Gran Paradiso (Valsavarenche, Aosta, 2750 m)
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Che i rifugi alpini costituiscano un prezioso patrimo-
nio è un dato da tempo acquisito con consapevolezza
e orgoglio, sia da parte delle associazioni alpinistiche,
sia dai vecchi e nuovi utenti di queste strutture. Pos-
siamo anche scomodare le ormai obsolete etimologie
latine, spesso dimenticate nell’attuale società post-u-
manistica e tecnocratica, ricordandoci che “il patri-
monio è il dono dei padri” (Patrum munus).
I padri dell’alpinismo ottocentesco hanno inaugurato,
in tal senso, una prassi costruttiva sulla quale siamo
IL PATRIMONIODEI RIFUGI ALPINI
qui a interrogarci in un momento di trasformazioni
profonde riguardo al loro futuro. Agli albori dell’al-
pinismo gli euforici primi frequentatori delle Alpi si
appoggiavano alle strutture abitative presenti nei
villaggi. Gli abitanti, ormai consci delle potenzialità in
progress del neonato turismo alpino, incominciano
a edificare i primi alberghetti di montagna o a prati-
care quello che oggi, con un neologismo ispirato alla
eco-sostenibilità, chiamiamo “albergo diffuso”.
Ma l’esigenza di ricoveri che garantissero agli alpini-
Il primo rifugio ai Grands Mulets del Monte Bianco (Chamonix, Francia, 3050 m), edificato nel 1853
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sti una maggiore prossimità alle vie di salita spingeva
nella direzione di costruire vere e proprie strutture de-
dicate all’accoglienza di quei particolari touristes che
l’alpinista francese Lyonel Terray definirà Conqueran-
ts de l’inutile. Tale definizione di “conquistatori dell’i-
nutile” rende bene l’idea che i nuovi ricoveri d’alta quo-
ta non erano destinati ad accogliere i lavoratori della
montagna (minatori o pastori), come invece accadeva
per le prime “capanne”. Si pensi alla Capanna Vincent,
costruita nel 1785 per essere di supporto ai lavoratori
delle miniere aurifere del Monte Rosa o, sempre nel
medesimo comprensorio, al ricovero del Colle Indren
realizzato nel 1851. Nell’anno 1907, non lontano da qui,
nei pressi del Passo dei Salati sorgerà l’Istituto “Ange-
lo Mosso”, destinato alla ricerca scientifica nel campo
della fisiologia umana d’alta quota. Questa realizza-
zione sarà la prima ad avere il supporto e il sostegno
finanziario di molti paesi europei e, addirittura, degli
Stati Uniti. Nell’Istituto, ormai di proprietà dell’Uni-
versità di Torino, verrà avviata la preparazione scien-
tifica della spedizione italiana al K2 del 1954. La sua
operatività nella ricerca sarà strettamente collegata
alla Capanna-osservatorio Regina Margherita del
CAI (Club alpino italiano). Tale avveniristica struttu-
ra è stata collocata sulla Punta Gnifetti (Signal Kup-
pe) al Monte Rosa, a 4554 m di altitudine, sul confine
italo-svizzero. L’opera, inaugurata nel 1893, aveva lo
scopo di: «consentire ad alpinisti e scienziati maggior
agio ai loro intenti in un ricovero elevatissimo», come
si legge nella relativa delibera del Consiglio direttivo.
Con tale delibera, del 14 luglio 1889, il CAI diventerà il
gestore del rifugio più alto delle Alpi e d’Europa. Ma,
già nel lontano 1866, l’associazione alpinistica italiana
aveva inaugurato il suo primo ricovero per alpinisti in
località Alpetto a 2268 m (Comune di Oncino, Provin-
cia di Cuneo) ai piedi del Monviso, montagna simbolo
del sodalizio.
In Trentino la SAT (Società degli alpinisti tridentini),
nata a Madonna di Campiglio in Val Rendena nel 1872
e con un forte radicamento nelle Giudicarie – la terra
elettiva della cooperazione trentina – costruirà il suo
primo rifugio nel 1881 sotto Cima Tosa (Dolomiti di
Brenta).
Nello stesso anno il Club alpino francese inaugura –
nello stesso sito in cui fin dal 1853 era stato allestito
un ricovero attrezzato – il rifugio dei Grands Mulets
al Monte Bianco, ai piedi della via percorsa dai primi
salitori Balmat e Paccard. In tutti gli otto paesi dell’ar-
co alpino dalla Francia alla Slovenia – passando per
Svizzera, Austria e Germania – si moltiplicano le ini-
ziative edificatorie allo scopo di fornire agli alpinisti
punti d’appoggio sempre più numerosi. Anche al di
fuori dell’associazionismo, nelle località a più forte
richiamo turistico, si affiancano nuovi progetti di ri-
fugio per iniziativa di albergatori, comuni, parchi na-
turali e altri.
Esempio paradigmatico, nelle Alpi centro-occiden-
tali italiane (Val Sesia), saranno i fratelli Gugliermina,
vecchi albergatori dell’alto novarese e fra i primi im-
prenditori turistici in Italia. Alla quota di oltre 2800 m
sul Col d’Olen, sotto il Monte Rosa, essi costruiranno
un albergo-rifugio per una clientela particolarmente
raffinata. Dapprima, i nuovi rifugi recupereranno e
Il rifugio dell’Alpetto al Monviso (Oncino, Cuneo, 2268 m), edificato nel 1866
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riadatteranno edifici pre-esistenti dismessi dal loro
principale uso pastorale. Tuttavia, la tendenza che
emergerà sarà quella di costruire manufatti realizza-
ti ex novo con l’impiego di materiali del luogo (pietra,
legno, pietra-legno).
Il rifugio acquisirà sempre più una fisionomia omo-
genea all’ambiente e al paesaggio circostante. Anche
la componente estetica, unita a una rappresentazio-
ne romantica dell’epoca impadronitasi diffusamente
dell’immaginario degli amanti della montagna, farà
pensare al rifugio come a un tutt’uno con la montagna
stessa. Si viene così a creare e/o inventare una tradi-
zione che contribuirà a esaltare i valori di una presun-
ta “tipicità” paesistica dimenticandosi che il rifugio è,
comunque, un corpo estraneo rispetto al tessuto del
paesaggio culturale.
Si tratta, infatti, di un elemento precario che non può
inserirsi totalmente nel contesto socioculturale di cia-
scuna valle o regione storica. Un’impostazione di tal
genere finisce per rappresentare un “tipo ideale” di ri-
fugio pensato alla stregua di una forma architettonica
immutabile nel tempo, fissata e cristallizzata secondo
stilemi del tutto de-storificati.
Se tradizione significa “innovazione riuscita”, si com-
prende allora che spesso rischiamo di associare la
tradizione al passatismo, all’immutabilità, a una di-
Il rifugio Tosa nelle Dolomiti di Brenta (San Lorenzo in Banale, Trento, 2439 m), edificato nel 1881
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La capanna-osservatorio Regina Margherita sulla Punta Gnifetti al Monte Rosa (Alagna Valsesia, Vercelli, 4554 m): il cantiere nel 1892 e la visita della regina il 18 agosto 1893 poco prima dell’inaugurazione. Foto Vittorio Sella © Fondazione Sella, Biella
scutibile coazione a ripetere. Il grande musicista au-
striaco Gustav Mahler, abituale frequentatore delle
montagne di Dobbiaco/Toblach in Val Pusteria, an-
notava finemente: “La tradizione è salvaguardia del
fuoco, non adorazione della cenere”. Se facciamo te-
soro di questa massima, la tradizione costruttiva del
nostro patrimonio di rifugi potrà essere esaltata. Non
già riproponendo, sic et simpliciter, gli stessi schemi
costruttivi, bensì iniettando idee nuove nel solco del-
la tradizione. Soltanto in questo modo l’innovazione
potrà vivificare la tradizione. L’attuale dibattito, anche
acceso, fra conservatori e innovatori in materia di ri-
fugi ricorda un po’ quello fra “apocalittici” e “integrati”
che aveva acceso gli animi degli intellettuali negli anni
Sessanta. Tradizione e innovazione non sono termini
opposti o contrapposti. Essi possono aiutare, se cor-
rettamente declinati, ad attivare circoli virtuosi in gra-
do di aprire la montagna al futuro e di ricapitalizzare
un patrimonio di alto valore materiale e immateriale,
reale e simbolico.
Annibale SalsaPast President Club Alpino Italiano
Antropologo e presidente del comitato scientifico diAccademia della Montagna del Trentino
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Di rifugi su “Montagne360” ci siamo occupati più vol-
te. Ogni volta il tema ha acceso un forte dibattito tra
i lettori, non sono solo tra quelli soci CAI ma anche
tra quelli che acquistano la rivista in edicola. Il mio
contributo sarà condividere ciò che su questo argo-
mento ci restituisce il rapporto con i lettori, ma anche
più in generale con gli appassionati di attività e sport
all’aria aperta immersi nella natura, con i quali venia-
mo in contatto per varie ragioni. Non si tratta di dati
strutturati ottenuti dall’analisi realizzata tramite una
ricerca, pertanto non vi è alcuna pretesa scientifica,
ma di osservazioni di un giornalista in qualche modo
privilegiato. Per prima cosa mi sento di affermare che
i rifugi sono molto amati dai nostri lettori, per molti
di essi, quasi al pari della vetta, i rifugi rappresentano
la montagna e i suoi valori. Potrei azzardare che una
montagna senza rifugi sarebbe percepita un po’ meno
montagna.
Dunque perché si frequenta un rifugio, e che cosa ci
si aspetta di trovare? In linea generale credo si pos-
sa affermare che oggi nel rifugio si vorrebbe trovare,
o si trova “qualcosa” che non si vive facilmente nel-
la vita quotidiana, in particolare nelle città. Questo
“qualcosa” è legato all’atmosfera, alla convivialità, alla
relazione. Anche solo dividere il tavolo con chi non si
conosce. Il rifugio non è percepito come un “non luo-
go” dove passare il tempo, ma come un luogo denso,
esperienziale e di relazione. A questo proposito credo
sia significativo il fatto che riceviamo diverse e-mail
da parte di genitori che, pur affermando di non essere
appassionati di montagna in senso stretto, hanno de-
ciso di trascorrere insieme ai loro figli un weekend in
montagna, per trovare uno stile di vita più sano, per
curiosità, per trovare un luogo pubblico dove non ci
sia la televisione sempre accesa, ecc. Così, ci chiedo-
no consigli su quale rifugio sia più adatto alle famiglie.
Sono convinto di poter affermare che il rifugio – e la
montagna – resta comunque un luogo “controcorren-
te”, un elemento di attrazione per chi cerca un’alter-
nativa alla frenesia. Per questo sono d’accordo con
quanto diceva Egidio Bonapace, che il rifugio di mon-
tagna non deve diventare un albergo, perché sono
mondi diversi. Le attese sono altre. Quando si deci-
de di fermarsi qualche giorno in un rifugio vi è quasi
sempre un desiderio di esperienza.
Quello che invece si osserva è un progressivo cambia-
mento della modalità di frequentazione. In primo luo-
go il rifugio è sempre più meta, punto d’arrivo. I rifugi
meta sono quelli di più facile accessibilità, ad esempio
quelli di bassa e media montagna, o serviti da mezzi
meccanici. Parallelamente il rifugio è sempre meno
tappa. Il rifugio tappa, che per me comprende anche
COME CAMBIANOGLI UTENTI DEI RIFUGI
Rifugio Contrin (Canazei, Trento, 2016 m)
16
quelli utilizzati come base per ascensioni alpinistiche,
è intimamente connesso al modo, diciamo classico, di
frequentare la montagna. E in genere è in alta monta-
gna o raggiungibile con un certo grado di fatica.
In questa riflessione mi concentrerò sul rifugio meta.
A mio giudizio una delle ragioni che fa del rifugio una
meta è connessa all’aumento delle persone che pra-
ticano attività all’aria aperta e in parte al turismo di
prossimità. I rifugi sono diventati elementi, o meglio
luoghi, funzionali al modello più generale delle attivi-
tà outdoor e del turismo di prossimità. Uso il termine
outdoor in senso generale perché, e qui estremizzo
per semplificare, per alcuni raggiungere un rifugio è
quasi equivalente a fare una biciclettata lungo l’argine
di un fiume: l’importante è fare attività all’aria aperta
più o meno in mezzo alla natura, lo specifico quindi
non è l’escursionismo in montagna. Vengo all’altro
elemento. La crisi economica ha portato un aumento
del turismo di prossimità e delle gite giornaliere. Per
osservazione diretta e per la lettura di qualche dato,
ho inoltre notato che è in corso un ritorno alla vacanza,
o al weekend, trascorso nella seconda casa in monta-
gna (anche se non ci piacciono tanto). Tendenza che
riguarda specialmente l’Appennino. Dunque i rifugi
più accessibili sono diventati meta di una gita, che in
una buona parte dei casi dura un giorno, meno fre-
quentemente un weekend. Non sono in grado di dire
con certezza se ciò porta con sé un aumento consi-
stente del numero di presenze, né un reale incremento
economico per i rifugi.
Naturalmente vi sono anche i tanti appassionati di
montagna che vivono quasi settimanalmente lo stes-
so rifugio, e fanno ormai parte della famiglia allarga-
ta del rifugista. Questo tipo di frequentazione è direi
tradizionale. Il risultato, se le mie impressioni sono
corrette, è che la fisionomia del frequentatore del rifu-
gio di bassa e media montagna è mutata, è fatta di un
mix di escursionisti, amanti dell’attività all’aria aperta
(outdoor family) e gitanti occasionali.
Che cosa succede invece in alta montagna, dove si
trova la maggior parte di quelli che ho definito rifugi
tappa? Vi è anche qui un cambiamento che indiret-
tamente conferma quanto dicevo prima. I rifugi d’al-
ta quota, in particolare quelli base di accesso alle vie
d’alpinismo, sono decisamente meno frequentati. In
particolare dagli italiani. Questo dato, a mio giudizio, è
legato al tema più generale della frequentazione alpi-
nistica ed escursionistica dell’alta montagna. Lo scor-
so anno, dopo aver ricevuto una serie di segnalazioni
sulla montagna vuota d’estate, mi sono incuriosito e
ho dedicato al tema un editoriale aprendo un dibattito
su “Montagne360”. Grazie anche a molte segnalazioni
successive, è emerso che in generale l’alta montagna
(e quindi i rifugi) è frequentata soprattutto da alpini-
Rifugio Francesco Pastore all’Alpe Pile (Alagna Valsesia, Vercelli, 1575 m)
17
sti ed escursionisti provenienti da altri paesi, in par-
ticolare dall’Europa dell’Est. La presenza di alpinisti
di altri paesi è per me importante e da incrementare,
ma dobbiamo invece continuare a interrogarci sulla
ragione che sta dietro a quella che sembra una forte
diminuzione della frequentazione da parte dei nostri
connazionali. Ma ciò sarebbe tema per un altro conve-
gno. Infine mi risulta che sia in flessione anche l’utiliz-
zo del rifugio come posto tappa di trekking, indipen-
dentemente dalla quota e dal grado di difficoltà dello
stesso.
Cambiano le modalità di frequentazione, quindi è ra-
gionevole aspettarsi che cambino anche le aspettati-
ve su che cosa si vorrebbe trovare al rifugio. Da quello
che posso vedere dal mio piccolo osservatorio, oggi
per la maggior parte ci si aspetta ancora di trovare ri-
fugisti capaci di offrire accoglienza e ospitalità senza
fronzoli, coniugata a qualche miglioramento e a qual-
che servizio in più. In linea generale non dispiacerebbe
una miglior qualità nell’offerta enogastronomica, con
prodotti locali e di filiera corta. Ritengo che la maggio-
ranza non cerchi – passatemi il termine – la “ristoran-
tizzazione” tout court del rifugio. Tuttavia, per quello
che dicevo prima, mi pare d’intravedere l’insorgere di
una tendenza che va verso tale modello, dove ciò che
importa è l’offerta enogastronomica. Lo dico perché
mi è capitato in più d’un’occasione sentire delle perso-
ne dire che andavano a mangiare al rifugio X (di solito
raggiungibile molto facilmente) perché c’era uno chef
molto bravo che spesso è anche il proprietario. In que-
sto caso gli altri elementi restano, ma come accessori.
A mio giudizio, se prevalesse questa tendenza fareb-
be nel tempo perdere attrattività ai rifugi.
Dal punto di vista alberghiero, si sente, in partico-
lare dalle famiglie con bambini piccoli, l’esigenza di
disporre di camerette perché più adeguate alla dina-
mica famigliare. Inoltre la cameretta è cercata da chi
intende fermarsi più di una notte al rifugio. Scontata,
ma molto presente, la richiesta della possibilità di un
accesso wi-fi per collegarsi alla rete internet (anche
in alta montagna). Vi propongo un altro paio di de-
siderata tra i più “gettonati” dai nostri lettori. Diver-
si cicloescursionisti, mountainbiker, ci scrivono che
sarebbe bello trovare una rastrelliera portabiciclette.
Ad alcuni piacerebbe che il rifugio fosse attrezzato
per fare una piccola manutenzione della bicicletta: un
lettore ci scrisse di essere rimasto sbalordito per aver
trovato una pompa per gonfiare le ruote. Questo tipo
di richiesta riguarda in particolare i rifugi appenninici.
Negli ultimi anni, come sappiamo, è sempre più dif-
fusa, specialmente tra i giovani, la scelta di vivere con
un animale domestico, soprattutto cani. Il tempo libe-
ro non fa eccezione. Riceviamo tante sollecitazioni af-
finché i rifugi si attrezzino per poter ospitare i cani, ma
Rifugio Città di Mantova al Garstelet (Gressoney La Trinité, Aosta, 3498 m)
18
ci sono anche tanti che esprimono la loro contrarietà.
Poi, un’osservazione a latere. Tra i nostri lettori è for-
te l’attenzione alla sostenibilità: sia ambientale sia ri-
spetto all’uso di prodotti green, preferibilmente locali
in quanto supporto dell’economia delle terre alte. La
sostenibilità ambientale, in particolare quando il ri-
fugio diventa luogo di permanenza, è spesso un ele-
mento che orienta la scelta.
Vorrei chiudere il mio intervento con qualche rifles-
sione generale. Come dicevo, credo che oggi il rifugio
sia ancora cercato in quanto elemento di esperienza,
perché arrivarci comporta quasi sempre una dispo-
sizione alla fatica, grande o piccola che sia, ripagata
dall’ambiente in cui ci s’immerge. E questo è un ele-
mento attrattivo. Per quanto riguarda in particolare i
rifugi di bassa e media montagna, se è vero che stan-
no cambiando le persone che li frequentano, se la ten-
denza è sempre più quella del rifugio come meta, e se
è ipotizzabile che tutto ciò andrà consolidandosi, allo-
ra, a mio giudizio, bisogna prestare attenzione a non
cedere a un modello di offerta che snaturi il rifugio di
montagna.
Faccio un esempio molto personale legato al lessico:
quando ho cominciato ad andare in montagna più di
30 anni fa, per me c’erano il rifugio e il rifugista, poi
nel tempo il rifugista è stato chiamato gestore. Per-
sonalmente trovo che tra rifugista e gestore vi siano
delle differenze. Non è passatismo. La parola gestore
è aspecifica, pesa meno. Non mi parla di montagna,
di quota, di vento, di fuoco, di minestrone, di tavolata
comune, d’indumenti ad asciugare attorno alla stufa.
Di scelta di vita. Se poi da gestore diventa ristoratore
o albergatore, per il mio sentire è ancora peggio. In-
tendiamoci, la lingua è viva e per fortuna cambia; va
benissimo usare gestore ma l’importante è che cosa
c’è dentro una parola.
In conclusione, a mio modo di vedere occorre non irri-
gidirsi contro il cambiamento, che è un atteggiamen-
to di poco costrutto e dannoso. Il mutamento va però
accolto senza seguire per forza modelli che nel tempo
farebbero dei rifugi di media e bassa montagna un
luogo come tanti. Ovvero dei non luoghi. In un mondo
in continua evoluzione bisogna cercare di governare il
cambiamento armonizzandolo con la propria specifi-
cità, rifiutando quelle istanze che cozzano con essa e
che propongono un modello di rifugio che sganciato
dalla dimensione socio-culturale lo porterebbe verso
la sua folklorizzazione.
Luca Calzolaridirettore “Montagne360”
19
Caratteristiche dell’offerta e flussi della domanda nell’ultimo decennioSono 78 i rifugi trentini alpinistici e 68 quelli cosid-
detti escursionistici, cioè raggiungibili su strade car-
rozzabili. A questi andrebbero aggiunti oltre una qua-
rantina di bivacchi, strutture di uso pubblico, ubicate
in luoghi isolati di montagna, non gestite né custodite,
appositamente allestite in modo essenziale ai fini del
riparo di fortuna degli alpinisti.
Quanto pesano i rifugi sull’offerta ricettiva del Tren-
tino? Essi presentano un’incidenza contenuta ma
non irrisoria sia sui posti letto totali delle struttu-
re ricettive (2,9% del totale) che soprattutto sul solo
extralberghiero. Poco meno del 40% degli arrivi e
delle presenze registrate nei rifugi sono rappresen-
tati da stranieri, in crescita più sostenuta rispetto alla
componente italiana soprattutto negli ultimi anni (ad
esempio nel 2005 la quota di stranieri ammontava
al 35%), come mostra l’andamento dei numeri indici
dal 2000. La quota di posti letto si riflette in misura
analoga sia sulla quota del totale arrivi certificati che
sul solo extralberghiero, dove rappresenta quasi il 12%
del totale. Mentre risulta più contenuta la quota im-
putabile ai rifugi sulle presenze, perché la durata dei
pernottamenti è molto bassa (1,5 notti di permanenza
media). Da rilevare che la quota di stranieri presenti
nei rifugi è seconda solamente a quella registrata nei
campeggi (grazie soprattutto ai campeggi sui laghi di
Garda, Levico e Caldonazzo, frequentati in larga mag-
gioranza da stranieri).
GESTORI E FREQUENTATORIDEI RIFUGI IN TRENTINO
Tabella 1: I rifugi in Trentino (2012)
→ 152 rifugi
(78 alpinistici e 68 escursionistici)
(+41 bivacchi)
→ circa 4.752 posti letto
2,9% posti letto certificati
7,0% extralberghiero
→ 89.226 arrivi
2,6% del certificato
11,9% extralberghiero
→ 133.666 presenze
0,8% del certificato
3,4% extralberghiero
→ 62% arrivi italiani
→ 38% arrivi stranieri
→ 1,5 gg permanenza media
→ 7,7% grado di utilizzo lordo
posti letto
→ 26% utilizzo netto
→ Anni 2000 – 2012
+ 72,2% arrivi
+ 73,7 presenze
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La crescita nell’ultimo decennio di arrivi e presenze è
stata sostenuta. La crescita dei pernottamenti nei ri-
fugi è particolarmente evidente se confrontata con gli
andamenti dell’alberghiero e dell’extralberghiero. Ov-
viamente l’entità assoluta degli incrementi è qui note-
volmente più elevata rispetto ai rifugi. Il grado di uti-
lizzo dei posti letto è basso: sia quello lordo calcolato
su tutto l’anno (e questo appare ovvio, data l’apertura
concentrata nei soli mesi estivi), ma è basso anche
quello netto, riferito al solo periodo di apertura, che ri-
sulta pari al 26%. La permanenza media è rimasta so-
stanzialmente stabile dai primi anni duemila, anche se
sul finire del decennio c’era stata una leggera crescita,
in controtendenza rispetto a quanto si sta verificando
per l’alberghiero e l’extralberghiero, entrambi in calo.
Si potrebbero riassumere questi dati statistici afferman-
do che i rifugi rappresentano una componente importan-
te dell’offerta ricettiva e godono di buona salute e che al
rifugio arrivano in molti, ma si fermano poco.
Le caratteristiche della domanda.I frequentatori dei rifugiPrima di analizzare le motivazioni di vacanza e le ca-
ratteristiche di chi frequenta i rifugi è opportuno evi-
denziare alcuni tratti della domanda turistica che fre-
quenta il Trentino.
Le principali motivazioni di vacanza del turista tren-
tino in estate, con la possibilità di due risposte, ve-
dono al primo posto la dimensione di riposo e relax,
più evidente per la componente italiana e meno per
gli stranieri. Riposo che non esclude affatto una mo-
derata attività fisica. Infatti questa motivazione è ben
associata a una seconda risposta riferita a una vacan-
za naturalistica.
Al secondo posto, per numero di preferenze, la va-
canza attiva, qui intesa come vacanza che impegna
soprattutto il fisico, dato che nella letteratura si par-
la di vacanza attiva anche riferendosi a una vacanza
esperienziale che impegna la mente, intendendosi il
termine attivo dal punto di vista psicologico.
Se queste motivazioni valgono per l’insieme dei tu-
risti presenti in Trentino nella stagione estiva, può
essere interessante analizzare quei segmenti di turisti
interessati a un’offerta più simile a quella dei rifugi. Ad
esempio, gli ospiti del club Dolomiti Walking Hotel, un
club di prodotto della ricettività partecipato soprat-
tutto da strutture alberghiere che si sono specializza-
te in un’offerta di carattere escursionistico. Anche qui,
stando alle indagini condotte sistematicamente negli
ultimi anni, le motivazioni di vacanza non si discosta-
no troppo da quelle riscontrate per l’insieme dei tu-
risti: una vacanza in mezzo alla natura possibilmente
in una dimensione riposante piuttosto che marcata-
mente sportiva.
E il pubblico dei rifugi? Nel 2005 è stata effettuata
una specifica ricerca su un campione di frequentato-
ri dei rifugi da parte dell’Osservatorio del turismo del
Trentino. Quanto emerso in quella ricerca, stando a
quanto affermano alcuni testimoni privilegiati, sem-
brerebbe essersi ulteriormente accentuato negli anni
successivi. Per questa ragione i risultati emersi allora
rivestono ancora un certo interesse.
Le interviste sono state condotte presso i rifugi. Tra
le principali motivazioni di vacanza si registra la cre-
scita, rispetto all’insieme dei turisti estivi del Trenti-
no, della motivazione riconducibile alla vacanza attiva
(praticare sport e trekking in montagna). Pur essendo
questa risposta indotta dalla circostanza e dal luogo
dell’intervista (è come riscontrare in un pubblico che
visita un Museo una forte motivazione di caratte-
re culturale), è indubbio che i rifugi intercettano con
maggiore probabilità quel segmento di turisti pre-
senti in Trentino interessato anche a una dimensione
attiva della vacanza. Peraltro alcuni accessi risultano
facilitati e poco impegnativi, pure nel caso di rifugi
cosiddetti alpinistici, che per questa ragione intercet-
tano anche una parte di pubblico interessato priori-
tariamente a una vacanza all’insegna del riposo e del
relax e a una moderata attività fisica.
L’ospite intercettato presso i rifugi risulta in due terzi
dei casi un turista e non un escursionista di giorna-
ta. Ecco perché si afferma che i rifugi rappresentano
una componente importante dell’offerta turistica del
Trentino. Solo il 14% dei frequentanti risulta un resi-
dente in provincia. Quasi un quinto degli intervistati
sono invece escursionisti di giornata provenienti da
fuori provincia.
21
Tra i turisti la maggior parte non dorme nei rifugi e
pernotta in strutture ricettive di valle (dal punto di
vista dei rifugi potrebbero quindi essere considerati
degli “escursionisti di rimbalzo”).
Coloro che dormono in un rifugio rappresentano
meno di un quarto del campione, mentre ad esempio
chi dorme in un albergo rappresenta il 42%. Vale a
dire che il turista in vacanza che frequenta un rifugio
sale preferibilmente da valle e non rimane in quota,
ma ritorna in valle. Per questo turista che frequenta i
rifugi le escursioni in montagna sono importanti ma
non esaustive del tempo vacanza. Solo un terzo del
tempo vacanza è dedicato alle escursioni. Quindi chi
frequenta un rifugio non fa solo escursioni in monta-
gna.
La frequentazione del rifugio è un’attitudine che nella
maggior parte dei casi si è appresa da piccoli, seppure
con consistenti eccezioni. Infatti più di un terzo è arri-
vato in un rifugio per la prima volta in età adulta. Inol-
tre la maggior parte dei frequentanti un rifugio non fa
parte del “mondo della montagna”.
Gli intervistati sono in prevalenza maschi, che si muo-
vono preferibilmente con gli amici, oltre che in coppia
e con la famiglia. Si tratta di giovani adulti. Gli alpinisti
e trekker abituali (più di dieci uscite l’anno) rappre-
sentano solamente poco meno di un terzo del totale
intervistati.
Sulla concezione di rifugio: preferiscono la semplicità
“confortevole” (solo il 13% richiede il comfort della cit-
tà in quota). Ma su questo concetto di comfort si ritor-
nerà successivamente.
Cosa chiedevano e cosa avrebbero apprezzato mag-
giormente di un rifugio questi turisti intervistati? So-
prattutto servizi igienici più accessibili, possibilmente
evitando di accedervi uscendo all’aperto. Sembrereb-
bero invece prestare minore attenzione alla presenza
di docce. Richiedono una ristorazione non da gourmet
ma si dichiarano curiosi e interessati ai prodotti loca-
li. Anche da queste sollecitazioni dopo qualche anno
è stato messo a punto in Trentino il progetto “Rifugi
del gusto”. Esprimono l’esigenza di dormire bene, con
letti e materassi confortevoli, e pretendono pulizia.
In definita si tratta di richieste molto simili a quanto
evidenziato anche in ricerche precedenti condotte in
altri contesti, ad esempio nei rifugi delle Alpi del Sole
a metà anni Novanta.
Relativamente scarsa importanza è assegnata agli
aspetti tecnologici e tuttavia la delusione più alta ri-
scontrata tra gli intervistati (con un 20% di delusi) è
proprio sui limiti riscontrati nella possibilità d’impie-
gare le nuove tecnologie.
Si tratta di un’esigenza che è cresciuta quasi espo-
nenzialmente negli anni successivi a questa ricerca
e non a caso in parecchie regioni – dal Piemonte al
Trentino – ci si è conseguentemente attrezzati per la
connessione dei rifugi alla banda larga e garantire una
copertura wi-fi.
In sintesi i risultati di questa ricerca confermerebbero
che i rifugi si sono resi più accessibili. Sono diventa-
ti per lo più un punto di arrivo e non di partenza per
un’arrampicata. I frequentatori occasionali, in partico-
lare i turisti, rappresentano la quota maggioritaria. La
spinta per un maggiore comfort si registra soprattutto
nei rifugi escursionistici e in quelli più facilmente rag-
giungibili.
Tabella 2: Frequentatori dei rifugi in Trentino
Frequentatori dei rifugi in Trentino
Il cliente
→ 65% turisti (molti escursionisti di rimbalzo)
→ 19% escursioni di giornata da fuori provincia
→ 14% escursioni residenti in provincia
→ 66% non iscritto ad un’as-
sociazione alpinistica
→ 61% prima ascesa ad un ri-
fugio età < 15 anni
→ Solo il 24% pernotta in un
rifugio durante la vacanza.
Il 42% in albergo
→ Un terzo del tempo vacan-
za è dedicato alle escursio-
ni in montagna
22
I gestori dei rifugiNel rifugio è esemplificato il conflitto che vede da un
lato le richieste avanzate dai sempre più numerosi
frequentatori e dall’altro l’esigenza di porre un freno
all’eccessiva antropizzazione e al degrado ambienta-
le derivante da consistenti flussi turistici. “Nati come
case degli alpinisti, sono diventati punto nevralgico
del turismo montano estivo”. Tuttavia i rifugi con-
tinuano a svolgere una funzione di filtro, funzionale
per stoppare l’afflusso verso le vette, ambienti ancora
più fragili, e sono per questo investiti da un compito
gravoso: quello di diventare, oltre alla testimonianza
dell’attività umana in alta quota, anche la frontiera più
avanzata di protezione dell’ambiente e della cultura
dell’alpinismo e della montagna. Da questo punto di
vista la figura del gestore assume un ruolo centrale
nella gestione positiva di questo conflitto.
La ricerca prevedeva anche un approfondimento nei
confronti dei gestori con una serie d’interviste di ca-
rattere qualitativo. I gestori sono pienamente consa-
pevoli dei mutamenti in atto dal lato della domanda.
Nelle opinioni raccolte, l’ubicazione e l’accessibilità del
rifugio fanno la differenza. Peraltro questi aspetti pe-
sano anche in termini di frequentazione e numeri di
presenze.
Come pure nei gestori c’è consapevolezza che i rifugi
risentono della loro storia, anche in termini di appar-
tenenza nazionale. Ad esempio certe trasformazio-
ni in direzione di maggior comfort nei rifugi italiani,
diversamente da quelli dell’Alpenverein, risalgono
al ventennio fascista. I gestori intervistati risultano
combattuti tra le richieste di maggior comfort per
rispondere alle presunte richieste di una clientela in
larga misura mutata e il desiderio di non snaturare i
rifugi rafforzando la tendenza a farne degli alberghet-
ti in quota.
Il rischio di omologazione dei rifugi con le altre strut-
ture ricettive esistenti non data da oggi. Guido Piove-
ne, nel suo monumentale “Viaggio in Italia”, commis-
sionato inizialmente nel 1953 dalla RAI come servizi
radiofonici sulle diverse regioni italiane e trasformato
in un resoconto di viaggio durato tre anni dal 1953
al 1956, riporta questa interessante testimonianza a
proposito dei rifugi alpini che già nei primi anni Cin-
quanta a suo parere avevano cambiato pelle: «Il rifu-
gio romantico della mia giovinezza, nel quale mi sten-
devo battendo i denti e aspettando il primo mattino
su dure tavole di legno, gomito a gomito con i com-
pagni di arrampicata, cede il passo al rifugio-albergo,
con camere, letto e bagni. Vi si accede con l’automo-
bile, o si giunge a poca distanza. I “progressi” numerici
dell’alpinismo sono dunque fittizi. Qui si vede la crisi
portata nell’alpinismo dai mutati costumi della bor-
ghesia italiana. Declina l’alpinismo inteso come fatica,
Tabella 3: Frequentatori dei rifugi in Trentino
Frequentatori dei rifugi in Trentino – Il cliente
Come considera un rifugio
→ 87% punto di appoggio essenziale
→ 11% struttura ricettiva di medio comfort
→ 2% struttura ricettiva a comfort elevato
Età
→ oltre la metà ha tra i 26 ed i 45 anni
Tipologie dei clienti dei rifugi
→ 11,0% alpinista occasionale
→ 4,7% alpinista abituale
→ 57,4% trekker occasionale
→ 26,9% trekker abituale
Genere
→ 68% maschio
→ 32% femmina
23
legata alla disciplina morale e ai piaceri contemplati-
vi. La gente che affluisce nelle montagne si divide in
due schiere, i pigri vincolati al mezzo meccanico, e
gli acrobati senza gusto per la natura, attratti dall’ar-
rampicata prodezza. Funicolari, teleferiche, sbrigative
ascensioni che si fanno a sedere. La gioventù non ama
la fatica e il rischio, ad eccezione del grande rischio
delegato ai campioni».
Una ricerca condotta dall’Osservatorio del turismo
trentino nel 2008 aveva analizzato la dotazione di
servizi in un numero significativo di rifugi dell’arco al-
pino di Austria (195 rifugi), Francia (62) e Italia (356).
La dotazione risultava molto più elevata nei rifugi ita-
liani rispetto a quelli austriaci, rispondendo a conce-
zioni diverse, molto più improntate all’essenzialità in
quelli austriaci.
Prendiamo ad esempio le docce: la quota di rifugi ita-
liani dotati di docce (74,4% del totale) risulta tre volte
superiore a quelli austriaci (24,6%) e notevolmente
superiore ai francesi (41,9%). E soprattutto più della
metà dei rifugi CAI italiani (51,3%) garantisce contem-
poraneamente acqua calda, elettricità, doccia, riscal-
damento e ristorazione.
ConclusioniSenza alcuna pretesa di dare delle indicazioni che
emergeranno dall’insieme del convegno, ecco alcuni
spunti di riflessione:
→ Il rifugio rimane porta su due mondi. Si tratta di sal-
vaguardarne la semplicità e il comfort essenziale
per difenderne l’alterità rispetto a un modello ur-
bano, da cui inevitabilmente riceve contaminazio-
ni. In caso contrario verrebbe meno il suo ruolo di
“medium della cultura della civiltà alpina” (Bruno
Sanguanini), e presumibilmente anche la sua at-
trattività specifica fondata sulla non omologazione
ad altre strutture ricettive.
→ Attenzione alla sostenibilità ambientale, scelta resa
più stringente dai cambiamenti climatici (basti pen-
sare alla disponibilità d’acqua), limitando le forme
d’inquinamento e d’impatto a causa di un eccessivo
carico antropico, evidente nei periodi di maggiore
frequentazione.
→ Ripensare e riattualizzare alcuni obiettivi già og-
getto di attenzione ancora una ventina di anni
fa. Ci si riferisce in particolare alle conclusioni del
Convegno CAI a Trento nel 1991 e a quello di Trieste
dell’anno successivo che indicavano come obiettivi
prioritari la manutenzione costante dell’esistente
con divieto di nuove costruzioni, come pure il no a
tecnologie spinte. Contemporaneamente i club alpi-
ni di Austria e Germania ribadivano il no all’aumen-
to di comfort e ponevano grande attenzione alla tu-
tela ambientale e ai programmi di corretta gestione
ambientale, facendosi interpreti di questi obiettivi
anche con alcune realizzazioni che potremmo defi-
nire “coraggiose” rispetto a una presunta tradizione
fossilizzata.
Gianfranco BettaOsservatorio provinciale per il turismo
24
Il lusso è etimologicamente cosa rara, per pochi eletti,
esperienza di alta qualità, esclusiva per il prezzo. Oggi
sembra che in alcuni casi il concetto di lusso perda
la sua più comune sfumatura elitaria per potenziare
la componente di unicità dell’esperienza. Infatti, se il
quotidiano è tappezzato di lussi, un lusso spesso di-
venta la semplicità. In un mondo asettico e individua-
lista, l’eccezione è la solidarietà umana.
Se l’urbanizzazione, la presenza antropica e la si-
curezza rendono prevedibile e banale la nostra vita,
un’esperienza in balia della natura può essere una
condizione unica per tornare ad apprezzare l’essenza
delle cose. E così scopriamo che la montagna nascon-
de, tra le sue pieghe più recondite, nella bellezza dei
paesaggi, nei suoi ambienti selvaggi e nell’ospitalità
dei rifugi, un lusso prezioso.
Per molti è un lusso immergersi nella natura, lasciare
cellulare e computer spenti ascoltando il silenzio, rice-
vere un’ospitalità sobria ma genuina avvertendo quel
rapporto di solidarietà tra gli uomini che pare scom-
parso a valle ma che si può ancora trovare in qualche
angolo ad alta quota.
Il lavoro di ricerca presentato all’International Mountain
Summit 2012 di Bressanone dalla Fondazione Architet-
tura Belluno Dolomiti e dall’Ordine Architetti PPC della
Provincia di Belluno sul tema del lusso e del confort in
alta montagna ha svelato come la richiesta e l’offerta del-
la ricettività nelle terre alte stia cambiando.
Come architetti che vivono in un ambiente montano
e che nella propria ricerca progettuale si confrontano
con un ambiente speciale, quale quello delle Dolomiti,
abbiamo cercato di analizzare questo tema seguendo
un percorso alternativo, ricorrendo alle metodologie
della ricerca socio-antropologica e raccogliendo i
punti di vista e le esperienze di chi la montagna la vive
e la frequenta, a diversi livelli.
Il risultato del lavoro, accompagnato e supportato
dalle competenze di Valentina De Marchi, antropo-
loga, regista e amante della montagna, è un filmato
dal taglio documentaristico e al contempo divulga-
tivo. L’area presa in analisi è la Provincia di Belluno,
regno delle Dolomiti Unesco. Le interviste e le riprese
sono state girate in una quindicina di rifugi selezio-
nati secondo i criteri di: altitudine superiore ai 2000
m, appartenenza a differenti gruppi montuosi, diverso
livello di accessibilità, eccellenza nel territorio e infine
seguendo i consigli e le preferenze degli intervistati.
È stata data la parola a gestori di rifugi, escursionisti
italiani e stranieri, alpinisti, guide alpine, architetti e
“IL LUSSO DELLA MONTAGNA”UN DOCUMENTARIO TRA I RIFUGI DELLE DOLOMITI BELLUNESI
25
persone con professionalità e competenze legate alla
montagna. L’indagine ha interrogato la storia delle
strutture ricettive ad alta quota e della loro funzio-
nalità, il significato di rifugio, quello che si ricerca in
questo ambiente, le esigenze di comfort, la ricerca del
lusso e infine la percezione dell’architettura contem-
poranea.
La Fondazione e l’Ordine hanno intrapreso una vera e
propria esperienza di common ground, cercando opi-
nioni e risposte nella condivisione di conoscenze, in-
teressi, sguardi calati, ideali, stereotipi e punti di vista
sul presente e sul futuro architettonico, di un’umanità
quanto mai variopinta e sfaccettata. Così l’ascolto e il
dialogo si fanno strumento creativo per l’architetto.
La funzione dei rifugi dolomitici dalle origini a oggi è
cambiata, così come sono cambiati il concetto di alpi-
nismo e dell’andare in montagna; l’utilizzo delle strut-
ture ricettive ad alta quota si è allargato a un pubblico
sempre più vasto e con svariate esigenze, con conse-
guente mutazione dell’offerta e della risposta archi-
tettonica.
Nati come luoghi di riparo e ristoro per alpinisti im-
pegnati in lunghe ascensioni e costretti a permanen-
ze prolungate in quota, oggi i rifugi sono frequentati
soprattutto da chi li vede come meta dell’escursione
giornaliera e, quando raggiungibili con strade e funi-
vie, sono stati talvolta trasformati in ristoranti e alber-
ghi d’alta quota.
Caratteristica rilevante delle Dolomiti, a confronto con
le Alpi Occidentali, sono le quote relativamente bas-
se, gli avvicinamenti alle cime mediamente brevi e
una maggiore accessibilità generale della montagna.
Se i rifugi su Monte Bianco, Monte Rosa e Cervino
sono strutture di appoggio necessarie per il numero
crescente di coloro che cercano esperienze alpinisti-
che sopra i 4000 m, il rifugio dolomitico, sorgendo in
condizioni climatiche-ambientali meno estreme, pone
l’attenzione più sulla ristorazione che sul pernotta-
mento degli escursionisti.
Nelle Dolomiti non serve essere molto esperti per
godere dei paesaggi tra i più belli al mondo, per im-
mergersi in pascoli e boschi ricchi di biodiversità, per
calpestare ghiaioni e toccare la dolomia. Si possono
affrontare sentieri di varie difficoltà per passeggiate
o escursioni in mountain bike, ferrate, pareti di roccia,
piste da sci, pendii per lo sci alpinismo. Tutto questo
legato a un turismo che cambia continuamente e che
oggi, grazie al marchio Patrimonio dell’umanità Une-
sco, richiama appassionati da tutto il mondo.
La risposta architettonica si adatta alle trasformazioni
del turismo ad alta quota. Da concetto di riparo, assi-
milabile alle residenze temporanee legate alla pratica
dell’alpeggio, si passa a quello di struttura ricettiva
complessa che richiede dimensioni e spazi più defi-
niti, elettricità, acqua corrente, impianti tecnologici
e soluzioni adatte a soddisfare esigenze di privacy e
comfort. La sfida architettonica è resa ulteriormen-
te complessa dal delicato inserimento nell’ambiente
montano e dal fatto che l’esperienza del rifugio si lega
intimamente con quella del paesaggio alpino, della
bellezza naturale (talvolta vissuta come assoluta) e
della fatica del cammino.
Ascoltando le voci, i pensieri e le opinioni di chi la
montagna la vive e la frequenta ne deriva un parere
quasi unanime: il rifugio è un luogo di essenzialità,
dove si cerca la semplicità. Priva di tutti gli orpelli e
surplus di cui ci circondiamo nella vita quotidiana,
l’esperienza in rifugio è per molti inscindibile dall’e-
sperienza nell’ambiente, unita alla riscoperta di biso-
gni primordiali: protezione, cibo, calore. In rifugio ci si
aspetta soprattutto l’ospitalità e l’accoglienza familia-
re, i preziosi consigli del gestore, l’incontro di persone
con cui condividere interessi e situazioni, un sorri-
26
so schietto e sincero. Il rifugio è luogo dove sentirsi
uomo tra gli uomini, uniti da un tetto e quattro mura
che separano da una natura non sempre ospitale. In
questo spazio così umano si cercano, e spesso si tro-
vano, alcuni valori del passato: il rifugio dunque deve
offrire sicurezze, sia fisiche sia morali.
In montagna, complice l’eccezionalità dei luoghi e
l’impegno richiesto per raggiungere la meta, la mag-
gior parte delle persone si dichiara disponibile ad
adattarsi, ad accettare compromessi, a rinunciare ai
comfort della vita di tutti i giorni, consci che comun-
que si tratti di una parentesi di tempo limitata e di un
contesto estremo. Adattarsi quindi a una camerata, a
un bagno in comune e a una cucina rustica è gene-
ralmente considerato parte integrante dell’esperienza
in rifugio, un’occasione per misurarsi con le proprie
capacità fisiche e di adattamento. Al contrario, l’espe-
rienza del lusso ad alta quota viene definita dai più
come fuori luogo, contrastante con le aspettative.
Anche secondo gli escursionisti più esigenti e ri-
cercati, il lusso può rimanere tranquillamente a
valle, dove, dopo un’escursione e il piacere del
paesaggio alpino, non deve mancare la cena
in un buon ristorante, il relax in un centro
benessere e il pernottamento in un hotel
d’eccellenza. In quota, anche gli amanti
del lusso dicono di ricercare l’esperienza
della semplicità.
La semplicità del rifugio è tuttavia
un concetto molto relativo. Se per
qualcuno significa letteralmen-
te un riparo dalle piogge, un
piatto caldo, una stufa su cui
stendere i vestiti bagnati, per
altri significa uno stile, un
design d’interni, la cura
particolare nell’accosta-
re i materiali: un’icona.
Un tavolo di legno,
con il suo profumo
e la piacevolezza al
tatto può essere
vissuto come
esperienza di
essenzialità della montagna. La semplicità è spesso
descritta come l’utilizzo di materiali e soluzioni tipi-
che: il legno, la pietra, l’arredamento che richiama la
tradizione del luogo. I ricami sulle tende, sulle tova-
glie o scolpiti sullo schienale delle sedie, gli oggetti di
lavoro della montagna e perfino l’abito tradizionale
dei gestori soddisfano quell’idea di semplicità, che ri-
schia di essere una proiezione dell’identità del luogo
e la ricerca di una sicurezza. Dietro al concetto di es-
senzialità a volte, infatti, può nascondersi una visione
pittoresca e stereotipata della montagna e dell’iden-
tità alpina come qualcosa di sempre uguale, stabile e
immutabile.
Scavando sotto l’idea dell’essenzialità, si scopre che
un determinato apporto di comfort non è poi così
disprezzato neppure ad alta quota. Due cose in par-
ticolare sono gradite: le camere doppie o quadruple,
che garantiscano notti tranquille, lontano da rumori e
odori poco piacevoli, e le docce calde, soprattutto per
chi prolunga la permanenza. Una buona cucina, fami-
liare e legata ai sapori tradizionali, è sempre gradita,
soprattutto dagli ospiti italiani.
I gestori dei rifugi osservano che la richiesta e l’aspet-
tativa di comfort stanno crescendo tra i frequentatori
della montagna e quindi si pone loro il problema di
adeguare o meno la propria offerta. I rifugi che vengo-
no rinnovati tendono a essere ampliati e i vani abitati
dai gestori separati da quelli della clientela. Dove c’è
spazio le camerate collettive vengono divise per ga-
rantire maggiore privacy e i rifugi che più si aprono a
un pubblico ricercato prevedono la disponibilità di ca-
mere con bagno privato. Dalle interviste emerge che
se un rifugio offre questo tipo di servizio e comfort,
può essere vissuto come un luogo dove prolungare la
propria permanenza, magari con la famiglia. L’offerta
di una camera privata quindi è capace di trasformare
il rifugio da luogo funzionale a cui si chiede di soddi-
sfare i bisogni fondamentali, a spazio dove rilassar-
si e godere di un’esperienza appagante in termini di
benessere. In generale è apprezzata dai frequentatori
d’alta quota un’atmosfera accogliente e un focolare
acceso attorno a cui sedersi, sorseggiare un bicchiere
di vino, leggere o incontrare persone. Se il rifugio si
trova in un luogo panoramico è gradita una terrazza
27
con vista e finestre ampie per godere al massimo del
paesaggio.
Quando interrogati sui canoni ideali dell’architettura
in montagna, la maggior parte degli intervistati ri-
propone il modello tradizionale di rifugio dolomitico:
l’utilizzo dei materiali naturali presenti sul territorio
(legno e pietra) e la forma a baita. La descrizione del
rifugio viene spesso accompagnata da un gesto delle
mani che mima la forma archetipica del tetto a capan-
na: è il riparo, la casa. Molti amano una struttura pic-
cola, ben integrata con l’ambiente, a volte mimetizzata
nel paesaggio circostante.
Tuttavia, astraendo da questo ideale architettonico,
spesso frutto di una visione romantica, emergono dif-
fusamente considerazioni importanti. È riconosciuta
l’efficienza dei nuovi materiali costruttivi dal punto di
vista della sostenibilità, tanto più ad alta quota, dove
le condizioni ambientali sono particolarmente severe
e le problematiche di cantiere accentuate. Per gli in-
tervistati, se invitati a una riflessione più approfondi-
ta, la tradizione non sembra più essere un imperativo
assoluto. Molti si scoprono favorevoli all’innovazione
edilizia in montagna e auspicano che l’architettu-
ra conduca ricerche sulla forma e sulla funzione ed
esplori le possibilità offerte da materiali e tecnologie
insoliti e inattesi.
L’architettura contemporanea mediamente piace agli
intervistati, ma non quando viene percepita come
esaltazione della forza dell’uomo sulla natura. La vo-
lontà architettonica di porsi in contrasto con l’ambien-
te naturale, l’esaltazione della tecnologia e dell’inge-
gno umano contrapposto alle forze della natura (quali
il vento, la pendenza, la forza di gravità) sono percepiti
come pericolosi atti di prevaricazione. L’uomo deve ri-
spettare la montagna e mantenere comunque un at-
teggiamento di ascolto e rispetto perché in quei luoghi
è pur sempre un ospite.
Tra tutte, le parole dei gestori – ricche di conoscenze
e saperi frutto dell’esperienza – offrono uno sguardo
lucido sulle problematiche che l’alta quota e il con-
testo alpino pongono all’architettura. Il loro accento
cade in primo luogo sulla funzionalità: il rifugio è una
macchina complessa che deve funzionare in modo ef-
ficiente. Solo così può sostenersi e garantire un buon
servizio. Alla luce dell’importanza che attualmente
rivestono le problematiche relative alla gestione del-
le risorse energetiche, un accento di pari importanza
viene inoltre posto sulla necessità che gli edifici in alta
quota siano dotati di sistemi tecnologici avanzati ed
efficienti che consentano l’approvvigionamento ener-
getico attraverso l’uso di fonti rinnovabili, la creazione
di riserve d’acqua e la corretta gestione dei rifiuti.
La sintesi delle voci dei frequentatori della montagna
evidenzia il superamento di argomenti e tematiche
che riportano la discussione a una banale contrappo-
sizione dialettica tra il nuovo e l’antico. L’idea di sem-
plicità, quasi all’unanimità invocata dagli intervistati,
non viene reclamata come atteggiamento nostalgico
che mira alla conservazione di un tempo passato, ma
come condizione da perseguire per poter stabilire un
rapporto esclusivo con la straordinaria bellezza di
questi luoghi. All’architettura viene demandato l’im-
portante compito di ricercare e di rinnovare questo
requisito basilare attraverso gli strumenti della con-
temporaneità e della tecnica.
Valentina De MarchiAntropologa e regista
Francesca BogoPresidente Fondazione Architettura Belluno Dolomiti
Alessandro SacchetPresidente Ordine Architetti PPC della Provincia di Belluno
28
COME SI ADEGUANOI GESTORI E I RIFUGI
Mathieu Valletgestore del rifugio Benevolo (in rappresentanza
dell’Associazione gestori rifugi e della Società
delle guide della Valle d’Aosta)
Innanzitutto alcuni dati che riguardano i rifugi del-
la Valle d’Aosta, per caratterizzarli anche rispetto a
quelli del Trentino: Le regione conta 55 rifugi, che co-
prono le quote da 1700 a 3600 m. La fetta più grossa
è localizzata dai 2300 m in su ed esiste ancora una
buona parte di essi che conserva una connotazione
alpinistica. È necessario osservare infatti che alcuni di
essi si collocano sui grandi massicci di confine come
Monte Bianco, Monte Rosa, Cervino e Gran Paradiso
e sono da considerarsi ancora appoggio per le salite
classiche. Abbiamo poi un’ampia fetta di rifugi che si
colloca a quote più basse e risente maggiormente del-
le problematiche di apertura e snaturamento parziale
alle richieste del turismo, come in Trentino Alto Adige;
tuttavia, anche grazie alla conformazione orografica
della Valle d’Aosta, rimane forte la componente del
pernottamento. Negli ultimi anni è molto cresciuta la
richiesta di ristorazione, di turismo alla giornata, del
rifugio come meta, ma i rifugi rimangono alla sera
molto frequentati, in quanto possono contare su di-
versi percorsi, trekking e traversate (Alte vie, Tour del
Gran Paradiso, Tour del Monte Rosa, Tour del Monte
Bianco, ecc.) che collegano le varie strutture. Questa
impostazione fa trasformare il rifugio più volte lungo
l’arco della giornata. A pranzo abbiamo ad esempio
richieste più turistiche e ci specializziamo sui prodotti
tipici, sull’enogastronomia, su una maggiore flessibi-
lità delle necessità; dalle quattro di pomeriggio invece
la struttura si svuota e cambia la clientela con l’arrivo
degli escursionisti che fanno i trekking e pernottano
in rifugio e lo vivono come spazio comune di aggre-
gazione e condivisione.
Secondo statistiche Istat, i rifugi valdostani nel 2012
hanno contato oltre 154.000 presenze, di cui il 40%
estere (soprattutto francesi); un’utenza generalmente
più abituata a rifugi spartani e che spesso si stupisce
e si affascina per i comfort elargiti dai rifugi italiani.
In Valle d’Aosta, per qualificare il prodotto e per sotto-
lineare il connubio indissolubile tra edificio, territorio
e gestore, esiste (sancita da una legge regionale del
1996) la figura professionale del rifugista; per poter Rifugio Alessandro Nacamuli al Col Collon (Bionaz, Aosta, 2818 m)
Situazioni a confronto/1
29
gestire una struttura si è obbligati a iscriversi a un
albo, partecipare a un particolare corso che forma la
persona su tutti gli aspetti che possono riguardare
questo tipo di vita professionale: accoglienza, econo-
mia, gestione e conoscenza del territorio, ristorazione,
soccorso (fattore importantissimo per il presidio d’al-
ta quota), questioni costruttive, ecc. Questa prepara-
zione specifica del rifugista ha permesso negli anni di
mettere a punto una serie d’iniziative che hanno va-
lorizzato e accolto le richieste di ogni tipo di clientela:
dai certificati di qualità sull’utilizzo di prodotti tipici
valdostani, sulla qualità della gestione del rifugio, ma
anche certificazioni ambientali e normative.
Nei nostri rifugi alpinistici generalmente la clientela
rimane una notte e accetta una serie di problemati-
che intrinseche; nei rifugi di media quota, frequentati
invece da una clientela di escursionisti impegnati nei
trekking che quindi vi passano molte notti, si è assi-
stito negli anni a un progressivo miglioramento degli
standard qualitativi: ad esempio dal 2008 al 2012 i
bagni sono aumentati di 128 unità.
Le strutture si adeguano a questi cambi di necessità
della clientela attraverso le pratiche di ampliamento,
che non significa necessariamente un aumento della
capacità ricettiva, ma magari anche solo una riorga-
nizzazione degli spazi comuni per evitare pratiche or-
mai difficoltose o inaccettabili come la turnazione dei
coperti durante i pasti. Negli ultimi vent’anni le istitu-
zioni regionali hanno fortemente sostenuto la riqua-
lificazione; infatti i rifugi valdostani d’alta quota sono
sostanzialmente di un buon livello. Si verificheranno
probabilmente negli anni a venire difficoltà nel man-
tenimento di questi standard a causa degli importan-
ti tagli portati alle sovvenzioni istituzionali in questa
materia.Rifugio degli Angeli ai Laghi del Morion (Valgrisenche, Aosta, 2916 m)
Rifugio Pier Giorgio Frassati al Lac des Merdeux (Saint-Rhémy-en-Bosses, Aosta, 2542 m)
30
Anna Toffolgestrice del rifugio Velo della Madonna
La mia storia di rifugista è decisamente breve perché
sono trascorsi solo tre anni – questo è il quarto –, ma
è molto intensa e profondamente connessa alla mia
storia personale; cinque anni fa perdevo mio marito
proprio in un incidente in montagna, quindi mai e poi
mai pensavo che avrei potuto gestire un rifugio alpi-
no d’alta quota. Lancio però la sfida della gestione alla
SAT, che la accoglie in breve tempo. Così nel 2010 con
i miei figli ancora piccoli comincia la nostra esperienza
al rifugio; qualcosa di cui avevamo bisogno per stac-
care, per fare una vita diversa, che ci togliesse dal ba-
ratro dove eravamo finiti.
Il rifugio Velo della Madonna è una perla e un’eccellen-
za del territorio dolomitico, alle Pale di San Martino,
sotto l’omonimo spigolo del Velo, una via molto co-
nosciuta e importante; anche se si trova a una quo-
ta non elevatissima (2400 m), si tratta di un rifugio
prettamente alpinistico. L’utenza arriva decisamente
scremata, dal momento che l’accesso più semplice è
a oltre tre ore dal paese più vicino e il tratto finale è
comunque difficoltoso, mentre tutte le altre vie sono
ferrate. La clientela è soprattutto composta da alpi-
nisti stranieri, che solitamente sono molto meno esi-
genti degli avventori italiani: non hanno problemi con
camerata o camere singole, assenza o presenza della
doccia. Piuttosto che i comfort abitativi basilari gene-
ralmente preferiscono una connessione a internet, un
ponte che lo tenga in contatto ai suoi interessi.
Il nostro è un rifugio dalle caratteristiche spartane, a
cui la parola lusso non è assolutamente accostabile; se
c’è maltempo i rifornimenti non arrivano o basta una
nuvola per non far arrivare la gente. È vero anche però
che chi va in un rifugio isolato d’alta quota sa che quel
poco che trova è vero, domestico, originale. Tutte noi
rifugiste donne siamo poi particolarmente attente a
questo tipo di cura: siamo cuoche, donne delle pulizie,
siamo tecniche della teleferica, siamo l’anima vera.
Quando arriva un ospite deve sentire di essere arri-
vato in un rifugio; deve sentire il silenzio, l’odore; deve
percepire che lì si ferma il tempo, che non c’è bisogno
di qualcosa in più. Mi riferisco alla mia esperienza, in
un rifugio dal difficile accesso, frequentato da un’u-
tenza scelta che si accontenta di poco, ma che vuole
trovare un’anima e un’accoglienza originale; qualcosa
che si può fare solo se ami la montagna, se hai una
vera passione dentro.
Angelo Iellicigestore del rifugio La Rezila (in rappresentanza
dell’Associazione gestori rifugi del Trentino)
Gestisco un rifugio storico, di oltre 120 anni, gestito da
generazioni dalla stessa famiglia. Uno dei miei pen-
sieri ricorrenti – una cosa molto sentita da noi rifugisti
– è riuscire un giorno a poter dire ai miei figli di andare
avanti con questa attività, perché ti dà la possibilità di
vivere. Abbiamo a cuore che anche questi ricordi sto-
rici possano essere perpetuati, cosa che a oggi o nel
futuro non appare assolutamente facile. Anche es-
sendo un culture della “ortodossia” del rifugio – il mio
ha solo arredi storici, quadri d’epoca – sento ormai il
bisogno dell’apertura: apertura a Facebook, a variare
Rifugio Velo della Madonna alle Pale di San Martino(San Martino di Castrozza, Trento, 2358 m)
31
i piatti, a dare la possibilità di scelta, a eliminare il ca-
merone con i letti, e tante altre cose ancora.
La tecnologia vuol dire anche solo in quelle quattro ore
di servizio al giorno essere veloci, organizzati; avere il
computer per sveltire. All’inizio mi piaceva l’idea del
ristoratore che arriva al tavolo con la matita e il foglio,
un modo un po’ arcaico e romantico, che però non è
più percorribile. La tecnologia è ormai indispensabile
anche per migliorare la qualità del servizio; ad esem-
pio al posto di farmi correre per la sala, il giardino e la
cucina, posso rimanere con il mio ospite parlandoci e
stando insieme, ed è una ricchezza.
Per colui che arriva in quota e vince una sua piccola
sfida è importante avere un dialogo con il rifugista.
Il rifugista è infatti un tuttologo che deve sapere fare
tutto; e il tempo non lo ha, a fine giornata è davvero
stremato e se la tecnologia lo aiuta ad avere più risor-
se, ciò è un bene assoluto.
Noi gente di montagna siamo stati efficaci e organiz-
zati nella trasmissione di un messaggio: aria buona,
acqua pulita, purezza del paesaggio e del panorama,
solitudine e filosofia. Sono sempre stato un cultore di
questi valori ma oggi mi accorgo che per certi versi
stiamo esagerando.
Chi non cambia idea non ha idee: il risultato è stato
infatti la comunicazione di una montagna un po’ cupa,
malinconica, non allegra, noiosa, bacchettona; questo
è qualcosa che va sfatato.
Stiamo avvertendo che i giovani – anche giustamente
– non vengono da noi, nemmeno quelli del posto; è
necessario sconvolgere un po’, reinventare; è una cosa
di estrema importanza. Gran parte dei frequentatori
della montagna di oggi è in età avanzata, ma la gran
parte è composta da chi veniva con le colonie, chi ve-
niva a fare il militare, con i gruppi o con la famiglia,
gente che ha voglia di ritornare.
L’immagine stucchevole della montagna di oggi è
molto diversa da quella che veniva trasmessa in pas-
sato – io sono un collezionista, non dovete frainten-
dermi. Esistono poster pubblicitari di montagna degli
anni Quaranta e Cinquanta sui quali è rappresentata
un’immagine sensuale e attrattiva che oggi non ab-
biamo; il mondo gira attorno al bello e non è solo il
bello della natura, l’acqua e le rocce, ma il bello delle
persone, le donne in particolare.
È dunque necessario cambiare, aprirsi a richieste
nuove, al bello, alla tecnologia, superare le chiusure
locali.
Rifugio La Rezila all’Alpe di Lusia (Moena, Trento, 1800 m)
32
VERSO IL RIFUGIO DI DOMANI:POLITICHE E STRATEGIE TRA ITALIA, FRANCIA, SVIZZERA, AUSTRIASamuele Manzottipresidente Commissione centrale rifugi e opere
alpine del CAI
Ascoltando gli interventi che mi hanno preceduto, ho
constatato che le problematiche dei rifugi sono “inter-
nazionali”. Il futuro della Commissione rifugi del CAI è
cominciato circa un anno fa, quando è stato approvato
il nuovo Regolamento rifugi in sostituzione del prece-
dente, vecchio di una ventina d’anni (la prima edizione
risale al 1992, aggiornata poi nel 1997). Il vecchio re-
golamento necessitava di un aggiornamento, condi-
zionato da tutte le problematiche che abbiamo sentito
sinora, anche per dare un nuovo indirizzo alla politica
del CAI per i prossimi anni.
Il nuovo indirizzo scaturisce da due parole inserite nel
nuovo testo. Così recita l’articolo 1 (Finalità – Defini-
zioni – Identificazione): “[...] in relazione alle specifiche
caratteristiche costruttive e funzionali connesse alla
funzionalità alpinistica, escursionistica, naturalistica
e di presidio al territorio”. Caro al nostro past presi-
dent Annibale Salsa, compare il concetto di “presidio
del territorio”, già implicito nelle direttive del vecchio
regolamento ma ora espresso in modo più preciso ed
evidente. Ciò comprende una vastità d’intendimenti
ed attività, ma certamente codifica meglio l’orienta-
mento della nostra Commissione per i prossimi anni.
Il CAI da anni conduce la politica della non costruzione
di nuove strutture a vantaggio della ristrutturazione,
adeguamento e manutenzione di quelle esistenti, poi-
Situazioni a confronto/2
Rifugio Piero Garelli al Pian del Lupo (Chiusa Pesio, Cuneo, 1970 m)
33
ché ritiene che il fabbisogno ricettivo sull’arco alpino,
considerando anche la presenza di strutture private,
sia più che sufficiente. Essendo inoltre molto limitata
la potenzialità finanziaria delle singole sezioni, sareb-
be quindi impensabile affrontare progetti di nuove
costruzioni. Tutti gli sforzi sono indirizzati al manteni-
mento tecnico-strutturale, migliorando la funzionalità
ricettiva dettata dalle nuove esigenze dei fruitori, ma
soprattutto tendono a ridurre al massimo “l’offesa”
al territorio circostante, con nuovi impianti di produ-
zione di energie alternative e di depurazione di reflui.
Un esempio di miglioramento della ricettività è stato
quello di promuovere la cameretta a quattro posti, in-
contrando le esigenze delle famiglie con bambini, al
fine di fornire un minimo di privacy, impossibile da
trovare nei grandi cameroni tipici dei rifugi tradizio-
nali. Naturalmente queste trasformazioni comporta-
no non poche difficoltà finanziarie da parte delle se-
zioni proprietarie dei rifugi.
Un altro problema affrontato, anche se sembra mar-
ginale, è la presenza di animali nei rifugi, come ha
accennato nel precedente intervento Luca Calzolari.
Nel vecchio regolamento si proibiva in modo cate-
gorico l’accesso di animali, in modo particolare i cani.
Una decina di anni fa ebbi occasione di rispondere
sulla stampa sociale a una lettera di un socio circa
l’argomento. Il divieto di accesso di animali nei rifugi,
come in molti esercizi pubblici, è dettato da diverse
problematiche, non ultime le normative igienico sa-
nitarie. La tipologia logistica dei rifugi è molto ampia:
c’è il rifugio grande con ingresso disimpegnato dalla
zona bar/pranzo e quelli piccoli dove si entra diretta-
mente nella zona soggiorno /pranzo. Già allora veni-
va suggerito di avere un poco di buon senso da parte
del gestore e del proprietario dell’animale e trovare
quindi degli accomodamenti che andassero bene ad
entrambe le parti. Ultimamente, nell’aggiornamento
del regolamento, abbiamo dato la possibilità di acco-
glimento di animali secondo disposizioni concordate
tra la sezione proprietaria e il gestore. Resta comun-
que il divieto assoluto di accesso agli animali nei locali
adibiti al pernottamento. La grande differenza tipo-
logica e logistica delle strutture alpine non permette
di generalizzare l’accesso di animali. Il problema più
grosso è l’eventuale pernottamento degli animali. Ci
vorrebbero degli spazi specifici, cosa spesso impos-
sibile. Liberalizzare l’accesso significherebbe avere, in
casi particolari, la presenza di razze diverse con pos-
sibilità di conflitti tra animali, specialmente durante le
ore notturne, se non separati.
Una nuova problematica che la Commissione deve
affrontare in questi ultimi tempi, come è già sta-
to più volte accennato anche in questo simposio, è
la difficoltà di gestire le numerose direttive relative
alle strutture ricettive in quota, emanate dalle varie
Regioni. Attualmente ogni Regione ha emanato nor-
mative e leggi, inerenti a specifiche igienico sanitarie,
regolamentazione, corsi per gestori, elenchi rifugi ri-
conosciuti, erogazione contributi pubblici, presenza
di associazioni di rifugisti. Tali situazioni variano da
Regione a Regione, e la Commissione centrale trova
non poche difficoltà a gestirle. Alla luce di ciò la Com-
missione centrale demanderà alle Commissioni regio-
nali un attento esame delle leggi e normative locali. Da
qui nasce un nuovo ruolo delle Commissioni regionali:
non più “periferiche” ma elemento portante della rifu-
gistica regionale e complessivamente nazionale.
Un esempio emblematico riguarda la domanda che
spesso mi si rivolge in merito ai requisiti per fare il
gestore di un rifugio. La mia risposta è ormai codifi-
cata. 1) Passione per la montagna: motivazione che
non ha necessità di commenti. 2) Spirito di sacrificio:
anche se in generale l’attività si svolge nell’arco di po-
Rifugio Quintino Sella al Monviso (Crissolo, Cuneo, 2640 m)
34
chi mesi, la vita in quota, in completo isolamento nella
maggior parte dei giorni di apertura del rifugio, richie-
de buona stabilità psicologica. 3) Buona salute: l’atti-
vità si svolge prevalentemente a quote anche elevate;
bandite ipertensione e patologie cardiache. L’attività e
la conduzione (spesso faticosa) del rifugio riguardano
persone giovani e robuste. Le richieste del CAI sono
di preferenza per guide alpine o persone di prova-
ta competenza alpinistica, residenti in aree montane
con conoscenza della zona territorialmente interes-
sata dal rifugio. Le richieste burocratiche riguardano
invece il possesso dei requisiti previsti dalle leggi e
regolamenti vigenti, anche locali (permessi sanitari,
ecc.) per attività commerciali e di ristorazione. At-
tualmente alcune Regioni, sulla base di proprie leggi
specifiche sui rifugi, richiedono particolari caratteri-
stiche ai potenziali gestori. La Regione Piemonte, per
esempio, organizza corsi per gestori da inserire in un
proprio albo professionale. Ogni regione ha specifici
regolamenti. È quindi consigliabile informarsi presso
gli uffici competenti dove si vorrà svolgere l’attività
per meglio conoscere quali “titoli ed esami” si dovran-
no affrontare. Spesso le sezioni proprietarie dei rifugi,
in caso di ricerca di un nuovo gestore, emanano rego-
lari bandi di concorso pubblicati sulla stampa locale o
anche su quella sociale CAI. Nel bando, solitamente,
vengono elencate tutte le caratteristiche personali ri-
chieste per poter partecipare alla gara.
Infine, sollecitato anche da alcune argomentazioni
sollevate dall’interessante film “Il lusso della monta-
gna” proiettato poc’anzi, iper quanto concerne la si-
curezza nei rifugi desidero comunicare che il CAI è in
contatto col Ministero degli Interni, in particolare con
l’Istituto superiore antincendio (ISA) per aggiornare
le normative del D.M. 9-4-94. Scopo della revisione
del decreto, al di là dell’aggiornamento delle normati-
ve alle nuove realtà logistiche, è soprattutto quello di
semplificare le norme e renderle di più facile lettura.
Jean Mazas Federazione francese dei club alpini di montagna
La FFCAM è un’associazione polisportiva di 84.000
membri che riunisce 380 club di sport di montagna:
alpinismo, scalata, escursionismo alpino, mountain
bike, speleologia, torrentismo, parapendio, cascata
di ghiaccio, scialpinismo, sci alpino e sci nordico, rac-
chette da neve. La FFCAM è anche molto impegnata
sul versante della difesa ambientale e opera secondo
i valori dello sviluppo sostenibile delle alte valli, che
applica nella gestione dei 127 rifugi e chalet delle Alpi,
del Massiccio del Giura e dei Pirenei, 8 dei quali sono
destinati alla formazione.
I bivacchi dei pionieri dell’alpinismo sono stati sosti-
tuti a partire dall’inizio del XX secolo da rifugi modesti
in legno, costruiti con materiali facilmente trasporta-
bili a spalle o con l’ausilio di un mulo. In seguito, negli
anni Cinquanta, il Club alpino francese (CAF, poi con-
fluito nel FFCAM) ha costruito nuovi rifugi, in genere
in pietra e cemento, in grado di accogliere un numero
maggiore di alpinisti che talvolta superava il centina-
io. Si possono vedere ancora oggi rifugi di questo tipo
come l’Albert 1er, il Couvercle nel massiccio del Monte
Bianco, o la Pilatte nel massiccio dell’Oisans. Si trat-
tava di tappe obbligate per raggiungere le alte vette,
manufatti spesso situati al fondo dei sentieri e alle
porte dell’alta montagna. Le comodità in questi edifici
erano ridotte e la promiscuità nella sala comune e nei
dormitori contribuiva se non altro a facilitarne il “ri-
scaldamento”. A questi rifugi si aggiungono una cin-
Rifugio Marinelli Bombardieri al Bernina (Lanzada, Sondrio, 2813 m)Foto ClickAlps
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quantina di chalet, situati nei massicci prealpini, che
servivano come base per le attività dei club del CAF,
soprattutto in inverno.
All’inizio degli anni duemila ci si è resi conto che le
pratiche, le esigenze di comodità, le norme di sicurez-
za e igiene da un lato, e il progresso tecnologico (in
particolare per quanto riguarda l’autonomia energe-
tica) dall’altro, rendevano l’insieme dei rifugi ormai
obsoleto. Era necessario un enorme lavoro di rinno-
vamento. Fu quindi eseguita una diagnosi puramente
tecnica per una sessantina di edifici e fu avviato un
progetto ambizioso di ristrutturazione con il sostegno
degli enti territoriali, dai Comuni alle Regioni, dallo
Stato all’Unione europea. Fino a oggi sono stati realiz-
zati circa trenta rifugi di cui l’ultimo è il nuovo Goûter.
Per i prossimi cinque anni e fino al 2016, saremo im-
pegnati in otto progetti che sono in corso d’opera o
in fase di studio. Rimarranno ancora una decina di
edifici con dei problemi da risolvere. Dovremo quindi
promuovere delle indagini sull’intero patrimonio dei
nostri rifugi prendendo in considerazione anche gli
aspetti socioeconomici, la nuova tipologia di pubbli-
co, le nuove pratiche e le politiche dei comuni e delle
regioni. Questo ci porterà inoltre a rimettere in discus-
sione il futuro di alcuni dei nostri rifugi.
Contrariamente al passato, la programmazione dei
nostri progetti si avvale dell’appoggio e della collabo-
razione degli attori locali: il club alpino locale, senza
dubbio, ma anche i Comuni, gli uffici del turismo, le
compagnie delle guide, i parchi nazionali, le orga-
nizzazioni di soccorso alpino (PGHM) e, ovviamente,
i gestori dei rifugi. Anche gli enti territoriali vengo-
no interpellati e coinvolti al fine di trovare un punto
d’incontro con le politiche turistiche regionali. Questa
collaborazione avviene grazie al ricorso a comitati di
pilotaggio e inizia già dall’avvio della programmazio-
ne per proseguire ben oltre il termine dei lavori. Ciò
è già avvenuto per il rifugio del Goûter e ha permes-
so di migliorarne diversi aspetti come il controllo e la
sicurezza dell’edificio, la gestione delle prenotazioni
(oggi on line), e infine il suo accesso (messa in sicu-
rezza della traversata del canalone sotto l’Aiguille du
Goûter).
La prima domanda che ci poniamo quando valutia-
mo la ristrutturazione di un rifugio è: per chi lo stiamo
facendo? Originariamente la maggior parte dei rifugi
era pensata per gli alpinisti. Oggi costoro sono diven-
tati la porzione più piccola dell’utenza di un rifugio,
anche di quelli d’alta quota. Dobbiamo dunque pen-
sare a una nuova clientela costituita in inverno da co-
loro che praticano lo sci escursionismo e le racchette
da neve mentre in estate si tratta per lo più di amanti
dell’escursionismo itinerante o delle gite in giornata.
Ci sono coloro per cui il rifugio è il fine stesso dell’e-
I tre rifugi del Col de la Vanoise (Pragnolan-la-Vanoise, Francia, 2515 m): a sinistra il rifugio Félix Faure del 1902; a destra quello del 1972; al centro quello in ultimazione nel 2014
36
scursione, i contemplativi, gli amanti del turismo eno-
gastronomico, le famiglie con bambini. Per i giovani,
il rifugio è da considerarsi anche uno strumento pe-
dagogico per la formazione e la scoperta della mon-
tagna, senza dimenticare infine le esigenze legate alle
persone diversamente abili.
L’altra domanda da porsi è: perché ristrutturare? Le
risposte a questa domanda sono molteplici: perché il
rifugio è diventato troppo piccolo e mal si adatta alle
esigenze della nuova utenza al fine di offrire maggiori
comodità (ma senza per questo trasformare il rifu-
gio in un hotel d’alta quota); perché vi è la necessità
di mettere a norma l’edificio in termini di sicurezza e
igiene; per garantirne l’autonomia energetica nel ri-
spetto dell’ambiente.
È però fondamentale che, grazie soprattutto all’aiuto
e all’esperienza dei gestori, i rifugi conservino la loro
anima, in poche parole che restino “rustici” e convi-
viali.
Philippe de KalbermattenCommissione centrale rifugi Club alpino svizzero
La CCC (Commission centrale des cabanes) fa parte
dell’associazione centrale del CAS ed è formata da15
membri volontari, tutti professionisti legati al CAS.
La CCC è co-presieduta attualmente da due persone:
architetti e ingegneri che si occupano di questioni tec-
niche come la gestione dell’acqua, del territorio, delle
energie rinnovabili, ecc. In Svizzera la maggior parte
delle capanne appartiene alle sezioni del CAS, le quali
si occupano della gestione e manutenzione, nonché
del finanziamento degli interventi. Io stesso sono
membro ordinario, e nella sezione Monte Rosa sono
il responsabile dei rifugi. La CCC si occupa anche della
ripartizione fondi secondo un complicato principio di
perequazione finanziaria che permette alle sezioni di
costruire e ampliare le strutture. I finanziamenti sono
assegnati sulla base degli introiti che le singole sezio-
ni riescono a garantire al CAS.
Il lavoro della CCC è quello di controllare e di verifica-
re tutti i progetti di nuova costruzione – sempre più
rari -, di ampliamento e trasformazione. Si forniscono
consulenze alle sezioni in merito alle nuove esigen-
ze a seconda della tipologia di lavori da svolgere. Si
controlla la conformità di tutti i progetti e si verifica
il rispetto delle linee guida del CAS. Stiamo ora lavo-
rando alla redazione di nuove linee guida per i rifugi,
per cercare di definire meglio le tipologie e le catego-
rie di rifugio. Si lavora inoltre per mettere in piedi un
efficiente sistema di gestione delle prenotazioni at-
traverso internet. La prenotazione è diventata infatti
obbligatoria: se non si riserva il posto letto si rischia
di dormire fuori. Ciò per garantire il funzionamento
ottimale del rifugio. La linea dunque che si persegue
è quella di far combaciare i posti letto con i posti per
la ristorazione, in modo da evitare affollamenti e un
carico eccessivo sulla struttura e sul territorio.
Il primo rifugio del Club alpino svizzero, costruito nel primo anno di fondazione del sodalizio, il 1863: la Grünhornhütte in Canton Glarona (2448 m); oggi il ricovero è conservato come museo di se stesso
37
Altra iniziativa è di attivare un corso per rifugisti, in
quanto riteniamo importante migliorare l’accoglienza
e la qualità del servizio. Non si tratta tanto di fare dei
corsi per piccoli ristoratori e di ampliare il servizio con
carte e menù diversi quanto, mantenendo l’idea del
menu unico, aumentare il livello di qualità della cu-
cina e del servizio, impartendo inoltre quelle nozioni
di base che dovrebbe possedere un rifugista: fornire
informazioni per la sicurezza e la migliore conoscenza
della montagna.
Altro tema importante riguarda la riqualificazione de-
gli accessi alle strutture. Si pensi ai problemi connessi
con il riscaldamento climatico: alcuni accessi sono di-
ventati impraticabili per il ritiro dei ghiacciaio: si pensi
ad esempio ai 18 metri di spessore persi sotto la Mon-
te Rosa Hutte. In tal caso si è dovuto ricorrere all’in-
stallazione di scale e passerelle. Ciò comporta dunque
ingenti costi per la manutenzione e l’allestimento dei
percorsi.
In conclusione, le politiche della CCC perseguono l’o-
biettivo di non trasformare i rifugi in piccoli ristoranti
o in hotel ma, pur adattandosi alla nuova domanda e
alla nuova clientela, si desidera mantenere l’idea di ri-
fugio alpino con dormitori e menu fisso.
Helmut Ohnmachtvicepresidente Österreichischen Alpenvereins
Rappresento in veste ufficiale l’ÖAV, con i suoi 238 ri-
fugi, 195 sezioni (proprietarie di rifugi), circa 26.000
km di sentieri montani e 450.000 membri; tuttavia, in
modo ufficioso, il contenuto del mio intervento odier-
no riguarda anche il DAV, Associazione alpinistica
tedesca, con un milione di associati, e l’AVS, Associa-
zione alpinistica dell’Alto Adige, in totale quindi circa
1.500.000 associati, 570 rifugi e 40.000 km di sen-
tieri; con loro esiste una costante collaborazione su
ogni livello, mentre buoni rapporti intercorrono anche
con il CAS, Club alpino svizzero.
Quando parlo di rifugi mi riferisco a quelli della ca-
tegoria I (che sono la maggior parte), raggiungibili in
un’ora di camminata e che offrono ricovero all’alpini-
sta. Il nostro problema principale, oggi e domani, è un
problema di tipo finanziario, i volumi d’investimento
(nel 2013 dall’ÖAV 11 milioni, con sussidi alle sezioni
per 2,5 milioni e sovvenzioni per 1,8 milioni) diminu-
iscono costantemente; sempre più rifugi (che spesso
superano i cent’anni) vengono venduti, le spese di ri-
sanamento invece crescono, le questioni burocratiche
riguardanti protezione antincendio, acqua potabile,
impianti di depurazione, e non ultima la fornitura elet-
trica, implicano sempre maggiori spese e sono sem-
pre meno finanziabili.
Ne derivano ripercussioni su eventuali nuove costru-
zioni e sul mantenimento di quelle esistenti. A questo
proposito, oggi, e ancora di più in futuro, devono es-
sere prese misure di tipo ancora più professionale ri-
guardo al finanziamento, alla progettazione architet-
tonica, alla logistica e alla realizzazione dell’edificio.
La progettazione deve partire dalla funzione e deve
mirare a raggiungere una sorta di simbiosi con l’am-
Oberwalderhütte negli Alti Tauri (Austria, 2973 m). Foto OeAV
Seethalerhütte in Dachstein (Austria, 2740 m). Foto OeAV
38
biente alpino, senza tenere conto dei cliché in voga.
Ecco quindi la nostra richiesta, condivisa anche dai
finanziatori: i rifugi siano semplici, ma con uno stan-
dard di livello superiore al passato, laddove sia neces-
sario e fattibile. Niente rifugi high tech, case passive la
cui cura richieda troppo ai gestori stessi. Per esempio,
nei rifugi con scarsità d’acqua ed elettricità, chiedia-
mo docce solo se possibili e sostenibili; locali più pic-
coli e meno numerosi; miglioramento degli impianti
sanitari. Questi sono i nostri desideri.
Occorre rafforzare il significato originario del rifugio
come ricovero per alpinisti, scalatori ed escursionisti,
non vogliamo rifugi di lusso per ospiti di passaggio
che vi arrivano con la funivia, l’auto o il taxi; l’ambien-
te alpino deve essere protetto, altrimenti rischiamo
che gli alpinisti, per i quali e dai quali i rifugi sono stati
costruiti, ci passino davanti evitandoli. Non dimenti-
chiamo gli antichi valori e apportiamo cambiamenti
solo dove essi siano ragionevoli e fattibili. L’esperien-
za alpina che viviamo sui sentieri, che sono più im-
portanti dei rifugi, deve poter essere provata anche in
un rifugio dall’ambiente adeguato.
Romano StanchinaConferenza provinciale trentina per le strutture
alpinistiche
Quale dirigente del Servizio Turismo della Provincia au-
tonoma di Trento, che coordina tutte le politiche pubbli-
che di settore, mi occupo anche della Conferenza provin-
ciale delle strutture alpinistiche; non sono uno specialista
dei rifugi, a differenza di quelli che hanno parlato prima
di me. È stato estremamente interessante sentire questa
carrellata sulle problematiche dei rifugi nell’arco alpino;
questo ci fa pensare come, nonostante le differenze degli
ordinamenti e delle organizzazioni locali, alla fine i pro-
blemi siano comuni.
Abbiamo tante differenze di ordinamento, come ha
detto il presidente della Commissione rifugi del CAI.
Ne abbiamo tante in Italia ma in particolare noi, in una
provincia autonoma con competenze esclusive molto
vaste, per cui da diversi anni abbiamo strumenti nor-
mativi e d’intervento nel settore che hanno consentito
di realizzare politiche di sostegno agli investimenti e,
in generale, all’ordinato sviluppo delle strutture al-
pinistiche sul nostro territorio. In particolare, la Pro-
vincia autonoma di Trento è dotata di una norma di
settore che è la L.P. 8/93, che è una legge che possia-
mo dire “di definizioni” e “di intervento finanziario”. Le
definizioni sono riprese da quelle nazionali, ma sono
importanti perché consentono anche di organizzare i
pensieri, dopo aver sentito tutte queste relazioni.
Che cos’è il rifugio alpino? Per la nostra legge i rifugi
alpini sono “strutture ricettive che assicurano presi-
dio di sobria ospitalità in zone di montagna non rag-
giungibili da strade aperte al traffico ordinario. […].
La provincia sostiene i rifugi alpini nei limiti e con la
validità stabiliti dalla Giunta provinciale, garantendo
la fornitura di servizi per la comunicazione, il rifor-
nimento con elicottero e altri servizi generali definiti
dalla Giunta provinciale”. Quindi lo stesso articolo di
legge indica quali strumenti generali e per quali ragio-
ni debbano esistere.
Un altro articolo della legge individua e riconosce
a tutte le strutture alpinistiche l’interesse pubblico
(quindi non solo ai rifugi ma anche ai sentieri, alle vie
ferrate, ai tracciati alpini in generale). Questo concetto
è molto importante perché consente di usare le leve
pubbliche in modo molto esteso rispetto ad altri com-
parti dell’economia. La nostra legge dà quindi queste
definizioni, prevede degli strumenti d’intervento ma
si pone anche il problema dell’orientamento delle po-
litiche. Qualche anno fa essa è stata infatti modificata
con l’introduzione della Conferenza per le strutture
alpinistiche. Si tratta di un organismo consultivo della
Provincia; in particolare, secondo la nostra legge, “è
costituita per orientare il corretto sviluppo delle strut-
ture alpinistiche e l’utilizzo della montagna; è nomi-
nata con deliberazione della Giunta provinciale che
ne stabilisce la sua composizione, prevedendo la par-
tecipazione di rappresentanti della SAT, del Collegio
provinciale delle Guide alpine, dell’Associazione dei
gestori dei rifugi e degli enti di promozione turistica”.
Alla Conferenza partecipa sempre anche Accademia
della Montagna, Fondazione che è nata solo successi-
vamente a questa modifica normativa.
39
Tutta questa introduzione serve per sviluppare tale
ragionamento: dato un quadro normativo e grandi
spazi di autonomia anche nell’uso delle leve pubbliche
come quelli che ha la Provincia autonoma di Trento,
quali politiche realizzare per questo settore?
Chi come noi si occupa di politica economica è abitua-
to a guardare al mercato: negli altri comparti di que-
sto articolato settore, come ad esempio la ricettività
alberghiera, extralberghiera, le piste da sci, impian-
ti a fune, le professioni turistiche, quel che ci viene
chiesto anche in qualità di tecnici è di supportare le
decisioni politiche attraverso un’attenta analisi delle
tendenze del mercato, da mettere in relazione, natu-
ralmente, con le potenzialità che il nostro territorio ha
sui diversi fronti. Perciò la buona politica economica
di solito è quella che garantisce un adeguato incontro
tra potenzialità del settore e del territorio ed esigenze
del mercato.
Nel campo del turismo, rispetto ad altri settori, sap-
piamo che sarebbe opportuno tentare di orientare
tale mercato. Nell’ambito delle politiche per il settore
alpinistico (e per i rifugi in particolare), ci troviamo di
fronte a qualche dubbio: il mercato ci dà dei segna-
li, ma tutti quanti ci stiamo chiedendo se sia corretto
ascoltarli tutti, reagire di fronte a tutti, dare una rispo-
sta a tutti. Credo che la risposta giusta non sia ascol-
tarli tutti. Credo che prevalentemente i club alpini dei
vari paesi siano attenti a quel che dice il mercato, ma
che non siano del tutto disposti ad accettare ogni in-
dicazione o richiesta. Questo è il grande dibattito che
abbiamo nel nostro settore. La stessa Conferenza
provinciale per le strutture alpinistiche si trova spes-
so a discutere di temi di questo genere: quali orienta-
menti dare alle politiche, perché il mercato ci chiede
di andare velocemente in una direzione, mentre altre
considerazioni di politiche ambientali o legate alla
tradizione ci dicono invece di fare attenzione, perché
la montagna va fruita in un certo modo, perché l’alpi-
nismo non è un’attività solo economica, ma possiede
anche un’importante valenza sociologica. Credo sia
questo il tema centrale di un simile convegno, visto in
tal caso sotto il profilo dei rifugi come struttura.
Per riallacciarmi alle bellissime citazioni che sono
state fatte, relativamente ai concetti di tradizione e
innovazione, è come se facessimo fatica nelle politi-
che pubbliche a inquadrare quel “fuoco” di cui parlava
Annibale Salsa nella citazione di Gustav Mahler (che
diceva che “la tradizione è la salvaguardia del fuoco,
non l’adorazione della cenere”). A noi toccherebbe,
come policy maker, andare a vedere dentro quel fuo-
co, per rispondere a quella parte di esigenze che non è
prettamente di mercato. È questa la grande difficoltà:
capire cosa c’è dentro quel fuoco: cosa possiamo fare,
come orientare queste politiche? Questa è un’occa-
sione di confronto fondamentale da questo punto di
vista.
Aspetto esemplificativo è quello del concetto di “so-
bria ospitalità”, che c’è nella definizione di rifugio della
nostra legge. Questo è stato tradotto nel regolamento
di esecuzione della legge in tre parametri: non più di
dieci metri cubi di aria per persona nelle camere dei
rifugi (di solito nel caso di alberghi o altre strutture ri-
cettive si dice “non meno di…”); almeno il 50% dei posti
letto dei rifugi siano collocati in stanze con almeno 4
posti letto; non è possibile nei rifugi alpini avere ca-
mere con bagno. La “sobria ospitalità” è un concetto
su cui c’interroghiamo continuamente, anche perché,
se è giusto mantenerlo, la domanda continua a essere
“qual è la sobria ospitalità?”
Altri esempi di domande che ci poniamo, sulle politi-
che da attuare, possono venire dall’attività della no-Rifugio Pradidali alle Pale di San Martino (Primiero, Trento, 2278 m)
40
stra Conferenza per le strutture alpinistiche, che ha
affrontato tanti argomenti nei suoi cinque anni di vita.
In particolare, si è occupata degli orientamenti da dare
alla Giunta rispetto alla possibilità di riconoscere nuo-
vi rifugi alpini in Trentino (dove sappiamo essercene
già tanti). Le amministrazioni comunali si rivolgono
alla Giunta provinciale per richiedere un finanzia-
mento per la ristrutturazione, o talvolta per realizzare
ex novo un rifugio alpino. Finora la risposta è quasi
sempre stata negativa. Ad esempio, la Conferenza ha
fornito questi orientamenti: la nuova struttura non
dev’essere comunque raggiunta da strade, anche
chiuse al traffico; la nuova struttura deve distare al-
meno venti minuti dal rifugio o bivacco più vicino.
La Conferenza si è poi espressa sulla distinzione tra
rifugi “alpini” ed “escursionistici”, sulle classi di appar-
tenenza dei rifugi (in particolare per cercare di dare
un’agevolazione di classe a quelli che aprono anche
d’inverno), su un tema molto importante come quel-
lo delle teleferiche, prevedendo che a fronte della ri-
chiesta da parte dei proprietari del singolo rifugio di
realizzare una teleferica, questa domanda sia portata
davanti alla Conferenza che valuti caso per caso, per
dare un’indicazione, un parere obbligatorio, sebbene
non vincolante; ci si è espressi anche sui parametri
da considerare per effettuare queste valutazioni. Si
è espressa anche su un tema che mi ha fatto piacere
sentire citato precedentemente anche dal Club alpi-
no svizzero, in relazione all’opportunità di attrezzare
tratti di sentieri che raggiungono rifugi, per consen-
tire il collegamento tra rifugi o consentire l’accesso a
vette, in conseguenza del ritiro dei ghiacciai.
La testimonianza che posso portare io, come respon-
sabile di politiche economiche, è che è importante
avere un organo di supporto aperto alle principali voci
del settore, sia ai club alpini, sia ai gestori dei rifugi,
tenendo conto anche della posizione del mercato turi-
stico e degli enti di promozione turistica.
Capanna Punta Penia alla Marmolada (Canazei, Trento, 3343 m)
Rifugio Passo Principe al Catinaccio d’Antermoia(Pozza di Fassa, Trento, 2601 m)
Rifugio ai Caduti dell’Adamello alla Lobbia Alta (Spiazzo, Trento, 3040 m)
41
L’attività di gestione di un rifugio alpino si articola in
vari processi, indipendenti o collegati fra loro con mo-
dalità variabili, che contribuiscono all’erogazione di
un servizio il cui livello qualitativo mira a incontrare i
desideri degli ospiti.
Trasporto dei materiali, produzione di energia elet-
trica e termica, captazione di risorse idriche e pota-
bilizzazione, somministrazione di alimenti e bevan-
de, fornitura di servizi igienici, pulizia dei locali sono
processi da cui originano flussi di materia ed energia,
combinati e trasformati da conoscenza, impianti e at-
trezzature. Dai processi derivano anche impatti am-
bientali (suolo, aria, acqua, ecc...).
Il rifugio e le dotazioni tecnico-impiantistiche sareb-
bero elementi indipendenti di un insieme se non vi
fossero gli ospiti e il gestore, ovvero coloro che giun-
gono in un luogo con delle attese, espresse o sottin-
tese, e imprenditori che lavorano al meglio in quel
luogo per offrire i servizi che la clientela si aspetta.
Allora l’insieme diventa sistema, in grado di erogare
un servizio di accoglienza turistica, generare reddito
e quindi sviluppo, assorbendo e trasformando risor-
se. I casi esaminati nel corso degli anni hanno messo
in evidenza come l’ottimizzazione del rapporto uo-
mo-montagna abbia introdotto nell’operatività del
gestore condotte volte a ottimizzare l’uso di risorse
e materiali ben prima che le leggi imponessero tali
comportamenti.
La gestione di un rifugio ha l’obiettivo d’individuare,
controllare e migliorare nel tempo gli aspetti ambienta-
li, a partire dal rispetto dei vincoli ambientali, sociali ed
economici. Per far questo si articola in tre livelli: tecnico,
normativo e organizzativo, sistemicamente connessi.
Le prescrizioni normative riguardano tutti i processi
sopra elencati. Incidono, dunque, sull’attività di ge-
stione di un rifugio alpino, determinando la necessità
di governare attentamente le trasformazioni. Talvolta
è difficile rispettare le norme poiché non sempre sono
IL QUADRO NORMATIVOIN RAPPORTO AI PROBLEMI DELLA GESTIONE AMBIENTALE
Rifugio Myriam in Val Vannino (Formazza, Verbano Cusio Ossola, 2050 m)
42
formulate considerando i vincoli posti dall’ambiente
montano. Possiamo ritenere le norme come il raccor-
do tra l’attività di gestione di un rifugio e il grado di
sensibilità alle tematiche ambientali e sociali (inclu-
se igiene degli alimenti, salute e sicurezza sul luogo
di lavoro, ecc...) espresso da un contesto “medio”. Le
norme stabiliscono i termini (qualitativi e quantitati-
vi) entro i quali il rifugio deve dialogare con l’ambiente
circostante e i “meccanismi” amministrativi (autoriz-
zazioni) cui sono soggette le relazioni con l’ambiente.
Come Università di Torino, tra il 1997 e il 2013 abbia-
mo avuto modo d’ideare e attuare progetti che hanno
coinvolto un centinaio di rifugi alpini, principalmente
tra Valle d’Aosta e Piemonte (vedi allegato).
Sono emerse difficoltà d’individuazione e applicazio-
ne di un panorama articolato di norme nazionali che
derivano da adozioni di disposizioni comunitarie e
norme regionali le quali, in linea di principio, sono vol-
te ad adattare le disposizioni generali alle peculiarità
dei territori.
Le ricerche, condotte per caratterizzare il rapporto tra
modalità gestionali e aspetti ambientali al fine di pro-
gettare efficaci sistemi di gestione, si sono occupate
in primo luogo di costituire una base di conoscenza
completa e di formalizzare modalità operative per ag-
giornarla nel tempo1.
Definire il quadro normativo significa costruire cer-
tezze per il gestore, in relazione agli adempimenti e
alle tecnologie per il trattamento degli aspetti am-
bientali. Recentemente, nella redazione di un quadro
normativo aggiornato, da introdurre in un nuovo si-
stema di qualificazione dell’offerta turistica2, abbiamo
quantificato in circa 60 gli adempimenti la cui osser-
vanza può toccare i rifugi, in vario modo in relazione al
contesto. Tuttavia, più che il numero in sé, è l’ordine di
grandezza che esprime il “peso” del quadro normativo
per i gestori. Se le norme coinvolgono, praticamente
identiche, tutti i rifugi, non è detto che esse siano ef-
ficaci ed efficienti allo stesso livello in ogni situazione.
Pur immaginando omogenea la volontà dei gestori dei
rifugi e orientata ad adempiere alle norme, le realtà in-
dividuali sollevano quesiti in merito all’appropriatez-
za delle disposizioni ovvero pertinenza e applicabilità
del dispositivo alla realtà rifugistica e in relazione al
rapporto costi-benefici, economici e ambientali.
Le trasformazioni hanno effetti ambientali e questi
possono esser ammessi entro limiti ben definiti sul
piano normativo, per preservare la qualità di un luogo
desiderato dai turisti. Il raggiungimento dei limiti può
implicare l’adozione di appropriate tecnologie.
Da questa affermazione discendono due considera-
zioni: 1) Data la struttura e gli impianti in un certo pe-
riodo, sono le modalità gestionali che fanno incontra-
re domanda e offerta di ospitalità a produrre impatti
ambientali. Dunque, operare sulla formazione dei
gestori e sull’educazione degli ospiti significa control-
lare nel tempo gli impatti ambientali per prevenirli o
ridurli. Un gestore informato e formato, che conosca
le dotazioni tecnologiche, può progettare un’offerta
turistica in grado di rispondere alla domanda, orien-
tandola verso le specificità del rifugio, in termini di
disponibilità di risorse e capacità di controllo delle
emissioni.
Rifugio della Balma in Val Sangone (Coazze, Torino, 1986 m)
1 R. Beltramo, S. Duglio (a cura di), I rifugi alpini del Verbano-Cusio-Ossola verso un turismo sostenibile. Una lettura sistemica della ricettività in alta quota, Edizioni Ambiente, Collana FreeBook, Milano 2012 (download gratuito su www.freebookambiente.it).2 R. Beltramo, E. Pandolfi, Qualità-Ambiente-Turismo. Strumenti di valorizzazione dell’offerta turistico-ricettiva, Università degli Studi di Torino 2013 (download gratuito su www.regione.piemonte.it/retescursionistica).
43
2) Le tecnologie, anche le più sofisticate, necessitano
di un operatore informato e formato che le metta in
azione nel modo più appropriato.
La dinamica del quadro di riferimento riguarda anche
le tecnologie, suscettibili di cambiamenti grazie all’in-
novazione in chiave ambientale: “eco-innovation is
defined as any form of innovation aiming at signifi-
cant and demonstrable progress towards the goal of
sustainable development, through reducing impacts
on the environment or achieving a more efficient and
responsible use of resources”3. Un impulso alla tradu-
zione sul piano pratico dei risultati della ricerca è sta-
to impresso dall’impegno internazionale per la green
economy (UNEP 2008): “As one that results in impro-
ved human well-being and social equity, while signi-
ficantly reducing environemntal risks and ecological
scarcities. In its simplest expression, a green eco-
nomy can be thought of as one which is low carbon,
resource efficient and socially inclusive”4. Per quanto
riguarda il rifugio, le innovazioni ambientali possono
essere incorporate a vari livelli: nella struttura, negli
impianti, nelle apparecchiature, nelle attrezzature.
Si configura, tuttavia, una terza possibilità, ovvero
quella di agire sulle norme, che va percorsa quando,
allo stato attuale delle conoscenze, non esistano im-
pianti in grado di ottemperare ai limiti di legge. Per
quanto concerne il tema del trattamento delle acque
di scarico, mentre si ricercano nuove e più efficaci
tecnologie, è opportuno intervenire sulle norme per
adeguarle alle effettive possibilità d’intervento. Così
facendo si può armonizzare l’orizzonte temporale de-
gli interventi: nel breve termine sul piano normativo,
nel medio termine su quello tecnologico. Ma l’inter-
vento tecnologico deve poter avvenire all’interno di
un quadro normativo certo, che apra spazi alla spe-
rimentazione.
Se il quadro normativo è suscettibile di variazioni, oc-
corre modificare le norme per considerare le peculia-
rità dei territori montani: analizzare i siti sui quali sono
eretti i rifugi, studiare l’effettiva interazione tra attivi-
tà turistica (periodo di apertura annuale, affluenza dei
turisti, domanda di acqua per vari scopi, ecc...) e situa-
zione geomorfologica, impartendo disposizioni che
assicurino il livello desiderato di qualità delle acque di
scarico in relazione al suolo, considerando le intera-
zioni spontanee, volte a depurare i reflui e diverse di
caso in caso. I limiti potrebbero esser diversi da luogo
a luogo, comportando dunque investimenti diversi,
ma l’obiettivo è comune: preservare la qualità della
risorsa idrica. In questo senso, una buona indicazione
potrebbe esser quella di limitare l’intervento tecnolo-
gico alla realizzazione d’impianti semplici, di pretrat-
tamento, e d’individuare fasi di trattamento naturali,
portando i reflui lungo un percorso obbligato che ne
agevoli l’ossigenazione e la cessione d’inquinanti per
percolazione nel suolo. Qualora le norme imponesse-
ro comunque investimenti elevati, il gestore potrebbe
riformulare l’offerta di ospitalità, alla ricerca dell’otti-
mo economico e ambientale.
I sistemi di gestione ambientale hanno l’obiettivo di
rendere sistematico l’approccio alla gestione, identi-
ficando e disciplinando, attraverso procedure e istru-
zioni operative, i collegamenti tra i processi e le mo-
dalità di esecuzione, in condizioni normali, anomale
Rifugio Franco Monzino allo Châtelet (Courmayeur, Aosta, 2561 m)
3 http://ec.europa.eu/environment/ecoinnovation2012/2nd_forum/inspiring_0.html4 www.unep.org/greeneconomy/AboutGEI/WhatisGEI/tabid/29784/Default.aspx
44
e di emergenza. Coinvolgono aspetti materiali e im-
materiali (informazione, formazione, comunicazione)
e si basano sull’informazione che viene ordinata e or-
ganizzata ovvero rilevata, controllata, elaborata, resa
disponibile secondo modalità stabilite dall’organiz-
zazione stessa. Gli standard diffusi a livello interna-
zionale sono modelli a cui riferirsi perché provati per
efficacia ed efficienza, che vanno adeguati al contesto
ambientale, sociale ed economico per il quale vengo-
no progettati e attuati.
Man mano che evolve l’analisi condotta sui rifugi, emer-
ge con chiarezza il rapporto che il “contenitore” ha con
l’uso delle risorse: nuove norme urbanistiche configu-
rano nuovi margini di azione, come la caratterizzazione
dei materiali in funzione delle prestazioni energetiche e
l’integrazione con tecnologie ecoefficienti, e s’impongo-
no anche in alta quota perché gettano le basi per un uso
più efficiente delle risorse. Esse, inoltre, considerano il
rapporto tra il rifugio e il paesaggio5. Il quadro norma-
tivo si amplia, soprattutto per quanto concerne le nuove
costruzioni, e un elemento che era considerato statico, il
“costruito”, e che non interveniva nelle valutazioni, viene
ad assumere un ruolo attivo. Ad esempio, se un tempo
nell’ambito dell’approvvigionamento energetico la dota-
zione di pannelli fotovoltaici era suggerita dall’adozione
di criteri di ridondanza oppure necessaria per la scarsi-
tà di altre risorse o, ancora, voluta dal gestore, in nome
di una sensibilità ambientale, oggi viene prescritta dalla
legge per le nuove costruzioni. Se, in passato, si trattava
di applicazioni esterne al rifugio, nuovi materiali e nuo-
ve tecniche di progettazione portano a un’inclusione,
per meglio armonizzare edificio e impianti. Si assiste alla
cristallizzazione di un’offerta di nuove tecnologie che ac-
celera più intensamente se le stesse tecnologie vengono
applicate in contesti non montani.
Per impostare un processo gestionale occorre definire
obiettivi e struttura organizzativa che operi secondo
modalità di azione prestabilite e che, periodicamen-
te, controlli i risultati conseguiti rispetto agli obiettivi,
eventualmente agendo per apportare aggiustamenti
qualora vi siano scostamenti negativi. Affinché que-
sto processo virtuoso possa esser innescato, è ne-
cessario disporre di dati pertinenti, completi, precisi
e a questa esigenza ci siamo proposti di fornire una
risposta col progetto del Sistema di telerilevamento di
variabili ambientali e gestionali6.
ConclusioniIl turismo montano è d’importanza strategica per le
regioni alpine. La definizione di strategie di sviluppo
da parte degli enti pubblici contempera obiettivi di
carattere ambientale, economico e sociale. Disporre
di un quadro dettagliato e aggiornato consente di as-
Produzione di energia da micro idroelettrico presso il rifugio Levi Mo-linari in Val di Susa (Exilles, Torino, 1850 m)
5 R. Beltramo, S. Duglio, C. Botto Poala, Characterization of Mountain Huts and proposed method of assessment of environmental impact, in G. Ioppolo (a cura di), Environment and Energy, Franco Angeli Editore, Milano 2012.6 R. Beltramo, Scatol8®: A path to sustainability, download gratuito su http://scatol8.net/
Scatol8 presso il rifugio Enrico Castiglioni all’Alpe Devero (Baceno, Verbano Cusio Ossola, 1640 m)
45
sumere decisioni e di valutare l’efficacia delle azioni
intraprese, programmando investimenti materiali e
immateriali. I dati rendono possibile la costruzione di
modelli previsionali volti a quantificare costi e benefi-
ci, economici e ambientali, degli interventi volti a mi-
gliorare l’offerta turistica. Anche in alta quota, o forse
proprio in alta quota, vista la fragilità degli ecosistemi,
è doveroso utilizzare tutti gli strumenti computazio-
nali di cui si dispone per evitare di trovarsi impreparati
di fronte a una concorrenza internazionale agguerrita.
Affrontare la concorrenza internazionale delle desti-
nazioni turistiche comporta la necessità di un’azione
pianificata per metter in risalto le caratteristiche ec-
cezionali di un territorio in grado di accogliere i propri
turisti, e le attività svolte per renderli consapevoli del-
le peculiarità culturali.
Il quadro normativo può esser arricchito anche dei
rapporti disciplinati dal diritto privato per quanto
concerne il rapporto tra ente proprietario e gestore.
Questa sottolineatura viene operata per evidenziare
come anche nel piano di conduzione di una struttura
possano esser introdotte clausole affinché la gestione
sia coerente con la politica ambientale della proprietà.
Questo è particolarmente vero per quanto concerne il
CAI, il quale ha tra i suoi scopi statutari la diffusione
della cultura della montagna, fatta di sedimentate co-
noscenze per ottimizzare l’uso delle risorse.
Un elevato livello di qualità ambientale costituisce uno
degli elementi della qualità percepita dall’ospite, la
quale può esser assicurata attraverso vari strumenti
di gestione volontari. Il Marchio Q – Ospitalità italia-
na è il più recente: nasce grazie alle sinergie svilup-
pate fra l’ente che lo amministra, ISNART, e le attività
svolte dall’Università di Torino nell’ambito del Pro-
getto VETTA (Valorizzazione delle Esperienze e dei
prodotti Turistici Transfrontalieri alle medie ed Alte
quote), con la Regione Piemonte capofila, che ha visto
nel territorio del Verbano-Cusio-Ossola i primi rifugi
ottenere tale riconoscimento. Il marchio considera, in
primo luogo, la conformità alle prescrizioni norma-
tive, proponendo una scheda di autovalutazione e
prendendo in esame anche aspetti legati all’involucro
edilizio. Le implicazioni tecniche e organizzative deri-
vanti dalle prescrizioni di legge pongono di fronte alla
scelta di costruire nuovi rifugi o adattare e ampliare
quelli esistenti. Il lavoro presenta un percorso decisio-
nale alla definizione del quale ha contribuito il citato
Progetto VETTA.
Riccardo BeltramoUniversità di Torino – Dipartimento di Management
Allegato
Progetti per la qualificazione del turismo montano
condotti dal Dipartimento di Scienze merceologiche
dell’Università degli studi di Torino
2010-2013
R. Beltramo, E. Pandolfi, S. Duglio, E. Vesce, Sergio
Margarita, C. Botto Poala, P. Cantore, A. Rostagno, S.
Piccolo
Convenzione tra la Regione Piemonte – Direzione
opere pubbliche, Difesa del suolo, Economia mon-
tana e foreste – Struttura flessibile per l’attuazione
dei progetti di valorizzazione della montagna – e il
Dipartimento di Scienze merceologiche dell’Univer-
sità di Torino per la realizzazione di attività tecniche
nell’ambito del Progetto strategico IT – CH 2007-
2013 “V.E.T.T.A. – Valorizzazione delle Esperienze
e dei prodotti Turistici Trasfrontalieri delle medie e
alte quote”.
2007
R. Beltramo, S. Duglio
Incarico di consulenza con l’Ente Parco Monte Anto-
la, per la realizzazione della certificazione Ecolabel
del nuovo rifugio Parco Monte Antola
46
R. Beltramo, S. Duglio
Partecipazione al concorso bandito dal CAI – Sezio-
ne Torino per la progettazione del nuovo rifugio To-
rino, con Studio INART, Studio Giacopelli (progetto
2° classificato).
2006
R. Beltramo, S. Duglio
Partecipazione con Studio Giacopelli al concorso
bandito dall’Ente Parco Monte Antola per la realizza-
zione del nuovo rifugio Parco Monte Antola (proget-
to 1° classificato).
2005-2008
R. Beltramo, E. Vesce, S. Duglio, E. Pandolfi, A. Gio-
vinazzo, A. Leonardi
“Osservatorio tecnologico, gestionale e formativo
per la sicurezza in montagna, per la tutela dell’am-
biente montano e delle strutture ricettive alpine”,
promosso dalla Fondazione Montagna Sicura di
Courmayeur, attuato dall’Università di Torino con
il contributo della Compagnia San Paolo di Tori-
no e dell’Assessorato Territorio, Ambiente e Opere
pubbliche della Regione autonoma Valle d’Aosta
nell’ambito del programma Interreg III A ALCOTRA.
R. Beltramo, E. Pandolfi, S. Duglio, A. Giovinazzo
Progetto “Qualification de l’offre des refuges de hau-
te montagne pour un tourisme durable dans la Vallée
d’Aoste et les Pays de Savoie – Refuges” nell’ambi-
to del Programma Interreg III A Italia-Francia (ALPI)
2000/06, attraverso una Convenzione con l’Asses-
sorato turismo, sport, commercio, trasporti e affari
europei della Regione Valle d’Aosta.
2003-2004
R. Beltramo, S. Duglio
Certificazione secondo la norma ISO 14001 del rifu-
gio Viòz Mantova, in collaborazione con la SAT e la
Commissione centrale Tutela e ambiente montano
del CAI. Progetto finanziato dal Ministero dell’Am-
biente.
2003
R. Beltramo, E. Pandolfi, S. Duglio
“Valorizzazione e promozione del turismo monta-
no attraverso la qualificazione ambientale di una
rete di rifugi”, promosso dal Dipartimento di Scienze
merceologiche dell’Università di Torino e realizzato
dall’Associazione gestori rifugi Valle d’Aosta con il
contributo del FSE, del Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali ufficio centrale OCFPL e della Re-
gione autonoma Valle d’Aosta, Bando Montagna,
Obiettivo 3, misura D3, anno 2003.
2002
R. Beltramo, B. Cuzzolin, E. Pandolfi, S. Duglio
“Modelli gestionali per la qualificazione dei gestori
dei rifugi verso un turismo sostenibile” promosso
dal Dipartimento di Scienze merceologiche dell’U-
niversità e dalla Grivel Mont Blanc s.r.l. e realizzato
dall’Associazione gestori rifugi Valle d’Aosta con il
contributo del FSE, del Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali ufficio centrale OCFPL e della Re-
gione autonoma Valle d’Aosta – Obiettivo 3 Misura
D 3 anno 2000–2001 Invito 2/2001.
2001
R. Beltramo, B. Cuzzolin, E. Pandolfi, S. Duglio
“Ricerca-intervento per la realizzazione di sistemi
di gestione ambientale nei rifugi di montagna” pro-
mosso dal Dipartimento di Scienze merceologiche
dell’Università di Torino e dalla Grivel Mont Blanc
s.r.l. di Courmayeur e realizzato dall’Associazione
gestori rifugi Valle d’Aosta con il contributo del FSE,
del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e
della Regione autonoma Valle d’Aosta – Obiettivo 3
Misura D 3 anno 2000–2001.
1997 – 2000
R. Beltramo, R. Pes, B. Cuzzolin
CRESTA 2000 – Capanna Regina Margherita Si-
sTema di gestione ambientale “Turismo, Ambiente,
Strutture ricettive – Sistema di gestione ambientale
per il rifugio Regina Margherita”, Convenzione tra
l’Università di Torino e il CAI.
47
Scopo della presente relazione è illustrare le proble-
matiche igienico-sanitarie dei rifugi, partendo da una
panoramica dell’attuale situazione normativa urba-
nistico-edilizia e giungendo alle tematiche inerenti le
fonti energetiche, l’approvvigionamento di acqua po-
tabile e materie prime, l’igiene degli alimenti e bevan-
de e del personale, l’applicazione del sistema HACCP,
lo smaltimento dei reflui e dei rifiuti, la formazione
igienistica dei gestori.
Questo mio lavoro è iniziato circa 15 anni fa, con Egi-
dio Bonapace, che ringrazio particolarmente. È un la-
voro che nasce dalla passione che ho sempre avuto
per la montagna come guida alpina, che poi negli anni
si è concretizzato nella mia occupazione nel servizio
d’igiene e sanità pubblica nella zona alpina di Tione.
Gli aspetti igienico-sanitari applicati ai rifugi sono
una parte di nicchia del lavoro che faccio tutti i giorni.
In questi anni ho avuto la possibilità di vedere rifugi
in tutto l’arco alpino (e di sentire esperienze anche
extra-alpine, importanti perché il tema si possa am-
pliare verso altri orizzonti). Il lavoro che presento si
riferisce principalmente a rifugi trentini, però si nu-
tre dell’esperienza maturata su rifugi di tutte le Alpi.
È una rapida carrellata su quali siano i problemi igie-
nico-sanitari dei rifugi alpini e di come si potrebbero
affrontare (e come di fatto molti siano stati affrontati
dall’Azienda sanitaria del Trentino).
Sulla normativa non mi soffermo più di tanto: abbia-
ASPETTI IGIENICO-SANITARINEI RIFUGI ALPINI IN TRENTINO
Sistema di smaltimento dei rifiuti solidi ancora insuperato
48
mo visto nelle relazioni precedenti che essa pone ad-
dirittura fino a più di 50 norme specifiche per i rifugi
(pensiamo anche a quanto questo sia fonte di difficol-
tà per i gestori).
La problematica principale dal punto di vista am-
bientale riguarda le fonti energetiche, su cui si sono
registrati anche i maggiori sforzi di progettazione
in questi ultimi anni, anche perché le esigenze sono
completamente cambiate. Anche da un punto di vista
squisitamente tecnico, le richieste degli utenti sono
ormai cambiate tantissimo (come ad esempio il fatto
di ritrovarsi la corda asciutta alla mattina), presuppo-
nendo requisiti tecnici assolutamente impensabili 20
anni fa.
Un altro problema importante è l’approvvigionamen-
to di acqua potabile e merci. Ciò diventa rilevante nel
momento in cui si va a considerare la sicurezza del
cliente, ancora prima della sua soddisfazione. Ormai
c’è un’attenzione molto alta sulla qualità e sulla sicu-
rezza di ciò che mangiamo e beviamo.
In un rifugio di altissima quota sulle Alpi occidentali,
dove l’approvvigionamento di acque potabili per via
naturale è praticamente impossibile, il turista preten-
de comunque che si possa mangiare e bere qualcosa
di assolutamente sano. Questo non è sempre facil-
mente possibile in alcune strutture ancora operanti
sulle nostre montagne. Il binomio tra tecnico dell’igie-
ne pubblica e progettista è in tal caso molto impor-
tante.
Il problema che viene subito appresso riguarda l’igie-
ne delle bevande (è stato già citato il sistema di auto-
controllo del HACCP – Analisi del pericolo e controllo
dei punti critici – che è caduto sulla testa dei rifugi al-
pini). Su questo l’azienda sanitaria si è impegnata per
cercare delle semplificazioni; ho personalmente fatto
dei lavori con diversi rifugi per rendere minimo l’im-
patto burocratico-legislativo, mantenendo tuttavia la
garanzia più completa per il consumatore.
L’altro grande problema ambientale concerne il trat-
tamento delle acque e dei rifiuti solidi; infatti, il dover
dotare i rifugi di strumenti per trattare come a bassa
quota le acque e i reflui impone dei costi economici,
ma soprattutto ambientali, veramente alti. Anche qui
le soluzioni su tutte le Alpi sono molto diverse ed è
molto interessante capire come ci si è organizzati a
seconda della situazione.
Alcuni anni fa in tutti i rifugi del Trentino sono stati
installati o il disoliatore o (più raramente) il grigliato-
re. Sullo smaltimento dei rifiuti solidi le modalità sono
tantissime, ma forse il sistema ancora insuperato è
quello di riportarsi i rifiuti a valle.
Infine un piccolo cenno alla formazione igienico-sa-
nitaria. Noi riteniamo che la formazione sia lo stru-
mento migliore, soprattutto nella fase iniziale in cui
si sente la voce del gestore per capire quali siano le
problematiche (perché se si arriva già con la soluzione
in tasca, senza aver sentito chi poi ci vive tutti i gior-
ni, si commettono gli errori più grossi). Quindi questi
momenti di formazione, che sono stati condotti negli
anni con i gestori, mi sono personalmente serviti per
capire quali fossero le esigenze specifiche, per cercare
poi delle soluzioni partendo da esse.
Antonio PrestiniDirigente medico ASL Provincia autonoma di Trento
49
Seconda sessioneRIQUALIFICAZIONE O DEMOLIZIONE/RICOSTRUZIONE?
51
A tutt’oggi, in montagna, e in particolare sulle Alpi,
bisogna fare i conti con almeno due nemici del “buon
progetto”, altrettanto subdoli e pericolosi.
Il primo nemico si può riassumere nel sentimento
della nostalgia, che a partire dalla scoperta romantica
delle Alpi di fine Settecento ha pervaso fino ai nostri
giorni quasi ogni sguardo cittadino sulla montagna e
paradossalmente ha influenzato, e oggi influenza più
che mai, anche gli sguardi valligiani, di chi la monta-
gna la abita e la amministra.
Nostalgia significa quel continuo ricondurre i modelli
culturali (dunque anche architettonici) alla Montagna
con la emme maiuscola, l’intramontabile icona del
mondo rustico e rurale ottocentesco che, traslata al
costruire, equivale a materiali e forme “tradizionali”
perché sublimate dal passato: la pietra, il legno, lo stile
del rascard, lo chalet, la “baita alpina”, il rifugio-bivac-
co “tradizionale” in stile capanna o simile.
Sono tutte varianti dello stesso intramontabile pre-
giudizio, che assegna al divenire delle alte quote un
diretto e inevitabile discendere dalla presunta civiltà
alpina, contadina e pastorale, oppure dal classicismo
alpinistico nel caso dei rifugi, anche là dove ormai
prevale il turismo intensivo o dove l’industria delle
vette ha spianato per sempre i campi coltivati, i ter-
razzamenti, le capanne di pietra, gli antichi bivacchi,
l’avventura della notte. Oggi sono gli stessi escursio-
nisti e alpinisti che chiedono a gran voce sicurezza e
comfort, non pranzi frugali, pernottamenti spartani o
emozioni d’antan.
Il secondo nemico si chiama “periferia”, ed equivale
non solo a considerare le Alpi come un prolungamen-
to della città, una protesi della cultura metropolitana,
ma anche nell’interpretarne le costruzioni come vere
e proprie progettazioni urbane: non tanto perché i
progetti nascono in città, come logico che sia, quanto
perché si uniformano alla visione di pianura dimen-
ticando che la montagna, soprattutto quella più alta
– dunque il territorio del rifugio – presenta un am-
biente eccezionale, fragile e severo allo stesso tempo
ed esige soluzioni adeguate ai luoghi, prima ancora
che ai tempi.
Molte brutture, molti abusi, molte degenerazioni, sia
nella dimensione del singolo fabbricato che del pae-
se-città destinato al turismo di massa, sono il risul-
tato di questa in-cultura del leggere e dell’abitare le
terre alte, che affianca l’acritico e ipocrita legame a un
modello costruttivo “antico”, con il legno che ingialli-
sce e secca sui terrazzi e negli infissi, a un altrettanto
semplicistico “stile tecno” che, per un sillogismo as-
surdo, dovrebbe soddisfare i gusti dei cittadini in va-
canza, anche a due o tremila metri di quota.
Il grande assente è quell’altro sguardo, o terza via, che
liberandosi dai lacci del passato e dalla sudditanza
culturale verso la città, riesca innanzi tutto a pensare
le Alpi come un luogo, un ambiente, un territorio, e di
conseguenza sappia immaginarvi delle opere capaci
di rispettarne e valorizzarne le forme.
Ma quali forme? Non per forza quelle della civiltà al-
pina e alpinistica di ieri, inevitabilmente superata, ma
neppure l’acritica trasposizione della tecnologia co-
struttiva (urbana) di oggi.
In questo dibattito s’inserisce anche il tema dei rifugi,
che esprimono quanto di più sperimentale si possa
INTRODUZIONE
52
immaginare e fare in montagna, perché si collocano
in luoghi e condizioni estreme e rappresentano una
sfida per progettisti e costruttori. La sfida va raccol-
ta adattandola ai luoghi, tra i più belli e incontaminati
del pianeta, e rispettando quanto è stato fatto prima
dall’architettura pionieristica d’alta quota. Spesso si
pone il problema delle eredità storiche dei rifugi: ab-
battere quelli vecchi, oppure ristrutturarli? Non esiste
una risposta unica, naturalmente, perché ogni caso è
diverso dall’altro, ma in ogni caso l’architettura pre-
esistente va salvaguardata come un pezzo di storia,
sempre unica, talvolta eccezionale. Il progresso vero e
capace di futuro non cancella i segni del passato, ma li
adatta con rispetto ai tempi nuovi.
Enrico CamanniDislivelli
53
Da circa due anni sono diventato proprietario e ge-
stisco il rifugio Benevolo, a 2285 m nella Valle di
Rhêmes, in Valle d’Aosta. Costruito negli anni Trenta
dal CAI Torino, negli anni Ottanta è stato leggermen-
te rimaneggiato, con piccoli ampliamenti volumetrici
nell’intorno. Ogni piano misura circa 160 mq. È molto
frequentato, sia nel periodo primaverile per lo scialpi-
nismo, sia in estate con un turismo che fondamental-
mente lo considera una meta, sia la sera come rifugio
per i trekking.
I limitati adeguamenti negli anni sono dovuti a un
contenzioso tra i proprietari del terreno circostante e
il CAI Torino. Così, quando ne ho assunto la gestio-
ne, si è scoperto che in realtà non poteva neanche più
restare aperto perché non possedeva l’agibilità, né
soddisfaceva più i requisiti igienico-sanitari. Ci siamo
quindi trovati nella situazione di emergenza d’instal-
lare delle strutture temporanee per potere operare.
Immaginerete il mio approccio nel momento in cui da
gestore arrivo in un rifugio che è fermo agli anni Tren-
ta dal punto di vista delle strutture e agli anni Ottanta
da un punto di vista dell’impiantistica: si stava quasi
pensando a un discorso demolizione-ricostruzio-
ne. Essendo però l’eventuale chiusura del rifugio un
danno non solo ai gestori ma all’intera valle, alle valli
vicine e ai rifugi laterali, siamo riusciti a trovare con
le amministrazioni comunale e regionale una soluzio-
ne temporanea, con l’urgenza però di risolvere alcuni
IL DILEMMA DI FRONTEALL‘ESISTENTE
Tavola rotonda/1. Costruire ancora? Tra impatti e impronte ambientali
Rifugio Gian Federico Benevolo all’Alpe Lavassey (Rhêmes-Notre-Dame, Aosta, 2287 m)
54
problemi entro la fine dell’anno. Ci siamo chiesti cosa
fare: costruire un rifugio nuovo di fianco? riqualificare
l’esistente? La situazione era delicata.
I punti su cui abbiamo riflettuto erano che la costru-
zione di un nuovo rifugio di fianco non era possibile;
non per mancanza di spazio ma perché il rifugio esi-
stente sorge nella posizione strategicamente migliore,
su un promontorio da cui il gestore ha sotto controllo
tutta la valle e può vedere gli escursionisti che stanno
arrivando: questo è abbastanza importante nelle sta-
gioni un po’ più delicate, come quella primaverile. Nel-
la ricollocazione di un rifugio bisogna sempre tenere
conto di questi aspetti.
Vivendo il rifugio ho però imparato a conoscerlo e a
comprenderne i pregi, anche tramite coloro che lo fre-
quentavano e lo conoscevano da ormai 60 o 70 anni.
Così, mentre all’inizio avrei voluto innescare una pira
liberatrice, in seguito non me la sono più sentita di
perseguire l’ipotesi di demolire per ricostruire. Questo
valore storico-culturale che intravedo ormai dentro al
rifugio, nelle scritte degli alpini sulle pareti, nella per-
fetta funzionalità (quasi come in una barca a vela, con
ogni cosa al suo posto), mi ha dissuaso dall’idea del
costruire ex novo.
Ora però, da gestori, abbiamo bisogno di un rifugio
estremamente funzionale, perché avere ad esempio
problemi tecnologici o l’acqua che gela, mentre ma-
gari ci sono ospiti, può essere un dramma; dev’esse-
re funzionale ma al contempo semplice, affinché si
possa riparare facilmente. La nostra sfida è dunque
quella di utilizzare la vecchia fabbrica, senza demo-
lirla, come base per poter fare un ampliamento, in cui
le due strutture saranno legate da un punto di vista
distributivo.
Mathieu ValletGestore rifugio Benevolo
55
Quando camminiamo in alta quota, sarà per la bel-
lezza del panorama che possiamo ammirare o anche
per la fatica che facciamo camminando, spesso non
notiamo che le nostre montagne sono costellate di
strutture e infrastrutture di diverse forme e di vario
tipo. Partenze e arrivi d’impianti di risalita con depo-
siti per le attrezzature e per i mezzi, strutture tecniche
per la raccolta dell’acqua o per l’approvvigionamen-
to energetico, infine rifugi e bivacchi comprensivi di
ampliamenti, annessi e ripari per generatori elettrici
o bombole di gas necessari per alimentare le struttu-
re. Solamente in rari casi questa complessa varietà di
manufatti è frutto di un progetto consapevole e ben
ideato per un corretto inserimento nel contesto. Nella
maggior parte dei casi si tratta invece di opere realiz-
zate, in un ampio arco di tempo, per rispondere alle
singole esigenze funzionali con modalità eterogenee.
In questo quadro si inserisce la “storia” dei rifugi, che
presidiano un territorio naturale di particolare esten-
sione e qualità ma caratterizzato da numerosi inter-
venti dell’uomo.
Volendo effettuare un’analisi dei rifugi, osservando
con attenzione quelli dell’arco alpino, possiamo nota-
re che molti sono stati realizzati con mezzi limitati e
con materiali e forme molto diverse tra loro. La “tra-
dizione” della costruzione dei rifugi c’insegna infatti
che nella maggior parte dei casi si tratta di edifici au-
tocostruiti o realizzati in tempi e condizioni che impo-
nevano di attuare interventi aventi come primo obiet-
tivo quello di riuscire a costruire appunto un “rifugio”,
quindi un riparo, per chi frequentava la montagna.
Non vi è stata pertanto una particolare ricerca tipolo-
ARCHITETTURA D’ALTA QUOTA.IL CONCORSO PER LA RICOSTRUZIONE DI TRE RIFUGI IN PROVINCIA DI BOLZANO
Rifugio Ponte di ghiaccio / Edelrauthütte al passo Ponte di ghiaccio /Edel-raut (Selva dei Molini/Mühlwald, Bolzano, 2545 m): stato attuale, plastici degli otto progetti in concorso e proposta vincitrice (Modus Architects)
56
gica e architettonica, se non in rari casi, e non è stato
posto come primo obiettivo la ricerca di una qualità
estetica dei manufatti. La tipologia di riferimento è
stata semplicemente mutuata dalla tradizione co-
struttiva del fondovalle o degli alpeggi della zona, non
essendovi infatti all’inizio del secolo scorso una tradi-
zione costruttiva in alta quota. Le strutture costruite
perlopiù nella prima metà del Novecento, nel momen-
to di maggiore sviluppo del turismo alpino, hanno
quindi dato luogo a una “tradizione” non consolidata
che è però successivamente diventata riferimento.
Con la modernità e la possibilità d’impiegare nuovi
mezzi per la costruzione in alta quota, giungendo nei
luoghi prima quasi inaccessibili con elicotteri e mezzi
meccanici di vario genere, le condizioni sono cambia-
te radicalmente. A quel punto ogni cosa è stata pos-
sibile. Alcuni rifugi sono stati ristrutturati o sostituiti
e altri costruiti ex novo secondo le disponibilità eco-
nomiche, ma anche secondo le possibilità tecniche del
momento.
Seguendo quindi l’approccio dei pionieri dell’alpini-
smo che hanno realizzato i primi ricoveri utilizzando
al meglio le tecniche e le modalità d’intervento dell’e-
poca, oggi noi dovremmo costruire nuove strutture
o intervenire nella ristrutturazione o ampliamento di
quelle esistenti utilizzando l’avanguardia della tecnica
e del linguaggio architettonico. Questa modernizza-
zione è evidente anche nella pratica dell’alpinismo: i
pionieri effettuavano le proprie ascensioni con corde
di canapa, pesanti scarponi di pelle, vestiti scomodi e
zaini pesanti; oggi gli alpinisti utilizzano le attrezza-
ture più innovative, vestono indumenti ultra leggeri e
protettivi ed effettuano le stesse vie in tempi estre-
mamente brevi rispetto a quelli dei loro predecessori.
Ogni epoca ha il proprio linguaggio e l’evoluzione del
gusto va di pari passo con ciò che di fatto costituisce
la tradizione, ovvero non qualche cosa di fermo, di
statico, ma una cosa in movimento, in continua evo-
luzione.
Realizzare oggi un nuovo rifugio, pensando di recu-
perare una tipologia che riproduca banalmente le
“baite” e le “capanne” in legno, significa costruire un
falso storico. Inoltre, è necessario evidenziare che in
alta quota qualsiasi elemento costruito è sempre e
comunque qualche cosa di alieno rispetto alla grande
dimensione degli spazi alpini. In questo senso un con-
testo estremo come quello dell’alta quota, dove ogni
intervento costituisce comunque una violenza, è in
grado di ospitare anche un’architettura che esprime in
modo coraggioso la propria contemporaneità. Questo
vale per i rifugi d’alta quota come, allo stesso modo,
per le strutture degli impianti di risalita o per le infra-
strutture tecniche di ogni genere.
Occorre invece ragionare sulla possibile reversibilità
di questi manufatti. Costruire in alta montagna do-
vrebbe spingerci a rispettare l’ambiente, nel senso di
rinunciare agli interventi che modificano l’andamento
Rifugio Vittorio Veneto/Schwarzensteinhütte al Sasso Nero/Schwar-zenstein (Valle Aurina/Ahrntal, Bolzano, 2923 m): stato attuale, pla-stici degli otto progetti in concorso e proposta vincitrice (Helmut Sti-fter, Angelika Bachmann)
57
naturale del terreno, limitandosi a costruire il neces-
sario senza compromettere il contesto. Ciò significa
che, esaurita la vita dell’edificio e venuta meno la sua
necessità, dev’essere possibile un ripristino del sito
senza lasciare eccessive tracce. Credo che questo si-
gnifichi rispettare la montagna indipendentemente
dall’aspetto esteriore, dalla forma o dal linguaggio uti-
lizzato nella costruzione dei rifugi. È necessario evi-
denziare, inoltre, che per i rifugi non esistono norme
specifiche e che quindi gli interventi sul patrimonio
esistente, come anche le nuove realizzazioni, devono
sottostare a norme, igienico-sanitarie e di prestazione
energetica, poco attinenti a una struttura che per sua
natura dev’essere essenziale. Si può ritenere quin-
di più coerente modificare le norme più che i rifugi,
ovvero definire specifici parametri per strutture che
vengono utilizzate in un periodo limitato dell’anno, a
volte solo alcuni mesi nella stagione estiva.
Consapevole del ruolo esercitato dal rifugio, che svol-
ge infatti una funzione di presidio culturale oltre che
di semplice riparo, la Provincia autonoma di Bolzano
ha colto l’occasione della ricostruzione di tre rifugi in
Alto Adige per dare un concreto contributo al dibat-
tito relativo alle costruzioni in alta quota. Seguendo
una prassi ormai consolidata per garantire la qualità
dei progetti architettonici, la Provincia ha indetto tre
concorsi a inviti.
Per ogni rifugio sono stati coinvolti otto studi altoa-
tesini di chiara fama, generando in questo modo un
“patrimonio” d’idee contenuto in ventiquattro proget-
ti che non rappresentano solamente una risposta alle
esigenze tecniche e funzionali della committenza ma
costituiscono un importante momento di ricerca per
tutto l’arco alpino.
Edelrauthütte/rifugio Ponte di ghiaccio (2545 m),
Schwarzensteinhütte/rifugio Vittorio Veneto (2923
m), Weisskugelhütte/rifugio Pio XI (2544 m): sono i
tre rifugi, posti al confine tra l’Alto Adige-Südtirol e
l’Austria, per i quali è stata prevista la demolizione e
ricostruzione a causa delle precarie condizioni delle
strutture attuali (vedi “Turrisbabel” n.91, numero spe-
ciale della rivista dedicato al concorso).
La giuria composta da tecnici e da rappresentanti
delle diverse associazioni alpine, tutti appassionati
frequentatori della montagna, ha valutato i proget-
ti partendo dal bisogno di soddisfare il programma
funzionale della struttura e cercando, al contempo,
un equilibrio tra gli aspetti pratici e quelli estetici e
formali, senza che questi ultimi potessero prevalere.
I progetti presentati corrispondono ad approcci pro-
gettuali eterogenei che riflettono un concetto di “ec-
cezionalità” di un manufatto costruito in un contesto
drammatico e impervio come l’alta quota.
Vi sono quindi soluzioni più rassicuranti e legate a
una modalità costruttiva e formale che costituisce
una naturale evoluzione dei modelli esistenti. Altri in-
Rifugio Pio XI/Weisskugelhütte a Vallelunga/Maseben (Curon Ve-nosta/Graun im Vinschgau, Bolzano, 2544 m): stato attuale, plastici degli otto progetti in concorso e proposta vincitrice (Höller & Klotzner)
58
vece hanno declinato questo compito come possibile
occasione di ricerca capace di definire una nuova in-
terpretazione di rifugio alpino. Vi sono delle costanti
nei progetti dei tre rifugi che, ispirandosi al paesaggio
circostante, propongono strutture che riproducono
massi erratici, volumi spigolosi e cristalli che tentano
un dialogo con la morfologia delle rocce. In altri casi
è l’architettura che prevale e si mostra, non solo per
fare sfoggio di sé, ma anche per rispondere a una re-
ale esigenza del rifugio, ovvero la necessità di essere
visibile e fungere da riferimento anche da lontano, per
chi si trova a transitare lungo i sentieri alpini a volte
in condizioni meteorologiche avverse. L’approvvigio-
namento energetico diventa tema di progetto che de-
finisce spazi e superfici necessari a ospitare pannelli
fotovoltaici e impianti che per loro natura non posso-
no essere “mimetizzati” ma che al contrario possono
diventare elemento caratterizzante dei nuovi edifici.
Confrontando i plastici delle diverse soluzioni pro-
gettuali risulta evidente l’assenza di una “tradizione
tipologica” di riferimento per gli architetti altoatesini.
I progetti raccontano ognuno una storia diversa e te-
stimoniano una vitalità espressiva che denuncia l’uni-
cità del costruire in alta quota.
Alberto WinterlePresidente Ordine Architetti PPC
della Provincia autonoma di Trento
59
Il concorsoIl Distretto culturale di Valle Camonica, in collabora-
zione con il Parco dell’Adamello, nel 2012 ha indetto
il concorso internazionale “Abitare minimo nelle Alpi”,
aperto a giovani architetti, designer e ingegneri sul
tema del bivacco come cellula abitativa minima, au-
tonoma e reversibile. Il bando richiedeva minimo
ingombro e semplicità formale, durabilità all’uso e
agli agenti atmosferici, economicità, autosufficienza
energetica e idrica, comfort minimo, coibentazione,
visibilità, sicurezza e reversibilità, oltre a un limite vo-
lumetrico. Il bando, costruito con il gruppo di ricerca
‘Abitare minimo’, ha proposto ai giovani progettisti di
disegnare un bivacco da realizzare all’interno del Par-
co dell’Adamello, in sostituzione di una struttura ob-
soleta non più riparabile; ai progettisti è stato richie-
sto d’ideare una struttura analoga, adatta a svolgere
funzioni di supporto, presidio e soccorso. Un bivac-
co infatti, a differenza di un rifugio, è un riparo mo-
mentaneo e provvisorio, usato per proteggersi dalle
condizioni meteorologiche avverse o per passare la
notte al sicuro prima di rimettersi in cammino. Oggi
solitamente in legno o lamiera, è uno spazio minimo
autogestito e gratuito da lasciare in ordine e dotato di
qualche risorsa alimentare; in antitesi coi modelli pre-
valenti della società contemporanea, s’identifica con
un’idea di stretto indispensabile ed essenzialità.
La giuria del concorso ha selezionato 16 tra i circa 200
lavori presentati, premiando il progetto del gruppo
LAMA+ di Roma che, insieme a quelli giudicati mi-
gliori, contiene caratteri architettonicamente e tec-
nicamente significativi per cogliere gli aspetti propri
del bivacco alpino. Nel concetto di bivacco è infatti
presente l’essenza dell’abitare: progettarlo significa
penetrare il tema, toccando il senso della presenza
dell’uomo sulla terra e nella Natura, individuabile tra
il dimorare e l’errare.
L’erranzaLa montagna, e in particolar modo la catena alpina,
è stata letta e interpretata sino all’Ottocento come
sinonimo d’impervio, inaccessibile e inospitale, più
ostacolo da superare che entità in sé. La presenza
dell’uomo sulle terre alte iniziò però molto lontano nel
tempo, con gli spostamenti e le esplorazioni finalizza-
te alla ricerca di risorse alimentari e materiali. Già dal
Paleolitico l’uomo imparò a muoversi in montagna,
istintivamente e adeguatamente, usando le forme fi-
siche come segni di orientamento geografico e fon-
dando la propria sopravvivenza sullo spostamento
e lo sfruttamento di situazioni, materie e luoghi. Nel
suo vivere il territorio abitandolo nell’erranza, indi-
viduò come riferimenti fondamentali le percorrenze,
i passaggi e i valichi. Gli snodi obbligati dei percorsi,
i luoghi di appostamento, i ripari e i siti delle risorse
primarie, determinati da esigenze pratiche e aumen-
tati di significato mediante prese di possesso simboli-
che, diventarono i caratteri ambientali del suo abitare.
L’abitare dei territori alpini d’alta quota ha sempre
presupposto provvisorietà e temporaneità, stagiona-
le e climatica, determinate dalle condizioni ambientali
estreme ma anche dalle mobilità. Lo stereotipo della
montagna come sede di vita statica e chiusa è ormai
BIVACCO:L‘ABITARE MINIMO NELLE ALPI
60
Bivacco Giannantonj al Passo Salarno(Saviore dell’Adamello, Brescia, 3168 m): stato attuale
superato dalla storia. In epoche molto diverse le Alpi
sono state un laboratorio di vita e scambio, di tecni-
che e idee: furono infatti i gruppi e le popolazioni più
intelligenti e inventive ad abitare le alte quote, poiché
le condizioni ambientali estreme richiesero capacità
di adattamento e stili di vita più raffinati. Gli uomini
di montagna sono da sempre esploratori di modalità
insediative al limite della vivibilità, dovendosi con-
frontare con un territorio difficile fatto di altitudini,
ostacoli, mutazioni climatiche, sempre in una condi-
zione esistenziale di oscillazione tra il fragile equili-
brio raggiunto e nuovi adattamenti. La storia lunga
delle popolazioni alpine e delle incessanti mutazioni
antropiche è intrisa di grandi sconosciuti ingegni: più
si sale più diventa importante la capacità di farsi av-
venturosi nei confronti delle avversità.
Con queste premesse, è possibile indagare il signi-
ficato del bivacco entro un orizzonte che richiede un
avvicinamento sensibile e una disposizione interro-
gante. Da tempi antichissimi il concetto di luogo nelle
terre alte si è strutturato in modo diverso e per certi
versi opposto a quello delle regioni urbanizzate. Lo
stare e lo spostarsi dell’uomo hanno segnato il ter-
ritorio; i suoi spostamenti hanno depositato tracce e
segni leggeri, mutevoli e simbolici, mentre nella no-
stra società desacralizzata i luoghi hanno perso i va-
lori rituali, sostituiti da canoni estetici e individuali.
La montagna richiede predisposizione al colloquio,
un’apertura di pensiero, scelte meditate e verificate.
Grande esperienza di presenza abitativa ad altissime
quote è stato il fronte della prima guerra mondiale.
Durante l’epopea della Guerra bianca in Adamello
sono state costruite, attorno ai tremila metri, posta-
zioni di presidio, accampamenti e strutture logistiche;
tende e baracche hanno ospitato in condizioni proibi-
tive i militari impegnati nelle operazioni belliche. L’in-
gegno e lo spirito di sacrificio, l’impianto logistico e il
coraggio ai confini con la spregiudicatezza hanno reso
possibile l’insediamento di cellule abitative minime
su creste, fianchi, crinali e passi, lungo tutto il fronte
che attraversava il ghiacciaio e l’intera catena. Questo
imponente dispositivo, oltre a rivelare la pervasività
della tecnica nelle forme della “mobilitazione totale”
anche alle alte quote, ha evidenziato sia le straordina-
rie capacità di adattamento degli uomini che il senso
di precarietà delle vite, custodite dalle labili ma tenaci
strutture. Da quella esperienza maturò il prototipo del
bivacco fisso alpinistico, prima in legno con struttura
in ferro e poi in lamiera.
La necessità di assumere luoghi come punti di riferi-
mento, nella preistoria come oggi, è strettamente le-
gata alla natura dinamica dell’abitare; anche lo spazio
vitale contemporaneo non è solo quello della sosta,
ma comprende le relazioni e gli spostamenti. Nella
loro radicale diversità, le figure mitologiche di Hestia
e Hermes dimostrano come per gli antichi lo spazio
dell’abitare fosse caratterizzato da due polarità qua-
litative non separabili: la necessità di avere un punto
fisso di riferimento, in diretto rapporto con il suolo,
e la possibilità/necessità di coltivare l’apertura verso
l’esterno e l’altrove. La relazione dialettica tra radica-
mento e movimento appare significativa in quanto da
un lato rinvia direttamente ad un concetto di abita-
re originario, dall’altra riconduce al tema dell’abitare
temporaneo e apre a nuove prospettive d’incontro
con l’altro da sé, compreso il paesaggio. L’uomo è l’a-
perto, in quanto è caratterizzato non solamente da bi-
sogni ma anche dal desiderio, il fattore generativo di
un’inquietudine che induce all’interminabile erranza.
Il bivaccoL’opposizione complementare fra lo spazio chiuso e
protetto del bivacco e lo spazio aperto del circostante
(il paesaggio alpino) evidenzia il tema dell’abitare nei
suoi aspetti fondativi. Abitare è un habitus, un modo
61
d’essere che nasce da una disposizione, uno stare al
mondo che prevede un luogo di cui appropriarsi e da
coltivare, di cui prendersi cura riconoscendosi in esso;
l’abitare è, con Heidegger, un “trattenersi nella custo-
dia”, di sé e del proprio contesto.
Il bivacco è una particolare accezione dell’abitare mi-
nimo, tappa temporanea di un cammino in relazione
all’arrivo e alla ripartenza, concepito per la sola fun-
zionalità di riparare il corpo. Solitamente piccola co-
struzione in legno e lamiera con tetto di forma curva,
è fornito di posti letto e materiale per il pernottamen-
to di poche persone ed è situato generalmente alla
partenza per itinerari impegnativi o ascensioni. È un
riparo in cui avvertire il senso dell’alloggiare tempo-
raneo dato dal volume contenuto e dai pochi oggetti
presenti; tutto vi evoca sensazioni di provvisorietà e
incompiutezza e proprio per questo è luogo autentico
ed esistenziale che lascia spogli di fronte alla sussi-
stenza, esperienza che le popolazioni alpine hanno
ben conosciuto, anche nel Novecento.
Il bivacco è originariamente extraterritoriale, non
pensato per un luogo specifico e concepito per esse-
re ovunque; la baracca in legno o lamiera facilmente
montabile ne è perfetta interpretazione. È concetto e
archetipo di una struttura da collocare in un ambito
estraneo, in un sito che non può essere costantemen-
te abitato e che, per ragioni di visibilità, uso e accesso,
è collocato in una situazione esposta dove non esi-
stono ripari naturali. È un manufatto pensato altrove
rispetto al luogo in cui è situato, con materiali e forme
diverse dai materiali locali. Poiché ogni possibile con-
quista della montagna è già avvenuta, il bivacco è un
avamposto determinato dall’azione del camminare in
alta quota; la sua ragione è legata al transito, al pro-
teggersi per il breve tempo della permanenza, meta-
fora della nostra epoca nomadica e paradigma di un
pensiero di sobrietà.
Transitare e raccogliersiL’Alpe è una frontiera mobile allo sguardo di chi la transi-
ta, con pochi confini precisabili e molti limiti, caratterizza-
ta da una continua incidenza del fattore altimetrico. Per
comprendere il paesaggio verticale bisogna considerar-
ne i caratteri costitutivi di altitudine e altezza, percepibili
in vallate, discontinuità, orizzonti delimitati, profondità.
Il camminare in montagna è caratterizzato da continue
variazioni che orientano costantemente lo spostamento
per chi ha attitudine o famigliarità, ma determinano uno
spaesamento in chi non riconosce segni e riferimenti,
ambientali e meteorologici. Le percorrenze esperienzia-
li del paesaggio compiute dai camminatori confermano
quanto sia importante ritrovare nella lentezza il senso del
rapporto elementare e autentico con la montagna. Il bi-
vacco è punto centrale di questa pratica: immerso nella
vastità e nell’altitudine, forma-limite nella collocazione
oltre la fascia altimetrica di presenza umana, lontano da
ogni dimensione sociale o di sicurezza collettiva.
Bivacco Giannantonj, fotomontaggi del progetto vincitore del concorso “Abitare minimo nelle Alpi” (gruppo LAMA+: Alessandro Felici, Rocco Cammarota, Alessio Santamaria, Dario Rossi, Ermanno D’amico)
62
Per giungervi bisogna camminare salendo, compiere l’a-
scesa a una terra inabitata che fa sentire l’uomo straniero
e lo pone, positivamente, di fronte ai propri limiti. Salen-
do, egli si allontana dai territori antropizzati e immergen-
dosi nella solitudine del camminare è indotto a riorien-
tare il sistema percettivo di riferimento fondandolo sul
proprio passo e sulla meta di riferimento, punto di tran-
sito naturale o rifugio artificiale in cui trovare accoglienza
e raccogliersi. Riparo è luogo in cui si custodisce se stessi
nel gesto prenatale del racchiudersi; mettere al sicuro il
proprio corpo preservandolo dalle intemperie è il primo
atto di difesa, istinto naturale e primario. Il bivacco offre
giaciglio, è provvisorio involucro tecnico che consente
all’uomo un equilibrio momentaneo tra l’interno e l’ester-
no, tra il suo bisogno di sicurezza e l’apertura alla vastità
del teatro montano che lo attende. Se il corpo è il primo
luogo dell’abitare, il raccogliersi è anche un atto d’intro-
spezione e meditazione; chi ha trascorso una notte nel
bivacco non potrà non amare la montagna per sempre,
poiché in esso è racchiusa l’essenza dell’abitare alpino.
Il progettoIl concorso “Abitare minimo nelle Alpi” ha verificato
le possibilità di realizzare un’architettura in una si-
tuazione estrema. Molti partecipanti hanno risposto
con progetti adeguati, affrontando il tema con serietà
e proponendo idee forti e problematiche. I tre lavori
premiati, diversi tra loro per caratteri e tipologia, si
adattano a situazioni ambientali diverse. Se il bivacco
è un presidio esposto dell’abitare minimo, il progetto
vincitore, del gruppo LAMA+, ne interpreta lo spirito
mediante un volume che fronteggia la valle e si as-
sottiglia verso monte. Disponendo il volume in dia-
logo con l’andamento del versante e poggiandolo su
un basamento geometrico di pietrame che lo stacca
e lo pro-tende, la costruzione dichiara la propria ge-
ometria elementare. Il manufatto non teme gli agenti
atmosferici ma, in un certo senso, li sfida tagliandoli
con spigoli acuti e alzando il profilo oltre le possibili
coperture di neve. Il protendersi a sbalzo e l’ancorarsi
si contrappongono; la forma coraggiosa si oppone al
senso di precarietà.
Il progetto vincitore è in corso di realizzazione presso
la ditta Albertani Corporates di Edolo e verrà collocato
al Passo Salarno nell’estate 2014, in accesso al ghiac-
ciaio dell’Adamello sostituendo la fatiscente struttura
del bivacco Giannantonj, grazie allo sforzo economico
e organizzativo di enti pubblici (Comunità montana di
Valle Camonica con Distretto culturale e Parco Ada-
mello, Unione dei Comuni di Valsaviore) e la volontà
cooperativa delle sezioni CAI di Brescia e Valle Camo-
nica. La realizzazione rappresenta il compimento di
un percorso di ricerca iniziato all’interno del progetto
aperto_2012 art on the border, come campo di appli-
cazione dei nuovi linguaggi dell’arte contemporanea
in ambito montano e la collaborazione del laboratorio
“Abitare minimo” del Politecnico di Milano. Le ricer-
che architettoniche in ambito alpino indicano infatti
come la montagna continui a essere un ambiente di
sperimentazione, dove verificare concretamente idee
e soluzioni utili nel dirigere la società contemporanea
a una maggiore responsabilità nei confronti della ter-
ra che temporaneamente ci ospita. Questo, insieme
alla corretta individuazione del tema da parte della
committenza e la coerente interpretazione da parte
dei progettisti, conferisce significato e valore al nuovo
costruire, al ri-costruire.
Se l’abitare è il tratto fondamentale della natura uma-
na, l’uomo ha possibilità e responsabilità di edifica-
re forme e relazioni mediante un agire disciplinato.
Compito fondamentale del pensiero è reimmaginare
gli orizzonti di un’armonia tra uomo e Natura, mentre
il ruolo positivo dell’architettura risiede nell’organiz-
zare forme limitando l’azione umana, configurando
spazi difesi nella vastità del paesaggio e donando luo-
ghi di sobrietà, come il bivacco, affidati alla responsa-
bilità solidale.
Per una trattazione più estesa di alcuni argomenti qui
proposti, si rimanda al saggio Terre, luoghi e vie. L’a-
bitare minimo nelle Alpi. contenuto in: Giorgio Azzoni,
Paolo Mestriner (a cura di), Abitare minimo nelle Alpi,
LetteraVentidue, Siracusa 2013, pp. 54-67.
Per informazioni sul concorso:
www.vallecamonicacultura.it/aperto2012
Giorgio Azzonidirettore artistico Distretto culturale di Valle Camonica
63
Il primo rifugio in legno costruito ai piedi del Mon-
te Rosa è edificato nel 1894-95 grazie a un lascito
dell’ingegnere François Bétemps, da cui prende il
nome. Il rifugio contava 25 posti letto e apparteneva
al Comitato centrale del CAS. Nel 1918 un ampliamen-
to consente di ospitare altre 20 persone e nel 1929 il
Comitato centrale offre generosamente il rifugio alla
sezione Monte Rosa, che in cambio s’impegna a tra-
sformarlo nell’arco di un anno rivestendolo in pietra.
Nel 1939-40 viene costruita una nuova struttura da
86 posti letto; nel 1972 è quasi raddoppiata con 146
posti e un ultimo ampliamento, nel 1984, porta la sua
capienza massima a 160 ospiti. All’inizio degli anni
duemila il rifugio stava diventando desueto, era già
stato oggetto di numerosi ampliamenti e la sua orga-
nizzazione e l’uso erano ormai complicati e poco ra-
zionali.
L’anno 2005 è segnato dal 150° anniversario della
Scuola politecnica federale (ETH) di Zurigo. Oltre a
organizzare numerose manifestazioni in occasione
della ricorrenza, l’ETH investe in progetti di ampio
respiro che intendono dimostrare la sua leadership
nella ricerca scientifica, tecnica e architettonica.
L’ETH apprezza in modo particolare le grandi sfide,
e la costruzione del nuovo rifugio del Monte Rosa,
collocato su un sito unico nel suo genere, lontano da
qualsiasi forma di civilizzazione e da fonti di approv-
vigionamento di energia, era proprio una di queste.
L’obiettivo dell’ETH in collaborazione col CAS, era di
rendere il progetto rappresentativo dei propri indirizzi
di ricerca; un’opera capace di aprire prospettive future
e di durare nel tempo, sia a livello energetico sia eco-
logico. Il rifugio doveva essere innovativo nell’idea di
progetto e nelle tecniche utilizzate, in modo da dare
LA NUOVA MONTE ROSA HÜTTEALLA PROVA DELL‘USO
Nuova Monte Rosa Hütte al ghiacciaio del Gorner (Zermatt, Svizzera, 2883 m)
64
nuovo respiro all’ambito della costruzione. La sezio-
ne Monte Rosa, proprietaria del rifugio, e il CAS, uni-
ti nell’apertura all’innovazione, si sono associati per
portare a termine questo progetto ambizioso.
Il progetto architettonico del nuovo rifugio è stato ela-
borato dagli studenti del Dipartimento di Architettura
dell’ETH, sotto la supervisione del professor Andrea
Deplazes (studio Bearth & Deplazes). Il rifugio è sta-
to costruito tra l’agosto 2008 e il settembre 2009. Un
tempo così breve per la costruzione di un nuovo rifu-
gio è il risultato di rigorosissimi studi preliminari e di
una fase preparatoria finalizzata alla prefabbricazione
di tutti gli elementi dell’edificio. I trasporti sono stati
effettuati in treno, mentre nella tratta finale del tra-
sporto e nel montaggio è ovviamente subentrato l’eli-
cottero. Il rifugio ha aperto il 26 settembre 2009 ed è
stato inaugurato ufficialmente nel luglio 2010.
Edificio modello o limite?Il processo di progettazione e realizzazione è consi-
derato un modello per la costruzione di edifici di qua-
lità in un ambiente ostile. Lo studio di ogni soluzione
nei minimi dettagli prima della costruzione e l’elevato
grado di prefabbricazione degli elementi ha consenti-
to di evitare scelte improvvisate in cantiere. Il contri-
buto dell’ETH è stato fondamentale in questa fase di
pianificazione e sarebbe stato impossibile realizzare il
rifugio senza il loro supporto.
La forma complessa del rifugio non è dettata soltanto
da esigenze estetiche ma è anche frutto di un proces-
so di ottimizzazione del rapporto tra volume e super-
ficie per diminuire le dispersioni di calore e migliorare
la resistenza al vento. La pianta centrale consente di
raggruppare i locali di servizio e la distribuzione nel
nucleo dell’edificio e di adibire la zona in prossimità
delle facciate alle camere e alla scala “scenografica”
che caratterizza il percorso verticale. Dal punto di vi-
sta della costruzione e dei materiali è stata prestata
grande attenzione alle problematiche connesse all’e-
nergia grigia e alla provenienza dei materiali utilizzan-
do quelli di riciclo (come la lana di vetro), di provenien-
za locale (come il legno) e di produzione a “km zero”
(l’alluminio è prodotto nel Cantone Vallese).
Dal punto di vista energetico il rifugio è stato pensa-
to per garantire la massima autonomia. La priorità
è stata data all’energia solare e a un approvvigiona-
mento attivo piuttosto che passivo. La facciata sud è
interamente coperta di pannelli fotovoltaici in modo
da produrre il 90% dell’energia necessaria al proprio
funzionamento. Solo il 10% del consumo, quello della
cucina, è coperto dal gas.
Il rifugio è dotato di un impianto di riscaldamento ad
aria che utilizza l’acqua dei sensori termici. L’acqua
riscaldata nei pannelli riempie i boiler. L’acqua riscal-
data nei pannelli passa in uno scambiatore e rilascia il
proprio calore all’aria che viene distribuita da un ap-
parecchio di ventilazione.
Tutti gli apparecchi sono concepiti per limitare il con-
sumo d’acqua, mentre le acque reflue che possono es-
sere recuperate sono poi impiegate per alimentare lo
scarico degli sciacquoni.
Tutto questo complesso sistema impiantistico è con-
trollato da un software che consente il pilotaggio dei
sistemi in base alle previsioni meteorologiche e al nu-
mero dei visitatori. Il rifugio garantisce inoltre un otti-
mo livello di comfort grazie ai dormitori, che contano
solo 8 cuccette ciascuno e sono facilmente accessibili
e ben ventilati. È stato inoltre sviluppato un sistema di
prenotazione on-line che consente di gestire con faci-
lità l’accoglienza.
Nuova Monte Rosa Hütte al ghiacciaio del Gorner(Zermatt, Svizzera, 2883 m)
65
La frequentazione durante i primi tre anni è stata, an-
che grazie a queste caratteristiche, ampiamente al di
sopra delle aspettative e il rifugio è diventato un pun-
to di riferimento per quanto riguarda la ricettività in
alta montagna.
Il rifugio Monte Rosa può essere però analogamente
considerato un “limite”. Innanzitutto non si tratta di un
prototipo in quanto tutte le tecnologie sono già sta-
te adottate altrove. La novità – ed è in questo senso
che può essere considerato un prototipo – è che per
la prima volta vengono tutte concentrate assieme in
un unico edificio in alta quota facendolo diventare una
macchina estremamente complessa. Le interazioni
tra le diverse tecnologie compresenti sono infatti nu-
merose e il loro utilizzo richiede risorse considerevoli,
obbligando il gestore a diventare un tecnico, a disca-
pito della sua funzione primaria che sarebbe quella di
accogliere gli alpinisti e gli escursionisti.
Inoltre, a causa di una sovraesposizione mediatica, la
nuova capanna Monte Rosa è stata meta di flussi di
escursionisti curiosi di visitarlo e di trascorrere una
notte in quello che viene considerato “il rifugio” delle
Alpi per eccellenza. In questo senso si può parlare di
vero e proprio turismo di massa, di marketing della
montagna, dove i valori del Basso hanno contaminato
l’Alto. Ciò a conferma di un fenomeno già percepito nel
caso di altri rifugi ma di cui non si era ancora piena-
mente consapevoli.
Questo imprevedibile flusso turistico ha naturalmen-
te avuto un notevole impatto sulla struttura. Innan-
zitutto si sono verificati consumi d’acqua più elevati
del previsto (fino a 4.000 litri al giorno!) sollecitando
inoltre l’impianto di depurazione oltre le sue possibi-
lità. A ciò si aggiunge naturalmente un aumento del
consumo di energia elettrica – non rendendo più suf-
ficiente l’energia solare – un aumento della quantità
di gas necessaria per la cucina, della quantità di rifiuti
da evacuare a valle, dei voli in elicottero per l’approv-
vigionamento del rifugio, delle spese di gestione del
gestore e dunque un aumento inevitabile dell’impatto
ambientale.
Le sfide del domaniA valle di questa esperienza, le domande da porsi ri-
guardano che tipo di rifugio vogliamo mettere a di-
sposizione, quale clientela ospitare, che genere di ac-
coglienza offrire e che livelli di comfort è opportuno
raggiungere. Le sezioni e i club alpini si devono adat-
tare alla clientela costruendo dei rifugi sempre più
confortevoli ed “energivori”, oppure sono i visitatori
che si devono adattare all’offerta e accettare il fatto
che il rifugio non sia la trasposizione di ciò che si trova
in pianura?
Come oggetto di studio e riflessione, il senso di un ri-
fugio è difficile da afferrare. Ciascun rifugio è un mon-
do a sé, con le sue peculiarità in termini di sito, acces-
so, gestione, utenza, spazi, architettura e materiali. È
quindi difficile fare delle generalizzazioni. Un rifugio
rimane innanzitutto un luogo di convivialità con dei
dormitori, un refettorio comune con delle panche e
vista sulla cucina. Si tratta in sostanza di una struttu-
ra comunitaria in cui è fondamentale l’interazione tra
il rifugista – che ci vive e abita ma per cui il rifugio
è anche il luogo di lavoro – e gli ospiti che vengono
durante il loro tempo libero e vi soggiornano solo per
brevi periodi.
Dal punto di vista umano è dunque importante ricali-
brare i rifugi montani sulla centralità dell’uomo, sulla
convivialità, sulle relazioni tra l’utenza e il gestore e
fare della qualità dell’accoglienza una priorità, ritor-
nando ai valori fondamentali dei rifugi montani, adat-
tandoli alla nostra società.Nuova Monte Rosa Hütte al ghiacciaio del Gorner(Zermatt, Svizzera, 2883 m). Foto Giorgio Masserano
66
Dal punto di vista ambientale significa fare delle scel-
te, anche più radicali, volte al risparmio energetico e
alla riduzione dell’impatto sul territorio. Prevedere
ad esempio le docce solo se l’approvvigionamento
dell’acqua è sufficiente o solo per il personale del rifu-
gio e per le guide alpine oppure il WC senza impianto
di depurazione e senz’acqua, prevedendo un tratta-
mento separato di urine e feci.
Dal punto di vista tecnologico bisogna sottolineare
che l’alta tecnologia in materia di energie rinnovabili
non è per forza una garanzia di sostenibilità dal punto
di vista ambientale. Bisogna avere il coraggio di fer-
mare la spirale della rincorsa al rifugio sempre più so-
fisticato e magari prendere in considerazione anche
una possibile forma di decrescita.
L’approvvigionamento passivo dell’energia solare non
è stato esplorato perché costituisce un’incompatibilità
tra la realizzazione di un’ampia vetrata e le problema-
tiche legate al suo impiego in alta quota. Fatta ecce-
zione per il gas per la cottura dei cibi, il legno rimane
una fonte importante. È necessaria una sua integra-
zione in un sistema energetico coerente per il riscal-
damento e per la produzione di acqua dalla neve con
un sistema di recupero del calore. Il suo trasporto può
essere perfettamente integrato nei viaggi con l’elicot-
tero legati alla gestione del rifugio. La tecnologia non
deve dunque essere un fine ma un aiuto intelligente
ed efficace. Non deve essere una complicazione per
il rifugista, né deve essere impiegata esclusivamen-
te per soddisfare le esigenze degli ospiti ma dovreb-
be essere commisurata e adattata alle specificità del
contesto di una struttura in quota.
In conclusione, la capanna Monte Rosa è ormai un
edificio modello e un importante punto di riferimen-
to nell’ambito dei moderni rifugi alpini ma l’alto grado
di complessità e i costi elevati fanno sì che non siano
possibili confronti. Probabilmente ci si è spinti al limi-
te e dunque nonostante la nuova domanda di mag-
gior comfort l’insegnamento che se ne trae è che la
semplicità e la praticità devono rimanere all’ordine del
giorno.
Philippe de KalbermattenCommissione centrale rifugi Club alpino svizzero
Nuova Monte Rosa Hütte al Ghiacciaio del Gorner(Zermatt, Svizzera, 2883 m)
67
Nilo PravisanoRappresento, in qualità di presidente, il Coordina-
mento nazionale dei gestori rifugi alpini ed escursio-
nistici appartenenti alle associazioni alpinistiche e ai
privati. Ci siamo riformati da poco. Abbiamo iniziato i
lavori del secondo coordinamento da un anno e rap-
presentiamo otto associazioni: due negli Appennini,
quella valdostana, piemontese, lombarda, trentina,
altoatesina, friulana e una parte dei veneti. Pertanto
sono rappresentati circa 400 rifugi che hanno trovato
sponda di parternariato in Federalberghi.
Volevo richiamare l’attenzione su alcuni punti di perples-
sità che in questo interessante convegno non ho visto
sviluppati, soprattutto in merito alla valutazione che ci
compete come associazione rifugisti, ovvero al rifugio
come ambiente faticoso di lavoro. Abbiamo visto sta-
mattina come il rifugio sia anche un luogo in cui si espri-
me la bellezza e la nostra passione (riprendo le parole di
Angelo Iellici). Alcuni aspetti però si presentano ancora
molto difficili poiché la nostra è una realtà multiforme e
molto differenziata. Per esprimere questa difficoltà, pro-
viamo a fornire un po’ di numeri.
Nell’arco alpino e negli Appennini più o meno si contano
1.800 strutture appartenenti alle associazioni alpinisti-
che (tra rifugi del CAI, del CAF, del CAS, rifugi tedeschi
austriaci e sloveni). Si dimentica una grossa realtà. In
Italia la maggior parte delle strutture gestite appartiene
a privati o a strutture che non appartengono alle asso-
ciazioni alpinistiche (comunità montane, comuni e varie
entità), per cui arriviamo a circa 2.800 realtà e in Italia a
non meno di 1.500. In questo senso abbiamo una gran-
de difficoltà sia per differenze territoriali geografiche (il
Trentino è molto diverso dal Gran Sasso, la Val d’Aosta è
molto diversa dalla Carnia) e troviamo ancora delle gros-
se contraddizioni per le quali io vorrei lanciare una solle-
citazione in questo convegno.
Si è parlato poco fa di un quadro di 60 normative: ecco
che la mia passione di rifugista finisce sotto i tacchi. Ho
molta paura di quelle normative, quando non chiarisco-
no la chiave di distinzione fra le strutture di quota, volte
a supportare le esigenze del turismo alpino, e le strutture
di valle (oppure urbane), tese a risolvere ben diverse esi-
genze di ricettività.
Ma non temiamo tali norme, se danno modo di affrontare
una politica di professionalizzazione e di formazione dei
miei colleghi, tale che possa garantire al nostro ambito di
lavoro anche una forza economica che lo faccia soprav-
vivere, nonché spunti di crescita e confronto degli opera-
tori; perché se il gestore a fine giornata o stagione non ha
la dignità di avere un reddito, non c’è speranza di avere
le risorse né per la logistica immediata del rifugio né per
seguire tutti i costi delle normative, cui si aggiungono gli
oneri di corsi e adeguamenti da ripetere periodicamente.
Conseguentemente, le associazioni rifugisti e il Coordi-
namento sono operativi per organizzare corsi tematici e
iniziative promozionali, oltre che per armonizzare ai vari
livelli gli aspetti di criticità vessatoria.
Il carico di lavoro è spesso insostenibile, soprattutto per
la logistica dei rifugi alti, per via di mille adempimenti e
mille fatiche quanto alla differenziazione dei rifiuti e il loro
conferimento a valle, quanto alla gestione dell’acqua dei
reflui, quanto alla frustrazione di vedere testare nelle no-
stre strutture delle apparecchiature assolutamente all’a-
DIBATTITO
68
vanguardia delle quali non si valuta fino in fondo l’im-
patto ambientale (può essere solo la temperatura o solo
il disuso di otto mesi di chiusura stagionale), il cui carico
viene imputato al gestore.
Sapete per scherzare che cosa diciamo noi di una pecu-
liarità del nostro lavoro? Che con una mano prepariamo
canederli e con l’altra misciamo reflui. La capacità del ge-
store del rifugio è esattamente quella di portare via i resti
della presenza delle persone all’interno della sua strut-
tura. Pagare sulla sua persona questa forma di “giocat-
tolazione”, ovvero di far sembrare la struttura semplice,
gradevole alla vista. Al suo interno però la tecnologia è
importante quanto difficile da mantenere, e qualche volta
non esprime le esigenze di funzionalità che il nostro tem-
po di lavoro ci consente. A questo manca pertanto una
maggiore possibilità di discussione tra gli interlocutori.
Vorremmo parlare di più ad esempio con le associazioni
alpinistiche che, se non rappresentano la maggioranza
delle proprietà, ne rappresentano la maggioranza relati-
va che determina il comparto, in quanto il resto delle pro-
prietà è molto frammentato e non fa rete.
Quando un club alpino esprime una normativa o una po-
litica di prezzi, evidentemente s’impone sul mercato con
dei meccanismi che vanno a incidere sul territorio con
interlocutori e operatori che con quella normativa non
avrebbero nulla a che fare ma alla quale sono costretti ad
adeguarsi, pena il rimanere fuori mercato. Il gioco diven-
ta pesante, in questa doppia posizione nella quale il CAI
centrale rappresenta un ente di diritto pubblico, mentre
le sezioni proprietarie delle strutture rappresentano delle
proprietà di diritto privato; il gestore si trova così in mez-
zo a questa forbice divaricata dove il proprietario mate-
riale aumenta sempre più la forbice degli affitti. Eppure il
CAI centrale propone una politica sempre più stretta per
ovvi motivi di adesione.
Ricordo con un sorriso amaro l’operazione fatta sui gio-
vani fino ai 18 anni con pernotti di 5,5-6 euro, lo ricordia-
mo, non hanno portato affatto a una politica di sviluppo
della gioventù nelle nostre strutture; hanno solamente
chiesto ai gestori che già pagano esosi affitti (siamo a
una media di 2-3.000 euro al mese in Italia) un ulteriore
sforzo, a fronte di prezzi che non permettono di affron-
tare con serenità un programma di tutela lavorativa e di
formazione del personale. Senza la plausibilità economi-
ca il progetto qualità è impossibile da praticare. Senza le
risorse il gestore non può investire nelle strutture. Senza
le risorse non sono plausibili gli affitti che ci vengono ri-
chiesti.
Io provengo dalla regione del Nord-Est, dove si regi-
stra un turnover di gestori del circa 15% ogni stagione.
Questo vuol dire che il mio lavoro come coordinatore
nazionale è difficilissimo.
I gestori che se ne vanno sono immediatamente so-
stituiti in virtù della bellezza del territorio, delle mo-
tivazioni facili da trovare perché è bello stare in mon-
tagna. È bello vedere dei ragazzi appassionati ma è
brutto vederli andarsene dopo due anni con il taccu-
ino vuoto. È questo che sta succedendo in molti dei
nostri rifugi più problematici.
Samuele ManzottiRiprendo il progetto di concorso per il bivacco in Valle
Camonica perché lo conosco abbastanza bene essendo
io lombardo; muovo ora le stesse critiche che ho già fatto
in commissione lombarda anche se Enrico Villa [membro
della Commissione regionale rifugi, deceduto in monta-
gna nell’ottobre 2013; n.d.r.] non le ha recepite diretta-
mente.
Io sono rappresentante del CAI nella reciprocità. Inter-
nazionalmente, come UIAA, i bivacchi sono riconosciuti
solo con otto posti letto.
In questi ultimi anni mi è capitato di essere correlatore di
alcuni studenti che hanno progettato strutture le quali
sarebbero potute diventare bivacchi. Li ho tutti corretti.
Non obbligatoriamente il bivacco deve esser di otto posti
ma storicamente i bivacchi del CAI sono sempre stati da
sei. Successivamente alcuni sono diventati da otto tant’è
che nel conteggio di quelli che noi diamo e riceviamo si
contabilizzano soltanto i bivacchi da otto posti. In Italia ce
ne sono parecchi.
Inoltre sono molte le richieste che arrivano in commissio-
ne centrale da parte di diverse sezioni: chiedono la possi-
bilità di sostituire i loro bivacchi e un indirizzo per poten-
ziare le strutture. Questa potrebbe essere l’occasione per
dare un’immagine nuova, per poter sostituire quelli che
lo necessitano.
69
Il secondo mio argomento riguarda l’intervento di Nilo
Pravisano.
Io sono qui come rappresentante del CAI e quindi non
ho il potere decisionale dei vertici. Prometto però di
portare questo vostro richiamo in sede centrale e vi
chiederei anche di farci pervenire un documento, una
nota, in maniera tale da poterne parlare concretamen-
te. Potrebbe essere utile un incontro anche se la cosa
non è molto facile. Purtroppo il CAI consta di un insie-
me di soci che hanno diritti che noi dobbiamo cercare
di assecondare.
Alberto WinterleRispetto a quanto illustrato da Mathieu Vallet in re-
lazione al rifugio Benevolo, credo che, rispetto alle
imposizioni normative a volte inapplicabili per un ri-
fugio, il nostro impegno dovrebbe essere volto alla
modifica delle normative e non all’assurdo adegua-
mento dei rifugi a parametri definiti per strutture ri-
cettive generiche.
È sicuramente urgente e opportuno alleggerire l’ap-
parato normativo per la realizzazione dei rifugi. Per
fare un esempio concreto relativo ai parametri ener-
getici, ritengo assurdo imporre coibentazioni con alte
prestazioni per strutture che durante l’inverno non
sono utilizzate, se non come semplice riparo.
Per la ristrutturazione del patrimonio esistente, nel
caso di strutture che non rispondono più a determi-
nate esigenze funzionali, è possibile intervenire modi-
ficandole senza costruire falsi storici ma agendo con
lo stesso coraggio con cui costruiamo il nuovo.
Vi possono essere esempi avanzati come la Monte
Rosa Hütte, che tra l’altro pur essendo particolarmen-
te innovativa sia dal punto di vista linguistico che tec-
nologico, è stata molto apprezzata, o anche soluzioni
più semplici e modeste.
Ciò che ritengo comunque fondamentale è che qualsi-
asi tipo d’intervento dev’essere affrontato con la con-
sapevolezza che un rifugio non è un semplice riparo
né una banale struttura tecnica; è una costruzione che
rispecchia la nostra cultura e il nostro modo di ap-
procciarsi con la montagna.
Pino ScaglioneEsiste un altro atteggiamento che oggi sta prendendo
piede nel dibattito sul cosa fare dei nostri edifici nelle no-
stre città. Un po’ di tempo fa a Riva del Garda il consorzio
Habitec ha organizzato un seminario nazionale in cui ha
dimostrato che ci sono milioni di metri cubi da utilizzare
e da riciclare nei prossimi anni. Credo che la stessa cosa
possa valere per i rifugi. A novembre dello scorso anno
il MAXXI di Roma ha inaugurato un’interessante mostra
intitolata “Re-cycle”. Ne è scaturito – ne parlo da docen-
te universitario – un progetto Prin che vede coinvolte
oggi dodici università italiane, impegnate a lavorare su
nuovi cicli di vita per edifici, pezzi di città, infrastrutture.
Quindi non c’è nessun preconcetto di natura progettua-
le sul tema demolire o ricostruire. Faccio solo però una
precisazione: quanto costa dal punto di vista energetico
riscaldare quel vecchio edificio? Quanto costa una per-
formance energetica di un vecchio edificio e quanto costa
la Monte Rosa-Hütte? Sono due elementi opposti in cui
la vittoria va al versante svizzero-francese. Quanto costa
oggi riformare un edificio e portarlo a una performance
di classe B? Vale la pena rispetto all’introito finanziario?
Esiste inoltre un problema di natura estetica. La tanto de-
cantata sostenibilità non è solo un problema di processo.
Non si tratta solo di mettere quattro pannelli fotovoltai-
ci, due pale eoliche e rendere l’edificio più performante
energeticamente. Si tratta di rendere sostenibile un inte-
ro percorso che da questo momento in poi ci obbligherà
ad avere stili di vita differenti. Siccome sinora abbiamo
costruito orrori e brutture, perché dobbiamo continuare a
costruire così? Possiamo permetterci di costruire cose di
qualità architettonica con un valore estetico straordinario
ed è quello che porta (lo dimostrano i numeri svizzeri) i
visitatori da 4.000 a 15.000.
Philippe de KalbermattenNon voglio ora parlare da “committente” della Monte
Rosa Hütte bensi da responsabile dei quattro rifugi ap-
partenenti alla sezione del Monte Rosa. In particolare,
m’interessa riprendere il tema del rifugista. Constato che
in Italia non c’è il medesimo ordinamento ovunque, ma
suggerisco quello da noi adottato. In Svizzera abbiamo
70
uniformato a livello contrattuale il rapporto con il rifugi-
sta, il quale ci versa una percentuale dei suoi guadagni;
quindi diventa egli stesso un imprenditore e non più un
impiegato del CAS. Il mio ruolo riveste allora anche la na-
tura di un supporto quasi psicologico, sicuramente molto
umano, al fine di sostenere una persona che può trascor-
rere anche lunghi periodi isolato, considerando che i rifu-
gi della sezione Monte Rosa sono aperti anche durante la
stagione scialpinistica.
Mathieu ValletIn Valle d’Aosta si è tutti degli imprenditori. Noi affit-
tiamo dei rifugi che appartengono o ai privati o al CAI
ma si è tutti degli imprenditori. Per certi rifugi bisogna
però cominciare a ragionare sulla possibilità di un im-
piego fisso.
Per esempio il rifugio Boccalatte alle Grandes Joras-
ses non è sorvegliato in quanto non c’è una conve-
nienza economica; tuttavia, sarebbe utile che vi fosse
un guardiano stipendiato.
Per tornare al discorso energetico, condivido appieno
quanto è stato detto prima.
Il vantaggio che il rifugio Benevolo trarrà una volta ri-
strutturato raggiungendo la classe B è il fatto che noi
disponiamo di una quantità d’acqua abbondante. Questa
consentirà l’installazione di centrali idroelettriche e gene-
ratori micro che soddisferanno i fabbisogni.
Credo che una ricetta universale non esista. Bisogna
valutare caso per caso e scegliere la giusta soluzione da
portare avanti in base alle singole sensibilità.
Giorgio AzzoniLa chiave è cambiare gli stili di vita – è evidente – e
deve diventarlo sempre più.
Non so esattamente quali temperature debba man-
tenere un rifugio ma è evidente che, anche dal punto
di vista educativo (non mi riferisco agli alpinisti bensì
a chi sale per vedere il paesaggio), bisogna avere la
consapevolezza che in alta quota non si può preten-
dere il comfort di casa propria.
È un cambio di mentalità che s’impone e questa so-
brietà deve diventare un luogo comune. Per avere
un’esperienza vera bisogna rinunciare a qualcosa.
È giusto investire nella sicurezza ma ridurre il super-
fluo.
Stefano Testa Vorrei raccogliere i molti spunti e qualche elemento di
riflessione in merito al ruolo del bivacco e del rifugio.
Il contesto della montagna è sicuramente prezioso
nell’atto di costruire o ricostruire nel momento in cui
c’è una rarefazione di tutte le regole che ci accompa-
gnano nella vita di fondo valle.
C’è una natura che s’impone e abbiamo delle condi-
zioni ambientali molto estreme. Questa può esser
una sorta di palestra per sperimentare l’innovazione
tecnologica. Rispetto a ciò, penso che disquisire di ri-
qualificazione o demolizione/ricostruzione, così come
di tradizione e innovazione sia quasi sofistico. Sfido
chiunque a dare una definizione esaustiva di queste
parole.
Ogni momento storico ha le sue prerogative e si tratta
solo di capire che cosa è buono rispetto agli obietti-
vi. Bisogna comprendere qual è la modalità operativa
prima ancora di discutere su che cosa si debba tenere
o modificare. La questione ambientale sicuramente
oggi è essenziale e ridurre il peso, l’impronta di qual-
siasi azione è un obiettivo condivisibile.
L’ambiente è tartassato, è bisognoso di maggior at-
tenzione, lassù come nelle città in cui la maggior parte
di noi vive.
È interessante la dicotomia rifugio/bivacco perché mi
pare congeli una situazione storica non chiara tra rifugi
che diventano alberghi di lusso e bivacchi in cui si conta-
no i posti letto. Ma se consideriamo un bivacco di emer-
genza, che cos’è un posto letto? È un letto o è un tavola-
to? Anche in questo caso, a volte, ci si perde. In questo
senso il bivacco Gervasutti ne ha sostituito uno storico
che aveva nel suo progetto originale del 1954 una gran-
de innovazione: era un manufatto straordinario destina-
to a essere portato a spalla sul ghiacciaio del Fréboudze
che non è a una quota molto alta (sfiora i 3000 m) ma
71
è difficilmente raggiungibile. Allora venne pensata una
struttura in legno totalmente prefabbricata in moduli
preassemblati per un test a fondo valle e poi assemblati
in un contesto difficile su uno sperone roccioso esposto.
Poi quell’esposizione ha fatto sì che più volte il rifugio ve-
nisse distrutto dalle slavine. In realtà abbiamo scoperto
che il problema derivava da un accumulo di neve dovuta
da vento mostruoso. Quindi si è costruito qualcosa che
assomiglia nell’intento generale a ciò che fu costruito
nel 1954 ma che di fatto ha individuato una dimensione
d’uso diversa. Ha in comune con quello originale il fatto
di non avere un gestore presente sul luogo. Ovviamen-
te un gestore – remoto – ce l’ha (la SUCAI di Torino) ma
la dimensione, il numero di funzioni offerte è un po’ più
grande, va oltre quello di qualunque bivacco tradizionale.
Ci par di aver intuito che una riflessione sulla dimen-
sione di un punto di appoggio per la frequentazione
dell’ambiente alpino possa essere interessante ri-
spetto a un’attività escursionistica, alpinistica e a
volte di massa che deve ridurre il suo impatto sulla
natura. Oggi la scelta di gestire o lasciare incustodita
una struttura rimane molto importante per l’aspetto
del calore umano e dell’accoglienza, ma in termini di
gestione pratica può trovare molteplici soluzioni da
remoto che le nuove tecnologie forniscono anche lad-
dove l’impianto non è così complesso come la Monte
Rosa Hütte.
In realtà le stesse tipologie di controllo permettono a
una sezione del CAI che sta a chilometri di distanza di
avere sotto controllo quanto accade in termini di salu-
te di una struttura e del suo intorno.
Da questo punto di vista non ho sentito disquisire del
ruolo economico che il punto di appoggio può avere in
montagna. A mio parere se si escludono le zone bla-
sonate di grande frequentazione – che sono comun-
que minoritarie nell’ambito generale dell’intero arco
alpino -, oggi il punto di appoggio per un turismo a
basso impatto, con attenzione alla natura, ha un river-
bero sulla gestione di un territorio in cui sempre più
spesso il problema è l’abbandono del fondo valle.
In questo caso non è solo importante la gestione eco-
nomica della struttura ricettiva ma il suo significato in
un bilancio economico d’area in cui un’attività escur-
sionistica nuova può esercitarsi.
Luca Gibello Quando si parla di ricostruire sono assolutamente
d’accordo di dimostrarci artefici del nostro tempo, in
ossequio a uno zeitgeist; non possiamo certo rico-
struire pensando all’abbigliamento “tecnico” dei no-
stri predecessori alpinisti. Però dobbiamo riuscire a
mantenere lo spirito del rifugio che credo sia emerso
nella sessione di stamane. Si tratta di qualcosa di di-
verso rispetto all’ospitalità pur sempre di montagna
ma che si esperisce nelle vallate alpine.
Quanto al modo in cui si costruisce il nuovo, pur-
troppo non sono così ottimista come Pino Scaglione.
Fino a oggi molte cose le abbiamo costruite nuove ma
male. Ancora oggi per molti rifugi ex novo non vedo
quello spirito che un alpinista deve ritrovare. Lo trovo
nella Monte Rosa Hütte ma apprezzo molto Philippe
de Kalbermatten: non è venuto qui a dirci che è tutto
oro quello che luccica bensì è venuto a dirci che la so-
luzione sta nel mezzo, non sta nell’high tech (piutto-
sto nel right tech). E apprezzo molto Matteo Vallet che
dice: «Io arrivo al Benevolo e prenderei la motosega,
accenderei una bella pira e brucerei tutto»; poi sente
quanto ne pensano frequentatori e dice «forse è me-
glio riqualificare». Anche questo è zeitgeist.
Non sono invece molto d’accordo sul concetto di “Re-
cycle” applicato tout court ai fatiscenti rifugi. Quasi
tutti sono testimonianze culturali patrimoniali di va-
lore.
Pur sapendo che ne sono privi dal punto di vista ar-
chitettonico, bisogna tuttavia valutare caso per caso
se davvero quei rifugi non incarnano altri tipi di valori.
Allora solo a quel punto possiamo demolirli.
Perché qui a volte parliamo di veri e propri esemplari
che una volta demoliti non ci sono più. Al limite, si può
considerare l’ipotesi di conservarli come musei di se
stessi.
Per rimanere in Valle d’Aosta, porto il caso della storica
capanna Quintino Sella e dei Rochers del Monte Bian-
co. Costruita nel 1885, versa in condizioni pietose ma la
scocca di legno originaria è ancora quella quella origina-
ria, recante porta all’interno le incisioni degli alpinisti.
Il CAI Torino, proprietario, invece di optare per la sua
sostituzione, sta cercando i fondi per effettuare un’ope-
razione più sofisticata nonché filologicamente corretta:
72
smurare i blocchi di pietre che negli anni successivi l’han-
no rivestita al fine di applicare un cappotto ligneo e poi
ricollocare in opera i blocchi.
Così, il risanamento ambientale sarebbe garantito, per-
mettendo al contempo ai pochi frequentatori – ci trovia-
mo in un ambiente davvero selvaggio, lungo la prima via
italiana al Monte Bianco – di “dialogare” nel tempo con
tutti coloro che sono passati di lì.
Gino Baccanelli Questo convegno è molto interessante. Chi mi ha pre-
ceduto ha illustrato tecnologie eccezionali applicate
alle strutture in quota. Subito mi chiedo, vista la deli-
catezza di questi impianti, fino a quando possono du-
rare e quali costi comporta il mantenerli funzionanti.
Per la mia esperienza posso dire che a noi serve un
ambiente che consenta una gestione semplificata, per
dare un servizio essenziale e regolare ai nostri ospiti.
Colgo l’occasione per rilevare come le normative non
ci aiutino: noi abbiamo ancora una legge in Italia che
impone nei rifugi le porte antipanico. Quanto tempo
abbiamo impiegato per far capire ai funzionari dell’A-
SL che è un controsenso? Quando c’è una tormenta
di neve bisogna uscire dalla finestra! Abbiamo dovuto
mostrare delle fotografie (con l’accumulo di neve all’e-
sterno) affinché non si montassero.
Per quanto riguarda le volumetrie delle camere dei
rifugi dovrebbero essere quasi come nei treni letto:
da noi, come sui vagoni letto, si soggiorna per poche
notti. Le volumetrie devono essere ridotte, aumen-
tarle significa modificare la sicurezza di quel rifugio,
esporlo a valanghe, creare impatti ambientali esage-
rati. A volte basterebbe guardare alle opere di chi ci
ha preceduto. Il mio caso è emblematico: gestisco un
rifugio costruito nel 1992, posto su un dosso esposto a
tutte le bufere senza alcun isolamento, mentre i ruderi
del vecchio rifugio, costruito negli anni venti, era po-
sizionato in zona riparata e già aveva doppi muri d’i-
solamento. Ecco perché dico che il nuovo deve tener
conto del vecchio, dell’esperienza fatta dai nostri pa-
dri. Vogliamo parlare della captazione dell’acqua per il
rifugio? La procedura per la richiesta è tanto comples-
sa, lunga e costosa quasi come per una centrale idro-
elettrica; per noi in cima all’Adamello deve interveni-
re l’ufficio del magistrato del Po, l’acqua della conca
dove si trova il rifugio è appaltata per la produzione
di energia, per cui abbiamo dovuto trovare escamota-
ge per poterne captare il quantitativo necessario, con
aggravio di spese per un impianto di pompaggio più
a valle.
Mi rendo conto che sono un po’ fuori tema rispetto
l’argomento del convegno, ma mi preme comunicare
le nostre difficoltà: o cambiano le regole o noi in mon-
tagna non ci viviamo più. Una volta bastava il buon
senso. Si facciano delle leggi che siano adatte per la
montagna, per far sopravvivere la gente in montagna.
C’è un lavoro di cultura del risparmio delle risorse
naturali da portare avanti. (Riesce difficile convince-
re l’escursionista che ci si può far la doccia con 15 li-
tri di acqua, che non è necessario tenere tutte le luci
accese...). Per esigenze di sopravvivenza, di povertà
di risorse, il gestore del rifugio è da sempre più che
attento a uno sfruttamento ecosostenibile del territo-
rio. A volte la gente parla e non conosce; viene dalla
città e non riconosce il valore di quello che facciamo.
L’intenzione pare essere quella di venire a insegnare a
chi vive in montagna come gestire il territorio, appli-
cando modalità studiate per la pianura.
Contiamo che convegni come questo siano occasione
di confronto fra le esperienze collaudate e quelle inno-
vative, volte a migliorare la vita di chi sta in quota e di
chi la montagna la può godere solo nelle vacanze. Vi
ringrazio dell’opportunità datami di esprimere il pen-
siero di molti rifugisti.
Enrico Camanni Quest’ultimo intervento fotografa che in Italia la
montagna è una sconosciuta nella cultura naziona-
le. Tuttavia, al di là di questa triste constatazione che
accomuna la conclusioni di quasi tutti i convegni or-
ganizzati sul tema della montagna, oggi è emerso un
tema nuovo. Facendo un passo indietro, infatti, se ri-
percorriamo le vicende storiche, ci accorgiamo che la
prima frase di costruzione dei rifugi nella prima metà
73
del Novecento è stata spartana. Noi la valutiamo con
sguardo romantico ma per forza di cose quello era l’u-
nico modo con cui si poteva costruire. Quindi noi ab-
biamo proiettato una visione romantica su quella che
era una necessità assoluta. Non c’era scelta estetica
ma funzionale. Nel secondo dopoguerra, gli anni Set-
tanta e Ottanta sono stati i più disastrosi dal punto di
vista dell’impatto e della progettazione. Così come si è
costruito malissimo in molti centri invernali portando
il peggio della città in montagna così si è fatto per i
rifugi. Vi era l’idea che la modernità corrispondesse a
fare degli alberghi, delle cose grosse e lussuose. Come
si serviva il pesce a 2000 metri perché si pensava che
la gente cercasse di mangiare come a Rimini così si
facevano gli alberghi perché si pensava che la gente
cercasse questo in alta quota. Si andava a dissociare la
pratica della montagna. Pensate all’esperienza di uno
che raggiunge il rifugio sotto le Tre Cime di Lavaredo
con il pullman seguendo quella strada enorme che è
stata costruita. Non è un’esperienza di montagna...
Dall’incontro di oggi è emerso questo concetto fon-
damentale: sia che venga rifatto da capo, sia che lo si
conservi, il rifugio dev’essere – almeno per i prossimi
cento anni – il luogo della sperimentazione, in funzio-
ne del trasferimento delle esperienze.
La sperimentazione architettonica in alta quota può
avere ricadute etiche anche sulla città.
Se non riusciamo a farlo a 3000 metri non riusciamo
a farlo certamente a Torino, Milano, Venezia, Aosta o
in Valtournenche.
Il rifugio come palestra in cui si sperimenta l’austerità.
Non l’austerità stupida ma quella intelligente, medi-
tata. Rinunciamo a tutto quello che non ci serve. La
tecnologia dev’esser finalizzata a questo. Rifugi come
laboratorio di un modello di sviluppo che tra un po’
sarà necessario ovunque.
74
Nel settembre 2012, dopo tre stagioni di lavori in con-
dizioni estreme, il nuovo rifugio del Goûter ha aperto
le porte ai primi visitatori. Il più alto edificio abitato di
Francia lungo la via che porta alla sommità del Monte
Bianco, energeticamente autonomo grazie al solare, è
un concentrato di nuove tecnologie che porta a 3835
m d’altitudine i valori dello sviluppo sostenibile.
Se è possibile realizzare a queste altezze un edificio
simile, allora non ci sono ragioni per non costruirne
altri più in basso, in pianura, nelle valli e nelle città.
Situato sulle sporgenze vertiginose dell’Aiguille du
Goûter, il rifugio accoglie gli alpinisti per l’ultima tap-
pa prima della conquista del tetto delle Alpi. L’edificio
con struttura in legno e rivestimento metallico rap-
presenta una vera e propria sfida alle leggi della natu-
ra sul piano costruttivo e tecnico.
Il rifugio ospita 120 persone, ha una superficie cal-
pestabile di 720 mq rispettando così la standard per
persona stabilito dalla Federazione francese dei club
alpini di montagna (FFCAM) che è di 6 mq. L’edificio si
articola su quattro livelli: il piano terra costituito da in-
gresso, spogliatoio, dispensa e sala macchine, il primo
piano costituito dagli spazi condivisi, sala da pranzo
panoramica e cucina, il secondo piano che ospita in-
fermeria, dormitori e appartamenti del personale e il
terzo piano dove sono alloggiati i dormitori. Su cia-
scun piano i bagni dotati di lavandini e WC sono una
comodità molto apprezzata dagli alpinisti e dal perso-
nale.
Il disegno armonioso della facciata risponde innanzi-
tutto al compito d’inserire l’edificio in un sito protet-
to d’interesse europeo come il massiccio del Monte
Bianco. L’attenzione per tre aspetti fondamentali quali
la struttura, le tecniche di costruzione e le condizioni
meteorologiche ha portato a una pianta ellittica che ha
consentito la realizzazione di un ovoide perfetto. L’as-
IL NUOVO RIFUGIODEL GOÛTER AL MONTE BIANCO
Tavola rotonda/2. Come riqualificare, ampliare, ricostruire?
Nuovo rifugio dell’Aiguille du Goûter (Saint-Gervais-les-Bains, Francia, 3817 m). Foto a destra: Pascal Tournaire
75
se principale dell’ellisse è stato posizionato in direzio-
ne del vento dominante, proveniente da Ovest, al fine
di accelerare le masse d’aria sui fianchi dell’edificio e
generare un turbine sulla parte posteriore, facilitan-
do così il deposito naturale della neve sull’impianto di
fusione. Il guscio dell’edificio, realizzato con 128 lastre
trapezoidali o rettangolari a seconda del piano, è in
acciaio inox satinato. Come le pendici circostanti, l’in-
volucro s’illumina progressivamente in base al corso
del sole. Dal punto di vista strutturale, le fondazioni
sono concepite per consentire al rifugio di resistere a
venti anche superiori ai 300 km/h e si compongono
di 69 pali ancorati a una profondità media di 12 metri
su roccia dura. Fissato su questa struttura complessa,
il pavimento di base consiste in una griglia solida di
travi e d’impalcature orizzontali in lamellare incollato
di abete Douglas. La sua costruzione si è conclusa con
la fine della prima stagione del cantiere nell’ottobre
2010.
Cuore del progetto, la struttura in legno di abete, rap-
presenta un volume di circa 400 mc. Per contenere
le emissioni di anidride carbonica legate al trasporto,
il legno è stato tagliato nelle foreste limitrofe, in par-
ticolare nel sottostante Comune di Saint Gervais. La
struttura in legno lamellare e gli assemblaggi sono
realizzati tramite aste incollate con resine sigillanti, i
pavimenti sono costituiti da cassettoni cavi, leggeri
e facili da manutenere. L’isolamento delle facciate è
realizzato con pannelli di fibre di legno riciclato. Il ri-
vestimento è in acciaio inox satinato a basso potere
riflettente, mentre i serramenti esterni Velux sono do-
tati di tripli vetri con lamine di argon.
Il metodo costruttivo è basato su moduli prefabbri-
cati in laboratorio di dimensioni adatte al trasporto,
che sono stati assemblati sul sito come se fossero
dei mattoncini di Lego. La sfida più ardua è stata il
montaggio degli elementi trasportati con l’elicotte-
ro che non dovevano superare i 550 kg per limitare
i voli stazionari. Al termine dell’installazione l’utilizzo
dell’elicottero è stato ridotto del 30%. La realizzazione
delle facciate e della copertura ha segnato la fine della
seconda tappa del cantiere nel novembre 2011.
Il rifugio è stato concepito per funzionare in totale
autonomia grazie alla massimizzazione delle risorse
e delle energie disponibili ed è stato certificato HQE
(Haute Qualité Environmentale – Alta qualità am-
bientale). L’energia termica, destinata alla produzione
di acqua calda ottenuta con appositi macchinari di fu-
sione della neve, proviene da 50 mq di pannelli sola-
ri termici, mentre l’elettricità è prodotta da 95 mq di
pannelli solari fotovoltaici disposti sulla facciata e sul
tetto del rifugio. Un impianto di cogenerazione a bio-
massa funzionante con l’olio di colza viene utilizzato
come gruppo di emergenza per la produzione ter-
mica ed elettrica. Il trattamento dell’aria è assicurato
da un sistema di ventilazione a doppio flusso ad alto
rendimento. Il flusso varia automaticamente in base
al numero dei visitatori. Associato al rivestimento al-
tamente isolante dell’edificio, tale dispositivo consen-
te di soddisfare i bisogni termici per il riscaldamento
del rifugio utilizzando di fatto il calore emanato dagli
ospiti stessi.
La depurazione dell’aria è stata una delle questioni più
complesse da progettare tenendo conto dell’altitudi-
ne e della scarsità d’ossigeno (40% in meno rispetto
al livello del mare). Dotati di un sistema di deflusso
per depressione, i servizi igienici usano soltanto 1,2
litri d’acqua per ciascuno scarico dello sciacquone.
Nuovo rifugio dell’Aiguille du Goûter (Saint-Gervais-les-Bains, Francia, 3817 m)
76
La tecnologia del trattamento utilizzata è quella dei
sottomarini: aspirazione sottovuoto dei WC, tratta-
mento biologico, ossigenazione e filtrazione a mem-
brana, passaggio su carboni attivi e trattamento con
raggi UV che consente il riciclo dell’acqua dei WC e
degli orinatoi e lo scarico nella natura di acqua priva
di batteri. L’unica eccezione al principio delle fonti rin-
novabili è una riserva di gas utilizzata in cucina per la
cottura degli alimenti e un supplemento di nafta per il
cogeneratore.
Costruire un edificio di tali dimensioni, con tecnologie
d’avanguardia, richiede un committente visionario,
degli architetti e ingegneri competenti e creativi, degli
operai specializzati volitivi e appassionati e ciò contri-
buisce a fare di questa esperienza una vera e propria
avventura umana.
L’altitudine rende gli uomini vulnerabili, forgia l’ami-
cizia e nobilita la volontà. Il rifugio del Goûter diventa
così una di quelle opere emblematiche e unificatrici
che segneranno la storia.
Hervé DessimozStudio Groupe H
Thomas BuchiStudio Charpente Concept
Nuovo rifugio dell’Aiguille du Goûter (Saint-Gervais-les-Bains, Francia, 3817 m)
77
Obiettivo di questo intervento è fornire un bilancio sul
nuovo bivacco Gervasutti a due anni dalla sua instal-
lazione, avvenuta nell’estate del 2011, senza entrare
nel merito della sua iconicità architettonica che ha
portato disparati media – anche lontani da quelli spe-
cialistici – a occuparsene diffusamente.
Innanzitutto, una delle principali peculiarità del bivac-
co è data dallo straordinario ambiente che lo ospita:
il bacino glaciale del Fréboudze in Val Ferret (Cour-
mayeur), sotto il versante est delle Grandes Jorasses.
Una zona tradizionalmente poco frequentata, ancora
selvaggia e dal grande valore paesaggistico all’inter-
no dell’invece trafficatissimo comprensorio del Monte
Bianco, “parco giochi” alpinistico tra i più noti al mon-
do. Nonostante sia uno dei temi più dibattuti, l’impat-
to ambientale della struttura risulta sostanzialmente
irrisorio, figurando come un punto impercettibile
dalla difficile individuazione all’interno del contesto
complessivo; i suoi colori appariscenti sono stati in-
fatti scelti appositamente per una facile identificabili-
tà da parte dei visitatori in caso di maltempo.
L’operatività tecnica del nuovo bivacco è simile a quel-
la delle nuove e più avanzate costruzioni d’alta quota
del panorama alpino; trattandosi però di un edificio
di piccole dimensioni, la cui frequentazione libera e
gratuita non genererà mai profitto rispetto all’inve-
stimento del proprietario (il CAI sezione di Torino –
scuola di scialpinismo SUCAI), la contrazione estrema
di costi e tempi è stata fattore imprescindibile lungo
tutto l’iter dalla progettazione al completamento in
sito. Uno dei maggiori discriminanti nella produzione
di un simile oggetto architettonico risiedeva poi nel ri-
uscire a coniugare adeguatamente le possibilità della
tecnica (in termini di sviluppo sostenibile ed energia,
ormai praticamente senza limiti) e la propensione o la
possibilità nell’investire le risorse disponibili in obiet-
tivi virtuosi, rispetto ad altri più legati alla gestione
economica nel tempo di ciò che si va a realizzare.
La passione generatasi intorno a un tema così intrigante
ha dimostrato di essere il collante e il motore di molti e
generosi approcci al progetto durante tutto il lungo lavo-
ro di ricerca. Tale percorso d’indagine e riflessione tec-
IL NUOVO BIVACCO GERVASUTTI,UN PRIMO BILANCIO
Nuovo bivacco Giusto Gervasutti al Fréboudze(Courmayeur, Aosta, 2835 m). Foto Francesco Mattuzzi
78
nica ha partorito infine una struttura in sandwich com-
posito di vetroresina e PVC, sofisticata oltre il livello della
nautica da competizione; la costruzione risulta composta
di cinque anelli modulari prefabbricati, completamente
allestiti a valle, assemblati in due giorni di lavoro in quota,
connessi e funzionanti immediatamente dopo. A ulterio-
re conferma che il leitmotiv della ricerca – nonché prin-
cipale fonte di complessità – è stata la costante tensione
verso il riduzionismo e verso la sintesi nella semplifica-
zione, uno dei maggiori fini perseguiti è stata la massima
limitazione del numero di rotazioni di elicottero, impor-
tante fattore di costo e d’impronta ambientale, soprat-
tutto in un cantiere nel comprensorio del Monte Bianco,
dove i voli in elicottero sono vietati se non necessari.
Proseguendo con il bilancio, si può affermare che
dopo due inverni in condizioni d’innevamento pro-
banti la verifica strutturale sia superata con successo:
la situazione ambientale del versante è praticamente
sconosciuta e difficilmente monitorabile in inverno,
quando l’accumulo nevoso lo rende pressoché inac-
cessibile. La neve che scende spinta dal vento dai
versanti soprastanti provoca infatti straordinari ac-
cumuli che formano un unico “lenzuolo” di 2.000 m
di sviluppo che scivola e spinge verso il fondovalle; la
capanna originaria molte volte è stata infatti distrutta
o danneggiata sotto l’effetto dello scivolamento o di
valanghe. Il nuovo bivacco, la cui forma e disposizio-
ne sono state ottimizzate in relazione alla resistenza
meccanica, si colloca come prosecuzione ideale della
dorsale spartiacque del versante, ponendosi perpen-
dicolarmente alla parete e discostato dal terreno, an-
dando così a sgravarsi delle azioni di spinta prepon-
deranti del manto nevoso in scioglimento.
Le alte performance tecniche della struttura travalicano
la concezione di protezione primaria rappresentata per
antonomasia dal bivacco, e arricchiscono la permanen-
za dell’utilizzatore di una serie di comfort e funzionalità
permesse dalla produzione e dallo stoccaggio locale di
energia elettrica attraverso l’impianto fotovoltaico, for-
nito di batterie ecologiche sperimentali; in particolare la
dotazione conta una piastra di cottura elettrica (pertan-
to non una fiamma libera, fonte di pericolo e di consumo
d’ossigeno), un sistema di ricambio d’aria semi-mecca-
nizzato, luce elettrica, un PC per il monitoraggio e la ge-
stione degli impianti, dotato di connessione satellitare a
internet. Quest’ultimo strumento risulta molto utile sia
al fruitore che al gestore (sebbene non esista un custode
permanente, la cura dell’edificio è affidata a un gruppo di
persone), che grazie a un sistema di controllo remoto di
autodiagnosi interna viene informato sullo stato di sa-
lute della struttura e dei suoi impianti, oltre che sui dati
ambientali locali, disponibili sempre e a distanza. Grazie a
questo utilizzo della tecnologia nell’ordine della semplifi-
cazione del lavoro umano, conoscendo in anticipo le ne-
cessità dell’edificio, gli interventi di manutenzione diven-
tano così mirati, organizzabili e di conseguenza molto più
economici e veloci. È bene infatti ricordare che l’impianto
lavora completamente in modalità stand-alone come da
definizione per un bivacco non custodito. L’affidabilità del
sistema isolato è pertanto la più importante nonché la più
Nuovo bivacco Giusto Gervasutti al Fréboudze(Courmayeur, Aosta, 2835 m). Foto Francesco Mattuzzi
79
difficile caratteristica da conseguire: quando si affronta-
no problematiche di questo genere l’aspetto maggior-
mente delicato e difficile da ottimizzare è la messa a pun-
to di una formula combinatoria per cui funzioni l’insieme
di tante tecniche, soluzioni e tecnologie. Per quanto con-
solidate e note, esse non sono di fatto quasi mai concepite
come dialoganti con gli altri fattori del sistema, tanto più
in un oggetto singolare e fuori dai comuni canoni: ciascu-
na filiera è molto attenta a sviluppare esclusivamente il
proprio sistema senza interfaccia con l’esterno, andando
a definire un problema di ordine propriamente merceolo-
gico. È al contempo vero che rispetto ad un tradizionale
ricovero come semplice involucro, una struttura di tale
complessità tecnologica implica un cospicuo numero di
variabili da monitorare e mantenere in efficienza; tuttavia
è necessario considerare anche che ormai tutti i frequen-
tatori della montagna sono abituati a un livello di dotazio-
ne tecnologica in termini di attrezzatura e abbigliamento
che non è lontanamente paragonabile a quello dei gusci
spartani concepiti decine di anni fa: la contemporaneità
dell’edificio è quella che già concretizziamo tutti i giorni
in montagna in prima persona.
Il grande volume di lavoro svolto per il Gervasutti
– sicuramente sovradimensionato rispetto all’esi-
to, perlomeno quantitativo – è concepito per essere
opportunamente proseguibile. LeapFactory ha infatti
portato avanti un’intensa ricerca progettuale con l’in-
teresse di sviluppare una serie di modalità, sistemi,
infrastrutture e soluzioni di vario genere e risposte
a molteplici problemi propri degli ambienti naturali
(nella fattispecie quello montano, in quanto buon la-
boratorio di sperimentazione), in modo da proporre
soluzioni facilmente declinabili e utilizzabili per indi-
viduare al meglio possibili cambiamenti nelle moda-
lità di costruire e trasformare la realtà che ci circonda.
In tal senso, con sistemi costruttivi simili e imple-
mentati rispetto a quelli adottati per il Gervasutti, nel
settembre 2013 è stata completata, a oltre 4000 m
d’altitudine, la stazione alpina LEAPrus per la salita al
Monte Elbrus, un isolato ed esposto vulcano spento
dalla conformazione di conoide detritico, alto 5642
m, all’interno della catena del Caucaso, in Russia me-
ridionale. La soluzione tecnica della prefabbricazio-
ne totale è stata scelta per la necessità ineludibile di
agire in tempi molto brevi e avere la certezza assoluta
del risultato a livello funzionale. In un’area geografica
remota a tale altitudine e in condizioni ambientali re-
almente estreme dal punto di vista meteo-climatico,
con un’organizzazione inesistente a livello di supporto
logistico, l’adozione di altre tipologie costruttive non
è risultata infatti un’ipotesi percorribile o efficace. Il
campo base LEAPrus si configura come primo passo
di un’azione di riorganizzazione del turismo alpinisti-
co sull’Elbrus, che dalla caduta dell’Unione Sovietica
è entrato nel circuito delle “Seven Summits”; lo studio
per una reinfrastrutturazione globale di questo terri-
torio prevede anche la possibilità della qualificazione
di diversi punti nodali della salita e della ricostruzione
dello storico rifugio Priut 11, avveniristica costruzione
risalente agli anni Trenta, posta a circa metà strada
sulla via normale. La struttura bruciò negli anni No-
vanta e non fu ripristinata, lasciando di fatto la mon-
tagna priva di costruzioni permanenti ma dotata solo
di punti d’appoggio minori per la sicurezza di cui è
necessaria una riorganizzazione, a contrastare il gran
numero di vittime che oggi si registrano lungo questa
facile salita alpinistica.
Stefano TestaLeapFactory
Campo base LEAPrus al Monte Elbrus (Russia, 4000 m)
80
Intervenire su un edificio in quota esistente, con una
particolare conformazione planimetrica come il ri-
fugio Baita Tonda, ha portato a confrontarsi su temi
interdipendenti con gerarchie e obiettivi ben stabiliti.
Ci si è approcciati al tema valorizzando gli aspetti ti-
pici delle strutture alpinistiche che contraddistinguo-
no l’architettura di montagna, ovvero l’inserimento
nel paesaggio, il confrontarsi con condizioni limite ed
estreme, sperimentare l’uso di tecnologie avanzate,
plasmare un luogo che condensa le condizioni e le ca-
pacità di socializzazione tipiche dei rifugi, ed essere
un punto di presenza umana nel territorio in quota.
Il progetto architettonico è stato quindi un momento
di sintesi che ha fatto convivere esigenze di vario tipo,
ragionando sull’evoluzione della tipologia dei rifugi
in atto nell’ultimo decennio: da luoghi introversi pro-
tettivi a edifici aperti e proiettati verso il paesaggio,
sfruttando nuovi materiali ad alto risparmio energeti-
co e proponendo nuove relazioni con il contesto.
La vecchia struttura presentava evidenti problemi di
vetustà, stabilità statica e di dotazione, con rilevanti
consumi energetici annui.
La ristrutturazione e ampliamento ha quasi triplicato
la superficie utilizzabile, aumentando in misura mini-
ma il volume fuori terra e recuperando gran parte del
nuovo volume nel livello seminterrato sotto il sedime
dell’edificio.
Si è puntato a un involucro fortemente isolato e a un
sistema integrato impiantistico con fonti rinnovabili
e recupero degli apporti energetici “gratuiti” (al mo-
mento i consumi sono più che dimezzati rispetto alla
vecchia struttura).
I temi fondamentali di progetto si possono così rias-
sumere:
APPROCCIO. Pur prestando attenzione all’evoluzio-
ne tipologica dei rifugi in atto, si è tuttavia puntato a
non snaturare l’impianto di una struttura particolare
come quella esistente. Ci si è confrontati quindi con
attenzione rispetto al tema di confine tra tradizione e
innovazione per ripensare il rifugio nei prossimi de-
cenni, valorizzando al massimo le potenzialità nel sito.
La Baita Tonda (1640 m) è un punto di riferimento nel-
la zona dell’altopiano di Folgaria e Terragnolo (Tren-
to), forte nell’immaginario collettivo dell’area e luogo
di grande panoramicità che ha condensato nel tempo
eventi sportivi, di costume, successivi ampliamenti,
gestori carismatici, diventando punto di aggregazio-
ne consolidato in quota. Essendo in zona di altopiani,
non è famoso per le ascensioni alpinistiche alle vette
ma come meta di escursioni medio facili e punto pa-
noramico per percorsi turistici e sportivi di montagna,
sia estivi che invernali, nella zona dei forti della Gran-
de guerra.
PAESAGGIO E IMPIANTO. Ripensare con la nuova
struttura le relazioni con il paesaggio, è tema di fon-
damentale importanza per dare al tutto una forma
appropriata, un’architettura che sia strettamente ne-
cessaria, selezionando elementi utili per relazionarsi
con territori così delicati, senza stravolgere la natura e
l’impianto di “dominio” nel territorio dell’edificio sto-
rico, già particolarmente attento nel suo inserimento.
La particolare posizione dell’edificio sui dossi tondeg-
gianti della Martinella nella zona degli altipiani di Fol-
garia, permette infatti di godere di un paesaggio a 360°
LA RISTRUTTURAZIONE EL‘AMPLIAMENTO DEL RIFUGIO BAITA TONDA
81
sul panorama dalle Dolomiti venete e trentine, fino
alle vette lombarde e dell’Alto Adige, con l’emergere
in primo piano del Pasubio, delle Dolomiti di Brenta e
del Gruppo dell’Adamello. Il progetto ha cercato così
di reinterpretare il vecchio impianto, potenziarlo, am-
pliarlo, per dare coerente sviluppo alle relazioni con
gli affacci e gli orientamenti, proiettando i vari settori
e la terrazza su determinati coni visuali, mantenendo
però la centralità dell’impianto in un ambiente più ac-
cogliente attorno allo storico camino, vero fulcro del
sistema. Le scelte sono dunque state conseguenti la
naturale evoluzione d’impianto della vecchia struttura
all’interno dei limiti di proprietà, sfruttando i dislivelli
del terreno per ottenere i tre livelli in base all’altezza
concessa dagli strumenti urbanistici. La presenza
della nuova seggiovia sul fronte nord-est ha spinto a
riorganizzare su questo lato i punti di accesso visibili
dai percorsi di arrivo al rifugio, concentrando su tutte
le restanti esposizioni l’apertura degli ambienti verso
il paesaggio. Oltre al mantenimento del camino cen-
trale come fulcro, le caratteristiche della distribuzione
del nuovo impianto hanno riguardato sia l’ottimizza-
zione e separazione dei percorsi dei clienti e del per-
sonale, sia la differenziazione per livelli tra zona gior-
no e zona notte, nonché tra zone di chi sosta o di chi è
solo passaggio.
L’impianto circolare del rifugio, adagiato sui dossi di
sommità della punta Martinella, sfrutta un salto di
quota del terreno, individuando tre livelli: seminter-
rato dove trovano posto le camere e la sala ristoro
per chi pernotta, servizi per i clienti e per il personale,
magazzini e vani tecnici; livello terra con il bar, sala ri-
storante, servizi igienici, cucina, distribuzione ai piani
e doppio accesso con collegamento alla terrazza pa-
noramica.; livello sottotetto dove è stata ricavata una
camerata da 8-10 posti letto e bagno comune. Sono
stati definiti una serie di settori incastonati rispetto al
fulcro del camino che si proiettano in modo differen-
ziato verso il paesaggio nei tre livelli.
SOSTENIBILITÀ. Le scelte di carattere energeti-
co-ambientale costituiscono una parte essenziale
dell’intervento per concepire l’edificio in modo consa-
pevole e attento agli equilibri ambientali, senza però
superare un limite pratico nelle soluzioni (impiantisti-
che e costruttive) che avrebbe reso più complessa la
gestione con manutenzioni costose, visto anche l’uso
stagionale della struttura. Queste scelte hanno per-
messo di abbattere sensibilmente i consumi e quin-
di il carico inquinante dell’edificio, accrescendone il
comfort interno e la vivibilità, con una superficie utile
superiore di tre volte rispetto alla situazione preesi-
stente. Con questa impostazione si sono anche abbat-
tuti i costi di gestione della struttura, utilizzando fonti
energetiche rinnovabili.
COSTRUZIONE. La gestione del progetto è stata
finalizzata a ottimizzare il cantiere, riducendo i pro-
blemi legati all’accessibilità all’area, concentrando i
tempi di esecuzione in funzione delle condizioni cli-
matiche in quota (neve per sei mesi) e riducendo i co-
sti. Le scelte adottate hanno permesso di concentrare
la fase realizzativa tra maggio e novembre del 2010,
tenendo chiusa la struttura di fatto solo nella stagione
Rifugio Baita Tonda sul Monte Martinella (Folgaria, Trento, 1640 m)
82
estiva. L’intervento è stato organizzato con un accura-
to programma lavori, puntando alla prefabbricazione
strutturale per rispondere a quattro problematiche
principali: rapidità di montaggio; ottimizzazione dei
trasporti per le difficoltà di accesso all’area di cantie-
re in quota, utilizzando mezzi di dimensioni ridotte,
passando attraverso strade forestali/militari e tratti
di piste da sci; organizzare con massima efficienza il
turnover delle squadre e la contemporaneità d’esecu-
zione di specifiche lavorazioni interdipendenti, per la
necessità di non rallentare le fasi di montaggio con gli
impianti; seguire una filosofia di filiera corta per una
riduzione dei costi e tempi d’intervento delle ditte lo-
cali, puntando alla valorizzazione delle eccellenze lo-
cali, con un’immediata ricaduta positiva nel territorio.
Strutturalmente, per la parte fuori terra si è optato
per un pacchetto portante in pannelli prefabbricati in
legno Xlam coibentati e rivestiti, nella pelle ventilata
esterna, con pannelli in pasta di vetro intonacati (per
resistere all’effetto di gelo e disgelo) e con doghe in la-
rice; la parte seminterrata è invece in cemento armato
a doppia lastra. L’involucro risulta altamente isolato e
ventilato anche nella copertura, con un rivestimento
in alluminio decappato ad alta resistenza. Le scelte co-
struttive si possono quindi così riassumere: involucro
fortemente isolato; stratigrafie con pacchetti ventilati
e intonaci su pannelli in pasta di vetro idrorepellenti;
murature e solaio controterra coibentato e impermea-
bilizzato; lattonerie di copertura ad alta resistenza.
DOTAZIONI. La concezione impiantistica è ad alta
efficienza energetica e forte sostenibilità ambientale,
attraverso un sistema integrato di più fonti rinnovabili
per produzione di acqua calda sanitaria e riscalda-
mento costituito da due pompe di calore a sei sonde
geotermiche, un impianto solare termico a pannelli, un
sistema di recupero del calore aria/acqua del caminet-
to centrale attraverso uno scambiatore. Il trattamento
aria utilizza un impianto di ventilazione interna ad alta
efficienza con recupero del calore, per gli ambienti
pubblici e cucine. Il sistema di gestione delle acque si
basa su un doppio circuito a doppia cisterna: una per
il recupero delle acque meteoriche utilizzate per le va-
schette dei wc, una per le acque potabili collegata alla
linea dell’acquedotto, garantendo un’autonomia alla
struttura anche per eventuali periodi d’interruzione di
fornitura. I due sistemi sono gestiti con compensazio-
ne per quello meteorico nel caso di carenza di precipi-
tazioni, nonché con regolatori di flusso. Il trattamento
degli scarichi beneficia di una nuova linea di collega-
mento alla rete fognaria comunale. Il sistema è munito
di de-grassatore per gli scarichi delle cucine e sistema
di triturazione e doppio pompaggio per i reflui al fine
di evitare problemi di ostruzioni e ristagni sulla linea
fino a fondo valle. Il carico inquinante della struttura
in quota è stato quasi completamente abbattuto.
Marcello Lubian LA-studio
Rifugio Baita Tonda sul Monte Martinella (Folgaria, Trento, 1640 m)
83
La SAT è il più grande gestore di rifugi in Trentino, con 31
alpini, 4 escursionistici e 15 bivacchi, oltre a varie strut-
ture minori. Ruolo dell’ufficio tecnico è la progettazione
di ristrutturazioni e nuovi edifici e la risoluzione di varie
problematiche edilizie, soprattutto legate alle questioni
gestionali pratiche e quotidiane, dato lo stretto contatto
con i gestori delle strutture. Tale interazione diretta nella
soluzione di problemi spiccioli costituisce un consistente
bagaglio di esperienze che si rivela molto utile nella pro-
gettazione. Negli ultimi 25 anni la SAT ha effettuato 18
ampliamenti o risanamenti e 8 ricostruzioni; la scelta tra
la via del mantenimento della preesistenza o della riedi-
ficazione ex novo dipende dalla valenza storico-culturale
del nucleo originario. È evidente che i nuovi interventi
possono contare su una migliore qualità estetica e su più
elevate performance energetiche e tecnologiche; è però
difficile ricreare nel moderno quell’atmosfera di calore
propria di una vecchia stanza in legno.
Qui presentiamo il progetto per l’ampliamento e l’ade-
guamento del rifugio Boè, il cui impianto originario risale
al 1894 per mano del Deutscher Alpenverein; localiz-
zato in val di Fassa, si trova al centro del Gruppo Sella a
2873 m d’altitudine, sulle Dolomiti orientali. Il contesto
in cui sorge è isolato e lunare, dato l’ambiente calcareo
che peraltro provoca difficoltà nell’approvvigionamento
idrico, un tempo facilitato dall’oggi scomparso ghiaccia-
io limitrofo. Il rifugio è stato devastato durante la Grande
guerra, successivamente alla quale è stato acquisito dalla
SAT che nel 1924 lo ha ristrutturato e reso nuovamente
agibile. Negli anni ci sono stati diversi lavori di aggiorna-
mento e ampliamento (spesso autogestiti dai soci), come
nel 1967 quando fu aggiunto a integrazione del salone un
corpo in legno e metallo il cui tetto collassò nell’inverno
seguente, a dimostrazione delle difficoltà costruttive in
alta quota. Nel 1992 viene dotato di un importante ed
efficiente impianto sperimentale per la depurazione dei
reflui che oggi consente il riutilizzo delle acque depurate
come acque grigie.
L’attuale scelta progettuale del Boè va nella direzione del
mantenimento e della valorizzazione di tale nucleo sto-
rico originario e dell’abbattimento e rimozione delle ag-
giunte susseguitesi nel tempo per tornare alla situazio-
L’AMPLIAMENTODEL RIFUGIO BOÈ
Rifugio Boè sul Gruppo Sella (Canazei, Trento, 2871 m): foto d’epoca e attuale
84
ne volumetrica del 1924. Vi si accosta un nuovo volume,
costruito con caratteristiche e tipologie attuali, collegato
alla preesistenza da un corpo vetrato che funge da “cu-
scinetto” e da serra di captazione solare. Fino agli anni
Sessanta il rifugio ha conservato un’impronta soprattut-
to alpinistica; in seguito, la realizzazione della funivia ha
considerevolmente ampliato la gamma e i numeri d’u-
tenza, snaturando in parte la funzione originaria. Durante
l’estate il rifugio – comodamente raggiungibile in un’ora
di cammino dalla stazione a monte della funivia – è di-
ventato sostanzialmente un bar ristornante frequentato
da frotte di turisti, per recuperare solo alla sera i ritmi più
caratteristici di un ricovero in quota.
Un’altra necessità, spesso sperimentata nei rifugi SAT, è
l’adeguamento delle strutture a un uso anche invernale,
data la sempre più pressante richiesta di fruizione della
montagna (ciaspole e scialpinismo, in forte crescita); ma
in inverno si verificano diversi problemi gestionali, legati
ovviamente alla disponibilità idrica e al gelo. Le sue ca-
ratteristiche di utilizzazione non sono poi costanti bensì
schizofreniche, legate al meteo o alle corse della funivia:
la nuova struttura deve essere concepita e dimensiona-
ta anche rispetto a tutte queste situazioni. Attraverso la
collaborazione tra tecnici della SAT, della Provincia au-
tonoma di Trento e del consorzio Habitech, ma soprat-
tutto grazie alla costante e imprescindibile presenza del
gestore si è potuta attivare una progettazione integrata
della nuova struttura che spaziasse dal risanamento
dell’edificio storico, alla gestione energetica, all’aggior-
namento normativo, al miglioramento degli standard
abitativi e energetici, all’adeguamento a un uso invernale,
alla possibilità compartimentare l’edificio in relazione alle
presenze. In particolare, in un ampio piano seminterrato
molto coibentato e discostato dalla struttura sono sta-
ti concentrati i servizi e i locali tecnici “fastidiosi” come
i depositi, i cogeneratori termici (per elettricità e acqua
calda), il locale immondizie, il deposito del gas; il fine di
un locale di deposito e servizio ben organizzato è quello
di ridurre i viaggi in elicottero necessari alla gestione ge-
nerale. Sotto il rifugio, per ragioni d’isolamento termico,
sono invece posti i serbatoi dell’acqua. All’ingresso del-
la struttura si trova il locale asciugatoio e deposito zaini;
successivamente una sala da pranzo compartimentata in
tre sottospazi, per ragioni di risparmio nel riscaldamen-
to dei locali. Ci sono poi le stanze, nella parte storica per
l’utenza e nella parte nuova gli appartamenti del gestore
e del personale. Anche se le richieste dei frequentatori
vanno sempre più verso le camerette singole, si è deciso
di riproporre la camerata, come tipologia tipica del rifu-
gio. Come materiale da costruzione principale del nuovo
volume si è scelto il larice naturale che, anche se si ossida,
non riscontra problemi di manutenzione continua. Verso
sud l’ampliamento è dotato di una copertura in alluminio
rivestita da un impianto fotovoltaico; a causa delle cospi-
cue esigenze energetiche, il rifugio non riesce però a es-
sere totalmente autonomo energeticamente e l’impianto
necessita di un’integrazione tramite i cogeneratori. La
scelta della politica di fondo della SAT va in direzione del-
la spartanità, affinché sia la montagna a educare il fondo-
valle con la sua umiltà e semplicità.
Livio NoldinUfficio tecnico SAT
Rifugio Boè sul Gruppo Sella (Canazei, Trento, 2871 m): progetto di ampliamento
85
Io sono sia il progettista dell’ampliamento del rifugio
Alimonta ma anche il gestore, figlio e nipote di coloro
che lo realizzarono. Tale progetto è il naturale com-
pletamento di un iter iniziato nel 2004, comprenden-
te il rifacimento della teleferica e la ristrutturazione
dell’intero rifugio, compreso l’intero apparato tecno-
logico. Il lavoro è stato ispirato da due principi: cerca-
re di accorpare il più possibile tutti i servizi (in primis
quelli idrico ed elettrico), nell’intento di garantire fun-
zionalità e semplicità. Già, perché nei rifugi i tecnici
non sono a portata di mano ma possono ritardare il
loro arrivo anche diversi giorni. Così, le nuove opere
consentono di assicurare la funzionalità della “mac-
china rifugio” per tutti coloro che ne devono fruire.
Il rifugio si trova nel cuore del Brenta, a 2600 metri.
È privato, fin dall’origine appartenente alla mia fa-
miglia che lo realizzò nel 1964. Il progetto non pote-
va non tener conto di queste caratteristiche. Da qui è
nata un’indagine storico-tipologica del luogo: com’e-
ra nato, come si è sviluppato negli anni, quali sono le
sfide che l’attendono nel futuro. Elemento basilare,
lo studio dell’orografia. Se da un lato non possiamo
infatti realizzare nuovi scavi nella roccia, dall’altro è
giocoforza sfruttare i dislivelli. Accorgimenti che ci
permettono di ottimizzare i costi e ridurre l’impatto
ambientale. Ma nel frangente ci siamo occupati anche
d’indagare gli ombreggiamenti, perché siamo all’in-
terno di una conca tutta circondata da montagne. Ne
è scaturita una precisa mappa che ci ha indicato dove
posizionare i pannelli sulle falde del tetto esistente.
Era importante non realizzare nuove superfici: sareb-
bero state difficilmente raggiungibili e dotate di un
non trascurabile impatto ambientale.
La situazione di partenza non era propriamente ot-
timale. Come si faceva una volta, nell’avvallamento
della roccia trovavano posto le vasche dell’acqua, nel
L’AMPLIAMENTODEL RIFUGIO ALIMONTA
Rifugio Alimonta alla Vedretta degli Sfulmini (Ragoli, Trento, 2580 m): foto d’epoca e attuale
86
nostro caso ricoperte da una tettoia. I gruppi elettro-
geni venivano posizionati lontani, perché non ancora
silenziati. E poi, le cisterne del gasolio e i depositi di
legna. Sparpagliati qua e là. Insomma, vedere in un
contesto così suggestivo una serie di manufatti disor-
dinati e per di più di qualità non eccelsa, non era un
bello spettacolo. Ecco allora l’idea dell’accorpamento
e dell’ampliamento. Sulla premessa che grazie a una
legge provinciale già avevamo predisposto la “griglia-
tura” per il trattamento dei reflui di bagni e cucina. Eb-
bene, le nuove opere sono state integrate con questo
lavoro. La domanda di base era sempre la stessa: “Che
cosa fare per aumentare la funzionalità e la tranquilli-
tà gestionale del rifugio”? Ed ecco le risposte.
ACQUA CALDA. Possedevamo un impianto foto-
voltaico da 7kW, dotato di un parco batterie che ci
consentiva l’utilizzo dell’energia d’emergenza 24 ore
su 24. Ma quando la cucina è in funzione dobbiamo
obbligatoriamente disporre di gruppi elettrogeni. Ab-
biamo dunque pensato d’installare dei cogeneratori
che recuperano l’energia in eccesso e l’impiegano per
riscaldare l’acqua. Si è così realizzato un accumulo di
3.000 litri portato a temperatura attraverso quattro
stati diversi “a cascata”. Il primo è rappresentato dalla
cogenerazione dei gruppi elettrogeni, che collabora-
no con i pannelli solari. In questo modo l’ultimo stato,
quello che prevedrebbe l’utilizzo della caldaia a gas,
raramente trova operatività. Ma è pur sempre presen-
te, qualora per diversi giorni le condizioni meteo im-
pediscano la generazione dell’energia solare. Il tutto,è
“protetto” e ottimizzato dal posizionamento di resi-
stenze: un commutatore elettronico valuta il consumo
istantaneo del cogeneratore e ricerca un equilibrio di
consumo. Ne conseguono la continuità di percorso
dell’energia e l’ottimizzazione del consumo dei gruppi
elettrogeni. Ma non solo: anche la riduzione dei picchi
che non giovano all’operatività dei motori e un ulte-
riore apporto termico alla nostra acqua. Ulteriore det-
taglio, il fatto che questo sistema operi su una dop-
pia tecnologia: fotovoltaica e solare. Ciò per garantire
anche l’utilizzo invernale. L’impianto non verrà infatti
spento ma continuerà a operare per scongiurare il
congelamento dei locali.
ACQUA CORRENTE. Prima dei lavori, disponeva-
mo di una vasca da 30.000 litri ma spesso, verso fine
stagione (dai primi di settembre) l’apporto idrico ces-
sava. Appare ovvio come l’acqua sia un servizio indi-
spensabile e non potevamo certo dire ai nostri clienti:
“Non potete utilizzare i servizi igienici, le docce non
funzionano, la cucina opera in modalità ridotte”. Così,
più di una volta abbiamo dovuto chiudere in anticipo,
interrompendo anche anzitempo la rassegna “I rifugi
del gusto”.
Proprio per scongiurare il ripetersi di tali inconvenien-
ti, abbiamo posizionato una nuova vasca da 70.000
litri che, speriamo, sia sufficiente per il nostro inte-
grale fabbisogno. A tal proposito non si può dimenti-
care che il nevaio sovrastante il rifugio, verso la Boc-
ca d’Armi, è in continua fase di ritiro. Questo nuovo
punto di raccolta trova posto a livello del suolo ed è
totalmente integrato nell’orografia del luogo. Sopra di
esso si aprono nuovi locali tecnologici. A tal riguardo
giova precisare come tale porzione di terreno non sia
di nostra proprietà ma ricompresa nella titolarità delle
Regole di Spinale e Manez. Su di essa, noi beneficia-
mo di un diritto di superficie. Tale stato giuridico ha
Rifugio Alimonta alla Vedretta degli Sfulmini(Ragoli, Trento, 2580 m): l’ampliamento tecnico con un interno
87
imposto che qualsiasi intervento non potesse com-
portare un aumento della capacità ricettiva ma solo
l’edificazione di ambienti tecnici. In essi trovano posto
anche l’autoclave a doppio motore, per evitare che l’a-
varia di uno interrompa il flusso idrico. Il tutto regola-
to da una particolare centralina che alterna l’uso dei
due motori istantaneamente litro per litro, garantendo
anche l’equilibrio di mandata e il richiamo dell’acqua
solo quando serve.
TROCKENRAUM. L’ottimizzazione funzionale ha
visto anche la realizzazione di due stanze d’asciu-
gatura per gli indumenti dei clienti (spesso sorpresi
da estemporanei temporali), i cosiddetti “Trocken-
räume”: una vera e propria installazione pilota. Basti
pensare che, prima della nostra adozione, era stata te-
stata solo a livello informatico: speriamo funzioni! La
sua tecnologia è mutuata dagli impianti di deumidifi-
cazione delle piscine: utilizzano acqua calda e pochis-
sima energia elettrica. Quest’ultima, solo per azionare
i ventilatori; sistema che permette il funzionamento
anche a gruppi elettrogeni spenti. In ogni caso, i tempi
di asciugatura dovrebbero essere rapidi. Noi abbia-
mo una ricettività di 90 persone ed è ovvio come non
fosse possibile realizzare stanze che le contenessero
tutte simultaneamente. È dunque giocoforza che i be-
nefici portati da queste scelte avvengano nel più bre-
ve tempo possibile, in modo da assicurare una celere
turnazione.
Ecco riassunta nei vari interventi la “filosofia” enun-
ciata all’inizio: ottimizzare la funzionalità del rifugio
nel pieno rispetto ambientale. Così, dal “cubetto sassi
e pietra” del 1968, struttura molto complessa a livello
di gestione e praticità, siamo arrivati nel 2013 a una
costruzione esteticamente non molto diversa, sebbe-
ne più ampia. Ma con dotazioni decisamente all’avan-
guardia ed ecosostenibili.
Raffaele AlimontaArchitetto
88
Siamo lieti d’intervenire in questo convegno in qualità
di partner tecnico portando un contributo nel merito,
legato al costante impegno della nostra azienda nei
confronti della ricerca, sperimentazione e applicazio-
ne di soluzioni di rivestimento in grado di rispondere
idoneamente alla sfida posta dalle costruzioni estre-
me, nella fattispecie rifugi e bivacchi alpini.
Al di là del contributo alla ricostruzione del rifugio
Baita Tonda, illustrato prima, per quanto concerne il
manto di copertura, ecco due esempi di ristrutturazio-
ni in alta quota che hanno visto l’utilizzo di elementi in
alluminio PREFA, nell’obiettivo di coniugare tradizio-
ne e innovazione, mantenendo il carattere peculiare
dello straordinario ambiente circostante.
Il primo caso riguarda il bivacco Igloo, installato nel
1975 sul versante svizzero delle Alpi Pennine (Canton
Vallese) a 3280 m, sulla sommità del ghiacciaio Pan-
talons Blancs. Dalla caratteristica forma ottagonale,
con una piccola base in calcestruzzo di 6 m di diame-
tro, la struttura del bivacco, completamente realizzata
in legno, racchiude un volume di circa 60 mc.
Dopo 30 anni di esposizione alle intemperie la coper-
tura in tegole bituminose ardesiate è stata oggetto di
risanamento nell’estate 2009: è stato realizzato un
nuovo involucro onde fasciare la copertura esistente,
con una sottostruttura ventilata in legno rivestita con
le scandole PREFA nel colore antracite.
Tale prodotto, insieme al rivestimento per faccia-
ta PREFA nello stesso colore, è stato scelto per la
sua elevata qualità, le performance di resistenza agli
agenti atmosferici e soprattutto per la sua leggerezza
e maneggevolezza, dato che tutti i materiali sono stati
trasportati sul posto in elicottero.
Il secondo caso riguarda il rifugio Arciduca Giovan-
ni (Erzherzog Johann Hütte), situato al confine fra i
Länder austriaci del Tirolo, del Salisburghese e della
LA PROTEZIONE DELL’INVOLUCROEDILIZIO IN ALTA QUOTA
Bivacco Igloo al ghiacciaio dei Pantalons Blancs (Arolla, Svizzera, 3280 m) prima e dopo la ristrutturazione
89
Carinzia. Costruito nel 1879 e inaugurato l’anno suc-
cessivo sul versante sud-est del Grossglockner, la
vetta più alta dell’Austria (3798 m), della cui via nor-
male è il punto d’appoggio, nei successivi 125 anni il
rifugio è stato oggetto di continui ampliamenti per il
costante e massiccio aumento dei frequentatori.
Nel 2006 si è reso necessario intervenire anche sulla
copertura: occorreva disporre di un manto resistente e
leggero, i cui elementi fossero facilmente trasportabili
in quota e si potessero montare anche in condizioni
ambientali estreme.
Vi era inoltre da affrontare il problema principale che
si riscontra nei progetti di recupero del costruito: riu-
scire a tessere un legame tra l’identità del passato e
l’intervento presente che guarda verso il futuro.
Si è optato per la tegola in alluminio PREFA, passando
così da un manto esistente e di valore “riconosciuto”
(scandole in legno), a uno dal design innovativo e di
alta qualità tecnica che rendesse la nuova copertura
adatta al fabbricato preesistente.
I sistemi per coperture PREFA in alluminio sono estre-
mamente leggeri ma al contempo offrono un’elevata
resistenza alle intemperie. Gli elementi di copertura
come le Tegole, le Scandole o le Scaglie PREFA sono
dotati di un particolare sistema di fissaggio a scom-
parsa con graffette brevettate che, assieme all’oppor-
tuna posa sfasata e alla collaudata tecnica ad aggraf-
fatura doppia, permette al tetto di resistere a raffiche
di vento fino a 235 km/h.
L’elevata resistenza è coniugata alla leggerezza (ele-
mento importante per le ristrutturazioni): un tetto
PREFA pesa circa 2,5 kg/mq, mentre uno tradizionale
pesa circa 45 kg/mq. Gli elementi per coperture in al-
luminio PREFA sono garantiti 40 anni contro rottura,
corrosione, ruggine e congelamento, nelle condizioni
indicate nel certificato di garanzia e nel caso di colori
P.10 anche contro la scheggiatura, la sfaldatura, la for-
mazione di bolle e la rottura della verniciatura.
Stefano NardelliPREFA
Erzhezog Johann Hütte al Grossglockner (Austria, 3798 m) dopo il rifacimento del manto di copertura
90
ARCA (acronimo di ARchitettura Comfort Ambiente;
www.arcacert.com), la certificazione di qualità per le
costruzioni in legno, è nata dalla volontà della Provin-
cia autonoma di Trento di promuovere la filiera stra-
tegica foresta-legno-energia. ARCA certifica costru-
zioni, sopraelevazioni e ampliamenti oltre a prodotti,
sempre in legno, quali porte finestre e pannelli X-Lam,
secondo quattro livelli: Green, Silver, Gold, Platinum.
ARCA valorizza gli edifici con struttura portante in le-
gno attraverso un regolamento tecnico che ne misura
in maniera chiara e puntuale le prestazioni – in termi-
ni di sicurezza contro il sisma e il fuoco -, il comfort,
l’efficienza energetica e la sostenibilità.
Secondo il regolamento tecnico, gli edifici che posso-
no fregiarsi del marchio ARCA devono rispondere a
un set di tredici requisiti raggruppati in tre categorie:
prestazioni tecniche (sicurezza antisismica, resisten-
za al fuoco, efficienza energetica, isolamento acusti-
co, permeabilità all’aria, ventilazione/comfort con re-
cupero del calore); gestione dell’edificio (regole della
qualità costruttiva, piano di manutenzione, polizza
assicurativa postuma decennale); sostenibilità (legno
certificato, programma di progettazione integrata,
bassa emissione di componenti organici volatili, pro-
duzione locale).
Fulcro strategico per il sistema di certificazione ARCA
è ARCA Academy, Centro di formazione continua per
gli operatori della filiera edile. ARCA intende favorire,
diffondere e consolidare le competenze che consen-
tano al sistema di proporsi al mercato del legno con
risorse coerenti ai propri principi: qualità, buone pra-
tiche, identità.
COSTRUZIONI IN LEGNOPER L‘EDILIZIA MONTANA
Rifugio Viòz Mantova in Val di Sole (Peio, Trento, 3535 m): foto d’epo-ca, di cantiere e attuale
91
Il legno ben si presta alla realizzazione di baite e rifu-
gi, per le sue potenzialità espressive a livello proget-
tuale, per la sua leggerezza che offre la possibilità di
movimentazione su luoghi più difficili da raggiungere,
per la sostenibilità che caratterizza sia il materiale sia
la cultura del costruire con una rinnovata attenzione
all’ambiente. In tal modo il rifugio si armonizza con il
contesto montano circostante, mentre il naturale ab-
braccio del legno garantisce comfort abitativo e acu-
stico, salubrità e calore.
ARCA accredita partner costruttori di edifici civili e
residenziali ma anche di baite e rifugi, che diventano
esempio di qualità a livello architettonico e prestazio-
nale. In questo convegno è stato presentato dal pro-
gettista Marcello Lubian il caso della ristrutturazione
del rifugio Baita Tonda, la cui struttura in legno si deve
al partner costruttore ARCA Rasom (azienda della Val
di Fassa che già annovera, tra gli interventi analoghi,
la ricostruzione/ristrutturazione dei rifugi Contrin e
Roda di Vaèl in Trentino, CAI Aprica a Sondrio, So-
reghes a San Cassiano in Badia, Belvedere a Selva di
Cadore e Nordio a Tarvisio).
L’impegno per la valorizzazione dell’edilizia in legno
si può far risalire all’ormai lontano 1996 quando, gra-
zie al partner costruttore ARCA Rossaro Costruzioni
di Tione fu portato a termine – dopo 10 mesi effettivi
di lavori distribuiti su 4 anni – un intervento all’epoca
pionieristico nell’ambito della costruzione ecososte-
nibile, tanto più in alta quota: il rifugio Mantova presso
la Cima Viòz, in Val di Sole (Comune di Peio). Situato
all’interno del Parco nazionale dello Stelvio nel grup-
po Ortles Cevedale, con i suoi 3535 m è il più alto dei
rifugi della SAT, nonché il più elevato delle Alpi Orien-
tali. Risalente al 1911 e più volte ristrutturato, negli anni
Novanta necessitava di essere ricostruito.
Il progetto dell’ingegner Valter Paoli (per 60 posti let-
to) vide la realizzazione di una struttura in legno la-
mellare rivestita in rame.
Minimi gli impatti ambientali grazie a un sistema di
purificazione delle acque e di raccolta e smaltimento
dei rifiuti, nonché a un generatore a gas gpl – messo
a punto dal Centro ricerche Fiat – in grado di produr-
re contemporaneamente 15 kilocalorie/ora di acqua a
80° e 7,5 KW di corrente, integrato da 30 pannelli fo-
tovoltaici disposti in copertura.
Tali caratteristiche permisero all’opera di aggiudicarsi
l’edizione 1996 del Premio di architettura “Costruire in
Trentino”.
Stefano MenapaceARCA
92
Vinicio RuggeriVorrei rivolgere una domanda ai progettisti del Goûter
ai quali va la mia ammirazione per le qualità tecniche. È
stato necessario proteggere il cantiere durante i mesi
invernali prima che l’edificio venisse completato? L’al-
tra osservazione che volevo fare riguarda i linguaggi
architettonici di rifugi in alta quota che propongono
forme nuove e che escono dallo schema della malga
alpina. Mentre invece i rifugi a quote inferiori sareb-
bero ancora molto legati a questo schema (la casa con
tetto a due falde, pietre e legno...).
La motivazione vera credo risieda nelle condizioni
meteorologiche molto più severe che impongono a
strutture come il Gervasutti e il Goûter un altro ap-
proccio. Questa è un po’ la chiave d’interpretazione.
Credo che una baita in pietra nel sito dove si trova il
Goûter non avrebbe vita lunga.
La seconda parte del mio intervento interessa un’e-
sperienza negativa di ricostruzione in Appennino
dove una cultura architettonica dei rifugi dal punto di
vista ingegneristico ed edilizio si deve ancora affer-
mare.
La sezione di Bologna, di cui sono presidente [fino
all’estate 2013; n.d.r.] è proprietaria di due rifugi. Uno
è il Franco Cavazza al Pisciadù, nel Gruppo del Sella
(2585 m), a un paio d’ore dal rifugio Boè, di cui si è
parlato poco fa. L’altro è a 1800 m, sul crinale appen-
ninico tra il Corno alle Scale e il Monte Cimone. Quel
crinale vede il passaggio delle perturbazioni atlanti-
che e la velocità del vento arriva a 180 km/h. Nel sito,
sulle rive di un laghetto, dove s’incontrano le province
di Modena, Bologna e Pistoia noi abbiamo il rifugio
Duca degli Abruzzi che negli anni Sessanta era costi-
tuito da una baracca in metallo a sezione pentagonale
leggermente svasata, coibentata in amianto, resisten-
te ai venti e ai carichi di umidità. Il vecchio rifugio non
era più adeguato per comfort e ricettività: era dotato
di sala da pranzo con una ventina di posti letto, cucina,
bancone bar e, sul retro, una camera da letto con letti
a castello per un totale di 15-16 posti. Una quindicina
d’anni fa la sezione decise di demolirlo e ricostruirlo.
Credo che la qualità edilizia dei rifugi dipenda sicuramen-
te dalla disponibilità finanziarie del proprietario ma molto
anche dalle cariche innovative e dal coraggio di tutti gli
attori locali. Quando abbiamo presentato in commis-
sione edilizia il progetto del nuovo rifugio, l’ente parco,
i gruppi territoriali e quelli ambientalisti hanno imposto
una tipologia edilizia che assomiglia a una bella casina di
montagna con la pianta rettangolare, il tetto a due falde,
fondazioni in calcestruzzo, mattoni Poroton per le mu-
rature e rivestimento in pietra. Abbiamo riscontrato che
l’edificio non era adeguato a quelle condizioni climatiche.
Durante l’inverno il cantiere è rimasto incustodito e non
protetto. Le murature si sono ammalorate già in fase di
costruzione e oggi c’è un problema continuo di manu-
tenzione, deumidificazione e isolamento. Inoltre le pareti
verticali rivestite in pietra subiscono una forte pressione
del vento che favorisce la penetrazione dell’umidità e la
copertura in lamiera del tetto deve essere continuamente
ripresa.
Se ci fosse stata una carica innovativa e più coraggio
avremmo forse potuto costruire un edificio più adeguato
al sito.
DIBATTITO
93
Alberto WinterleVedendo gli esempi delle realizzazioni presentate nel-
le diverse relazioni, emerge l’importanza di trovare un
equilibrio tra tradizione e innovazione.
Tuttavia, vedendo l’esempio proposto dalla SAT per
il Boè, sento l’esigenza e la necessità di chiedere alla
SAT più coraggio quando mette mano a un rifugio con
interventi sostanziali.
Ciò non vuol dire seguire banalmente la ricerca di un
linguaggio iper contemporaneo o iper tecnologico,
bensì trasformare tali opportunità in occasioni di la-
voro e confronto tra progettisti e gestori per definire
insieme quale possa essere il futuro dei rifugi e più in
generale della nostra montagna.
Lo strumento del concorso di progettazione, che noi
caldeggiamo, permette un confronto aperto e trasfor-
ma un’occasione progettuale in occasione di confron-
to culturale.
Carlo PiccoliSono architetto socio della sezione universitaria della
SAT (SUSAT).
In gioventù ho collaborato alla gestione estiva che la SU-
SAT faceva del rifugio Torquato Taramelli.
Da neoarchitetto fui impegnato in una proposta di am-
pliamento mai realizzata, forse proprio per le ragioni che
il collega Winterle ha appena enunciato.
Il Taramelli risale al 1904.
Ogni momento culturale (perché architettura vuol dire
far cultura anche se in montagna) è legato al linguaggio
di quel momento.
Credo che la presentazione degli ultimi interventi in Tren-
tino sia assai interessante sotto il profilo tecnico ma que-
sti dicono assai poco sotto il profilo architettonico.
Il cubetto della SAT era un prototipo ed è stato proposto
in ambienti dai 1300 ai 1800 metri in ambienti come la
Presanella, i Monzoni... All’epoca una costruzione in pie-
tra a tetto piano standardizzata era avveniristica.
Credo che il linguaggio architettonico in media e alta
montagna dovrebbe essere consono a esprimere la cul-
tura in generale (non solo architettonica) del proprio tem-
po.
Claudio FabbroDa funzionario della Provincia autonoma di Trento
mi occupo di strutture alpinistiche e nutro un’ammi-
razione sconfinata per i rifugi d’alta quota delle Alpi
Occidentali. I nostri rifugi sono qualcosa di diverso. In
un rifugio c’è il momento in cui si entra e in cui si esce.
Se un nostro ospite ne esce senza il pensiero conscio
o inconscio di tornarci appena possibile, vuol dire che
qualcosa non ha funzionato. È un dato di fatto. Gli al-
pinisti non tornano nei rifugi. Anzi, in molti interventi
di questo convegno si sostiene che gli alpinisti hanno
abbandonato i rifugi e sono in calo vertiginoso. Ma
siamo sicuri che non sia avvenuto il viceversa? Che
non siano i rifugi che hanno abbandonato gli alpinisti
per rincorrere il cliente “mordi e fuggi” a cui sommi-
nistrare una ristorazione veloce? Lancio poi una pro-
vocazione. Ricordate l’adagio “la guerra è cosa tropo
seria per lasciarla in mano ai generali”? I nostri rifugi
sono troppo importanti per lasciarli in mano solo agli
architetti, agli architetti di città.
Altro argomento è la classificazione dei rifugi: pro-
pongo una distinzione tra quelli raggiungibili esclusi-
vamente a piedi e gli altri.
Quanto al concetto di lusso, è un termine che non
amo; preferirei mutarlo in “aumento delle dotazioni”,
sebbene ciò comporti un’enorme crescita delle pra-
tiche burocratiche da adempiere. Sono giusti 70/80
kW in un rifugio d’oggi? Dove stiamo andando? Lan-
cio allora una proposta alla SAT: sperimentiamo un ri-
fugio “francescano” minimale, essenziale, che diventi
il luogo – nell’immaginario – di una sobrietà solenne.
Hervé Dessimoz, Thomas BuchiIn merito all’aspetto estetico dei rifugi, notiamo che
finalmente la gente si pone il problema. Non si tratta
della querelle tra gli antichi e i moderni al fine di sa-
pere perché ci siano dei rifugi che assomigliano agli
chalet o altri, come il nostro del Goûter, che invece pa-
iono alieni. Io penso che l’architetto, quando approccia
il tema del progetto, si deve comportare un po’ come
l’alpinista di oggi: quando siete in un rifugio escursio-
nistico avete un abbigliamento e un comportamento
94
adatti alla situazione e all’altitudine; ma più si sale e
più conta l’attrezzatura tecnica. Ebbene, anche il no-
stro rifugio si adatta a questa situazione ambientale
che si fa più estrema, con un involucro tecnico che
funziona come un carapace evoluto in funzione dei
materiali e delle tecnologie a disposizione. Tuttavia,
quando l’alpinista entra nel rifugio, si toglie il suo “gu-
scio tecnico” per ritrovare il suo aspetto più pretta-
mente umano; così il rifugio all’interno vuol riprodur-
re un luogo accogliente, un ambiente completamente
naturale che richiama la ragione profonda del termi-
ne rifugio, ovvero “protezione”, al fine di recuperare
le proprie energie. Poi, quando uscirà, egli indosserà
nuovamente il suo carapace per affrontare il clima
esterno, così come fa il rifugio col suo involucro per
proteggersi.
In rapporto al nostro impegno in questo progetto, vor-
remmo far passare anche un messaggio più globale:
se abbiamo deciso d’investire e affrontare la sfida di
un lavoro molto duro anche fisicamente, è per portare
un messaggio al mondo della costruzione in generale.
Perché sapendo che il 50% dell’energia proveniente
da fonti fossili del pianeta è inghiottito dagli edifici,
e che la sfida è dunque quella di ridurre le emissioni
(pensando alla qualità della vita delle generazioni fu-
ture), ecco che il rifugio del Goûter vuole essere esem-
plare nell’approccio: costruiamo in un altro modo;
utilizziamo materiali di prossimità come il legno;.ma
soprattutto, costruiamo edifici che non sfruttino af-
fatto energie fossili, al fine di conservarle per altri usi.
Se è stato possibile lassù, tanto più dev’essere un im-
perativo nelle nostre città
Stefano Testa Non posso che associarmi completamente da quanto
dai colleghi progettisti del rifugio Goûter. Vorrei anzi
sottolineare le condizioni di questa distanza. Mi pare
che troppo spesso continuiamo a lasciare le questioni
sepolte da uno strato troppo spesso di cenere e muffa.
La differenza tra il miglior costruire commercializza-
to oggi e le prestazioni di questi tentativi dispendiosi
dal punto di vista umano e intellettuale sono enormi.
Vogliamo decidere da che parte stare come uomini su
questo pianeta? In tale ottica, la questione della forma
diventa veramente relativa. Vi fornisco solo quattro
dati: la tipologia del Gervasutti, rispetto a una costru-
zione analoga delle stesse dimensioni e prestazioni,
realizzata con le migliori tecnologie di prefabbricazio-
ne in legno disponibili oggi in Europa, pesa 40 volte
meno. Cercate d’immaginare che cosa ciò significhi in
termini di cantiere. È vero che ci sono delle questioni
di carattere economico da risolvere ma ci sono anche
delle questioni generali che prima o poi andranno af-
frontate. Con tecnologie che derivano da questi studi
e obiettivi di performance, oggi in 10 cm si può rea-
lizzare una parete in legno che definisce un involucro
passivo il quale non consuma energia se si utilizzano
i saperi che già possediamo industrialmente a patto
che iniziamo un dialogo finalizzato a obiettivi condi-
visi. Anche in merito alle filiere commerciali: oggi cia-
scuna ragiona sulle proprie possibilità individuali. È
un limite che non mi vergogno a chiamare colpa.
Il mio invito da appassionato di montagna è che l’aria
rarefatta ci aiuti a ragionare in maniera più lucida. La
montagna non ha bisogno di rifugi, non ha bisogno di
noi e saprà anche come scrollarsi di dosso vecchie e
nuove forme dell’architettura. Abbiamo anche ragio-
nato della possibilità di porci nuovi obiettivi riguardo
al modo in cui vogliamo gestire la nostra presenza fi-
sica sul pianeta.
95
Alcune polemiche su recenti architetture di rifugi sulle
Alpi2 sono alimentate dal continuo ricorso alla molto
praticata contrapposizione tra tradizione e innovazio-
ne. Considerati come poli opposti portatori d’istanze
incapaci di trovare una sintesi, vengono contrapposte
nel solco di una pratica che vede nelle avanguardie
artistiche del Novecento e nel Movimento moderno3
una fase di particolare fortuna. Da quel momento la
tradizione diventa definitivamente sinonimo di fissità,
passatismo e localismo, mentre l’innovazione di mu-
tazione, novità e universalità.
Tradizione tuttavia deriva dal latino traditio, il cui si-
gnificato può essere tradotto con “consegna” secondo
Cicerone, o con “narrazione” secondo Tacito4; in en-
trambi gli usi vi è dunque l’idea di un passaggio da un
antecedente a un conseguente attraverso un’azione.
Un’azione che, nel caso esemplificativo del racconto,
non si limita a traslare nel tempo una vicenda ma la
pratica, la svolge e pertanto la modifica nell’atto del
racconto stesso. La tradizione è dunque etimologica-
mente continua modificazione, “continuo fluire dell’e-
sperienza di una generazione nelle esperienze delle
generazioni successive”5, tra un presente e un altro
presente, nella costante pratica della sua ininterrotta
modificazione e innovazione. Considerare la tradi-
zione come qualcosa d’incapace di accogliere l’inno-
vazione è dunque un errore, mentre concepirla come
qualcosa d’idealtipico e cristallizzato significa ridurla
a stereotipo6 fisso, immutabile, monodimensionale;
un’archeologia da adorare e conservare anche nelle
sue meno genuine derive folkloristiche e spettacola-
rizzazioni commerciali.
Così oggi in architettura la “tradizione” diventa spesso
un catalogo di puri espedienti retorici linguistici, un
repertorio di forme che, senza attenzione alcuna alle
motivazioni che ne giustificano la permanenza, viene
declassato a repertorio dialettale immutabile. Questo
tradimento della tradizione permea l’intero campo
d’azione e indagine dell’architettura contemporanea
sulle Alpi e affiora in maniera lampante, con tutte le
RIFUGI: IDENTITÀ ARCHITETTONICHEFRA TRADIZIONI E TRADIMENTI1
Contributi
1 Tradizione e tradimento hanno la stessa radice etimologica, come ricordato da Ernesto Nathan Rogers in Tradizione e attualità (cfr. E. N. Rogers, Esperienza dell’architettura, Skira, Milano, 1997).2 Ci si riferisce ad alcuni celebri progetti contemporanei di rifugi, discussi anche nel convegno, ma soprattutto all’interessante proposta della Pro-vincia autonoma di Bolzano di bandire nel 2012 un concorso per la sostituzione di tre rifugi con conseguenti aspre polemiche su forme e linguaggi dei progetti presentati.3 Le avanguardie artistiche e letterarie del Novecento Cubismo, Metafisica, Dadaismo e soprattutto Futurismo pongono il superamento della tradi-zione e del classico come obiettivo principale della loro ricerca. Il Movimento moderno ha inoltre sfruttato l’avvento e il consolidamento della cultura industriale come indizio e occasione della necessità di smarcarsi dalla tradizione costruttiva e formale precedente.4 C. Prandi, voce “Tradizioni”, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1981, vol. 14, p. 415.5 E. N. Rogers, op. cit., p. 252.6 “L’insidia maggiore che sta erodendo oggi gli ultimi residui mitici (‘folklorici’, autodiretti, praticati dai residenti solo per se stessi) va ricercata piut-tosto in sempre più frequenti strumentalizzazioni “folkloristiche” (eterodirette, praticate per il consumo da parte dei turisti) che accelerano la tra-sformazione dei miti in stereotipi. […] In questo senso, si determina la mutazione antropologica del mito che, da grande narrazione cosmogonica primordiale, si trasforma in Ideal-Typus, stereotipo artificioso, strumento pseudo-turistico, pseudo-redditizio e consumistico” (A. Salsa, Il tramonto delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, Priuli & Verlucca, Torino 2007, p.60).
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sue contraddizioni e incoerenze, nel contemporaneo
dibattito sull’architettura dei rifugi.
La storia dei rifugi è piuttosto recente e nasce con la
violazione delle inospitali terre alte per fini non utili-
taristici bensì culturali, verso la fine del Settecento7.
Luoghi inabitabili diventano abitati in questo momen-
to: senza nessuna tradizione insediativa e formale
precedente, i rifugi nascono con forme semplici e tec-
niche accessibili.
In questo modo è da intendere l’iniziale ricorso al pro-
filo “a capanna” che, pur essendo considerato l’arche-
tipo della costruzione, soprattutto nel clima culturale
che fa da sfondo alla scoperta delle Alpi8, viene mutua-
to dalle costruzioni degli alpeggi che non costituisco-
no il riferimento morfologico della tradizione edifica-
toria rurale ma più che altro forniscono un riferimento
metodologico improntato all’efficacia e all’economia.
Architettura efficace e facilmente realizzabile dun-
que, il rifugio si evolve in un processo che procede per
tentativi, per errori, per mezzo di una continua ridefi-
nizione dei metodi di localizzazione e di costruzione,
attraverso un’innovazione continua, sperimentata e
verificata. Basti pensare a come è cambiata la relazio-
ne con il suolo9 o alle tecniche di costruzione che, mu-
tuate dalle edificazioni temporanee militari come gli
schutzhütten austriaci, si spingono sempre più verso
la prefabbricazione e la standardizzazione, dai primi
esempi dell’Ottocento fino agli esperimenti pionieri-
stici degli anni Settanta.
Viene dunque da dire che la tradizione dei rifugi è la
continua innovazione. Innovazione che si spinge ver-
so criteri di reversibilità e mobilità, con manufatti che,
smontati e rimontati in luoghi diversi, si sganciano dal
legame assoluto col contesto, rendendosi autonomi
Planimetria e vista del rifugio Luigi Amedeo di Savoia al Cervino (Valtournenche, Aosta, 3480 m): costruito nel 1893, dal 2004 è stato smontato e rimontato a Cervinia come museo di se stesso
7 “A partire dall’illuminismo […] s’assiste all’emergere simultaneo d’un interesse scientifico per i ghiacciai, d’un entusiasmo tutto morale per il modo di vivere dei montanari e d’un fascino estetico per la morfologia eroica delle vette. Tuttavia si sviluppano allora due concezioni antagoniste; determi-nano la prima le scienze in via di costituzione, che considerano “la Natura” come oggetto, cioè un bene comune di cui l’umanità può e deve disporre a proprio piacimento: essa annuncia il positivismo e toccherà il suo culmine dopo la rivoluzione tecnologica. L’altra vede nella medesima “Natura” una sorta di soggetto, che dialoga con l’uomo quasi un essere mistico capace di guidare e salvare l’anima umana” (A. Corboz, Geologia estrapolata: da Viollet-le-Duc a Bruno Taut, in Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Urbanistica Franco Angeli, Milano 1998, p.125).8 Si pensi alla capanna primitiva di Marc Antoine Laugier comparsa sul frontespizio del suo Essai sur l’architecture del 1753, trattato di teoria archi-tettonica fondamentale nell’epoca dei Lumi.9 “L’uomo razionalmente affronta l’alta montagna e ‘osa’ impiantarvi un cantiere, ma lo fa cercando di ‘ingraziarsi’ la Natura; al di là dei problemi tecni-ci di messa in opera, infatti, la scelta della quarta parete naturale di solito non si rivela felice. Tale esito poteva essere razionalmente dedotto, eppure l’idea di addossarsi alla roccia rivela un’istintiva ricerca di protezione, contro il rischio – mentale e non solo reale – di esporre la costruzione ai quattro venti” (L. Gibello, Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi, Lineadaria Editore, Biella, 2011, p. 25).
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oggetti autoregolati10 tra sperimentazioni tecniche e
formali che, pur sfiorando talvolta un’eccessiva este-
tizzazione della tecnologia, riescono in altri casi a rag-
giungere esiti interessanti.
Ma allora perché oggi, a prescindere, ci si oppone così
tanto a forme schiettamente contemporanee? È forse
perché si ha paura di non confermare l’immagine ete-
rodiretta del paesaggio alpino che il turista si attende?
O è forse una risposta consolatoria a quella “nostalgia
senza memoria”, come la definirebbe Appadurai, che
ci muove a reinventare le nostre radici storiche im-
maginando, anche dove non ci sono, tracce del pas-
sato, rinnegando però il presente (eppure noi, quando
frequentiamo la montagna, ci guardiamo bene dal
rinunciare a capi tecnici e tessuti contemporanei...).
Potrebbe dunque trattarsi del sintomo di un senso di
colpa per la violazione delle alte montagne che spinge
a tentare di nascondere, dietro quel repertorio forma-
le stereotipato, astorico e inventato, che Antonio De
Rossi definirebbe “rustico internazionale”, una modi-
ficazione che comunque esiste. Perché dove c’è pro-
getto, c’è sempre modificazione.
Così soprattutto per quanto riguarda i rifugi, che sono
sempre stati un laboratorio d’innovazione e speri-
mentazione, tentare di nascondere il nuovo facendo
riferimento alla categoria della “tradizione” costitui-
sce un doppio tradimento che nega la profonda iden-
tità di architettura eroica e pionieristica del rifugio e al
tempo stesso svuota di senso le forme tradizionali ap-
plicandole ad architetture le cui ragioni e nature sono
molto diverse. Per voler seguire la tradizione si finisce
insomma per compierne il più alto tradimento, si fini-
sce per tradire l’idea stessa di tradizione dimentican-
dosi che è prima di tutto “un’innovazione riuscita”11.
Mauro Marinellidottorando di ricerca in Progettazione architettonica
e urbana, Politecnico di Milano
10 Per dirla con Giorgio Grassi, “ogni architettura ci riporta sempre all’oggetto” (in Architettura lingua morta, Quaderni di Lotus, Electa, Milano 1988, p.19).11 A. Salsa, Montagna da vivere tra passato e futuro: il ruolo del CAI a 150 anni dalla sua nascita, in M. Varotto (a cura di), La montagna torna a vivere. Testimonianze e progetti per la rinascita delle Terre Alte, Nuova dimensione, Portogruaro 2013, p. 137.
Bivacco Pelino al Monte Amaro (Sulmona, L’Aquila, 2790 m)
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Annibale Salsa Come rappresentante della componente scientifi-
co-culturale di Accademia della montagna del Tren-
tino, desidero esprimere la mia soddisfazione per
questo evento culturale che ricolloca Accademia al
centro di un’attenzione avanzata all’interno dello spa-
zio alpino come luogo di confronto e dibattito. Spesso
si dice che i trentini sono autoreferenziali; io credo che
Accademia abbia dimostrato esattamente il contrario.
Chi vi parla viene dalle Alpi occidentali e, anzi, vorrei
ringraziare i nostri amici svizzeri, francesi e austriaci
per i loro interessanti contributi. Accademia ha come
intento quello di far interagire idee. Le idee non sono
mai troppe: ben vengano posizioni diverse. Guai se
noi caldeggiassimo la tesi del pensiero unico che ri-
schia di essere una prospettiva inquietante per oggi e
per domani. Questa attenzione al pluralismo d’idee e
ai contributi sia dei tecnici che hanno ruoli strumenta-
li, sia di chi svolge un ruolo culturale di stimolo, è fon-
damentale per ricollocare lo spazio alpino, il quale non
è solo uno spazio montano. Le Alpi sono la cerniera, il
cuore dell’Europa e credo che, fuori da ogni retorica,
siano e debbano diventare il laboratorio d’Europa, il
laboratorio delle idee, l’antidoto alle chiusure locali-
stiche e nazionalistiche, la pedana per ripensare una
nuova Europa all’insegna della montagna.
Egidio Bonapace Al di là del mio ruolo di presidente di Accademia del-
la Montagna, sono anche guida alpina e gestore di un
rifugio. Per me la montagna è sempre stata una que-
stione di vita e cerco di portare in Accademia quella
che è un’esperienza vissuta. Normalmente, incontri
simili a questo vengono organizzati per dirci quanto
siamo bravi. Per la prima volta ci siamo incontrati per
dirci come stanno veramente le cose. Solo attraverso
questo riusciremo a crescere. I relatori sono arrivati
qui non per parlar bene di loro stessi ma per dire che
cosa pensano debba esser fatto in montagna. Ciò che
ne è uscito (e di cui sono orgoglioso) è che ogni rifugio
è diverso da un altro, ogni rifugio ha una sua storia,
ogni rifugio trasmette emozioni diverse e ogni rifugio
dev’esser preso in considerazione (sia nella ristruttu-
razione che nel rifacimento) in maniera singolare. Non
esiste un modus operandi che vada bene per tutti i ri-
fugi o anche solo per determinate categorie. Ogni ri-
fugio necessita di una valutazione propria.
Roberto Dini, Luca Gibello,Stefano Girodo
Cantieri d’alta quota
A giudicare dalla partecipazione (circa 240 persone
registrate, senza contare i relatori), dall’entusiasmo e
dal livello del dibattito, il convegno internazionale di
Trento sembra avere segnato un’importante tappa, su
molti fronti.
In primis, ha ribadito come il dialogo fertile sia possi-
bile solo laddove non si autoconfina nei diversi recinti:
proprietari, gestori, progettisti, aziende, guide, ope-
CONCLUSIONI
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ratori e frequentatori della montagna devono trova-
re terreni comuni di confronto. Ma ha anche ribadito,
qualora ce ne fosse bisogno (e soprattutto nelle Alpi
orientali c’è bisogno), che il rifugio è una realtà altra
rispetto alle varie forme di ospitalità alberghiera; che
deve adeguarsi alle esigenze attuali senza “perdere
l’anima”. E quell’anima è fatta di due aspetti.
Da un lato – concetto che oggi va per la maggiore,
vuoi per le restrizioni imposte dalla crisi, vuoi per il
vento fresco che spira dalla nomina papale – una sor-
ta di “francescanesimo” evocato direttamente (Clau-
dio Fabbro) o declinato in varie maniere: adattamento
(Giorgio Azzoni), spartanità e semplicità (Claudio Bas-
setti, Egidio Bonapace, Livio Noldin, Helmuth Ohn-
macht), rusticità e convivialità (Jean Mazas), sobrietà
(Romano Stanchina). Dall’altro, la figura del rifugista
(o del “rifugiato”, secondo Angelo Iellici), persona che
fa la differenza trasmettendo lo spirito dell’accoglien-
za in alta quota e il cui impegno (come ci hanno dimo-
strato Anna Toffol, Nilo Pravisano, Gino Baccanelli,
Bepi Monti nell’apprezzatissimo filmato sui rifugi bel-
lunesi o ancora lo stesso Iellici) pare rispondere a una
vera e propria vocazione (che spesso oggi assume an-
che i contorni dell’educazione civica).
In numerosi frangenti è stato sottolineato come l’in-
tervento edilizio sul rifugio, così come la sua gestione,
siano ancora e sempre un’occasione di sperimenta-
zione: di tecniche costruttive e soluzioni tecnologiche
(in alta quota, il problema dello scioglimento del per-
mafrost è purtroppo la nuova sfida da affrontare), ma
anche di organizzazione nell’offerta del servizio (con
aperture sempre più richieste, soprattutto a Est, in in-
verno).
È emerso poi il tema delle funzioni, e di come esse
si materializzino attraverso lo spazio. Come cioè an-
che a livello d’immagine il rifugio sappia restituire la
sua peculiarità. Che non deve affatto rifarsi al rassi-
curante esempio della baita (o del baito), desueto e
frutto di un equivoco ideologico scaturito dalle dot-
trine dell’Heimatschutz, ma che neppure deve asse-
condare il protagonismo dei progettisti, ancor meno
quando questi non siano avvezzi a frequentare la
montagna. Annibale Salsa ha ricordato che tradizione
e innovazione non sono termini antitetici, ma che la
tradizione è un’innovazione riuscita e che nulla c’en-
tra col passatismo e la coazione a ripetere; una pa-
rafrasi dell’aforisma di Gustav Mahler: “La tradizione
è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cene-
re”. Ma gli usi vanno poi verificati nel tempo, perché
non è tutto oro quel che luccica: come nel caso della
celebratissima Monte Rosa Hütte, passata ai raggi x
da Philippe de Kalbermatten per rivelare pregi e di-
fetti di un’opera simbolica che deve la sua fortuna al
fatto di essere un unicum. Mentre l’esperienza legata
alla realizzazione del bivacco Gervasutti ne ha positi-
vamente scalfito l’iconica aura per presentarlo come
lezione di metodo e modello replicabile (in Russia, alle
pendici dell’Elbrus). Ed è alla prova dell’uso che andrà
verificato un altro gioiello d’alta quota, il nuovo rifugio
del Goûter, tanto vicino all’immaginario aerospaziale
quanto inatteso debitore di una filosofia dei materiali
a km (quasi) zero (il 90% del legname proviene dalle
foreste ai piedi del massiccio del Monte Bianco, nello
stesso Comune di Saint Gervais, sotto la cui giurisdi-
zione sorge il rifugio).
Infine, anche rispetto al tema della demolizione e ri-
costruzione, non esistono ricette universalmente va-
lide. Di fronte alla fatiscenza delle strutture, prima di
optare per la logica del piccone, occorre considerare
(come ha testimoniato Mathieu Vallet in merito alla
ricostruzione del rifugio Benevolo, poi declinata in
“ristrutturazione e ampliamento”), il valore immate-
riale legato alla storia del rifugio e alle memorie che
racchiude. Perché i nostri rifugi sono un patrimonio
(Patrum munus, ovvero “dono dei padri”, ce lo ha ri-
cordato ancora Salsa) collettivo. E di questo dobbia-
mo avere coscienza.
Entrando nel merito delle questioni, nelle due gior-
nate di studio è stata tracciata una vasta panoramica
dei numerosi progetti recentemente realizzati in tutto
l’arco alpino, dai meno conosciuti ai più importanti e
discussi. Non si è trattata però di una banale carrel-
lata di esempi virtuosi. I progettisti intervenuti hanno
infatti tracciato un articolato quadro in merito a che
cosa significhi concepire e realizzare un rifugio e quali
sono le caratteristiche che contraddistinguono il pro-
getto di una struttura in alta quota. È emerso infatti
in modo evidente come in tale ambito non vi siano
100
delle ricette preconfezionate ma come tale progetto si
caratterizzi in modo specifico a seconda della singola
situazione geografica, orografica, economica e anche
culturale.
Proviamo ora a tirare le somme e a esplicitare alcuni
temi di discussione che sono stati enunciati.
1. Il rifugio alpino, e in particolar modo la sua proget-
tazione e realizzazione, può essere letto come il punto
d’incontro tra la cultura progettuale e la cultura del-
la montagna. Il progetto di un rifugio è un processo
profondamente radicato nella montagna e che non
può prescindere da un’approfondita conoscenza del
contesto e dell’ambiente alpino. Una forma di cono-
scenza che non avviene a priori ma che è strettamen-
te connessa con il “fare”, che si realizza con un’assidua
frequentazione del contesto montano e attraverso l’e-
sperienza diretta.
2. Il rifugio, alla luce delle estreme condizioni al con-
torno, diventa la “materializzazione” vera e propria del
concetto di limite. Ciò significa che il progetto del rifu-
gio può diventare un tema “laboratorio” anche per la
pianura e la città, acquisendo un’attitudine fortemen-
te pedagogica. Ogni rifugio non è solo l’esito di una
corretta progettazione tecnica e architettonica ma
diventa, proprio per le differenti problematiche che
caratterizzano le singole strutture, esemplificativo di
una certa modalità d’intendere la sostenibilità, il rap-
porto con il sito o con la preesistenza. Se tutti questi
aspetti vengono affrontati con grande coerenza e ca-
pacità critica in alta quota allora, a maggior ragione,
possono tornare a essere oggetto di riflessione anche
più in basso.
3. L’idea di rifugio ottimale, in quanto esito di stratifi-
cazioni successive frutto dell’interazione tra progetti-
sti e costruttori, rifugisti e utenze, ecc., nasce proprio
dal continuo scambio e confronto tra tutte queste fi-
gure. Non ha senso dunque inseguire la chimera del-
la “macchina perfetta” senza riflettere però su quelle
che sono le modalità d’interazione tra la struttura, il
suo gestore e tutte le utenze. Il progetto prende forma
anche e soprattutto durante la realizzazione stessa
e ancora durante la fase gestionale, con continui ag-
giustamenti dovuti al confronto continuo con l’ostilità
dell’ambiente circostante, con le specificità delle sin-
gole realtà locali, con le esigenze e le necessità che via
via si presentano.
4. I recenti progetti di rifugi alpini sembrano, dal pun-
to di vista architettonico, riflettere sul superamento
della questione dell’inserimento paesaggistico spo-
stando invece l’attenzione su quella che potremmo
chiamare una “reinvenzione” del paesaggio alpestre,
in cui le strutture antropiche provano a ricercare una
dialettica con l’ambiente circostante. Proprio per que-
sto sembra ormai superato il dibattito, talvolta sterile
e banalizzante, che vede contrapposte forme archi-
tettoniche “avveniristiche” (generalmente associate
all’alta quota) con quelle più “tradizionali” (più comuni
invece nei rifugi dolomitici o di bassa/media quota).
5. Infine, anche per il progetto di un rifugio, come nel
rapportarsi più in generale con la montagna, è neces-
sario un ripensamento sul ruolo della responsabilità
individuale – in particolar modo di progettisti e co-
struttori – che deve guidare, in modo più forte che in
altri contesti, le scelte progettuali. In questo ambito,
più che altrove, è infatti richiesta capacità di adatta-
mento alle sempre diverse condizioni di lavoro, ma
soprattutto sobrietà e senso della misura.
I numerosi temi trasversali che sono emersi nelle due
giornate non fanno che confermare l’importante ruo-
lo di momenti di scambio come questo, che è proprio
quello di cercare di arricchire e ampliare gli immagi-
nari di progettisti e utenti, talvolta cristallizzati su fa-
cili stereotipi.
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Intervento di saluto di Accademia della Montagna del Trentino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
Intervento di saluto della SAT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .5
Prima Sessione | Quali utenti per quali rifugi?Per un osservatorio dei rifugi e bivacchi alpini | Roberto Dini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .9
Il patrimonio dei rifugi alpini | Annibale Salsa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
Come cambiano gli utenti dei rifugi | Luca Calzolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
Gestori e frequentatori dei rifugi in Trentino | Gianfranco Betta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
“Il lusso della montagna”. Un documentario tra i rifugi delle Dolomiti bellunesi
Valentina De Marchi, Francesca Bogo, Alessandro Sacchet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
Situazioni a confronto/1.Come si adeguano i gestori e i rifugi | Mathieu Vallet, Anna Toffol, Angelo Iellici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28
Situazioni a confronto/2.Verso il rifugio di domani: politiche e strategie tra Italia, Francia, Svizzera, Austria
Samuele Manzotti, Jean Mazas, Philippe de Kalbermatten, Helmut Ohnmacht, Romano Stanchina . . . . . . . . 32
Il quadro normativo in rapporto ai problemi della gestione ambientale | Riccardo Beltramo. . . . . . . . . . . . . 41
Aspetti igienico-sanitari nei rifugi alpini in Trentino | Antonio Prestini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
INDICE
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Seconda Sessione | Riqualificazione o demolizione/ricostruzione?Introduzione | Enrico Camanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
Tavola rotonda/1. Costruire ancora? Tra impatti e impronte ambientaliIl dilemma di fronte all’esistente | Mathieu Vallet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
Architetture d’alta quota. Il concorso per la ricostruzione di tre rifugi in Provincia di Bolzano
Alberto Winterle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Bivacco: l’abitare minimo nelle Alpi | Giorgio Azzoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
La nuova Monte Rosa Hütte alla prova dell’uso | Philippe de Kalbermatten . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
Dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
Tavola rotonda/2. Come riqualificare, ampliare, ricostruire?Il nuovo rifugio del Goûter al Monte Bianco | Hervé Dessimoz, Thomas Buchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
Il nuovo bivacco Gervasutti, un primo bilancio | Stefano Testa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77
La ristrutturazione e ampliamento del rifugio Baita Tonda | Marcello Lubian . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .80
L’ampliamento del rifugio Boè | Livio Noldin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
L’ampliamento del rifugio Alimonta | Raffaele Alimonta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85
La protezione dell’involucro edilizio in alta quota | Stefano Nardelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .88
Costruzioni in legno per l’edilizia montana | Stefano Menapace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .90
Dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92
ContributiRifugi: identità architettoniche fra tradizioni e tradimenti | Mauro Marinelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95
ConclusioniAnnibale Salsa, Egidio Bonapace, Roberto Dini, Luca Gibello, Stefano Girodo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98
Via Romagnosi, 5 - 38122 [email protected] - www.accademiamontagna.tn.it
PROVINCIAAUTONOMADI TRENTO