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ATTUALITÀ Moda verde www.altroconsumo.it www.altroconsumo.it marzo 2016 301 Altroconsumo 13 ATTUALITÀ Moda verde Nel tessile si usano molte sostanze tossiche, che inquinano e lasciano tracce sui capi d'abbigliamento che indossiamo. Vestire più green e sicuri però è possibile. Ecco come. Cambiamo abito L'industria tessile è la seconda più inquinante al mondo I produttori che hanno scelto di ripulirsi rappresentano appena il 15% della produzione di abbigliamento Le esperienze delle aziende impegnate nell'eliminazione di sostanze tossiche IN SINTESI C oco Chanel diceva «la moda passa, lo stile resta». Ora che la sostenibi- lità è diventata di moda, sarebbe bello e giusto che diventasse uno stile. Soprattutto nel mondo della moda, il settore che, per definizione e per vocazio- ne, detta gusti e preferenze. Occorre però capirsi: la sostenibilità non è un modo per farsi notare (greenwashing), ma per farsi ricordare come amici veri del pianeta. Non è più tempo di confondere il vero impegno con le apparenze. Slogan ecologisti. Spruz- zatine di verde nelle collezioni. Passerelle con immagini di boschi lussureggianti. Pub- blicità ambientate in splendidi giardini in fiore. I panni sporchi sono talmente tanti che è ormai impossibile nasconderli dietro grandi stampe a motivi nature. Un lungo strascico tossico L'industria tessile è la seconda più inqui- nante al mondo, dopo quella che impiega fonti fossili per produrre energia. Fa uso di oltre duemila sostanze chimiche, molte delle quali sono tossiche per l’ambiente e per la salute. Alterano gli ambienti acquatici. En- trano nella catena alimentare. Si accumula- no negli organismi biologici. Finiscono sulla DETOX LEADER Aziende che hanno intrapreso azioni concrete, verificate con analisi periodiche, per aderire alle richieste della campagna Detox: Adidas (Reebok) Benetton (Sisley, Playlife), Burberry, C&A (Angelo Litorico, Yessica, Your Sixth Sense, Westbury, Canda, Clockhouse, Baby Club, Palomino, Here & There, Rodeo Sport), Esprit (EDC), G-Star Raw , H&M (COS, Monki, Weekday, Cheap Monday, Other Stories), Inditex (Zara, Pull & Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarious, Oysho), Levi Strauss & Co. (Dockers, Signature, Denizen), Limitedbrands (Victoria's Secret), Mango, Marks & Spencer (Per Una, North Coast, Portfolio, Indiglo, Autograph, Blue Harbour, Ceriso, Ultimate, Brazil’s, Occasions, Collezione, Insola), Primark (Penneys-Republic of Ireland, Early Days, Rebel, Little Rebel, YD, Young Dimension, Atmosphere, Ocean Club, Love to Lounge, Opia, No Secret, Denim Co., Secret Possessions, Cedar Wood State), Puma, Fast Retaling (Uniqlo, Compti des Cotonniers, GU, Helmut Lang, J Brand, PLST, Princess Tam Tam, Theory), Valentino (M Missoni). ...e quelli che non si impegnano GREENWASHER Hanno dichiarato il proprio impegno, ma non lo hanno ancora dimostrato con azioni concrete: Lining (Aigle, Lotto, Kason), Nike (Converse, Hurley International, Jordan, Nike Golf). DETOX LOSER Tra le aziende che non hanno aderito, ecco quelle sui cui prodotti Greenpeace ha condotto analisi indipendenti: Giorgio Armani, Bestseller (Jack & Jones, Only, Outfitters Nation, Pieces), Diesel (Maison Martin Margiela, Viktor & Rolf, Marni), Dolce & Gabbana, Gap (Banana Republic, Old Navy, Piperlime, Athleta), Hermès, LVMH Group / Christian Dior Couture (Louis Vuitton, Céline, Loewe, Berluti, Kenzo, Givenchy, Marc Jacobs, Fendi, Emilio Pucci, Thomas Pink, Donna Karan, Edun, Nowness, LoroPiana, Nicholas Kirkwood), Metersbonwe, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Van Heusen, Arrow, Speedo, Olga, Warner's, GH Bass & Co), Vancl, Versace (Versus). GIUSEPPE UNGHERESE GREENPEACE Responsabile campagna inquinamento INTERVISTA «L'impegno Detox non è un bollino né una certificazione. È un percorso che le aziende abbracciano verso l'eliminazione completa di tutte le sostanze tossiche dai prodotti e dalle filiere produttive del tessile, entro il 2020. Chi aderisce decide di seguire una road map con scadenze ben definite». Giuseppe Ungherese insiste su questa premessa. «Deve essere chiaro che si tratta di un impegno che le aziende prendono con i consumatori di tutto il mondo». Perché avete pensato a Detox? «La campagna nasce da un problema poco noto ma molto diffuso, perlopiù nel Sud-Est asiatico e in Cina, ma anche in Messico o in Turchia. I grandi brand hanno utilizzato - e alcuni ancora utilizzano - i fiumi come delle discariche. Le sostanze che non finiscono nei fiumi in fase di produzione, rimangono nei vestiti e poi sono rilasciate nei fiumi quando li laviamo». Con quali risultati? «Per esempio un’indagine da noi condotta in Messico rivelò che in un fiume c’erano quasi 1.100 sostanze tossiche. Le comunità che vivono vicino a questi stabilimenti utilizzano quell’acqua per vivere, per cucinare: è la loro acqua potabile. In queste acque pescano. Siamo di fronte a un’emergenza ambientale di grande portata». Come vi siete mossi? «Siamo partiti dalla pubblicazione di una serie di rapporti contenenti evidenze scientifiche che dimostravano esattamente come gli scarichi di alcune aziende o anche i prodotti finiti presentassero concentrazioni di sostanze tossiche elevate. Siamo poi passati a fare pressioni sulle aziende. Dal 2011 a oggi hanno sottoscritto l'impegno Detox 35 gruppi, cui fanno riferimento cento marchi». Perché alcuni marchi che hanno aderito all'impegno non figurano nella "sfilata Detox"? «La valutazione avviene ogni anno. Se qualche brand non c’è, è perché ha avuto poco tempo per essere valutato». I dati come sono comunicati? «Uno dei pilastri di Detox è la trasparenza. Tutte le aziende e tutta la loro rete di fornitori devono pubblicare periodicamente sulla piattaforma online dell’IPE, Institute of Public and Environmental Affairs (www. ipe.org), tutti i dati relativi alle acque di scarico, così possono essere consultati da chiunque lo voglia. I dati sulle loro revisioni devono apparire anche sul proprio sito internet». Diverse aziende lamentano l'impossibilità di eliminare alcune sostanze chimiche. «Delle oltre 400 sostanze che fanno parte del protocollo Detox, si contano sulle dita di una mano quelle per le quali c’è bisogno di un ulteriore sforzo tecnologico per trovare alternative più sicure. Le aziende non hanno più scuse per continuare volontariamente a inquinare e a non tutelare salute e sicurezza». Detox: i marchi da incoraggiare Acquistando abbigliamento dei marchi impegnati nel processo di eliminazione delle sostanze tossiche si ottiene un duplice risultato: si premiano i brand più attivi e si spingono gli altri a impegnarsi. Indichiamo i gruppi e, tra parentesi, i principali marchi, secondo la valutazione di Greenpeace. Da questo giudizio sono esclusi tutti gli altri aspetti che riguardano la sostenibilità e la responsabilità sociale (condizioni di lavoro). La lista completa e aggiornata è sul sito www.greenpeace.org nostra pelle. Influiscono sul nostro sistema ormonale. Aumentano il rischio di allergie e tumori. Quando vogliamo gratificarci con un bell’abito nuovo, siamo abituati a confron- tarci con l’estetica e non con l’etica. Con il suo prezzo di vendita, quasi mai con il suo vero costo sociale, umano e ambientale. E quando lo facciamo, immaginiamo fabbri- che in Cina, Bangladesh o Cambogia. Una lontananza geografica capace di anestetiz- zare nella nostra coscienza anche tragedie immani. Come quella del Rana Plaza, l’edi- ficio crollato in Bangladesh nell’aprile del 2013, e sotto le cui macerie hanno perso la vita 1.130 persone, perlopiù giovani donne. Stavano lavorando anche per griffe occiden- tali, cucendo vestiti destinati a trovare posto nei nostri guardaroba. I gironi infernali dell’abbigliamento sono però anche tra noi. Si annidano in catene di subfornitura complesse e stratificate. Una fi- liera composta da tanti attori a diversi livelli, il cui controllo sfugge a marchi che, per disat- tenzione o poca sensibilità, sono disposti a sa- crificare i diritti sull’altare dei profitti. Come denuncia Abiti Puliti, la sezione italiana di Clean Clothes Campaign, molti grandi gruppi industriali della moda hanno rilocalizzato la produzione in Italia. Fatto positivo per l’oc- cupazione, peccato che importino condizioni di lavoro tipiche delle fabbriche bengalesi o moldave. Giornate di lavoro di quattordici ore. Salari da fame. Diritti negati. Lavoro nero. Illegalità. È tutto raccontato negli ulti- mi due report di Abiti Puliti: Una dura storia di cuoio e Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia? (www.abitipuliti.org) Andare oltre la normativa Per fortuna, nella moda che luccica si trova anche qualche pepita. Sulla spinta di richie- ste avanzate da consumatori, anche noi di Altroconsumo, e da movimenti d’opinione — ecologisti, umanitari e animalisti —, sono sempre di più i brand che hanno optato per un approccio più rispettoso dell'ambiente, in particolare nella gestione del rischio chimico, di cui parliamo in questo articolo. L'impegno maggiore si concentra su tre capisaldi. Elimi- nazione delle sostanze chimiche pericolose dalla produzione, il che si traduce in vestiti "puliti". Filiera produttiva più tracciabile. Di- vieto di pratiche crudeli sugli animali, soprat- tutto dopo l'eco internazionale che hanno avuto le denunce (documentate) delle soffe- renze imposte ai conigli d'angora e alle oche

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Page 1: ATTUALITÀ Moda verde Cambiamo abito C · ATTUALITÀ Moda verde 14 Altroconsumo 301 • marzo 2016 marzo 2016 • 301 Altroconsumo 15 ATTUALITÀ Moda verde consumo di energia scarti

ATTUALITÀModa verde

www.altroconsumo.it www.altroconsumo.it marzo 2016 • 301 Altroconsumo 13

ATTUALITÀModa verde

Nel tessile si usano molte sostanze tossiche, che inquinano e lasciano tracce sui capi d'abbigliamento che indossiamo.

Vestire più green e sicuri però è possibile. Ecco come.

Cambiamo abito

L'industria tessile è la seconda più inquinante al mondo

I produttori che hanno scelto di ripulirsi rappresentano appena il 15% della produzione di abbigliamento

Le esperienze delle aziende impegnate nell'eliminazione di sostanze tossiche

IN SINTESI

C oco Chanel diceva «la moda passa, lo stile resta». Ora che la sostenibi-lità è diventata di moda, sarebbe bello e giusto che diventasse uno

stile. Soprattutto nel mondo della moda, il settore che, per definizione e per vocazio-ne, detta gusti e preferenze. Occorre però capirsi: la sostenibilità non è un modo per farsi notare (greenwashing), ma per farsi ricordare come amici veri del pianeta. Non è più tempo di confondere il vero impegno con le apparenze. Slogan ecologisti. Spruz-zatine di verde nelle collezioni. Passerelle con immagini di boschi lussureggianti. Pub-blicità ambientate in splendidi giardini in fiore. I panni sporchi sono talmente tanti che è ormai impossibile nasconderli dietro grandi stampe a motivi nature.

Un lungo strascico tossicoL'industria tessile è la seconda più inqui-nante al mondo, dopo quella che impiega fonti fossili per produrre energia. Fa uso di oltre duemila sostanze chimiche, molte delle quali sono tossiche per l’ambiente e per la salute. Alterano gli ambienti acquatici. En-trano nella catena alimentare. Si accumula-no negli organismi biologici. Finiscono sulla

DETOX LEADER Aziende che hanno intrapreso azioni concrete, verificate con analisi periodiche, per aderire alle richieste della campagna Detox: Adidas (Reebok) Benetton (Sisley, Playlife), Burberry, C&A (Angelo Litorico, Yessica, Your Sixth Sense, Westbury, Canda, Clockhouse, Baby Club, Palomino, Here & There, Rodeo Sport), Esprit (EDC), G-Star Raw , H&M (COS, Monki, Weekday, Cheap Monday, Other Stories), Inditex (Zara, Pull & Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarious, Oysho), Levi Strauss & Co. (Dockers, Signature, Denizen), Limitedbrands (Victoria's Secret), Mango, Marks & Spencer (Per Una, North Coast, Portfolio, Indiglo, Autograph, Blue Harbour, Ceriso, Ultimate, Brazil’s, Occasions, Collezione, Insola), Primark (Penneys-Republic of Ireland, Early Days, Rebel, Little Rebel, YD, Young Dimension, Atmosphere, Ocean Club, Love to Lounge, Opia, No Secret, Denim Co., Secret Possessions, Cedar Wood State), Puma, Fast Retaling (Uniqlo, Compti des Cotonniers, GU, Helmut Lang, J Brand, PLST, Princess Tam Tam, Theory), Valentino (M Missoni).

...e quelli che non si impegnano GREENWASHER Hanno dichiarato il proprio

impegno, ma non lo hanno ancora dimostrato con azioni concrete: Lining (Aigle, Lotto, Kason), Nike (Converse, Hurley International, Jordan, Nike Golf).

DETOX LOSER Tra le aziende che non hanno aderito, ecco quelle sui cui prodotti Greenpeace ha condotto analisi indipendenti: Giorgio Armani, Bestseller (Jack & Jones, Only, Outfitters Nation, Pieces), Diesel (Maison Martin Margiela, Viktor & Rolf, Marni), Dolce & Gabbana, Gap (Banana Republic, Old Navy, Piperlime, Athleta), Hermès, LVMH Group / Christian Dior Couture (Louis Vuitton, Céline, Loewe, Berluti, Kenzo, Givenchy, Marc Jacobs, Fendi, Emilio Pucci, Thomas Pink, Donna Karan, Edun, Nowness, LoroPiana, Nicholas Kirkwood), Metersbonwe, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Van Heusen, Arrow, Speedo, Olga, Warner's, GH Bass & Co), Vancl, Versace (Versus).

GIUSEPPEUNGHERESE GREENPEACE Responsabile campagna inquinamento

INTERVISTA

«L'impegno Detox non è un bollino né una certificazione. È un percorso che le aziende abbracciano verso l'eliminazione completa di tutte le sostanze tossiche dai prodotti e dalle filiere produttive del tessile, entro il 2020. Chi aderisce decide di seguire una road map con scadenze ben definite». Giuseppe Ungherese insiste su questa premessa. «Deve essere chiaro che si tratta di un impegno che le aziende prendono con i consumatori di tutto il mondo».

Perché avete pensato a Detox?«La campagna nasce da un problema poco noto ma molto

diffuso, perlopiù nel Sud-Est asiatico e in Cina, ma anche in Messico o in Turchia. I grandi brand hanno utilizzato - e alcuni ancora utilizzano - i fiumi come delle discariche. Le sostanze che non finiscono nei fiumi in fase di produzione, rimangono nei vestiti e poi sono rilasciate nei fiumi quando li laviamo».

Con quali risultati?«Per esempio un’indagine da noi condotta in Messico rivelò che in un fiume c’erano quasi 1.100 sostanze tossiche. Le comunità che vivono vicino a questi stabilimenti utilizzano quell’acqua per vivere, per cucinare: è la loro acqua potabile. In queste acque pescano. Siamo di fronte a un’emergenza ambientale di grande portata».

Come vi siete mossi?«Siamo partiti dalla pubblicazione di una serie di rapporti contenenti evidenze scientifiche che dimostravano

esattamente come gli scarichi di alcune aziende o anche i prodotti finiti presentassero concentrazioni di sostanze tossiche elevate. Siamo poi passati a fare pressioni sulle aziende. Dal 2011 a oggi hanno sottoscritto l'impegno Detox 35 gruppi, cui fanno riferimento cento marchi».

Perché alcuni marchi che hanno aderito all'impegno non figurano nella "sfilata Detox"? «La valutazione avviene ogni anno. Se qualche brand non c’è, è perché ha avuto poco tempo per essere valutato».

I dati come sono comunicati?«Uno dei pilastri di Detox è la trasparenza. Tutte le aziende e tutta la loro rete di fornitori devono pubblicare periodicamente sulla piattaforma online dell’IPE, Institute of Public and Environmental Affairs (www.ipe.org), tutti i dati relativi alle acque di scarico, così possono

essere consultati da chiunque lo voglia. I dati sulle loro revisioni devono apparire anche sul proprio sito internet».

Diverse aziende lamentano l'impossibilità di eliminare alcune sostanze chimiche.«Delle oltre 400 sostanze che fanno parte del protocollo Detox, si contano sulle dita di una mano quelle per le quali c’è bisogno di un ulteriore sforzo tecnologico per trovare alternative più sicure. Le aziende non hanno più scuse per continuare volontariamente a inquinare e a non tutelare salute e sicurezza».

Detox: i marchi da incoraggiareAcquistando abbigliamento dei marchi impegnati nel processo di eliminazione delle sostanze tossiche si ottiene un duplice risultato: si premiano i brand più attivi e si spingono gli altri a impegnarsi. Indichiamo i gruppi e, tra parentesi, i principali marchi, secondo la valutazione di Greenpeace. Da questo giudizio sono esclusi tutti gli altri aspetti che riguardano la sostenibilità e la responsabilità sociale (condizioni di lavoro). La lista completa e aggiornata è sul sito www.greenpeace.org

nostra pelle. Influiscono sul nostro sistema ormonale. Aumentano il rischio di allergie e tumori. Quando vogliamo gratificarci con un bell’abito nuovo, siamo abituati a confron-tarci con l’estetica e non con l’etica. Con il suo prezzo di vendita, quasi mai con il suo vero costo sociale, umano e ambientale. E quando lo facciamo, immaginiamo fabbri-che in Cina, Bangladesh o Cambogia. Una lontananza geografica capace di anestetiz-zare nella nostra coscienza anche tragedie immani. Come quella del Rana Plaza, l’edi-ficio crollato in Bangladesh nell’aprile del 2013, e sotto le cui macerie hanno perso la vita 1.130 persone, perlopiù giovani donne. Stavano lavorando anche per griffe occiden-tali, cucendo vestiti destinati a trovare posto nei nostri guardaroba. I gironi infernali dell’abbigliamento sono però anche tra noi. Si annidano in catene di subfornitura complesse e stratificate. Una fi-liera composta da tanti attori a diversi livelli, il cui controllo sfugge a marchi che, per disat-tenzione o poca sensibilità, sono disposti a sa-crificare i diritti sull’altare dei profitti. Come denuncia Abiti Puliti, la sezione italiana di Clean Clothes Campaign, molti grandi gruppi industriali della moda hanno rilocalizzato la

produzione in Italia. Fatto positivo per l’oc-cupazione, peccato che importino condizioni di lavoro tipiche delle fabbriche bengalesi o moldave. Giornate di lavoro di quattordici ore. Salari da fame. Diritti negati. Lavoro nero. Illegalità. È tutto raccontato negli ulti-mi due report di Abiti Puliti: Una dura storia di cuoio e Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia? (www.abitipuliti.org)

Andare oltre la normativaPer fortuna, nella moda che luccica si trova anche qualche pepita. Sulla spinta di richie-ste avanzate da consumatori, anche noi di Altroconsumo, e da movimenti d’opinione — ecologisti, umanitari e animalisti —, sono sempre di più i brand che hanno optato per un approccio più rispettoso dell'ambiente, in particolare nella gestione del rischio chimico, di cui parliamo in questo articolo. L'impegno maggiore si concentra su tre capisaldi. Elimi-nazione delle sostanze chimiche pericolose dalla produzione, il che si traduce in vestiti "puliti". Filiera produttiva più tracciabile. Di-vieto di pratiche crudeli sugli animali, soprat-tutto dopo l'eco internazionale che hanno avuto le denunce (documentate) delle soffe-renze imposte ai conigli d'angora e alle oche

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ATTUALITÀModa verde

www.altroconsumo.it www.altroconsumo.it14 Altroconsumo 301 • marzo 2016 marzo 2016 • 301 Altroconsumo 15

ATTUALITÀModa verde

consumo di energiascarti di produzione o rifiutiemissioni e scarichi

in alcuni allevamenti. Per quanto riguarda l'eliminazione di sostanze tossiche, ci sono marchi che stanno dimostrando un’atten-zione che va oltre il rispetto della normativa vigente. Ne abbiamo parlato lo scorso 16 feb-braio nel convegno #dirittiallamoda, organiz-zato a Roma. Un cambiamento sollecitato in gran parte dalla campagna di Greenpeace, che rappresenta una vera rivoluzione per tutto il settore. Per la prima volta chiediamo ai marchi dell'abbigliamento non di limitare l’uso di sostanze tossiche. Questo è già chia-ramente imposto per legge (in Europa dal regolamento REACH) e previsto in maniera ancor più restrittiva da diverse certificazioni volontarie (in particolare Oeko-Tex) adottate dalle aziende tessili. Chiediamo addirittura di eliminarle dalla produzione, in modo che non finiscano né nell'ambiente né sui capi d'abbigliamento. Un'eliminazione graduale entro il 2020, inserita in un percorso a tap-pe programmate e con verifiche periodiche.

Grandi pulizie in 100 case (di moda)Nel mirino ci sono undici classi di sostanze pericolose per l’ambiente e per la salute, tra cui ftalati, alchilfenoli etossilati, PFC, ammine associate a coloranti azoici, metalli pesanti. Sostanze da noi ricercate nei test sul tessile e in diversi casi rintracciate. Sui pigiamini per bambini abbiamo scoperto ftalati e coloranti; sulla biancheria intima c'erano coloranti, solventi, metalli pesanti, nonilfenolo e nonilfenoletossilato; sui jeans tracce di metalli e formaldeide; sulla maglie da calcio tracce di metalli (tutti gli articoli sono reperibili sul nostro sito, in archivio). Insieme a Greenpeace ne chiediamo l'elimi-nazione e non la semplice riduzione, perché partiamo da un assunto molto semplice: quando ci sono di mezzo sostanze tossiche, non esiste una soglia di concentrazione sot-to la quale il problema diventa accettabile, anche perché siamo contemporaneamente esposti a più fonti tossiche e si rischia l'effetto

cocktail. Questo concetto è rafforzato dalla considerazione che i residui rintracciabili sul prodotto finito equivalgono solo a una piccolissima parte della quantità usata nelle filiere di produzione. Giocoforza la maggior parte è già finita nell’ambiente. Dal 2011 a oggi, hanno sottoscritto l’impegno Detox 35 gruppi internazionali, che rappresentano più di cento marchi (vedi la prima parte dell'e-lenco a pag. 12). Tutti insieme costituiscono circa il 15% della produzione globale di abbi-gliamento. Tra le aziende che rispettano gli impegni, troviamo firme che soddisfano un po’ tutti i gusti e tutte le tasche. Grandi griffe del lusso (Valentino, Burberry). Marchi del fast fashion (Zara, H&M, Uniqlo). Multinazionali dell'abbigliamento sportivo (Adidas, Puma) e dell’outdoor (Páramo). Discount (Lidl, Penny). Di conseguenza, anche diverse aziende tessili italiane, che forniscono i semilavorati ai mar-chi dell’abbigliamento, si stanno impegnando a eliminare le sostanze tossiche.

Dubbi poco sinteticiIn un primo momento l’iniziativa di Greenpeace è stata accolta con scetticismo dal mondo produttivo. Ci si chiedeva come fosse possibile eliminare sostanze necessarie per migliorare le performance dei tessuti: colorare, impermeabilizzare, conferire qua-lità idrorepellenti e antimacchia, eliminare il rischio di infiammabilità, prevenire l’odore causato dal sudore, ottenere effetti antipie-ga. La paura era che, per venire incontro alla richiesta di una moda verde, i tessuti perdes-sero in fascino e prestazioni. Che si tornasse ad abiti puliti sì, ma “poveri”, penitenziali, e dai costi maggiori, come era successo in passato. Abbigliamento che non si vende, se non a una nicchia di consumatori atti-vamente impegnati. Bisognava anche non disperdere il patrimonio di saper fare che rende la moda un concentrato di creatività e funzionalità pratica. Non tutti i dubbi sono stati fugati. Ci sono

produttori che considerano imprescindibile l'utilizzo di alcune sostanze che la chimica non è riuscita a sostituire con altre ecologi-camente più accettabili. Filippo Servalli, responsabile dei program-mi di sostenibilità di Radici Group, azienda italiana tra i leader mondiali per la produ-zione di nylon, che ha fatto del migliora-mento delle sue performance ambientali un punto di forza, pone per esempio la questio-ne dei metalli pesanti: «Abbiamo già elimi-nato tutto ciò che era possibile eliminare, resta il nodo dei metalli pesanti, come ni-ckel e antimonio, senza i quali è impossibile produrre fibre “man made” (chimiche ndr). Le stiamo riducendo, servono misurazioni precise, ma eliminarle dalla produzione significherebbe non poter più fare fibre sintetiche. Ogni anno si producono 24 mi-lioni di tonnellate di cotone e 60 milioni di tonnellate di poliestere. Se dovessimo sostituire tutte le fibre chimiche con quelle

naturali non avremmo più terre coltivabili. Serve un equilibrio. E poi la sostenibilità di un prodotto si valuta sull’intero ciclo di vita. Per questo abbiamo intensificato la produzione di poliestere da riciclo del PET e stiamo lavorando per rendere sempre più riciclabili i prodotti "man made"». Greenpeace però assicura che alla base delle sue campagne c'è la fattibilità: «Par-tiamo sempre da situazioni in cui esistono alternative percorribili e soprattutto ver-di» puntualizza Giuseppe Ungherese di Greenpeace. «Per esempio gli alchilfenoli vengono usati abitualmente per sgrassare, la stessa cosa si può ottenere con metodi alternativi, come quelli su base alcolica, che non sono tossici. Sono solo due o tre i com-posti per i quali non c’è ancora un’alterna-tiva sicura ed ecologica. Servono tra l’altro per processi non in uso in tutte le aziende tessili. Siamo aperti al dialogo, costruiamo una road map insieme con le aziende».

COTONE E POLIESTERE A CONFRONTO

coltivazione raccolta e trasporto filatura e tessitura

estrazione filatura e tessitura lavaggio e stiro fine vitaconfezionetintura, stampa e finissaggio

A titolo di esempio, ecco il confronto tra una stessa T-shirt, nella versione in cotone e nella versione in poliestere. Se consideriamo i quattro più importanti indicatori di impatto ambientale, il poliestere risulta avere un minore impatto sull’ambiente.

Energia

Emissioni e scarichi

Consumo di acqua

Alterazioni negli ambienti acquatici

consumo di acquapesticidi e fertilizzanti emissioni e scarichi consumo di energia

scarti di produzione o rifiuti

consumo di acquaconsumo di energiasostanze chimichescarti di produzione o rifiutiemissioni e scarichi

consumo di energiascarti di produzione o rifiuti

consumo di acquaconsumo di energiasostanze chimicheemissioni e scarichi riciclo o rifiuto

Cotone

Poliestere

Fonte: Blumine / Sustainability-lab e Radici Group

Cotone Vanta un’alta biodegradabilità, ma presenta diversi svantaggi: alto consumo di acqua e rilevante impiego di pesticidi in fase di coltivazione, alto consumo di carburante per il trasporto dai campi alle imprese produttrici. Non sempre le fibre naturali sono più sostenibili. Ogni tessuto fa storia a sé.

Poliestere Come tutte le fibre sintetiche, ha due punti a sfavore: ha origine dal petrolio e non è biodegradabile. A fine vita, se non viene riciclato, permane nell’ambiente a lungo. Vanta però basso consumo di acqua, alto grado di automazione e minori trasporti, visto che i luoghi di produzione della fibra e del filato coincidono.

PoliestereCotone

Qual è il più sostenibile?

estrazione di petrolioconsumo di energiasostanze chimicheemissioni e scarichi

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ATTUALITÀModa verde

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ATTUALITÀModa verde

nostri test, gli indumenti che la riportano hanno in genere ottenuto valutazioni buone sulla sicurezza chimica. • Non acquistare pellicce e capi con inserti in pelliccia: basta toccare per capire se sono vere e scartarli subito.• Evita l'acquisto di indumenti con stampe plastificate, che possono contenere sostanze nocive più a rischio. Se si tratta di un capo di biancheria, preferisci il cotone, meglio bianco o di colore chiaro. Non acquistare prodotti con inserti in metallo che saranno a diretto contatto con la pelle. • Lava i capi prima di indossarli per la prima

volta. In molti casi questo consente di scari-care buona parte delle sostanze chimiche. • Per il lavaggio utilizza il dosaggio minimo di detersivo ed evita l'uso di ammorbidenti. • Resisti alla tentazione di comprare vestiti nuovi, anche quando sono in saldo, e fai durare il più possibile quelli che hai.• Se non sono troppo logori, invece di but-tarli via, donali o scambiali, anche online. Esistono siti e app, per esempio Swat Party, nati per facilitare questo scambio.

Le etichette devono raccontarePurtroppo i vestiti non parlano, non riesco-no a raccontarci la loro storia produttiva. Arrivati nelle boutique e nei grandi magaz-zini, nessuno è in grado di valutare il loro contenuto green soltanto toccandoli. E le etichette — che indicano solo materiali, luo-go di confezionamento, consigli di manuten-zione — non sono di alcuna utilità. Di aiuto potrebbe essere l'etichetta sulla sostenibilità, così come un ruolo importante potrebbero giocarlo le smart label, etichette intelligen-ti in grado di dialogare con smartphone e tablet (vedi intervista in questa pagina).

Queste sarebbero utili anche nella lotta alla contraffazione, che affligge il mondo della moda più di qualsiasi altro settore.

I nostri consigliEcco alcuni consigli da seguire in fase d’ac-quisto, uso e dismissione di un indumento. • Consulta "La sfilata Detox" su Greenpeace.org e scegli i capi d'abbigliamento dei marchi classificatisi come "Detox Leader". • Tra le certificazioni prediligi Oeko-Tex: nei

Una spinta verso l'innovazione Fedeli al detto secondo cui “un grammo di buon esempio vale più di un quintale di pa-role”, la risposta più convincente alle aziende dubbiose arriva da chi ha abbracciato con entusiasmo la causa Detox. In prima linea c'è Italdenim, azienda lombarda che produ-ce tessuti per i jeans di prestigiose case di moda. «Abbiamo già eliminato tutte le sostan-ze tossiche che il protocollo di Greenpeace chiede di bandire. Inoltre, nei trattamenti di nobilitazione (tintura, lavaggio e finissaggio ndr) usiamo tecnologie che ci consentono la massima resa con i minori consumi di acqua, energia e composti chimici — spiega Gigi Cac-cia, amministratore delegato di Italdenim —. Per di più i tessuti della nostra collezione non hanno per niente perso in prestazioni, ap-peal estetico e tattile. Per rendere resistente l’ordito alle sollecitazioni del telaio abbiamo abbandonato il metodo tradizionale e adotta-to l’uso del chitosano, una sostanza organica ottenuta dagli scarti dei crostacei usati nell’in-dustria alimentare, quindi completamente biodegradabile. Questo permette di ridurre enormemente i consumi sia di acqua (fino all’80%) sia di energia (fino al 50%), e di ab-battere l’uso di detergenti, sbiancanti e altri agenti chimici».

L'impatto sui costiLegittimo chiedersi da consumatori se questi cambiamenti si rifletteranno sui costi e quindi sul prezzo finale dell'abbigliamento. «Sono prodotti e tecnologie onerose, però se ven-gono inserite in processi ben ingegnerizzati, i costi non sono diversi da quelli della produ-zione tradizionale» precisa Caccia.Insomma, chi non vuole convertirsi alla li-nea verde non ha alibi. Certo è che occorre investire in ricerca e innovazione. E in questo senso Canepa, una delle maggiori tessiture italiane, la prima azienda tessile al mondo ad aver sottoscritto Detox, ha fatto scuola. È proprio nel suo centro di ricerca, in colla-borazione con i laboratori del Cnr-Ismac di Biella, che è stato messo a punto e brevettato (con il nome di Kitotex) l’uso del chitosano in ambito tessile. «Ora siamo impegnati a eliminare completamente dalla produzio-ne il PVA (alcol polivinilico), un prodotto usato per rinforzare i filati, ma che genera microplastiche che attraverso gli scarichi si accumulano nell’ambiente; nei mari diven-tano isole galleggianti, i pesci scambiano le microplastiche per plancton e se ne cibano, così arrivano sulle nostre tavole» afferma Maurizio Ribotti, a capo della comunicazio-ne di Canepa. Chi può invece già vantare di aver elimi-nato tutte e 11 le classi di sostanze tossiche previsto da Detox è Besani, produttore di tessuti a maglia in filo di Scozia. «Per noi il

AURORA MAGNI BLUMINE / SUSTAINABILITY-LAB Presidente

INTERVISTA

Per il mondo della moda, l’ecologia è una questione più di marketing o di buone pratiche? «La svolta sostenibile dei brand è un fenomeno recente. Di certo è un fatto positivo ma è facile definirsi sostenibili, più difficile è individuare le criticità dei processi e dei materiali. E porvi rimedio, coinvolgendo la catena dei fornitori, per esempio per ridurre i consumi di acqua nei processi e le emissioni di CO2 oppure per eliminare le sostanze chimiche pericolose. Su questi temi abbiamo visto scendere in campo brand famosi, specie dell’abbigliamento sportivo ma si tratta di una quota ancora troppo piccola del mondo della moda».

Sostenibilità e competitività: è un matrimonio possibile?«In questo momento la partita per la moda sostenibile è giocata soprattutto sull’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose, come richiesto dal protocollo Detox di Greenpeace. L’azienda che riesce a dare ai materiali ottime performance, anche estetiche, senza usare sostanze chimiche pericolose, diventa più competitiva ed emerge sui concorrenti. Il mercato premia inevitabilmente le imprese che in questi anni hanno investito in ricerca e innovazione, coinvolgendo la propria catena di fornitori».

Che ruolo hanno le certificazioni?«Le aziende tessili hanno a disposizione numerosi sistemi di certificazione che prevedono, per quanto riguarda la presenza di sostanze chimiche critiche,

determinati gradi di tolleranza. L’obiettivo “zero” ha spostato la competizione su un livello più alto, valorizzando le imprese in grado di raggiungerlo al di là del fatto che siano o meno certificate. Va inoltre detto che le certificazioni sono raramente visibili e riconosciute dal consumatore. Hanno però contribuito a diffondere la cultura della valutazione oggettiva dei dati, pratica fondamentale in ogni processo di miglioramento».

Il consumatore che strumenti ha per scegliere capi verdi? «Le etichette aiutano poco. Si riferiscono alla composizione fibrosa del capo, alle modalità di lavaggio e stiro e al Paese in cui il prodotto è stato realizzato. Prodotti indicati come made in Italy spesso sono fatti con tessuti lavorati e tinti in Paesi la cui legislazione sulla sicurezza

chimica è meno rigorosa di quella europea. La situazione può però migliorare. La moda potrebbe usare etichette smart e app per consentire ai consumatori di leggere con lo smartphone le performance ambientali e la storia produttiva del capo prima di comprarlo. In attesa che la tecnologia digitale ci aiuti, non ci resta che seguire le politiche dei brand e premiare quelli che si impegnano concretamente sui temi che ci stanno a cuore».

processo di liberazione dalle sostanze tossi-che si è praticamente concluso. Per riuscirci abbiamo coinvolto tutti i nostri fornitori in questo sforzo. Li abbiamo scelti privilegiando la condivisione di obiettivi, più che la logica del vantaggio economico» dice Mario Riva re-sponsabile sostenibilità di Besani. «La nostra filiera è pulita. Anche i tessuti sono migliorati, i colori sono diventati più brillanti».

Non solo tessutiLa campagna Detox non è solo tessuti, coin-volge anche il mondo degli accessori. Hanno infatti aderito due produttori di chiusure lampo, Zip GDF e Giovanni Lanfranchi. Per loro la sfida è ancora più difficile, perché oltre che la componente tessile devono produrre quella metallica, la cerniera vera e propria, che prevede il ricorso a sostanze chimiche più aggressive. «Per mantenere fede ai nostri impegni abbiamo dovuto rifare molte ricette, come quelle dei coloranti, per eliminare il cadmio. Abbiamo adottato leghe di ottone esenti da piombo. Per liberarsi del problema del rame, presente nell’ottone, si potrebbe optare sempre per leghe di ac-ciaio, ma questo comporta un aumento dei costi» spiega Alessandro Bordegari, diret-tore commerciale di Giovanni Lanfranchi, azienda nata come bottonificio nel 1887 e convertitasi alle lampo negli anni Sessanta.

IMPRONTE NELLA NEVE Il paradosso dell'abbigliamento outdoor: è pensato per i grandi amanti della natura, ma contiene sostanze inquinanti

È il più naturale dei paradossi. Amare la natura, acquistare un equipaggiamento ad hoc per godersela al meglio, e scoprire che questo contiene sostanze chimiche pericolose. Che una volta immesse in natura non si degradano, se non in tempi lunghissimi. Greenpeace ha testato 40 prodotti (giacche, scarpe, tende, zaini, sacchi a pelo e perfino corde), acquistati in 19 Paesi, trovando tracce di PFC nel 90% degli articoli. Si tratta di sostanze che si degradano con molta difficoltà, rimangono nell'ambiente per centinaia di anni e sono dannose per la salute.

Usati per impermeabilizzare«Marchi come The North Face, Patagonia, Mammut, Salewa e Columbia continuano a usare PFC per impermeabilizzare i loro prodotti, nonostante si dichiarino a parole sostenibili e amanti della natura» dice Giuseppe Ungherese di Greenpeace. «Abbiamo trovato elevate concentrazioni di PFOA, un PFC a catena lunga collegato a numerose patologie e malattie gravi come il cancro, in 11 prodotti tra cui alcuni dei

marchi The North Face, Salewa e Mammut.Questa sostanza è già sottoposta a severe limitazioni in Norvegia». Solo in 4 prodotti (il 10 per cento) non sono stati rilevati PFC. Questo dimostra che c'è poca sensibilità da parte delle aziende outdoor su questi composti, ma anche che è possibile produrre abbigliamento impermeabile senza usarli.

Una contaminazione globaleGreenpeace ha anche condotto otto spedizioni in aree remote, dalla Cina alla Patagonia, dalle Alpi ai Monti Sibillini, analizzando acque e neve fresca. Sono stati rintracciati PFC ovunque, anche a cinquemila metri di quota. Si tratta di sostanze caratterizzate da un’elevata volatilità, sono trasportate dai venti, dalle masse d’acqua, dalle correnti marine e si diffondono su tutta la superficie terrestre. Una contaminazione globale che non dovrebbe vedere coinvolte anche le aziende dell'outdoor, che fanno dello stare in natura il loro business. Per approfondire vai su: detox-outdoor.org

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Le spedizioni condotte da Greenpeace in aree remote, per analizzare acqua e neve

I composti pericolosi nei campioni analizzati. In quello dei Monti Sibillini le quantità maggiori

L'inglese Páramo è il primo marchio outdoor ad annunciare l'adesione a Detox

Se vuoi indossare abiti più sicuri, scegli i marchi attivi nell'eliminazione delle sostanze tossiche