augusto banorri a l’ombra del cimone (novelle e leggende) · dal vero e animati con un soffio...

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1 Augusto Banorri A l’ombra del Cimone (Novelle e leggende) Modena 1919 A chi legge Amico lettore, vuoi tu per un momento dimenticare le eterne contese letterarie di tanti perdigiorno inutili, vuoi tu la- sciare che altri disserta di sensibilità, di espressione, di stile, di futurismo, di rimbombimento, e vuoi tu passare un’ora con un uomo alla buona e senza pretese, il quale si contenta di descrivere quel che i suoi occhi vedono e di narrare ciò che l’esperienza sua e i ricordi e le memorie dettano al suo cuore puro e generoso? Leggi questo libretto. Se tu conoscessi di persona l’autore di queste pagine, vedresti davanti a te un uomo tarchiato e robusto come le quercie delle sue montagne; ma saresti subito vinto dalla bontà del suo sorriso e dalla luce dei suoi occhi chiari e sereni come quelli di un fanciullo. Orbene, ciò ch’egli scrisse gli somiglia. La montagna gli è stata maestra, assai più dei volumi su cui si è curvata così spesso la sua fronte e di cui egli apprese per sé e per gli altri l’antica saggezza e lo spirito cristiano, fin da quando, prima di essere pastore di anime, era mae- stro ai giovinetti in quel piccolo seminario friniate di dove brillava e brilla una luce viva di sapere. Il bel Frignano vive in queste pagine modeste. Tu hai, se mai, una guida esperta e sicura. Puoi salire in mezzo alla tor- menta verso il valico delle Radici, o seguire il gregge di Graziella sulle rive del Lagosanto sotto l’alpe del Rondinaio; puoi arrampicarti fino al Lagobracciano la notte di Natale per aspettarvi il diavolo e i suoi zecchini, o arrivare alla cima della Chiesaccia per trovarvi la chioccia dai pulcini d’oro. Sono leggende in cui l’immaginazione popolare ha profuso il gusto del meraviglioso, sono ricordi raccolti di sulla bocca dei vecchi, sono quadretti di vita paesana presi dal vero e animati con un soffio ingenuo di poesia. E su tutto, l’ampia montagna varia e verde che si stende attorno alle falde del padre Cimone, con i suoi laghi alpini, con i fiumi sonanti e i torrenti fragorosi, con i pascoli verdi sospesi all’orlo delle roccie o chiusi nel cerchio delle boscaglie, con le selve fitte che scendono ad abbracciarsi nel fiume, con i casolari sperduti accanto a cui bela il gregge, mormora la fontanella e una fanciulla canta. Questo piccolo mondo ha le sue gioie e i suoi dolori. Il nostro autore sa interpretarli con delicatezza, senza esagerare, anzi con tono gentile e pacato. Non vi è in lui nessuna di quelle preoccupazioni folkloristiche, che inducono a essere troppo minuziosi o a caricare le tinte. Si vede, d’altra parte, che egli preferisce la compagnia dei buoni e che l’indugiarsi nella descrizione del male non piace alla sua anima diritta. Uno solo di questi racconti potrebbe avere tra- gico fine e macchiare con un omicidio queste pagine innocenti; ma i colpi della rivoltella vanno a vuoto e un taberna- colo dedicato alla Vergine fa ancora testimonianza del miracolo. Vi è sì chi muore, ma nobilmente e per un altissimo fine, oppure per una insidia della natura fra i burroni e le nevi. La montagna è traditrice; accanto all’idillio vi fiorisce il dramma: le selve non sono sempre placide e spesso vi imperversa la bufera, e talora un bel campo di neve nasconde un pericolo mortale all’incauto che vi pone il piede. Lo seppe Masetto, il temerario cacciatore! Leggi dunque questo libro in cui i paesi e le persone hanno un così sapido gusto di verità. Io spero che il tuo palato non sia guastato dalle pietanze di moda, dove, secondo i casi, è troppa abbondanza di pepe o di miele. Ma alle volte un cibo semplice serve a sanare gli stomachi viziati. E’ come respirare una boccata d’aria fresca dopo essere state troppe ore in una sala chiusa. E fidati a questa compagnia. Ti sarà dolce così ascoltare e novellare all’ombra di un faggio, beven- do l’acqua chiara del rio o sorbendo una ciotola di latte fumante. Giuseppe Lipparini

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Augusto Banorri A l’ombra del Cimone (Novelle e leggende) Modena 1919

A chi legge Amico lettore, vuoi tu per un momento dimenticare le eterne contese letterarie di tanti perdigiorno inutili, vuoi tu la-sciare che altri disserta di sensibilità, di espressione, di stile, di futurismo, di rimbombimento, e vuoi tu passare un’ora con un uomo alla buona e senza pretese, il quale si contenta di descrivere quel che i suoi occhi vedono e di narrare ciò che l’esperienza sua e i ricordi e le memorie dettano al suo cuore puro e generoso? Leggi questo libretto. Se tu conoscessi di persona l’autore di queste pagine, vedresti davanti a te un uomo tarchiato e robusto come le quercie delle sue montagne; ma saresti subito vinto dalla bontà del suo sorriso e dalla luce dei suoi occhi chiari e sereni come quelli di un fanciullo. Orbene, ciò ch’egli scrisse gli somiglia. La montagna gli è stata maestra, assai più dei volumi su cui si è curvata così spesso la sua fronte e di cui egli apprese per sé e per gli altri l’antica saggezza e lo spirito cristiano, fin da quando, prima di essere pastore di anime, era mae-stro ai giovinetti in quel piccolo seminario friniate di dove brillava e brilla una luce viva di sapere. Il bel Frignano vive in queste pagine modeste. Tu hai, se mai, una guida esperta e sicura. Puoi salire in mezzo alla tor-menta verso il valico delle Radici, o seguire il gregge di Graziella sulle rive del Lagosanto sotto l’alpe del Rondinaio; puoi arrampicarti fino al Lagobracciano la notte di Natale per aspettarvi il diavolo e i suoi zecchini, o arrivare alla cima della Chiesaccia per trovarvi la chioccia dai pulcini d’oro. Sono leggende in cui l’immaginazione popolare ha profuso il gusto del meraviglioso, sono ricordi raccolti di sulla bocca dei vecchi, sono quadretti di vita paesana presi dal vero e animati con un soffio ingenuo di poesia. E su tutto, l’ampia montagna varia e verde che si stende attorno alle falde del padre Cimone, con i suoi laghi alpini, con i fiumi sonanti e i torrenti fragorosi, con i pascoli verdi sospesi all’orlo delle roccie o chiusi nel cerchio delle boscaglie, con le selve fitte che scendono ad abbracciarsi nel fiume, con i casolari sperduti accanto a cui bela il gregge, mormora la fontanella e una fanciulla canta. Questo piccolo mondo ha le sue gioie e i suoi dolori. Il nostro autore sa interpretarli con delicatezza, senza esagerare, anzi con tono gentile e pacato. Non vi è in lui nessuna di quelle preoccupazioni folkloristiche, che inducono a essere troppo minuziosi o a caricare le tinte. Si vede, d’altra parte, che egli preferisce la compagnia dei buoni e che l’indugiarsi nella descrizione del male non piace alla sua anima diritta. Uno solo di questi racconti potrebbe avere tra-gico fine e macchiare con un omicidio queste pagine innocenti; ma i colpi della rivoltella vanno a vuoto e un taberna-colo dedicato alla Vergine fa ancora testimonianza del miracolo. Vi è sì chi muore, ma nobilmente e per un altissimo fine, oppure per una insidia della natura fra i burroni e le nevi. La montagna è traditrice; accanto all’idillio vi fiorisce il dramma: le selve non sono sempre placide e spesso vi imperversa la bufera, e talora un bel campo di neve nasconde un pericolo mortale all’incauto che vi pone il piede. Lo seppe Masetto, il temerario cacciatore! Leggi dunque questo libro in cui i paesi e le persone hanno un così sapido gusto di verità. Io spero che il tuo palato non sia guastato dalle pietanze di moda, dove, secondo i casi, è troppa abbondanza di pepe o di miele. Ma alle volte un cibo semplice serve a sanare gli stomachi viziati. E’ come respirare una boccata d’aria fresca dopo essere state troppe ore in una sala chiusa. E fidati a questa compagnia. Ti sarà dolce così ascoltare e novellare all’ombra di un faggio, beven-do l’acqua chiara del rio o sorbendo una ciotola di latte fumante.

Giuseppe Lipparini

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Indice I. In mezzo alla tormenta .............................. 2 II. Il sogno di Graziella .................................. 5 III. Il cacciatore ............................................... 10 IV. Maternità spirituale ................................... 13 V. I quattrini del Diavolo ............................... 17 VI. Il tabernacolo della Vergine ...................... 20 VII. Mamma, non piangere! ............................. 24 VIII. Il Lago Santo ............................................. 28 IX. La chioccia dai pulcini d’oro ..................... 31 X. Il montone volante ..................................... 32

I. In mezzo alla tormenta Si era alla metà di Novembre, e tre ragazze dell’alto Frignano, Gilda, Pia e Maria, rimpatriavano dopo un anno di lontananza dalle loro famiglie. Avevano lasciato il paese nativo mosse non tanto dal bisogno di pensare alla propria esistenza, quanto da una vaga speranza di un’agiatezza, che nep-pur esse avrebbero ben potuto definire. Ora facevano ritorno alla casa paterna come a un nido di pace. A Campori discesero dal baroccio su cui erano salite al Borgo; mangiarono in fretta un boccone ad un’osteria posta all’estremità del paese, poi, caricatisi i fagotti sulle spalle, cominciarono la ripida salita, la quale, or più or meno scabrosa, non termina se non oltre S. Pellegrino dell’Alpe. S’era intanto levato un vento molto impetuoso, il quale distaccando le ultime foglie dei castagni, le portava a cadere assai lontano dal ramo, che le aveva nutrite. Qua e là si innalzavano dense colonne di fumo, che poi spariva rapidamente sotto l’infuriare del vento: era il fumo dei seccatoi. Erano quelli gli ultimi giorni del fuoco, per dirlo con frase locale: fra poco si sarebbe cominciato lo sgu-sciamento delle castagne, che quell’anno erano belle ed abbondanti. E la gente se ne mostrava oltre ogni dire lieta. Si sa: le castagne sono un alimento importantissimo per l’alto Appennino tosco-emiliano, e, quando mancano, bisogna pensare a riempire in altro modo la pentola, il che importa sacrifizi certo non lievi. Gli uomini e le donne che, sfidando un’acquerugiola fredda e persistente, gettavano fidenti nei pic-coli campi le ultime manate di semente, si fermavano a guardare con occhio di compassione le po-vere lombarde, dicendosi l’un l’altro: “Chissà come saranno stanche, poverette...! Eppure hanno an-cora tanta strada da fare...! E’ una gran fortuna poter stare a casa sua.... A casa sua si sta bene anche quando si sta male. Casa mia... casa mia...!”. Le tre ragazze camminavano silenziose una dietro all’altra, e il rumore delle zappe infondeva nei loro animi un senso misterioso di speranza e di energia. Forse esse rievocavano alla mente le ansie, gli affanni, e le delusioni di un lungo anno passato lontano, in una terra che noi siamo soliti chiama-re gentile, ma che per loro significava: privazione di libertà, lavoro aspro e faticoso, e spesso insidie persistenti, orpellate di mille gentilezze e premure... Ma quell’esistenza triste senza luce e senza i-deali era terminata. Ancora poco tempo e poi avrebbero riabbracciato i parenti e rivedute le amiche con cui erano andate mille volte ad attingere acqua a la fonte comune, e con cui, le sere di Maggio, avevano cantato le laudi alla Vergine colla più lieta serenità di spirito. Come sarebbe dolce versare nel loro cuore buono e sensibile tanti pianti segreti, tante speranze svanite...! Con questi e simili pensieri nella mente continuavano a camminare di buona lena, obliando quasi la fatica. Giunsero alla Boccaia. Lì scompare del tutto il castagno, l’albero dalle grandi ombre silenti, dai frutti saporiti e ricercati, e fa la sua prima comparsa il faggio, a cui tanto piace la compagnia delle nevi, dei tuoni e delle procelle. In quell’ora la faggeta aveva mormorii strani, misteriosi, e i rami,

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piegandosi gli uni verso gli altri, sembrava si volessero unire in lega di resistenza contro l’infuriare della bufera invernale. Le ragazze ora ascoltavano con un senso di meraviglia e di stupore quello strano concerto, ed ora levavano lo sguardo verso la vetta dell’Appennino, la quale alternativamente appariva e scompariva avvolta da una fitta nuvolaglia. Giù in basso pioveva, ma lassù non poteva essere che neve, e neve agitata e sospinta con violenza veramente siberiana. La strada sarebbe stata libera? Prima che annottasse sarebbero giunte alle Radici? Ecco le domande che con insistenza si affacciavano alla mente delle povere viandanti, e a cui avrebbero voluto dare una risposta affermativa. “Coraggio, ragazze; il tempo non è poi indiavolato come l’ho veduto certe altre volte...”. Così disse loro l’ostessa della Boccaia ove s’erano fermate per un po’ di ristoro. “Ma arriveremo prima di sera alle Radici...?” domandò Gilda, la più giovane. “All’Avemaria mancheranno ancora due buone ore, e quindi vi giungerete comodamente, ve lo as-sicuro”. “Grazie mille e buona sera”, dissero in coro le ragazze. “Buona sera e il Signore vi accompagni”. Queste ultime parole l’ostessa le pronunciò di su l’uscio e mentre quelle povere creature, alquanto rianimate, erano già in cammino. Pensavano fra sé: l’ostessa è pratica dell’Alpe, e, se dice così, è segno che lo può dire. S. Pellegrino, attaccato al fianco del monte come un nido d’aquila alla rupe, si presentò allo sguardo delle viandanti avvolto in un ampio mantello di neve. Il campanile sembrava una sentinella, che ve-glia su un accampamento di soldati oppressi dal sonno. Ma la gigantesca sentinella non si moveva, e il campo non dava il minimo segno di vita. Solo si udiva l’ululo cupo e prolungato del vento, e giù in basso, come in un abisso, lo scrosciare cupo e cadenzato del torrente, che in breve corso confon-de le sue acque con quelle del Serchio sonante un inno augurale di progresso al laborioso popolo della Garfagnana. Era loro intenzione prostrarsi innanzi all’urna del Santo anacoreta, che in tempi molto remoti santi-ficò coll’esercizio delle sue virtù e coll’aspra penitenza la cima del monte, che ora porta il suo nome – gli antichi chiamarono Monte Leto, – ma il tempo cattivo e l’ora tarda non permisero loro quello sfogo di cristiana pietà. Si dovettero contentare di recitare sommessamente una prece mentre attra-versarono il vecchio porticato dell’Ospizio, il quale sotto i loro passi rimbombò cupamente, come una tomba. Esse ebbero quasi paura di quel cupo rumore, e affrettarono il passo stringendosi l’una all’altra. Attraversarono la piccola piazza del santuario, diedero uno sguardo furtivo alle osterie, e, persua-dendosi che non avevano bisogno di sostare neppure pochi istanti per mettere qualcosa nello stoma-co già esausto, seguitarono il loro cammino colla prestezza di chi cerca trarsi da un pericolo. Nessuno le vide passare poiché terminato il vespro – quel giorno c’era stato un po’ di festa – quegli alpigiani erano ritornati subito a casa, e gli altri del paese, lo chiamerò così, si erano tappati in casa come tanti pulcini nel loro guscio. Sotto il vecchio camino di Nando scoppiettava uno di quei fuochi, che sono la più lieta compagnia e insieme il più grande conforto del povero montanaro. La conversazione, molto animata, in generale riguardava i figli, che da due mesi erano andati coi muli giù in Maremma per il trasporto del carbo-ne. Anche don Massimiliano si interessava molto di quelle notizie: li amava tanto quei bravi figliuoli, ed essi lo contraccambiavano generosamente. Ogni volta che scrivevano a casa non dimenticavano mai i più cordiali saluti per il signor Proposto: lo chiamavano tutti con questo nome, e non accadeva mai che ne adoperassero un altro. Nato e vissuto quasi sempre sull’Alpe, don Massimiliano aveva speso buona parte della sua esisten-za per il bene di quegli alpigiani. E la sua era stata fino allora un’esistenza di privazioni e di stra-pazzi. Ciò non aveva però pregiudicato alla sua salute, anzi in mezzo a quei disagi la sua fibra si era

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irrobustita ancora di più: aveva acquistato, per così dire, la tempra del macigno. Se i capelli e la barba, rasa solo quando non poteva farne a meno, non avessero tradito la sua età già assai avanzata, l’avreste giudicato un giovine nel pieno vigore della sua energia. E l’energia di don Massimiliano era veramente giovanile: anche a quell’età – aveva sessant’anni suonati – non conosceva scabrosità di vie, né malvagità di stagioni, anzi in mezzo alla bufera provava una specie di voluttà. Forse in un altro paese si sarebbe acquistato il titolo di Re dell’Alpe, ma egli lassù era il sor Prevosto e basta. Riprendendo il filo del racconto, dirò che il conversare in casa di Nando si era fatto ancor più ani-mato e rumoroso, causa, forse, alcuni fiaschi di vino che la Caterina era andata a prendere in un cer-to ripostiglio di cantina, che lei sola sapeva. Don Massimiliano esultava in mezzo a tanta cordialità, e le frequenti volute di fumo, che si sprigio-nava dal suo pipone di schiuma, sparivano su per l’ampia canna del camino bianche come bioccoli di nubi in certi giorni di primavera. “Caro Prevosto, stasera non si parte” esclamò Nando mettendo sul fuoco un grosso tronco di faggio. “Neanche a dirlo: e noi ne abbiamo molto piacere... Era tanto che non l’avevamo veduto...!”. “Eh no, ragazzi miei! Non posso fermarmi. Credetelo, non posso: a casa mi attendono, e chissà che cosa penseranno se non mi vedono arrivare...”. “No... no, il sor Prevosto non deve partire stasera”, interruppe un coro di voci. “Vede che tempac-cio...? Non andrebbe il diavolo per un’anima, e lei vuole partire...?”. “Mi fate ridere! E non ricordate più”, proseguì don Massimiliano quasi in aria di trionfo, ”circa un anno fa, proprio la notte di Natale...?”. “Oh! quanto fummo contenti. Quando sentimmo la sua voce ci sembrò di sentire quella di un ange-lo. Meglio la sua venuta, perdinci, che cento scudi!”. “Ebbene,” soggiunse il buon prete appena Francesco ebbe terminato, “era una bufera indiavolata, il doppio di questa, eppure valicai l’Alpe, non è vero...?”. “Vero, verissimo! Ma senta”, riprese un altro della brigata: “i suoi si imagineranno facilmente che lei non è partito causa il cattivo tempo, e quindi non penseranno al male”. Per quante altre insistenze gli facessero, non ci fu verso persuaderlo. Volevano accompagnarlo, ma egli fece capire che non aveva bisogno di nessuno, e partì. Alla svolta detta della Croce don Massimiliano fu investito da una folata di neve sì violenta, che per alcuni minuti dovette fermarsi lì su due piedi colle mani alla tesa del cappello, altrimenti chissà do-ve il vento glielo avrebbe portato. Non si perdé d’animo però, e, cessata un poco la raffica, riprese l’erta a grandi passi. A quando a quando volgeva intorno lo sguardo, e osservava attentamente il doppio filare dei faggi per non andare fuori di strada, poiché sarebbe stato lo stesso che correre gra-ve pericolo di lasciare la vita lassù sotto la neve. Mentre camminava così solo in mezzo a quell’immenso biancore, gli sembrò di udire a poca distan-za un lamento. Chi può dire l’impressione che produsse in don Massimiliano quel suono lamentevo-le, improvviso...? Il cuore gli diede un forte tuffo, e gli venne quasi meno il respiro. Quasi senza vo-lerlo si fermò, e ansioso tese l’orecchio verso quella parte. Il lamento si fece udire più forte e distin-to. Dunque non c’era più dubbio alcuno: lì vicino qualche povera creatura era rimasta bloccata dalla neve ed era sul punto di perire... Stette fermo ancora alcuni istanti come per prendere meglio una generosa risoluzione. Poi lasciò la strada maestra, e, quantunque affondasse nella neve fino al gi-nocchio, si inoltrò per un sentiero (tale almeno è nell’estate) sul quale i faggi avevano formato una specie d’arco, e l’arco era tutto bianco e la bufera lo incurvava sempre di più. Giunto su di un picco-lo rialzo, chiamò, e la sua voce alta e sonora in un attimo fu dispersa dall’impeto della bufera. Chiamò una seconda volta e poi una terza con voce più prolungata. “Aiuto...!”, sentì rispondere, “aiuto...!”. A don Massimiliano si allargò il cuore come all’annunzio d’una buona novella, e si slan-ciò su per il sentiero colla prestezza di chi ha solo pochi istanti per compiere un’azione della mas-sima importanza. Ed ecco presentarsi al suo sguardo una scena piena di commovente pietà: tre donne rannicchiate lì su la neve l’una abbracciata all’altra. Non piangevano, poiché il soverchio dolore aveva loro tolto le

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lagrime, ma tremavano come foglie in balia del vento. Ancora pochi istanti e poi quelle povere crea-ture sarebbero rimaste soffocate dalla neve, la crudele regina dell’Alpe. “Su, coraggio...! Ecco qui vicino la via maestra!”. A queste parole quelle tre donne si sentirono rifluire al cuore la vita; guardarono come trasognate quella bella figura di sacerdote, che in quella solitudine, sotto il violento sferzare della bufera inver-nale appariva come il loro angelo salvatore. Intanto don Massimiliano le aveva amorevolmente sollevate da terra, e, liberatele dai loro fagotti, che rimasero lì sulla neve, le condusse su la via maestra avvertendole di seguire con precisione i suoi passi. Egli avrebbe fatto da guida. Cominciava ad annottare quando quella mesta comitiva giunse alle Radici. Alla voce di don Mas-similiano fu subito aperto con mille segni di festa. Tutti volevano rivolgere un saluto al sor Prevo-sto, e sentire come si trovasse fuori con una bufera di neve sì violenta. “Preparate subito da cena anche per sor Prevosto”, interruppe l’oste. “Io, vedete, non ho bisogno di nulla, ma vi raccomando queste ragazze. Sono sfinite. Hanno biso-gno di asciugarsi, di un po’ di cena e poi di riposo. Mi raccomando... Caso mai, penserò io a tutto”. “Stia tranquillo”, rispose sollecito il padrone di casa. “Faremo del nostro meglio. E poi lei ci cono-sce da un pezzo...!”. Le tre ragazze non parlavano, ma guardavano commosse il loro salvatore come per dire: “A lei dobbiamo la vita, e ce ne ricorderemo sempre, sempre...!”. Solo quando videro che don Massimiliano era deciso a rimettersi in viaggio, benché l’oste e gli altri di casa lo scongiurassero a rimanere almeno fino all’alba del giorno, esclamarono: “Iddio lo benedi-ca e l’accompagni!”. “Grazie”, risposte il buon prete, e partì, mentre un coro di voci andava ripetendo: “Buon viaggio... buon viaggio!”. Sul versante modenese la bufera era un po’ meno violenta, e quindi si camminava assai meglio. Ma che importava a don Massimiliano della bufera e della scabrosità della via? Aveva salvato tre pove-re creature, e questo pensiero metteva nelle sue vene e nei suoi nervi un’onda di vita e di energia giovanili. E camminando pensava al commercio infame che non solo oltralpe, ma anche da noi si fa della bel-lezza e dell’innocenza di tante povere fanciulle, che spesse volte vengono raccolte nel nostro Fri-gnano. “Chissà”, pensava fra sé don Massimiliano “che calvario d’affanni, di vergogna e di disonore! Ecco la società che avvilisce, che insulta e spesso calpesta le vittime del suo egoismo e della sua brutali-tà!”. Ma chi udiva questi giusti rimproveri? Quasi per allontanare sì tristi pensieri, don Massimiliano diede uno sguardo alla sua chiesa, che in quell’ora solenne gli apparve ancor più bella del solito, e poi scomparve come un’ombra dentro la piccola porta della canonica. Sull’Alpe continuava a stridere la tormenta.

II. Il sogno di Graziella Il Rondinaio si ergeva maestoso e severo nel puro cielo vespertino, ed uno sciame di balestrucci ro-teava vorticosamente attorno alla sua cima petrosa emettendo, a quando a quando, gridi simili ai si-bili del vento allorché sferza con rabbia le selve dell’Apennino. Le acque del Lagosanto, sempre limpide, avevano tremolii e sussulti pieni di suggestione: sembra-vano in preda a un brivido di paura per l’avvicinarsi della notte. E le piccole onde si rincorrevano senza posa, e poi s’infrangevano contro la sponda sassosa blande come una carezza. Il sole era da poco tramontato dietro una fitta nuvolaglia color di cenere, la quale dava alle cose tut-te un aspetto malinconico, triste. Giù, verso il fondo della valle, qualche grido di pastore e qualche

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abbaiare di mastino si confondeva colle voci garrule dei torrenti e con lo stormire dei faggi sempre pronti alle lotte colle bufere, e a risollevare snelli la cima non appena il turbine ha cessato di com-piere le sue vendette. L’aria cominciava ad oscurarsi, e Graziella era ancor ferma là su la sponda del lago. Il suo gregge era lì vicino, e, col muso sollevato verso la conduttrice, pareva aspettasse solo un cenno per avviarsi rumoroso alla volta dell’ovile. Doc, il grosso cane candido come la neve, giaceva ai piedi della pa-drona in una magnifica posa leonina, e, volgendo intorno intorno i mobilissimi occhi di bragia, mo-strava essere lì pronto ad assalire chiunque avesse osato toccare la ragazza o il gregge. La giovine pastora, appoggiata a un lungo bastone di faggio e con un fazzoletto rosso annodato sul-la nuca, sembrava la personificazione di qualche divinità tutelare del luogo. Il suo sguardo si spin-geva oltre la cerchia dell’Alpe nativa, e una visione non ben definita di felicità assorbiva in quel momento tutte le sue facoltà, tutta l’anima sua giovanile ed entusiasta per il mondo, che essa non aveva ancora veduto, ma che sapeva esistere al di là dei confini del suo paesello. Era stata più d’una volta alla fiera e alla sagra dei paesi vicini, ma, benché più belli e vasti del suo, questi non erano certo tutto il mondo. Le avevano detto mille volte che esistono tante belle città, ed ora desiderava di vederle, di passarvi anzi qualche giorno, proprio come avevano fatto parecchie sue coetanee né più belle certo, né più ricche di lei. Quella vita alpestre, quasi senza che se ne avvedes-se, le era diventata odiosa, insopportabile. Un tempo teneva lunghi dialoghi colle sue pecore o col fido Doc, ma adesso preferiva trattenersi in lunghe meditazioni sulla sua vita avvenire, la quale pas-sava attraverso la sua fantasia irradiata di luce e di felicità. E quando s’incontrava in qualche comi-tiva di alpinisti, che le magnificassero le bellezze e la dolce tranquillità de’ suoi monti, d’improvvi-so si faceva [seria e dava loro] una risposta poco cortese. Sempre così il cuore umano! Si stanca di tutto, e ciò prova sino all’evidenza che nessun oggetto del mondo gli può dare la felicità. E’ necessario adunque cercarla fuori delle create cose, su in alto, molto in alto, al di là dell’universo! Graziella si scosse come spaventata da qualche lugubre visione, col bastone fece il noto cenno al numeroso gregge, e, seguita dal suo indivisibile compagno, s’avviò con passi rapidi verso casa. Giù per il sentiero ripido e sassoso le mansuete lanute si urtavano a vicenda, e agitavano con vio-lenza i campanelli, la cui voce si perdeva lontano, oltre il torrente, come il nitrito di pulledre selva-tiche. Gli agnellini erano in coda, e con belati flebili e spessi chiamavano le loro madri, che rispon-devano con voce affannosa; e li leccavano amorosamente, e porgevano loro le desiate mammelle turgide di latte per l’abbondanza e bontà dei pascoli. Che quadro grazioso presentavano quelle man-suete bestioline inginocchiate e impazienti di succhiare qualche sorso del grato e pingue alimento! Il pennello del Segantini vi avrebbe certo attinto l’ispirazione per un suo bel lavoro. La nostra pastora camminava franca e spedita come chi conosce la via palmo a palmo, e canticchia-va a fior di labbro uno stornello, che aveva imparato da una sua amica delle Rotari, e che le piaceva tanto. Fiorini di faggio / Canton lieti gli augelli alla foresta / Se spunta primavera e torna maggio. Poi, a metà della costa, tacque come preoccupata da un pensiero nuovo. Raccolse dal margine del sentiero una margherita, che aveva appena terminato di aprire il suo seno immacolato ai baci del so-le e alle carezze delle tiepide sere estive; l’osservò con un senso di intimo compiacimento, la baciò una, due, tre volte... e si fermò per interrogarla. Ma se la risposta fosse stata negativa? A questo pensiero il cuore le balzò forte forte in petto, e i suoi begli occhi lucenti si velarono della mestizia. “Oh Dio!” esclamò quasi involontariamente, e si precipitò giù pel ripido sentiero, e non rallentò la sua corsa finché non ebbe raggiunto le sue pecore, le quali si erano fermate tutte in un gruppo alla svolta di una viuzza quasi per aspettare la loro padrona. Al suo giungere alcune belarono con voce lieta, e ripresero subito il cammino, avendo sempre alla testa la Mozza, la più indisciplinata del branco e quindi quelle dal campanaccio di ferro. Nella rapida corsa Graziella non aveva smarrita la margherita. Le stava tanto a cuore! Pensò di interrogarla all’ultimo bagliore del crepuscolo. “Avrò una buona risposta...?”. Il cuore le diede un gran tuffo; chiuse gli occhi, e si fermò ad ascoltare una voce, che misteriosa-mente le ronzava all’orecchio.

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“Sono decisa, così almeno saprò la verità. Oh questo fiore non inganna! Sì, no.. sì, no... sì...!”. La risposta era affermativa. Sul viso della fanciulla brillò un raggio di gioia indicibile. Dunque aveva fatto bene a interrogare la margherita, dunque Rodolfo le conservava quell’affetto che due mesi fa, proprio la sera di S. Gio-vanni Battista, le aveva giurato laggiù presso la sponda del torrente ove essa dopo il vespro era an-data, senza bisogno, ad attingere acqua coi due bei secchi di rame lucente. Le amiche quella sera, passandole vicino, l’avevano salutata più cordialmente del solito, e si erano allontanate con un sor-riso maliziosetto anzi che no. Ma essa aveva posto poca attenzione e a quei saluti e a quei sorrisi, intenta come era ad accomodarsi sul seno la bella spilla dorata, che Rodolfo le aveva regalato come segno visibile del suo amore il giorno della fiera di Pieve, e poi anche perché le ragazze in certi momenti non darebbero udienza neppure all’imperatore più famoso di questo mondo. Essa, in con-traccambio della spilla, gli aveva dato un bel fazzoletto di lino: una piccolezza in vero, ma molto si-gnificativo, perché portava ben chiare le sue iniziali, e si sa che le semplici iniziali di una persona cara dicono ciò che non sono capaci di esprimere mille parole. A casa Graziella trovò la cena pronta: tagliatelle condite col latte, radicchi raccolti allora allora con frittata, e un bel piatto di ciliegie staccate di recente, ma essa non aveva voglia di cenare, e di fatto non cenò, tanto più che sul tavolino di cucina aveva trovato una lettera al suo indirizzo. Conobbe subito il carattere, la strinse convulsivamente nella destra, e corse difilato su per la ripida scaletta di legno, che conduceva alla sua cameruccia, o meglio bugigattolo. Serrò l’uscio assicurando il saliscendi con una bietta di legno, posò il piccolo lume di latta sul da-vanzale della finestra, e con mano tremante e il cuore in sussulto aprì la busta, che era tutta sgualcita e già logora agli angoli. Le parole erano scritte malamente, a sillabe e sgorbi. Più che leggere com-pitò, e durò non poca fatica a coglierne il senso preciso. La lettera, spogliata delle ripetizioni e redatta in forma più corretta, diceva: Mia carissima Graziella, merito un rimprovero perché, questa volta ho ritardato molto a scriverti, sappi però che non ti ho dimenticata neppure un minuto. Tu sei sempre stata nel mio pensiero e nel mio cuore, anche quan-do lavoravo nella miniera del carbone, o mi divertivo coi miei compagni. Sono sempre il tuo Rodol-fo, e spero che tu sarai sempre la mia Graziella. In questo tempo ho fatto assai fortuna, e fra un paio di mesi, se Iddio continua ad assistermi, conto di essere di nuovo a casa per mantenere la promessa che ti feci. Ricordi? Penso con grande gioia al giorno in cui saremo sposi, e questo pen-siero mi rende il tempo lungo. Sposati ritorneremo facilmente in America ove ho già comperato una casetta assai bella e bene arredata. Se rispondi a questa mia, fallo subito, altrimenti la risposta po-trebbe arrivare quando io sono già in viaggio. Saluta la tua famiglia, gli amici e ricordati del tuo Rodolfo. Graziella rilesse parecchie volte quel foglio per assicurarsi con precisione del contenuto, poi lo pie-gò, e lo rimise nella busta, che nascose nella vecchia cassa di castagno fra le pieghe d’uno scialle di lana. Ne aveva custodite tante quella cassa delle lettere di Rodolfo e avrebbe custodita anche quella con gelosia! La madre la chiamò più volte per la cena, ma inutilmente. La ragazza era in preda ad una ridda di pensieri strani, sconnessi. Il sangue le bolliva nelle vene, e la sua fronte scottava come bragia. Sentì bisogno d’aria e spalancò l’unica finestruccia posta nella parete di ponente. Appoggiò i gomiti al davanzale, e, con la testa fra le mani fisse lo sguardo su la tacita montagna, e la contemplò a lungo, incoscientemente. C’era nell’aria un tenue bagliore color di rosa, e giù nella vallata un gran silenzio interrotto solo dal mormorio del torrente, che conduce allo Scoltenna le acque del Lagosanto, e che, specialmente durante le ore notturne, tiene misteriosi colloqui coi faggi delle sponde sempre ripide e tortuose. D’improvviso Doc balzò sulla via pubblica e abbaiò a lungo, furiosamente. Allora Graziella si ri-cordò che doveva ancora recitare la preghiera della sera, si inginocchiò presso il letto e pregò fervo-rosamente.

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“Deh Vergine santa” esclamò a modo di conclusione, “benediteli tutti i cari miei...! Anche lui, an-che il mio Rodolfo, che ne avrà tanto di bisogno!”. Quando l’alba baciò l’impannata della piccola stanza affumicata Graziella era già sveglia, più calma e pronta a ritornare con la greggia ai pascoli dell’Alpe. Avrebbe voluto dire alla madre il motivo per cui la sera innanzi non aveva cenato, ma la trattenne un certo rossore. Glielo avrebbe detto un altro momento, quando si fosse sentita più padrona del suo affetto, e quindi più disposta a parlare con calma. E poi sua madre, pensò fra sé e sé la ragazza, aveva di certo già indovinato tutto. Era così accorta, così esperta che anche da una sola parola, da un sol cenno capiva a meraviglia cosa passas-se per la mente ai suoi figliuoli. Il loro cuore era per lei un libro aperto, e come vi sapeva leggere! Sul tavolo di cucina Graziella trovò pane e cacio per sé e per il fido Doc, il quale, agitando la volu-minosa coda e saltellando allegramente, pareva impaziente di ritornare con le pecore su in alto pres-so il lago che di santo ha il titolo. Quello era il suo regno, e lassù si sentiva più libero, e quindi più contento. Doc era il vero Negus di quei luoghi, poiché, e per la sua corporatura e per la sua audacia, primeggiava fra tutti i cani che abitavano in quei dintorni. Quando scoppiava qualche guerra – cani-na si intende –, veniva subito chiamato arbitro della situazione, e guai a chi non fosse stato al suo parere! Quando la pastora comparve sull’uscio esso abbaiò fortemente, e si lanciò a tutta corsa su pel sentiero, che per mille svolte e andirivieni conduce quasi fino alla cima della montagna silenzio-sa e brulla, che un giorno divideva il modenese dal lucchese. Oggi non ci sono più lassù confini vie-tati, poiché di qua e di la c’è Italia. “Graziella, stasera guarda di ritornare a casa un po’ più presto di ieri sera. Sai che di notte le pecore si mungono male; poi v’è il caso di smarrire qualche agnellino, e allora sì che tuo padre...!”. “Mamma, non dubitate”, rispose la fanciulla. “Farò a puntino quanto desiderate”. “Bene, bene”, riprese la madre. “E guarda di terminare le calze di tuo padre. Anche Maso e Gosto le hanno rotte, e bisogna pensare anche a loro, poveri ragazzi. Poi occorre anche un paio di maglie prima che ripartano per la Maremma, e, tu lo vedi, il tempo vola”. “Sì... sì, mamma; della lana ne ho preso a sufficienza, e lavorerò di buona lena!”. “Vedremo, vedremo!”. Questa volta Graziella non era sincera. Aveva preso seco, è vero, le calze cominciate e la lana per terminarle, ma il suo unico pensiero, per quel giorno, era di rispondere a Rodolfo. Aveva in tasca tutto il necessario per scrivere una lettera. Non le sarebbe mancato neanche il tavolino, poiché su l’Alpe vi sono qua e là sparse sul suolo delle lastre d’ardesia. Ne avrebbe scelta una delle più grandi e meglio levigate, che, accomodata sulle ginocchia, le avrebbe servito a meraviglia da tavolino. L’indomani sarebbe venuto il procaccia, e la lettera sarebbe partita subito per la sua lontana destina-zione. Un’ora dopo la sua partenza da casa Graziella arrivò lassù in vicinanza del bel lago, che era mosso dolcemente dalla brezza mattutina. Si fermò su di uno spazioso ripiano ricoperto di un soffice tap-peto di cerseino, e circondato da una folta corona di giovani faggi le cui fronde spandevano attorno un mormorio simile a quello delle api quando sciamano. La pastora diede un rapido sguardo alla sua greggia, prese un grosso sasso e ne fece una sedia, si adattò la lastra su le ginocchia, e si accinse a scrivere. A quando a quando levava lo sguardo dalla carta, e lo spingeva su verso la cima dell’Alpe come per cercare qualche espressione tenera ed efficace. Disse al suo Rodolfo che lo amava come si ama il sole, il pane e il sole, che attraverso i monti e i mari gli mandava ogni giorno i saluti più affettuosi, e che lo aspettava come gli uccelli aspettano la primavera e i fiori il sole. E prima di chiuderla rilesse la lettera con grande attenzione, poi se la pose in seno, chiuse ben bene la camicietta per non perder-la, si gettò indietro con la mano i capelli, che le erano caduti sulla fronte e sulle guance, e, assicura-tasi della presenza del suo gregge, mangiò parte della provvigione che aveva preso seco non dimen-ticando Doc, che si mostrava partecipe della gioia serena, che in quel momento inondava il cuore della sua amabile padrona.

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Il mese d’Agosto volgeva alla fine. Graziella ne aveva contato le ore e persino i minuti: esso doveva segnare il principio di una contentezza senza pari. Ora rincasava col gregge più presto del solito. I genitori ne avevano indovinato il perché, ma non osavano muoverle una parola di rimprovero, tanto più che si mostrava obbediente in modo ammire-vole, e riconduceva sempre le pecore ben satolle all’ovile. D’altra parte la sapevano di carattere molto impressionabile, e non volevano farla cadere in una di quelle crisi di lagrime, che la lasciava-no poi di cattivo umore per più giorni. Intanto era trascorsa la prima settimana di Settembre e di Rodolfo non si aveva nessuna nuova. Che avesse rimandato la sua partenza? Ma allora perché non scrivere? Che il piroscafo su cui si era imbarcato avesse patito naufragio? Non era corsa nessuna voce che in quei giorni si fosse affondato qualche bastimento. Che si fosse dimenticato della sua promessa? Graziella non voleva neppur pensarlo. Era tanto buono, tanto sincero...! Una sera Graziella, dopo d’essere stata per lungo tempo alla finestra ad ascoltare se giungesse colui che aspettava con tant’ansia, si gettò a cavalcioni del letto, nascose la faccia fra le palme e pregò e pianse a lungo, intensamente. Sua madre, che era entrata in punta di piedi, ebbe compassione di quella povera creatura, la scosse amorevolmente e la consigliò di coricarsi. “Se continuerai così”, le osservò con le lagrime agli occhi, “finirai per ammalarti”. “Oh mamma”, esclamò la fanciulla, e nascose la faccia per non far vedere il suo pianto. Vi fu un lungo silenzio. “Su, me lo prometti di bandire da te questa tristezza, di stare allegra come una volta?”. “C’è troppo dolore nel mio povero cuore, e...!”. “Comprendo, comprendo tutto, mia cara, ma non è svanita ogni speranza, tutt’altro”. “Lo credete...?”. “Sì. Ad ogni modo devi stare di buon animo. I dolori si devono sopportare con cristiana rassegna-zione: allora, e solo allora, purificano l’animo dalla scoria del male”. La fanciulla non rispose, ma guardò la madre con una tenerezza indicibile. Questa comprese che il cuore della figliuola stava per ritornare più calmo, e quindi pensò fosse meglio lasciarla sola, e si allontanò mentre il piccolo lume a petrolio dava gli ultimi guizzi. Anche le lagrime hanno il loro conforto e la loro tregua. Partita la madre, Graziella nascose il capo sotto le coperte e non pianse più. Il suo cuore però non aveva rallentato di molto i forti battiti, e la sua mente era in preda a un turbinio di pensieri strani, sconnessi, di imagini bizzarre, e in mezzo a questi pensieri campeggiava sempre la figura di Rodolfo. Alla fine, vinta dal sonno, si addormentò, e dormendo le parve di essere fuggita dalla casa paterna, e di essersi trovata, d’improvviso, in un paese a lei completamente sconosciuto. La gente la guardava con aria di meraviglia, e si allontanava con un sorriso fra il compassionevole e il malizioso. Essa parlava ma nessuno l’intendeva. Come avrebbe dunque potuto trovare il suo fidanzato? Mentre così pensava egli le passò davanti con passo rapido e leggero. Vestiva due calzoni di fustagno verdogno-lo, un camiciotto color marrone, in luogo del cappello aveva un berretto nero con sul davanti una piccola lucerna e portava sulle spalle un badile ed un piccone. Lo chiamò ripetutamente, ma esso non udì. Là presso c’era una specie di tana, ed il giovine muratore vi entrò e scomparve. Essa lo se-guì giù per l’apertura profonda, oscura, e, quando raggiunse Rodolfo, esso era già intento a scavare dalle viscere della montagna una materia nera da cui si sollevava un pulviscolo fine fine e un odore acre, come di fuliggine e catrame abbruciati. Essa gli era già vicino, già stava per gettargli le braccia al collo quando si udì un rombo sordo, prolungato. Un masso si era staccato dall’alto ed era caduto sul povero minatore. Corse per rimuovere la pietra crudele, ma inutile fu il suo sforzo. Il giovine emise un gemito acuto, straziante. Aprì gli occhi e riconobbe la sua promessa sposa. Oh strazio! Volle pronunciare qualche parola, ma la voce non usciva dalle labbre insanguinate. E richiuse gli occhi per non aprirli mai più sulla terra. Graziella a quella vista mandò un grido forte, straziante, e cadde al suolo tramortita. Lo sforzo di quel grido la scosse e la richiamò bruscamente alla realtà delle cose. Pure, benché sen-tisse le pecore belare giù nell’aia, e udisse la voce di Maso che scherzava con Doc, le sembrava di

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essere ancora davanti a una scena viva, reale, e le tempia le bruciavano e il cuore pareva le volesse uscire dal petto. Ma la realtà ebbe infine il sopravvento sulle finzioni dell’accesa fantasia, e Graziella fece del suo meglio per persuadersi che i sogni son sempre sogni, e che anche il suo doveva essere considerato come tale, ma, per quanti sforzi facesse in contrario, esso le stava nel cuore come un incubo tetro, sinistro. Si sentiva sfinita, proprio come se fosse stata a letto parecchi giorni con la febbre. Provò a mostrarsi disinvolta, ma non vi riusciva. Quando era sola le lagrime inumidivano ad ogni istante i suoi occhi, e una voce che essa non poteva far tacere a nessun costo le ripeteva ad ogni istante: Infelice fanciul-la, sappi che il tuo sogno è una realtà. Erano trascorsi una quindicina di giorni appena da quella notte fatale per il cuore della povera ra-gazza, quando, sul sentiero che da casa sua conduce alla chiesa, incontrò la madre di Rodolfo. Appena costei scorse Graziella alzò gli occhi al cielo, congiunse le braccia sul petto a modo di cro-ce, e scoppiò in un forte singhiozzo. “Povero Rodolfo, povero figlio mio!”. Terribile rivelazione, o, meglio, conferma di quel sogno sinistro! Non crediate però che io voglia anche solo provarmi a raccontare le esclamazioni, gli abbraccia-menti e le lagrime di quelle due sventurate creature. Son cose che si accennano e basta. Chi le sente le sente!

III. Il cacciatore Il suo nome di battesimo era Tommaso, ma tutti lo chiamavano Masetto. Piccolo di statura, gli oc-chi neri e le sopracciglia folte, Masetto aveva l’aspetto del montanaro autentico. Non temeva né caldo né freddo, ed egli stesso si gloriava di non aver mai provato, in quarantacinque anni di vita, neppure un semplice mal di testa. Viveva solo in una casetta nascosta fra alcuni vecchi castagni, e quando i curiosi gli domandavano perché non prendeva moglie, rispondeva sempre: “Eh...! a prender moglie si fa presto, ma a mante-nerla... Del resto, se ne volessi...!”. E diceva ciò non senza un sorriso di compiacenza misto di certo orgoglio. Nessuno l’aveva mai veduto di cattivo umore, ed era benvoluto da tutti, poiché, in fondo aveva un cuor d’oro. Era per di più molto servizievole, e si mostrava sempre soddisfatto delle piccole ricom-pense, che riceveva delle sue fatiche. Fin dalla prima giovinezza si era molto appassionato per la caccia, ed era opinione comune che fos-se il più abile cacciatore del paese. Anche i suoi rivali – e ne aveva parecchi – non potevano negare questa sua abilità: solo cercavano di attenuarla col dire: “Del resto bisogna ammettere che è anche molto fortunato... Già al mondo se non si ha un po’ di fortuna...!”. Benché esternamente mostrasse di non curare più che tanto quanto si diceva sul conto suo, pure ci teneva molto a una tal lode, e, durante le lunghe sere invernali, raccontava le sue imprese di caccia con quella soddisfazione con cui un vecchio soldato parla delle sue campagne o delle sue lotte coi briganti. I ragazzi in modo speciale restavano come incantati dalla sua rozza ma viva eloquenza, e non sembrava loro vero di diventare presto grandi per potere poi comperare un fucile, e seguire sen-za posa la traccia della lepre e della volpe. I più grandicelli raccontavano poi agli altri quanto avevano udito dalla viva voce di Masetto, e così quei racconti passavano di bocca in bocca subendo, come è naturale, le più curiose alterazioni. Più volte Masetto era stato consigliato dagli amici di vendere il suo vecchio trombone (così si chia-ma fra noi una specie di schioppo di canna corta e grossa caricato a bacchetta), e a comperare un fu-cile moderno, ma a chi così lo consigliava rispondeva sempre che non si sarebbe privato del suo schioppo per tutto l’oro del mondo. La vecchia arma era di acciaio fino, aveva l’incasso di noce in-tarsiato e terminante in un bel muso di cane, colpiva la preda anche a grande distanza, e queste qua-

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lità erano per il nostro raro cacciatore di un pregio insuperabile. E poi non era quello lì il trombone che sapeva, per così dire, vita e miracoli di Masetto? “Vada pur tutto”, ripeteva spesso a sé stesso, “ma non lo schioppo. Non ne troverei uno non dico eguale, ma neppure simile, se girassi tutto il mondo... Lo diceva anche mio padre, buon’anima, e lui se ne intendeva proprio...!”. Come in generale accade dei cacciatori di montagna, anche Masetto non aveva né cane né permesso di caccia, e ciò formava per lui una specie di vanto, poiché faceva fortuna assai più di quelli che a-vevano il loro bravo levriere e potevano mostrare tanto di permesso regolare. I carabinieri poi, ben-ché gliel’avessero giurata più volte, non erano mai riusciti a mettergli le mani addosso, e a questo proposito raccontava episodi curiosissimi. L’univa volta che corse serio pericolo di cadere in con-travvenzione fu una sera di maggio. Ecco come andò la cosa. Masetto percorreva una viuzza solita-ria e fiancheggiata da due siepi di rovo alte e spesse. D’improvviso ode un lieve rumore. Si ferma di botto e porge l’orecchio verso quella parte. Il rumore si avvicina, ed è di persona che procede cau-tamente. Quasi istintivamente s’accorge della presenza dei carabinieri. Che fare? Darsi a fuggire non gli sembrò prudenza: le sue gambe non avevano più la velocità di un tempo. Dunque...? Con un movimento rapidissimo gettò il fucile al di là della siepe, e seguitò tranquillo il suo cammino. Tutto era salvo. I carabinieri lo squadrarono da capo a piedi, ma non osarono muovergli parola, ed egli si allontanò con passo calmo lieto della brillante operazione. Quell’autunno – 1903 –, durante la raccolta delle castagne, Masetto non aveva sparato neppure un colpo. Aveva obbligato la sua opera di raccoglitore ad una famiglia del paese, e quando si trattava di fedeltà nell’adempire il proprio dovere non v’era l’eguale. E poi si trattava di mettere in casa qualche cosa per l’inverno imminente. Al termine della raccolta, infatti, avrebbe portato a casa dieci pesi di castagne secche, e così la polenta era assicurata sino alla buona stagione. Non gli pareva ve-ro però che arrivasse l’Ognissanti. La mattina, dopo messa, sarebbe andato a caccia, e non sarebbe ritornato a casa che la sera tardi. Giunse finalmente il tanto desiderato Ognissanti; e Masetto ascoltata la messa e fatta in tutta fretta un po’ di colazione, prese la via dei boschi. Fece fortuna, e vendette la cacciagione al vecchio av-ventore Diomiro, il quale gli sgranò in mano cinque franchi d’argento, nuovi di zecca. Stava per sopraggiungere l’inverno e Masetto era più allegro del solito, ed ecco come si spiega que-sta sua insolita allegrezza. Era voce comune fra i cacciatori che nelle macchie vicine vi fosse un buon numero di volpi e di tassi. Le massaie stavano col cuore in pena. E’ vero: avevano chiuso i pollai meglio che avevano potuto, ma, si sa, la volpe può arrivare anche di pieno giorno, ed è un momento portar via un paio di galline. Già esse promettevano dare un ovo (uso ancor vivo in parec-chi luoghi del Frignano) e anche più a chi si fosse presentato alla porta con una volpe uccisa su le spalle1. Ogni volpe morta era un segno sicuro di molte galline salve, e pronte a dare il loro regalo prezioso sempre, ma specialmente nella stagione invernale. Masetto, di consueto, mandava a comperare la munizione a Porretta, e ne affidava l’incarico a Dio-miro, un birrocciaio del suo paese, lento come una lumaca ma altrettanto fidato. Questa volta però pensò d’andarvi in persona: voleva proprio essere sicuro del fatto suo, e sapeva molto bene la verità del proverbio che dice: “Chi fa da sé, fa per tre”. La polvere era rincarata, ma un franco più, un franco meno, pensò fra sé, non fa nulla, e prese la quantità che aveva stabilito. La mattina dopo il suo ritorno da Porretta, Masetto era nel sagrato della chiesa parrocchiale in mez-zo a un crocchio di amici, che parlavano con grande animazione. Durante la notte era caduto un bel strato di neve, e quel gruppo d’amici, cacciatori tutti più o meno, stavano combinando una partita di caccia alla volpe. Ognuno avrebbe preso una data posizione, e in fine si sarebbero divisa in parti eguali la preda. “Che ne pensi, Masetto?” disse uno della comitiva. “Non è una brutta idea”, rispose, “ma ci vuole molta prudenza, altrimenti...”. “Che altrimenti...!”. “Ma tu ci stai sì o no nella nostra compagnia?”. 1 In quel di Montese, per esempio, i ragazzi si presentano alle case con la volpe morta sulle spalle, gridando: Volpe vol-pina, o l’ov o la gallina.

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“Sì, sì ci stai, non è vero?”. “Vedrò...”. E così dicendo fece un giro sopra sé stesso, e in bel modo si allontanò senza dir altro. Masetto, a dir vero, amava gli amici, ma più all’osteria a bere un boccale che a caccia: a caccia preferiva esser so-lo, poiché aveva sperimentato più volte che la moltitudine genera confusione. I suoi amici del resto conoscevano il suo carattere, e perciò alla sua riposta esitativa non insistettero. Suonavano le otto di sera, e Masetto, infilati gli stivaloni di vacchetta e tiratasi sulle orecchie la ber-retta di lana bigia casalina, si mise il fucile a tracolla e uscì di casa, dopo avere serrato l’uscio con un doppio giro di chiave. Si fermò un momento nel piccolo cortile; si frugò nelle tasche per assicu-rarsi che non si era dimenticata la munizione, e poi infilò il viottolo, che in breve mette capo alla strada mulattiera. Tirava un’aria tagliente come un rasoio; su in alto le stelle brillavano di luce vivissima, di sotto un grosso strato di neve dava alle cose un aspetto uniforme, melanconico. Il silenzio sarebbe stato per-fetto se, qua e là, non si fosse udito l’uggiolare di qualche cane da pagliaio. Masetto intanto camminava colla sicurezza di chi conosce il terreno a palmo a palmo, e non teme nessuna insidia umana. Sua meta era una fitta macchia detta il Malpasso, dove c’erano parecchie tane di volpi. Là si sarebbe appostato dietro il tronco di un vecchio castagno od un ronchione di roc-cia, avrebbe spianato il suo bravo fucile col cane montato verso la tana, e, appena una volpe fosse comparsa a tiro, l’avrebbe stesa morta su la neve. Con questi pensieri nella mente arrivò alla meta prefissa, si assicurò che lì presso c’era veramente la volpaia, e si pose ad aspettare l’uscita della selvaggina. Passa un’ora, ne passano due, tre, quattro... non si vede nulla. “Forse la volpe mi ha sentito o ha mutato posto, altrimenti a quest’ora sarebbe u-scita”. Così avrà pensato in cuor suo il bravo cacciatore dopo quell’infruttuosa attesa, e, data anche l’intensità del freddo, pensò di ritornare a casa, e di precisare poi meglio il giorno seguente la tana abitata dalla terribile nemica delle galline. Senz’altro si mise lo schioppo alla spalla, e poi cominciò a discendere la costa ripida e scoscesa, fermandosi a quando a quando per studiare le posizioni più sicure. Era oramai quasi giunto alla via mulattiera, o, meglio a quella frequentata dai contadini per lo sgombero dei castagneti, quando d’improvviso si sentì mancare i piedi. Mandò un urlo, e istintivamente allargò le mani per afferrarsi a qualche cespuglio. Ne afferrò di fatto uno, ma sventura volle che non resistette. “Gesù... Maria, sono perduto!” esclamò il povero Masetto. Un altro ruzzolone, un gemito straziante, poi più nulla, o, meglio, un silenzio di tomba, e la tomba era una fossa piena di neve. Sparsasi in paese la notizia che da tre giorni la casuccia di Masetto era chiusa, e che lui non s’era veduto da nessuna parte, si pensò subito ad una disgrazia. Si sapeva che era molto azzardoso, e chissà, diceva la gente, che non si sia fatto male o sia pericolato. Sulle prime si pensò a forzare l’uscio della casa, ma questa era vuota e il fucile non era più al suo posto. Segno dunque che Masetto era uscito a caccia. Allora i più robusti del paese si divisero in tre squadre, e intrapresero una ricerca accurata del povero Masetto. Dopo aver fatto mille domande e percorso senza risultato tutte le selve dei dintorni, venne in mente a uno di loro di perlustrare anche la macchia del Malpasso. Là c’erano molte volpi, e Masetto, forse, poteva essere andato da quella parte. La previsione era purtroppo fondata. L’infelice cacciatore era rimasto vittima delle insidie di quella macchia. Il suo cadavere giaceva giù in fondo a una specie di fossa scavata fra due macigni, ed era coperto quasi totalmente di neve. Si conosceva che nella caduta aveva urtato con grande violenza contro uno de macigni: difatti aveva una larga ferita alla fronte, e il volto perdeva i suoi naturali lineamenti sotto le larghe chiazze di sangue gelato e di un color rosso cupo. E’ facile immaginare il raccapric-cio e il senso di pietà, che provò la squadra scopritrice di quella scena luttuosissima. Non avrebbero voluto credere ai proprii occhi, e ognuno ebbe parole del più sincero rimpianto. Povero Masetto! Nella caduta aveva istintivamente afferrato il fucile, e lo teneva ancora serrato fortemente nella de-

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stra. Era morto con in pugno l’istrumento delle sue vittorie e della sua gloria. Forse, prima di chiu-dere per sempre gli occhi alla luce, l’avrà baciato come il soldato bacia, cadendo, la sua bandiera. Benché la stagione fosse molto rigida, pure fu un grande accorrere di gente sul luogo della sventura, e, dopo le constatazioni di legge, lo sventurato Masetto venne portato al cimitero fra il compianto sincero e comune dei suoi compaesani. Al camposanto l’arciprete disse brevi parole di elogio su le doti religiose e morali del povero morto, e il popolo approvò colle lagrime agli occhi. Per molto tempo nel paese non si parlò che del disgraziato Masetto, e delle circostanze che l’ave-vano condotto a quella fine miseranda. “Doveva finire così”, osservavano alcuni, “poiché era tanto azzardoso... Ma, mio Dio, ci vorrebbe anche un poco di prudenza a questo mondo...!”. “Chissà, nel discendere la costa forse è stato colto da un capogiro...”. “Può darsi... Faceva tanto freddo quella notte!”. “Poveretto”, soggiungevano altri, “non meritava di fare una morte così miserevole. Era tanto buono, e sarà sicuramente andato in luogo di salvazione. Il Signore è tanto misericordioso! E poi sa Egli quello che fa, e basta”. Anche i ragazzi avevano appreso della notizia coi segni di vivo dolore, e ne parlavano fra di loro come di una sventura comune. Chi avrebbe loro contate, in avvenire, tante belle avventure di cac-cia? E tutte le favole, che sapevano, non le avevano forse imparate da lui? E adesso non avevano più paura del Mago delle sette teste, e si sbellicavano dalle risa alla narrazione delle avventure di Pipetto... Ma Masetto dormiva nel cimitero! Sul luogo dell’orribile disgrazia è stata eretta una rozza croce di castagno con questa semplice iscri-zione: “L. T. – 1903”. Sotto l’ala distruggitrice del tempo scomparirà ben presto l’iscrizione e anche la croce, ma non peri-rà la memoria dello sventurato Masetto. Il popolo conserva con gelosia le memorie locali siano liete o tristi – e più queste che quelle –, e le trasmette di generazione in generazione come un patrimonio prezioso.

IV. Maternità spirituale La casetta di Luca Pianelli era aggrappata ad una sponda erta e solatia dello Scoltenna. Nei registri comunali era annoverato fra i possidenti, e il più persuaso di meritarsi un tal titolo era proprio lui; e di fatti, quando capitavano le guardie forestali o i carabinieri a richiederlo della sua firma, dopo il nome e cognome non smetteva mai di scrivere con lettere marcate: possidente. Tutta la sua possidenza si riduceva però a ben poca cosa: a un po’ di terreno così diviso: giù in bas-so, vicino al fiume, un piccolo quadrato di bosco di cerri e quercioli; più su una vigna, la quale po-teva dare, negli anni di abbondanza, quattro o cinque quintali d’uva; davanti alla casa un campicello largo e lungo un tiro di pietra e nulla più. A dir vero, avrebbe potuto aspirare alla mano di una ragazza, che avesse un bel campo o qualche migliaio di lire di dote, ma egli aveva preferito sposare una contadina, e ciò forse per conservare la sua indipendenza, poiché si sa: le donne che hanno dote si mettono facilmente i calzoni e il prover-bio dice: “Dio ti scampi da donna in calzoni”. La primavera e l’estate il nostro Luca restava a casa a coltivare la sua vigna e il suo campicello, l’autunno e l’inverno andava in Sardegna, oppure in Maremma al taglio dei boschi. Il suo lavoro gli rendeva un discreto guadagno, il quale aumentò di assai quando per la sua abilità fu fatto Capomac-chia. Anche la fatica diminuì con questa nuova carica, e dovette essere per lui una gioia certo non piccola vedere diminuire la fatica e crescere la paga. “Capomacchia” aveva per lui quasi il significa-to di re della macchia...! La moglie, durante questo tempo, rimaneva sempre a casa a custodire una mezza dozzina di pecore, che aveva condotte come dote al marito nel giorno del loro matrimonio.

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Sul finire di uno di quegli inverni Luca ricevette dalla moglie una notizia molto triste. La notizia era questa: una lavina aveva trascinato giù nel letto del fiume tutto il loro bosco e buona parte della vi-gna. La casetta e il campo erano rimasti salvi per miracolo. Il povero uomo a quella notizia restò stordito, e, quasi non credesse ai proprii occhi, fece leggere la lettera anche a Menico e a Togno suoi compaesani e compagni di lavoro, ma, purtroppo quel foglio sgualcito parlava sempre di un grave disastro avvenuto lassù in montagna, nel piccolo patrimonio paterno, frutto di mille privazioni e sudori. Ciò lo indusse ad anticipare il suo ritorno, e, sventurata-mente dovette constatare coi proprii occhi la dura realtà. Il fiume, giù in basso, mugghiava ancora spaventosamente, quasi soddisfatto della preda, che aveva potuto avvolgere nella furia vertiginosa... delle sue onde. Luca stese verso di esso i pugni serrati come chi sente il bisogno di vendicarsi e non sa con chi, e poi, serrando l’uscio, mormorò a fior di labbro: “Acqua maledetta!”. Passati due mesi appena da quella data funesta, Luca vide spuntare un giorno di grande gioia per il suo povero cuore: finalmente la sua buona Ermelinda gli diede alla luce una bella bambina, ed egli sperimentò allora, per la prima volta, tutto l’intimo compiacimento della paternità. Alla gratissima ospite fu posto il nome di Iride e ciò quasi a rammentare la festa di luce e di fiori, che rideva all’intorno la mattina in cui la neonata fu portata alla chiesa per il rito battesimale. Anche le campane della Parrocchia salutarono il lieto avvenimento, suonando buona parte del giorno a fe-sta. Ma – lo dice il popolo – una disgrazia molto difficilmente viene sola, e per Luca Pianelli accadde proprio così. Il parto di Ermelinda a tutta prima fu molto felice. Diede subito essa stessa il latte alla sua creaturina, e dopo pochi giorni riprese le sue piccole faccende di casa. Tutto dunque presagiva bene tanto per la madre come per la figlia. E quei giovani sposi godevano una pace dolce, serena, la pace che solo si manifesta agli animi semplici e retti. Ma la sventura (come ho già accennato), fu gelosa di quella pace domestica, e, ospite non invitata, si assise al rustico focolare. Ermelinda cadde gravemente inferma. Il marito non lasciò nulla di in-tentato per istrappare ai freddi artigli della morte colei, che rendeva sì belli i giorni della sua esi-stenza. Inutilmente. Mentre Iride cresceva su bella e rigogliosa come un fiore a primavera, la madre intristiva ogni giorno più, e in breve non restò di lei che un’ombra di donna. E la portarono via una mattina d’autunno mentre la pioggia cadeva fine fine, e le nubi avvolgevano come un ampio man-tello funebre tutta la grande montagna, che già aveva cominciato il suo riposo invernale per ride-starsi poi forte di nuove e molteplici energie. Di su l’uscio della vedova casetta Luca ascoltò il canto degli ultimi versetti del Miserere, spinse fra la nebbia lo sguardo per vedere ancora una volta il me-sto corteo, che trasportava alla sacra dimora dei morti tanta parte di sé stesso, e poi, gettatosi su di una seggiola, nascose la faccia fra le mani, e pianse intensamente, come un bambino. Egli l’amava tanto la sua povera Ermelinda, e in quel momento sentì per lei una specie di adorazione, anzi di ri-morso per non averla amata ancor più intensamente di quanto aveva fatto. Da quel giorno non fu più visto, come di consueto, a fare qualche partita all’osteria; il sorriso, che era sì abituale sul suo lab-bro, si spense, e spesso vagava qua e là da solo senza uno scopo ben determinato. La sera, quando la gente era rinchiusa in casa attorno a un bel fuoco sonoro, andava verso il cimitero, e si fermava a lungo immobile davanti al cancello tenendo fisso lo sguardo su di una piccola croce ergentesi su di un mucchio di terra scavata di fresco. Là sotto c’era la sua Ermelinda, ed egli la vedeva e le parla-va... “E’ impossibile che io resti qui solo! Che cosa vi farei ora che mi è rovinata in gran parte quel po’ di roba, che avevo al sole...? Ora che Ermelinda non rallegra più la mia casa, ma giace lassù nel ci-mitero...?”. Con questo ragionamento, che faceva spesso fra sé e sé, Luca cercava di persuadersi a dare un addio – per un poco di tempo almeno – a un luogo che ormai non gli parlava che di sventura e di dolore. Negli anni di permanenza all’estero avrebbe guadagnato una somma assai rilevante, e al ritorno l’avrebbe impiegata nella compera di un poderetto in luogo fertile e sicuro, e così avrebbe preparato una buona dote per la piccola Iride. Comunque, la piaga aperta nel suo cuore da tante sof-ferenze e ancor sanguinante si sarebbe rimarginata almeno, e ciò non era poco per lui.

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Il suo proposito divenne in breve una realtà. Qualche amico cercò di fargli mutar parere, ma egli se ne mostrò seccato, e un bel giorno, collocata la sua creaturina presso uno zio materno, preparò le sue poche robe e partì per la Germania. Luca Pianelli ebbe un momento di pentimento nell’atto di dare il bacio dell’addio alla sua piccola Iride, ma lo considerò come un sentimento di debolezza e fu risoluto. Al cognato promise di manda-re spesso sue notizie e anche un po’ di denaro per il mantenimento della figliuola, e la sua promessa era sincera. Così quella povera creaturina entrò a far parte della famiglia in cui fino a venticinque anni era sere-namente vissuta un’altra creatura, che le aveva dato la vita e che essa non aveva conosciuto. Si può dire che Iride si trovava come in casa propria: tutti le volevano un bene dell’anima, e ciò for-se perché era il ritratto vivente della povera Ermelinda. Il nonno specialmente, un ometto su la set-tantina, pieno di buon senso e di intelligenza, aveva per lei un affetto tutto particolare, e non andava mai al paese senza portare a casa qualche ninnolo per la nipotina, cosa che non aveva mai fatto con nessuno degli altri nipoti, e molto meno pei suoi figliuoli. Anche i vecchi hanno le loro simpatie, o, meglio le loro debolezze! Luca da principio mantenne la sua promessa: scrisse a casa assai di frequente, né mancò di spedire al cognato qualche somma di denaro pel mantenimento della figlia. Ma, col tempo, le lettere si fece-ro più rare, e dei denari non se ne videro più: poi silenzio su tutta la linea. Si interrogavano coloro che ritornavano dalla Germania, si fecero accurate ricerche per mezzo del consolato italiano, ma non si poté avere di lui notizia alcuna. Finalmente si seppe che era morto all’ospedale di... per la frattura di una gamba, secondo alcuni, per malattia naturale, secondo altri. La notizia veniva dal Comune, e quindi non lasciava luogo a dubitare. Per i parenti di Iride fu come un fulmine a ciel sereno: tutto avrebbero sospettato sul conto del povero Luca fuorché la sua morte, e la dura realtà dell’accaduto li gettò in preda a un grande sconforto. Si sa, per una povera famiglia di contadini, e di montagna specialmente, una bocca di più al desco è qualche cosa di non trascura-bile. Gervasio, lo zio materno della piccola ospite, lo sapeva benissimo, e più volte domandò e fece domandare al Comune un piccolo sussidio. Il Comune riconosceva giuste le sue ragioni, ma rispon-deva di non poter creare un precedente, sempre pericoloso – sono le parole del Sindaco – in linea amministrativa. Gervasio, a dir vero, avrebbe potuto vendere il piccolo campo e la casetta, che era-no stati risparmiati dalla lavina e che ora costituivano la dote della nipote, ma che cosa non avrebbe poi detto la gente...? Questo solo pensiero lo decise a conservare integro ad Iride il piccolo patrimo-nio, a cui era sì dolorosamente legato il nome dei genitori. Iride intanto cresceva su un po’ selvatichetta sì ma bella e vigorosa come un fiore silvestre a cui na-tura largisce in abbondanza nutrimento, luce e calore. Aveva un cuore sensibile e compassionevole, intelligenza pronta e aperta: dote comune alle ragazze frignanesi, e che darebbe ottimi risultati se fosse coltivata; ma purtroppo le condizioni speciali della loro vita fanno passare obliate, quando non maltrattate, attraverso il mondo queste care creature. La sua occupazione giornaliera era di condurre al pascolo, mattina e sera, una dozzina di pecore; la sera poi, secondo la stagione, filava oppure attendeva a qualche altra piccola faccenduola domesti-ca. Gervasio, da buon zio, aveva anche pensato a mandarla alla scuola, ma come fare? La scuola era molto lontana, e d’altra parte egli ne aveva bisogno per la custodia del gregge. Così fino a dodici anni essa ignorò persino le lettere dell’alfabeto. Vi sono al mondo delle creature, che posseggono il segreto di attrarre a sé i cuori e di farsi amare. Tale era Iride. Era cresciuta su con un’educazione piuttosto grossolana, è vero, pure non v’era per-sona del vicinato, che non sentisse per lei affetto, e, direi quasi, venerazione: quella venerazione che non è già un atto riflesso della mente, ma un sentimento spontaneo del cuore alla vista di una bontà ingenua e schietta. Anche la signora Matilde, provava per la povera orfanella un trasporto tutto particolare, trasporto che neppur essa si sarebbe ben saputo spiegare.

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Figlia unica di genitori molto ricchi, la signora Matilde viveva una vita molto ritirata e quasi nasco-sta. Molti avevano domandato la sua mano di sposa, ma essa non si era mai decisa a scegliere un compagno della sua esistenza. Nessuno giunse mai a saperne con precisione il motivo. Il più proba-bile però era questo: la persuasione che i suoi pretendenti mirassero più alla dote che a lei, benché la natura l’avesse fornita di una bellezza piuttosto rara, di una mente perspicace e forte, e di un tratto cui nulla mancava per potersi dire compito. In altre parole: essa odiava cordialmente i matrimoni di interesse, e così era ormai giunta a quell’età in cui una donna non si può più dire giovane né vec-chia, e in cui, svanita la maggior parte degli ideali giovanili, si viene a conoscere la vita in tutta la sua realtà e se ne ha quasi paura. La signora Matilde anche a quell’età conservava un culto speciale per i fiori. Quando la stagione lo permetteva, passava molte ore del giorno nel vasto giardino, che dal suo palazzo si estendeva sino alla via comunale, a cui si poteva accedere per un cancello di ferro fatto con un certo gusto artistico. Coltivava con grande predilezione parecchie varietà di crisantemi e ciò forse perché questi fiori era-no in piena armonia col suo naturale serio e malinconico. Cosa poi rarissima in montagna, aveva fatto costruire, a mezzogiorno del palazzo, una serra abbastanza ampia dove trovavano sicuro riparo dal freddo invernale le piante più preziose e delicate. Iride, quando passava col suo gregge, assai di frequente si fermava davanti al cancello, e guardava i fiori con un desiderio vivo, intenso. Oh se avesse potuto averne un bel mazzo! L’avrebbe portato subito davanti alla Madonnina del Pilastro sì buona e miracolosa! La signora Matilde più volte di fra gli alberi del suo giardino aveva spiato il soffermarsi di quella vispa fanciulla dai capelli neri e dallo sguardo vivace, intelligente, ma sulle prime non vi fece gran caso. Un giorno però che Iride si era fermata a guardare più a lungo e più attentamente del solito, la si-gnora Matilde sentì per la povera orfanella un senso di vera compassione, la quale ben presto si mu-tò in affetto vivo, tenerissimo. E perché non sarebbe potuta diventare la protettrice, anzi la madre di una creatura quasi abbandonata...? Dei parenti molto prossimi non ne aveva, e poi che diritto ave-vano i parenti al suo affetto? Tutto era calcolo e finzione in loro, dagli auguri di Natale a quelli del giorno onomastico: speravano di fare un giorno una pingue eredità, e questo era il movente di ogni cordialità. Essa se ne era accorta da lungo tempo e quindi non poteva amarli. Lottò a lungo con sé stessa. Prendendo una tale decisione, si sarebbe privata in gran parte della sua libertà, e sarebbe esulata dalla sua casa quella quiete quasi sepolcrale, che essa tanto amava. E poi chi l’avrebbe assicurata che Iride sarebbe cresciuta su una ragazzina proprio a modo sotto ogni ri-spetto...? Del resto sentiva ogni giorno più il bisogno d’avere vicino a sé un essere che la compren-desse e l’amasse con sincerità e convinzione. Questo bisogno finì per trionfare scacciando ogni dubbio, ed Iride passò dalla casa affumicata ed umida dello zio materno al palazzo elegantemente arredato della signora Matilde. Tutto il corredo della fanciulla consisteva in un vestitino di lana bigia e in due scarpe mezzo logore, onde il primo pensiero della sua benefattrice fu quello di vestirla un po’ più decentemente. Vicino ad Iride la signora Matilde provava una specie di felicità, che neppure aveva mai sognato nelle fervide agitazioni della sua fantasia. La voleva sempre vicino a sé, e in breve fra quelle due a-nime si stabilì una corrente di affettuosa intimità, la quale fece scomparire la distanza che, per ra-gione di nascita e di età, divideva l’una dall’altra. La buona signora chiamava Iride ad ogni occor-renza col nome di figliuola, e questa dava alla benefattrice il nome di mamma, come se proprio lei l’avesse messa a questo mondo. Oh dolci illusioni della vita! Compiute le scuole della Parrocchia, Matilde pensò di collocare Iride, almeno per un paio d’anni, in un collegio di città affinché potesse avere un’educazione un po’ più vasta e completa. Certo era per lei un distacco molto doloroso, ma si consolava tutta nel pensare che la sua Iride sarebbe tornata a casa più istruita ed educata: una signorina insomma, compita nel vero senso della parola. Il regolamento del collegio non concedeva alle alunne vacanze neppure estive, disponendo di una bella villeggiatura in collina. La signora Matilde però non sapeva rassegnarsi a stare lungo tempo

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senza vedere la sua buona figliuola, e perciò, ora in città ed ora in campagna, le faceva frequenti e lunghe visite. Le Superiore erano molto contente dei buoni portamenti e del profitto di Iride, e la sua benefattrice, manco dirlo, ne provava una soddisfazione intima, indicibile: la soddisfazione di chi fa il bene per il bene altrui. I due anni di collegio passarono veloci come un baleno, e il giorno che Iride fece ritorno ci fu in ca-sa della signora Matilde una festa piena della più schietta cordialità. Gli amici, dal Sindaco al Parro-co, erano rappresentati più largamente del solito. Non mancava neppure lo zio materno d’Iride, per cui essa aveva sempre conservato riconoscenza ed affetto nonostante la sua mutata condizione. Col ritorno d’Iride dal collegio rifiorì nella casa della signora Matilde una primavera di vita e di gioie. La buona signora sembrava ringiovanita, e dal suo volto era scomparsa completamente quell’aria di naturale mestizia, che le rendeva sì triste l’esistenza. Il portamento d’Iride era veramente quello di una signorina a cui sta a cuore il proprio buon nome e il decoro della casa. Tutte le sue premure erano consacrate alla sua incomparabile benefattrice, e non moveva, per così dire, un dito senza il suo espresso consenso. Mentre una sera Iride se ne stava seduta in giardino ed era intenta a leggere una lettera d’una sua amica di collegio, Matilde le giunse vicino quasi di sorpresa, e, in uno sfogo di affetto tutto mater-no, le raccontò di avere dato ordine a tutti i suoi dipendenti di chiamarla d’ora innanzi col nome di padrona, e che tale doveva realmente considerarsi anche essa, poiché, all’infuori di qualche legato pei più poveri della parrocchia, lei sola aveva fatto erede di tutto il suo patrimonio. Iride a questa notizia abbassò gli occhi quasi per cercare un pensiero, una frase che esprimesse tutta la sua riconoscenza. Inutilmente: nel suo cuore tumultuava un’onda di affetto sincero e tenerissimo, ma la frase per esprimerlo non le veniva alla mente. La signora Matilde si accorse dell’imbarazzo della fanciulla, le accarezzò i capelli soggiungendo: “Spero che sarai contenta, mia cara, non è ve-ro?”. A queste parole Iride gettò le braccia al collo della sua benefattrice, e, per tutta risposta, la baciò a lungo, intensamente. Quei baci furono più eloquenti di mille parole.

V. I quattrini del Diavolo Quella sera nell’osteria di Matteo c’era un’animazione insolita. Sopra il vecchio tavolo splendeva una lucerna alimentata da olio di noce, e intorno ad esso stavano seduti una diecina di giovanotti del paese, i quali giuocavano a tresette facendo, a quando a quando, un rumore assordante. “Matteo, portate un fiasco, ma di quel buono”, gridò d’improvviso una voce stridula. “Questa sera si vuole proprio stare allegri. Evviva noi...!”. “Evvivaaa...!” seguitarono gli altri battendo allegramente le mani. L’oste, un ometto su la sessantina, un po’ curvo della persona e coi capelli e la barba brizzolata, partì senza dire neppure una parola, e dopo pochi minuti fu di ritorno tenendo in una mano un gros-so mazzo di chiavi, e nell’altra il lume e un fiasco di vino nuovo, che spandeva un odore gradevolis-simo. “Bravo il nostro Matteo”, esclamarono in coro. “Siete un gran galantuomo. Peccato non abbiate vent’anni di meno!”. “Eh, ragazzi”, rispose l’oste sorridendo bonariamente, “gli anni passano, e con gli anni crescono i pensieri. Beati voi che siete ancora giovani!”. Intanto il fiasco si era riempito e vuotato più volte, e l’allegria, o meglio, il chiasso era cresciuto in modo da non lasciare bene intendere le varie discussioni, che rapidamente si andavano succedendo. Ho detto discussioni, ma, per parlare con maggiore esattezza, dovevo dire discorsi piuttosto scon-clusionati, quali sogliono accadere fra persone in cui comandano più i fumi del vino che la ragione e il buon senso.

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L’ora s’era già fatta tarda, e le donne, l’una dopo l’altra, se ne erano andate a letto senza che i pre-senti se ne accorgessero. Matteo aveva ripreso il suo solito posto, e colle molle andava attizzando il fuoco da cui si sprigionavano a migliaia le faville, che, rincorrendosi con strani zig-zag, scompari-vano rapidamente su per l’ampia canna del camino. Erano esse una viva imagine degli anni che pas-sano senza neppure la speranza di un lontano ritorno? Matteo, forse, non si era mai fatta una simile domanda, tuttavia al rapido sparire di quelle faville provava la dolorosa sensazione di chi pensa alla brevità della vita. Il rumore non accennava punto a diminuire. “Ah, io, io ho del coraggio”, tuonò Andrea levandosi in piedi e dando un poderoso pugno sulla ta-vola, “ne ho quanto un altro e anche più, ma vi so dire che quella notte non mi rimase neppure una goccia di sangue caldo nelle vene. Fui proprio per morire dalla paura, e Dio sa quello che dico...! Di notte per il Lagobraciano non ci passo più anche se mi dessero tutto l’oro del mondo: ve lo giuro in fede dell’anima mia”. Qui Andrea si fermò come fuori di sé, prese il primo bicchiere che gli capitò fra le mani, e, tracan-nandolo quasi tutto d’un fiato, continuò con la sua narrazione. “Ah se me ne ricordo...! Ci si vedeva come a mezzogiorno: non si udiva che il canto di qualche gril-lo o di qualche rana in lontananza, ed io camminavo di buona lena e zufolavo quasi per far compa-gnia a me stesso. A un certo punto della strada mi venne voltato l’occhio verso il monte della Croce, che in quel momento mi parve alto alto, tanto alto da toccare colla cima il cielo. Non l’avessi mai fatto...! Dunque dicevo che ebbi una gran paura... Vidi quasi nel mezzo del prato un prete grande due volte più di me, con un cappellaccio in testa che gli copriva quasi gli occhi e un grosso libro sotto il braccio. Aveva ancora la stola e... ma non me ne ricordo più bene, poiché mandai un urlo da sentirlo lontano un miglio, e poi, in meno di quello che ve lo dico, mi trovai in casa di Marco alla Bedosta. Avevo i capelli irti come un morto. Così mi raccontarono poi quelli di casa. Mi feci bene-dire dal Parroco, e, grazie a Dio e alla B. Vergine, lo spavento mi cessò, e il sangue non mi andò a male come a quel povero diavolo di Regolo...!”. “Povero Regolo!” interruppe Gigi, che, appoggiato coi gomiti al tavolo, non aveva perduto neppure una parola del racconto di Andrea. “Tornava da Villa, e quando giunse proprio in quel luogo ove eri tu, Drea, vide di là dalla siepe un gran fantasma, che scomparve in mezzo a una fiamma molto alta, lasciando nell’aria un forte odore di pece e zolfo. Egli perdette completamente i sensi, e fu trovato la mattina dopo da Lorenzo il mugnaio. Venne gente e lo portarono a casa sua, e pian piano si riebbe in modo da pronunciare qualche parola. Fu chiamato il medico, il cappellano e anche il Parroco, ma nulla giovò. Si vede che ormai il sangue gli si era guastato del tutto e non ci fu verso di poterlo salvare. Che danno per quella povera famiglia...! Sembravano tante anime dannate. Più di tutto toccavano il cuore le lagrime della Caterina. Si erano sposati da pochi anni, e voi sapete come si volevano bene. Ma pazienza! Tutti abbiamo il nostro de-stino. Mi ricordo ancora, come se fosse adesso, il giorno che lo portarono al cimitero. Piangevano tutti come anime disperate, poiché Regolo, benché fosse di carattere un poco bisbetico, in fondo in fondo aveva un cuore eccellente. Requiescat... Requiescat, se lo merita, poveretto...!”. Successe un profondo silenzio; sembrava che a quella lieta brigata di amici non fosse rimasto nep-pure un briciolo di coraggio. “E che?” mormorò l’oste a bassa voce dal suo cantuccio. “Vi siete già perduti d’animo? Sono cose vere, verissime, ma a vivere al mondo ne capitano di quelle... Potrei fare un libro, se volessi raccon-tare tutte le cose strane, spaventose che ho visto, specialmente di notte, quando ero giovine. Una se-ra andando a veglia dalla mia Luigia... ma basta: non la voglio raccontare perché è lunga e poi voi vi spaventereste. Ci vuol coraggio, ragazzi, e avanti sempre”. Le parole di Matteo ridonarono come per incanto a quei bravi giovanotti il buon umore di prima, e un altro fiasco del solito tosco fornì loro larga dose di coraggio, poiché, è bene ricordarlo, il vino rende gli uomini più coraggiosi, anzi più audaci.

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Mentre intanto attorno al vecchio tavolo di Matteo risuonavano le più omeriche risate e il fumo del tosco accendeva il cervello, giù alla chiesa della Parrocchia le campane suonavano il primo segno per la messa di mezzanotte, che da secoli si celebrava con precisione inappuntabile. “Ormai è ora di andare”, disse Pasquale con voce rauca come quella di una raganella “Ecco, Matte-o, il conto. Va bene...?”. “Benone, benone...!”. “Buona notte, Matteo, e buone feste”. “Buona notte, buone feste, e buona fortuna, ragazzi”. Queste ultime parole l’oste le pronunziò stando sul pianerottolo della scala, e alzando il lume al li-vello della sua fronte, persuaso forse di fare in tal modo meglio lume a quelli che uscivano. Tutti se ne erano andati eccetto Poldo e Massimo, i quali si accostarono al fuoco, e intavolarono poi con Matteo un discorso sopra Napoleone e la sua campagna di Russia. Il padre di Poldo, nienteme-no, aveva combattuto più volte vicino al grande generale, e, quello che più importava, aveva portato a casa la pelle. Quei bravi figliuoli intanto camminavano silenziosi rompendo la neve a forza di gambe, la quale fa-ceva uno strano scricchiolio sotto le loro scarpe munite di grossi chiodi. Alcuni erano armati di ba-stone e altri di fucile, a scaglia, si capisce. Dove si dirigeva quel piccolo esercito sì bene agguerrito? Per comprenderlo bene, è necessaria una piccola digressione. Bisogna sapere cioè che era comune persuasione di tutti i paesani che in mezzo al Lagobraciano la notte di Natale, a mezzanotte in punto, compariva il Diavolo in persona, il quale faceva una grande distesa di marenghi d’oro risplendenti come tanti rubini. Eseguiva però tale mostra con molta circo-spezione circondato da una lunga schiera di diavoli minori, i quali emettevano, a quando a quando, grida spaventevoli. Se uno però avesse avuto il coraggio di gridare, prima che il Diavolo se ne ac-corgesse, lascia, lascia, esso sarebbe fuggito a precipizio colla sua schiera infernale lasciando lì tut-ti quei quattrini. Così raccontava la leggenda popolare. Orbene, quel piccolo esercito che abbiamo veduto lasciare l’osteria di Matteo, si dirigeva unito e compatto come un sol uomo al Lagobraciano per impadronirsi del tesoro del Diavolo, nonostante che il racconto di Andrea e di Gigi avesse un po’ scosso il loro coraggio. Dividere un numero favo-loso di marenghi era certo una prospettiva molto attraente per chi era abituato ad avere quasi sempre le tasche vuote! Mentre quei coraggiosi giovani camminano alla volta del luogo fatale non osano parlare, e solo si bisbigliano all’orecchio il proposito di non lasciarsi prendere dalla paura, anche se rovinasse la cap-pa del cielo. Guai a chi fosse fuggito! L’avrebbe certo pagata cara il giorno dopo...! La notte incombe grave; le nubi vanno e vengono per il cielo prendendo nella fantasia di quegli o-scuri eroi l’aspetto di mostri natanti sotto l’immensa volta del cielo, e gli alberi su per la costa del monte sembrano loro enormi giganti posti alla vedetta. In quell’ora solenne si era levato anche un po’ di vento, che, su in alto, passando attraverso ai rami nudi dei castagni, aveva dei brontolii e dei sibili strani, misteriosi. Col cuore trepidante, con la fantasia in agitazione come se fossero in balia d’una febbre molto ga-gliarda, i nostri conquistatori giungono sul luogo stabilito, e si fermano immobili dietro un vecchio castagno, stretti l’uno all’altro. Sembravano un branco di assassini, che aspettano l’istante di piom-bare addosso al viandante per derubarlo di tutto il denaro. E l’ora desiderata e temuta si approssima, ed essi sono là fermi come statue, pronti a compiere il loro dovere, ad ogni costo. Mingone – il più coraggioso della brigata – ha l’incarico di avvisare gli altri alla prima comparsa del Diavolo, e di gridare per il primo: lascia... lascia...! Grido che doveva poi essere ripetuto da tutti gli altri, e ciò, si capisce, per precauzione, perché cioè non andasse a vuoto il loro tentativo. Mingo-ne, in verità, è tutt’occhi e orecchi, pronto a morire piuttosto che venir meno alla fiducia, che in lui hanno posto i suoi compagni.

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Ancora pochi minuti e poi i marenghi sarebbero stati là distesi sul prato più bianco di un lenzuolo di bucato. Lascia... lascia... si sarebbe subito gridato. Il diavolo a quel grido fuggirebbe a più non pos-so, ed essi ritornerebbero a casa carichi d’oro. Forse non l’avrebbero neppure potuto prender tutto, e vi sarebbero ritornati la mattina dopo per tempo, senza che qualcuno se ne accorgesse...! Mentre la loro mente è fissa in questo pensiero, e vedono attraverso la fervida fantasia un bel caval-lo con briglia e sella nuova, un vasto podere con la sua brava famiglia di contadini e molte vacche buone per il latte, si ode un grido stridulo, acuto. Mingone, che doveva essere il sostenitore di quel coraggio collettivo, aveva emesso quel grido indi-stinto, e, lasciato cadere a terra il suo trombone, se l’era data a gambe a più non posso. I compagni, senza sapere il perché di un tale grido e di una tale fuga, lo seguono precipitosamente, affondando nella neve e nel pantano quasi fino al ginocchio. Tremanti come foglie al vento, colla paura dipinta sul volto arrivano a un casolare vicino, e senz’altro aprono il primo uscio e dentro a precipizio. Alle interrogazioni dei padroni di casa meravigliati e sbigottiti per quell’improvvisa e strana inva-sione, non hanno su le prime che risposte incerte, confuse. Mingone è completamente fuori di sé, e collo sguardo imbambolato pare voglia dire: “Non ne ho colpa io, non ne ho colpa...! Se aveste ve-duto quello che ho veduto io...! Una gran fiamma e lì vicino vicino una figura sì orribile da non po-tersi descrivere. Ed io...”. “Perché non hai gridato”, saltò su Piero con un fil di voce, “almeno lascia... lascia...?”. “Santo Dio! Dite bene”, risponde con voce tremante Mingone, “ma in quel momento non fui padro-ne della mia lingua”. “E intanto”, ripigliò un terzo, “i marenghi se ne sono andati!”. “Avete ragione, avete ragione, ma, santo Dio, come si fa?”. Intanto, fra un discorso e l’altro, si era fatto giorno, ed essi si avviarono verso casa come cani ba-stonati, e, giunti vicino al luogo dei marenghi, si guardarono l’un l’altro come per dire: “Vedete, si poteva essere ricchi, invece...”. E con il capo chino, quasi in segno di umiliazione e di sconfitta, passarono oltre silenziosamente. Quello però che loro maggiormente dispiaceva erano le risa e le beffe dei paesani. Forse in quel momento avranno desiderato non esistere piuttosto che andare incontro a sì grandi umiliazioni. Combinarono di tacere sull’accaduto, ma non giovò. All’ultima messa il fatto si sapeva da tutti nelle sue minime particolarità, e si facevano le più saporite risate alle spalle di quella piccola schiera di eroi! E le risa e le beffe crebbero assai quando, il giorno dopo, si seppe che quella gran fiamma, che li aveva messi in fuga, altro non era che una scintilla dell’acciarino di Pasqualetto accattone di Villa, il quale in quell’ora tornava a casa da Salto, e aveva acceso la sua brava pipa di coccio per rompere un poco la monotonia del viaggio.

VI. Il tabernacolo della Vergine Fino all’età di quindici anni Ruggero non ebbe altra passione che quella degli uccelli. D’estate va-gava per più ore del giorno nelle boscaglie, che circondavano la sua casetta nativa, e ritornava sem-pre con qualche bella nidiata; d’inverno poi tendeva laccioli nei piccoli tratti di terreno ove la neve si fermava poco o niente, e i liberi abitatori dell’aria vi incappavano in gran copia. Un inverno in cui cadde molta neve poté prendere anche una dozzina di pernici, e col ricavato pensò a provvedersi un fucile qualunque; più grande, ne avrebbe comperato uno moderno, proprio uguale a quello del si-gnor Gigi. Fosse pure durata sempre in lui la passione per gli uccelli! Ma che è che non è, quasi d’improvviso, Ruggero si fa serio e pensieroso, e svanisce in lui ogni passione di uccelli e di caccia. Quale era stata la causa di un cangiamento sì repentino?

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Una sera di maggio sua madre lo sorprese rannicchiato dietro la siepe dell’orto con alcune cartelle figurate fra le mani. Essa si fermò ad osservare, e vide che il ragazzo, parlando fra sé stesso, osser-vava attentamente quelle carte ripetendo certi esperimenti. Geltrude, era questo il nome della donna, credé bene di non interrompere quella meditazione, e, senza che il figlio se ne accorgesse, rincasò. La sera, dopo un po’ di cena, Ruggero si mise in un canto vicino al fuoco. Suo padre stava vicino alla finestra ed era inquieto, perché la pipa non voleva funzionar bene. “Sta pur lì colla testa bassa, ma lo so a cosa pensi. Credi forse che non ti abbia veduto...? Dammi quel mazzo di carte, altrimenti questa sera non si dorme in casa...”. “Che cosa c’è?” interruppe distratto il padre. Il ragazzo diede un tremito, e fra i singulti ripeteva: “Non è vero, non è vero...”. “Non è vero?” riprese la madre. “Non dirlo a me che ti ho veduto. Fuori le carte, dico, altrimenti...”. A questo punto il padre capì di che cosa si trattava, e, senza dire neppure una parola, afferrò il ra-gazzo per un braccio, e alzò l’altra mano a dargli una dozzina di quegli scappellotti, che sapeva dare lui in certi momenti, ma si trattenne. Ruggero intanto tremava come una foglia, e piangeva come un disperato. Sotto l’impressione di quelle minacce, con un moto involontario e quasi convulso, estrasse di tasca il mazzo di carte e le lasciò cadere per terra. Geltrude le raccolse esclamando: “Dunque avevo ragione. Ah! cattivo, cattivo. Guai a te, se ti ritro-vo carte da giuoco in tasca!”. “Questa è roba da buttare nel fuoco”, prese a dire il padre. “Chi le inventò deve essere andato certo a ca’ del diavolo...!”. E prese le carte dalle mani di Geltrude le gettò con violenza fra la fiamma, che in un attimo le divorò. Poi soggiunse a guisa di conclusione: “Patti chiari: guai a te se non metti giudizio! Nessuno della nostra famiglia ha mai avuto di tali vizii, e non voglio, capisci, che entri in casa questa maledizione del giuoco. Lo dico a uno e lo dico a tutti”. Durante lo svolgersi di questa scena gli altri due figli, un po’ minori di età, non avevano battuto palpebra, e in ultimo guardarono senza dir parola il padre come per assicurarlo che avevano capito tutto, e volevano essere migliori del fratello. Geltrude intanto si affaccendava intorno al latte, e il marito, accesa con una bragia la sua brava pipa, andò su l’uscio ad osservare il tempo, il quale prometteva bene, poiché a ponente il cielo era rosso come una fiamma. Ruggero si sentiva reo di una grave mancanza, e non osava per vergogna alzare gli occhi. “Ragazzi, a letto, poiché domattina bisogna alzarsi presto”. A questo comando della madre i tre ragazzi scattarono come una molla, e si incamminarono verso la loro cameretta. Ruggero però avrebbe voluto domandare perdono ai genitori, ma aveva come un nodo alla gola e non poteva parlare. La madre se ne accorse, e: “Sta tranquillo”, gli disse, “ma guar-da di non fare più così”. Queste parole furono per il piccolo delinquente una specie di riabilitazione, e si consolò tutto pen-sando che i genitori gli avrebbero voluto ancora bene, come agli altri fratellini. A tutta prima sembrò che quella sgridata avesse ottenuto il suo effetto, ma, purtroppo, i buoni pro-positi di Ruggero furono un fuoco di paglia: la passione del giuoco si risvegliò nel suo cuore ed egli non seppe resistere. E non si contentò più di ripetere da solo certi suoi esperimenti di giuoco, o di fare una partita coi suoi coetanei, ma cominciò a frequentare l’osteria e certe combriccole di poco buon nome. I suoi genitori non lasciarono nulla di intentato, perché si correggesse. Dapprima adoperarono le ammonizioni, poi i castighi, ma inutilmente. In breve tempo diventò un esperto giuocatore, di bassetta specialmente, il giuoco che inebria e ro-vina tanta gioventù. Si diceva persino che avesse fatto un patto col diavolo, tanto era destro e fortu-nato nel giuocare.

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Comunque, aveva sempre le tasche piene di marenghi d’oro, e la gente parlava di lui come di un personaggio assai distinto e riguardevole, essendo pur sempre vero che spesso si dà al vizio quella lode, che solo alla virtù si converrebbe. Anche le ragazze avevano pel celebre giuocatore una simpatia speciale, ed erano molto ambiziose di essere corteggiate da lui. “Non sai?” disse un giorno la Rosa alla Caterina. “Ruggero fa all’amore colla Paolina: anzi una per-sona, che merita di essere creduta, mi ha assicurato che le ha promesso di sposarla prima della fine di carnevale”. “Può darsi”, rispose la Caterina, “ma io non lo credo, e, se dico così, è segno che lo posso dire”. E la ragione di dire così Caterina l’aveva in realtà. Infatti, benché i genitori non ne fossero punto contenti, essa era risoluta di condurre ad effetto la promessa fatta a Ruggero per la fiera di S. Loren-zo, e che gli aveva confermata pochi giorni fa in una festa di ballo. Ruggero poi a sua volta aveva impegnato seriamente con lei la sua parola. Passati pochi giorni da quel colloquio, Caterina si sentì ripetere la medesima antifona da un’altra amica. Da quel momento la povera ragazza non ebbe più pace, e la tempesta nel suo povero cuore giunse al sommo quando vide che Ruggero non andava più a farle visita neppure nei giorni di festa. Scrisse più volte al suo fidanzato, così lo chiamava lei, ma non poté avere neppure un rigo di rispo-sta. Ciò che Caterina temeva, o, meglio, le sembrava una cosa incredibile, era, purtroppo, una realtà: Ruggero aveva dato parola di matrimonio alla Paolina, e ormai non ne faceva più un mistero. Per-ché aveva lasciato così improvvisamente Caterina? Forse neppure lui l’avrebbe saputo dire. Fatto sta che non ne volle più sapere di mantenere la sua prima promessa. Paolina intanto non era ritornata a Firenze per riprendere il suo servizio di cameriera. Segno dunque che contava di concludere presto il suo matrimonio con Ruggero il quale non lasciava passar giorno senza farle una visita. E lei andava pazza di contentezza, e chissà quale felicità andava fantasticando nella sua mente. Anche la madre di Paolina ne era più che contenta, e usava verso il futuro sposo di sua figlia ogni più squisita cordialità, e non si sapeva dar pace delle ottime qualità di lui. Era proprio quella una grazia che il cielo voleva concedere alla sua famiglia. Ruggero, a sua volta, non era avaro di gentilezze colla futura nonna, e procurava di non presentarsi mai a mani vuote. Una sera presentò alla Paolina una scattola molto elegante dicendo: “Prendi, è tua. Non avrei saputo quale altro ricordo portarti da Bologna, e spero che ti piacerà”. La ragazza ebbe un sorriso di grande compiacenza, e aprì con mano tremante il piccolo astuccio. Fra un bioccolo di bambagia candida come neve luccicava un bellissimo anello d’oro. Lo guardò con esclamazioni di gioia e di meraviglia, e poi se lo pose in dito, proprio in quello da sposa. “Mi va benissimo, vedi? Ma come hai fatto a cogliere sì bene nella misura...? Sei proprio bravo!”. “Oh! io conosco meglio di te”, rispose il giovine con un sorriso un po’ malizioso, “la grossezza del-le tue dita... Dunque ti piace?”. “Sì, e lo terrò sempre carissimo”. E, mentre diceva così, si levò l’anello dal dito, lo ripose delicatamente nel suo astuccio, e poi lo por-tò in camera, nascondendolo in un angolo del suo canterale. Il giorno seguente era domenica. Paolina andò alla messa col suo bravo anello in dito. Le amiche si accorsero subito di quella novità, e si dissero a vicenda: “E’ l’anello da fidanzata. Vedi come si pa-voneggia...!”. Benché nel Frignano fra le persone di bassa condizione non abbia luogo il fidanzamento con conse-gna di anello da parte del giovine pure la persuasione che Paolina portasse quell’anello come segno di fidanzamento con Ruggero divenne comune. Quando la festa il Parroco si volgeva al popolo per dare qualche avviso, le ragazze specialmente erano tutte orecchie per sentire le pubblicazioni del fu-turo matrimonio fra Ruggero e Paolina, ma si era verso la fine di carnevale e le pubblicazioni non si erano ancor fatte. Allora a qualcuno nacque il sospetto che andassero, come si vuol dire in termine burocratico, per licenza.

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“Sì, sì... vanno per licenza”, ripeteva la gente per istrada e nelle conversazioni. E questa diceria acquistò gran credito quando si seppe che il giovine aveva avuto un lungo collo-quio col Parroco della sposa, e che in seguito a tal colloquio il Parroco aveva subito mandato un grande involto di carte alla Curia. Il colloquio di Ruggero col Parroco di Paolina era vero, ma non si poté mai sapere con precisione di che cosa si era trattato. Il carnevale però passò per l’ultima volta per le vie del paese, ma la Paolina era ancora nubile. Anzi da più giorni Ruggero non si era neppure fatto vedere, e madre e figlia erano in preda alla più viva costernazione: non sapevano che cosa pensare di un’assenza così lunga ed ingiustificata. L’arrivo improvviso di Ruggero portò finalmente un po’ di sereno in quelle due povere anime, ma fu un sereno di poca durata. Ruggero non fu per Paolina il giovine affabile degli altri giorni, e, dopo alcune parole di scusa per sì lunga assenza, fece capire a le due donne che gli era necessario differi-re ancora il matrimonio: non aveva potuto disporre la casa come avrebbe voluto, e poi doveva fare un viaggio in Toscana per certi suoi affari, che gli stavano molto a cuore. La Paolina ebbe un forte scoppio di pianto, ma le fu giocoforza rassegnarsi. Il suo fidanzato però le aveva promesso di ritornare presto, e questa promessa era come una luce perenne, che la consolava nelle lunghe ore dell’attesa. Quando la gente seppe che il matrimonio di cui tanto si parlava, era stato differito, e più ancora quando si accorse che Ruggero andava di rado dalla sua promessa sposa, cominciò a fare dei dubbi su la sincerità di quella promessa, e quelli che conoscevano meglio il famoso tagliatore di bassetta andavano dicendo: “Forse la sposerà, ma è un certo originale...! Doveva sposare anche la Caterina, e poi te la piantò lì in asso. Può darsi però che Paolina sia più fortunata. Dio lo voglia!”. Questi so-spetti erano, purtroppo, basati su la realtà. Ruggero infatti, ritornando dal suo viaggio in Toscana, non andò come aveva promesso a far visita alla Paolina, ma per mezzo di una persona di confidenza le mandò una lettera in cui disdiceva ogni promessa di matrimonio. E’ più facile imaginare che descrivere la sorpresa e il dolore della ragazza, e più della madre. Come è naturale, questa notizia si diffuse rapidamente per tutto il paese, e ognuno ebbe parole di grande biasimo per Ruggero, e di viva compassione per la Paolina, la quale aveva un animo buono e gentile, doti che le facevano perdonare quel poco di leggerezza, che traspariva dal suo portamento, e che, più o meno, si trova nella maggior parte delle ragazze. La cosa però non era terminata con uno schianto di cuore della povera Paolina e con molte dicerie del pubblico, poiché vi era chi voleva vendicare l’onta fatta alla sua famiglia. Questi era il fratello di Paolina. Egli si trovava militare nella bassa Italia quando accaddero i fatti, che ora abbiamo narrati. Venuto a cognizione dell’accaduto, domandò il permesso di recarsi in famiglia e l’ottenne. Arrivò a casa, in apparenza almeno, assai calmo e tranquillo, e si fece meglio spiegare dalla sorella quanto prima es-sa gli aveva riferito per lettera. “Me la pagherà”, ruggì stringendo i pugni in aria, “me la pagherà, lo giuro!”. La sorella, che nutriva ancora un filo di speranza per il suo matrimonio, tentò di calmarlo, ma egli non volle ascoltare ragioni di sorta. Bisogna sapere che fra Ruggero e il fratello di Paolina di nome Marco passava, se non una stretta amicizia, molta cordialità. Ora Marco pensò di approfittarsi di tale amicizia per condurre ad effetto il suo triste disegno, ed ecco come andò la cosa. Una sera molto buia e piovosa Ruggero stava con alcuni amici nell’osteria principale del paese. A un certo punto entra Marco, e invita l’amico a seguirlo dicendo che aveva bisogno di parlargli. Ruggero, non sospettando nessun tradimento, lo segue e si avviano per la strada maestra. D’im-provviso fra lo scrosciare della pioggia s’ode la detonazione di un’arma da fuoco, poi un’altra e un’altra ancora. Ruggero fugge a precipizio, e Marco lo segue col revolver teso nell’oscurità della notte.

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Inutilmente. La sera del giorno seguente Marco era in mano della forza pubblica, e la gente commentava quel-l’attentato nei modi più strani e disparati. Le donne attribuivano senz’altro la salvezza di Ruggero alla Madonna, e di questo pare ne fosse persuaso anche lui, poiché poco dopo fece erigere sul luogo dell’attentato un tabernacolo assai elegante coll’immagine della Vergine. C’è anche la sua relativa iscrizione. Essa dice appunto che quel tabernacolo è lì ad attestare una grazia ricevuta. Il popolo racconta che anche ora Ruggero non va alla chiesa e crede poco. Pure, quando passa da-vanti al tabernacolo da lui eretto a la Vergine, si leva con riverenza il cappello, e, se è solo, si ferma alcuni istanti mesto e pensieroso. Pensa forse a riparare il disonore in cui ha trascinato una povera famiglia, oppure è il principio di una nuova rifioritura di fede nel suo cuore? Forse l’una cosa e l’altra insieme.

VII. Mamma, non piangere Venti primavere appena avevano accarezzato le sue guance di rosa ed i suoi capelli neri come un’ala di corvo. Aveva sortito da natura un ingegno svegliato, un carattere franco e coraggioso, e aveva nel tratto un non so che di aristocratico. Nel piccolo villaggio erano tutti concordi nel chia-marlo un fiore di bellezza e di bontà. Fino dai più teneri anni aveva preso un grande amore al pode-retto che il padre, rapito da morbo crudele in età ancor giovine, aveva lasciato in eredità a lui, alla madre, e a due sorelle di poco inferiori d’anni. E’ superfluo dire che queste quattro creature erano un’anima e un cuor solo. Quant’amore, quanta pace in quel piccolo nido! Mi occorre aggiungere che Alberto Iaddi era un’anima canora. Si alzava con l’alba, e, col canto sul-le labbra, si avviava al lavoro dei campi. Era sì bella la natura, che lo circondava e sì rimunerativa la terra! E cantava cantava come la lodoletta, che non par mai sazia delle sue note, e che risveglia in chi l’ode una grande letizia. Così la fatica gli tornava più leggera e la giornata gli passava più velo-ce del baleno. I suoi desideri erano tutt’altro che scomposti e numerosi. Avere un podere ben coltivato, orgogliosi filari di viti e di alberi da frutta; un bel paio di vacche garfagnine, un maiale da ingrassare per la famiglia, un ricco pollaio, e poi una casetta pulita e ben arredata ecco tutto! E nella sua mente gio-vinetta pensava: E non basta forse questo per vivere contento? I signori son forse più felici di noi povera gente? Tutt’altro! L’ho sentite dire tante volte anche dallo zio Carlo; anzi aggiungeva che un giorno fu scoperto che l’uomo felice è senza la camicia... Dunque a questo mondo bisogna conten-tarsi, altrimenti ogni allegria se ne va, ed io voglio stare allegro, sempre allegro. Uomo allegro il ciel l’aiuta, e quando c’è l’aiuto di Dio c’è tutto! E riprendeva il suo umor lieto, e cantava con tanta grazia, che la sua voce risuonava per l’aria come una campanella d’argento. E la gente all’udirlo si ripeteva a vicenda: “Non si può essere più lieti di così!”. Una sera di luglio sua madre ritornò dal capoluogo molto triste e quasi piangente. Le era for-se accaduta qualche disgrazia? Ah! le mamme son sempre mamme, e soffrono tanto quando i figli stanno per lasciare la casa e andare chissà dove. Se poi all’idea della partenza s’aggiunge il timore di qualche pericolo pei loro cari, allora son lagrime e lagrime...! La classe d’Alberto era chiamata alle armi. Egli era stato dichiarato abile; dunque gli conveniva partire, e fra pochi giorni. La guerra infuriava su tutto il fronte, né accennava a finire. Nessuna meraviglia adunque se essa era tutta pre-occupata della sorte del suo figliuolo, l’unico sostegno della famiglia. “Povero Alberto, povero figlio mio...! Senza esperienza, in mezzo a tanti pericoli chi lo salverà? Se fosse almeno difettoso...! Gesummaria, a voi lo raccomando! Voi conoscete il meglio per lui, per me, per tutti. Io sono una povera donna senza istruzione, non so, non comprendo forse nulla. Sia dunque fatta la vostra volontà... Sì, la vostra santa volontà!”.

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Questi i pensieri che in quel momento le tumultuavano nella mente. Ma al confuso ragionare pre-valse il dolore. Si lasciò cadere sopra una sedia lì presso la tavola, nascose la faccia fra le palme, e scoppiò in un pianto dirotto. Alberto ritornava in quel momento dal lavoro, e, veduta la madre in quello stato, ebbe un forte tuffo al cuore, e le prime parole gli morirono sul labbro. Ma riprese subito animo, e si avvicinò a lei per domandarle la ragione di quel pianto. “Mamma, perché piangi...?”. Essa per tutta risposta si trasse di tasca un foglio tutto sgualcito e con mano tremante lo porse ad Alberto. Questi diede un rapido sguardo alla carta, e comprese subito di che si trattava. Tuttavia, ri-volto alla madre, disse con calma: “Mamma, fatti animo. Chissà, potrei anche essere scartato al reg-gimento”. “Non lo spero. Ora siamo in tempo di guerra, e le riforme non sono tanto facili. Lo vedi anche tu...!”. “Anche lontano mi ricorderò di te...”. “Lo so, ma...”. “Sarò sempre il tuo Alberto. Pensa che migliaia e migliaia di altre madri hanno i figli sotto le armi, in guerra...”. “E’ vero, ma esse forse non ne hanno uno solo come me”. “Questo sacrificio un giorno si trasformerà in gloria, in benedizione per me, per te, per le mie care sorelle, per tutti”. “Sia fatto il volere di Dio...!”. Così dicendo si alzò, si asciugò le lagrime e distese sulla tavola la bianca tovaglia per la cena. In questo mentre Giulia e Fosca ritornavano dai campi cacciandosi avanti le belle giovenche dalle mammelle turgide, ma tanto la madre che il fratello si fecero un dovere di non metterle a parte, per quella sera, dell’accaduto. E perché turbare senza bisogno la letizia di quelle due anime? Il distacco dalla propria famiglia è, per ogni cuor ben fatto, tanto più doloroso quanto più si prevede lontano ed incerto il ritorno. E’ quindi facile immaginare qual fosse l’animo di Alberto Iaddi al pen-siero di dover partire pel servizio militare. Provava una grande tristezza, ma faceva del suo meglio per mostrarsi allegro e disinvolto come per lo passato: non voleva accrescere col suo turbamento quello giù grande della madre e delle sorelle. Quella mezza settimana passò veloce come un baleno. Quando i suoi compagni lo chiamarono in coro dalla strada maestra, Alberto era già pronto. Abbracciò e baciò con molta tenerezza e in gran fretta la madre e le sorelle, infilò un bastone nelle orecchie della valigia, che era lì pronta sul tavolo di cucina, se la gettò sulle spalle, e, varcando la soglia di casa, ebbe appena la forza di dire: “Addio, mamma...!”. “Giulia, Fosca, addio!”. “Addio, Alberto...! Guarda di fare a modo, di scrivere subito subito, e...”. “Non dubitate, non dubitate!”. Le donne volevano aggiungere qualche altra raccomandazione, ma Alberto era già scomparso su per il viottolo tutto a risvolte, che faceva capo alla via carrozzabile. Le lagrime e i sospiri di quelle povere creature è più facile imaginarli che descriverli. I coscritti intanto si allontanavano a passo rapido e cadenzato. S’allontanavano cantando per far ta-cere il sussulto, che agitava loro il cuore, e scambiavano saluti e auguri colle persone che incontra-vano e con le famiglie, che non distavano tanto dalla strada. Si può dire che Alberto non era mai uscito di casa. Di fatti il suo viaggio più lungo l’aveva fatto a Pavullo il giorno della visita militare. E’ facile quindi imaginare quale impressione facessero su di lui la vista del treno sbuffante come un mostro, e la città con tanti bei palazzi, con le sue chiese sì vaste e maestose, con cento torri, che spingevano la loro vetta su nelle nuvole. Ora la sua casa gli sembrava un bugigattolo, e la chiesa del suo villaggio un oratoriuccio qualunque.

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Benché fosse stracco la prima notte non gli riuscì di prender sonno. Gli eran di continuo davanti agli occhi gli oggetti più cari che avesse al mondo: la madre e le sorelle ancor piangenti, la chiesetta, la casa, il poderetto, le belle mucche, gli amici... e più lontano la bella cerchia dei monti friniati col Cimone, il Corno alle Scale e il Cantiere elevantesi al cielo come altari immensi della natura. Si sforzava di allontanare queste care imagini, questi dolci ricordi, ma inutilmente. Quanto più grande era il suo sforzo, tanto maggiore era la vivacità con cui essi agitavano la sua fantasia. Gli erano più presenti che se li avesse lì sotto gli occhi. La mattina seguente subì una nuova visita, e fu confermato abile, e aggregato all’arma dei bersa-glieri, i soldati più belli, simpatici e coraggiosi del mondo. “Fino alle diciotto siete di libertà”, disse il tenente scandendo le parole. “Avete inteso...?”. “Sì...!”. “Guai a chi manca!”. “Saremo pronti, tutti”. “Bravi! Ora rompete le file”. Quei baldi giovani non se lo fecero dire due volte. Un minuto dopo l’ampio cortile della caserma era deserto. Corsero tutti a compiere un loro dovere, a scrivere alla famiglia. Alberto si limitò a una cartolina illustrata: il giorno dopo avrebbe poi scritto una lunga lettera. Girò a lungo e da solo per le contrade e per le piazze della città, e ne visitò quasi tutte le chiese. Gli sembrava di essere in un mondo incantato, e si sentiva come smarrito in mezzo a quella folla innumerevole e agitata. A quando a quando, gli si empivano gli occhi di lagrime, ma le respingeva come un atto di debolezza. Gli pareva che il pianto non si addicesse alla fierezza di un soldato. La sua prima lettera alla famiglia fu lunga e particolareggiata. Parlò del viaggio, della città, dei su-periori, dei compagni, della divisa, del vitto, di guerra, in breve di tutto un po’ con vivacità di colo-rito, e con espressioni di grande tenerezza per coloro, che ora sentiva d’amare più della pupilla degli occhi suoi. Alberto si mostrò fino dai primi giorni un soldato esemplare, benché trovasse la vita militare tut-t’altro che una partita di piacere. Ma qual meraviglia? L’adempimento di un dovere non richiede forse sempre dei sacrifizi...? C’è modo e modo di intendere e di adempiere un dovere. Alberto lo in-tendeva in modo nobile, e lo adempiva con amore. Il dovere militare...? E non gli aveva ripetuto più d’una volta sua madre che ogni cittadino è tenuto ad amare la patria anche fino alla morte...? E non gli avevano ripetuta questa verità il Parroco e la maestra...? No: il buon cittadino non deve esitare neppure davanti alla morte, se lo richiegga il bene del suolo nativo. Ricordava l’eroismo di Pietro Micca, dei Martiri di Belfiore, di Calvi, di Pellico e di molti altri, i quali ad una vita comoda e sicu-ra preferirono l’esilio, i più acerbi dolori e la morte stessa. L’amor della patria vinse quello della famiglia, ed ora tutti s’inchinano alla loro memoria. Questi ricordi gli riempivano il cuore di fede e di coraggio. Già la sua coscienza era tutta pervasa dall’idea di un dovere supremo da compiere, e propose d’andarvi incontro con grande serenità di spirito. Scomparve dal suo volto ogni segno di tristezza, così che ritornò lieto come quando vedeva crescere lì sotto i suoi occhi belli ed abbondanti i frutti de’ suoi sudori, e a casa trovava tre cuori, che avevano sempre per lui ogni tenerezza e pre-mura. Erano trascorsi a pena due mesi dal giorno dell’arruolamento allorché il Battaglione di Alberto rice-vette l’ordine di tenersi pronto per la partenza. Dove s’andava? Non c’era dubbio: a dare il cambio ai valorosi commilitoni, che da molti mesi erano là faccia a faccia col nemico. Aveva sentito parlare più d’una volta della vita dura, monotona e pericolosa della trincea, ma non si turbò, anzi la sua fronte restò rischiarata come da un raggio di intima contentezza. Credé bene darne subito avviso alla famiglia, e vergò in fretta questa cartolina: “Carissime! Domat-tina si parte per il fronte. Sono più contento che se partissi per una festa. La patria lo vuole, ed io son pronto a fare il mio dovere, tutto il mio dovere fino all’ultimo. Scriverò poi più a lungo. Tutti i miei baci sono per voi”. In capo a quindici giorni di ansioso attendere, la sua famiglia ricevette la seguente lettera: “Sempre carissime! Dopo due settimane di viaggio, parte in automobile e parte a piedi, siamo giunti in un luogo chiamato il Carso. Non v’è che sabbia e pietre. La nostra dimora è

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una fossa di due metri di profondità coperta di tavole e di terra, e abbiamo per letto un poco di pa-glia più trita della loppa. Di giorno non si può uscire, perché i nemici potrebbero regalarci qualche caramella poco saporita; usciamo di notte, ma anche allora con grande silenzio e precauzione. La guerra è guerra, e non si sa mai... mi capite. Il cibo è buono e sufficiente, e i superiori ci trattano con grande amorevolezza. Siamo poco distanti da Trieste, e chissà che presto non sia nelle nostre mani. Dio lo voglia! La causa per cui combattiamo è giusta, e Iddio non può essere che dalla parte della giustizia. I fratelli aspettano in lagrime: corriamo a liberarli! Oh se avessi qui un paniere della mia uva! In alto i cuori! Vi stringo tutte al mio seno con un affetto, che non ha confine. Addio”. Torna sempre di grande dolore ai genitori non aver notizia dei figli lontani, specialmente se li sanno esposti a pericoli gravi. Vorrebbero saperne nuove ad ogni ora, ad ogni minuto! Potete quindi fa-cilmente figurarvi l’ansia tumultuosa della madre di Alberto, che da quasi un mese nulla sapeva del suo figliuolo. Scrisse anche più d’una lettera raccomandata al suo carissimo lontano, ma inutilmen-te. Tutti i giorni mandava alla posta l’una o l’altra delle figlie. Per tutti c’era qualche corrisponden-za, per loro nulla di nulla. Che stretta al cuore! Quante supposizioni! Come passavano tristi e mono-toni i giorni per quelle tre povere creature! Era uno struggimento non solo da non potersi ridire, ma neppure da potersi bene imaginare. Intanto si sapeva dai giornali e dai soldati, che ritornavano in licenza, che sul Carso c’erano stati dei forti combattimenti. Anche Alberto era là, e chissà non fosse morto di piombo nemico. E’ vero, era stata ella stessa a insegnargli fin da bambino che il suolo della patria è sacro e che bisogna difender-lo anche con pericolo della vita, ma tutti sapevano che dei figli lei non ne aveva che uno, e chi l’a-vrebbe sostenuta nei giorni della vecchiaia, se anche quell’unico le fosse mancato...? Aveva due fi-glie, ma le ragazze sono come uccello in frasca, ora ti vedo ed ora non ti vedo! Cercò di scacciare sì fatto pensiero come una tentazione, come un atto di egoismo. La provvidenza, che dà l’alimento agli uccelli dell’aria e veste sì splendidamente i fiori del campo, si sarebbe forse dimenticata di lei? Non volle neppure pensarlo. Tuttavia quell’incertezza sulla sorte del figlio le martoriava senza posa il cuore. Quasi quasi avrebbe preferito saperlo morto sul campo dell’onore. Una sera, dopo che ebbero molto pianto e molto pregato per il loro caro Alberto, a Fosca spuntò in mente l’idea di scrivere, questa volta al comandante del suo reggimento. Non dubitavano della cor-tesia di un nostro ufficiale, e la risposta desiderata e temuta sarebbe arrivata. Ma chi mai in paese avrebbe saputo metter giù una lettera da poter andare nelle mani di un colonnello? L’unico era il Parroco, persona colta e sempre felice di poter fare un favore. Fu la Giulia che l’indomani si recò dal Parroco per il grande favore, e lo trovò, neanche a dirlo, cortesissimo. La lettera fu scritta subito, e spedita lo stesso giorno raccomandata. La risposta sarebbe venuta presto? Sarebbe stata lieta o tri-ste? Ecco le domande che rivolgevano cento volte a sé stesse le povere donne; ma, a dire il vero, non avevano grande speranza che le notizie fossero del tutto buone. La risposta fu più che sollecita, ma purtroppo era tale quale il buon D. Giovanni la temeva... Il co-lonnello con frasi commosse gli notificava che Iaddi Alberto era caduto da prode, lieto e sorridente come un fanciullo, e lo incaricava di stringere per lui la mano alla madre del giovine eroe. D. Giovanni, il cui cuore alle disgrazie del prossimo vibrava come corda d’arpa al tocco più legge-ro, non sapeva indursi a dare alla famiglia il triste annunzio. Mandare la lettera del colonnello...? Chiamare alla Canonica la madre o una delle sorelle...? Recarsi lui stesso alla casa...? Pensa e ripen-sa, l’ultimo partito gli sembrò il migliore. Si mise la cappa e il cappello nuovo e via. Mentre andava, studiava le parole e le frasi, che avrebbe detto, ma l’una gli sembrava più infelice dell’altra. E’ tanto difficile annunziare in bel modo una grave disgrazia! E gli salivano su dal cuore certi sospiri da non potersi ridire. Non solo Alberto era uno dei migliori giovani della parrocchia, ma gli era anche di grande aiuto nelle funzioni e in qualunque altro evento. Venne la madre a toglierlo d’imbarazzo. Gli era in fatti corsa incontro col cuore in sussulto e le la-grime agli occhi, esclamando: “Ah D. Giovanni, D. Giovanni!”. “Coraggio!”.

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“Me lo dica, me lo dica subito...! Povero il mio Alberto...!”. “Era tanto buono!”. “Almeno avessi potuto stringerlo al mio seno e coprirlo di baci! Morir così lontano!”. “Il suo colonnello vi stringe commosso la mano... E’ morto da eroe.”. “Grazie...! Ma chi mi ridarà il mio Alberto?”. “Avete un angelo in cielo. Non c’è dubbio, non c’è dubbio! Era un fiore di bontà”. “E’ vero, è vero, ma...!”. “Sia fatta la volontà di Dio”. “Sì la volontà di Dio...!”. In questo mentre erano entrate in casa anche le figlie, le quali piangevano come viti tagliate. D. Giovanni intanto aveva estratto di tasca la lettera, e la leggeva fra pause di grande commozione. Alla lettera era unito il ritratto del caro estinto. Se l’era fatto fare pochi giorni prima della morte, e non aveva forse avuto il tempo o la comodità di spedirlo. Fu una vera pioggia di baci su quelle care sembianze! Le donne non si saziavano di rimirarlo, e di stringerlo al cuore. A pie’ del ritratto Alber-to aveva scritto di proprio pugno queste poche parole: “Mamma, non piangere!”. Madre, ecco la prima ed ultima parola, che spunta sul labbro umano! Ora il ritratto di Alberto, racchiuso in bella cornice, pende sul capezzale della madre come angelo tutelare della casa. La sera specialmente, essa si ferma a contemplarlo a lungo e a pregare, ma non piange più. “Mamma, non piangere!”. Queste parole sono per lei come un comando sacro. E perché piangere ancora...? Non era forse morto il suo Alberto per una causa nobilissima, per la grandezza della patria e per il bene dell’umanità? E non sono forse eternamente gloriosi e beati quelli che muoiono così?

“... Oh viva, oh viva, Beatissimi voi Mentre nel mondo si favelli o scriva”.

VIII. Il Lago Santo Per quella legge che governa tutte le azioni umane, grandi o piccole, mi trovai a capo di una comiti-va di bravi giovanotti, i quali s’erano decisi di fare una gita al Lago Santo. La via era assai lunga e faticosa; e quindi si partì di buon mattino colla baldanza di chi si accinge ad una grande impresa, sicuro di riuscire nel suo intento. Non è fuor di proposito dire che si pensò an-che ad una buona provvista per lo stomaco, perché, forse, non tutti sapranno che l’appetito cresce in ragione diretta dell’altezza dei monti, e il Lago Santo è a 1500 metri sul mare! Dai casolari giungevano frequenti voci di uomini, di donne e di fanciulli; dalle stalle coperte di pa-glia uscivano nitriti di cavalli e belati di greggi, che impazienti aspettavano il momento di andare ai pascoli salubri dell’Alpe. La viola tricolore, che forma il più vago ornamento dell’alta regione a-penninica, riempiva l’aria del suo dolce profumo e pareva lieta delle carezze del sole nascente; qualche uccello, trillando, passava sul nostro capo colla rapidità del fulmine: era come un inno rude della natura svegliantesi dal suo riposo notturno. E noi camminavamo di buona lena in mezzo a quella gioia della natura, che in quell’ora mattutina parlava potentemente al nostro spirito e alla no-stra fantasia. Non facemmo, credo, versi né allora né poi, ma lì in mezzo allo sprigionarsi di tante forze vergini della natura, chi più chi meno ci sentimmo tutti poeti. Chi è un po’ pratico dei monti sa che è assai facile smarrire la strada. Così capitò anche a noi. Quasi senza accorgercene, ci trovammo impigliati in una fitta selva di faggi, e, per uscire, dovemmo lotta-re a lungo col nemico che ad ogni passo ci preparava nuove sorprese, e salire poi a carpone per una costa, che aveva molta somiglianza con quella del purgatorio dantesco. Come Dio volle, ritrovammo il sentiero, che doveva condurci alla meta sospirata. La lieta brigata intanto si era divisa in due, poiché alcuni – e fra questi era anche il condottiero – sentirono il biso-

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gno di sdraiarsi sul morbido tappeto dell’alpe, il cervino, mentre i più forti, o, meglio, i più audaci presero come d’assalto il resto della ripida salita. “Eccolo... eccolo!”. Quel grido di vittoria ci riscosse bruscamente, e pochi minuti dopo eravamo anche noi lassù in fac-cia al Lago Santo. Le onde avevano dei tremolii pieni d’incanto, a quando a quando si rincorrevano come mosse da una forza misteriosa, ed or salivano alla superficie ed ora discendevano per godere vicendevolmente le carezze della brezza mattutina e i baci del sole. Indarno cercammo il guizzo di qualche pesce: il freddo invernale non ve li lascia vivere. V’erano al contrario numerose salamandre e mignatte sel-vatiche, le quali apparivano come una contaminazione in quell’acqua limpida al pari d’ambra puri-ficata. La roccia, consolata solo da qualche cespo di rose selvatiche e dal canto di un paio di reattini, pen-deva al di sopra con una severità quasi pensosa, e in atteggiamento di sfida contro i nembi e le pro-celle. Di là dal lago, verso levante, pascolavano alcuni cavalli, che furono poi condotti via da tre o quattro ragazzi piombati lì come uccelli di rapina. Lo scalpitio degli animali e le grida stridule dei ragazzi s’infransero come vetro contro la roccia nuda, e si ripercossero al nostro orecchio con un senso di disgusto e quasi di paura. Quel lago io l’avevo veduto, o meglio, intraveduto le mille volte nei rapidi sogni della mia fantasia. Vicino a un lago – proprio simile a quello che avevo davanti agli occhi – viveva una volta una bella fatina dai capelli d’oro, ricoperta di un manto celeste, sempre sorridente e molto buona, specialmen-te coi bambini, ai quali portava assai spesso dei bei giocattoli, e dei confetti più dolci del miele... Così avevo sentito raccontare più volte quando ero fanciullo, e perché non poteva essere proprio quello lì il lago della fatina dai capelli d’oro? La mia contemplazione fu rotta a un tratto dall’insistente abbaiare di un cane. Era il fido compagno di un pastore, che forse si era avvicinato attratto dal nostro allegro vocio, e più probabilmente per iscambiare con noi qualche parola, poiché, come sapemmo poi dopo, egli stava lassù tutto il giorno avendo per soli compagni il suo gregge e il suo cane, Lupo. “Vedono”, disse il pastore appena ci fu vicino, “ora le mie pecore sono lassù quasi ai piedi del Ron-dinaio. Che monte alto!”. Un senso mal frenato di curiosità ci fece rivolgere a quel rude ma intelligente abitatore dell’Alpe molte domande, alle quali egli rispose con quella semplicità e cortesia, che è patrimonio esclusivo di siffatta gente. Così sapemmo che era delle Tagliole, che aveva un centinaio di pecore e tre caval-le da razza e che passava la maggior parte dell’anno nel ferrarese col suo gregge. In complesso, comprendemmo che la sua era una vita di stenti e di privazioni, specialmente ora che i pascoli erano rincariti del doppio e anche di più. Più delle ubertose pianure irrigate del Po egli amava le sponde del suo bel Lago Santo, che gli riusciva sempre nuovo benché visto mille volte. “Quando torno quassù”, esclamò con uno scatto di compiacenza, “mi sento rinascere. Un tempo an-che al piano si viveva bene, ma ora... Razza di cani, rovinano tutto!”. C’era nella sua parola e nel suo gesto una espressione di grande disgusto per la vita, che era costret-to di condurre giù al piano. Noi comprendemmo benissimo che voleva alludere ai continui scioperi, che da tempo desolano quelle ubertose campagne, ma facemmo vista di non capire per non entrare in un argomento tanto spinoso. “Ma non vi annoiate a stare quassù sempre solo?” domandò Francesco, il più curioso della brigata. “Ci sono abituato”, rispose malinconicamente. “Di certo me la passerei meglio se sapessi leggere, ma nessuno mi ha mai mandato a scuola”. Poi, quasi senza tener conto dei discorsi precedenti, continuò: “Lor signori sono venuti a vedere il Lago, me lo immagino. Anche ieri ne giunse una comitiva da Pieve, ma di cento che vengono a ve-derlo scommetterei che neppure dieci sanno perché questo lago si chiama santo. Si sa, i signori sono curiosi!”. “E voi lo sapete?” fu la domanda concorde di tutti noi. “Sì, l’ho sentito raccontare tante volte dal mio povero nonno, Dio l’abbia in gloria!”.

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“Ebbene, ce lo racconterete?”. Il pastore diede uno sguardo verso il Rondinaio per assicurarsi che le sue pecore erano ancor lassù a pascolare, si passò una mano sulla fronte come per risvegliare la sua memoria, e poi, sempre ap-poggiato al suo bravo bastone, ci narrò quanto il suo nonno, buona anima, aveva raccontato a lui fanciullo nelle lunghe sere invernali. Noi pendevamo dal suo labbro attenti come fanciulli. Ed ecco nella sua semplicità il racconto del pastore delle Tagliole. Due grandi signori della città di Modena si decisero di venire alla caccia del lupo – e allora ve ne erano molti – su l’Alpe. Detto fatto: presero lo schioppo e si avviarono alla volta dei monti. Dopo due giorni di viaggio, giunsero alle Tagliole. Era giorno di Domenica, e i due cacciatori arrivarono appunto mentre stava per entrare l’ultima messa. Uno disse: “Andiamo a messa, perché oggi è festa di precetto”. L’altro rispose: “Io non vengo, perché non c’è tempo da perdere”. Il primo andò dun-que alla messa, come fa ogni buon cristiano, e il secondo si avviò da solo verso le macchie fra cui abitavano i lupi. Quegli che era stato ad udire la santa messa ben presto raggiunse il compagno, e insieme andarono quasi fino sulla cresta dell’Apennino, poiché si camminava assai bene sulla neve gelata. Le loro speranze non andarono deluse. Difatti, non erano trascorse che poche ore dal loro ar-rivo nel bosco dei faggi, quando scorsero un grosso lupo, che veniva baldanzoso alla loro volta. Spianarono subito gli schioppi, fecero fuoco, e la fiera, fatti alcuni salti, cadde priva di vita. Il più robusto dei due cacciatori si caricò sulle spalle la preda, e poi cominciarono a discendere la ripida china del monte lieti della loro abilità. Giunti su di un piccolo ripiano si fermarono per scorti-care il lupo, poiché a loro premeva la pelle dell’animale e nulla più. L’avrebbero gonfiata ben bene con della paglia, e così l’avrebbero portata fino a Modena per scorno di chi si prendeva beffe di lo-ro. Bisogna sapere che quell’inverno era caduta molta neve e faceva molto freddo, e anche il bel ripia-no, che aveva attirato l’attenzione dei due valorosi figli di Nembrot, non era altro che un lago, la cui superficie era tutta gelata e coperta di neve. Cominciarono dunque ad eseguire la loro operazione. Mentre erano tutti intenti al loro lavoro si udì un leggiero scricchiolio. Colui che era stato alla messa disse: “Qui noi sprofondiamo... Io fuggo!”. “Tu sogni”, rispose l’altro, “finiamo e poi ce ne andre-mo in pace”. Danno di nuovo mano a scuoiare il lupo, ma ecco un secondo scricchiolio più forte del primo, poi un altro e un altro ancora. Il primo allora si diede a fuggire, mentre il compagno lo deri-deva. Ma spavento! D’improvviso si ode un crac fortissimo, il ghiaccio si apre e travolge nelle ac-que quello che la mattina non aveva voluto ascoltare la santa messa. Il compagno superstite corse esterrefatto alle Tagliole per aiuto, ma quando giunsero sul luogo della sventura alcuni di quei buoni montanari il lago era di nuovo gelato come prima, ed era perciò im-possibile estrarre il cadavere di quell’infelice signore. Il giorno dopo il parroco, cantando le litanie dei Santi, si recò in processione col suo popolo al lago fatale e lo benedisse affinché, se quella pove-ra anima ne avesse avuto bisogno, potesse andare presto in luogo di salvazione. Così ci narrò con montanina semplicità e con un tono pieno di profonda mestizia il buon pastore. La benedizione del parroco delle Tagliole procurò al bel lago alpestre, che ci stava davanti, l’appella-tivo di Santo. Il pastore parlava ancora aggiungendo a quella leggenda i commenti che gli parevano più opportuni e quasi necessari, ma la mia mente s’era fissa su di un’altra leggenda, che pochi giorni prima avevo letta in un volume di versi di A. Testoni intitolato, se non erro, L’Apennino Modenese, leggenda che poi seppi correre fra gli abitanti di quei monti. Essa canta così: Un giovine pastore andava ogni giorno a pascolare il suo gregge là sulle sponde del lago scintillante al sole come una pietra preziosa in mezzo a un deserto di sabbia ardente, e dall’altra parte andava pure ogni giorno una giovine pastora bella come un fiore silvestre. I due giovani pastori dapprima si guardarono e nulla più. Dopo parecchi giorni cominciarono a farsi segni, poi a dirsi delle parole, e a sentire un’attrattiva misteriosa l’uno per l’altro... Ma c’era di mezzo il lago. Un bel giorno però non seppero resistere al desiderio di comunicarsi da vicino i propri pensieri, e, mossi da un forza misteriosa, dall’opposta riva si slanciarono l’uno alla volta dell’altro. S’incontra-

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rono nel mezzo del lago, ed ebbero appena il tempo di abbracciarsi prima di essere travolti dalle on-de. Dopo quell’avvenimento, coloro che si accostavano al lago sentivano uscire dal fondo una voce la quale diceva: “State lontano, non profanate le acque santificate dal nostro amore”. Era la voce dei due giovani amanti, e i posteri in omaggio al loro affetto vollero chiamare santo il lago, che li aveva nascosti nel suo umido seno, e che ne conservava i vergini corpi come un prezioso tesoro. Tanto nella prima che nella seconda leggenda spira una grande semplicità. A mio credere però, la prima è più conforme all’indole della gente, che vive su quelle alte vette apenniniche, la qual gente ha profondamente scolpito nell’animo il sentimento religioso; la seconda invece ha più del poetico e del primitivo; l’una è il prodotto di una fantasia adulta e nutrita di vita cristiana, l’altra d’una fanta-sia non uscita ancora completamente dalla sua infanzia. Tornando un po’ indietro nell’ordine delle mie idee, dirò che a malincuore lasciammo le ridenti sponde del Lago Santo, e quel semplice pastore, il quale col suo racconto ci aveva fatto passare un’ora bella, indimenticabile. Mentre discendevamo la ripida costiera, io andavo rievocando con mesto rimpianto il tempo in cui la fantasia popolare sapeva darci sì belle creazioni. Molto più però rimpiangevo le deturpazioni commesse a danno del più bel lago dell’Apennino, che separa l’Emilia dalla Toscana. Fino a pochi anni fa un bel bosco di faggi sorgeva alla sponda del lago, e, arcandosi sulle onde, ne formavano come un riparo sacro. Ora quei faggi sono caduti sotto l’avida scure di mercanti senza poesia, e il rumore delle onde non è più un inno cantante dolci misteri, ma un pianto pieno di dolo-re. Risorgano presto faggi novelli dal vecchio ceppo e il pastore continui a cantare le antiche leggende. Allora il Lago Santo riacquisterà tutto il suo fascino, tutta la sua poesia.

IX. La chioccia dai pulcini d’oro C’è in quel di Salto un piccolo monte assai noto nei dintorni, che porta il nome di Chiesaccia, nome che conferma la tradizione che vuole che su quella cima sorgesse, in epoca molto remota, un castel-lo pagano, e la prima chiesa cristiana del territorio montesino. Castello e chiesa sarebbero poi stati inghiottiti, in gran parte almeno, da una lavina sul principio del sesto secolo, e forse anche prima. Il monte ora ha la forma di un cono, ed è rivestito da cima a fondo da un bel bosco di castagni, che perennemente sono in lotta con i venti e le bufere, da cui però escono sempre vittoriosi, e guardano la sottostante fertile vallata in atto di trionfo. La sua cima che termina in un bel ripiano erboso e portante non dubbi segni di costruzioni murarie molto remote, è cara in modo speciale ai guardiani dei piccoli greggi. Mentre le docili lanute brucano l’erba saporita e lattifera, i fanciulli fabbricano piccole casette e torri merlate con gli avanzi delle antiche case diroccate, oppure si divertono, con pericolosa monelleria, a far rotolare in basso sassi di grosse dimensioni, pronti poi a fuggire quando questi blocchi, nelle loro corse rovinose, squarciano con grande fracasso qualche pianta di castagno, o sollevano le giuste proteste dei malcapitati viandanti dell’ombrosa vallata. Ma il nome della Chiesaccia, oltreché per il suo castello pagano e per la sua chiesa dei primi secoli del cristianesimo, è celebre anche per un altro fatto, che ha sempre esaltato in modo meraviglioso le fantasie di tutti, grandi e piccoli. Mi ricordo che quando noi s’era fanciulli non sentivamo più né appetito né sonno, solo che qualcu-no avesse accennato a narrare della chioccia dai pulcini d’oro. Guai a chi avesse osato disturbare la narrazione! Si sarebbe buscata una buona dose di scappellotti, e anche qualche cosa di peggio. Durante la notte poi la nostra tenera fantasia non aveva un istante di riposo. Era un continuo affannoso pellegrinare al misterioso monte, una continua ricerca dell’auro-alata famiglia. Dovete dunque sapere che quando gli uomini e le cose sono avvolti in un sonno profondo, e la luna piena veleggia pel cielo sereno silenziosa e sola come chi sdegna ogni compagnia, sulla cima o giù

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pei fianchi del monte, fra sterpo e sterpo, si ode un chiocciar lento lento, a cui risponde un pigolio alto e uniforme. E’ la chioccia d’oro che conduce al pascolo i pulcini pure d’oro. Di dove venga e dove vada, terminata la pastura, nessuno l’ha mai potuto sapere, né chi legge, credo, pretenderà di saperlo da me! I pulcini sono dodici, belli e luccicanti come tanti zecchini. Essi non si allontanano gran fatto dalla madre, la quale volge di continuo intorno lo sguardo – i suoi occhi paion due stelle, – come chi te-me di cadere, da un momento all’altro, in qualche insidia. Fortunato colui che può scorgere quelle misteriose bestioline prima che la madre scorga lui! Davan-ti ai suoi occhi succederebbe subito una gratissima trasformazione... la chioccia e i pulcini si tra-sformerebbero all’istante in un bel mucchio di monete d’oro, tante da riempire non solo tutte le ta-sche ma anche il cappello! E questa fortuna sarebbe tanto più bella in quanto che non recherebbe danno a nessuno. La misteriosa famigliola, infatti, non viene per questo distrutta, e nelle placide notti del plenilunio ritorna a pascolare su per la selvosa pendice sempre pronta ad arricchire qualche fortunato. Se invece la chioccia è la prima a scorgere colui che silenzioso attende il suo apparire, per quella volta la fortuna s’è dileguata, e non resta che ritentare la prova! Il popolo vuole che per lo passato l’auro-pennuta chiocciata abbia realmente tolto dalla miseria più di una famiglia... Il popolo non è forse un fanciullo, che cammina verso i suoi alti destini sognano di continuo simboli di felicità? Ecco... proprio così! Una calma insolita regnava quella mattina di Luglio sulla vetta della Chiesaccia, e per buona ventu-ra vi trovai un uomo, che mi era molto simpatico e che non dimenticherò mai. Tutti lo chiamavano con un accrescitivo Gheitanone, e ciò in omaggio alla sua statura di un paio di metri. Gheitanone aveva avuto per eredità da mamma natura il lavorare giorno e notte, avendo per ricom-pensa un po’ di polenta e un pizzico di tabacco. Era lassù all’ombra di un castagno e pareva assorto in una visione misteriosa. Quella della morte forse?... A ottant’anni certamente la morte non può più essere una sorpresa, e lui li aveva oltrepassati di una mezza dozzina. Quando mi vide si rallegrò tutto e, alzatosi in piedi con una energia quasi giovanile, mi prese una mano fra le sue ruvide come un cardo, e me la strinse fortemente in segno di grande cordialità; era-vamo amici benché egli avesse quell’età ed io fossi assai giovine. Poi mi fece sedere lì per terra vi-cino a lui; mi narrò molte vicende della sua vita fatta di stenti e di privazioni, e, da un discorso all’altro, passò a mostrarmi il luogo ove la famosa chioccia era solita uscire alla pastura coi suoi pulcini... “Una notte di Maggio”, prese a dire con enfasi, “ero nascosto dietro quel castagno, là, e ci si vedeva come se si fosse di giorno. Stavo lì da forse un’ora quando d’improvviso si udì il chiocciare e il pi-golio. Il cuore mi diede un forte tuffo, e guardai subito da quella parte, ma nel più bello cessò ogni voce... la chioccia aveva scorto me prima che io scorgessi lei, quindi era scomparsa con tutti i pul-cini. Mi morsicai le mani per la rabbia, ma inutilmente! Pazienza! Sono vecchio, è vero, ma non so-no ancora morto. Chissà che una volta o l’altra!...”. Così mi parlò quella mattina Gheitanone con voce commossa, e, mentre mi avviavo giù per la china del monte, si buttò in bocca un pizzico di spuntatura per dimenticare la sua povera vita, ma allietato, forse, ancora dalla speranza di poter vedere, senza essere visto, la chioccia dei pulcini d’oro.

X. Il montone volante “Vieni domani sera alla spannocchieria alla Rivala? Ci divertiremo un mondo e mezzo!”. “Dici da vero?”. “Sul mio onore. Ne dubiti forse?”.

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“E allora in che modo?”. “Oh bella! canteremo allegramente nell’aria al chiarore della luna, berremo del vino nuovo proprio coi fiocchi, e faremo un buon numero di balli”. “Bene, bene! Ma dimmi: chi ci sarà a suonare?”. “Suonatori di cartello: Cariolina col clarino, Gambasciutta con l’organo, e Liprendo con la chitar-ra”. “Ne sei sicuro?”. “Sicurissimo”. “Allora ti do la parola...”. “Qua la mano!”. “Eccola. Birba a chi manca”. Imagini il lettore che questo breve dialogo non è di data recente, ma di molti anni fa. Non saprei di-re con precisione quanti. Gioverà ancora notare che si svolse una sera di Settembre fra un giovane di Salto e uno di Villa. Per comodità del racconto, il primo lo chiameremo Gregorio, il secondo Andrea. E’ antico costume in questi luoghi (come del resto in tutta la montagna modenese e bolognese) che la gioventù si reca numerosa nei casolari in cui si fa la sfogliatura del frumentone, o spannocchieria. Sono serate di grande allegria e anche di grande baldoria, poiché si danno ivi convegno i giovani e le ragazze non tanto per lavorare, quanto per divertirsi e far del chiasso. Già i giovani sono sempre e ovunque uguali. Amano darsi alla spensieratezza e alla vita allegra, e in ciò nulla di male quando vi sia moderazione. Un giovane che non ama il divertimento bisogna dire che sia fisicamente o moralmente ammalato. Ma chiudiamo la digressione per far ritorno ai nostri due giovanotti. Si diedero la buona sera, e s’avviarono, tutt’altro che a passi di lumaca, verso casa. Era l’ora della cena, l’ora che chiama al focolare domestico anche i più scapestrati. Nell’aria queta e mite squillò una campana, poi un’altra e un’altra ancora. Chi non si sente com-muovere al suono dell’Avemaria? E lo squillo si dileguò in breve come un ronzio di voci misteriose su per le cime dei monti popolati di castagni. Gregorio interruppe subito una zufolata, che gli spuntava sempre spontanea sul labbro quando era solo, e che gli era tanto cara. Si levò il cappello, si fece il segno della croce (chi non ha la sua fede non rida, ché sarebbe indizio di poco senno e cuor cattivo), e recitò l’Angelus. Andrea non sapeva bene questa preghiera, si limitò quindi a scoprirsi il capo, e a biascicare un pa-ternostro. In quel momento si vergognò di non aver imparato le orazioni ed il catechismo... E dire che suo padre, buona anima, ed il parroco, un ottimo sacerdote da tutti stimato ed amato, avevano fatto del loro meglio per istruirlo nella religione, non risparmiando a quando a quando qualche ca-stigo. Un po’ alla meglio so leggere, pensò intanto fra sé e sé, e voglio ad ogni costo imparare quel-le cose che ogni buon cristiano deve sapere e praticare. In forza di una tale risoluzione si sentì riabi-litato agli occhi propri, e anche a quelli degli altri. Ma e il montone volante, mi pare di sentir dire, dove lo avete messo? Volete forse prenderci in giro?... Avete proprio una gran voglia di vederlo? Un poco di pazienza e salterà fuori anche lui, non temete. Intanto seguiamo i due giovani alla Rivala ove si sono recati, come ho già avvertito, non tanto per voglia di spannocchiare, quanto per stare allegri. “Coraggio, forza!”, grida una voce stentorea. “Le pannocchie sono terminate, non vedete?...”. “Evvivaaa...!”. “Musicaaa... musicaaa!”. “Un po’ di pazienza, santo cielo! Bisogna prima spazzare l’aia, altrimenti chi volete che balli con tutto cotesto pattume?”. “Pulizia, pulizia; presto, presto!”. “Musicaaa... musicaaa...!”

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C’è nell’aria un polverio indiavolato, ma fa nulla. Mille gambe sono pronte, e la musica non si fa attendere a lungo. E’ un po’ gattesca, ma che importa? Gli scrupoli, in certi casi specialmente, biso-gna lasciarli agli speziali. Ecco. Tutte le gambe sono in moto, e, se è vero che nel moto si trova la vita, qui non v’ha certo neppur l’ombra di morte! Le voci s’intrecciano alle voci, le celie alle celie, le grida alle grida, e con qual garbo Dio vel dica. La luna, che ha superato la metà del suo cammino, guarda con occhio placido quella mischia chias-sosa e ondeggiante, e par che rida come una monella. Ma non voglio mica tentare una descrizione. Dio me ne guardi! Sarebbe cosa poco facile per la mia penna, e forse anche poco opportuna. Cer-chiamo piuttosto tra la folla Gregorio, l’eroe del nostro racconto o leggenda, se meglio vi piace, in cui da questo momento metterò di mio poco più che l’inchiostro. Gregorio passava per uno dei migliori ballerini dei dintorni, ed egli se ne gloriava e non poco. Si vede che la gloria è una cosa molto relativa a questo mondo! D’altra parte chi si contenta gode, e tiriamo avanti. Non vi saprei dire il numero dei suoi balli in questa circostanza, ma non devono es-ser pochi, se è tutto una goccia di sudore, e se le sue gambe di acciaio cominciano a sentir bisogno di riposo. “Ultimo trescone, signori! Avanti... avanti!”. “Noce... noce... E’ presto. Che vi frulla pel capo, amici?”. “Che presto! Sono di già suonate le tre, o mi pare...!”. “Parta chi vuole”, gridò un coro di voci rauche. “Noi si vuol ballare ancora!... Le cose si fanno o non si fanno”. Non è facile osservare la moderazione nei divertimenti, e tanto meno se preparati e diretti da giova-ni. E purtroppo non è poi raro il caso di discordia, di liti, e qualche volta di conseguenze anche più gravi. Chi non sa, per esempio, di qualche ragazza itasene rapidamente all’altro mondo per una tisi fulminante presa in una festa da ballo?... Ci riflettano ben bene i giovani. Così anche alla Rivala si era oltrepassato il punto della moderazione. Sono di fatti, come s’è avver-tito, le tre dopo mezza notte, e il divertimento è ancora nel suo furore. Il nostro giovine però è per la sospensione, ma, vedendo che la maggior parte è di contrario avviso, zitto zitto si allontana dagli amici, e via a passi rapidi verso casa. In breve giunge al Rio Zeia, che scorre giù di balza in balza con grande abbondanza d’acque cerulee come il cielo. Ora è più rumoroso del solito per le piogge recenti, e il suo rumore si mescola con quello di un leggero venticello di ponente, e ne esce una sinfonia, che nessuna penna sarebbe capace di descrivere e nessun istrumento musicale di imitare neppure lontanamente. Sono quelle misteriose voci o melodie della natura, che tormentano senza posa l’animo del poeta e del musico... Vorrebbe-ro fermarle in qualche strofa, in qualche nota, ma inutilmente, e il tormento cresce, e dice che quag-giù l’uomo non può avere che un’idea del bello, una pallida idea. Gregorio attraversa la corrente sul ponticello di legno, una quercia colossale gettata molti anni fa a cavalcioni del Rio, e in due minuti eccolo presso il mulino nominato Paiarolo da cui esce un grato odore di farina di frumento. Il mugnaio veglia ancora: lo dice chiaro l’ondeggiare di una fiammella attraverso la inferriata, e più il rullio cadenzato delle macine. L’acqua della botte viene portata su la grande ruota da un’ampia doccia di legno, e poi, comunicata alla ruota la sua energia, tu la vedi gettata lontano in forma di un grande ventaglio bianco. Il giovine è amico del mugnaio e prova un grande desiderio di entrare, ma il pensiero che a casa avrebbe trovato un buon letto e la cena ancor pronta nella madia (oh come so-no sempre buone e previdenti le mamme anche coi figli scappati!) vinse il suo contrasto. Ora la via, ripida e sassosa, corre attraverso folti e fertili castagneti, che presto daranno il loro frutto molto nutriente e caro a tutti, ma specialmente ai bambini e ai poveri, della montagna specialmente. Tuttavia per Gregorio il cammino è assai agevole, poiché quella strada la conosce palmo a palmo, e poi la luna, penetrando già tra ramo e ramo, rompe il nero delle tenebre meglio che una buona lu-cerna.

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Non si ode che lo stormire frequente e tutt’altro che molesto delle frondi, l’abbaiare lontano di qualche cane da pagliaio, e, su in alto, il canto stridulo di qualche civetta. Malaugurio? Gregorio è tutt’altro che superstizioso; tuttavia quel canto gli rimescola un po’ il san-gue, e sente nascere nel suo cuore un certo timore... Poi sente vergogna di nutrire certe idee, e dice fra sé e sé: Baie, baie, non sono mica più un bambino io. E via a passi sempre più rapidi, poiché no-nostante tutto il suo disprezzo, quel canto lo tormentava, tanto è difficile liberarci completamente da certe superstizioni. Affinché chi legge possa intender meglio quello che segue, è necessario sapere che a un certo punto dei castagneti di cui si è già fatto cenno si apre un pianoro acquitrinoso, che il popolo anche oggi chiama Lagobracciano. La gente vuole che nel lago, e precisamente vicino alla sponda di levante, vi sia un pozzo senza fondo, che una volta vi cadesse dentro un povero contadino con buoi, carro e ca-rico. Si vide un grande ribollimento d’acqua, e poi più nulla. Orbene, al principio di questo ripiano esiste una fonte di acqua molto abbondante e sì saporita che non ti stancheresti mai di berne. Dice il volgo che fa bene per ogni malanno. Ha il suo bravo abbe-veratoio di pietra, il quale è sempre terso e traboccante. Presso questa fontana passa la via più corta, se non più comoda, che da Villa mette a Salto. Grego-rio, come s’è detto, la conosceva benissimo, ed eccolo vicino alla fonte tutta inondata da un magni-fico splendore lunare. E’ lì lì per passar oltre, quando il suo occhio scorge un montone di grande corporatura, e più nero della cappa del camino. Beveva tranquillamente, e mostrava così di non cu-rarsi né punto né poco della presenza del viandante. Sarà stato smarrito dai pastori che sono passati ieri mattina o ieri sera per far ritorno alle pianure ferraresi. Così pensa e ragiona fra sé Gregorio, e delibera di entrare senza altro in possesso di quella bella bestia. Bisogna acciuffare l’occasione quando capita, altrimenti... E poi nel peggior dei casi l’avrebbe restituito, e il suo buon nome non ne soffrirebbe danno alcuno. In questo mentre trae di tasca una funicella, e si avvicina all’animale al fine di legarlo ben bene per le corna. Così legato, lo condurrebbe a casa, e in seguito realizzerebbe una buona sommetta. Il bel lanuto è sempre lì mansueto mansueto, e, quando il giovane gli posa la mano sulle corna, vol-ge verso di lui il capo per rendere più facile l’operazione, e intanto gira intorno due occhi luccicanti come brace. Gregorio resta sorpreso di tanta mansuetudine, e già si rallegra di tanta fortuna, ma dice il proverbio che non bisogna fare i conti senza l’oste. Ecco che si trova ben presto di fronte ad una grave difficoltà. Il montone, che era stato sì mansueto nel lasciarsi legare, si rifiuta di seguirlo. Tira e che ti tira, non riesce a persuaderlo in nessun modo: né colle buone né colle cattive. Come fare? Pensa e ripensa, gli pare buon partito caricarselo sulle spalle e portarselo a casa. Poteva essere al massimo nove pesi, una soma da non fargli paura. Ne aveva portate delle più pesanti e come! Detto fatto. Anche questa volta l’animale è mansuetissimo. Il giovane lo spinge sopra un piccolo rialzo di terra, si china, gli passa la testa sotto il ventre, ed ec-colo in cammino col prezioso peso. Ma ohimè! Ad ogni passo cresce la pesantezza del carico, e non ha fatto ancora un quarto di miglio che le gambe già gli vacillano e si piegano. Non c’è buona vo-lontà che tenga. Gregorio ha già deposto a terra il nero lanuto, e tenta di nuovo di condurselo dietro con la funicella. Fiato sprecato. Tutti sanno che nelle favole e anche nelle leggende possono parlare le piante, le pietre, e quindi molto più gli animali. Nessuno perciò si meraviglierà se il nostro montone parla a Gregorio in que-sto modo: “Orsù, montami nella groppa, e ti rifarai del tempo perduto”. Il giovine si sente scorrere un brivido per tutte le membra, ma vuol mostrare di non aver paura e ri-sponde: “Oh, che dici tu mai? Sono un peso sproporzionato alle tue forze, non vedi?”. “Non è vero... Non aver paura, via, presto!...”. “Ah... ah! ohimè!”. “Non aver paura, dico. Presto!”. “E dove mi porterai?...”.

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“In luogo sicurissimo, a casa tua”. “Quand’è così...”. Il giovine tremante come una foglia in balia del vento e bianco più di un pannolino di bucato, ubbi-disce afferrando con una stretta convulsa le ritorte corna di quell’animale, che ormai per lui non era più un montone come tutti gli altri. A un tratto il misterioso lanigero si leva nell’aria più leggero d’una piuma, rotea alcune volte su sé stesso, e poi via a volo più rapido del fulmine. Al suo passaggio l’aria si agita con un forte sibilo, e dietro a lui rimane una striscia luminosa come quella di un razzo. Imaginate voi l’animo di colui che sedeva sulla groppa di una tale cavalcatura! Per me credo che fosse più nel mondo di là che in quello di qua. In pochi istanti l’alato caprone oltrepassa la serra di Salto, e giunge sopra l’abitazione di Gregorio, una modesta casetta nascosta da un bel bosco di quercie. Quivi giunto si ferma alquanto, poi comincia a discendere descrivendo ampie spirali. In men che non si dice è a terra, e proprio nel mezzo dell’aia su cui erano i segni di una recente spannocchieria. “Sei contento?” dice il misterioso lanigero deponendo il suo carico. “Ah... ah... ah...” balbetta Gregorio più morto che vivo. “Vuoi sapere chi sono?...”. “Sei... sei...”. “Sono il diavolo”. E scompare colla rapidità del baleno, lasciando dietro di sé una fiamma più rossa di quella d’una fornace in pieno bollore, e un odore acre di pece e zolfo. Gregorio vede nel buio quel subisso di fiamme; gli zufolano orribilmente le orecchie, vuole chiamare aiuto, ma non gli escono dalle labbra che grida incomposte. Quando finalmente poté trarre liberamente il respiro e riaprire gli occhi, si trovò sul suo letto cir-condato dai suoi cari, che cercavano di indovinare l’accaduto. Lasciato solo si addormentò, ma che sonno! Non vedeva che fiamme e diavoli da ogni parte, e gli pareva di cadere ad ogni istante nei più spaventosi burroni... Quando si risvegliò il sole era già alto sull’orizzonte, e, penetrando attraverso le imposte semichiu-se, illuminò la sua testa candida come la neve. Così vuole la leggenda, la quale aggiunge che il povero Gregorio non sopravisse che pochi mesi a quel volo diabolico.

I Montecuccoli di Montese - Percorso storico