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“Inserto di 4 Ciacole nr. 58” - pag. 1 AUTUNNO 1942: EL ALAMEIN - di Gianni Pezzin - Nel 60° della battaglia di El Alamein, “4 Ciacole” ricorda - con testimonianze raccolte da Gianni Pezzin - il nostro concittadino Nani dei Campanari che partecipò a quegli eventi

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“Inserto di 4 Ciacole nr. 58” - pag. 1

AUTUNNO 1942:EL ALAMEIN

- di Gianni Pezzin -

Nel 60° della battaglia di El Alamein, “4 Ciacole” ricorda- con testimonianze raccolte da Gianni Pezzin -

il nostro concittadino Nani dei Campanariche partecipò a quegli eventi

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“Inserto di 4 Ciacole nr. 58” - pag. 2

Per la Germania e l’Italia alla fine del1942 si profilò sicura la sconfitta fi-nale nella guerra contro gli Alleati e

la Russia. Nel dicembre 1941 le due nazioni,alleate del Giappone nel famoso Tripartito (co-siddetto Roberto: Roma-Berlino-Tokio), aveva-no dichiarato guerra anche agli Stati Uniti. Unanno dopo, alla fine del 1942, le armate tede-sche di Von Paulus vennero fermate definiti-vamente a Stalingrado. E in Egitto le divisioniitaliane e tedesche di Rommel (la “volpe deldeserto”), dopo essere arrivate con una travol-gente avanzata fino a soli 140 chilometri daAlessandria d’Egitto, furono battute tra l’otto-bre e il novembre 1942 nella terribile batta-glia di El Alamein. Qui gli inglesi, rafforzati datruppe australiane, francesi, greche e polac-che, attaccarono con 1000 cannoni (contro inostri 500), 1500 carri armati (contro 510) e1200 aerei (contro 500). Negli undici giornidi lotta ci furono un totale di 26 mila morti,ed un numero molto alto di prigionieri.

Nel pomeriggio di venerdì 6 novembre 1942i resti della Divisione Folgore, circondati dagliinglesi decisero di arrendersi, ma si mostraro-no ai nemici in fila sull’attenti. E il maggioreZanninovich presentò la Divisione al ColonnelloCamosso così: «Ufficiali 32, truppe 272». Di5000 uomini partiti dall’Italia ne erano rima-sti 304. I nemici resero l’onore delle armi aquesti nostri valorosissimi soldati, e il coman-dante della 44-esima Divisione britannica Ge-nerale Hugues disse poi al Generale Frattini,comandante della Folgore: “Nella mia vita disoldato non ho mai incontrato soldati come ivostri”.

A fine ottobre 1942 il nostro compaesanoNani Girardi “Campanari” (classe 1913) com-batteva in Africa già da due anni, inquadratonella Ariete. Questa fu considerata, dopo laFolgore, la più valorosa Divisione del nostroesercito in Africa. Ad El Alamein il Nani vennefatto prigioniero dagli inglesi. Quando verso il1960-70, ormai diventato americano, nellacasa di New York egli mi raccontava le suestorie di guerra e prigionia, spesso si commo-veva fino al pianto. Nani ha scritto anche dei“Ricordi”, che la moglie Rita Ciscato mi ha affidato.Ne propongo qui ai lettori alcuni estratti. Il nostro belgiornale Quattro Ciàcole ha ricordato con una lungainchiesta i 50 anni dalla fine della guerra nel 1945,e le lotte partigiane. Mi pare che sia bene ricordare -60 anni dopo - anche la vita dei nostri soldati, checombatterono su ben quattro fronti: Albania, Etiopia,Libia-Egitto, Russia, e che vissero poi per anni le lun-

Autunno 1942: El Alamein.Nani Girardi Campanari, soldato dell’Ariete,

ricorda la battaglia di 60 anni fa, la prigionia in Egittoe il ritorno a Conco dopo 6 anni di guerra.

ghe e spesso terribili condizioni della prigionia.Rita Ciscato, nata a Fontanelle, sposò il Nani nel

1950, e visse poi felicemente con lui a Nuova Yorkper 47 anni, tornando spesso d’estate in ContràCampanari. Entrambi hanno sempre letto con inte-resse Quattro Ciàcole. Le ceneri del Nani sono torna-te per l’ultimo riposo nel nostro Cimitero.

Gianni Pezzin

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“Inserto di 4 Ciacole nr. 58” - pag. 3

Ecco qualche estrattodegli scritti del Nani.

Avevo ancora illatte sulle lab-bra quando nel

1916 lasciai Conco per-ché il cannone austria-co colpiva il paese. Cichiamavano “profughi”,e si pellegrinava da unpaese all’altro. Come let-to c’era un po’ di pagliaper terra, e si mangiava- spesso solo un tozzo dipane duro - quando Id-dio lo voleva. Solamentei più forti potevano so-pravvivere. Come in tut-te le guerre gli innocentipagavano con molte sof-ferenze, tra cui per mebambino c’era anchequella di vedere la mam-ma Nena Zanella “An-dréchene” spesso con lelagrime agli occhi, ben-ché fosse una donnamolto forte.

Stalin, Hitler e Mus-solini furono come degliAttila. Mussolini a dire ilvero non era furibondo eaggressivo come gli altridue; faceva solamente lavoce grossa, e anchequelli della stella di Da-vide non furono da luitanto perseguitati. Concanti, parate e organiz-zazioni egli sperava diconquistare il cuore del-la nazione e il popolo.Ma poi la guerra bussòalla porta, e nei campidi battaglia si moriva daeroi. Qui, dove la morteera sempre vicina, si vi-dero pochi di quelli delGoverno. Se ne restava-no nella capitale e nelleloro case, esenti dal ri-chiamo militare. Chi mo-riva? La classe bassa perprima, ma anche dotto-ri, professori, ingegneri,maestri. I militari di car-riera avevano molte scu-se adatte e sapevano, almomento opportuno,come cavarsela. Li vede-vi, quelli di carriera, farela voce grossa nelle ca-

serme, perché il gradocomanda, ma quando sitrovavano nel campo dibattaglia diventavanocome agnellini spaventa-ti dal lupo, che cercanorifugio. E si facevanofare un nascondiglio si-curo e profondo, in cuisi nascondevano cometalpe col cuore palpitan-te, portando con sé il te-lefono. Uscire era peri-coloso. Qualcuno di loroperò viveva veramenteassieme al soldato, e par-tecipava, riparato un po’alla meglio, alle nostresofferenze e ai nostri di-sagi. Dava esempio dicoraggio e amore per lapatria, confortava i sol-dati. Troppo pochi eranoquesti ufficiali, però,quando la battaglia infu-riava, e la vita poteva fi-nire in un secondo.

In Africa ne vidi tantie poi tanti soldati del-l’Ariete feriti e morti.Nell’ultimo momento divita chiudevano la boc-ca per sempre mormo-rando il nome dellamamma. La morte chiu-deva ogni cosa, tutto fi-niva. Una croce porteràil tuo nome, e al paesenatio ci sarà un monu-mento che porterà ledate della guerra e, as-sieme a quello di tanti al-tri, anche il tuo nome.Tutti saranno ricordaticon una corona d’alloroil giorno dell’armistizio.

Era il cinque novem-bre 1942 quando la no-stra situazione precipitòe bisognò ricordarsi che:“a mali estremi estremirimedi”. Erano le ultimeore della battaglia di ElAlamein, e noi della Di-visione Ariete venivamoattaccati in massa su tut-to il fronte da aerei e car-ri armati. Ma l’attaccopiù forte era contro la Di-visione Folgore, formatasoprattutto da paracadu-tisti. La Folgore si trova-va alla nostra destra, vi-cino a noi, verso il Passodel Cammello e il profon-do deserto. Le due Divi-sioni costituivano l’aladestra dello schieramen-to di Rommel, già moltoaddentro al deserto, e fuqui che gli inglesi attac-carono con più violenza.

Con attacchi e con-trattacchi, dopo più diuna settimana di lotta gliinglesi sfondarono. Inquesto periodo la notteil cielo si presentava dicolor arancio per i bom-bardamenti aerei, i tiridei cannoni di grosso ca-libro e delle mitragliatri-ci da venti millimetri. Leloro pallottole tracciantilasciavano nel cielo, lun-go il percorso, una stri-scia d’argento. Questabattaglia durò più di unasettimana, giorno e not-te senza tregua.

Alla fine noi dell’Arie-te ci trovammo circonda-

ti, il fuoco veniva da tut-te le parti, i nostri can-noni da 88 erano ridottial silenzio, la mitragliadel Reggimento Bersa-glieri non cantava più. Lagloriosa Divisione Arieteaveva partecipato a tut-te le battaglie, era pas-sata vittoriosa per ilGebel cirenaico, aveva li-berato Derna, Tobruck e,seguendo le avanzate,Bir el Gobi, Bir el Chen,Marsa Matruck ed infineEl Alamein. Così chiude-va le sue gloriose paginedi storia nei deserti del-la Libia e dell’Egitto.

Dal nostro posto di os-servazione telefonai alComando di Reggimen-to dove ci doveva essereil Colonnello Ghisleri, manon ebbi nessuna rispo-sta. Stessa cosa al Co-mando Generale. Noistavamo in una piccolabuca, che serviva più chealtro per nascondere iltelefono. I carri armatiinglesi erano a poca di-stanza e ci colpivano coni loro proiettili. Guardaiin faccia l’amico FaustoViola e gli dissi che avreitentato di raggiungereuna duna di sabbia chesi trovava a poca distan-za. “Ma tu sei matto!”,disse. “Questo buco èsufficiente per uno so-lo”, risposi. E così conl’altro amico VittorioSavoldi tentammo l’im-presa sfidando la morte.Non volevo darmi prigio-niero. Da tempo, comequasi tutti (compresoRommel, si saprà poi)soffrivo di malattia inte-stinale. L’enterocoliteche mi tormentava ave-va ridotto le mie forzeproprio a zero. Savoldicorreva sulla sabbia e iocercavo di seguirlo, cosaimpossibile date le miecondizioni fisiche. Rag-giunta una duna si sa-rebbe stati, almeno peril momento, in salvo. Iproiettili non potevanopiù raggiungere Savoldi,Bersaglieri italiani addetti al disinnesco di mine inglesi.

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che era già al di là delladuna mentre io, pur im-piegando tutta la miascarsa energia, ero anco-ra per via e sentivo delsangue scorrere dalla te-sta e bagnare la miaspalla destra. Un proiet-tile di piccolo calibro miera scoppiato a poca di-stanza, e mi sembrava diessere ferito gravemen-te. Con sforzi sovrumaniriuscii a raggiungere an-ch’io quel riparo provvi-sorio, e chiesi poi subitoall’amico: “E’ grande laferita?”. Rispose: “NoGiovanni, hai un piccoloforo all’orecchio destro”.Mi buttai un po’ di sab-bia sull’orecchio e il san-gue si fermò.

Dopo poche ore s’av-vicinò a noi una camio-netta nemica. Con lemani alzate ci presen-tammo pensando: “Dioci salvi!”. Invece, al con-trario di quello che almomento temevamo,questi nemici erano buo-ni, e guardandoci sorri-dendo ci chiesero: “Ita-liani?” Risposi: “Si”.Dissero allora: “Buoni,

buoni”, e ci diedero unpo’ d’acqua. Con loro sicamminò forse mezz’oraper raggiungere altri pri-gionieri.

Avevano pazienza conme, solo a guardarmi infaccia forse vedevano “lamorte ambulante”. Fum-mo consegnati ad altri,e la scena cambiò. Biso-gnava camminare, o mo-rire. Le forze mi manca-vano, le scarpe pareva-no fatte di piombo, fa-cevo fatica ad alzarle.Era così lento il mio pas-so che una camionettami buttò a terra passan-domi sopra ma stavo frale ruote, e non mi feceromale. Finalmente dopoqualche ora raggiungem-mo un piccolo campoprovvisorio, in cui sare-mo stati circa duecento.Eravamo tutti seduti perterra, e un ufficiale in-glese ci passò in rivista.

Penso ancora adesso:“Dio ti benedica, dovun-que tu sia!” perché qual-che santo illuminò forsela sua mente, dato chemi fece alzare e mi dis-se “Tu vieni con me”. Lo

seguii piano guardando-lo, mentre gli altri forma-vano una colonna e cam-minavano verso un’altradestinazione. Muto guar-dai l’amico Savoldi, pen-sando: “Cosa succederàdi me? Dopo pochi mi-nuti arrivò una camio-netta sulla quale mi fecesalire. Allora compresiancor più di prima chele mie condizioni dove-vano essere veramentepessime, e mi misi apiangere. La guardia miguardava e mi sorrideva.Era anche lui uno che,come altri soldati vitto-riosi, pensava forse:“Oggi sei tu, ma forsedomani sarò io a trovar-mi nelle stesse condizio-ni”. Perché la guerra nonera ancora finita.

Sul pavimento dellacamionetta vidi limoni eformaggini. Con il mottodelle mani domandai sepotevo avere qualchecosa. Il soldato s’avvici-nò e mi mise nelle manidei limoni e una scatoladi formaggio, facendomiil gesto di mangiare.Mangiai due limoni e

qualche pezzo di formag-gio, e misi il resto in ta-sca pensando al mioamico, che soffriva purelui di mal di stomaco.Devono essere stati queilimoni a salvarmi.

Quel giorno anche lanatura era contro di noi,vento e pioggia scende-vano dirottamente, e peri nostri corpi già esauritiquesto era un vero disa-stro. Prima che la nottecalasse arrivammo in unaltro campo di concen-tramento, dove saremostati circa duemila. Sdra-iati sulla sabbia, con lapioggia battente, si pas-sò la nottata tremandocome pulcini per il fred-do e l’umidità. Vicino anoi passarono soldatinemici che dovevano rag-giungere la prima linea eproseguire la loro avan-zata verso la Libia. Dalloro accento parevanoPolacchi, Greci, o altri,forse la Legione Stranie-ra Francese. Passandocon i moschetti puntativerso noi poveri inermi,si divertirono anche aspararci addosso, con

Amba Alagi, Africa Orientale: reparti italiani sfilano dinnazi ad un picchetto sudafricano che rende gli onori militari (maggio 1941).

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urla di gioia. Vi furonocosì purtroppo tra noi di-versi morti e feriti. Per-ché fecero così? I cuorierano avvelenati, e noi -disarmati - eravamo an-cora nelle loro mani, finoal momento in cui sareb-be arrivato il controllodella Croce rossa interna-zionale. Approfittarono diqueste condizioni persfogare la loro ira.

Dio fece sì che dopouna notte di terrore l’al-ba s’avvicinasse, e sisentisse un rumore di ca-mion in avvicinamento.Ci caricarono come ani-mali uno sopra l’altro, ela colonna partì. Non sipoteva vedere se c’era ilsole o se pioveva. Dopomolte ore, forse alle seidel pomeriggio, ci fer-mammo e ci fecero re-stare al centro di un cer-chio di soldati. Qui sidoveva passare la notte.Avevo tanto freddo e an-che le convulsioni per ladebolezza. C’era a pocadistanza una coperta, edomandai alla guardia sepotevo prenderla. Mi dis-se “Si, vai pure”. Cosìbagnata la srotolai sulmio corpo, e in quel mo-mento mi sembrò perfi-no che mi riscaldasse. Ecosì sulla sabbia passòla notte.

Al mattino la colonnariprese il cammino. Nonsi parlava mai di mangia-re, ma quelli che ci ac-compagnavano sul ca-mion erano abbastanzabuoni, e aprirono duescatole di fruttasciroppata dandone unpezzettino a ciascuno.Poi guardarono la miafaccia e sottovoce mi dis-sero “Bevi anche lo sci-roppo tu”. Il ventre midisturbava con dolori,ma tutto rannicchiatocercavo di dimenticare.Finalmente arrivammo inuna piccola stazione fer-roviaria oltre El Alamein,dove era preparato pernoi un treno merci.

Come sardinenella scatola cifecero entrarenel vagone.Nei vagoni,che furonochiusi dal difuori, c’eradella pagliabagnata dibenzina. Il tre-no si mise inmoto, ma dopoqualche ora diviaggio si sen-tirono dietro dinoi delle grida.Due vagonierano in fiam-me, ma chiusidentro i prigio-nieri non pote-vano salvarsi.Morirono arro-stiti tutti, sal-vo due che conle spalle riu-scirono a sfon-dare la porta.Erano irriconoscibili perle bruciature riportate, ilnaso e le orecchie eranoridotte a metà, il restodel corpo faceva pietà.

Finalmente arrivam-mo in un Campo dismistamento vicino adAlessandria. C’era lasabbia che pareva nera,ma erano pulci. Eravamocosì abbattuti e stanchiche si dormì lo stesso. Almattino il corpo era tut-to pieno di punti rossi,le punture di questi ani-mali. I due che si salva-rono dal fuoco li vidi, for-se un anno dopo, al cam-po di concentramento308, facevano pena soloa guardarli (...).

Sabbia e cielo, cieloe sabbia, questo furonoper quattro anni i cam-pi, e il sole al tramontosembrava tuffarsi nellasabbia. Non potevamoriunirci in più di tre pri-gionieri per parlare tranoi. La fame era tantache Cene, un toscano divent’anni alto quasi duemetri, mi diceva: “Gio-vanni, mangerei anche

un uomo morto di vaio-lo!” Ogni mattina versole nove un carro trainatoda cavalli portava i vive-ri giornalieri per il nostrocampo nel deserto e noicorrevamo al cancelloper vedere che cosa ar-rivava. Spesso eranofave, vecchie e piene dibuchi cioè di vermi, chevenivano mangiati tran-quillamente. (...)

Radio reticolato ci in-formava di quel che suc-cedeva: lo sbarco in Si-cilia, la caduta del Duce,la fuga del Re, lo sbarcodegli Alleati in Norman-dia, la morte di Rommel,che per me era un gran-de soldato, e amava mol-to noi della DivisioneAriete. Ebbi occasione divederlo da vicino, vivevacome un semplice com-battente per dare l’esem-pio, ed è difficile che lodimentichi chi l’ha cono-sciuto. (...)

Per diminuire i morsidella fame mi buttavosopra la coperta arroto-lata, facendola così pre-mere contro lo stomaco,

che diventava così piùlento nella digestione.Per mangiare un po’ dipiù e rompere la mono-tonia della vita in gabbiachiesi anche di lavorare.Facevamo mattoni dicreta mescolati con pa-glia tritata, e dopo sei oredi lavoro ci davano unafetta di pane in più. Unmiglioramento lo trovaiquando mi mandarono aimpastare a mano la fa-rina per il forno. Il lavo-ro era molto pesante,eravamo solo in tre e fa-cevamo il pane che nu-triva quindici mila prigio-nieri, cosicché dopo unasettimana dovetti smet-tere.

In un campo il coman-dante della nostra gab-bia era un soldato ingle-se di nome Tom. Avevaperso l’intera famigliasotto i bombardamentitedeschi di Londra, manon manifestava senti-menti di vendetta versodi noi. Diceva che dopola guerra non sarebbetornato in Inghilterra, masarebbe andato a vivere

Il nemico all’attacco. Durante la fase finale della battaglia soldati di unreparto australiano avanzano protetti da una cortina di fumo.

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in Australia, e mi nomi-nò capo tenda, sicchédovevo distribuire a die-ci prigionieri il pane e ipochi frutti (una fetta dimelone, un po’ di bagìgi)che ci davano. Dovevotagliare fette precise,senza differenze, comese fossi un farmacistache divide una droga pe-ricolosa. Perché con lafame non si ragiona, e di-videre bene due uova indieci parti è molto diffi-cile (...).

Nelle gabbie non c’erapace a causa di alcuniprigionieri che, fascisti efedeli al Duce, si radu-navano per cantare innifascisti. Passavano an-che per le nostre tendecon dei manganelli, e do-vevamo seguirli per can-tare con loro. Gli inglesiallora punivano tutti, la-sciandoci senza pane perdue giorni, o senza siga-rette per una settimana,o senza il tè del matti-no. Ci ribellammo, e finìa bastonate, perché nonvolevamo pagare tutti.Fu verso l’estate del1944 che ci ribellammo,e gli inglesi mandarononelle gabbie la loro ca-valleria. I fascisti spa-ventarono i cavalli bat-tendo con forza legamelle, e allora entrò inazione la mitraglia chesparava a 50 centimetridi altezza. Chi si alzavamoriva, e la rivolta finì.Dopodiché gli inglesichiesero a ognuno: Seifascista? Sei del Sudd’Italia? E a seconda del-la risposta ci divisero intre gruppi, sistemati ingabbie diverse: i fascisti,i meridionali, e i setten-trionali. Per natura noidel nord, salvo qualcheeccezione, siamo calmi.E da quel giorno nellenostre gabbie ci fu pace,e anche i guardiani di-vennero più umani. Dal-le gabbie dei fanatici in-vece ogni giorno uscivaqualche ferito, le grida e

i canti venivano puniti.Chi usciva da quelle gab-bie non ci voleva piùrientrare. (...)

Nel maggio del 1945un certo momento lesentinelle si misero asparare in aria urlando:la guerra era finita: maper molti mesi non ci funessuna speranza di tor-nare in Italia.

Arrivò anche il 1946,la guerra era finita da unanno ma non si parlavaancora di rimpatrio. In-vece correva voce per ilCampo che si potrebbecollaborare con i vincito-ri. Si credeva fosse falsadato che tutto era finito,e perché allora si do-vrebbe collaborare?Aspettiamo paziente-mente e nell’agosto1946 risulta che la voceera vera, dato che un bel

mattino venne alzata unaspeciale tenda e si pre-sentò un uomo vestito daMaggiore dell’EsercitoItaliano che con bellaparlantina disse: “Vi dia-mo una giornata di tem-po per decidere di coo-perare oppure no connoi. Chi non firmerà avràancora lunghi anni da at-tendere. A voi la libertà

di scegliere”.Guardai in faccia

l’amico Savoldi e dissi:“Non darmi consigli,ognuno di noi prenda lasua decisione”. Ricordobene quel giorno. Duran-te la notte camminavo sue giù per il Campo conla testa fra le mani; e conle lagrime agli occhi avròripetuto mille volte:“Scegliere il si o il no?”.Alla fine decisi per il no.

Il mattino ognuno dinoi venne chiamato, inordine alfabetico, allatenda. Il maggiore italia-no ti guardava in facciae chiedeva: “Si o no?”.Gli risposi freddamente:“No”. Rispose con pocheparole: “Ti chiameraipentito della scelta”. Intutte le nostre gabbie cifurono circa tre quarti dino e un quarto di si. Quel-

li del si vennero trasferitidopo la firma in una gab-bia preparata per loro,dove il mangiare era ab-bondante e la disciplinapoca. Per incominciare,andava a loro molto bene.

Dopo pochi giorni daquesta decisione si fecel’adunata di noi che ave-vamo scelto di non col-laborare, e ci venne det-

to: “Da oggi in poi ci sarà- secondo l’ordinealfabetico - il vostro tra-sferimento”. Il cuore co-minciò a palpitare piùdel solito. Che succede-rà di noi? Il mattino se-guente entrarono nellegabbie parecchi soldatiinglesi. Chi veniva chia-mato doveva presentarsicon tutte le sue proprie-tà. Chiamato il mio nomemi presentai con le miecose: un gamellino permangiare, una coperta,giacca e pantaloni, maniente scarpe. Mi lascia-rono gamellino e coper-ta, e mi diedero una ma-glietta, una giacca amezze maniche, un paiodi pantaloni corti, unpaio di calze e uno discarpe. Dopo quattroanni di prigionia a piediscalzi, con le scarpe non

riuscivo a camminare.Fuori dal Campo ci at-

tendeva una colonna dicamion. Quelli che ave-vano firmato per la col-laborazione guardavanoil nostro movimento. Sa-lutai l’amico e pensai:“Dove ci porteranno?”.C’era un silenzio di mor-te; ognuno pensava soloa se stesso, il morale di-

Amba Alagi, Africa Orientale: maggio 1941, il Duca Amedeo d’Aosta si arrende al generale Mayne.

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ventava desolazione. Sicercava di sorridere pernon disperarsi. La colon-na partì, e dopo alcuneore di viaggio arrivammoad una piccola stazioneferroviaria, dove sostavaun treno per noi, cheaveva carrozze normali,non carri bestiame. Daltreno dopo un breve viag-gio verso nord vedemmoil Canale di Suez. Pas-sammo per piccolipaesetti e arrivammo in-fine ad una grande cit-tà. Case non ne vedeva-mo più da quattro anni.Venimmo fatti scenderedal treno. Eravamo con-fusi, non si capiva anco-ra cosa ci stava succe-dendo. Dopo averci in-quadrati ci fecero cam-minare verso il porto,dove erano ancorate di-verse navi, una dellequali portava la bandie-ra italiana. Un nodo for-te cominciò a stringermila gola, mi pareva di sof-focare. Era l’Incrociato-re Montecuccoli, e co-minciarono a scenderedagli occhi lagrime chenon si potevano ferma-re, mentre il cuore vole-va scoppiare dalla gioia.Si ritornava in Italia sulMontecuccoli!

Saliti sulla nave, co-minciammo a respiraremeglio, si andava in Ita-lia dopo quattro annid’attesa in prigionia. Du-rante la traversata delMediterraneo le ossa era-no ammaccate dal ferrodella nave, ma questonon ci pesava. Ricorda-vamo tra di noi, talvolta,le guardie dei Campi, piùo meno buone. Soloquelle greche le male-divamo ancora durante ilviaggio. Dopo qualchegiorno arrivammo a Ta-ranto.

Quelli che avevano fir-mato li trasferirono inPalestina, dove lavoraro-no più di un anno pesan-temente per il futuro Sta-to di Israele. Forse quel-

lo che indossava una di-visa Italiana era uno diloro. Questi prigionieri selo ricorderanno per tuttala vita, con rancore nelcuore.

Sia per loro che pernoi si trattò di una solacarta da giocare: Sì o No.

Taranto fu la prima vi-sione della realtà italia-na. Dopo più d’un annodi pace, le piaghe delporto, della ferrovia, del-la città, erano ben visi-bili. Da Conco mi sepa-ravano ancora più di mil-le chilometri. Dopo duegiorni di riposo ci diede-ro il via, chi andava inSicilia chi nel centro Ita-lia, chi verso il Nord. Itreni erano di vagoni be-stiame, ma questa voltaviaggiavano con la gran-de porta aperta. Lentocome una lumaca il no-stro si mise in moto, fi-schiando ogni tanto aipassaggi a livello, fer-mandosi qualche voltaanche per una-due ore epoi ripartendo lentamen-te. Durante il percorsonon riuscivamo a tratte-nere la curiosità e stava-mo quasi tutti a guarda-re dal treno la nostra po-vera Patria, così mal ri-dotta, un vero cumulo dimacerie. Sentivamospesso proprio l’odoredei calcinacci, che dopole distruzioni rimane alungo nell’aria. Lungo lalinea della costa adriati-ca che ci portava versonord tutto appariva ripa-rato d’emergenza. Arri-vammo dopo più di ungiorno ad Ancona, cheprima della guerra ave-vo vista bellissima, e cheora piangeva le proprierovine. Il traffico ferro-viario era comandato daamericani o inglesi, chefermavano o facevano ri-partire il nostro treno aseconda delle loro esi-genze. Ignoravano cheeravamo stati lontanidalle nostre famiglie piùdi sei anni, e che dopo

ore e ore di attesa per illoro “via” al treno i no-stri nervi oramai eranopronti a cedere, e lapressione del sangue au-mentava oltre misura. Cisi consolava pensandoche almeno eravamo li-beri di respirare e guar-darci attorno, circondatinon più da sabbia e cie-lo assolato ma dai beipanorami che l’Italia -benché devastata dallaguerra - ancora ci offri-va. Era la fine di agostodel 1946, e durante lanotte si soffriva già ilfreddo, bisognava usarel’unica coperta chec’era.

A Bologna la gentesapeva dell’arrivo di unatradotta di prigionieri, ealcune persone di duepartiti (quello democri-stiano e quello comuni-sta) avevano preparato instazione dei tavolini, perdarci pane, formaggio ecaffè. Contemporanea-mente ci illustravano,con grande fervore, l’at-tività dei loro partiti. At-tività di cui non compre-si nulla data la confusio-ne mentale che i prigio-nieri reduci avevano inquei momenti. C’erano inattesa però anche mam-me, spose e bambini,che speravano nell’arrivodei loro cari, e se scen-deva dal treno qualcunodi essi si sentivano gridae pianti di madri e mo-gli, e naturalmente deimariti e figli ritornati.

Una vecchierellas’avvicinò a me e mi do-mandò da dove venivo.Le risposi che venivo dal-l’Egitto. Mi chiese allo-ra: “Hai forse visto miofiglio Antonio? La suaultima lettera veniva dal-la Grecia”. Poi mi disseanche il cognome, chenon ricordo. Guardando-la, col cuore pieno didolore per lei, e non vo-lendo fare svanire le suesperanze, le dissi: “ Nelnostro Campo eravamo

33 mila, ma c’erano an-che altri Campi di prigio-nia con soldati italianimescolati ai tedeschi, eforse suo figlio si troveràin uno di questi. Vi hamai scritto da prigionie-ro?”. Mi rispose di no,aveva ricevuto letteresolo dalla Grecia. Se neandò allora a interrogarealtri prigionieri chieden-do: “Hai visto mio figlioAntonio?”. Anche a lei,come a tante altre ma-dri, resterà nel cuore so-lamente la speranza.L’attesa sarà vana.

Nella disastratastazione di Bologna civollero altre due-tre oredi attesa perché fossepreparata un’altra tradot-ta, diretta questa volta aPadova e Venezia. Cam-minando piano lungo ilbinario con il mio mise-ro sacchetto di corredoarrivai al vagone. C’eraun piccolo specchio e miguardai, e mi sembrò diessere ridotto in condi-zioni così miserabili dasomigliare al Figliol Pro-digo del Vangelo. Ciò cheportavo in dote era peròimportante. Era la vitache ero riuscito, lottan-do ogni giorno, a ripor-tare a casa. E il cuorebatteva più veloce deltreno, né riuscivo a con-trollare i palpiti di nostal-gia per la famiglia e ilpaese natio. Molte do-mande occupavano lamente durante il viaggio.«Come troverò i miei?Troverò Conco distrutto?Quanti paesani sarannomorti in questi anni diguerra?».

Arrivammo a Pado-va verso le due di notte,e dovemmo aspettarefino al mattino per anda-re poi a Vicenza, dovec’era il Distretto Milita-re. Nell’ultimo tratto diviaggio, da Bologna aPadova, sul treno erava-mo rimasti pochi. Adogni paese il treno si fer-mava e si ripetevano le

Page 8: AUTUNNO 1942: EL ALAMEIN - Qattara pezzin_files/elAlamein.pdfvamente a Stalingrado. E in Egitto le divisioni italiane e tedesche di Rommel (la “volpe del deserto”), dopo essere

“Inserto di 4 Ciacole nr. 58” - pag. 8

Quando, dopo l’iniziale ritirata, nel dicembre 1940le forze britanniche passarono alla controffensiva, gliitaliani dovettero abbandonare tutta la Cirenaica.

L’oasi di Giarabub, posta nel deserto libico, in pros-simità del confine egiziano, ad oltre 200 km dal mare,rimase completamente isolata. Il suo presidio, co-mandato dal maggiore Castagna, resistette per oltretre mesi prima di essere sopraffatto dalle preponderantiforze nemiche.

Il leggendario eroismo di quei soldati venne cele-brato da una canzone: “La Sagra di Giarabub” - chequi riportiamo - (musica di Mario Ruccione, parole diDe Torres e Simeoni). Il testo lo abbiamo ricavato daun libricino (Canzoniere del Soldato) che ValerioBordignon ci ha fatto avere nel luglio del 2001.

Inchiodata sul palmetoveglia immobile la luna;a cavallo della dunasta l’antico minareto.Squilli, macchine, bandiere,scoppi sangue… Dimmi tuche succede cammelliere?È la sagra di Giarabub!

“Colonnello non voglio pane:dammi piombo pel mio moschetto:c’è la terra del mio sacchettoche per oggi mi basterà.Colonnello non voglio l’acqua:dammi il fuoco distruggitore:con il sangue di questo cuorela mia sete si spegnerà.Colonnello non voglio il cambio:qui nessuno ritorna indietro:non si cede neppure un metrose la morte non passerà!”

Spunta già l’erba novelladove il sangue scese a rivi…Quei fantasmi in sentinellasono morti, o sono vivi?E chi parla a noi vicino?Cammelliere, non sei tu?In ginocchio pellegrino:son le voci di Giarabub!

“Colonnello non voglio pane:dammi piombo pel mio moschetto:c’è la terra del mio sacchettoche per oggi mi basterà.Colonnello non voglio l’acqua:dammi il fuoco distruggitore:con il sangue di questo cuorela mia sete si spegnerà.Colonnello non voglio encomi:sono morto per la mia terra…Ma la fine dell’Inghilterraincomincia da Giarabub!

UNA CANZONE DELL’EPOCAscene degli incontri pre-cedenti, strilli di gioia epianti e abbracci di spo-se, madri, figli. Era perme difficile aspettare an-cora l’incontro con imiei, ma mi aiutava lacalma, che è dei forti, eil ripensare ai momentitristi di un passato fattodi fame, desolazione, op-pressione. Un passato incui l’unica cosa positiva- anche nei momenti piùterribili - era stata la spe-ranza. Perduta quella, cisarebbe rimasta solo l’at-tesa della morte, unicorimedio di un essereumano ridotto in condi-zioni insopportabili.

Il treno Venezia-Mi-lano arrivò a Padova allesei del mattino, e col mi-sero sacchettino “apendolòn” sulla spalladestra salii i gradini del-l’ultimo vagone di trenonel mio ritorno a casa. AVicenza ci aspettavanoper portarci al Distretto,dove volevano sapere dadove venivi, qual era iltuo grado, il Reggimen-to e la Divisione, in chegiorno eri stato fatto pri-gioniero, e così via. Ci fu-rono molte domande invari Uffici militari primadi sapere che il foglio diCongedo sarebbe statoinviato a casa per posta,prima di poter ottenerequattro soldini con cuipagare il viaggio fino aConco. Ci fecero comun-que fare il bagno e ci die-dero da mangiare. E al-lora chiesi di poter tele-fonare dal Distretto almio paese.

Chiamai il Bepi al-l’Albergo al Cappello, egli dissi che ero il Nanidei Campanari, e che do-veva informare la mia fa-miglia del mio arrivo acasa la sera. Con faticaalla fine rispose: “Nanibenedeto, situ proprioti?”. Mi disse anche cheper arrivare a Conco avreidovuto trovare dei mezzidi fortuna.

Partii da Vicenza ea piedi, attraverso PortaSan Bortolo, presi lastrada per Marostica.Dopo pochi chilometrifermai una macchinadella Croce Rossa, cari-ca di medici dell’Ospe-dale di Bassano, che mifecero molte domandesulla prigionia. AMarostica andai a man-giare all’osteria “Al fan-te”, dove il padrone midisse: “Fiolo caro, la xèscarsa, ma ‘na ciopétade pan te la daremo, in-sieme con un tocatìn deformajo e un goto devin”. Bevuto il vino, a cuinon ero più abituato, latesta cominciò a girare,forse anche perché ilconto mi pareva moltosalato. Ero abituato allelire del 1940, che perònel 1946 valevano infi-nitamente di meno, acausa della forte svalu-tazione bellica.

Dovevo ora aspetta-re la corriera per Asiago,che passò alle cinque delpomeriggio. Fui ricono-sciuto da una vecchiettacompaesana, che ba-ciandomi mi disse che imiei stavano bene. E aCrosara incontrai mia so-rella Teresa a cui mi pre-sentai dicendo: “EccoTeresa che son qua, unsachetelo de ossi”. Allamamma, su a Conco, dis-si invece: “Mama, te goportà a casa el telaro”.Mio padre Bastian deiCampanari e mio fratel-lo Checco piangevano. Sipianse tutti. Accompa-gnati da una vecchia fi-sarmonica i ragazzi delpaese intonarono la can-zone “Mamma son tantofelice - perché ritorno date...”.

Sei anni di naia, dibattaglie nel deserto, dimortificazioni, di fame,di demoralizzazioni, diattesa. E finalmente pas-sai coi piedi el sojale decasa, su in ContràCampanari.